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Il Kumys jacuto: riflessioni sull’autenticità di una bevanda nazionale Lia Zola Il kumys è una bevanda ottenuta dal latte di giumenta non bollito, divenuto acido e leggermente alcolico in seguito a fermentazione. È molto diffuso in Asia Centrale, soprattutto tra popolazioni di lingua turca quali Kazaki, Baškiri, Tatari, Tuvini, Altaici e tra gli Jacuti, che costituiscono il gruppo di lingua turca stanziato più a nord, nella Repubblica di Sacha (Jacuzia), situata nella Siberia orientale. La produzione del kumys è legata all’allevamento di cavalli, che un tempo costituiva, assieme a quello bovino, l’attività principale degli Jacuti insediati nelle zone centrali e meridionali della Repubblica di Sacha. Se tra le popolazioni di lingua turca l’allevamento di cavalli rappresentava un’occupazione abbastanza diffusa, in questa parte di Siberia era praticamente unica. La sedentarizzazione e, di conseguenza, il declino dell’allevamento, ebbe inizio verso la metà del XIX secolo, quando gli Jacuti che risiedevano nelle zone centrali e meridionali furono avviati all’agricoltura dai coloni russi. Prime fonti storiche Le prime descrizioni del kumys si devono, per la maggior parte, a partecipanti alle spedizioni geografiche in Jacuzia: nei loro resoconti la bevanda è strettamente collegata alle celebrazioni estive di Ysyach, cerimonia di propiziazione per l’allevamento e per l’inizio di un nuovo ciclo produttivo, dove si consumava carne in abbondanza e si offriva il kumys agli spiriti. Nelle testimonianze del fabbro olandese Ides, che tra il 1692 e il 1695 percorse la Siberia, Ysyach jacuto era celebrato con aspersioni di kumys e con fuochi rituali che rimanevano accesi per l’intera durata dei festeggiamenti (Ides, Brand, 1967: 278). Qualche decennio più tardi lo svedese Strahlenberg, che prese parte alla spedizione di Messershmidt in Jacuzia, rilevò che Ysyach veniva svolto a partire dal mese di aprile da alcuni clan: si sacrificavano tori e cavalli e si aspergeva il kumys in grandi quantità; effettivamente la radice del termine Ysyach, ys, in jacuto significa aspergere (Strahlenberg, 1730). I primi etnografi attivi sul territorio jacuto furono per la maggior parte esuli russi o polacchi: a partire dal XIX secolo si interessarono agli usi e costumi degli Jacuti, fornendo descrizioni più dettagliate delle celebrazioni e, di conseguenza, dell’utilizzo del kumys. Uno di essi, Chudjakov, riportò che l’organizzazione di Ysyach, all’inizio del XIX secolo, spettava al capofamiglia che, per l’occasione, invitava alcuni sciamani. La loro presenza sanciva il prestigio sociale degli organizzatori e, se vi era un solo sciamano, si pensava che non fosse neanche il caso di organizzare la festa: più sciamani erano presenti, maggiore sarebbe stato il numero di spiriti invocati, a cominciare da quello della vegetazione e del fuoco sacro (Chudjakov, 2002: 21). Il capofamiglia era anche incaricato di preparare il kumys e il burro: il primo era ottenuto principalmente dal latte di una giumenta che aveva figliato per la prima volta, il secondo da latte vaccino. Per la cerimonia gli sciamani indossavano pellicce bianche di puledro e copricapo bianchi, cuciti con la pelle delle zampe di un puledro e aspergevano il kumys con un cucchiaio piatto dentellato, chiamato chamyjach. Verso la fine del XIX secolo, anche i capofamiglia o gli uomini più anziani e rispettati del villaggio potevano celebrare Ysyach e aspergere il kumys (Chudjakov, 2002: 33). L’impiego rituale della bevanda è inoltre testimoniato dalla produzione epica jacuta, gli Oloncho: si tratta di narrazioni che descrivono le prime celebrazioni di Ysyach da parte degli antenati mitici delle principali tribù e clan jacuti, in occasione di vittorie in guerra e matrimoni tra gli eroi principali. 220

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Il Kumys jacuto: riflessioni sull’autenticità di una bevanda nazionale

