Il culto di Xeth

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In un oscuro vicolo del centro storico di Genova viene ritrovato il corpo senza vita della giovane e bella Ilaria. Da quel giorno Frank Lupi diviene preda inconsapevole di un essere di nome Xeth, materializzatosi sulla terra per creare una nuova specie ibrida ed elevarsi così al rango di un dio. Dopo essere stato infettato dal sangue di Xeth, Frank riesce a sfuggirgli, ma il suo corpo muta inesorabilmente. La scelta di uccidere o abbracciare il suo nuovo padre spetta soltanto a lui.

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Franco Fagioli

Il Culto di Xeth

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IL CULTO DI XETH Copyright © 2010 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2010 Franco Fagioli ISBN: 978-88-6307-299-0

In copertina: immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Giugno 2010 da Digital Print

Segrate - Milano

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CAPITOLO 1 “Le faremo sapere. Arrivederci.” Inizio ad essere stufo di sentire questa frase in continuazione, sarà forse perché il mio subconscio la collega direttamente al fallimento dei miei colloqui di lavoro degli ultimi tre mesi, fatto sta che mi fa proprio in-cazzare sentirmela dire di nuovo! Mentre cammino verso casa con le mani in tasca e gli occhi stretti come le fessure per le monetine dei parchimetri, causa sole al tramonto, mi godo il vento fresco che viene dal mare e ripenso a quella faccia di caz-zo che probabilmente ha appena buttato il mio curriculum nel cestino del suo ufficio. La classica faccia di cazzo non c’è che dire: completo blu chiaro e ca-micia bianca abbinati ad un’agghiacciante cravatta giallo canarino ra-dioattivo, occhiali con montatura nera spessa all’ultima moda da uffi-cio, chili di grasso flaccido ancorati a ventre e fianchi, un culo da bale-na nel più classico stile di chi non si alza mai dalla sedia se non per an-dare in bagno, dove comunque si siede di nuovo per fare il suo, ed infi-ne un accenno di barba molto ordinata e definita ed una voce da castra-to capace di rendere irritanti anche frasi come “buongiorno” e “si ac-comodi prego”. Avrà avuto la mia età pressappoco, un titolo di studi equivalente al mio (o magari non si era neanche diplomato sto tricheco) fatto sta che me lo può appoggiare nel didietro, metaforicamente parlando, e negarmi un posto di lavoro di cui ho un fottuto bisogno da mesi. Tocco la tasca destra dei miei pantaloni corti neri di cotone, niente let-tore mp3, l’ho lasciato a casa cazzo, e non posso neanche ascoltarmi un po’di metal ora che mi girano le palle... poco male tanto nella mia testa suonano live gli Slayer mentre cammino. Ho ascoltato così tanto i loro pezzi che li ho registrati nei neuroni... God Hate Us All!! God Hate Us All!!… com’è vero fratello, questo Dio sembra odiarmi proprio tanto ultimamente... Ma forse è giusto così, io odio Lui e Lui odia me, e questo è quanto. Dopo il diploma gli anni sono passati attraverso un cumulo di merda: il servizio militare, la morte dei miei genitori in un incidente aereo, la fi-

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danzata che scopa con un tuo amico, non il migliore amico per fortuna, ma sempre corna sono! E così sono diventato come un sacco da boxe con cui la disgrazia si al-lena per tenersi in forma, ed a giudicare da come si è impegnata gli de-vono essere venuti dei bicipiti niente male. La casa dove sono cresciuto per fortuna non è stata colpita dal destino inesorabile, se non per quei classici incidenti di percorso come rubinetti che perdono e water che si rompono che fortunatamente sono rimedia-bili con una semplice telefonata ad un idraulico. Infilo la chiave nella toppa superiore e giro verso destra sei volte, poi un’altra chiave nella toppa inferiore e giro altre due volte… serrature più semplici no? E’ colpa della roba vecchia. Sono circondato dalla roba vecchia. La porta e le serrature sono le stesse di prima che ci trasferissimo qui, quando io ero bambino, e molta della mobilia della casa è vecchia come mio nonno, pace all’anima sua. Quello che non è vecchio in casa mia, è sicuramente Ikea e l’ho monta-to io con le mie mani per risparmiare due lire... anzi due euro. La notte porta consiglio dicono, ma io ho solo da chiedergli una buona dose di sonno ristoratore, niente consigli, e soprattutto niente casini. Come chiedere qualcosa ad un sordo… Intorno alle tre di notte squilla il telefono e mi sveglio di soprassalto con il cuore a mille battiti al minuto, prossimo ad un infarto nonostante la giovane età. Ehi! non sono mica un poliziotto o un medico chirurgo che mi si può rompere i coglioni a quest’ora di notte! Mi alzo dal letto bagnato dal sudore caldo e appiccicoso delle notti e-stive e vado in sala verso il telefono, troppo rintronato ancora per pen-sare quali insulti utilizzare con il malcapitato che sta dall’altro capo del-la cornetta. “Pronto.” “Fra sei tu?” “E no, sono un ladro, ma già che ci sono rispondo al telefono! Ma come cazzo ti salta in mente di chiamarmi a quest’ora Ila?... Sei scema?” Ilaria, la mia ex. Quella che si è scopata l’amico, per intenderci. “Ho bisogno di aiuto... non sapevo chi chiamare... ho paura.” “Potevi chiamare Roberto visto che gliel’hai data tante volte mentre stavi con me, io non voglio più sentire la tua voce da bagascia, chiama lui!” “No Fra ti prego… non buttare giù… non so se mi faranno ancora tele-fonare se butti giù.”

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“Chi non ti farà più telefonare, non sei a casa?” “No, sono in un locale…al porto, stanno chiudendo ma li ho pregati di farmi fare una telefonata per un’emergenza... vienimi a prendere Fra.” “E perché dovrei? Ma che cazzo hai nel cervello? Ti devo venire a prendere al porto alle tre di notte io? Esistono i taxi non te l’ha mai det-to nessuno?” “Non ho soldi Fra... mi hanno rubato tutto... la borsa, il cellulare... sono piena di lividi. Fra ti prego vienimi a prendere... ti prego... mi fido solo di te” “Ti hanno picchiata?” “Sì… dopo ti dico tutto, vienimi a prendere, ti aspetto da piazza Ca-vour.” “No, piazza Cavour no che ti accoltellano!... vengo a prenderti io da-vanti alla Capitaneria di Porto, stai vicina al Corpo di Guardia almeno non ti succede nient’altro... Arrivo.” Non è facile essere lucidi quando si viene tirati giù dal letto in piena notte, ed ancor meno guidare; ma stasera sembra che dovrò provare l’ebbrezza del turno di notte. Mi sento come uno di quegli ispettori delle serie americane... solo che loro sono anche pettinati ed in tiro, mentre io sembro uno psicopatico che gira di notte per Genova guidando una Fiat Punto bordeaux del ‘91 cercando qualcuno da investire. L’aria dal finestrino aperto mi aiuta a svegliarmi, sarò al porto in cinque minuti con la strada libera, speriamo non mi facciano una multa per ec-cesso di velocità. Ma quale multa! Con sta carriola!! Vado più veloce di corsa! Dal mare nero come la notte arrivano luci che aiutano la soffusa illumi-nazione stradale, luci rotonde e lontane, che mi fanno staccare ogni vol-ta gli occhi dalla strada per un attimo, per cercare di capire da quale meraviglioso universo lontano giungano. Ormai sono arrivato, curva a sinistra, ecco i parcheggi a pagamento, la capitaneria… e lì davanti, nessuno. Scendo dalla macchina accostata, come capita, sulla destra. Ilaria non c’è. Proviamo a chiedere al Corpo di Guardia… citofono. “Sì, dica?” La voce di Maurizio, che mentre pronuncia questa frase mi riconosce guardando attraverso il vetro antiproiettile della guardiola. “Frank! Marinaio del belino! Che ci fai qui a quest’ora? Sei venuto a trovarci?” Quanto ridere c’eravamo fatti a militare Mauri ed io.

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Poi lui aveva deciso di restare. Io… beh... no. “Mauri... Hai visto Ilaria ferma qui davanti stanotte? Mi aveva chiesto di venire a prenderla... gli ho detto di stare qui davanti che è un posto sicuro ma non c’è!” “Che non c’è lo vedo, comunque sono qui da mezzanotte e non l’ho vi-sta di sicuro... Problemi?” “Mi ha telefonato alle tre, mi ha detto che l’hanno derubata… sono pre-occupato.” “Aspetta che esco Frank, non sento un cazzo dal citofono” Clak... Il cancello di ferro verde scatta appena Mauri tocca il pulsante e si dirige verso di me, intanto le burbe nella guardiola mi scrutano attra-verso il vetro, ma senza grande interesse... è uno sguardo assonnato... quanto li capisco. Mauri esce dal cancello, con la sua solita divisa verde da Sdi con i gradi da sottocapo rossi sulle spalle da nuotatore. Beh… se io sono ben messo fisicamente, Mauri è largo come un arma-dio... un armadio con la panza, ma pur sempre un armadio! “Allora? Cazzo succede?” “Te l’ho detto, Ila mi ha chiamato a casa alle tre e mi ha chiesto di ve-nirla a prendere. Gli ho detto di aspettarmi qua davanti ma non c’è... diceva che l’hanno derubata e picchiata, che casino.” “Casino sì! Dai che ti aiuto a cercarla qui intorno, tanto il sottufficiale di guardia dorme come al solito, e le burbe non dicono niente altrimenti li scuoio.” Ci dividiamo la zona davanti alla capitaneria, io a sinistra e lui a destra, corro urlando “Ila!”, “Ila dove sei!”, e sento Mauri da lontano urlare lo stesso richiamo. Passo correndo davanti al cinema e vado verso il mare gridando il suo nome... niente, nessuno in giro. Continuo a correre e costeggio le barche ferme attraccate nel porto. Non c’è tempo di fermarsi a guardarle estasiato come sempre, non c’è tempo: devo trovare Ilaria. Scorgo lontano la sagoma verde di Mauri che corre verso di me. Non ha trovato niente maledizione… “Proviamo dall’altra parte, dal bigo.” “Ok.” La maglietta gialla e verde della Puma mi si è gia incollata alla pelle da un po’, più o meno da quando ho iniziato a correre, ed i jeans mi osta-colano facendomi muovere le gambe come uno che se l’è appena fatta sotto... maledetta vita bassa.

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L’acquario, Caricamento, Piazza Cavour, niente. Scomparsa. Ilaria è scomparsa. “Chiamiamo i Carabinieri Frank, altrimenti non la troviamo così.” “Hai ragione... belin, il telefonino! L’ho lasciato a casa.” “Chiamo io.” “Grazie Mauri.” Dieci minuti ed una pattuglia dei Carabinieri arriva davanti palazzo San Giorgio, dove ci troviamo adesso io e Mauri. Gli racconto l’accaduto, ma a giudicare dalle facce dei due cicci non devo essere stato molto chiaro, colpa dell’agitazione credo. “Sì, le ho detto che mi ha telefonato stanotte e mi ha chiesto di venirla a prendere qui al porto ma non c’è, non ha soldi, non ha telefonino, non avrà neanche i documenti credo visto che l’hanno derubata!” “Va bene, proseguiremo noi le ricerche, ora venite al comando per la denuncia…” Il dialogo viene interrotto bruscamente. “Policìa! Policìa! Aquì! Aquì! Por favor!” Un uomo si sta sbracciando dall’altro lato della strada, in fondo a via S. Lorenzo, deve essere sudamericano credo, a giudicare dalla parlata e dall’abbigliamento, quasi un classico: canottiera gialla e pantaloncini corti grigi, berretto rosso indossato con la visiera all’indietro e scarpe da ginnastica bianche, enormi. Corriamo verso di lui assieme ai due Carabinieri. “Oh… gracias ... aquì, es terrible.” “Cosa è terribile signore, si calmi.” Il sudamericano ci porta nel vicolo a sinistra poco più sopra, senza più riuscire a dire una parola, ma soltanto ansimando e singhiozzando per la paura… ed a ragione. Buio. Le luci che dovevano illuminare il vicolo come ogni notte non funzionano, è pieno di vetri per terra. Il carabiniere più alto dei due, forse anche il più anziano sia di età che di servizio, accende la torcia e avanza nel vicolo con cautela, passo dopo passo. “Aquì està, aquì... madre de Diòs!” Bastano due soli passi nel vicolo perché la torcia illumini qualcosa per terra: un vestito viola, una giacca jeans. Mi sembra di vedere qualcosa... “O Cristo! Ila!” Corro nel vicolo. Non può essere! Il Carabiniere cerca di allontanarmi e così facendo la torcia illumina il volto... è lei. In un attimo vedo la pelle bianca e secca, priva di vita, dalla quale si intravedono le vene bluastre, uno squarcio nel collo, sangue rappreso per terra.

