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IL DISTURBO POST-TRAUMATICO DA STRESS Teresa Cosentino, Carlo Buonanno, Andrea Gragnani e Claudia Perdighe Carla, una donna sposata di 48 anni, presenta da circa sette mesi forti stati d’ansia e di intensa paura precipitati, di recente, in un attacco di panico; durante la maggior parte delle ore di veglia è assorbita in immagini intrusive e continui pensieri relativi all’evento traumatico. Ha una visione molto negativa del futuro che la porta a ritenere che la vita non valga la pena di essere vissuta e lamenta difficoltà a trattenere le lacrime per la maggior parte del giorno. Anche nell’aspetto si intravedono segnali del suo stato depressivo: è molto magra, curata dal punto di vista dell’igiene, ma poco curata dal punto di vista estetico; nei discorsi è coerente, ma perde facilmente il filo del ragionamento. Racconta che questi sintomi sono comparsi in seguito ad un’aggressione fisica di cui è stata vittima. Carla, assieme al marito, frequentava da circa dieci anni un gruppo di teatro che, negli anni, è diventato il centro della sua vita sociale; 7 mesi fa, mentre si trovava alle prove, sentì il maestro parlar male di lei con il marito ed altri presenti; lei allora si avvicinò al gruppo e cercò di far allontanare il marito, ma il maestro la percosse sul cranio e, caduta a terra, continuò a darle calci nonostante i suoi pianti fino a quando lei lamentò un forte dolore ad un occhio. Ricorda che, in quel momento, la sua paura venne amplificata dalla consapevolezza di aver smarrito gli occhiali, fatto che la fece sentire ancora più incapace di difendersi ed in balia degli altri. Il marito e gli altri presenti non intervennero neanche davanti alle richieste di aiuto di lei “erano pietrificati”. Racconta che riuscì a fuggire e trovare rifugio presso un locale vicino dove venne medicata ed assistita da persone praticamente sconosciute che la accolsero per la notte e la accompagnarono a casa il giorno seguente. L’evento è vissuto da Carla come una minaccia ancora incombente: sperimenta forti stati di ansia e paura attivati in parte da stimoli esterni che le ricordano l’aggressione e, più frequentemente, da immagini intrusive e pensieri relativi al trauma. Cosa mantiene la sofferenza di Carla a distanza di mesi dall’evento? Quali fattori ostacolano la risoluzione positiva dell’esperienza traumatica? L’elaborazione dell’evento sembra essere complicata da almeno tre ordini di problemi: depressione conseguente alla forte autocritica ed alla scarsa legittimazione delle proprie reazioni (ad esempio considera anormale piangere) ed emozioni, in particolare nei confronti della propria rabbia “non è da persone equilibrate, come speravo di essere diventata”, e degli scopi attivi, ad esempio sentendosi una persona cattiva nel constatare il proprio desiderio di vendetta;

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IL DISTURBO POST-TRAUMATICO DA STRESS

Teresa Cosentino, Carlo Buonanno, Andrea Gragnani e Claudia Perdighe

Carla, una donna sposata di 48 anni, presenta da circa sette mesi forti stati d’ansia e di intensa paura

precipitati, di recente, in un attacco di panico; durante la maggior parte delle ore di veglia è

assorbita in immagini intrusive e continui pensieri relativi all’evento traumatico. Ha una visione

molto negativa del futuro che la porta a ritenere che la vita non valga la pena di essere vissuta e

lamenta difficoltà a trattenere le lacrime per la maggior parte del giorno.

Anche nell’aspetto si intravedono segnali del suo stato depressivo: è molto magra, curata dal punto

di vista dell’igiene, ma poco curata dal punto di vista estetico; nei discorsi è coerente, ma perde

facilmente il filo del ragionamento.

Racconta che questi sintomi sono comparsi in seguito ad un’aggressione fisica di cui è stata vittima.

Carla, assieme al marito, frequentava da circa dieci anni un gruppo di teatro che, negli anni, è

diventato il centro della sua vita sociale; 7 mesi fa, mentre si trovava alle prove, sentì il maestro

parlar male di lei con il marito ed altri presenti; lei allora si avvicinò al gruppo e cercò di far

allontanare il marito, ma il maestro la percosse sul cranio e, caduta a terra, continuò a darle calci

nonostante i suoi pianti fino a quando lei lamentò un forte dolore ad un occhio. Ricorda che, in quel

momento, la sua paura venne amplificata dalla consapevolezza di aver smarrito gli occhiali, fatto

che la fece sentire ancora più incapace di difendersi ed in balia degli altri. Il marito e gli altri

presenti non intervennero neanche davanti alle richieste di aiuto di lei “erano pietrificati”. Racconta

che riuscì a fuggire e trovare rifugio presso un locale vicino dove venne medicata ed assistita da

persone praticamente sconosciute che la accolsero per la notte e la accompagnarono a casa il giorno

seguente.

L’evento è vissuto da Carla come una minaccia ancora incombente: sperimenta forti stati di ansia e

paura attivati in parte da stimoli esterni che le ricordano l’aggressione e, più frequentemente, da

immagini intrusive e pensieri relativi al trauma.

Cosa mantiene la sofferenza di Carla a distanza di mesi dall’evento? Quali fattori ostacolano la

risoluzione positiva dell’esperienza traumatica?

L’elaborazione dell’evento sembra essere complicata da almeno tre ordini di problemi:

• depressione conseguente alla forte autocritica ed alla scarsa legittimazione delle proprie

reazioni (ad esempio considera anormale piangere) ed emozioni, in particolare nei confronti

della propria rabbia “non è da persone equilibrate, come speravo di essere diventata”, e

degli scopi attivi, ad esempio sentendosi una persona cattiva nel constatare il proprio

desiderio di vendetta;

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• senso di colpa e vergogna per il fatto di ritenere di avere in qualche modo favorito

l’aggressione con il suo comportamento “anche gli altri lo pensano e mi dicono che in fondo

me la sono cercata! ho incoraggiato il gioco di seduzione del maestro, non lo ho rifiutato

quando si è fatto avanti; ha ragione mio marito ad essere arrabbiato con me!” ;

• sentimenti di perdita “credevo di aver trovato una mia collocazione nel mondo e.. invece ho

perso le cose che più rendevano accettabile la mia vita! Dieci anni di investimento buttati al

vento! Adesso mi ritroverò sola come dieci anni fa, senza il maestro, gli amici, le attività

che riempivano la mia vita! Ho solo un grande vuoto e tanti anni di solitudine davanti!

Niente sarà più come prima e non riuscirò mai a uscirne. Mi aspettano anni tristi con mio

marito, da soli; forse perderò anche lui..”.

Cenni Storici

L’idea che una persona, com’è accaduto a Carla, possa sviluppare problemi psicologici a seguito di

un’esperienza traumatica non è nuova e ve ne è traccia anche in numerose opere letterarie; l’Enrico

IV di Shakespeare, ad esempio, soddisfa la maggior parte dei criteri diagnostici previsti dal DSM

IV per il Disturbo Post-Traumatico da Stress.

Il termine “trauma” in greco antico ed in medicina indica una ferita o una lesione fisica; il suo

primo utilizzo in psicologia è attribuito a William James che definì i traumi psichici come “spine

nello spirito” (Simpson et al. 1989).