Lia Zola

Il kumys è una bevanda ottenuta dal latte di giumenta non bollito, divenuto acido e leggermente alcolico in seguito a fermentazione. È molto diffuso in Asia Centrale, soprattutto tra popolazioni di lingua turca quali Kazaki, Baškiri, Tatari, Tuvini, Altaici e tra gli Jacuti, che costituiscono il gruppo di lingua turca stanziato più a nord, nella Repubblica di Sacha (Jacuzia), situata nella Siberia orientale. La produzione del kumys è legata all’allevamento di cavalli, che un tempo costituiva, assieme a quello bovino, l’attività principale degli Jacuti insediati nelle zone centrali e meridionali della Repubblica di Sacha. Se tra le popolazioni di lingua turca l’allevamento di cavalli rappresentava un’occupazione abbastanza diffusa, in questa parte di Siberia era praticamente unica. La sedentarizzazione e, di conseguenza, il declino dell’allevamento, ebbe inizio verso la metà del XIX secolo, quando gli Jacuti che risiedevano nelle zone centrali e meridionali furono avviati all’agricoltura dai coloni russi. Prime fonti storiche Le prime descrizioni del kumys si devono, per la maggior parte, a partecipanti alle spedizioni geografiche in Jacuzia: nei loro resoconti la bevanda è strettamente collegata alle celebrazioni estive di Ysyach, cerimonia di propiziazione per l’allevamento e per l’inizio di un nuovo ciclo produttivo, dove si consumava carne in abbondanza e si offriva il kumys agli spiriti. Nelle testimonianze del fabbro olandese Ides, che tra il 1692 e il 1695 percorse la Siberia, Ysyach jacuto era celebrato con aspersioni di kumys e con fuochi rituali che rimanevano accesi per l’intera durata dei festeggiamenti (Ides, Brand, 1967: 278). Qualche decennio più tardi lo svedese Strahlenberg, che prese parte alla spedizione di Messershmidt in Jacuzia, rilevò che Ysyach veniva svolto a partire dal mese di aprile da alcuni clan: si sacrificavano tori e cavalli e si aspergeva il kumys in grandi quantità; effettivamente la radice del termine Ysyach, ys, in jacuto significa aspergere (Strahlenberg, 1730). I primi etnografi attivi sul territorio jacuto furono per la maggior parte esuli russi o polacchi: a partire dal XIX secolo si interessarono agli usi e costumi degli Jacuti, fornendo descrizioni più dettagliate delle celebrazioni e, di conseguenza, dell’utilizzo del kumys. Uno di essi, Chudjakov, riportò che l’organizzazione di Ysyach, all’inizio del XIX secolo, spettava al capofamiglia che, per l’occasione, invitava alcuni sciamani. La loro presenza sanciva il prestigio sociale degli organizzatori e, se vi era un solo sciamano, si pensava che non fosse neanche il caso di organizzare la festa: più sciamani erano presenti, maggiore sarebbe stato il numero di spiriti invocati, a cominciare da quello della vegetazione e del fuoco sacro (Chudjakov, 2002: 21). Il capofamiglia era anche incaricato di preparare il kumys e il burro: il primo era ottenuto principalmente dal latte di una giumenta che aveva figliato per la prima volta, il secondo da latte vaccino. Per la cerimonia gli sciamani indossavano pellicce bianche di puledro e copricapo bianchi, cuciti con la pelle delle zampe di un puledro e aspergevano il kumys con un cucchiaio piatto dentellato, chiamato chamyjach. Verso la fine del XIX secolo, anche i capofamiglia o gli uomini più anziani e rispettati del villaggio potevano celebrare Ysyach e aspergere il kumys (Chudjakov, 2002: 33). L’impiego rituale della bevanda è inoltre testimoniato dalla produzione epica jacuta, gli Oloncho: si tratta di narrazioni che descrivono le prime celebrazioni di Ysyach da parte degli antenati mitici delle principali tribù e clan jacuti, in occasione di vittorie in guerra e matrimoni tra gli eroi principali.