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“Ilaria no! Lasciami andare!” Sorpreso dalla mia foga il Carabiniere non riesce a trattenermi e mi ri-trovo chino sul suo cadavere freddo... è lei... è Ilaria, ma chi… “Si tolga per favore... Greco! Lo porti via da qui!” L’altro Carabiniere, più basso e giovane, prendendomi da sotto le ascel-le mi porta fuori dal vicolo. Non oppongo resistenza, non posso. Posso solo guardare nel vuoto senza dire niente. Mauri mi tiene stretto per un braccio, non è entrato in quel vicolo ma ha capito già tutto. “Frank, vieni qui, lasciali fare.” Seduto per terra in mezzo alla via non parlo per almeno un’ora. Nel frattempo è arrivata anche la Polizia, con delle potenti lampade portatili hanno illuminato il vicolo e uomini in tuta bianca e mascherina continuano a muoversi attorno al suo corpo, la sfiorano, la violano con i loro sguardi e continui flash fotografici, la chiudono in un sacco nero, la portano via per sempre. La mia Ila.

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CAPITOLO 2 Sono distrutto, dopo sei ore di interrogatorio sono veramente a pezzi. Gli ho detto tutto. Avrò raccontato tutta la storia almeno dieci volte ma niente, come cercare di spiegare la teoria della relatività ad una foto-modella oca. E poi quel poliziotto! Il commissario Foti mi pare si chiamasse. Come cazzo ti permetti di cercare di accusarmi e di ipotizzare moventi passio-nali dopo quello che ho vissuto stanotte! Non ti basta la testimonianza dei due Carabinieri? di Mauri? di Ramon? Quel povero cristo di un sudamericano era soltanto uscito un momento per comprare le sigarette al distributore automatico sotto casa, per re-spirare un po’ d’aria fresca, lontano dai bambini che piangono e dalla moglie che strilla come una matta in piena notte, anche lei esaurita da quel tripudio di vitalità. Troppi figli in troppo pochi metri quadri, e questo è il risultato! Quantomeno la Polizia è stata equa riservando a tutti noi lo stesso trat-tamento di merda, ma sarò io sicuramente l’unico a finire sui giornali domani come il sospettato numero uno: l’ex fidanzato geloso colto da raptus omicida, un classico. Ma non me ne frega più di tanto. Non ho intenzione di uscire di casa in questi giorni e di sottopormi al giudizio della gente, tanto non ho neanche un lavoro, quindi mi seppel-lirò nel materasso in attesa che il mio cervello si spenga. A Mauri stanno facendo un bel culo, ed è tutta colpa mia. Di sicuro gli toccheranno mesi di punizione per aver abbandonato il Corpo di Guardia per aiutarmi nelle ricerche, se non la galera: è un rea-to grave per i militari abbandonare il posto di guardia senza autorizza-zione. Speriamo non lo rinchiudano veramente... non potrei mai perdonarme-lo. Alle tre del pomeriggio riesco a malapena ad aprire gli occhi, la testa mi scoppia in preda alle pulsazioni, mi sento addosso come il jet lag di uno appena tornato dalla Cina in aereo.

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La televisione ci mette un po’ad accendersi, come al solito. Maledetto decoder del digitale terrestre che parte anche quando nessuno gli ha det-to di farlo. Please wait, loading… ma chi cazzo ti ha detto di accenderti fottuto co-so! Mentre la tele parla sarà meglio mettere qualcosa nello stomaco: un pa-io di uova ci sono, un po’di insalata pure, ok… ho un po’di nausea, ca-pibile dopo la notte che ho passato, ma ho anche una fame da lupi. Lupi oltre alla mia fame è anche il mio cognome… il mondo è pieno di coincidenze pazzesche. Pentolino, l’acqua bolle, quanti minuti sono più per un uovo sodo? Cin-que... dieci… boh? Andiamo sul sicuro, facciamo quindici così l’uovo è per forza sodo se non è ancora carbonizzato. Dovrebbe andar bene. Toh… il telegiornale regionale inizia adesso. Titoli di apertura: “Omicidio brutale in vico Gibello, in prossimità del duomo di San Lorenzo. Ilaria Ferri, una giovane ragazza trovata sgoz-zata dai Carabinieri. In stato di fermo l’ex fidanzato della ragazza. Oltre a lui sono indagati un militare ed un extracomunitario di origine sudamericana.” Un bel titolo di apertura non c’è che dire, per fortuna non hanno citato il mio nome e quello degli altri due disgraziati nel servizio. Visto che mi è stato intimato di non allontanarmi per nessun motivo da Genova me ne starò a casa, almeno posso evitare di essere lapidato per strada, anche se le voci tra un vicino e l’altro corrono in fretta, e qual-che insulto è il minimo che mi possa aspettare se mi faccio vedere in giro troppo presto. L’acqua del boiler è calda, ma che mi frega visto che ci sono almeno trenta gradi in casa in questo luglio infernale? Doccia fredda: è la solu-zione ideale sia contro la calura che contro il rincoglionimento genera-lizzato che mi possiede oggi. Che goduria. Sono le otto di sera, stacco il telefono perché non ne posso più di paren-ti, amici di famiglia… quale famiglia poi se sono l’unico imbecille an-cora in vita! Conoscenti... tutti che chiedono chiarimenti: “ma cos’è successo”, “ma chi”, “ma come stai”… ma andate tutti a cagare! Come minimo la polizia sta ascoltando tutte le telefonate che faccio an-che al cellulare. Che rispondano loro alle vostre domande! Io non ne ho assolutamente più voglia! Anzi, aspetto la notte e poi esco. Esco a fare un bel giro rilassante nella mia città oscura, e deserta spero, per evitare

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di fare incontri spiacevoli con personaggi poco discreti e giustizieri in canotta con il giornale fresco d’edicola sotto l’ascella, oppure orde di giornalisti a caccia dello scoop della vita, quello che vale la promozio-ne. Ho sempre amato la luce delle strade di notte. Sì, è vero, è fioca e assai poco utile per chi vuole camminare sicuro sul marciapiede, e riuscire ad evitare di calpestare escrementi canini oscurati dalle tenebre. Ma rende la mia città ancora più bella e misteriosa di quanto già non sia. Queste luci soffuse, rotonde, giallastre, rendono i palazzi come vivi, con una loro gigantesca ombra che si proietta nella strada. E queste ombre avvolgono il tuo sguardo costretto nell’intricarsi tortuoso ed an-gusto delle vie, mentre scendi dalla città alta verso il centro storico, e puoi ancora scorgere un lembo di mare, come un drappo di seta nera rilucente del chiarore della luna. Da casa mia a piedi si può arrivare ovunque, certo limitandosi al cuore della città, al centro, al porto antico. Per andare altrove i piedi non ba-stano di certo. Scendo lentamente via Assarotti, con i suoi palazzi colorati, antichi, il marciapiede di grosse pietre un po’disconnesse che ti fanno lo sgambet-to. In fondo la piazza è illuminata e sembra quasi il traguardo da rag-giungere: la luce fuori dall’oscurità. C’è qualcuno che passa ogni tanto, giovani soprattutto, di sicuro uni-versitari che vanno anche nelle sere infrasettimanali nei locali all’aperto a fare le quattro del mattino... che bella vita, peccato non averla vissuta, o meglio non aver voluto viverla visto che i miei volevano fortemente che andassi all’università. “Sono anni che prendi otto in chimica, vai a fare chimica all’università, ascolta quello che ti dice tuo padre ciccio, vedrai che futuro pieno di soddisfazioni ti aspetta”. Come avevi ragione mamma, ma il fuoco che mi bruciava in corpo a diciotto anni inceneriva ogni futuro stabile, ogni idea che non fosse quella di salire su una nave e partire, scappare a vedere il mondo e rompere tutti i legami, legami che tra l’altro si erano già rotti da soli tempo fa. Avrei dovuto fare il nautico, non il liceo classico, ma a tredici anni an-cora non sei in grado di decidere della tua vita, decidono tutto i tuoi, e dopo il classico c’è per forza l’università ed una brillante carriera da laureato, o plurilaureato magari. Se avessi fatto il nautico avrei avuto una cazzo di qualifica per salire su una nave, invece dopo il diploma partii per il servizio militare di leva e

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tutto quello che ottenni in Marina furono notti insonni di guardia e la-vori d’ufficio che mi facevano cagare. Tentai due concorsi per diventare Allievo Ufficiale di Complemento, A.U.C. per farla breve, ma fortunatamente tutte e due le volte mi andò buca, anche se la prima volta ce l’avevo quasi fatta. Dico fortunatamente perché nel frattempo capii che la vita militare non faceva per me: troppi ordini, troppa gente che ti può usare come uno schiavo per via di un giro di bitta dorato sulle spalle o un paio di frec-cette rosse in più della tua da marinaio semplice, troppe notti insonni senza ricevere niente in cambio. Di bello ricordo solo tutti i miei amici. Certo si diventa amici in fretta quando si deve subire le stesse angherie tutti i giorni e poi ci si ritrova nelle camerate ad insultare i graduati, magari con una birra calda fatta entrare di straforo in caserma. Quella vita non faceva per me, e forse anche il mare non faceva per me, ma la sorte non mi diede un’altra opportunità come si fa con il figliol prodigo: mi portò via entrambi i genitori nelle acque dell’Atlantico, in-trappolati nella carcassa metallica di un aereo di linea mentre tornavano da un viaggio a New York. Mia madre voleva tanto vedere la Grande Mela, poi non vide più nient’altro. In questi casi un giovane pieno di volontà e dedizione si sarebbe messo a lavorare di sera come cameriere o barman e si sarebbe iscritto alla fa-coltà di chimica come volevano i cari genitori, e dopo anni di sudore avrebbe portato la sua laurea stretta nel pugno davanti alla loro tomba con il viso misto di orgoglio e lacrime di malinconia... ma io non sono più pieno di volontà e dedizione, sono solo stanco di questa vita: mi ba-sta un lavoro che mi dia da mangiare per trascinarmi ancora un po’ in questa melma. Non me ne sono accorto, le gambe andavano veloci mentre pensavo, sono davanti a vico Gibello, di nuovo. Ci sono i nastri della polizia e due agenti armati di guardia, qualcuno lavora ancora lì dentro... meglio stare lontani. Andiamo a vedere le bar-che attraccate, forse riusciranno a strapparmi il solito sorriso. Ho proprio bisogno di un sorriso. Non tradiscono mai, i panfili bianchi ondeggianti illuminati dai lampio-ni, non sono di nessuno per me, non hanno proprietario, sono lì come un’opera d’arte, un monumento, per essere ammirati nel loro splendore.