La comunità scientifica ha iniziato ad occuparsene all’inizio del secolo scorso con Freud ed altri

psichiatri dell’epoca. Studiando i pazienti affetti da isteria, Pierre Janet (1909) arrivò alla

conclusione che alcuni dei loro comportamenti erano l’effetto delle risposte emotive e

comportamentali ad eventi traumatici passati. Egli riteneva che il fallimento nella regolazione

emotiva legata al trauma passato conducesse a dissociazioni e a reagire con comportamenti

eccessivi ed inefficaci. A suo avviso, le emozioni intense interferiscono con un’appropriata

elaborazione dell’informazione, impedendo l’integrazione dell’esperienza e provocando la

dissociazione di tale ricordo dalla coscienza ordinaria. Le tracce mestiche del trauma resterebbero

imprigionate in idee fisse inconsce, dissociate, che continuano ad intrudere come percezioni

terrificanti e preoccupazioni ossessive. Lo stesso Freud (1896) era dell’idea che la dissociazione

seguita ad eventi traumatici fosse la chiave per comprendere i fenomeni isterici.

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Gli studi e l’interesse della comunità scientifica sull’argomento si intensificarono a seguito degli

effetti prodotti da due importanti conflitti: la guerra civile americana e la I guerra mondiale. La

tendenza diffusa negli ambienti medici era però quella di riportare gli effetti osservati nei reduci di

guerra a qualche danno organico causato dalle esplosioni, tanto da descrivere il disturbo con termini

quali “shock da bombardamento” o “nevrosi da guerra”.

Nonostante psichiatri e psicologi civili e militari da lungo tempo, dunque, riconoscessero i

potenziali effetti negativi causati da traumi estremi, bisognerà attendere il 1980 per vedere la

comparsa di una specifica categoria diagnostica nella III versione del DSM. Nel decennio

precedente numerosi psichiatri avevano osservato che la maggior parte dei reduci del Vietnam

riportavano effetti dell’esposizione al conflitto, proponendo perciò una specifica categoria

diagnostica denominata “sindrome post-vietnam”. Data la riluttanza dei responsabili della riedizione

del DSM a coniare una entità diagnostica in relazione ad uno specifico evento altamente

politicizzato e notando, via via, la similitudine con i sintomi indotti da altri gravi traumi come

rapimenti o disastri naturali, non descrivibili secondo i criteri diagnostici esistenti, si è finalmente

arrivati alla classificazione della sindrome con il nome di “disturbo post-traumatico da stress”.

Concettualmente il disturbo, nella prima formulazione del DSM, è rappresentato come una catena

causale composta da tre parti: un evento terrificante (trauma), una ferita psicologica o ricordo

traumatico e i sintomi psicologici e comportamentali prodotti da tale ferita ( Baldwin et al. 2005). Il

trauma è concettualizzato come un evento catastrofico che esula dalle esperienze quotidiane, in

grado di produrre una sintomatologia significativa in chiunque vi fosse esposto, come la guerra, le

torture, i rapimenti, l’Olocausto, le esplosioni nucleari, i disastri naturali (terremoti, uragani, ecc.) e

quelli provocati dall’uomo (es. incidenti stradali, aerei, esplosioni, ecc.).

Gli eventi considerati traumatici erano dunque chiaramente distinti da quelli che costituiscono le

normali vicissitudini della vita, come divorzi, fallimenti, disastri finanziari. Tale dicotomizzazione

era basata sull’assunto che la maggior parte delle persone è in grado di affrontare e gestire

efficacemente eventi stressanti ordinari, ma le loro capacità si dimostrano insufficienti quando si

confrontano con eventi traumatici. Inoltre, data la connessione causale tra trauma e ferita

psicologica, si presupponeva che l’individuo dovesse aver vissuto in prima persona l’evento

traumatico.

Da allora, la sindrome ha attratto l’interesse di numerosi clinici e ricercatori, aprendo un dibattito

tuttora in corso che ha portato ad una revisione dei criteri diagnostici nell’ultima versione del DSM,

per cui ora non è più ritenuto necessario che la persona fosse fisicamente presente sul luogo del

trauma.

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Rispetto a ciò che può esser classificato come evento traumatico, l’esperienza clinica ed il

procedere delle indagini hanno, inoltre, evidenziato la presenza di differenze individuali nella

risposta ad un evento. Solo una parte delle persone esposte ad un evento traumatico, infatti,

sviluppa la Sindrome. Ricerche epidemiologiche hanno consentito di stimare che circa il 40% delle

donne ed il 61% dei maschi della popolazione generale ha vissuto un’esperienza traumatica. Non

tutti sviluppano però un Disturbo Post-Traumatico da Stress e, tra coloro che lo sviluppano, il 60%

circa ritorna ai livelli di funzionamento pre-traumatico nel giro di dodici mese (Kessler et al., 1995).

Tale osservazione ha portato a concludere che l’esperienza traumatica non è qualcosa di

completamente oggettivabile, definibile a priori, ma filtrata dai processi cognitivi ed emotivi

individuali che danno ragione delle differenti reazioni osservabili nelle diverse persone.

Risoluzione positiva dei traumi e crescita personale

Oggi c’è sostanziale accordo nel ritenere che i sintomi che seguono un trauma siano probabilmente

adattivi e funzionali al riconoscimento ed evitamento di altre situazioni potenzialmente dannose.

E’, inoltre, esperienza comune la constatazione che per molte persone il dover fronteggiare un

trauma si trasforma in uno stimolo al cambiamento ed in un’occasione di crescita personale.

Nietzsche (1888) è spesso ricordato per l’affermazione provocatoria “tutto ciò che non uccide

fortifica”. Kierkegaard (1843) sosteneva che la disperazione è una precondizione assoluta per

crescere attraverso gli stadi della maturità. Nella filosofia orientale, il carattere Cinese che indica la

crisi è una combinazione di simboli che significano pericolo ed opportunità. Victor Frankl (1963),

fondatore della logoterapia, sosteneva che la sofferenza obbliga le persone a trovare un significato

nella vita e che questa ricerca può trasformare una tragedia in un trionfo.

A tal proposito è emblematica l’affermazione del ciclista Lance Armstrong “il cancro è la miglior

cosa che mi sia mai capitata” che pronunciò dopo esser scampato ad un cancro ai testicoli che lo

costrinse a due operazioni rischiosissime e a durissime sessioni di chemioterapia. A tale evento

seguirono numerosi successi sportivi, tra cui la memorabile vittoria per ben sei volte consecutive

del Tour de France.

Accanto agli studi sul Disturbo Post-Traumatico da Stress, tra gli anni ’80 e ’90 si è diffusa un’area

di ricerca, conosciuta come posttraumatic growth (crescita post-traumatica) o stress-related growth

(crescita conseguente a stress), avente per scopo l’indagine circa gli aspetti positivi conseguenti ad

eventi traumatici, quali diagnosi di gravi malattie, lutto, infarto, incidenti di autoveicoli, abuso

sessuale, disastri. Dalle prime rilevazioni (Tedeschi e Calhoun, 1995) emerge che circa il 50-60% di

sopravvissuti a traumi riporta di averne conseguito qualche tipo di beneficio.

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Di fronte ad eventi traumatici vengono spesso infranti gli schemi di ordine superiore, gli assunti di

base che riguardano il sé, gli scopi, le credenze sul mondo e su come vanno le cose (prevedibilità,

stabilità, sicurezza, benevolenza). Un primo passo nella direzione di una rielaborazione positiva

dell’evento e della crescita è il riconoscimento della perdita di valore e di significato di questi

schemi a seguito del trauma. E’ importante riconoscere, pertanto, che non è l’evento di per sé che

conduce alla crescita, ma il grande sforzo teso a contrastarlo vissuto internamente nel processo di

ruminazione. La ruminazione indica un processo in cui pensieri legati al trauma ed alle sue

conseguenze si ripresentano continuamente e in maniera intrusiva durante le attività quotidiane.

L’aspetto costruttivo della ruminazione include la ricerca di un significato dell’evento e l’attenzione

ai cambiamenti del sé: entrambi fattori legati alla crescita post-traumatica.

