IL DANNO DA LESIONI – criteri di liquidazione · trattazione, riferibili al “bene salute” e...
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Ordine degli Avvocati di Varese 24 giugno 2005
IL DANNO DA LESIONI – criteri di liquidazione
PREMESSA
Il danno da lesioni personali, che costituisce l’oggetto della presente relazione, si
inquadra nel più ampio concetto di “danno alla persona”, espressione questa che
individua, in effetti, una serie di “diritti della persona” correlati o correlabili, in termini
di ingiustizia, ai corrispondenti danni che a questi diritti possono derivare. Si parla,
ad esempio, di danno biologico con riferimento al diritto all’integrità psicofisica,
ovvero di danno esistenziale con riferimento al diritto ad una “felice” ovvero ottimale
esistenza, ed ancora di danno all’immagine con riguardo al diritto alla reputazione.
L’argomento è particolarmente complesso, sotto vari aspetti e per una serie di
ragioni: esigui riferimenti normativi; stratificazione, nel corso del tempo, di
affermazione di principi e superamento degli stessi (nel tentativo di colmare
l’insufficienza delle norme) con interventi sia della Corte Costituzionale che della
Corte di Cassazione; questioni terminologiche che a volte complicano, invece che
semplificare, il lavoro dell’interprete; suggestioni di carattere morale e sociale che
affiorano in questa materia più che in altre nelle quali, allo steso modo, si fa uso del
criterio equitativo di liquidazione del danno.
E’ certamente necessario, per ragioni di chiarezza, prima di entrare nel merito delle
numerose problematiche riguardanti i criteri di liquidazione del danno da lesioni,
precisare alcune questioni terminologiche e metodologiche.
Il danno, in generale, va individuato come raffronto, e quindi differenza, tra due
valori in relazione ad un evento modificativo: depauperamento, cioè, di un bene o di
un’utilità a causa di un fatto estraneo al titolare del bene stesso.
Il risarcimento del danno avviene, generalmente (ed in ipotesi anche nel caso in cui
fosse possibile, ai sensi dell’articolo 2058 del Codice Civile, il risarcimento in forma
specifica) per equivalente in denaro e quindi per “sostituzione” o “integrazione” di
valori: si trasferisce il valore (in denaro) della ricchezza eliminata con l’evento
dannoso dal patrimonio del responsabile del danno al patrimonio del danneggiato.
Tale passaggio riattributivo non può che avere ad oggetto il denaro, che rende
sempre possibile la sostituzione di valori, nel senso che il valore monetario si
sostituisce a quello specificamente leso al fine di realizzare l’effetto riparatorio.
Tale meccanismo di sostituzione, chiaramente ed anzi intuitivamente utilizzabile
nell’ambito dei danni di natura patrimoniale, è l’unico che consente il risarcimento
anche del danno non patrimoniale.
Prendendo in considerazione le lesioni all’integrità psicofisica della persona,
possono riscontrarsi, come conseguenza delle lesioni stesse ed accanto ai
pregiudizi di natura non patrimoniale dei quali si parlerà ampiamente nel prosieguo
della relazione, danni di natura patrimoniale, per i quali occorre fare riferimento
all’articolo 1223 del Codice Civile che individua le due componenti del detto tipo di
danno: la “perdita economica” (altrimenti detta “danno emergente”) ed il “mancato
guadagno” (comunemente indicato come “lucro cessante”). La norma appena
indicata, pur se inserita nel capo riguardante l’inadempimento delle obbligazioni, è
applicabile, oltre al danno di origine contrattuale, anche al danno extracontrattuale
(e quindi anche al danno da lesioni) e ciò sulla base del richiamo, testuale e
specifico, operato dall’articolo 2056 del Codice.
In conseguenza di un fatto lesivo che riguardi l’efficienza psicofisica della persona,
possono ipotizzarsi sia danni di natura patrimoniale (ad esempio per mancato
guadagno a seguito di forzata inattività lavorativa ovvero per spese mediche) sia
danni di natura non patrimoniale e cioè riguardanti pregiudizi non riferibili a beni o
interessi a contenuto patrimoniale e, per quanto riguarda l’oggetto della nostra
trattazione, riferibili al “bene salute” e cioè all’integrità psicosomatica del soggetto in
sé considerata, nonché alle conseguenze negative che la menomazione comporta
nella vita del soggetto leso.
Per quanto riguarda i danni di natura patrimoniale si applicheranno, in sede di
risarcimento, le regole generali sia in tema di prova che in termini di meccanismo di
liquidazione, con la precisazione che si farà anche qui ricorso alla valutazione
equitativa, ai sensi dell’articolo 1226 del Codice Civile, sia nell’ipotesi di reale
impossibilità che nell’ipotesi di grande difficoltà di provare (totalmente o
parzialmente) il danno nel suo preciso ammontare, il che avviene, ad esempio,
nell’ipotesi di quantificazione delle spese necessarie all’assistenza di un macroleso
(in tal senso, Cass. 11202/1994 e 1474/1996).
Con riguardo al danno non patrimoniale occorre qui esaminare sia l’oggetto del
risarcimento che i criteri in base ai quali tale risarcimento viene effettuato. Occorre,
in altri termini, chiedersi cosa si risarcisce e con quali criteri si determina la somma
di denaro da attribuire al danneggiato.
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LA LIQUIDAZIONE DEL DANNO SECONDO EQUITA’
Imprescindibile premessa del nostro argomentare è quella riguardante
l’individuazione degli strumenti normativi e logici attraverso i quali si giunge alla
liquidazione del danno non patrimoniale da lesioni e cioè della menomazione
dell’integrità psicoficica della persona.
Il danno alla persona in quanto tale non è, a rigore, valutabile e non è
conseguentemente risarcibile sulla base dei meccanismi tecnico-giuridici della
reintegrazione in forma specifica e della reintegrazione per equivalente: l’integrità
psicofisica del soggetto danneggiato non è ripristinabile e non è in sé quantificabile
in termini economici.
L’unico sistema che consente la determinazione di un compenso sostitutivo del
bene perduto e consolatorio delle sofferenze subite (per cui non potrebbe, stricto
sensu, parlarsi di risarcimento) è quello della determinazione, in via equitativa, di
una somma di denaro da attribuire al soggetto leso.
Nel diritto romano l’actio iniuriarum della Lex Aquilia prevedeva un risarcimento
determinato, dal Pretor, ex bono et aequo; Gaio, poi, affermava che “Liberum
corpus non recepit aestimationem”.
Il problema centrale del ricorso all’equità è quello di determinare i parametri da
utilizzare per la quantificazione del compenso che sia sostitutivo del bene (non
patrimoniale) perduto e consolatorio delle conseguenze subite.
Dell’equità e del suo significato universale si sono occupate sia la scienza giuridica
che la dottrina filosofica e morale, scontrandosi con la ontologica difficoltà di
enucleare una nozione, se non unitaria, quanto meno compiuta ed esaustiva del
fenomeno.
In tale ambito, di per sé complesso, l’approccio del giurista deve essere, più ancora
che in altri casi, ancorato all’esperienza giuridica concreta: solo in tal modo è
possibile evitare suggestioni di carattere etico o sociologico che si risolvono,
paradossalmente, in concrete ingiustizie ed abbandonare la strada, vana, della
ricerca di un concetto unitario di equità.