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Le forme perfette create per solcare le onde, i pontili in legno, il riflesso ondeggiante del mare che distorce le geometrie della chiglia... ho sorri-so anche stasera. Durante il militare avrei potuto far richiesta d’imbarco e partire, ma non lo feci perché non era così che volevo vedere il mondo, non da marina-io semplice almeno. Per questo tentai i concorsi, per avere un grado, un’importanza. Mi dissi: in mare da ufficiale o su una nave da crociera, niente vita di merda da schiavo intesi? Ma tutto andò a rotoli e dopo la morte dei miei il fuoco che bruciava dentro di me si spense come investito da un muro di ghiaccio. Trovai più comodo restare e compiangermi piuttosto che partire e di-menticare. E poi mi ero fidanzato con Ilaria durante il militare, e lei mi faceva sorridere anche più di queste barche . Ogni tanto ero felice con lei, per davvero. Squilla il cellulare, a quest’ora? Speriamo non siano ancora guai. Ri-spondo. “Sì?” “Devi morire cane maledetto, cosa le hai fatto figlio di puttana!” “Chi cazzo sei? ” “Te la farò pagare... sei stato te, lo so che sei stato te... bastardo... sei morto!” Ha buttato giù. La voce non la riconosco, non l’avevo mai sentita prima, forse era con-traffatta. Dovrei andare alla polizia credo, e dirgli che ho ricevuto delle minacce; non c’è da scherzare con i pazzi che girano oggi per le strade. Guardo nelle chiamate ricevute, numero privato, niente, ci penseranno gli sbirri a rintracciarlo, meglio che vada a fare denuncia. Mentre costeggio le imbarcazioni battendo nervosamente il palmo della mano sinistra sul parapetto di metallo mi sembra quasi di avvertire una presenza dietro di me, come un respiro. Mi volto di scatto... nessuno, solo luci, barche e mare. La paura scende bloccandosi in gola facendomi deglutire rumorosamente. Cammino più svelto. Lascia stare il parapetto, dritto in questura Frank! I fari di una macchina che sgomma a tutta velocità, non ci vedo più, la macchina si ferma e mi sbarra la strada. Merda! Scendono quattro tizi: passamontagna nero, mazze da baseball... ho già capito. Corri più veloce del vento Frank, questi ti ammazzano!

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Un’altra macchina, e la strada è chiusa: sono fregato. Altri due tizi incappucciati e armati di bastoni bloccano la strada; se mi prendono non si fermeranno finché non avrò smesso di respirare. Sono in troppi e troppo attrezzati per limitarsi a spaccarmi qualche co-stola e ricoprirmi di lividi... no... questi mi vogliono fare secco! Istinto di sopravvivenza, caro amico: in meno di un istante mi trovo già sopra il parapetto pronto a lanciarmi in acqua. Uno degli incappucciati da lontano tira fuori una cosa nera dall’interno della giacca... merda una pistola! Partono due colpi ma non sto certo ad aspettarli, mi tuffo in acqua ed inizio a nuotare con la rapidità di un delfino inseguito da un’orca assas-sina, se mai è successa una cosa simile in natura, ingurgitando a fiotti l’acqua salmastra del porto che ha più o meno lo stesso sapore del gaso-lio. Se non mi ammazzano prima morirò di cancro dopo questa bella bevuta di idrocarburi! Sento altri tre spari e urla dalla strada, non mi volto, sarebbe un’inutile perdita di tempo e di chance di sopravvivenza. Sirene della polizia, gomme che bruciano l’asfalto: gli è andata male allora, non riusciranno a uccidermi. Almeno non stasera. Nuotando in quelle condizioni, tossendo in continuazione per l’acqua al petrolio finitami nei polmoni, non potevo andare tanto lontano. Come cazzo fanno i pesci a respirare lo stesso in questa rumenta? Avranno le branchie che vanno a benzina... branzini diesel... che stron-zate mi vengono in mente. Riesco a tirarmi su dal pontile dietro la pista di pattinaggio su ghiaccio, la gente è ammassata a bere nel locale all’aperto. E’ la serata Erasmus ed io sono impresentabile, peccato. Un gruppo di ragazzi si mette a ridere vedendomi spuntare dall’acqua e un paio di tipe mi guardano stupite. Mi getto veloce nel casino, fradicio dalla testa ai piedi e mentre passo vedo occhi stupiti e sento commenti e risa. Mai visto uno che fa il bagno di mezzanotte? Dove vivete in Liguria o sulle alpi svizzere? Stronzi. Esco di corsa sotto lo sguardo incredulo dei buttafuori. “Ehi ragazzo, cosa ti è successo? Ti hanno buttato in mare eh? ah ah... Che scena!” Non rispondo neanche a quel barile di muscoli con una cozza al posto della materia grigia, è meglio continuare a correre verso casa... ma sarà sicura casa mia? non credo.

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Hanno il mio numero di telefonino: figurati se non hanno anche il mio indirizzo! Polizia, vai dalla prima pattuglia che trovi e fatti scortare in questura è meglio. Il fatto è che di pattuglie qui in giro non ce ne sono, quando servono mai... mi andrebbe bene anche una della municipale dai... non è possibi-le! Come una furia attraverso i vicoli mentre i pantaloncini neri scolano a terra litri d’acqua puzzolente: il cellulare è andato, e non oso immagina-re i documenti ed i soldi nel portafoglio... saranno poltiglia. Piazza fontane marose, gli sbirri... “Ehi! Ehi! Fermi! Aiutatemi! Ehi!” La volante si ferma ed un poliziotto mi guarda con il finestrino abbassa-to, pronto a domandare. “Che succede?” “Hanno cercato di ammazzarmi! Sono... sono Frank Lupi... quello... l’ex della ragazza uccisa vicino San Lorenzo... di sicuro conoscete il caso. Erano in sei, al porto, agente mi scorti in questura la prego.” Come se sapessero già tutto, neanche una domanda, neanche un’espressione di sconcerto. “Salga dietro.” L’Alfa della polizia è un vero missile, altro che la mia macchina del cazzo. Peccato aver infradiciato i sedili posteriori di pelle; anche il poliziotto alla guida deve averla pensata come me visto l’occhiataccia che mi ha lanciato dallo specchietto retrovisore. Un viaggio rapido e senza domande; ed io che mi aspettavo un altro in-terrogatorio appena poggiato il sedere in macchina. Poco male visto che l’interrogatorio in questura poco dopo è durato un bel paio d’ore. Li hanno presi, tutti e sei: hanno confessato di volermi dare una lezione perché secondo loro ero l’assassino di Ilaria. Uno di loro è Roberto. Ma come! Prima mi scopi la fidanzata e mi fai andare in giro con delle corna da alce e poi, una volta che l’ho lasciata per colpa tua, mi accusi anche di averla ammazzata! E mi spari anche! Se solo avessi potuto averlo tra le mani cinque minuti gli avrei mischia-to le ossa in modo da renderlo irriconoscibile persino a sua madre: ba-stardo. Almeno adesso li hanno arrestati e per un po’ posso stare tran-quillo, sempre che qualcuno non si voglia aggiungere alla lista “gio-

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chiamo a chi ammazza Frank per primo”, che mi sembra destinata ad avere molti associati in futuro se le cose vanno così. Programma di protezione, mi suona bene; sopporto volentieri due sbirri tra i didimi se questo mi può salvare la pelle. Non credevo di tenere così tanto alla mia pellaccia, anzi pensavo di es-sere un po’ come un poeta maledetto, sempre ubriaco e depresso in at-tesa del suo destino; ed invece dopo stanotte ho capito di tenerci davve-ro a stare vivo, eccome. Speriamo che quest’incubo finisca in fretta, magari dopo una bella doc-cia ed un cambio di vestiti; e non dimentichiamoci di una bella pisciata. Anche se potevo farne in abbondanza mentre nuotavo in mare, chissà perché non ci ho pensato… forse perché mi sparavano dietro degli e-nergumeni incappucciati armati di mazze da baseball?... forse è per questo... troppa gente mi inibisce lo stimolo, sono timido di vescica io.

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CAPITOLO 3 Sono passati cinque mesi da quella notte maledetta ed i sospetti su di me sono caduti dopo numerosi comunicati della polizia e dei telegior-nali. Inoltre nessuno ha più tentato di linciarmi. Pare incredibile. L’omicidio di Ilaria è ancora impunito, si brancola nel buio, come dico-no sempre i reporter. Ho un lavoro, niente di entusiasmante, faccio il corriere, ma almeno tiro su due soldi per mangiare e pagare le bollette... e le tasse, che qui da noi non sono mica roba da ridere... semmai da piangere. Sarà forse perché con i soldi di pochi giovani lavoratori si devono paga-re le pensioni di miriadi di vecchietti, sarà forse perché le tasse servono anche a pagare la sanità pubblica, ed i vecchi ce ne hanno sempre una; medicinali passati dalla mutua, ricoveri continui in ospedale, assistenza …ma non ce l’ho certo con loro, anzi fanno una vitaccia. E poi un gior-no anch’io diventerò vecchio e spremerò le palle dei giovani lavoratori per avere gratis la mia dose quotidiana di pastiglie per la pressione, è il circolo della vita. Solo che a Genova di vecchi ce n’è una marea ed essere giovane è quasi una sfiga! Sembra quasi che nell’aria salmastra, in quell’odore di maretta come diciamo noi, ci sia l’elisir di lunga vita. Sembra che il dio dei mari abbia prescelto il nostro popolo per farlo vivere a lungo, e permettergli altrettanto a lungo di lamentarsi e menarlo ai giovani, che salgono sull’autobus con gli zaini troppo pieni di libri, o non si alzano a cedere il posto a sedere, o sono troppo maleducati ed irrispettosi, con quel pallone da calcio che finisce sempre nel giardino del nonnetto... psst! bucato... addio pallone. Spero di avere anch’io il gene della longevità incastrato da qualche par-te nel mio DNA a doppia elica, e di lasciarlo esprimere fino alla sua massima potenza, sempre che qualcuno non mi faccia secco prima. Il programma di protezione è finito da un paio di settimane, non ce n’è più bisogno dicono, visto che gli attentatori sono in prigione per tentato omicidio e l’ondata di follia dell’opinione pubblica dopo l’omicidio di Ilaria è ormai rientrata. Sono seguiti altri omicidi a questo, altri casini

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in Italia, ci sono altre cose per cui indignarsi, altri sospettati verso i qua-li rivolgere i propri insulti ed auguri di morte. Ormai sono nel dimenti-catoio ..non sono più una star… grazie al cielo. Avrei preferito un lavoro notturno, ed invece mi tocca alzarmi tutti i giorni alle sei per andare fino a Bolzaneto al magazzino principale, poi sul Ducato e via con il mio nuovo compagno d’avventure Miguel a far consegne in tutta la città. Miguel viene dall’Ecuador, o meglio, i suoi vengono da lì. Lui è nato qui a Genova, per cui a rigor di logica dovrebbe essere genovese come il sottoscritto, però di accento e di frasi idiomatiche come “belìn” o “a-nèmu” neanche l’ombra. Fatica a parlare italiano correttamente, infi-landoci un sacco di parole in spagnolo nel mezzo, ma nel complesso capirlo mi riesce abbastanza facile. E’ simpatico, gioca a calcio come facevo io da giovane; non che ora sia vecchio visto che ho neanche trent’anni, solo che ho smesso a ventuno per via delle fidanzate, e di un fastidio continuo al legamento crociato del ginocchio sinistro che non prometteva niente di buono, a detta dello specialista. A pranzo ci si ferma in qualche bar, a seconda del quartiere dove ci tro-viamo con il furgone: se ci va di lusso ci fermiamo in qualche bel tavo-lino all’aperto sull’aurelia, dalle parti di Nervi. Un bel paninozzo ed un paio di birrette conditi da una mezz’oretta al sole, che anche d’inverno a mezzogiorno dà le sue porche soddisfazioni se il cielo è terso. Sono tanti i sudamericani che fanno i corrieri qui, non so perché; forse è un lavoro che gli è congeniale, vallo a sapere. Comunque, ogni tanto, vedendo Miguel, mi viene in mente quel povero cristo di Ramon Perez, quello che per primo aveva visto Ilaria morta a terra. Chissà che fine avrà fatto. Ma torniamo a me. Da quando mia madre è mancata la mia alimenta-zione è andata via via scadendo: da meravigliose lasagne fatte in casa ed orate al forno a penosi surgelati e precotti in classico stile uomo single incapace di cucinare. Eppure ero capace di cucinare, e anche bene; sapevo anche fare la pizza perché avevo lavorato un’estate come pizzaiolo... ma non ho più vo-glia di sbattermi quando torno a casa dal lavoro, né di perdere tempo ogni giorno per fare la spesa ed avere roba fresca. Spesa una volta alla settimana, caccia tutto in congelatore e via. In compenso la vita che non avevo fatto da universitario la sto facendo adesso: tutte le sere della settimana fuori con gli amici a bere fino a tar-