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In uno degli Oloncho più noti, N’jurgun Bootur Stremitel’nyj (Il Cavaliere N’jurgun l’Irruente), sono gli allevatori di bestiame Sacha Saaryn Tojon e Sabyja Baaj Chotun, insieme al cavaliere N’jurgun, a celebrare il primo Ysyach per festeggiare le divinità protettrici, offrendo loro kumys e burro, versati con un cucchiaio decorato da crini di cavallo (Ergis, 1947). Il kumys aveva infine un impiego quotidiano: a tal proposito l’etnografo polacco Sierozewski (il cui nome fu successivamente russificato in Seroševskij), verso la fine del XIX secolo ebbe così a scrivere sulla dieta degli Jacuti:

All’epoca in cui la principale ricchezza degli Jacuti era rappresentata dall’allevamento di cavalli, i cibi più consumati erano il latte di giumenta e la carne di giumenta. Il latte di giumenta è povero di grassi ma ricco di zuccheri, perciò viene consumato sia crudo sia in forma di kumys. A parte il kumys e la vodka araki,1 con il latte di giumenta fino ad ora non si è ancora riusciti ad ottenere nessun altro prodotto alimentare (1896: 297).

Quando l’agricoltura divenne l’occupazione principale degli Jacuti, il kumys veniva consumato soprattutto durante il lavoro nei campi; si riteneva infatti che avesse la proprietà di calmare la sete, di rimettere in forze e attivare la circolazione del sangue (Ammosova, 1983). Evoluzione nell’impiego e nella preparazione Il kumys, nell’arco del XIX secolo, veniva preparato lasciando il latte di giumenta appena munto in un luogo nascosto fino a raggiungere una determinata temperatura, dopodichè era versato nel simir, un sacco affumicato in pelle di cavallo e cucito internamente con del carniccio.2 Il sacco, di forma piramidale, veniva stretto da una corda in cuoio e chiuso da una graffa di legno. Al latte era aggiunto il lievito, un composto formato principalmente dai resti di kumys vecchio oppure dai depositi di kumys dell’anno precedente, conservati e appositamente fatti essiccare. Il lievito veniva disciolto aggiungendo una piccola dose di latte fresco di giumenta, il latticello, e un tendine della zampa di un cavallo. Gli Jacuti, per la preparazione del lievito, ritenevano che il latte di una giumenta che aveva figliato per la prima volta fosse il migliore; queste giumente, infatti, producevano poco latte, ma molto denso, che favoriva la fermentazione. In alcuni casi, sempre per accelerare la fermentazione, al lievito era aggiunto un pezzo di mammella di giumenta, tagliato a pezzi. Per quanto riguarda l’aggiunta del tendine di una zampa posteriore del cavallo, pare che la pratica fosse diffusa quasi ovunque. Prima di venire aggiunto al lievito o direttamente al kumys, il tendine veniva lavorato e appiattito con una sorta di mazzuolo in legno, in modo da ricavarne solo le fibre. Dopo essere state a lungo a bagno nel kumys, le fibre gonfiavano, formando un tutt’uno con i grani del lievito. Alla fine della stagione estiva ciò che rimaneva del tendine veniva tolto dal recipiente, lavato, fatto essiccare e conservato fino alla stagione successiva. Anche sull’Altaj e tra i Kirgizy, dove si consumava il kumys, al deposito di latte era aggiunto un tendine bollito ed essiccato di cavallo o di qualche altro animale domestico (Ammosova, 1983: 3). In casi più rari, per favorire la fermentazione, al lievito erano aggiunti radici di betulla, luppolo, rosa selvatica. Il composto era quindi rimestato con il mutuk, una zangola utilizzata anche per il burro e per montare la panna acida (smetana). Il rimestare ripetuto del contenuto facilitava il processo di trasformazione dello zucchero in anidride carbonica, rendendo il latte lievemente alcolico. A questo composto erano successivamente aggiunti acqua e latte vaccino; dopo due giorni e mezzo circa, il kumys era pronto. La bevanda pronta era versata in un recipiente in corteccia di betulla e lasciata a riposare ancora un giorno o due in un luogo asciutto, dopodichè veniva messa in una buca nel terreno a raffreddare. I

1 La vodka, detta araki, era ottenuta tramite fermentazione del latte. 2 Il carniccio è l’insieme dei brandelli di carne che restano attaccati alla pelle degli animali scuoiati.