Dal nostro sistema civilistico non è dato trarre un meccanismo ovvero un utilizzo
unitario del concetto di equità, anche se molte norme vi fanno esplicito riferimento; il
concetto è utilizzato dal Legislatore con scopi e significati diversi: si è di fronte ad
una sorta di polisemia dell’equità.
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E’ intanto individuabile, nel nostro ordinamento, la cosiddetta “equità giudiziale”,
che diventa criterio per la risoluzione di controversie cui il giudice può ricorrere,
supplendo alle lacune del diritto positivo e quindi individuando la giustizia del caso
singolo, in materia di diritti disponibili e dietro concorde richiesta delle parti, ai sensi
dell’articolo 114 del Codice di Procedura Civile.
Basti poi ricordare, quali esempi di valenze e contenuti disomogenei del concetto di
equità, le norme di cui agli articoli 1349 e 1350 del Codice Civile nelle quali l’equità
è strumento di individuazione della prestazione oggetto del rapporto negoziale;
ovvero l’articolo 1371 dello stesso Codice, dove è utilizzata come regola
ermeneutica degli atti negoziali privati.
La valutazione equitativa investe, poi, anche i fatti illeciti produttivi di conseguenze
dannose, ai sensi dell’articolo 1226 del Codice Civile, che riguarda, propriamente,
l’inadempimento delle obbligazioni ma che è certamente applicabile anche agli
illeciti extracontrattuali sulla base dell’espresso richiamo operato dall’articolo 2056
dello stesso Codice, al quale si è già fatto cenno in premessa.
L’equità, quindi, in definitiva, costituisce, con riguardo al meccanismo del
risarcimento del danno, il parametro, sussidiario ed eventuale, che la Legge indica
al giudice perché lo utilizzi, d’ufficio, per la liquidazione del pregiudizio e cioé per
dare contenuto concreto all’obbligazione risarcitoria gravante sul soggetto
giuridicamente responsabile di un danno.
E’ appena il caso di sottolineare come nell’ambito della quantificazione del danno
tale strumento venga fornito al giudice unicamente per sopperire alla difficoltà
tecnica di quantificare l’entità del pregiudizio arrecato al soggetto offeso e non può
essere utilizzato sotto il profilo funzionale del giudizio di responsabilità, nel senso
che non può servire né a verificare la risarcibilità della situazione giuridica lesa, né
ad individuare il soggetto tenuto a soddisfare la pretesa del danneggiato: si può
operare, in altri termini, una valutazione equitativa che integri una pronuncia resa
secondo diritto, mentre non è consentito utilizzare l’equità come possibile alternativa
alla decisione basata sullo stretto diritto.
Nel sistema moderno, il ricorso all’equità quale strumento per la determinazione
della pretesa risarcitoria si presenta come rimedio utile ed imprescindibile in quanto
costituito da una categoria aperta ed elastica, suscettibile di conformarsi alle
peculiarità della fattispecie concreta. Non a caso il Legislatore, recentemente, con la
Legge sulla ragionevole durata del processo (numero 89/2001) ha preferito,
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piuttosto che indicare specifici parametri di quantificazione, rimettere all’equo
apprezzamento del giudice la stima del ristoro risarcitorio (indicato come
“riparazione”) spettante ai soggetti pregiudicati dalla eccessiva lentezza dei
processi.
In generale, ed in base alla formulazione dell’articolo 1226 già citato, nonché in
conformità ai principi generali che disciplinano il processo civile ed alla specifica
funzione del meccanismo della liquidazione del danno secondo equità, il ricorso
all’apprezzamento equitativo è subordinato alla presenza di due presupposti: la
prova dell’esistenza del danno e l’impossibilità di determinare il danno stesso nel
suo preciso ammontare.
Sotto il primo profilo, la sussistenza del danno (che poi richiede ed implica la
statuizione liquidatoria di tipo equitativo) può basarsi su diverse fonti di
convincimento del giudice e trovare supporto anche nel fatto notorio ovvero, come
sempre avviene nel campo del danno da lesioni, nell’ausilio di un consulente tecnico
necessario per l’acquisizione di elementi propri di determinate specifiche discipline.
Con riguardo al secondo aspetto, nel danno da lesioni, la difficoltà di
determinazione dell’entità del pregiudizio deriva dalla natura stessa del bene leso
che, nel caso del danno biologico in senso stretto, sfugge ad una valutazione in
termini monetari, e nel caso del danno morale o non patrimoniale in generale manca
di oggettività e riscontrabilità sul piano fisiologico perché afferente anche alla sfera
interiore e spirituale della persona.
Credo sia importante rilevare l’importanza sempre crescente che ha avuto nel
nostro ordinamento il meccanismo della valutazione equitativa in tema di
risarcimento del danno in generale. Dalla visione patrimonialistica del danno che
valorizza la differenza complessiva del patrimonio del danneggiato considerandone
la consistenza nel momento antecedente ed in quello susseguente al fatto lesivo, si
è passati alla visione personalistica e compensativa del danno che qualifica,
appunto, il meccanismo del risarcimento come compensazione della perdita subita
dal soggetto leso. Con il risarcimento, in altri termini, l’ordinamento tende a
perseguire l’obiettivo del riequilibrio delle situazioni giuridiche lese, ponendo il
danneggiato, mediante la rimozione delle conseguenze svantaggiose del fatto
illecito, nella stessa condizione in cui questi si sarebbe trovato nell’ipotesi in cui
l’evento dannoso non si fosse verificato.
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L’ubi consistam del risarcimento, valutato anche sulla base di principi ricavabili dalla
nostra Carta Costituzionale, é quindi individuabile nella restitutio in integrum che
impone la considerazione della utilitas singularis del bene leso e cioè dell’utilità che
il soggetto danneggiato ritraeva dal bene perduto. Si tratta di utilizzare, in altri
termini, il criterio soggettivo dell’id quod interest e non quello semplicemente
oggettivo della aestimatio rei.
Può così ipotizzarsi una determinazione del risarcimento che sia la risultante di un
corretto uso del criterio equitativo, che tenga cioè conto della peculiarità del singolo
caso; tale risultato è concretamente realizzabile soltanto attraverso la valutazione
equitativamente globale e specifica del pregiudizio da risarcire, valutazione questa
che, per il suo carattere individualizzante, consente di riportare proporzionalmente,
nella situazione particolare sottoposta all’attenzione del giudice, i parametri
concepiti in una configurazione generale.
La valutazione del danno viene in tal modo effettivamente riferita ed adeguata alla
fattispecie concreta e così facendo si persegue l’obiettivo di un ristoro completo e
personalizzato assumendo quali parametri di riferimento tutti gli aspetti riguardanti la
sfera personale del danneggiato utili a specificare l’entità della diminuzione o della
privazione dell’utilità patrimoniale o del valore personale, da compensare, per
equivalente, mediante una somma di denaro.
In tale contesto assume particolare rilievo la valutazione dell’interesse del
danneggiato rispetto al bene leso e restano fuori dal giudizio di equità tutti i dati
estranei al risultato pregiudizievole prodottosi nella sfera della vittima, quali la
gravità della condotta tenuta dal danneggiante ovvero la diversità delle condizioni
economiche dei soggetti coinvolti nel fatto lesivo.