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di, locali, universitarie arrapate, tanto se sono stanco guida Miguel quel cazzo di furgone. Dopo gli ultimi avvenimenti sento in me il bisogno estremo di sentirmi vivo, di godere della vita; forse perché ho visto la morte in faccia, e non mi è piaciuta un granché. Ho anche recuperato un minimo di amor proprio, di coscienza, ed ho deciso che tra un annetto, messa via un po’ di base finanziaria, mi iscri-verò a chimica come volevano i miei ed andrò a fare il cameriere di se-ra, finché anch’io non riuscirò a portare la mia laurea stretta nel pugno davanti alla tomba di mio padre, con lo sguardo misto di orgoglio e la-crime, proprio come un ragazzo pieno di volontà e dedizione ... magari a quarant’anni ma lo farò: glielo devo. Miguel non guida male, solo è un po’ troppo agitato al volante …suona il clacson, prende le curve troppo di fretta ... e per uno che la sera prima ha bevuto sei cuba libre ed ha dormito si e no quattro ore non è il mas-simo. Mi vien da cacciare. “Come al solito te vas fuera con tùs amigos a la noche eh Frank? Beber y beber... y poi vomiti lo sabes! Dai, fai in fretta che tenemos que consegnar el pacco alle nueve, ca-bròn!” Dopo aver vomitato appoggiato ad un albero su di un’aiola al centro di un incrocio stradale mi viene da ridere per il modo di parlare di Miguel. Meno male che lo spagnolo è simile all’italiano e si capisce... pensa se parlasse così un arabo o un rumeno, mischiando le parole della sua lin-gua con quelle di un’altra, sarebbe un vero deliro! Ogni tanto il pensiero torna a Ilaria, e mi sale una rabbia fottuta da den-tro, vorrei scotennare con un coltellino il suo assassino sino a togliergli ogni centimetro di pelle, ma poi Miguel inizia a chiedermi dove deve girare, che ora è, e tutte ste menate, ed allora mi dimentico anche di questo visto che a più di una cosa alla volta non so pensare. La sera a casa invece posso pensare liberamente a quello che voglio, ma preferisco tenermi la mente occupata: leggo, suono la mia B.C.Rich, invito i miei amici a mangiare una pizza, rigorosamente ordinata ad una delle tante pizzerie da asporto del quartiere. Oppure me ne vado in Piazza delle Erbe a bere... spesso. La tensione che pervade il mio spirito si riflette ormai anche su tante cose che faccio. Anche i miei amici più cari hanno notato che cerco di essere spiritoso e casinista come sono sempre stato, ma in fondo ai miei

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occhi c’è una vena di sofferenza e tristezza visibile a tutti, che non se ne vuole andare via. Impugno la mia B.C.Rich. Mentre suono, le dita incarnano i miei pensieri più brutali, le corde so-no come parole urlate a squarciagola nel buio, i tasti come vampate d’odio e di rabbia, e ciò che ne scaturisce è fantastico ma allo stesso tempo oscuro come la notte. Da un po’ di tempo mi sono messo a comporre, non mi basta più suona-re cover, per quanto siano pezzi fantastici: tutti i migliori degli Slayer, un po’ di pezzi dei Sepultura, Cannibal Corpse, Deicide, Death, Male-volent Creation; e chi più ne ha più ne metta. Non si può certo dire che io sia un virtuoso della chitarra comunque. Sono quanto di più lontano in questo pianeta ci possa essere da gente come Malmsteen o Steve Vai, tanto per andare sul classico. Ma non so-no niente male come ritmico ed in quanto ad idee, visto quello che offre il mercato oggi, faccio il culo a molti. Mi piace la ritmica incalzante, cattiva, tecnica quanto basta, ma che non si perde in virtuosismi inutili che potrebbero rallentare il suo incedere devastante. Per me il vero metal ti deve lasciare ben pochi attimi di re-spiro, deve “frustare”, come mi piace dire spesso. Quello che creo non sembra male, e penso spesso che sarebbe bello riu-scire a realizzarlo a pieno... insomma… con un gruppo. Intanto registro le mie tracce sul PC e scrivo le tablature per non dimen-ticarmi tutto. In futuro si vedrà.

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CAPITOLO 4 Dicono che l’estate sia la stagione più bella dell’anno, non solo perché le ragazze sono molto meno vestite che in inverno, ma perché tutto sembra essersi risvegliato completamente dopo la primavera: il tuo te-stosterone che gira a palla, i concerti all’aperto, la gente che ha sempre più voglia di uscire e di divertirsi, le feste sulla spiaggia sino all’alba… Ma l’estate 2007 per me è davvero iniziata alla grande. Lui sembra per un momento essersi dimenticato di ricoprirmi di sfiga; forse non gli do più le soddisfazioni di un tempo. Pure il Genoa è torna-to in serie A dopo dodici anni di sofferenza! Insomma, gira tutto per il verso giusto, sembra incredibile! Nella scia dell’ottimismo ho deciso di iscrivermi all’università già da settembre, ma a questo penserò poi. Ora ci sono cose più importanti, come il nostro primo concerto live. Il gruppo si è formato quest’inverno, un mix di vecchi amici e nuove conoscenze: Emanuele, il chitarrista solista, amico di vecchia data, dai gusti musicali molto simili ai miei, basso di statura e dal viso da ragaz-zino, ma cattivo come una bestia e tecnico come pochi quando si tratta di fare un assolo, sempre con indosso il suo chiodo di pelle nera e la croce rovesciata di metallo al collo, misantropo inside, ed un filo alcoli-sta; Chris al basso, il più giovane della band, scovato in internet grazie a mille annunci, nel pieno dell’adolescenziale voglia di spaccare tutto, ma abbastanza maturo da impegnarsi in lezioni ed allenamenti per di-ventare il migliore col suo strumento, alto ma dal fisico ancora acerbo, con gli occhiali e qualche brufolo, e solo diciotto’anni addosso; alla batteria Mattia, detto Rocky, per via dei pantaloni da pugile che mette sempre per suonare, di corporatura robusta, coi basettoni ed un grosso tatuaggio sulla spalla destra, pesante e furioso nel suonare, proprio quello che serviva, anche lui pescato tramite annunci vari, e convinto ad entrare nel gruppo con poche semplici chiacchiere ed un paio di birre. Cosa non fa la voglia di suonare. La maggior parte dei brani è già pronta da tempo, stipata nell’hard disk del mio computer e di quello di Emanuele.

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Tutto materiale composto quando ancora non era nato il gruppo, ma ognuno di noi sperava ancora che nascesse presto. Grazie all’abbondanza di materiale ed alla nostra voglia facciamo pro-gressi a velocità folle, impariamo a suonare assieme grazie ad un sacco di cover meravigliose; e dopo un inverno soltanto siamo già pronti per diventare una band live. Con l’arrivo dell’estate siamo pronti a spaccare i timpani a tutti. La prima uscita dal vivo è sempre qualcosa di particolare, di esaltante, nonostante il numero di spettatori rasenti la ventina ed il locale sia lette-ralmente un buco fatiscente, con amplificatori dell’anteguerra e proba-bilmente un’acustica da fare schifo. Comunque prima di salire sul palco mi sento teso, nonostante le birre che mi sono scolato nell’attesa, e mi si è formato un vuoto cosmico alla bocca dello stomaco, come se qualcuno mi avesse colpito con un pugno proprio lì. Se dovessi solo suonare ok, ma devo anche cantare, anzi urlare! Ed un blocco alla respirazione non è proprio il massimo. In questi casi o si fa una figura di merda perché la voce rimane strozza-ta in gola e ne esce un gracchiare da corvo omosessuale, oppure si spara fuori in un urlo tutta la tensione e la gente si esalta perché si sente tre-mare i timpani come bandiere al vento. Per fortuna la nostra scaletta inizia con Angel of Death degli Slayer, e l’urlo iniziale mi permette di scaldare la gola: parte come in sordina ma poi diventa un grido lancinante e disperato, come deve essere, ed alla fine ho strizzato così tanto i polmoni che sento una fitta alle reni, come una pugnalata, per lo sforzo. Lo spettacolo parte come un treno, investe tutti, l’acustica non era poi così male. La gente inizia a pogare sotto il palco. Ho cercato in tutti i modi di arrivare a gridare come Marco Aro in One Kill Wonder, allenandomi per mesi: per me è la voce che spacca di più in assoluto, almeno in quell’album. Ti potrebbe terrorizzare anche con una mazurka in sottofondo. C’è ancora tanto da lavorare, ma il risultato sembra essere già soddisfa-cente, sempre che non perda la voce dopo la prima canzone, mi scop-piano le vene del collo cazzo! Tutti e quattro andiamo a mille, folgorati dall’adrenalina, facciamo tutto almeno al doppio della velocità cui eravamo abituati in sala prove, per ora senza grossi strafalcioni.

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Ema fa urlare la sua Jackson negli assoli tirandola per la leva come per mutilarla e plettrando mille note al minuto, Mattia picchia la batteria come se questa gli avesse appena sterminato la famiglia e Chris insulta la gente mentre suona il basso e salta come un indemo-niato sul palco. Sfoderiamo tutto il repertorio di cover e quattro brani nostri, che nessu-no ha mai sentito, ma che per cattiveria e velocità sono in perfetta sin-tonia con la scaletta del live. “MUTILATED CORPSES BLOOD PAINTED GROUND MOUNTAINS OF BODIES BROKEN IN PIECES SMELL OF PUTREFACTION WORMS ARE EATING CADAVERS EYES BARRED OF TERROR RUINS MADE OF BONES WATCH THIS GORE AMAZING DEATHS WE WANT MORE EXTEND THE WAR STRAGE WE LIKE TO SEE GRAVES FULL OF OUR ENEMIES STRAGE THAT WE ADORE ENJOYING FOR ALL THIS BLOOD AND GORE” Durante l’esecuzione di Strage, il cavallo di battaglia della nostra pro-duzione nonché nome della band, rischio di fare una cappella madorna-le e di mandare a puttane tutto il concerto perché vengo distratto dalla vista di un tizio sotto il palco... per fortuna riesco a recuperare il danno. Ma che mi sarà preso? Non ho mai avuto l’abitudine di guardare i ma-schi con interesse, solo un paio di tette di fuori potrebbero farmi sba-gliare una nota! Starò mica diventando un buliccio... e no!Dio non può farmi anche questo!

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Finiamo il live con Black Metal dei Venom e ci becchiamo l’ultimo ap-plauso di quei venti capelloni ubriachi che avevano avuto il coraggio di venirci a sentire. “Strage... Strage... Strage!” Che bravi alunni, sanno già il nostro nome, il cammino verso la consacrazione allora è spianato. Mah… comunque per questo primo live il compenso sono due magre consumazioni a te-sta. Intanto sarà meglio berci su con gli altri del gruppo. Mentre metto via la mia Warlock nella custodia nera mi si avvicina un tizio, quel tizio. Mi prende alla sprovvista, parlandomi mentre il suo viso bianco come carta compare all’improvviso a lato del mio campo visivo... un brivido freddo mi percorre la schiena, brutte notizie, stai in guardia Frank. “Grandi! Siete stati grandi! Posso avere un vostro demo?” Che culo! Pensavo che esordisse come minimo con “Voglio strapparti quel cuore marcio dal petto”, e invece... “Certo, sono quattro euro, aspetta che te lo porto.” Il demo era piuttosto casalingo ma di buon impatto, tre brani nostri fini-ti ed arrangiati. Dovevo al più presto portarlo a quel tizio della Scarlet, i soliti amici di amici, ma magari ci andava di culo. “Mi chiamo Judas.” Che cazzo di nome Judas, credo sia dai tempi di Gesù Cristo che nessu-no chiami più proprio figlio come Giuda, il traditore. “Sai sono un talent scout della Metalblow e…” Il sorsetto di birra che avevo provato a tirare giù mentre diceva questa frase si era sputato a terra praticamente da solo. “Pfft… Metalblow? Ma mi prendi per i fondelli?” “No, tutto vero per vostra fortuna. Mi trovo a Genova per fare un con-tratto ad un altro gruppo di cui non ti posso dire il nome... sai, segreti di mercato... e già che ho visto la locandina del vostro live mentre cammi-navo per la città, mi sono permesso di venirvi a sentire, per pura curio-sità. E direi che ne è valsa la pena!” “Guarda te a volte la fortuna…E pensare che non ho mai avuto tanto culo nella vita! Vieni dai che ti offriamo da bere così parliamo.” Cingendogli amichevolmente il collo con il mio braccio destro, porto il nostro amico d’oro al bancone dove ci sono gli altri del gruppo. Non so perché ma nonostante il caldo soffocante del locale e la sudata che mi ero appena fatto sul palco, il braccio mi sembra poggiato su di una statua di ghiaccio anziché su di un collo umano.