Calhoun e collaboratori (2000) hanno sviluppato un modello descrittivo-funzionale del

posttraumatic growth in cui prendono in esame i diversi fattori personali ed ambientali che

influiscono nel processo: valutazione dell’evento, per cui la crescita sembra proporzionale alla sua

valutazione in termini di sfida (Armeli, Gunthert, e Cohen 2001; Cordova et al. 2001; Park et al.,

1996; Park e Fenster 2004); variabili di personalità quali estroversione, coscienziosità,

conformismo, autostima, apertura alle esperienze (Tedeschi and Calhoun 1996), ottimismo (Davis

et al. 1998; Evers et al. 2001) e autoefficacia (Abraido-Lanza et al. 1998) risultano essere associate

ad un maggiore cambiamento in positivo, mentre il nevroticismo influisce negativamente (Evers et

al. 2001); le strategie di coping centrate sul problema, la rielaborazione positiva dell’evento

(Armeli et al. 2001; Widows et al. 2005), il coping attivo (Armeli et al. 2001; Cordova et al. 2001;

Frazier, et al. 2004) e il coping religioso (Armeli et al. 2001; Frazier et al. 2001; Frazier, et al.

2004); il supporto sociale è la risorsa ambientale più citata negli studi sui cambiamenti positivi che

dimostrano un’associazione positiva fra crescita e supporto sociale (O’Leary et al., 1998), in

particolare sembrano determinanti la soddisfazione per il supporto (Park et al., 1996), la qualità del

supporto del partner (Weiss 2004) e la percezione di aiuto nel momento dell’evento (Frazier et al.

2004); cognizioni relative al trauma riguardanti il controllo sull’evento (Frazier et al. 2004), la

ruminazione sull’evento (Calhoun et al. 2000; Manne et al. 2004), l’accettazione dell’evento e

l’attribuzione di senso all’evento (Evers et al. 2001) sono tutte variabili legate al cambiamento

positivo; la religiosità interiore (Park et al., 1996).

Inquadramento diagnostico del Disturbo Post-Traumatico da Stress

Da quanto detto sinora si evince che il Disturbo Post-Traumatico da Stress (DPTS) non è dunque la

normale risposta al trauma, ma un vero e proprio disturbo psichiatrico che, in assenza di remissione

spontanea nell’arco dei primi sei mesi, tende a cronicizzare.

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La persona che ne è affetta è incapace di integrare l’esperienza traumatica con la visione di sé e del

mondo e rimane prigioniera del ricordo dell’orrore passato (Andrews 2003).

Secondo la classificazione del DSM IV-TR (American Psychiatric Association, 2001), il Disturbo

Post-Traumatico da Stress rientra tra i Disturbi d’Ansia e affinché si possa diagnosticare è

necessario che la persona sia stata esposta ad un evento traumatico, ovvero aver vissuto, assistito o

affrontato un evento che ha implicato una grave minaccia alla propria o altrui integrità fisica

(compresa la morte di qualcuno) ed a cui la persona ha reagito con paura intensa, senso d’impotenza

o di orrore. La persona può aver vissuto direttamente l’evento traumatico, essendo ad esempio

vittima di stupro, aggressione fisica, tortura, un incidente automobilistico grave, assassinio di un

familiare o di un amico stretto, una calamità naturale. Altresì può esser venuto a conoscenza di un

evento accaduto ad un familiare o ad un caro amico, come ad esempio grave incidente o lesioni,

morte improvvisa o malattia incurabile. Riguardo ai bambini, gli eventi traumatici includono le

esperienze sessuali inappropriate, lesioni o gravi minacce, l’esser testimone del grave ferimento o

della morte di qualcuno a causa di un attacco, incidente, guerra o disastri.

Un secondo criterio diagnostico riguarda il fatto che l’evento traumatico venga rivissuto

persistentemente in uno, o più, dei seguenti modi: ricordi spiacevoli ricorrenti e intrusivi

dell’evento, che comprendono immagini, pensieri, o percezioni; sogni spiacevoli ricorrenti

dell’evento; agire o sentire come se l’evento traumatico si stesse ripresentando (ciò include

sensazioni di rivivere l’esperienza, illusioni, allucinazioni ed episodi dissociativi di flashback di

durata variabile compresi quelli che si manifestano al risveglio o in stato di intossicazione); disagio

psicologico intenso e/o reattività fisiologica all’esposizione a fattori scatenanti interni o esterni che

simbolizzano o assomigliano per qualche aspetto all’evento traumatico.

Una terza caratteristica del disturbo è l’evitamento persistente degli stimoli associati al trauma (ad

esempio, sforzi per evitare pensieri o sensazioni associate con il trauma; sforzi per evitare luoghi o

persone associate al trauma; incapacità di ricordare il trauma) e attenuazione della reattività

generale (ad esempio, riduzione marcata dell’interesse o della partecipazione ad attività

precedentemente piacevoli; sentimenti di distacco o di estraneità).

Un’ultima caratteristica tipica del disturbo è la presenza di sintomi persistenti di ansia o di

aumentata attivazione fisiologica, che si manifestano ad esempio con difficoltà ad addormentarsi o

a mantenere il sonno (ad esempio a causa di incubi attinenti il trauma); irritabilità; difficoltà a

concentrarsi; ipervigilanza.

Affinché si possa diagnosticare il DPTS i sintomi descritti devono durare da almeno1 mese e

causare alla persona un disagio significativo o una menomazione nel funzionamento sociale,

lavorativo o di altre aree importanti.

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Nel caso in cui la sintomatologia sia presente da meno di tre mesi il disturbo viene classificato come

Acuto, per una durata superiore ai tre mesi, come Cronico; se dovesse, invece, presentarsi una volta

trascorsi almeno sei mesi dal trauma si classifica come ad Esordio Tardivo.

Riguardo alla prevalenza del disturbo nel corso della vita tra la popolazione generale, studi

epidemiologici hanno stimato che si aggira tra l’1% ed il 10% per le donne e il 5% degli uomini

(Helzer et al., 1987; Kessler et al., 1995), variabilità ascrivibile ai metodi di accertamento e

campionamento della popolazione impiegati.

Le persone con DPTS molto spesso soddisfano i criteri per almeno un’altra diagnosi in comorbilità.

La più diffusa sembra essere la Depressione Maggiore, con tassi di frequenza intorno al 46% circa

(Kessler et al., 1995), seguita da altri disturbi d’ansia, in particolare il Disturbo di Panico e la Fobia

Sociale, che colpiscono tra il 20-30% dei soggetti. Molto frequente è, inoltre, la diagnosi di Abuso o

Dipendenza da Sostanze per il 52% degli uomini ed il 28% delle donne con DPTS cronico. Possono

esser presenti anche sintomi somatici tali da soddisfare i criteri per la diagnosi di Disturbo di

Somatizzazione. Altra condizione molto diffusa, pur non trattandosi di una vera e propria diagnosi,

è il frequente senso di colpa provato dai soggetti con DPTS in relazione ai comportamenti messi in

atto per garantirsi la sopravvivenza, al fatto di esser sopravissuto, mentre altri sono morti, e le

reazioni avute successivamente all’evento traumatico. Il DPTS è un disturbo piuttosto pervasivo e

la persona che ne soffre è totalmente assorbita nei ricordi dolorosi dell’evento traumatico o negli

sforzi che compie per evitare di riviverlo. Ha difficoltà nell’esprimere e sperimentare emozioni,

calo del desiderio sessuale, una perdita d’interesse per attività prima piacevoli, tanto da dare

l’impressione di pensare solo a se stesso. Si sente spesso stanco, continuamente minacciato, ha

scoppi d’ira improvvisi ed è costantemente nervoso. Ha sentimenti di vergogna, disperazione e

colpa.