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recipienti in betulla, affinchè non perdessero il liquido, erano spalmati all’interno con grasso e all’esterno sigillati con pece (Ammosova, 1974). Verso la fine del XIX secolo, con il progressivo abbandono della pratica dell’allevamento e l’introduzione dell’agricoltura quale occupazione principale degli Jacuti, anche la produzione del kumys subì una battuta d’arresto. I cavalli vennero impiegati principalmente come mezzo di trasporto e come animali da soma; in questo periodo cominciarono inoltre ad imporsi bevande alcoliche provenienti dalla Russia europea, tra cui la vodka, contro la quale il kumys non riuscì a reggere la concorrenza. Tra il 1917 e il 1919, durante la guerra civile, il kumys era quasi introvabile e, nel ventennio che seguì, la produzione venne pressochè sospesa. Negli anni in cui il kumys era quasi scomparso dall’uso, alcuni studiosi, tra cui Ammosov, avanzarono persino l’ipotesi che la graduale scomparsa del kumys fosse una delle cause delle numerose epidemie che decimarono gli Jacuti (Ammosov, 1927).3 Al kumys erano infatti attribuite molte proprietà curative: non solo era impiegato nella cura della tubercolosi, ma era un valido rimedio anche contro l’anemia, la bronchite cronica, la pleurite, la gastroenterite cronica. A partire dal 1945, quando in alcune fattorie collettive (kolchoz) le celebrazioni di Ysyach furono ripristinate, riprese anche la produzione del kumys a livello collettivo. Secondo le disposizioni dell’Amministrazione della Repubblica, ad ogni kolchoz venne assegnato un numero preciso di giumente per la mungitura. In alcune fattorie le giumente erano munte solo nel breve periodo antecedente le celebrazioni, in altre la mungitura era prolungata e poteva protrarsi fino a due mesi e mezzo. In questo periodo di produttività si distinse il kolchoz chiamato “Stalin” della regione di Njurba che, godendo di attrezzature quali stalle e ricoveri estivi per i cavalli, riuscì ad avere una produzione di kumys continua. Ciononostante, verso il 1960, la produzione attraversò una nuova fase di crisi, anche se non si scese più ai livelli di trent’anni prima. Benché le celebrazioni di Ysyach avvenissero pressoché ovunque, il latte di giumenta era consumato sempre più raramente; inoltre, al posto della lavorazione tradizionale, il kumys cominciò ad essere prodotto con latte pastorizzato scremato, molto diverso dal punto di vista delle sostanze nutritive che lo compongono rispetto a quello ottenuto con la lavorazione tradizionale. Il problema più rilevante era però rappresentato dalla carenza di manodopera. I mungitori, essenzialmente uomini, nella stagione estiva erano impiegati a tempo pieno nei lavori agricoli e non riuscivano a reggere i ritmi delle mungiture e dell’allevamento (Ammosova, 1983). Dal 1980 circa subentrarono le ultime, sostanziali modifiche alla produzione: botti di quercia sostituirono definitivamente il sacco in pelle (simir), in cui il kumys era lasciato fermentare; al latte di giumenta vennero aggiunti altri ingredienti, quali panna, crosta di pane, frumento pestato, burro in grani e una soluzione acquosa di lievito di pane (Ammosova, 1983). Nel decennio successivo il kumys subì un processo di riabilitazione nella società jacuta, fino a diventare, in tempi recenti, una bevanda fortemente connotata in quanto elemento “tipico” e distintivo della cultura jacuta: la stessa ricerca di autenticità, come si vedrà in seguito, abbraccia altri aspetti della cultura tradizionale recentemente recuperati. Al giorno d’oggi il kumys è prodotto industrialmente e si può acquistare in alcuni negozi che vendono generi alimentari; nella maggior parte dei casi è venduto fresco e può essere lasciato stagionare: mentre il kumys consumato fresco ha il gusto di uno yogurt magro ed è leggermente frizzante, quello stagionato ha colore giallastro e un gusto decisamente più forte, con punte decise di acidità; proprio per mitigarne l’acidità spesso viene servito accompagnato ad uva passa.

3 A partire dagli ultimi decenni del XIX secolo, molti gruppi etnici presenti sul territorio jacuto subirono una drastica riduzione numerica, le cui cause sono in parte attribuibili all’assimilazione dei gruppi nomadi, quali Eveny, Evenki, Jukagiry e Čukči a gruppi già stanziali come gli Jacuti, in parte allo sterminio perpetrato da cacciatori e bracconieri russi di animali da pelliccia e della selvaggina, che costituivano risorse vitali per questi gruppi. Una tra le cause principali della loro decimazione, compresa quella degli Jacuti, fu senza dubbio la diffusione di malattie epidemiche sconosciute portate dai Russi, tra le quali il vaiolo, l’influenza e il morbillo (Gogolev, 1970: 36).