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Non mi convince a vista questo tizio: la carnagione così eccessivamente bianca, eburnea, gli occhi grandi, di un colore indefinibile, misto tra il rosso e l’azzurro, le geometrie perfette del viso, il vestiario da maniaco della moda dark... ma questo è il meno. I miei amici rimangono sconvolti dalle parole di Judas, li conquista su-bito con le sue credenziali, tirando fuori biglietti da visita a profusione e prove della sua reale appartenenza alla Metalblow, una delle più grandi etichette mondiali di musica metal, ma vi rendete conto! Resta con noi per mezz’ora a parlare dei grandi progetti che ha per il nostro gruppo ... cose da pazzi ... cose che non avremmo neanche potu-to sognare prima di questa sera! “Ci sentiamo allora. Chiamami lunedì per pranzo così parliamo dei det-tagli Frank ok? Ciao ragazzi.” “Ciao Judas, grazie... ti chiamerò, stai sicuro!” Tutti così esaltati all’idea di diventare famosi già agli esordi, che nes-suno di noi si era accorto che Judas non aveva neanche avvicinato una volta la sua bocca alla bottiglietta di birra che gli avevo dato. Ci ho fat-to caso io ripensando a quella scena, ora che sono tornato a casa. E’ strano però magari Judas è astemio, ma non vuole fare la figura dello sfigato davanti ai musicisti, per cui accetta lo stesso da bere e poi svuo-ta le bottiglie di birra nella prima siepe che trova fuori dal locale; oppu-re preferisce bersele da solo fuori, mentre passeggia verso l’albergo... ma insomma chi se ne frega! Judas è della Metalblow e questo è un giorno che può cambiare la mia vita, e io sto a pensare se è astemio o meno... ma Frank!ma vaffanculo! Il sonno è meravigliosamente riposante quando prima di sdraiarti hai avuto una notizia che ti ha reso felice. Mi sento bene oggi, sarà il caso di andare in palestra, visto che è sabato e non devo lavorare, e di farmi un po’ di conti in tasca per vedere di riuscire a pagare le bollette alla fine del mese. Dopo aver mollato il calcio mi sono iscritto in una palestra vicino casa, giusto per evitare di diventare obeso, vista la mia voracità. Pensavo che fosse un ambiente noioso, pesante, ed invece sono riuscito a farmi degli amici pure lì, ed ora su due ore di allenamento, una e mezza la passo a parlare di cazzate con loro: anche per questo ci vado volentieri. Con l’esercizio mi sono un po’ irrobustito negli ultimi due anni, non che prima fossi un fuscello. In vita mia sono andato sotto gli ottanta chili solo una volta, e sembravo un malato terminale di aids ve lo giuro. Ora sono sugli ottantacinque, peso forma, anche se le tabelle del cazzo che ci sono in palestra mi

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danno del grassone visto che sono alto un metro e ottantatre. Che ci posso fare? Sono piazzato. Look anomalo per un metallaro: niente capelli lunghi, anzi capelli corti, castani, un viso abbastanza rotondo ed infantile nonostante i quasi trent’anni, occhi scuri ed un pizzetto nero e folto, da capra di montagna, senza baffi, al quale sono affezionato morbosamente da anni…mi sono rotto il cazzo di guardarmi allo specchio, usciamo Frank che è sabato sera e magari ti riesce di scoparti qualche cozza.

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CAPITOLO 5 “Ciao Judas, sono Frank... ti ricordi? Mi avevi detto di telefonarti og-gi…sono il...” “Il cantante di sabato sera! Certo che mi ricordo Frank! Ho grandi noti-zie per il vostro gruppo. Incontriamoci stasera a cena in albergo, sono al Bristol Palace, in Via XX settembre. Ah..non c’è bisogno che veniate tutti stasera per parlare del futuro del gruppo, anzi, meglio se vieni solo te Frank ... meno si è e meglio si par-la di affari.” “Va bene, come vuoi. A che ora?” “Vieni per le otto e mezza, chiedi di Judas Phelps alla reception... ho già dato istruzioni al riguardo. Io sarò ad attenderti in sala da pranzo.” “Ricevuto. Allora a dopo, e... grazie.” “E di che? A dopo Frank.” Non avevo mai sentito un americano parlare così bene l’italiano. Quelli nei programmi su MTV riescono a malapena a dire “pizza”, “amore” o “spaghetti” con la stessa pronuncia che avrei con una forchettata di gnocchi al gorgonzola bollenti in bocca. Eppure sabato sera mi era sembrato che parlasse con una certa infles-sione. Avevo capito quasi subito che era straniero, anche se sincera-mente non avrei saputo dire da quale paese venisse. Invece oggi al telefono mi ha parlato come se avesse vissuto in Italia da sempre, senza accenti particolari od inflessioni, ma con una fluidità ed una proprietà di linguaggio da professore emerito. Sempre a pensare alle stronzate io. Mi ha chiamato Ema, voleva sapere del “tizio della Metalblow”, di Ju-das; gli ho detto che sarei andato io a nome del gruppo all’incontro, non perché volessi fare la star, ma semplicemente perché Judas stesso mi aveva chiesto di fare così. Regola numero uno dell’aspirante stella della musica: mai contraddire un produttore importante senza prima avere uno straccio di contratto firmato.

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“Frank, hai fatto bene... vedi di farci diventare ricchi o spargo in giro la voce che sei una brutta checca e non riuscirai mai più a farti una ragaz-za in tutta Genova!… anche se non è che tu ora ne prenda come George Clooney.” “Vaffanculo... sei proprio una merda di amico!... Comunque grazie per la fiducia. Dirò a Judas che siete tutti dei musicisti incapaci e debosciati, e mi farò fare un contratto solo per me! A voi vi lascio nella bratta, rumente!” “Brutto bastardo...” Un coro di insulti amichevoli al di là del telefono. “Sto scherzando... Ema dì agli altri due imbecilli di non urlare così forte quando insultano la gente al tuo cellulare che mi han spaccato un tim-pano! Piuttosto... lo sai che tutti i nostri brani sino ad ora non sono assoluta-mente coperti da diritti d’autore? Speriamo che Judas non abbia già da-to il demo a qualche gruppo che se li usa per il prossimo album di suc-cesso... loro.” “Se lo ha fatto lo scuoio! Te l’avevo detto io di andare alla S.I.A.E. a fare tutte le pratiche, ma tu come al solito di sborsare i soldi per i diritti niente! proprio un genovese.” “Ma sono dei ladri!Per cinque brani volevano una fortuna!” “Tirchio...” “Vabbè, salutami le altre rumente e vedete di non festeggiare già trop-po. La cosa mi puzza.” “Anche a me non suona tutta dritta ... cosa belin ci viene a fare un talent scout della casa discografica metal più grande d’america in una città come la nostra? Non siamo certo la patria di band da disco di platino ... c’è qualche buon gruppo ma... ” “ Hai ragione Ema, comunque stasera ti chiamo e ti dico tutto, a dopo.” “Ok, ciao Frank.” Come vestirsi per un appuntamento con un personaggio di spicco di una label americana? Di certo non è un appuntamento con una ragazza; però il deodorante dattelo lo stesso Frank che con questo caldo butti fuori più acqua di una fontanella, e non è acqua di fonte a giudicare dall’odore. Niente formalismi: camice, polo, pantaloni eleganti, non è roba che fa per me. Maglietta nera degli Slayer con pentacolo rosso in evidenza e scritta “I’ve made my choice 666” sempre color del sangue, pantaloni corti ne-ri, indispensabili con questo caldo africano, Puma grigie da ginnastica

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ai piedi ... direi che può andare. La receptionist del Bristol probabil-mente avrà dei conati di vomito nel vedermi entrare… gli presterò un sacchettino. Alle otto la città è ancora lucente e calda, di quel calore piacevole che sale dalle pietre e dall’asfalto delle strade avvolgendoti lentamente, senza mai opprimerti. I palazzi stretti tra loro fanno scudo alla luce del sole ormai basso, per evitare che possa ferire i tuoi occhi, come per dire che si prendono cura di te. E’ pieno di ragazzi in motorino che tornano da una giornata al mare, beati ! Sembrano tutti in fotocopia, con quegli occhiali da sole giganteschi che vanno di moda adesso, una canottiera colorata, lo zaino ed il vizio di mangiarsi le unghie mentre guidano con una sola mano il mezzo, e di guardare la gente che cammina sui marciapiedi anziché la strada davan-ti... forse nella speranza di vedere un paio di belle chiappe scoperte. E’ per colpa delle belle chiappe che succedono tanti incidenti in città secondo me, per questo preferisco andare a piedi: posso guardare quan-to mi pare, che il massimo che mi possa capitare è di prendere una fac-ciata contro un lampione o un palo della segnaletica. Una volta, per fare lo screening ad una ragazza in costume, mi sono incastrato con la punta del piede in un tombino e mi sono arrabattato per terra facendo un botto da fucile da caccia, e quanto se la rideva quella stronza ... mi ha dato il numero di telefono poi, ho avuto pure il coraggio di parlarle dopo quel-la figura…però non mi ha assolutamente dato quello che mi interessava avere da lei, ci siamo capiti, quindi il numero ha fatto un salto nel ce-stino. Sotto il ponte monumentale di via XX c’è sempre un po’ di quell’odore pungente di urina di giornata che evapora per il caldo. In realtà anche un po’ tutto il centro storico ha questo odore di ammoniaca sporca che ti violenta l’olfatto, e molto più forte che sotto il ponte monumentale. Le arcate dei portici giocano con il sole, costruendo piramidi di luce ed ombra per terra, e con le voci dei passanti, moltiplicandone il numero fino a far giungere all’orecchio il mormorio di una moltitudine che in realtà non esiste . Sono quasi arrivato all’hotel, e come previsto sono in anticipo, potrei perdere cinque minuti dal tabacchino a prendere le sigarette, peccato che io non fumi. La porta trasparente con le effigi dorate del Bristol Palace Hotel si apre rapidamente non appena giungo sotto lo sguardo della fotocellula.