Sarà poi compito ed obbligo del giudice dare adeguatamente conto delle modalità di
esercizio di tale valutazione equitativa attraverso una chiara e concreta indicazione
del percorso logico seguito e delle particolari situazioni soggettive riferibili al
soggetto leso che sono state prese in considerazione nonché del peso dato a
ciascuno degli elementi considerati.
CONCETTO E CRITERI DI LIQUIDAZIONE DEL “DANNO BIOLOGICO”
a) concetto e contenuto del “danno biologico”
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In prima approssimazione possiamo definire il danno biologico come la limitazione o
la compromissione, tanto temporanea quanto definitiva, della complessiva integrità
psicofisica dell’essere umano (in ipotesi e per quanto ci riguarda) causata dall’altrui
fatto illecito. La peculiarità rispetto al tradizionale concetto di danno riguarda il bene
sul quale esso incide e cioè la salute dell’essere umano, che costituisce
propriamente uno status del soggetto.
L’articolo 5 comma 3 della Legge 5 marzo 2001 numero 57 definisce il danno
biologico come “…lesione all’integrità psicofisica della persona, suscettibile di
accertamento medico – legale…risarcibile indipendentemente dalla sua incidenza
sulla capacità di produzione del reddito del danneggiato”; trattasi di definizione che
riprende concetti già presenti nella sentenza della Corte Costituzionale numero
184/1986 (poi indicati anche nella sentenza della stessa Corte numero 372/1994)
dove di dice che “il danno biologico costituisce l’evento del fatto lesivo della
salute…” e cioè “…la menomazione dell’integrità psicofisica dell’offeso, che
trasforma in patologia la stessa fisiologica integrità…”.
La Corte Costituzionale medesima, nella sentenza numero 184/1986, riconosce
come sostanzialmente coincidenti le espressioni “danno biologico”, “danno
fisiologico” e “danno alla salute” per cui devono ritenersi sterili e comunque prive di
utilità pratica le distinzioni concettuali, pur rinvenibili nella giurisprudenza di merito,
tra “danno biologico” e “danno alla salute”, dove il primo sintagma starebbe ad
indicare la lesione dell’integrità fisica in sé considerata e quindi il quantum
dell’integrità perduta mentre la seconda formula sarebbe riferibile alla lesione che
con i suoi postumi di natura permanente preclude al soggetto danneggiato di
svolgere le stesse attività che svolgeva prima dell'evento dannoso e quindi al
quantum di esistenzialità perduta.
Il danno biologico (indicato nella sentenza della Corte Costituzionale 184/1986
come “danno evento” cioè “evento materiale, naturalistico, che, pur essendo
conseguenza del comportamento, è momento od aspetto costitutivo del fatto” ed è,
quindi, interno alla struttura lesiva dell’illecito) ha in sé “natura non patrimoniale nel
senso che si sostanzia in un danno determinato dalla lesione di interessi inerenti
alla persona non connotati da rilevanza economica” (Cass. 12/5/2003 n. 7283).
La Corte Costituzionale, nelle due sentenze citate ha affermato che “…la prova
della lesione costituisce, in re ipsa, prova dell’esistenza del danno…” (sentenza
184/1986) precisando altresì che questa prova dell’esistenza del danno non è
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sufficiente ai fini del risarcimento in quanto “…è sempre necessaria la prova
ulteriore dell’entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una
perdita di tipo analogo a quello indicato dall’articolo 1223 del Codice Civile costituita
dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale) alla quale il
risarcimento deve essere (equitativamente) commisurato…” (sentenza 372/1994).
Resta fermo che il giudice potrà, con riguardo a tale ultimo punto, fondare il suo
convincimento su “nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza” ai sensi
dell’articolo 115 del Codice di Procedura Civile sulla base del semplice rilievo che le
normali attività quotidiane dell’individuo rimangono certamente compromesse in
presenza di un danno alla salute.
Al fine di esaminare ed esporre i criteri di liquidazione del danno biologico (con
particolare riguardo a quelli tendenzialmente utilizzati dal Tribunale di Varese) sono
necessarie alcune premesse.
Trattasi di danno valutabile e da valutarsi, in concreto, sulla base dei parametri
propri della medicina legale.
Il Legislatore, come abbiamo già visto, con la Legge numero 57/2001 ha precisato
che la lesione, per poter costituire danno biologico, debba essere “suscettibile di
accertamento medico-legale” con ciò riprendendo un concetto già espresso sia in
dottrina che in giurisprudenza. La Corte Costituzionale, in particolare, con la
sentenza numero 372/1994 già citata, affermava che “…il danno biologico, al pari di
ogni altro danno ingiusto, è risarcibile soltanto come pregiudizio effettivamente
conseguente ad una lesione”.
Con riguardo ai contenuti del danno biologico, la Corte di Cassazione, già con la
sentenza numero 1704 del 25/2/1997, affermava che la categoria in questione si
riferisce ad ogni “…menomazione arrecata all’integrità fisio-psichica della persona
in sé e per sé considerata, incidente sul valore umano in ogni sua concreta
dimensione, che non si esaurisce nella sola attitudine a produrre ricchezza, ma si
collega alla somma delle funzioni naturali afferenti al soggetto nell’ambiente in cui la
vita si esplica, ed aventi rilevanza non solo economica ma anche spirituale, sociale,
culturale ed estetica”.
Per definire sinteticamente tali concetti sono state usate, da una parte le
espressione “danno biologico statico” o “danno biologico strutturale” per indicare la
lesione in sé, sia essa anatomica o funzionale (“…menomazione all’integrità fisio-
psichica della persona in sé e per sé considerata….”) e dall’altra le espressioni
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“danno biologico dinamico” o “danno biologico funzionale” per indicare la personale,
concreta e specifica menomazione della qualità della vita (“…menomazione delle
funzioni naturali afferenti al soggetto nell’ambiente in cui la vita si esplica ed aventi
rilevanza non solo economica ma anche spirituale, sociale, culturale ed estetica…”).
Il fondamento della tutela risarcitoria del danno biologico è stato storicamente
individuato nella lettura combinata degli articoli 2043 del Codice Civile e 32 della
Costituzione; recentemente si è proposto, come vedremo, di considerare il danno
biologico (fermo restando il riferimento costituzionale) quale danno non patrimoniale
rientrante nella previsione dell’articolo 2059 del Codice Civile.
b) criteri di liquidazione del danno biologico da invalidità permanente
Le due fondamentali esigenze che si pongono in ordine alla liquidazione del danno
biologico riguardano l’uniformità delle valutazioni e la personalizzazione del
risarcimento. Occorre, in altri termini e per quanto possibile, uniformare i parametri
di valutazione ed individuare i criteri che consentano di tener conto delle
particolarità del caso concreto.
Nella pratica e quindi nella giurisprudenza di merito, si riscontrano diversi metodi di
liquidazione del danno biologico.
Accanto al ricorso all’equità pura, che è statisticamente raro, vengono per lo più
utilizzati tre criteri: quello di cui all’articolo 4 della Legge 26/2/1977 numero 39, il
metodo del cosiddetto “punto di invalidità elastico” ed il metodo del cosiddetto
“punto di invalidità variabile”.