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In rari casi si consuma quotidianamente, ciononostante è impiegato in occasioni particolari, come matrimoni, banchetti, presenza di ospiti,4 se ne fa inoltre largo uso durante le celebrazioni di Ysyach tra la metà di giugno e la fine di luglio. In una delle ultime edizioni di Ysyach, il kumys ha svolto un ruolo di primo piano: le celebrazioni si sono svolte in uno spazio circolare, delimitato da cartelloni che riproducevano la bandiera jacuta e recipienti per il kumys, in legno di betulla; la cerimonia di apertura è stata caratterizzata dall’accensione del braciere rituale e dall’aspersione di quest’ultimo con la bevanda, accompagnata da un’invocazione diretta allo spirito del fuoco da parte di un personaggio che impersonava uno sciamano. In un secondo rituale, dedicato alla divinità Dgèsègèj, protettore del bestiame, il kumys è stato offerto a tutti i partecipanti da giovani ragazzi che indossavano il costume tradizionale e che portavano sulle spalle grossi sacchi in pelle contenenti la bevanda. La distribuzione è stata preceduta da un’invocazione alla divinità protettrice del bestiame, accompagnata da una danza eseguita da decine di giovani in costume tradizionale, recanti in mano un piccolo contenitore colmo di kumys. Qualche riflessione conclusiva Cercando di comprendere come l’evoluzione e il cambiamento nell’impiego di una bevanda come il kumys possano essere inseriti in un discorso più ampio sull’alimentazione e sulle sue implicazioni, ritengo opportuno prendere in considerazione alcuni approcci teorici. Nell’analisi di Douglas il significato del cibo non viene ristretto alla sola valenza nutrizionale, ma, al contrario, è strettamente legato ad un’insieme di relazioni sociali che prendono in considerazione il potere, le dinamiche di inclusione ed esclusione, le classificazioni di ciò che è commestibile e non, il cibo e il non cibo, ma anche il corpo e la salute (Douglas, 1985). Analogamente Caplan pone in rilievo che, se si vuole dare senso al cibo, è necessario non solo limitarsi alla comprensione dei contesti sociali, storici e culturali, ma anche dei diversi strati di conoscenza che portano con sè gli individui o le cose che hanno a che fare con il cibo: essi infatti hanno un’identità precisa, una storia di vita. Nella sua prospettiva, quindi, è necessario anche considerare chi consuma il cibo, sia in qualità di agenti, sia come componenti “sociali” che continuano ad usare il cibo per esprimere un’insieme significativo di relazioni (Caplan, 1997). Nel suo lavoro sullo zucchero e su come, grazie a questo prodotto, sono cambiate le abitudini alimentari in Occidente negli ultimi secoli, Mintz evidenzia l’importanza del cibo come metafora dei rapporti sociali; al contempo invita a prendere in considerazione una prospettiva storica per una migliore comprensione di come possano mutare sia le abitudini sia le relazioni sociali legate ad un prodotto particolare (Mintz, 1984; Mintz, Du Bois, 2002). Conformemente a quanto affermato dagli autori sopraccitati, e a quanto detto precedentemente riguardo la sua evoluzione, il kumys si fa veicolo ed espressione dei rapporti sociali: attraverso una tipologia particolare di cibo, infatti, l’individuo costruisce l’ambiente in cui vive, scambia messaggi con altri individui, stabilisce rapporti. Per mezzo di questi scambi comunicativi, oltre che materiali, significati e valori vengono confermati, messi in discussione o abbandonati e sostituiti con altri. Vi è ancora un’ultima considerazione da fare: se, da un lato, il kumys riflette più ampie relazioni sociali, dall’altro, al pari di altre espressioni della cultura materiale e immateriale, quali le celebrazioni di Ysyach o il rinnovato interesse verso il recupero di una dimensione spirituale tradizionale, esso si colloca in un più vasto e composito processo di risveglio di un sentimento di unicità e di appartenenza nazionale che sta interessando il territorio jacuto da quindici anni circa, che mostra una notevole pregnanza nel processo di costruzione e ri-definizione identitaria attraverso una riabilitazione di tutto ciò che può definirsi “autenticamente jacuto” e che per molto tempo è stato sopito. 4 Il kumys ha subito una riabilitazione anche dal punto di vista medico: nella legge 465-II del 17/10/2002 sulla produzione del kumys, la Repubblica di Sacha si impegna a finanziare la somministrazione di una certa quantità di kumys negli ospedali jacuti nella profilassi della tubercolosi e nel recupero dell’organismo nel periodo post-operatorio (Štyrov, 2002).