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Pensavo che visto il mio abbigliamento si sarebbe rifiutata di aprirsi, ma pare che le fotocellule snob non le abbiano ancora inventate. “Buonasera, posso esserle utile?” La formula di cortesia era sublime, ma non era stata pronunciata con uno sguardo molto convinto e cordiale dalla fanciulla della reception, bellissima peraltro. E come potevo dargli torto. “Buonasera, mi attende il signor Judas Phelps, sono Frank Lupi...” “Ma certo!” un sorriso abbagliante era nato d’improvviso sul volto del-la ragazza, forse si sentiva sollevata perché non gli avevo detto “mani in alto, questa è una rapina, dammi tutti i contanti o ti faccio saltare il cervello!” “Prego signor Lupi, si accomodi in sala d’attesa, la faccio accompagna-re all’ultimo piano, alla sala da pranzo.” “Molto gentile, ma ora che so che è all’ultimo piano posso anche pren-dere l’ascensore da solo, non si disturbi.” A guardarla bene ... è proprio una gran gnocca questa receptionist! Gli occhi grandi verde smeraldo circondati da poco ombretto blu, le labbra carnose e sexy, i lineamenti morbidi del viso che si sposano per-fettamente con quel trionfo di capelli rossicci raccolti in modo elegante, e vogliamo parlare delle tette! Oh, si capisce anche sotto la rigida e formale uniforme bianca e verde dell’hotel che sono proprio due belle ed abbondanti pere!Ho sempre avuto una mania per i seni belli grossi. Chissà perché, mentre gli parlo, è spuntato un sorriso a trentasei denti anche sul mio volto. Di sicuro avrò una faccia da ebete allupato. Pecca-to possa vederla solo lei, ci deve essere da ridere. “Come desidera l’ascensore è vicino all’ingresso alla sua destra.” Potrei sfoderare frasi alla 007 del tipo “posso offrirti un martini picco-la” o “quando stacchi bella che andiamo in vita”, ma preferisco fare un ultimo sorriso da ebete e dirigermi verso l’ascensore…non ho chance conciato come sono, e forse non le avrei neanche in tait. “Grazie signorina, arrivederci.” Salgo in ascensore, ci sono anche due turisti, tedeschi sicuro. Hanno i soldi eh? Cacchio, dormire qui una notte deve costare almeno cento eu-ro a cranio. Le valigie della coppia di crucchi hanno creato una barricata davanti alla portiera dell’ascensore, impossibile uscire prima di loro... per for-tuna devo andare all’ultimo piano. Devono essersi già scolati qualche birretta nel pomeriggio viste le guance in stile couperose. Vero è che in Germania l’acqua non sanno manco cosa sia… per cui.

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Mi fanno entrambi un sorrisino stretto stretto di cortesia, quasi un salu-to forzato poiché ci troviamo a dividere lo stesso ascensore. Ricambio ed inizio poi a fissare un punto a caso della scatola volante per evitare di fissarli negli occhi, cosa che regolarmente fanno tutti in ascensore. Se qualcuno in ascensore ti fissa invece di far rimbalzare lo sguardo sulle pareti, e non è una bella gnocca, allora o è un buliccio che vuole farti la festa o qualcuno che ti vuole uccidere o rapinare. In rari casi può essere un compagno delle elementari che cerca di capire se sei vera-mente tu, il bimbo con cui giocava ad un –due- tre- stella tutti i pome-riggi, ma nel dubbio... meglio cercare di uscire fuori vivo. Tin... ultimo piano, sono arrivato. Il pavimento di marmo del corridoio è nascosto da un lungo tappeto co-lor cremisi, con disegni geometrici gialli e verdi molto sottili e delicati alla vista. Il passamano e le scale sono di marmo bianco pregiato, roba da ricchi. La sala da pranzo è davanti a me, oltre la soglia in fondo al corridoio. Una sala quasi ovale, per effetto del soffitto affrescato che la domina, lucente ed ampia, con due grandi finestre che danno sul centro vitale della città. L’enorme lampadario di cristalli trapezoidali pende dal centro; sembra tanto pesante da poter abbattere l’intera struttura col suo peso, ed inve-ce è fermo, ancorato al cuore del soffitto dove putti e vergini coperte da sottili veli colorati si inseguono in un paesaggio di natura surreale ed antica, quasi primordiale. “Buonasera, desidera?” Un cameriere, giacca rossa con due file di bottoni dorati, pantaloni ver-di, guanti bianchi e voce cortese. “Mi attende il signor Phelps al tavolo.” Judas mi aveva già visto.”Frank sono qui, vieni…accomodati.” “Prego signore le faccio strada.” Non sono abituato a tutte queste attenzioni da parte della gente, e non mi piacciono neanche molto. Pensare che c’è gente che vorrebbe essere accompagnata anche al cesso in virtù del conto salato pagato all’albergatore e della costellazione esibita nella targa dell’hotel. “Siediti Frank.” Anche Judas deve essere uno di quei tizi abituati alle galanterie ed ai formalismi: si è alzato in piedi non appena mi ha visto varcare la soglia, ed ora attende che io mi sieda prima di accomodarsi di nuovo a sua vol-ta, indicandomi con la mano aperta il mio posto..come se non vedessi che ci sono solo due sedie al tavolo!

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“E' molto bella questa sala da pranzo vero Frank? Sembra quasi di stare nella residenza di un nobile... ”. “Già…Mi sa che ho sbagliato abbigliamento, al limite potrei fare il giullare di corte conciato così eh eh.” “Effettivamente potevi mettere addosso qualcosa di più elegante.” Per fortuna il suo tono è scherzoso, non l’ho già fatto incazzare ancora prima di sedermi... meno male. “Volevo essere in tema con l’argomento... in fondo stasera si parla del futuro di una band metal! In giacca e cravatta mi sentirei poco credibile.” “Il ragionamento non fa una piega! Ti va di ordinare?” “Certo.” Aperto l’elegante menù rilegato in pelle nera Judas inizia a vagliare le offerte culinarie dell’hotel. Io lo apro solo per sfizio, ma nella mia mente ho già deciso ..due alter-native classiche: pizza e birra o pasta al pesto ed una buona bottiglia di vino bianco…vada per il pesto che magari la pizza non la fanno bene, non credo siano tanti gli alberghi con il forno a legna... se ne esiste uno! “Bene signori, abbiamo un ottimo greco di tufo per vino bianco se pos-so consigliare.” “Ne porti pure una bottiglia grazie.” Judas ha deciso per il vino di etichetta nobile. Io speravo in una bella brocca da litro di vino alla spina, di quello della casa, frizzantino e fresco come una cascata di ghiaccio. Ma anche una bottiglia da quaranta euro ha il suo bel gusto . Ancora più sublime quando paga qualcun altro per te! Parla molto Judas, e senza pause, deve essere una di quelle persone che diventano logorroiche dopo un paio di bicchieri di vino. Lo strano è che il vino non l’ha neanche toccato, ed anche del branzino nel piatto ha assaggiato ben poco. Inappetente ed astemio… il mio esatto opposto pare. “Vedi Frank, dovete cogliere l’occasione al volo …fare da spalla a qualche gruppo più famoso, farvi conoscere prima di far uscire un di-sco... al riguardo ho un’ampia scelta di gruppi prossimamente in tour ai quali affiancarvi, ma dovete essere pronti subito.” Ed io che cacchio gli dico? Che facciamo più cover che altro? Che dob-biamo imparare prima a fare i nostri brani e soprattutto meno errori? Che ognuno di noi ha un lavoro qui..una famiglia... “Siamo pronti a partire anche subito Judas!Non ci sono problemi.”

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Se è vero che ai bugiardi si allunga il naso io ora posso usarlo come scivolo per i bambini! “Queste sono le risposte che voglio sentire!Vieni con me, sul portatile ho tutto quello che ci serve per programmare la vostra scalata verso il successo... eh eh...” Judas mi fa strada camminando elegantemente sul tappeto cremisi del corridoio, il suo passo è sinuoso, poco maschile secondo me, di certo lontanissimo dalla mia camminata da cowboy con la pubalgia. La sua stanza è al piano di sotto, la porta si apre con una tessera magne-tica..che figata, altro che la porta di casa mia. Non ho fatto caso al numero della stanza, poco importa, ero impegnato ad ammirare i disegni assurdi del vestito nero di Judas: contorte linee raffiguranti fiamme degli inferi e creature dannate deformate dalla sof-ferenza che si intravedono a malapena sul tessuto scuro, visibili solo da vicino agli occhi di un attento osservatore. Molto d’effetto non c’è che dire. “Prego accomodati.” Entro nella stanza, magnifica, elegante e comoda al solo sguardo, dai colori morbidi ed accoglienti …clak, la porta dietro di me si chiude. “Ed ora dormi Frank.” “Eh?” Lo sguardo di Judas è come un istante di morte per me, una luce in gra-do di gelarmi il sangue. Non so opporre resistenza, tutto è evanescente e surreale intorno a me, prima del buio. Cado a terra.

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CAPITOLO 6 Odore pungente, acre fetore di morte, non riesco a sopportarlo oltre. Gli occhi si aprono lentamente mentre tossisco in preda alla nausea. Sono legato ad una sedia, avvolto nel piccolo cono di luce di una lam-padina pendente sopra la mia testa. Fuori dal cono solo l’oscurità solca-ta da sagome che non riesco a distinguere. “Aaaaah!” L’urlo esce da solo gonfiando le vene del collo a dismisura, mi dimeno come uno psicopatico in camicia di forza, urlo di nuovo e sbavo sulla maglietta per lo sforzo intenso e la paura che mi butta in vena continue dosi di adrenalina. Non sento dolore ai polsi, solo caldo, ma so che stanno sanguinando per i miei tentativi di rompere i nodi della corda. Quasi mi stacco una spalla per cercare di liberarmi... “Feroce… proprio come un lupo in gabbia... non potevo sperare di me-glio caro Frank!” “Bastardo maniaco! Che cazzo vuoi da me? Slegami! .. Slegami e ti rompo le ossa!” La mia faccia è rossa e tesa mentre urlo, colano lacrime calde dagli occhi, e non sono lacrime di paura ma di pura furia omicida. “Liberami o ti ammazzo!” “Eh eh eh… quanta violenza Frank, stai calmo..non ti farò del male... adesso...” L’odore di morte marcescente torna a togliermi il respiro, la nausea ha il sopravvento, riesco a non vomitarmi tutto addosso scostando la testa all’ultimo, ma ormai il danno è fatto. “Sei debole di stomaco Frank?... Eppure mi sembravi in salute... Ti ho scelto perché sei in salute mio caro amico... mi servi in forma.” Il volto di Judas entra lentamente nel fioco anello di luce, bianco come marmo ma diverso nella sua espressione, non più perfetto ed impassibi-le come la sera del nostro incontro, ma sfigurato da un ghigno malvagio e da uno sguardo da cannibale digiuno.

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Indossa ancora gli abiti della cena, non devo essere rimasto stordito a lungo allora, ed il suo passo mentre si avvicina è sempre sinuoso e lento come quello di una donna, o di una serpe. “Guarda!” Mi tira per i capelli piantandomi le unghie appuntite nel cranio per co-stringermi ad alzare lo sguardo e con l’altra mano spinge la lampadina che inizia a dondolare come un’altalena. Vedo ombre confuse, angoli di pietra che la luce agitandosi riempie per pochi secondi, e poi loro, come illuminati ad intermittenza, loro, cada-veri in putrefazione di giovani ragazzi come me, dilaniati da ferite che sembrano provocate da morsi, deturpati ancora dall’espressione di ter-rore che li ha accompagnati verso la fine. Saranno decine, ammucchiati come legna da ardere, alcuni addirittura smembrati e dispersi nel mucchio dei cadaveri. La mia furia omicida lascia spazio ad un’ondata di terrore e gelo. Non avevo ancora provato nella mia vita la vera essenza del terrore. Quella del dolore forse sì, della disperazione qualche volta, ma mai ero stato preso nella morsa della paura così strettamente, tremante ed ansi-mante, con gli occhi sbarrati, sperando in una fine rapida, senza l’agonia atroce che i cadaveri di quei ragazzi davanti a me raccontavano con le loro carni sparpagliate sulla pietra. “Che..che..che cosa sei… tu sei pazzo...” “No Frank, tutto quello che vedi non è opera della pazzia, tutt’altro! Sono solo cavie, esperimenti falliti, miseri tentativi compiuti dal sotto-scritto di trovare il figlio prediletto, l’incarnazione del mio sogno.” Nel parlarmi mi fissava negli occhi da pochi centimetri, sussurrando le parole con voce cavernosa, non umana, alitandomi addosso un fetore insopportabile di morte, come se la morte stessa nascesse dalla sua go-la. Continuando a parlare inizia a passeggiare per la stanza come in una macabra danza da giullare dell’inferno. “Chi credevi che fossi... davvero Judas Phelps? Un talent scout ameri-cano? Qui nella tua piccola e buia città ?... Sei davvero un illuso Frank, un credulone…No... Io sono molto più di uno scopritore di merdosi gruppi metal, io sono il tuo nuovo padre, il tuo nuovo… dio...” La mano d’avorio afferra la lampadina danzante che continuava ad o-scillare e la ferma fissa sopra la mia testa, gocce di sudore freddo mi solcano il viso ed il torace, le risate di quell’essere mi dilaniano i tim-pani.