Tutto ciò spesso si ripercuote sulle relazioni interpersonali e lavorative, ostacolando o rendendo

impossibile lo svolgimento di una vita normale. Si potranno osservare ritiro sociale e frequenti

conflitti coniugali fino alla rottura delle relazioni ed al divorzio, dato che le persone significative ed

il partner in tale condizione potrebbero sentirsi trascurate, respinte o poco amate.

Allo stesso modo nell’ambito lavorativo, per effetto del quadro sintomatologico complessivo, si

potranno registrare frequenti discussioni con i colleghi e i superiori e calo nel rendimento tali da

condurre al licenziamento.

Fattori di vulnerabilità

Come mai solo una parte dei soggetti esposti a traumi sviluppa il disturbo? Come spiegare

l’osservazione che in alcuni il disturbo regredisca spontaneamente, mentre in altri si cronicizza?

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Sembra ormai esserci una certa concordanza nel ritenere che la presenza di alcuni fattori individuali

renda più vulnerabili ed esponga con maggiori probabilità al rischio di sviluppare un DPTS a

seguito di un evento traumatico. Yehuda (1999), attraverso una revisione della letteratura esistente,

è giunto a suddividerli in tre grandi categorie a seconda delle fasi in cui si manifestano: pre-trauma,

peri-trauma e post-trauma.

Rispetto ai fattori pre-trauma alcuni dati sembrano indicare che il rischio di DPTS sia maggiore

tra coloro che hanno un basso livello socioeconomico e di istruzione, figure di accudimento affette

da disturbi mentali, una storia familiare di maltrattamenti psicologici o fisici, la precoce separazione

dai genitori (Connor e Butterfield 2003; Carlson 2005); sembra aumentato, inoltre, tra i maschi

sposati, piuttosto che celibi, e tra le femmine più che tra i maschi (Kessler et al., 95; Breslau et al.,

97). Andrews (2003) suggerisce di riferire quest’ultimo dato alla maggiore riluttanza da parte

maschile a riportare i sintomi o richiedere aiuto nonché alla natura del trauma, con le donne più

spesso vittime di violenze perpetrate da conoscenti, esperienze maggiormente in grado di sovvertire

le credenze sul mondo e su sé.

Altri importanti fattori di vulnerabilità sembrano essere la presenza di disturbi mentali precedenti il

trauma, la tendenza alla ansia o alla depressione e una storia di esposizioni ad esperienze

traumatiche (Ronald e Kessler, 2000). Rispetto a quest’ultimo punto, gli studi disponibili in

letteratura sembrano indicare due possibili direzioni negli effetti: traumi pregressi aiutano il

soggetto a sviluppare schemi mentali più flessibili relativi al sé ed al mondo che consentono

maggiore adattamento e la rielaborazione dei traumi futuri in tempi più brevi (Ruch e Leon 1983);

altri studi indicano che i traumi del passato (in particolare abusi fisici e sessuali nell’infanzia)

riducono la capacità di fronteggiarne in futuro, per una sorta di “esaurimento” delle risorse emotive

e cognitive cui attingere e per effetto dell’accresciuta percezione di mancanza di controllo sugli

eventi (Connor e Butterfield 2003; Carlson 2005).

Riguardo ai fattori peri-traumatici (vicini al momento del trauma), tre sono al momento le

dimensioni individuate come determinanti dalle ricerche disponibili (Carlson et al. 2005): evento

percepito come estremamente negativo, per la sua gravità (intensità, natura e durata), per il grado

elevato di minaccia di morte, l’intenso dolore psicologico sperimentato ed esposizione alla

sofferenza altrui; la prevedibilità e la controllabilità dell’evento che rendono più tollerabili gli

elevati livelli di stress emotivo, motivo per cui il personale che opera nei servizi di emergenza

affronta in modo routinario eventi traumatizzanti per il resto della popolazione (Andrews et al.

2003; American Psychiatric Association 2001); l’imminenza del pericolo. Infine, alcuni studi hanno

rilevato che la presenza di dissociazione peri-traumatica è un potente predittore per lo sviluppo di

DPTS (Brunet et al. 2001).

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Infine, anche fattori post-trauma appaiono influenzare il processo di risoluzione del trauma, in

particolare: l’ambiente ed il sostegno sociale in esso disponibile (Ballenger et al. 2004), sia

familiare (parenti, amici, insegnanti, professionisti) che comunitario (servizi sociali, atteggiamento

dei media e della comunità), in quanto contribuiscono a restituire un senso di maggior controllo

sull’evento e riducono la percezione negativa di esso; le abilità di gestione (coping) dello stress.

Riguardo al peso dei fattori post-trauma, alcuni studi hanno evidenziato che i processi che si

verificano durante i primi due mesi seguenti il trauma, piuttosto che le reazioni immediate,

sembrano essere determinanti nel processo di risoluzione della sofferenza post-traumatica (Mellman

et al. 2002).

Teorie di spiegazione del DPTS

Come mai alcune persone continuano a sperimentare un’intensa sintomatologia anche a distanza di

mesi o anni dall’evento traumatico? Cosa ostacola o impedisce il normale processo di risoluzione

dell’esperienza dolorosa?

In ambito cognitivo-comportamentale le principali teorie che tentano di dare risposta a questa

domanda sono la teoria dell’apprendimento, quella dell’information-processing e quella più

strettamente legata alla terapia cognitiva standard.

Sulla scia della teoria bifattoriale di Mowrer (1947), numerosi autori hanno tentato di spiegare il

DPTS riferendosi al condizionamento classico, inteso come processo di apprendimento che si

verifica attraverso associazioni automatiche che la mente stabilisce tra eventi che accadono

contemporaneamente, ed al condizionamento operante, apprendimento basato sugli effetti di

rinforzi e punizioni (Becker et al., 1984; Kilpatrick et al., 1985). La spiegazione fondata sul

condizionamento classico assume che stimoli precedentemente neutri presenti nell’ambiente al

momento del trauma (stimolo incondizionato) vengono associati ad esso (stimoli condizionati),

acquisendo così il potere di provocare un’estrema paura ed un intenso stato di attivazione

fisiologica (risposta condizionata), ossia le stesse risposte del trauma originario (risposte

incondizionate). In altre parole, quando la vittima di un trauma è in uno stato di attivazione

fisiologica elevato, stimoli precedentemente neutri diventano stimoli condizionati ed acquisiscono

la capacità di evocare paura e ansia. Ad esempio, se un individuo viene aggredito in un parco

mentre fa jogging, derubato e picchiato da un uomo con guanti neri e con passamontagna, stimoli

precedentemente neutri quali gli uomini con i guanti o con i passamontagna, i parchi, o il fare

jogging diventeranno condizionati, ossia capaci di scatenare la paura sperimentata nell’aggressione.

Inoltre, ogni volta che la risposta condizionata si verifica in presenza di nuovo stimolo neutro si può

verificare un condizionamento di secondo livello, in cui uno stimolo condizionato funziona da

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stimolo incondizionato in una nuova catena associativa (Keane et al. 1985). Con tali modalità, le

risposte di paura e di ansia possono generalizzarsi a stimoli simili a quelli condizionati.

Tuttavia, il paradigma del condizionamento classico prevede l’estinzione della paura condizionata

se nel corso del tempo l’individuo si espone allo stimolo condizionato in assenza di pericoli,

consentendo il costituirsi di una nuova associazione in cui lo stimolo condizionato non segnala una

situazione di pericolo.

Cosa ostacola o impedisce il normale processo di estinzione nei soggetti con DPTS?