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Il riferirsi a tradizioni culturali, come sostengono Melucci e Diani, è prezioso al fine di creare nuovi sistemi simbolici nei quali codici e linguaggi del passato vengono utilizzati per esprimere bisogni e conflitti propri delle società complesse: la necessità di trovare un’identificazione autonoma, sottratta al controllo e alla standardizzazione della cultura dominante, trova un fertile terreno di crescita nelle culture etniche (1992: 180); tribù, casta, gruppo linguistico, hanno tutti dei tratti che ne fanno un’identità etnica primaria, potenzialmente adeguata per un riferimento di gruppo (Barth, 1969: 33). Smith parla di “comunità di cultura” nei termini in cui un gruppo etnico cerca di distinguersi dai propri governanti, basandosi su differenze culturali e sul senso di specificità culturale. In base a questa individualità culturale, reale o presunta che sia, vengono rivendicati legami culturali e una solidarietà comunitaria (Smith, 1984: 34). Appadurai e Callari Galli affermano a questo proposito che da qualche tempo assistiamo ad un totale sovvertimento del rapporto tra gli spazi territoriali e gli spazi sociali, che sembra aver spazzato via la convinzione che i linguaggi, le pratiche culturali, le relazioni sociali, le espressioni simboliche, i manufatti siano radicati, come origini e come successive modificazioni, a luoghi geograficamente identificabili. Si assiste oggi, nella società, e in particolare nelle aree urbane, ad una stratificazione identitaria che neanche in piccola parte può essere ricondotta al modello lineare della tradizionale dialettica tra identità e alterità nel quale si ipotizzava l’esistenza di definizioni, localizzazioni, caratteri distinti, specificità e peculiarità. I confini, tutti i confini, sembrano spostarsi continuamente senza alcuna linearità; i processi della globalizzazione a livello economico sembrano tendere verso la loro eliminazione, ma poi essi vengono riproposti per fermare i flussi migratori, per qualificarli e regolarli; a volte poi divengono barriere per frenare connessioni eversive o rivoluzionarie o malavitose (Appadurai, 2001; Callari Galli, 2004: 22). Nella contemporaneità i processi e i prodotti culturali si svincolano dalla loro aderenza ad un determinato spazio, perdono le connotazioni territoriali, diventano mobili, a volte volatili, per iscriversi sempre e comunque in un particolare luogo. In questo senso appare ancora rilevante parlare di deterritorializzazione, ma ancora più opportuno appare il concetto di ri-territorializzazione nell’elaborazione di Inda e Rosaldo, che affermano: «La radice della parola limita l’azione del prefisso, così che mentre il “de” strappa la cultura dal luogo, la “territorializzazione” è presente in un modo o nell’altro per riportarcela. Così nessun processo di deterritorializzazione ha luogo senza qualche forma di riterritorializzazione» (Inda, Rosaldo, 2002: 12). RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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ABSTRACT

Il presente intervento si pone l’obiettivo di illustrare l’uso e l’evoluzione del kumys, ottenuto da latte di giumenta fermentato, divenuto bevanda nazionale dopo il crollo del regime sovietico. Partendo dai primi resoconti etnografici che ne documentano l’impiego, è tracciata l’evoluzione del kumys ponendo l’accento sulla sua recente riabilitazione in quanto “prodotto autenticamente jacuto”. Il concetto di autenticità in realtà abbraccia molte altre espressioni della cultura materiale e immateriale e si colloca in un più vasto e composito processo di rnascita di un sentimento di appartenenza nazionale che sta interessando il territorio jacuto da quindici anni circa, che mostra una notevole pregnanza nel processo di costruzione e ri-definizione identitaria.

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