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“Ed ora riposa mio guerriero, ti attendono dure prove per dimostrare di essere degno della mia stirpe… ma io ho fiducia in te, ah ah ah…e se mi sbaglio vuol dire che morirai come tutti gli altri, ed io mi godrò ogni momento della tua morte come consolazione... buonanotte.” Le suole di legno delle scarpe nere di Judas battono la pietra grigia e ruvida mangiata dal tempo, la luce fioca si spegne d’improvviso la-sciando spazio ad una tenebra totale traversata solo dal fetore dei morti. “Ehi! Bastardo! Dove vai!... Dove cazzo vai!... Accendi la luce male-detto!... Accendi la dannata luce! Judas!!” Dopo minuti di totale apatia, torna come un’onda di tempesta la furia, accompagnata dal suo fratello, il terrore, ormai indissolubilmente legato a me in questa cella di pietra. Sento il calore del sangue nelle mie braccia e nel cervello, e nuovamen-te mi dimeno urlando tentando di liberarmi dalle corde ... inutile.anche la sedia non può essere spostata ... è di pietra, fissa al pavimento della cella…sanguino. Da piccolo avevo imparato a non avere più paura del buio, a non vedere più le ombre di strani demoni e fantasmi frutto della mia fantasia che nascevano dal nulla per divorarmi.Ora quella paura è tornata, più forte di prima, forse perché qui qualche demone pronto a divorarmi c’è ve-ramente a quanto pare, e la cosa proprio non mi va giù. La cosa mi terrorizza.

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CAPITOLO 7 Non c’è aria, o forse è quello che credo io, visto che se così fosse do-vrei essere morto già da un pezzo. E' che questo fetore mi impedisce di respirare, mi tortura lasciandomi senza pace immerso nel buio. Rumore di passi, piccoli passi, piccolissimi e veloci, forse di topi…ci mancavano solo loro a questa serata di gala. Vorranno assaggiarmi un po’ visto che sono legato e sanguinante. Devo essere proprio una prelibatezza per i loro fini palati di ratti di fo-gna. Probabilmente si sono stufati di rosicchiare cadaveri putrescenti, e pre-feriscono la mia carne fresca e soda. Che bella morte che mi aspetta!... Oltre ogni più rosea previsione! Dimenarsi continua a non portare risultati apprezzabili e lo stormo di roditori sembra essere ancora più vicino a me, sempre se di roditori si tratta visto che non ci vedo un emerito. Ma non conosco molti altri a-nimali che facciano squit squit sulla faccia della terra comunque. D’improvviso il silenzio, uno schiantarsi di piccole ossa frantumate dal-la mano di un gigante, la fuga disordinata e frenetica delle piccole crea-ture terrorizzate dal nemico invisibile ai miei occhi. Di nuovo silenzio... “Chi sei ?... Non ti vedo... Dove sei? ... Aiutami!” Per una manciata di secondi l’aria non sembra volermi portare risposta alcuna, ed un nuovo brivido di terrore mi percorre la schiena bagnando-la. “Ssssh…zitto... ” Una voce profonda, ma lieve e gentile al mio orecchio, amica più di qualsiasi amico a me caro in questo momento. Le corde cedono d’improvviso, come tagliate da cesoie affilate, una mano fredda e viscida mi afferra il polso. Non faccio certo lo schizzino-so, mi lascio guidare nel nero più completo, camminando verso non so dove…ma lontano da quest’inferno, spero. Minuti interminabili senza luce, accompagnati dal respiro pesante del mio salvatore invisibile; minuti di silenzio e concentrazione sul percor-so della fuga.

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In fondo una luce, piccola e tonda come una stella, mi scalda il cuore e mi fa sentire già al sicuro. Il tunnel si stringe, usciamo carponi e fatico nel far nuovamente lavora-re i miei occhi ingannati da ore di tenebre profonde. “Non urlare...” Il mio salvatore, così lo chiamerò finché non saprò il suo nome, mi co-pre rapidamente la bocca con la mano, come se sapesse già che avrei urlato…E così ho fatto, non potendo credere a quel che vedevano i miei occhi. Orribile come un feto malformato, dalla testa deforme e molle come il corpo di una medusa, con gli occhi piccoli e storti circondati da bolle putrescenti, le labbra solcate da infiniti tagli e croste, il naso, se così lo si può chiamare, formato solo da due fori asimmetrici e storti scavati in quel volto terrificante. E le mani, bianche come quelle di Judas ma dotate di artigli neri lunghi come coltelli da cucina. “So che quello che vedi non è... ecco... normale per te... ma in questo momento non ho le forze per recuperare il mio aspetto umano… dob-biamo fuggire prima che Xeth ci trovi.” La sua voce è cavernosa, non umana, come quella di Judas mentre mi parlava delirando nella prigione di pietra. Trovo il coraggio di spostare la sua mano eburnea dalle mie labbra. “Chi sei?... chi è Xeth?... Che accidenti succede qui?” “Troppe domande... vieni, ti spiegherò tutto dopo che saremo fuggiti di qui... fai presto...” Conviene che inizi a correre dietro il mio salvatore prima di restare se-polto in questo luogo sconosciuto, anche se le gambe per alcuni secondi restano paralizzate, ancora gelate dalla visione di quella creatura de-forme. Intorno a me muri di pietra antica, consumata ed umida, solcati da seco-li di rivoli di acqua nera e maleodorante, ma nonostante tutto ancora so-lidi e fieri come guardiani immortali. L’acqua nera come la notte scorre in un canale al centro del tunnel alla mia sinistra… credo di essere in una fogna, una fogna antica, magari romana… non so molto di queste cose anche se al liceo ero stato obbli-gato a studiare storia dell’arte, ma prendevo regolarmente dei votacci. Il percorso di fuga è avvolto da una tenebra densa, tagliata di tanto in tanto da bagliori provenienti da falle nelle pareti, o da grate comunican-ti col mondo esterno.

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A giudicare dalla debole luce, forgiata dal blu e dall’argento lunare, nel mondo esterno deve essere calata già la notte, ma una notte stellata, dominata da una luna piena e lucente e da astri infuocati in grado di il-luminare il cammino dando agli alberi ed alle strade un nuovo colore, forse ancora più bello del colore abbagliante e variegato del giorno. Scorgo nella schiena gobba e contorta del mio salvatore, che mi prece-de nella fuga, ferite profonde e lunghe, come provocate da spade affila-te, e brandelli di carne mancanti, strappati dalla furia dei morsi di una bestia carnivora. “Ehi rallenta! Non siamo abbastanza lontani?... Dimmi chi sei!” La vista nella penombra del suo viso tumefatto mi provoca nuovamente un tuffo al cuore, nonostante abbia già contemplato poco prima, in pie-na luce, quell’abominio. “Il mio nome è Seyoth …e non saremo al sicuro finché non avrò ripara-to questo corpo mortale. In queste condizioni Xeth potrebbe ucciderci entrambi con una sola mano... quindi smettila di fare domande... e seguimi.” Una griglia d’acciaio chiude la fine del tunnel, e da essa si vede il bo-sco, probabilmente ci troviamo sulle alture sopra la città, non so dove. Seyoth apre la grata di ferro robusta spaccando la serratura con una semplice spinta della mano destra, nessuna fatica, nessuna resistenza del metallo alla sua forza…sono definitivamente convinto che il mio salvatore non sia per niente umano. Gli alberi con le loro radici spesse e nodose disegnano lo stretto sentie-ro per scendere il dirupo costellato di pietre e rifiuti di ogni genere, but-tati dalla strada nel bosco da qualche orda di deficienti, così deficienti da non sapere che è più comodo chiamare l’azienda dei rifiuti urbani per farsi ritirare da casa televisori rotti e vecchi frigoriferi piuttosto che caricarli a fatica in macchina o sulle spalle e gettarli giù da una collina. Vedo addirittura una vecchia macchina scura gettata in pasto ai rampi-canti, consumata dalla ruggine e dalla natura che cerca di inghiottirla con ferocia per nascondere quello scempio…avevo già visto discariche abusive simili sulle colline del Righi, sopra la città, quindi credo di aver capito finalmente dove ci troviamo. “Devi portarmi in un luogo sicuro…” “Frank, mi chiamo Frank.” “Frank... già... Ho bisogno di recuperare le forze, ed a me non basta semplicemente dormire per farlo. Mi serve un luogo sacro, dove io pos-sa tornare alla mia forma originaria.” “Che vai dicendo..non capisco.”

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“Un cimitero... Frank! Un luogo sacro, hai capito adesso? Guidami sino a lì ed avrai tutte le risposte che cerchi ... Ora non possiamo perdere al-tro tempo.” “Aspetta...” Scorgo, impigliato e lacerato da un ramo di un albero più in basso, un telo nero di un tessuto spesso, scendo con passi corti e rapidi a racco-glierlo per darlo a Seyoth... “Copriti con questo, meglio che nessuno ti veda o sarebbe un vero casi-no.” “Sono davvero così orribile agli occhi di voi umani Frank?” “Oh sì…Davvero uno spettacolo disgustoso amico, senza offesa... Ma se qualcuno ti vedesse in faccia inizierebbe sicuramente ad urlare in preda al panico e ciao segretezza. Invece con questo addosso al limite possono pensare che sei un matto, o che hai addosso un burka.” “Farò come dici, forse hai ragione. Ora però conducimi dove ti ho chie-sto... prima che io muoia.” “Morire?... In effetti, hai una brutta cera... ma non credo che un mori-bondo sia capace di rompere grate di ferro con una sola mano come te!... devi essere in forma smagliante amico.” Gli mollo un’amichevole pacca sulla spalla destra, lui si gira fulminan-domi con lo sguardo. Dopo lo scampato pericolo il mio caro vecchio sarcasmo è già tornato a sollevarmi lo spirito, ma il mio salvatore non sembra proprio compia-cersene ... anzi, sembra proprio sul punto di incazzarsi di brutto. Mai far incazzare uno che stritola ratti e sfonda le grate a mani nude. “Ok... scusa, non è il caso di scherzare ora, hai ragione... Ti porterò al più vicino cimitero, anzi voglio esagerare... ti porterò al cimitero di Staglieno. E’enorme ... e anche un patrimonio artistico dell’umanità sai? Lì di sicuro troverai tutta la sacralità che ti serve.” Per arrivare così lontano serve un mezzo però, penso tra me e me. Po-tremmo rubare facilmente un’automobile scardinando le portiere vista la forza incredibile di Seyoth, ma non mi pare il caso di iniziare a fare il ladro a quasi trent’anni suonati, e soprattutto di attirare l’attenzione del-la polizia. Che gli racconto se mi beccano? Che il mio amico è un so-pravvissuto di Cernobyl? Che stiamo andando ad una festa in masche-ra? No. Meglio scendere sino a casa mia e prendere il mio schifo di mac-china, tanto a naso non dovremmo essere tanto lontani. Sbucando in un sentiero più largo in mezzo al verde vedo in lontananza delle reti ed un’area di terra battuta... ma certo... il campetto della Rai!