I meccanismi del condizionamento operante ed in particolare le condotte di evitamento

impediscono all’individuo che li adotta di esporsi allo stimolo condizionato, in assenza di pericoli,

per un tempo sufficientemente lungo da consentire l’apprendimento di nuove associazioni e

l’estinzione della paura (Mineka 1979). Meccanismi di rinforzo negativo, ossia l’evitamento

dell’ansia e della paura, giustificano il mantenimento nel tempo delle condotte di evitamento e ne

compensano gli effetti (Connor e Butterfield 2003).

In definitiva, la teoria dell’apprendimento basata sui principi del condizionamento consente di

comprendere l’intenso disagio psicologico e la reattività fisiologica che seguono l’esposizione ad

eventi che simboleggiano o assomigliano per qualche aspetto all’evento traumatico, così come

rende ragione delle condotte di evitamento. Tale paradigma teorico appare tuttavia incapace di

spiegare l’insorgenza spontanea di ricordi, flashback ed incubi attinenti l’evento traumatico, così

come i sintomi di ottundimento. Inoltre, in esso non sembrano avere alcun peso i fattori pre-

traumatici, peri-traumatici e post-traumatici che si è scoperto essere rilevanti nello sviluppo dei

sintomi.

Le teorie cognitive conosciute sotto il nome di teorie dell’elaborazione delle informazioni

(information processing, si sono concentrate sull’evento traumatico in sé piuttosto che sul contesto

sociale o personale. L’idea centrale è che la psicopatologia deriva dalla mancata integrazione delle

informazioni sull’evento nel sistema di memoria dell’individuo.

Lang (1979) ha proposto che gli eventi spaventosi sono rappresentati in memoria all’interno di una

rete associativa, denominata “rete della paura”, che consiste in interconnessioni tra differenti nodi

che rappresentano tre tipi di informazioni proposizionali relative all’evento: sensoriali (suoni, luce,

ecc.); emozioni e risposte; sul significato (es. grado di pericolosità); tali informazioni sono integrate

in un programma di risposta finalizzato alla fuga o all’evitamento del pericolo.

Chemtob e collaboratori (1988), partendo dalla loro esperienza con i veterani del Vietnam, hanno

sviluppato un modello di spiegazione del DPTS denominato “dell’azione cognitiva”. Gli autori

ritengono che le persone con DPTS hanno sviluppato strutture fobigene complesse, costituite da

immagini e ricordi dell’evento traumatico, informazioni riguardanti le emozioni e piani d’azione;

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queste strutture fobigene includono schemi di minaccia perennemente attivi nelle persone con

DPTS e danno ragione della loro tendenza ad interpretare molti eventi come potenzialmente

pericolosi e del rivivere ricordi, emozioni e reazioni fisiologiche associate con l’evento traumatico.

Le teorie sull’Information Processing pur chiarendo l’architettura cognitiva attraverso cui l’evento

traumatico può esser rappresentato e gli effetti sull’attenzione, risultano carenti riguardo al ruolo

svolto da emozioni diverse dalla paura e dalle variabili individuali e sociali.

Una teoria cognitivista del DPTS

Le teorie cognitive più recenti sono incentrate sul ruolo che le valutazioni relative al trauma, e a ciò

che ne è conseguito, hanno nello sviluppo e mantenimento del DPTS (Ehlers e Clark 2000; Foa e

Rothbaum 1998; Resick e Schnicke, 93). Sebbene questi modelli differiscano per alcuni aspetti,

tutti enfatizzano il ruolo che specifici tipi di valutazioni hanno nello sviluppo e mantenimento del

disturbo. Da tali tipi di valutazioni deriverebbe la percezione di minaccia nel futuro imminente che

caratterizza il paziente con DPTS, accompagnata da intensa attivazione fisiologica, intrusioni, ansia

ed altre risposte emotive.

Vogliamo qui provare a sintetizzare gli elementi dei modelli che condividiamo, integrandoli con

aspetti a nostro avviso determinanti per lo sviluppo ed il mantenimento del disturbo.

Tra i fattori che possono ostacolare o impedire il normale processo di risoluzione ed accettazione

dell’esperienza traumatica, portando allo sviluppo e mantenimento del DPTS, sottolineiamo:

• come la persona valuta l’evento traumatico e le sue cause, le sensazioni, le emozioni ed i

comportamenti avuti durante l’evento;

• come la persona giudica ciò che ha fatto seguito al trauma, come emozioni, comportamenti e

scopi attivi, e gli effetti attesi sulla propria vita futura;

• il grado di legittimazione esterna, delle reazioni di altre persone significative (all’evento in

sé ed alle sue reazioni ed emozioni).

Rispetto al primo punto, la persona svilupperà il DPTS con più probabilità se giudica l’evento come

prova del fatto che il mondo è un luogo pericoloso ed imprevedibile e/o ritiene che dimostri la

propria incapacità, incompetenza, mancanza di potere e di essere bisognoso di aiuto (Ehlers e Clark

2000). Al primo tipo di valutazione consegue un costante senso di minaccia esterna “dato che il

mondo è pericoloso ed imprevedibile, mi capiteranno altre cose terribili sulle quali non ho nessun

controllo!” oppure “Non posso fidarmi di nessuno....gridavo e nemmeno mio marito, che è per

ruolo preposto, mi ha aiutata!”; alla seconda tipologia di valutazione seguirà un senso di minaccia

interna “attraggo le disgrazie, altre cose terribili mi capiteranno!” oppure “è una giusta punizione,

me lo sono meritato per la mia cattiveria” o ancora “mi sono comportato come un pazzo…non sono

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in grado di fronteggiare efficacemente gli eventi!”. Le autovalutazioni negative sembrano avere

maggior peso nello sviluppo del DPTS (O’Donnell et al. 2007) poiché aumentano la percezione di

esser esposto a minacce future e dunque l’ansia. Foa e Rothbaum (’98) suggeriscono l’esistenza di

interazioni tra le valutazioni su di sé e sul mondo: una persona che giudica sé come incompetente ed

incapace, data la propria presunta mancanza di poteri, sarà portato a rappresentarsi il mondo come

più pericoloso.

La percezione di un pericolo incombente, poi, porta la persona ad assumere un orientamento

cognitivo nella verifica delle ipotesi di pericolo finalizzato alla prevenzione della minaccia,

diventando più prudente sia sul piano comportamentale che cognitivo, favorendo le ipotesi di

pericolo nelle rappresentazioni della realtà, piuttosto che quelle di sicurezza, e focalizzando le

informazioni congrue con esse che, immancabilmente, lo porteranno alla loro conferma (Mancini,

Gangemi e Johnson-Laird, 2007). A ciò contribuisce il Mood Congruity Effect (Bower, 1981) che

rende disponibile nella mente della persona pensieri e credenze coerenti con l’emozione che

avvalorano ancor di più la minaccia, rendendo più frequente i falsi allarmi ed intense le reazioni

ansiose.

L’orientamento cognitivo di tipo prudenziale sul piano comportamentale, infine, si traduce

nell’adozione di comportamenti protettivi e di evitamento che impediscono alla persona di fare

esperienze in grado di disconfermare le credenze catastrofiche e contribuiscono al loro

rafforzamento, inducendolo a ritenere erroneamente di aver scampato la minaccia per effetto dei

provvedimenti presi.