Con il primo sistema, detto anche “genovese” ovvero “del triplo della pensione
sociale”, la liquidazione del danno avviene (o sarebbe meglio dire avveniva)
moltiplicando il triplo della pensione sociale dapprima per un coefficiente rapportato
alla probabile durata della vita residua e quindi per il grado di invalidità permanente;
nella pratica viene considerata l’aspettativa di vita in base alle più recenti rilevazioni
statistiche ufficiali e sono previsti degli aggiustamenti quali l’utilizzo di un multiplo
crescente al crescere dell’entità della lesione. Tale meccanismo, utilizzato a lungo,
è stato ritenuto incongruo dalla Corte di Cassazione (sentenza numero 10693 del
27/10/1998 e sentenza numero 101 dell’8 gennaio 1999) ed è stato quasi
totalmente abbandonato.
Il metodo del punto “integrato” o “elastico” altrimenti detto “pisano” con riferimento,
anche qui, al Tribunale che per primo lo ha adottato e teorizzato, utilizza un
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parametro di base, predeterminato ed uguale per tutti i soggetti, nel quale per ogni
punto di invalidità permanente e per ogni giorno di inabilità temporanea è
individuato un valore pecuniario medio calcolato in base della media dei precedenti
giudiziari; un secondo parametro, correttivo del primo, aumenta l’importo globale da
riconoscersi sino alla metà, tenendo conto delle circostanze specifiche attinenti al
soggetto danneggiato quali l’età, il pregiudizio estetico, la necessità di interventi
chirurgici, l’incidenza sull’attività extralavorativa.
Il metodo del “punto di invalidità variabile” o delle “tabelle” elaborato dal Tribunale
di Milano e tendenzialmente applicato anche dal Tribunale di Varese, prevede una
valutazione del punto di invalidità che varia in misura progressiva in relazione alla
gravità della lesione (nel senso che per un danno più grave è previsto un valore
punto più elevato) ed in misura decrescente in relazione all’età del danneggiato (nel
senso che il valore del punto di invalidità diminuisce con l’aumentare dell’età
dell’infortunato). Trattasi di un valore punto meramente indicativo ed elaborato
“…sulla base di situazioni tipiche e prive di elementi peculiari in cui, partendo
dall’esatta considerazione dell’esperienza e riflessione medico – legale e giudiziaria
ed osservando come ben diversa sia la compromissione che ogni punto aggiuntivo
di invalidità comporta per l’integrità e l’efficienza psicofisica, si è differenziato il
valore del punto di invalidità in relazione alla riduzione della capacità psicofisica ed
all’età del soggetto” (Cass. 18/5/1999 numero 4801).
Anche il sistema delle “tabelle” prevede la personalizzazione della liquidazione che
si ottiene applicando dei correttivi alla somma individuata su base tabellare.
Entrambi i sistemi costruiti sull’individuazione del valore del punto di invalidità sono
stati ritenuti legittimi dalla Corte di Cassazione.
Nel Tribunale di Varese viene generalmente adottato, come già detto, il sistema
delle tabelle utilizzando i parametri indicati dalla Legge 57/2001 per il danno
biologico rientrante nei limiti del 9% ed i criteri tabellari proposti dal Tribunale di
Milano per il risarcimento del danno correlato all’invalidità valutata dal 10% in avanti.
I parametri propriamente normativi vengono utilizzati, in quanto costituenti il risultato
di valutazioni ex lege, anche al di fuori dei limiti temporali e di eziologia del danno
previsti nella legge medesima.
Tale sistema (composito, se si vuole) consente una valutazione uniforme ed
individuabile a priori dai danneggiati senza con ciò eliminare la dovuta
personalizzazione ed utilizzando il criterio previsto dalla legge 57/2001 che si pone,
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pur con tutti i limiti evidenziati sia in dottrina che in giurisprudenza (di merito) come
unico parametro normativo attualmente utilizzabile in materia.
Il valore pecuniario attribuito al punto di invalidità nelle tabelle milanesi trova il suo
fondamento nella media dei precedenti giudiziari in ambito distrettuale ed è perciò
esso stesso “…espressione del potere equitativo del giudice” (Cass. 4852/1999);
tale valore ha ad oggetto sia il danno biologico sotto il profilo statico (la lesione in
sé) sia il danno biologico sotto il profilo dinamico in quanto prende in considerazione
gli aspetti dinamico – relazionali medi considerati come l’insieme di conseguenze
negative prodotte, mediamente, dalla lesione, nella vita quotidiana della vittima; in
altre parole i parametri di riferimento sia in termini di percentuale di invalidità sia in
termini di valore attribuito ai punti di invalidità, tengono conto dell’incidenza della
menomazione sulle attività quotidiane comuni a tutti, considerando il danno
biologico sia nel suo aspetto statico, sia nel suo aspetto dinamico relazionale medio.
A ciò si aggiunga, come già detto, che il valore del punto aumenta in proporzione
alla gravità della menomazione (sul presupposto che un punto “aggiunto” determina
un aggravio maggiore rispetto all’entità del precedente) e diminuisce al progredire
dell’età dell’infortunato (sul presupposto che il soggetto più anziano, tenuto conto
della durata della vita media, dovrà sopportare la menomazione per un periodo di
tempo inferiore). Tale sistema, che a differenza del metodo del “punto elastico”
prevede già queste due variabili fondamentali, è certamente di più immediata e
semplice applicazione.
Le tabelle milanesi sono state, negli anni, sottoposte a verifica e revisione sia sotto il
profilo del loro aggiornamento sulla base degli indici di svalutazione, sia sotto il
profilo del riequilibrio delle curve determinate dall’incidenza dei parametri dell’età e
dell’entità della lesione; le dette tabelle vengono utilizzate dai due terzi dei Tribunali
italiani.
La somma risultante dalle tabelle con riferimento alle singole percentuali di invalidità
e determinata sulla base dell’età del soggetto e dell’entità della menomazione, tiene
conto, come già detto, dei valori relazionali medi e cioè dell’aspetto dinamico –
relazionale del danno biologico normalmente collegato all’oggettiva entità della
lesione riscontrata; si pone quindi il problema, in sede di liquidazione, di
personalizzare il risarcimento e cioè di parametrarlo al soggetto che ha subito la
lesione.
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Con riguardo alla detta operazione di personalizzazione del danno biologico, e con
riferimento alle particolari situazioni in presenza delle quali si ritiene necessario
adeguare l’importo liquidato a quanto dedotto e provato dal danneggiato,
l’Osservatorio milanese, nell’ultima proposta tabellare del dicembre 2004,
suggerisce un aumento della liquidazione sino ad un massimo del 30%; il Tribunale
di Varese prevede, per tale adeguamento, un aumento massimo della
quantificazione del danno del 20%.
c) criteri di liquidazione del danno biologico da inabilità temporanea
La valutazione del danno biologico, oltre alla invalidità permanente sin qui
considerata (che si sostanzia nei postumi inemendabili e stabilizzati conseguenti al
fatto lesivo) riguarda anche l’inabilità temporanea e cioè l’incapacità totale o parziale
di attendere alle ordinarie occupazioni nel periodo compreso tra il fatto lesivo e la
guarigione senza postumi ovvero la stabilizzazione dei postumi.
L’Osservatorio di Milano propone la somma di 65,00 Euro giornalieri per l’inabilità
assoluta, da ridursi proporzionalmente nell’ipotesi di inabilità parziale.