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Lo chiamavamo così perché è sovrastato da un’antenna enorme, di quelle della televisione, che incombe sul campo da gioco in terra battu-ta dilaniato da spuntoni di pietre provenienti dal sottosuolo. Quanti pomeriggi d’estate passati a giocare con gli amici, quanti ricordi di ginocchia dolorosamente sbucciate e gomiti squarciati dal terreno o-stile. Ed ora che ci penso, giocare sotto un’antenna della Rai non deve aver giovato molto alla mia salute. Ora non si parla altro che di tumori e leucemie provocati dalla vicinan-za di questi cosi! Ma da ragazzino che ne potevo sapere io? E poi sto bene no? E’ questo che conta... morire dobbiamo morire tutti... ma una strizzata di palle è d’obbligo. Ci troviamo quindi a neanche mezz’ora di cammino da casa mia allora, che fortuna. Basta scendere via Cabella tagliando le curve per le varie scalette, camminando lenti e guardinghi visto che Seyoth fatica parecchio a re-spirare ed a camminare, inoltre il drappo nero che lo copre non è certo d’aiuto. In giro non c’è anima viva, deve essere notte fonda ... maledetto il mio vizio di non portare mai un orologio al polso. E pensare che i parenti me ne hanno regalati a iosa, per la cresima, per il diploma, per i diciot-to anni... proprio vero che mi conoscono quasi niente. Credevo di riuscire ad arrivare a casa, ma la necessità di urinare è deva-stante. Uno degli alberi delle aiuole di piazza Manin andrà più che be-ne. Sto per scoppiare. “Ma che fai Frank! Perdiamo tempo.” “Piscio non vedi? Sono stato legato ad una sedia per ore e con quello che ho visto è già un miracolo che non mi sia pisciato nei pantaloni!” “E se qualcuno mi vede? Dai...” “Ma voi cosi... insomma la tua razza..non pisciate mai?” Mentre parlo mi libero contro l’ampio tronco di un albero dell’aiuola provando un indescrivibile senso di piacere misto a libertà infinita…se non avessi mai scopato direi che questo è il vero orgasmo maschile. “No, non ne abbiamo bisogno.” “Neanche di fare la cacca? Chissà che accumulo di sostanze tossiche hai dentro, ti consiglierei di provare… è anche divertente a volte!”. Sarcastico Frank, stai prendendo per il culo una creatura abominevole e forte come un elefante, giochi col fuoco. “Non prendermi in giro umano…se non avessi bisogno del tuo aiuto ti spezzerei le ossa come carta.”

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“Ok..hai vinto... scusa... ecco ora sto anche per cagarmi sotto...” “Tienitela! E portami in questo fottuto cimitero!” La sua voce bassa e minacciosa sembra quella del cantante dei Cryptopsy nella sua forma più smagliante. Cazzo, magari sapessi farla anch’io. Il cimitero non sarebbe poi così distante a piedi, ma vista l’ora e la re-cente camminata nei boschi è meglio prendere la mia carretta bordeaux per andare a far visita ai morti nelle loro lapidi. Cosa mai se ne farà poi di un cimitero pieno di scheletri e statue questo pazzo. Chissà.La macchina scende verso le rive del Bisagno, l’aria dal finestrino mi tiene concentrato, guardo con la coda la sagoma nera di Seyoth ed ancora non credo a quello che mi sta accadendo stanotte. Di certo è un gran bel casino.

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CAPITOLO 8 “Non mi dirai mica che hai intenzione di sfondare anche la cancellata del cimitero a manate! Sarebbe il modo migliore per far arrivare di cor-sa orde di poliziotti incazzati...” “Credi che io sia così stupido? Guarda che tra i due l’essere inferiore sei te Frank! Non dimenticarlo mai.” A sentire certe frasi mi vien quasi voglia di ridere. Certo io non sarò in grado di buttare giù grate di ferro come fossero fogli di carta, ma per-lomeno non sembro il figlio malformato di una medusa gigante! Chi è l’essere inferiore allora? “Questo non è il mio normale aspetto materiale Frank, è stato Xeth a ridurmi così…” “Che fai, mi leggi nel pensiero? Ma porca putt...” “Intuisco qualcosa, non è un vero e proprio leggerti nel pensiero. E’ come se ricevessi dei segnali dal tuo corpo che mi svelano in antici-po le tue intenzioni… ed a volte riesco ad intuire alcuni dei tuoi pensie-ri, come adesso”. “Smettila subito! Questa è violazione della privacy hai capito? Comin-cerò da subito a pensare a cumuli di merda secca... anzi, a vecchie ul-tracentenarie rinsecchite nude e vogliose, così ti verrà da vomitare a leggermi nella mente !”. “Ah ah! Sei proprio un soggetto anomalo tu.” Stavolta la prende sul ridere anche lui. Strano. “Io anomalo?... Io?... E di te che mi dici eh?” “ Dico che è ora di entrare.” Pochi secondi di adrenalina pura, come una mini corsa sulle montagne russe più veloci del mondo. Seyoth mi cinge la vita con il braccio destro e spicca un balzo sino alla volta di pietre sopra l’alta cancellata del cimitero, poi si aggrappa con una sola mano alle pietre della volta e si dalla spinta per superare le mura di cinta con una lunga giravolta. Mi sembra di volare su uno di quei caccia che fanno le evoluzioni in cielo.

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Atterra sui piedi come niente fosse, e poi mi libera dalla presa accen-nando un compiaciuto sorriso di superiorità sulla bocca devastata da ta-gli e croste. Sono ancora attraversato da un lampo di vertigine e stupore quando Se-yoth improvvisamente cade a terra in un gemito di dolore. “Che succede, che hai?” “Inizio… inizio a non farcela più Frank... mi mancano le forze... ho bi-sogno di rigenerarmi.” “E ti arrendi adesso? Non hai detto che ti serviva un posto sacro per ri-prenderti? Ora ci siamo..dai tirati su.” Nel gesto di aiutare Seyoth a rimettersi in piedi ho messo tanta forza che quasi rischiamo di ricadere entrambi all’indietro. Chissà perché credevo che un essere tanto potente dovesse pesare una quintalata, ed invece è leggero come una piuma, come una bimba di dieci anni, anzi forse ancor meno. “Pesi poco Seyoth… ti danno da mangiare a casa?”. “Non ho bisogno di mangiare per vivere.” “See... l’ultimo che ha detto così si trova sotto una di queste lapidi del cazzo. Per forza ti senti debole amico... devi mettere qualcosa sotto i denti ogni tanto!” “Smettila con il tuo stupido sarcasmo umano! Non sopporto di essere preso in giro da una nullità come te!” “Permalosetto eh? Non so se ho ancora voglia di aiutarti a fare quello che devi visto che mi stai trattando come una merda...” “Non c’è bisogno che lo aiuti ancora Frank…avrò io cura di lui ades-so...” La voce di Judas, anzi di Xeth, discende come azoto liquido sui nostri corpi. Giro lentamente il collo solcato da gocce di sudore freddo per permette-re agli occhi di vedere quello che in realtà non avrei voluto vedere mai più nella vita... la faccia sghignazzante di quell’essere disumano, ancora bianca e perfetta, deformata impercettibilmente solo dalla sua malvagità debordante. Sta ritto in piedi sulla cupola di un’alta tomba monumentale di fami-glia, con le braccia conserte, aspettando probabilmente che uno di noi due inizi a supplicarlo in ginocchio per aver salva la vita. “Xeth…lasciami tornare indietro tra le anime, non interferirò con i tuoi piani te lo prometto...” “Non ti credo Seyoth!… perché dovresti smettere di interferire visto che non fai altro da quando ti sei materializzato sulla terra! So che sei

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stato inviato per fermarmi, e so anche che il Gran Consiglio ha deciso di tagliare i ponti con questa dimensione, e per questo sta cercando un modo di chiudere per sempre i portali... no Seyoth…neanche in nome del nostro eterno legame ti risparmierò… è ora che anche un’anima come te conosca la morte!” “Anime?... Morte?... ma che andate blaterando voi due?” “Zitto umano! Dopo Seyoth sarà il tuo turno... sempre che non decida di divertirmi ancora un po’ con te.” Come un soffio di vento Xeth plana dalla cupola della tomba, allargan-do le braccia in volo come fossero ali di pipistrello. In tre rapidi passi sopraggiunge ed afferra la gola di Seyoth con una delle sue mani dai lunghi artigli sollevandolo da terra, mentre con la mano libera mi rifila uno sganassone che mi proietta sul prato almeno a dieci metri di distanza con la faccia pulsante per il dolore, tipo sirena dei pompieri per intenderci. “Sei troppo debole per resistermi, povero il mio Seyoth…ho fatto pro-prio un bel lavoretto con te.” “Nnngh!... Xeth... se mi uccidi... il Gran Consiglio manderà altre anime a darti la caccia..non puoi farcela... ” “Tu credi? Che mandino pure altri stupidi ed inetti pacifisti ….sarà una gioia torturarli ed ucciderli come te!” La mano libera di Xeth estrae ancor più i suoi artigli color dell’ardesia e penetra nel petto di Seyoth lacerando la carne come fosse burro, gli or-gani interni vengono catapultati a terra in rivoli di sangue denso e scu-ro, non umano, simile a pece, infine, mentre urla devastato dal dolore, il cuore del mio salvatore viene strappato dalla furia del suo assassino che lascia cadere a terra il cadavere per gioire della vista dell’organo ancora pulsante nella sua mano, quindi lo stritola nel pugno sino a farne polti-glia cremisi. “Nooo! Bastardo!” “Ah Ah... tanta compassione per lui? Eppure lo conoscevi da così poco. Che spirito nobile.” Terrorizzato provo ad elaborare con lo sguardo un percorso di fuga mentre mi trascino all’indietro con le mani ed i piedi come un gambero per qualche secondo sino a tirarmi in piedi. Parto come un centometrista dando la schiena a Xeth, correndo a tutta velocità verso il centro del cimitero. “Non puoi sfuggirmi Frank…”

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La sua voce mi penetra i timpani mentre si materializza il suo volto di cera davanti ai miei occhi increduli… mi ha già raggiunto, alla velocità di un lampo di luce. Il fiatone mi piega sulle ginocchia impedendomi di reagire prontamente al pericolo. Vengo raggiunto da un altro manrovescio che mi proietta a terra dopo un lungo volo, facendomi urtare il gomito destro contro una lapide di marmo …stavolta il dolore è quasi da svenire. Probabilmente si è fra-cassata tutta l’articolazione. “Quelle che ti sto dando sono carezze Frank…dolci e leggiadre carez-ze…pensa se volessi farti veramente del male. Potrei ridurti in poltiglia le ossa con una mano o mozzarti la testa con i miei artigli!” “Perché non lo fai subito allora merda? Almeno la finiamo qui con que-sta storia... ” Maledetta linguaccia, ho scritto la mia condanna a morte. “Sarebbe troppo facile così Frank…solo un attimo di dolore e poi la morte, il nulla, l’oblio. Ed io che piacere ne riceverei se non il misero gusto dell’omicidio? Tu vivrai ancora Frank. Vivrai a lungo, come mio schiavo! Perché io ti ho scelto tra migliaia di uomini per essere il mio servitore fedele... ” “Vattene a trovare un altro brutto stronzo.” Pam! Un’altra sberla mi colpisce il volto all’improvviso catapultandomi contro la statua di un angelo, stavolta uno spigolo di marmo nella schiena mi fa urlare come un agnellino alla mattanza…non deve aver preso la spina dorsale credo, ma fa un male cane. “Non si risponde così al tuo nuovo padrone lo sai? Potrei offendermi e ridurti a brandelli come gli altri ragazzi che ho portato nelle mie prigio-ni…Vuoi forse fare anche tu quella fine orrenda?” Una mano gelida mi costringe a sollevare lo sguardo verso i suoi occhi, come smeraldi in cui scorrono assieme torrenti d’acqua e turbini di fuo-co. “Oppure preferisci diventare… immortale come me, Frank.” “E perché mi faresti un regalo simile?... Perché proprio a me?” “In effetti, non saresti un vero e proprio immortale mio caro ami-co…saresti più il mio servo, il mio cane…ma finché ti vorrò tu vivrai. Se fai il bravo potresti tirare avanti secoli, senza invecchiare mai. Allo-ra ci stai?” Un vero eroe dei fumetti avrebbe detto: “Mai bastardo! Ti sconfiggerò in nome dell’umanità!”

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Ma io non sono un eroe, non rispondo, semplicemente guardo a terra e penso a quanto temo la morte, e che ogni compromesso val bene il re-stare in vita. In fondo sono sempre stato schiavo di qualcuno o di qualcosa nella vita, dal datore di lavoro alla bottiglia di rum, si tratta solo di cambiare pa-drone… che sarà mai. Addio umanità di Frank. FINE ANTEPRIMACONTINUA...