Riguardo al secondo fattore determinante nello sviluppo e mantenimento del DPTS, ossia la

valutazione delle reazioni avute e delle emozioni (sintomi iniziali) sperimentate dopo il trauma, ad

esempio “piango continuamente, sono triste, irritabile…forse sto impazzendo.. non sarò mai più

come prima!”, riteniamo dirimente il fatto che la persona non le interpreti come parte del normale

processo di recupero, ma come indicatore di un cambiamento definitivo che contrasta con il proprio

sistema di scopi di vita. la forte critica per le proprie reazioni/emozioni, inoltre, ostacola il processo

di analisi, comprensione ed accettazione dell’accaduto. Infatti, se la persona ripensando all’evento,

nel tentativo di rielaborarlo, sperimenta tristezza, paura o senso di colpa e si spaventa o critica per

ciò che sta sentendo tenterà di bloccare tali emozioni, ad esempio distraendosi, impedendo di fatto il

processo di rielaborazione.

E quello che accade a Carla quando si critica aspramente per le proprie emozioni o scopi attivi “Non

dovrei piangere così… la rabbia che provo non è da persone equilibrate, così come il desiderio di

vendetta! Questo dimostra che sono una persona cattiva e che niente sarà più come prima. Ho solo

un grande vuoto e tanti anni di solitudine davanti!”.

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Infine, altro fattore determinante, la valutazione critica delle proprie reazioni ed emozioni è in

alcuni casi sostenuta e rinforzata dalla scarsa legittimazione delle proprie reazioni ed emozioni

proveniente da altri significativi o dall’ambiente sociale più in generale. Carla, ad esempio riferisce

“mio marito mi accusa, mi critica e si arrabbia ogni volta che mi vede soffrire, sostenendo che se

ancora ci soffro o mi arrabbio è perché provo qualcosa per il maestro… altrimenti avrei già

superato tutto!”.

Se ciò accade e la persona critica le proprie emozioni, reazioni e scopi attivi (problema secondario),

anziché riconoscerli ed accettarli come parte del normale processo di risoluzione del trauma,

seguiranno strategie comportamentali e specifici processi cognitivi messi in atto per arginarli che

avranno, di fatto, l’effetto paradossale di esacerbare i sintomi (Mancini 2005), mantenendo ed

aggravando il disturbo. Tra le strategie comportamentali, rientrano i tentativi di sopprimere i

pensieri, o di distrazione, l’evitamento di stimoli e situazioni che ricordano il trauma, l’abuso di

alcol e sostanze, l’abbandono delle normali attività, l’adozione di comportamenti protettivi. Tra i

processi cognitivi la focalizzazione dell’attenzione sui segnali di pericolo, la dissociazione e

l’intensa ruminazione.

La Terapia del DPTS

Sulla base dei processi psicologici descritti ed in considerazionee degli stati mentali che

caratterizzano i soggetti con DPTS, riteniamo che lo scopo del trattamento sia eliminare i fattori di

mantenimento ed i fattori che ostacolano il normale processo di accettazione dell’esperienza

traumatica.

In sintesi, la terapia dovrebbe essere articolata in sei fasi:

1.Analisi ed assessment delle strategie di coping messe in atto per la gestione degli stati

conseguenti al trauma

2. Ricostruzione del profilo interno: quali gli scopi compromessi o minacciati, quali le condotte

protettive e i meccanismi che contribuiscono al mantenimento del disturbo

3. Normalizzazione delle reazioni del paziente ed intervento sul problema secondario

4. Analisi degli eventi e dei fattori che hanno causato il trauma, allo scopo di ridurre l’effetto di

generalizzazione del pericolo

5. Intervento cognitivo sui fattori che ostacolano l’accettazione: rabbia, colpa, interferenze

interpersonali, generalizzazione della minaccia e del senso di vulnerabilità.

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6. Esposizione agli stimoli che evocano il trauma e attivano ansia: Terapia Espositiva, Stress

Inoculation Training, ACT

Lo sviluppo del protocollo appena descritto e l’indicazione per l’utilizzo combinato di diverse

procedure trova riscontro nella letteratura sull’efficacia della Terapia cognitivo-comportamentale

del DPTS.

Gli interventi cognitivo-comportamentali che sono stati valutati con trial clinici che ne hanno

dimostrato l’efficacia spesso prevedono una combinazione di interventi (Salcioglu et al., 2007),

come l’esposizione immaginativa ed in vivo, la ristrutturazione cognitiva e le tecniche per la

gestione dell’ansia come il rilassamento, il coping skill training, lo stop del pensiero (Foa et al.,

2005; Taylor et al., 2003; Ehlers et al., 2003; Lee et al., 2002).

Un considerevole numero di ricerche, tuttavia, ha dimostrato la particolare efficacia delle

procedure di esposizione e di ristrutturazione cognitiva (Salcioglu et al., 2007; Bradeley et al.,

2005; Marks e Dar, 2000), dimostrando come esse rappresentino le componenti principali della

terapia. Le procedure che prevedono interventi di esposizione aiutano il paziente a ridurre la

frequenza delle condotte di evitamento degli stimoli correlati al trauma, incoraggiando il soggetto

ad affrontare pensieri, memorie ed emozioni di paura, laddove le tecniche di ristrutturazione

cognitiva sono finalizzate, invece, allo sviluppo di competenze per la gestione degli stati d’ansia e

per la modifica delle distorsioni cognitive.

Oltre alle tecniche citate, negli ultimi anni sono stati sviluppati trattamenti fondati sull’accettazione

che hanno dimostrato di essere particolarmente efficaci nella riduzione delle condotte di

evitamento, sintomo centrale del DPTDS. Per questa ragione, nei prossimi paragrafi, descriveremo

le Tecniche di Esposizione e lo Stress Inoculation Training ed, infine, proveremo ad evidenziare i

particolari benefici che i pazienti possono avere se sottoposti alla Acceptance Commitment Therapy

(Orsillo e Batten, 2005; Hayes et al., 1999).

Procedure di esposizione

L’Esposizione è un trattamento basato sulla teoria dell’apprendimento e sulla teoria

dell’elaborazione delle informazioni; nel caso del DPTS sono usate le varianti l’esposizione

prolungata e l’esposizione multipla.

Nel caso specifico del DPTS, al paziente viene chiesto di immaginare o confrontarsi direttamente

con gli stimoli o con il ricordo del trauma, omettendo di produrre condotte di evitamento ed

aspettando la risposta di abituazione ed il calo di ansia e di paura.

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L’esposizione prolungata è stata originariamente utilizzata con i veterani di guerra e

successivamente somministrata alle vittime di stupro e alle vittime di crimini violenti (Foa et al.,

1991).

La versione messa a punto da Foa e collaboratori (1991) si articola in 9-12 sessioni, durante le quali

sono previste sia l’esposizione immaginativa, sia un’esposizione progressiva agli stimoli temuti. I

momenti principali della procedura di Foa sono la psicoeducazione relativa al DPTS e la

spiegazione del razionale dell’intervento (sessione 1); la normalizzazione delle reazioni al trauma e

lo sviluppo di una gerarchia di stimoli temuti da utilizzare nelle fasi di esposizione in vivo (sessione

2); la ripetuta esposizione agli stimoli fobigeni durante le sessioni di terapia (sessioni 3-9). Ad

esempio, con una paziente che ha subito uno stupro (Astin e Resick, 1998), la procedura potrebbe

essere implementata chiedendole di chiudere gli occhi e di immaginare e rivivere gli eventi come se

stessero accadendo nel presente. Successivamente, alla paziente viene chiesto di immaginare i

dettagli della circostanza, come odori, sapori, suoni, ecc. ed anche le emozioni o le sensazioni

fisiche sperimentate. La registrazione delle sedute sarà utilizzata dalla paziente nel corso delle

esposizioni condotte sotto forma di homework. Inoltre, tra una seduta e l’altra la paziente avrà il

compito di affrontare in vivo situazioni che non sono pericolose, ma che comunque teme perché in

qualche modo correlate allo stupro.

Ma come funziona l’esposizione e quali sono i processi che si attivano nella mente del paziente che

rendono efficace tale procedura?