I Giudici del Tribunale di Varese adottano, generalmente, il criterio previsto nella
Legge 57/2001 che costituisce, come già detto, l’unico parametro legislativo
attualmente utilizzabile in materia.
Con specifico riguardo al meccanismo di aggiornamento annuale degli importi
tabellari (secondo gli indici ISTAT) previsto dalla Legge 57/2001 attraverso un atto
ricognitivo costituito da un apposito decreto del Ministro dell’Industria, il Tribunale di
Varese rivaluta, sulla base dell’indice ISTAT, gli importi indicati nelle tabelle (sia
quelle legislative che quelle distrettuali) prescindendo dall’emanazione del decreto
ministeriale.
Sin qui la questione relativa alla componente non patrimoniale del danno biologico,
cioè alla componente non correlata a diminuzioni di reddito.
E’ evidente che in aggiunta a quanto sin qui esposto, andranno riconosciuti, di volta
in volta e nei termini in cui verranno provati, eventuali danni di natura patrimoniale
riconducibili (come conseguenza) al danno biologico. Si pensi, con riferimento alle
ipotesi più comuni, al mancato guadagno per assenza dal lavoro nel periodo di
inabilità temporanea o al cambiamento di funzioni ovvero di attività lavorativa con
conseguente diminuzione del reddito nell’ipotesi di postumi invalidanti incompatibili
con l’attività lavorativa prestata prima dell’evento lesivo.
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INVALIDITA’ LAVORATIVA GENERICA E SPECIFICA
Un danno di natura fisica può incidere in vario modo sull’attività lavorativa svolta dal
soggetto danneggiato.
Può aversi, in proposito, un’incidenza delle lesioni sulla “capacità lavorativa
generica”, con ciò intendendosi il danno che si sostanzia nella limitazione della
efficienza lavorativa in senso astratto cioè senza riferimento ad una specifica attività
e senza ripercussioni, in ipotesi, sul reddito del soggetto; trattasi, in concreto, della
maggiore usura o fatica derivante dalla lesione e riferibile, genericamente, al
compiere un’attività lavorativa in sé, situazione, questa, che si determina quando la
menomazione riguarda un organo (e quindi una funzione) non specificamente
utilizzato nell’espletamento dell’attività lavorativa concretamente svolta dal soggetto
danneggiato. Si pensi, ad esempio, ad una menomazione che riguardi la
deambulazione in un soggetto che svolga attività lavorativa sedentaria: in questo
caso l’attività lavorativa non può costituire un indice utilizzabile per la
personalizzazione del risarcimento in quanto la lesione si pone, con riferimento
all’attività lavorativa medesima, all’interno del parametro relazionale medio, nel
senso che il soggetto è limitato nello svolgimento del suo lavoro così come lo è in
una qualsiasi altra normale attività.
Ciò vuol dire che tale compromissione, riferibile, per definizione, ad un’attività
lavorativa generica ed astratta, e quindi ad uno dei parametri relazionali medi
utilizzati per la predisposizione delle tabelle distrettuali, rientra già (nel senso che vi
è già stata presa in considerazione) nella liquidazione del danno biologico secondo
le tabelle, allo stesso modo delle normali attività comunemente svolte da tutti gli
individui.
Può rilevarsi, poi, di solito sulla base della relazione medica e del tipo di lesione
riscontrata, una compromissione della “capacità lavorativa specifica”, che si
individua nelle conseguenze negative della lesione sull’attività lavorativa
concretamente svolta dal danneggiato ovvero sull’attività lavorativa che il soggetto è
ragionevolmente proiettato a svolgere secondo le sue inclinazioni, il suo titolo
professionale e le sue concrete potenzialità.
Ove tale compromissione comporti l’impossibilità di svolgere l’attività lavorativa
esercitata prima del trauma ovvero determini una riduzione di tale attività con
ripercussioni sul reddito del soggetto, ci si troverà di fronte ad un danno di natura
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patrimoniale che dovrà essere allegato e provato (in ipotesi anche sulla base di
presunzioni) e che verrà valutato nei termini ordinari con il sistema della
capitalizzazione del reddito venuto meno e con riferimento all’età pensionabile.
Ove invece la menomazione si traduca in una maggiore usura, in un maggior
dispendio di energie o comunque in un maggior disagio nello svolgimento
dell’attività lavorativa, senza implicazioni di carattere patrimoniale e al di fuori del
valore relazionale medio già preso in considerazione per la liquidazione del danno
biologico secondo le tabelle, si farà luogo ad una valutazione equitativa che
prenderà a base per la determinazione dell’entità del risarcimento la somma
liquidata a titolo di danno biologico per invalidità permanente.
In concreto, ed in base alla specifica situazione del soggetto danneggiato, il giudice
potrà aumentare percentualmente l’importo da riconoscersi a titolo di danno
biologico.
In alcune pronunce di merito si fa ricorso, per la liquidazione del danno da invalidità
lavorativa specifica, al sistema del triplo della pensione sociale rapportata all’età
dell’infortunato con riferimento alla sua presumibile vita lavorativa ed all’entità della
lesione. Trattasi di un meccanismo discutibile, sia con riguardo alla componente
patrimoniale di tale danno, che non viene presa concretamente in esame, sia con
riguardo alla componente non patrimoniale che viene quantificata sulla base di un
parametro in sé astratto.
Nell’ambito del Tribunale di Varese e nell’ipotesi di riconosciuta invalidità lavorativa
specifica, si è ritenuto compatibile con il meccanismo risarcitorio qui tratteggiato, sia
personalizzare, in aumento, l’importo riconosciuto a titolo di danno biologico, sia
indicare una somma liquidata separatamente rispetto al danno biologico anche se a
quest’ultimo, comunque, parametrata. Il sistema della liquidazione separata (come
se si trattasse di una sorta di danno morale specifico) consente, in pratica, di
prestare maggiore attenzione a tale componente di danno e di meglio evidenziarla
nelle motivazioni.
IL DANNO MORALE
Tenuto conto dell’oggetto della presente relazione, esamineremo le questioni
riguardanti il danno morale con specifico riferimento al danno da lesioni, o meglio, al
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danno morale (qualificato come “soggettivo”) da riconoscersi al soggetto leso, cioè
al cosiddetto “danneggiato primario”.
Occorre solo rilevare, per completezza di trattazione, come la Corte di Cassazione
abbia affermato la risarcibilità del danno morale anche in assenza di danno
biologico (S.U. 2515/2002 – caso ICMESA di Seveso) e che si parla di danno
morale anche nell’ipotesi di danno riflesso e cioè di danno ai prossimi congiunti del
soggetto deceduto ovvero del macroleso (i cosiddetti “danneggiati secondari” o “di
riflesso” o “di rimbalzo”).
Il danno morale è stato costantemente ed uniformemente definito dalla
giurisprudenza costituzionale e di legittimità, come il transitorio ovvero acuto
turbamento psicologico del soggetto offeso (l’utilizzo delle aggettivazioni indicate
vuole sottolineare che il turbamento non si è cronicizzato in una patologia psichica,
che, in quanto tale, diventerebbe a sua volta componente del danno biologico).
Trattasi, dunque, della sofferenza collegata alla menomazione dell’integrità
psicofisica e quindi del turbamento psicologico, del dolore e del patimento connessi
alle lesioni.