Sono numerose le evidenze cliniche che testimoniano come la differenza tra una esposizione

efficace ed una inefficace sia ascrivibile a differenti stati mentali ed in particolar modo ai livelli di

minaccia che il paziente è disposto ad accettare. Una considerazione a sostegno di questa tesi è

riconducibile alla scarsa efficacia che soluzioni e rituali emessi producono nei termini di riduzione

della minaccia percepita (Mancini e Gragnani, 2005).

Mancini e Gragnani (2005) rilevano come “larga parte della psicopatologia consiste nella

percezione di minacce, nelle conseguenze emotive di tali percezioni e nei tentativi di evitare,

prevenire o sottrarsi alla minaccia”. L’impianto della Terapia Cognitiva e le tecniche utilizzate nel

corso della sua somministrazione sono orientate a realizzare una differente percezione della

minaccia, stimolando il paziente a rintracciare esempi di ipotesi di sicurezza e controesempi di

ipotesi di pericolo e a produrre, in definitiva, ipotesi alternative alle abituali e frequenti valutazioni

catastrofiche. Tuttavia, il percorso di realizzazione degli obiettivi fissati sulle basi appena descritte è

con sensibile frequenza ostacolato dalle resistenze del paziente, resistenze che possono comportare

il fallimento della terapia.

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Un percorso alternativo, che tenga conto delle obiezioni e delle difficoltà riscontrate ma che

condivida l’obiettivo di riduzione della percezione della minaccia, dovrebbe essere strategicamente

orientato ad aggirare le resistenze del paziente e, in definitiva, a produrre l’accettazione della

minaccia (Mancini e Barcaccia, 2004). L’accettazione della minaccia si traduce in una riduzione

dell’impegno preventivo e in un incremento della disponibilità ad esporsi a condizioni maggiori di

rischio.

L’accettazione, dunque, si riflette sulla valutazione dei pericoli. L’impegno nella prevenzione di un

pericolo ed il livello di accettazione di una minaccia influenzano sia l’attività pratica, sia il modo in

cui si valuta una minaccia. In particolare, tale influenza investe l’orientamento cognitivo con cui si

controllano le ipotesi di sicurezza e quelle di pericolo. In quest’ottica, sono numerosi gli

esperimenti di psicologia cognitiva (Mancini e Gangemi 2002) che dimostrano come i processi

cognitivi siano influenzati dagli investimenti della persona e che tale influenza tende ad avere tra i

suoi effetti l’aumento della resistenza al cambiamento delle assunzioni che sostengono

l’investimento stesso. In altre parole, se ci si sente minacciati e si investe nella prevenzione della

minaccia, allora si diventa più prudenti, con il risultato che le assunzioni di minaccia ne risultano

confermate. Quel che accade è che l’investimento prudenziale influenza l’attenzione selettiva,

orientandola verso i segnali e le informazioni di pericolo e rendendo tali informazioni più

disponibili. In quest’ultimo caso, sappiamo che in virtù dell’euristica della disponibilità (Mancini,

2002), le informazioni disponibili saranno ritenute anche le più probabili. In più, procedere con un

atteggiamento prudenziale implica una rappresentazione della realtà in cui vengono selettivamente

privilegiate le possibilità di pericolo a discapito di quelle di sicurezza, un’attitudine questa che si

riflette anche sui processi ingenui di controllo delle ipotesi, con conseguente focalizzazione sulle

ipotesi di pericolo e defocalizzazione dalle ipotesi di sicurezza.

In definitiva ed in estrema sintesi, nel DPTS, l’accettazione del trauma implicherebbe un aumento

della consapevolezza dei danni oltre che dei cambiamenti conseguenti al trauma, con una

considerazione del danno non come incombente e probabile. La conseguenza di un simile processo

sarà la rinuncia agli investimenti in direzione della prevenzione del danno, con l’aumento della

disponibilità a sviluppare una visione di sé e del mondo che non dipenda esclusivamente

dall’esperienza traumatica e con una modifica degli investimenti in direzione dei propri scopi.

La terapia di esposizione multipla, a differenza di quella prolungata, consente l’esposizione ai

sintomi d’attivazione fisiologica prima che a quelli cognitivi e comportamentali; questo consente di

prevenire e ridurre la minacciosità delle possibili reazioni fisiologiche del paziente quando, in una

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fase successiva, verrà esposto ai ricordi e agli altri stimoli traumatici (citare QN….). La procedura

prevede l’esposizione del paziente alle tre categorie di stimoli implicate nelle reazioni di paura:

− Esposizione agli stimoli fisiologici: esposizione enterocettiva a stimoli fisiologici, in modo da

indurre sensazioni tipo-panico (es. iperventilando, facendo le scale di corsa);

− Esposizione agli stimoli cognitivi: si chiede al paziente, come compito da svolgere a casa, di

mettere per iscritto l’evento traumatico.

− Esposizione agli stimoli comportamentali: esposizione in vivo agli stimoli condizionati legati

all’evento traumatico.

Stress inoculation training

Lo Stress Inoculation Training (SIT) è una tecnica cognitivo-comportamentale nata sulla base della

teoria dell’apprendimento e sviluppata da Meichenbaum nel 1974. Inizialmente utilizzata per la

gestione dell’ansia, lo SIT fu somministrato successivamente e con successo anche alle vittime di

stupro.

Il protocollo è finalizzato all’acquisizione di capacità di gestione dell’ansia e dello stress e

comprende tre fasi: la concettualizzazione, l’acquisizione di abilità di fronteggiamento,

l’applicazione e il richiamo delle abilità.

Tab.1: Fasi dello Stress Inoculation Training

Concettualizzazione Acquisizione di abilità di

fronteggiamento

Applicazione e richiamo delle

abilità

Informazioni sullo stress Problem solving Prova immaginativa

Ristrutturazione delle idee

errate sullo stress

Tecniche di rilassamento Prova comportamentale, role-

playing, modeling

Strategie cognitive

(ristrutturazione)

Esposizione graduale in vivo

Autoaffermazioni positive Prevenzione delle ricadute

Le prime sessioni sono dedicate alle fasi di natura psicoeducativa, con informazioni relative al

trattamento e allo sviluppo delle risposte di paura, con riferimenti alla teoria dell’apprendimento, e

all’attivazione del sistema nervoso simpatico (Resick e Mechanic, 1995). Il terapeuta, inoltre,

aiuterà il paziente nell’identificazione degli stimoli che elicitano le risposte di paura e, procedendo

nel corso delle sessioni, proverà a facilitare il ricordo di informazioni dettagliate, che tengano conto

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di aspetti corporei (sensazioni fisiche), mentali ( risposte cognitive) e delle azioni compiute

(risposte comportamentali). Inoltre, al paziente saranno spiegate tecniche di rilassamento

progressivo dei muscoli da utilizzare tra una sessione e l’altra come homework, unitamente alla

identificazione degli stimoli fobigeni.

Nel corso della seconda fase del trattamento, i pazienti apprendono tecniche finalizzate alla gestione

delle risposte di paura, come la respirazione diaframmatica, lo stop del pensiero, il dialogo interno

guidato, il role-playing ed il modeling.

Nella terza fase, il paziente impara ad utilizzare le strategie di coping durante quelle situazioni

quotidiane che sono accompagnate da stati d’ansia. Lo stress inoculation si articola in 5 passaggi

(Astin e Resick, 1998):

1. Stima della probabilità che si verifichino eventi spaventosi

2. Gestione delle condotte di evitamento attraverso procedure di stop del pensiero

3. Controllare l’autocritica attraverso il dialogo interno guidato e la ristrutturazione cognitiva

4. Emissione delle condotte temute utilizzando le competenze di problem solving e le abilità

acquisite grazie alle procedure di modeling e role-playing

5. Somministrazione di auto-rinforzi per aver utilizzato le competenze acquisite nelle situazioni

temute

Infine, paziente e terapeuta procedono alla costruzione di una gerarchia di eventi da utilizzare nelle

fasi di esposizione programmata all’esterno del setting.