Il fondamento normativo della risarcibilità di tale danno è dato dall’articolo 2059 del
Codice Civile che parla di danno non patrimoniale risarcibile nei casi determinati
dalla legge.
All’epoca dell’emanazione del Codice Civile, le uniche previsioni espresse di
risarcimento del danno non patrimoniale erano rinvenibili nell’articolo 185 del Codice
Penale con riguardo ai fatti costituenti reato e nell’articolo 89 del Codice di
Procedura Civile con riguardo alle espressioni sconvenienti ed offensive contenute
negli scritti presentati e nei discorsi pronunciati dinanzi al giudice. In entrambe le
ipotesi viene in rilievo un “fatto reato” cioè, secondo l’interpretazione comunemente
data alle due norme in questione, un reato nella sua materialità, ossia un fatto
ontologicamente qualificabile come illecito penale, indipendentemente dalla sua
punibilità in concreto.
In quest’ambito e con specifico riferimento ai danni da lesioni derivanti da sinistro
stradale, la Corte di Cassazione, con la sentenza numero 7283 del 12 maggio 2003,
ha enunciato il principio in base al quale è risarcibile il danno morale anche nel caso
di applicazione delle presunzioni di cui all’articolo 2054 del Codice Civile in
conseguenza del mancato accertamento positivo della colpa dell’autore dell’illecito.
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La pronuncia della Corte di Cassazione riconsidera, in via interpretativa, il
riferimento (implicito) dell’articolo 2059 del Codice Civile all’articolo 185 del Codice
Penale ed asserisce che il danno non patrimoniale è risarcibile tutte le volte in cui il
fatto generatore del danno stesso corrisponda alla fattispecie astratta di un reato, in
relazione al quale, ai soli fini civilistici, può equipararsi la non superata presunzione
di colpa alla sussistenza della colpa stessa.
Tale posizione interpretativa ha trovato espressa ed autorevole conferma nella
sentenza numero 233 della Corte Costituzionale in data 11 luglio 2003; la Corte,
infatti, ha dichiarato non fondata una questione di legittimità costituzionale
riguardante l’articolo 2059 del Codice Civile affermando, tra l’altro, che “il
riferimento al reato contenuto nell’articolo 185 del Codice penale, in coerenza con la
diversa funzione assolta dalla norma impugnata, non postula più, come si riteneva
per il passato, la ricorrenza di una concreta fattispecie di reato, ma solo di una
fattispecie corrispondente, nella sua oggettività, all’astratta previsione di una figura
di reato.” Il principio è stato poi ribadito dalla stessa Corte Costituzionale
nell’ordinanza numero 356 del 12 dicembre 2003.
Occorre qui ricordare, per completezza di trattazione, come nella legislazione più
recente sono presenti numerosi casi di espresso riconoscimento del risarcimento
del danno non patrimoniale anche al di fuori dell’ipotesi di reato, in relazione alla
compromissione di valori personali: articolo 2 della legge 13/4/1988 numero 117
sull’ingiusta detenzione; articolo 25 comma 2 del D. L.vo 30/6/2003 numero 196
nell’ipotesi di impiego di modalità illecite nella raccolta dei dati personali; articolo 44
comma 7 del D. L.vo 25/7/1998 numero 286 in tema di adozione di atti discriminatori
per motivi razziali, etnici o religiosi; articolo 2 della legge 24/3/2001 numero 89 sulla
ragionevole durata del processo.
Tutto ciò necessariamente premesso in ordine all’oggetto, alla natura,
all’inquadramento sistematico ed all’evoluzione del concetto di danno morale, si
pone il problema della sua liquidazione che non può che effettuarsi su base
equitativa, tenendo conto dell’entità (e quindi della liquidazione) del danno biologico,
che costituisce l’unico parametro oggettivo a disposizione dell’interprete.
Il fondamento logico del meccanismo sta nella constatazione che il turbamento
psichico non può che essere, in generale, proporzionato all’entità della lesione, per
cui anche la liquidazione del danno morale va parametrata all’importo riconosciuto a
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titolo di danno biologico. Anche qui, ovviamente, il giudice dovrà personalizzare il
risarcimento sulla base delle specificità del caso concreto.
In pratica, e per quanto riguarda i criteri ricavabili dalle pronunce del Tribunale di
Varese, è prevista, indicativamente, la liquidazione di una somma oscillante tra il
25% ed il 50% dell’importo riconosciuto a titolo di danno biologico con
personalizzazione del risarcimento nell’ambito della frazione e con la previsione,
sempre in un’ottica di adeguamento al caso concreto, della possibilità di aumentare
la somma riconosciuta sino a dieci volte quella base del 50%.
DANNO ESISTENZIALE
Come indicato in premessa, mi è sembrato opportuno, per ragioni di logica e di
chiarezza espositiva, trattare gli argomenti secondo la ripartizione e la terminologia
oggi comunemente utilizzate.
In quest’ottica resta da esaminare la nuova categoria risarcitoria recentemente
individuata nel cosiddetto “danno esistenziale” cioè nella forzosa rinuncia alle
proprie abitudini di vita, ovvero nella somma di ripercussioni relazionali di tipo
negativo conseguenti al trauma fisico o psichico subito.
Tale voce di danno nasce, nell’elaborazione giurisprudenziale e nella costruzione
dottrinaria, per recuperare nell’ambito del risarcibile le cosiddette “lesioni della
personalità”. Trattasi di meccanismo interpretativo analogo a quello già utilizzato
(con riferimento agli articoli 32 della Costituzione e 2043 del Codice Civile) per
valorizzare il diritto alla salute: ricondurre (questa volta) nell’ambito dell’articolo 2059
il pregiudizio non patrimoniale derivante dalla lesione di un diritto costituzionalmente
garantito.
Quando si parla di danno esistenziale (differenziandolo dal danno morale ed
ancorandolo alla norma di cui all’articolo 2 della Costituzione) lo si qualifica come
danno non patrimoniale e lo si definisce come “turbamento” o “sconquasso” della
“sfera del fare”, “rovesciamento forzato dell’agenda”, mutamento forzato delle
proprie abitudini e del proprio stile di vita. Il danno esistenziale sarebbe, in
quest’ottica, diverso dall’altro danno di natura non patrimoniale che comunemente si
definisce danno morale e che riguarderebbe, come abbiamo già visto, la “sfera
dell’essere” sostanziandosi, quindi, nella “sofferenza”, nel “pianto versato”.
Il punto debole dell’asserita differenziazione tra danno morale (derivante dalla
sofferenza determinata dalle lesioni) e danno esistenziale (consistente nella
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rinuncia ad una serie di attività) sta forse nel fatto che sul piano logico la rinuncia in
sé e la sofferenza per la rinuncia non sono scindibili: ha un senso riconoscere un
risarcimento per la forzata rinuncia ad una certa attività determinata da lesioni
personali se ed in quanto tale rinuncia comporti una sofferenza.
Non si vuole con ciò negare rilevanza agli elementi di fatto riferibili al cosiddetto
danno esistenziale, si vuol solo dire che questi elementi ed in particolare le rinunce
che l’infortunato deve accettare e quindi la compromissione dei suoi corrispondenti
diritti costituzionalmente o solo legislativamente garantiti può trovare un’equa
compensazione all’interno del danno morale e cioè attraverso una rigorosa e
puntuale personalizzazione del risarcimento previsto per tale tipo di danno.