Acceptance Commitment Therapy

La descrizione che Batten, Orsillo e Walser (2005) fanno del DPTS poggia sul ruolo giocato dalle

condotte di evitamento, il principale sintomo del disturbo. In particolare, i tentativi di evitare

pensieri ed emozioni legati al trauma sono assimilabili al fenomeno dell’evitamento esperienziale

(experiential avoidance), un processo che si caratterizza per l’investimento in strategie tese a

modificare la frequenza di pensieri, emozioni, sensazioni fisiche, memorie e che si realizza per

minimizzare le esperienze di dolore ad esse legate. La riduzione immediata e repentina dello stress

determina il rinforzo negativo dell’evitamento e produce come conseguenza un aumento dei sintomi

(Orsillo e Batten, 2005).

Su questa base, gli autori sostengono che la terapia del DPTS debba avere come scopo da un lato la

riduzione delle condotte di evitamento e la riduzione dell’evitamento esperenziale, dall’altro un

aumento della disponibilità a tollerare e ad accettare gli stati interni tipici degli individui con un

simile disturbo. La soluzione che propongono è una combinazione tra procedure di esposizione,

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mindfulness, terapia comportamentale dialettica e la Acceptance Commitment Therapy ACT

(Segal,Williams, & Teasdale, 2002; Linehan 1993; Hayes et al.,1999).

Gli autori hanno osservato come nel corso della ACT la fase di disperazione creativa (creative

hopelessness) sia particolarmente importante nei pazienti che hanno subito traumi. Tale fase vede il

paziente impegnato a realizzare una lista di pensieri ed emozioni, seguita da una lista che descriva

tutti i tentativi di controllo effettuati per modificarli. Il risultato è, generalmente, un ampio range di

emozioni che va dalla rabbia alla profonda tristezza e che, inizialmente, si traduce nell’esperienza

che il problema sia insormontabile. In questa fase, il paziente tenderà a porre domande e ad

effettuare richieste tese all’individuazione di una soluzione rapida e magica del problema, che può

indurre il terapeuta nell’errore di provare a fornire una risposta che lo rassicuri. La soluzione di un

passaggio così delicato è assegnata ad interventi con cui il terapeuta segnala e riconosce l’urgenza

che accompagna le richieste del paziente, ma che al tempo stesso preveda l’introduzione di elementi

di discussione relativi all’inutilità e alla frustrazione conseguente ai tentativi passati di controllare

emozioni e pensieri negativi. Il focus è sull’opportunità di accettare l’inutilità degli sforzi passati,

acquisendo consapevolezza che un cambiamento reale sia abitualmente un lento e progressivo

processo.

Nel corso della terapia, inoltre, sarà probabile scontrarsi con il ricordo o l’esperienza della bontà,

oltre che della parziale efficacia di alcuni tentativi di controllo, con il rischio di rottura della

relazione a causa di un terapeuta troppo solerte nell’evidenziare i costi pagati conseguenti agli

estenuanti tentativi di controllare. In questo caso, gli interventi dovranno avere come obiettivo un

aumento della consapevolezza del ruolo e dei costi legati al controllo, mostrando come un

miglioramento graduale non sia così pericoloso e che le alternative siano invece auspicabili.

La difficoltà dell’intervento è legata al fatto che nei soggetti con DPTS il controllo delle esperienze

è fenomeno centrale, soprattutto se consideriamo che spesso il trauma si realizza in condizioni di

scarso controllo personale. Una delle conseguenze, in questi casi, potrebbe essere il ricorso a

strategie compensatorie di iper-controllo, strategie di cui è possibile riconoscere l’azione anche

durante i primi incontri. Da questo punto di vista, non stupisce che il paziente possa arrivare in

terapia con l’intenzione di ottimizzare la propria capacità di controllo e chieda esplicitamente al

terapeuta di aiutarlo nell’impresa, insegnandogli come procedere e come migliorare i suoi tentativi.

Le risposte a simili sollecitazioni si articolano in un primo intervento di non delegittimazione del

controllo, avendo come obiettivo l’aumento della disponibilità ad accettare emozioni e pensieri

negativi. In questa fase, è importante che il paziente comprenda la differenza tra provare emozioni

negative che rientrano nelle normali esperienze di vita e l’intenso stress conseguente alla non

accettazione, alla valutazione negativa e ai tentativi falliti di controllare le risposte emotive.

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Inoltre, gli autori fanno notare come, soprattutto con pazienti che hanno avuto esperienze di abuso

sessuale, una delle maggiori difficoltà della terapia sia legata agli stati di rabbia intensa. Il richiamo

alla necessità di accettare pensieri ed emozioni negative, con la contemporanea rinuncia ai tentativi

di controllo, potrebbe essere vissuta dal paziente come un’indicazione che comporta il rischio di

ritrovarsi nella stessa posizione del trauma. In altre parole, l’abbandono dei tentativi di controllo

potrebbe comportare la preoccupazione di ritornare ad essere debole e sottomesso, una condizione

tipica di chi ha subito un trauma di questa natura. La soluzione dell’eventuale empasse è legata ad

un intervento di validazione del desiderio di controllo, con il contemporaneo richiamo ai costi

pagati nei termini di interruzione delle relazioni o di isolamento.

Infine, il ricorso all’utilizzo delle tecniche di esposizione, immaginativa o in vivo, è elemento

fondamentale anche della ACT, anche se i riferimenti concettuali ed il razionale a sostegno della

tecnica differiscono dal tradizionale modo di spiegarne l’efficacia. In questo caso, l’esposizione

ripetuta ai pensieri e alle emozioni legate al trauma non si tradurrebbe in un effetto di abituazione

(Harris, 1943). Secondo gli autori, l’esposizione alle memorie traumatiche e alle emozioni ad esse

associate modificano il contesto in cui tali eventi si realizzano, oltre che la natura della relazione

che il paziente intrattiene con simili esperienze, con un conseguente aumento della flessibilità delle

condotte e dell’abilità a muoversi in direzione dei valori che il paziente associa allo sviluppo e al

mantenimento di una relazione.

Conclusioni

In definitiva, riteniamo che lo scopo del trattamento del DPTS sia eliminare i fattori di

mantenimento ed i fattori che ostacolano il normale processo di accettazione dell’esperienza

traumatica.

In sintesi, la terapia dovrebbe essere articolata in sei fasi: FORSE SAREBBE MEGLIO METTERE

QUESTA PARTE ALL’INIZIO COME SINTESI DELLE STRATEGIE USATE

7. Analisi ed assessment delle strategie di coping messe in atto per la gestione degli stati

conseguenti al trauma

8. Ricostruzione del profilo interno: quali gli scopi compromessi o minacciati, quali le condotte

protettive e i meccanismi che contribuiscono al mantenimento del disturbo

9. Normalizzazione delle reazioni del paziente ed intervento sul problema secondario

10. Analisi degli eventi e dei fattori che hanno causato il trauma, allo scopo di ridurre l’effetto

di generalizzazione del pericolo

11. Intervento cognitivo sui fattori che ostacolano l’accettazione: rabbia, colpa, interferenze

interpersonali, generalizzazione della minaccia e del senso di vulnerabilità.

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12. Esposizione agli stimoli che evocano il trauma e attivano ansia: Terapia Espositiva, Stress

Inoculation Training, ACT

Riferimenti Bibliografici

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