Si verrebbe ad ipotizzare, quindi, nella pratica, un danno morale (non patrimoniale e
diverso dal biologico) che oltre a comprendere il patema d’animo conseguente alla
lesione personale in sé (sofferenza per le limitazioni normalmente conseguenti al
tipo di lesione) dovrebbe riguardare anche gli ulteriori pregiudizi derivanti dalla
specifica e riscontrata menomazione di altri interessi protetti.
In concreto e con specifico riguardo al Tribunale di Varese è previsto, come già
detto, un margine di adeguamento del danno morale sino a 10 volte superiore al
normale risarcimento dato da una percentuale variabile tra il 25% ed il 50% del
danno biologico.
Tutto ciò con la precisazione che nell’ipotesi in cui le sofferenze e le menomazioni
appena indicate determinino un disagio psicologico importante e si sostanzino
quindi in un danno psichico vero e proprio, rilevabile come tale sul piano clinico,
nell’ipotesi cioè in cui i disagi e le sofferenze siano qualificabili come sintomi di una
patologia psichica, essi serviranno ad evidenziare la patologia medesima e
quest’ultima costituirà “danno biologico” concorrendo a determinare la lesione
complessiva patita dal soggetto infortunato e come tale risarcibile.
LA CATEGORIA UNITARIA DEL DANNO NON PATRIMONIALE
Con due recenti interessanti pronunce (numero 8827 e numero 8828 entrambe del
31 maggio 2003) la Corte di Cassazione (Sezione Terza) ha recuperato la nozione
unitaria e unificante di “danno non patrimoniale”.
La Corte, richiamato il tenore testuale dell’articolo 2059 del Codice Civile e
storicizzatone il contenuto con riferimento alle recenti previsioni legislative di
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riconoscimento del diritto al risarcimento del danno non patrimoniale anche al di
fuori dell’ipotesi di reato, si esprime nei seguenti testuali termini:
“…la tradizionale restrittiva lettura dell’articolo 2059, in relazione all’articolo 185 del
Codice penale, come diretto ad assicurare tutela soltanto al danno morale
soggettivo, alla sofferenza contingente, al turbamento dell’animo transeunte
determinati da fatto illecito integrante reato (interpretazione fondata sui lavori
preparatori del Codice del 1942 e largamente seguita dalla giurisprudenza) non può
essere ulteriormente condivisa…nel vigente ordinamento nel quale assume
posizione preminente la Costituzione che, all’articolo 2 riconosce e garantisce i diritti
inviolabili dell’uomo, il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria
ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona.
Tale conclusione trova sostegno nella progressiva evoluzione verificatasi nella
disciplina di tale settore, contrassegnata dal nuovo atteggiamento assunto, sia dal
legislatore che dalla giurisprudenza, in relazione alla tutela riconosciuta al danno
non patrimoniale, nella sua accezione più ampia di danno determinato dalla lesione
di interessi inerenti alla persona non connotati da rilevanza economica…appare
inoltre significativa l’evoluzione della giurisprudenza di questa Suprema Corte,
sollecitata dalla sempre più avvertita esigenza di garantire l’integrale riparazione del
danno ingiustamente subito, non solo nel patrimonio inteso in senso strettamente
economico, ma anche nei valori propri della persona (articolo 2 della Costituzione).”
La Corte, inoltre, richiamato il meccanismo della tutela risarcitoria del danno
biologico recuperata attraverso il collegamento tra l’articolo 2043 del Codice Civile e
l’articolo 32 della Costituzione in maniera da sottrarre il risarcimento stesso al limite
posto dall’articolo 2059, afferma che tale orientamento interpretativo “…merita di
essere rimeditato…” posto che il danno biologico, che è danno essenzialmente non
patrimoniale e comunque per la sua componente non patrimoniale, dovrebbe
trovare naturale “collocazione” nell’ambito dell’articolo 2059, tanto più che la stessa
Corte di legittimità, affermando la risarcibilità del danno non patrimoniale in favore
delle persone giuridiche (sentenza numero 2367/2000) ha già ritenuto la non
coincidenza tra il danno non patrimoniale previsto dall’articolo 2059 e il danno
morale soggettivo (che, in quanto tale, non può riferirsi a soggetti diversi dalle
persone fisiche).
La conclusione, sul punto, del Supremo Collegio è nel senso di “…ritenere ormai
acquisito all’ordinamento positivo il riconoscimento della lata estensione della
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nozione di danno non patrimoniale, inteso come danno da lesione di valori inerenti
alla persona e non più solo come danno morale soggettivo…” e di non ritenere
proficuo “…ritagliare all’interno di tale generale categoria specifiche figure di danno,
etichettandole in vario modo…” in quanto ciò che rileva, ai fini dell’applicazione
dell’articolo 2059, è “…l’ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona, dal
quale conseguano pregiudizi non suscettibili di valutazione economica”.
Con specifico riguardo al contenuto della norma da ultimo citata, nelle due sentenze
in esame si ritiene di dover superare l’interpretazione sin qui data alla riserva di
legge in essa prevista sulla base di due considerazioni:
− una lettura costituzionalmente orientata dell’articolo 2059 impone di ritenere
inoperante il limite della riserva di legge se la lesione riguarda valori della
persona costituzionalmente garantiti;
− dopo l’entrata in vigore della Costituzione, la riserva di legge in questione non
può non ritenersi riferita anche (e soprattutto) alla Carta Costituzionale stessa
che, riconoscendo i diritti inviolabili della persona ne impone la tutela costituendo
essa stessa un caso di riparazione del danno non patrimoniale determinato dalla
legge.
La Corte di Cassazione, recuperando il concetto unitario di danno non patrimoniale
e richiamando il meccanismo (ormai acquisito ma da rimettere in discussione) di
risarcimento del danno biologico, fa rientrare nell’ambito dell’articolo 2043 i danni di
natura economica e nell’ambito dell’articolo 2059 privo del limite tradizionalmente
inteso come riferibile all’articolo 185 del Codice Penale, la riparazione per il danno
morale e per i valori inerenti alla persona aventi rilievo costituzionale.
Sulla base di tale interpretazione, potranno essere prese in considerazione,
all’interno dell’ampia categoria del danno non patrimoniale, tutte le menomazioni sin
qui inquadrate nell’ambito del “danno esistenziale”.
L’Osservatorio della Giustizia Civile del Tribunale di Milano, recependo i principi
affermati nelle sentenze indicate, ha elaborato, nel dicembre 2004, un nuovo
schema per la liquidazione del danno non patrimoniale alla persona nel quale, per
quanto riguarda il danno da lesioni personali, si suggerisce di operare con le voci ed
i criteri seguenti:
− danno biologico permanente da liquidarsi in base alle tabelle che tengono già
conto degli aspetti dinamico – relazionali medi e adeguamento delle medesime,
con un aumento sino al 30% dei valori tabellari, per la personalizzazione del
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danno biologico sulla base degli aspetti dinamico – relazionali personali del
danneggiato;
− danno biologico temporaneo in relazione al quale l’importo giornaliero liquidabile
è pari a 65,00 Euro;
− danno non patrimoniale diverso dal biologico e quindi comprensivo del danno
morale soggettivo e dei danni da compromissione di valori costituzionalmente
protetti diversi dal diritto alla salute, da liquidarsi entro il limite dei 2/3 della
somma liquidata a titolo di danno biologico mantenendo (all’interno del limite dei
2/3) come parametro di riferimento per il danno morale soggettivo la quota dal
25% al 50% dell’importo liquidato per il danno biologico.
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Recentemente la Corte di Cassazione con la sentenza numero 9801 del 10 maggio
2005, resa in tema di risarcimento di danni da lesione dei diritti della persona
inerenti alla qualità di coniuge, ha espressamente ripreso i principi espressi nelle
sentenze numero 8827 e 8828 del 2003 affermando che “…nel sistema bipolare del
danno patrimoniale e di quello non patrimoniale, l’articolo 2059 del Codice Civile
riveste una funzione non più sanzionatoria ma tipizzante dei singoli casi di
risarcibilità del danno non patrimoniale, così che l’astratta previsione normativa
deve intendersi come comprensiva di ogni danno di natura non patrimoniale
derivante dalla lesione dei valori della persona, e dunque sia del danno morale
soggettivo, consistente nella mera sofferenza psichica e nel patema d’animo, sia del
danno biologico in senso stretto, configurabile in presenza di lesioni all’integrità
psicofisica secondo i canoni fissati dalla scienza medica (articolo 32 della
Costituzione) sia del danno derivante dalla lesione di altri interessi di rango
costituzionale relativi alla persona.
In tale prospettiva, nell’ambito dell’articolo 2059 del Codice Civile, trovano
collocazione e protezione tutte quelle situazioni soggettive relative a perdite non
patrimoniali subite dalla persona per fatti illeciti determinanti un danno ingiusto e per
la lesione di valori costituzionalmente protetti o specificamente tutelati da leggi
speciali: ciò vale a dire che il rinvio recettizio dell’articolo 2059 del Codice Civile ai
casi determinati dalla legge non riguarda le sole ipotesi del danno morale soggettivo
derivante da reato, ma vale ad assicurare la tutela anche alla lesione di diritti
fondamentali della persona, atteso che in forza del rilievo costituzionale di tali diritti,
il risarcimento del danno non patrimoniale conseguente alla loro lesione non è
soggetto alla riserva di legge posta dalla norma richiamata.”
Sia pure sulla base di obieter dicta, la più recente giurisprudenza della Corte di
Cassazione ha quindi espressamente valorizzato e recuperato il sistema bipolare
previsto dal Codice Civile e basato sulla distinzione tra danno patrimoniale e danno
non patrimoniale; nell’ambito, poi, del danno non patrimoniale, la giurisprudenza,
consolidata, della Suprema Corte è nel senso di ritenere risarcibile il danno non
patrimoniale non solo nei casi previsti dalla legge ordinaria, ma anche nelle ipotesi
in cui si verifichino lesioni o compromissioni di “valori della persona
costituzionalmente protetti”.
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CONCLUSIONI
Ritengo che la lettura costituzionalmente orientata dell’articolo 2059 ed il recupero
del sistema bipolare delineato dal Codice Civile costituiscano operazioni
interpretative corrette sul piano tecnico ed ineccepibili sul piano logico.
L’auspicabile generale condivisione ed accettazione di tali principi porterà
certamente alla razionalizzazione del sistema risarcitorio in ambito
extracontrattuale.
In tema di lesioni personali, al di là della questione dell’inquadramento del danno
biologico nell’ambito dell’articolo 2059 del Codice Civile, sulla base
dell’orientamento innovativo appena indicato dalla Corte di Cassazione, i parametri
risarcitori che emergono dal monitoraggio delle decisioni del Tribunale di Varese e
dal confronto tra i Magistrati che lo compongono, sono i seguenti:
− il danno biologico (lesione in sé dell’integrità psicofisica) viene risarcito sulla base
dei parametri indicati dalla Legge 57/2001 per le lesioni che hanno determinato
un’invalidità valutabile sino al 9% e sulla base delle tabelle distrettuali (elaborate
dal Tribunale di Milano) per le invalidità dal 10% in avanti; posto che tali tabelle
tengono già conto degli aspetti dinamico – relazioni medi, si effettua, in concreto,
la personalizzazione ritenuta necessaria per adeguare il risarcimento alla
peculiarità del caso; le ipotesi che, a titolo esemplificativo, possono dar luogo
all’aumento dell’importo dovuto riguardano eventuali interventi chirurgici o ricoveri
sopportati dall’infortunato ovvero danni di natura estetica che consentono di
considerare la lesione in sé come più grave; la maggiorazione degli importi
tabellari è di norma sino al 20% e ciò in armonia con quanto previsto dall’articolo
23 comma terzo della Legge 273/2002 che ha modificato l’articolo 5 comma 4
della Legge 57/2001;
− il danno morale (sofferenza conseguente alla lesione in sé ed alle rinunce che
questa ha comportato) viene risarcito (ai sensi dell’articolo 2059 del Codice
Civile) sulla base di una percentuale variabile tra il 25% ed il 50% della somma
liquidata a titolo di danno biologico e con un congruo e proporzionale aumento
dell’importo riconosciuto (sino a dieci volte la somma base) a fronte di specifiche
situazioni di rinuncia e di conseguente sofferenza legate al trauma subito; in
pratica, si adotta quest’ultimo criterio di personalizzazione (che può portare alla
decuplicazione dell’importo base) nei casi in cui il risarcimento derivante
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dall’applicazione della percentuale standard (25% - 50%) determini un risultato
risarcitorio “simbolico” o “irrisorio”;
− il danno cosiddetto “esistenziale” trova la sua collocazione risarcitoria nell’ambito
del danno morale ed in particolare nella specifica attività di personalizzazione che
consente, come già indicato al punto precedente, di decuplicare l’entità del
risarcimento che sarebbe stato riconosciuto in condizioni di normalità;
− il danno patrimoniale segue i criteri indicati dagli articoli 1223 e 2056 del Codice
Civile.
Con riguardo al danno non patrimoniale da ridotta capacità lavorativa specifica (che
concettualmente rientra nel danno morale) si preferisce a volte, per ragioni di
chiarezza ovvero per l’esigenza di esplicitare i concreti parametri utilizzati, liquidare
tale specifica voce di danno (sempre equitativamente e con riferimento a quanto
riconosciuto per il danno biologico) in via autonoma rispetto al danno morale
generale.
Nel meccanismo sin qui descritto, che risponde ad esigenze di uniformità,
valutabilità a priori ed eliminazione delle duplicazioni, le componenti del danno
cosiddetto “esistenziale” diventano, in pratica, indici di personalizzazione del danno
morale e come tali concorrono alla determinazione del complessivo risarcimento.
Tale sistema, che appare coerente con i più recenti condivisibili orientamenti
espressi dalla Corte di Cassazione e che si caratterizza per chiarezza, completezza
e prevedibilità, contiene indicazioni che costituiscono il punto di arrivo di un
monitoraggio e di un confronto all’interno del nostro Tribunale ed è ovviamente
suscettibile di evoluzione e di miglioramento anche sulla base di contributi e spunti
di riflessione provenienti dall’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale, nonché
dalle sollecitazioni del Foro.
dott. Carmelo Leotta
giudice del Tribunale di Varese
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