Victor Saxer - Il culto cristiano nei due primi secoli

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Il culto cristiano nei primi due secoli. 1 [PC 511.1] Il culto cristiano nei due primi secoli Prof. Victor Saxer. Introduzione generale: è una tematica piuttosto particolare e difficile che va alla radice del culto stesso, nel quale non sono estranei l'influsso ellenistico ed ebraico; si tratta di un culto che si sviluppa dalla radice ebraica e in certe forme anche dall’influsso ellenistico, ma non sopravalutiamo questo ultimo aspetto perché le radici ebraiche restano fondamentali. Nella lingua di oggi la parola culto è più ampia. Il culto antico come quello di oggi svolse un ruolo pubblico, come prima istituzione, intesa come un’espressione che si annuncia nel terreno della teologia; esso diventa espressione viva della funzione sacerdotale di Cristo. Si tratta di un culto reso a Dio dalla Chiesa: quelli che partecipano a questo culto sono i fedeli, cioè coloro che sono chiamati nella Chiesa; si tratta del popolo eletto (è un’espressione presa dalla letteratura biblica). Questo culto si rende evidente per mezzo di segni sensibili e tramite riti istituiti nel vecchio culto. Questa definizione un po’ complessa la si può trovare nel volume La Chiesa in preghiera, di Martimort, Vol. I (Principi della Liturgia). Una tale definizione è il frutto di una evoluzione del culto che in origine non aveva questa complessità, perché la liturgia primitiva era diversa dalla nostra. Come ogni cosa viva questa istituzione è cresciuta come un albero che inizia la sua vita proprio dal seme. Le fonti di cui ci serviremo partiranno dagli scritti neotestamentari, non escludendo però quelli dell’Antico Testamento. Oltre a questo fatto abbiamo altri caratteri che riguardano il culto: in primo luogo c’è un carattere liturgico e canonico che si esprime, nei primi secoli attraverso canoni conciliari ed altri scritti che spesso vengono messi sotto il nome degli Apostoli, anche se non sono tutti di origine apostolica, come ad es., la Didaché o dottrina dei dodici Apostoli. Abbiamo anche una didascalia degli Apostoli che è molto simile alla Didaché: si tratta di u insegnamento degli Apostoli che risale alla prima metà del III secolo, la cui origine è sicuramente siriana. Dunque, oltre all’aspetto teologico e a quello che si detto sopra, nel 380-390 ci sono le costituzioni apostoliche, presenti in otto libri contenenti prescrizioni di diversa natura che vengono messe nella bocca degli Apostoli; evidentemente si tratta di una finzione letteraria, ma tale sforzo di mettere questi scritti sotto l’autorità degli Apostoli riguarda innanzitutto scritti liturgici, sia il sentimento che la liturgia cristiana. Si tratta di scritti che trasmettono in modo più o meno diretto l’insegnamento di Cristo e di Dio: uno di questi è il Testamentum Domini che intende presentarsi come dottrina cristiana sotto il nome di Gesù. A tutto questo c’è un’altra serie di documenti di carattere diverso perché si trat ta di testi apocrifi dei quali rimane più difficile stabilire la datazione: un esempio concreto sono le Odi di Salomone, che sono degli inni battesimali; si tratta di uno scritto giudeo cristiano del II-III secolo. Seguono gli atti apocrifi degli Apostoli, come quelli di Giovanni o di Tommaso, dove si trovano formule battesimali ed altre formule eucaristiche. Si tratta generalmente di formule molto arcaiche. Eccezionalmente abbiamo propriamente conservati testi liturgici antichi, cioè testi di preghiera liturgica, come le anafore (di preghiere vere e proprie) per la consacrazione delle specie del pane e del vino (il canone della messa); così abbiamo due o tre testi di questo tipo. Una di queste anafore è relativa all'ambiente siriaco, perché rispetto alla Didaché, che riporta la scritta in greco, essa riporta una scritta orientale. Siccome questa preghiera è rimasta in uso ininterrotto fino ad oggi, la forma sotto la quale esiste attualmente è ampliata. Un altro testo di questo tipo è il contenuto della Didaché (di origine molto antica che va dall’anno 100 agli anni 110-120), al quale segue un altro testo che ci è stato tramandato da un papiro egiziano del V secolo, conservato all’Università di Strasburgo nel quale si può trovare uno degli estratti più antichi risalenti al III o IV secolo. Infine ci sono testi letterari, patristici, agiografici e epigrafici, anche se si tratta di una documentazione frammentaria e incompleta: questi documenti saranno presentati nell'ordine cronologico e geografico, perché rimangono le due coordinate essenziali nell'ambito della ricerca. Si tratta di coordinate spazio-cronologiche. In questo corso esamineremo anche i principali riti, come l'iniziazione, l'eucaristia ed altri momenti liturgici. COORDINATE SPAZIO TEMPORALI NEL MONDO PRIMITIVO. Il culto giudaico era essenzialmente legato al tempio di Gerusalemme; era il solo culto della liturgia ufficiale. Solo con l'esilio di Babilonia sorsero le sinagoghe come dei luoghi di preghiera, ma non furono mai luoghi di culto per l’offerta dei sacrifici perché ciò avveniva solo nel tempio. Il culto sinagogale comportava delle letture, dei canti e un’istruzione. Queste tre parti verranno tramandate tali e quali nel mondo cristiano e costituiranno la prima parte della messa, quella che noi chiamiamo Liturgia della Parola; invece, per la parte sacrificale non c'è più alcun legame tra il culto giudaico e quello cristiano, perché il sacrificio cristiano è un sacrificio incruento e non consiste nell’uccide re degli animali in onore di Dio; quest'ultimo, tra l’altro, è anche esso legato ad un luogo ed ad un tempo determinato. Però queste coordinate spazio-temporali avevano ed hanno nei referti cristiani primitivi un’importanza molto diversa non solo dal rito ebraico, ma anche dal nostro culto odierno. E’ una considerazione importante che dobbiamo avere sempre davanti agli occhi perché si tratta del nucleo del culto antico che rimane sostanzialmente diverso dal culto odierno . Allora un primo capitolo deve essere dedicato ai luoghi di culto. I giudeo-cristiani del tempo rimasero fedeli al culto del tempio (es., gli Apostoli che ogni giorno salivano al tempio per le ore di preghiera: la nona, per il pomeriggio);

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Il culto cristiano nei primi due secoli. 1

[PC 511.1]

Il culto cristiano nei due primi secoli

Prof. Victor Saxer.

Introduzione generale: è una tematica piuttosto particolare e difficile che va alla radice del culto stesso, nel quale

non sono estranei l'influsso ellenistico ed ebraico; si tratta di un culto che si sviluppa dalla radice ebraica e in certe

forme anche dall’influsso ellenistico, ma non sopravalutiamo questo ultimo aspetto perché le radici ebraiche restano

fondamentali. Nella lingua di oggi la parola culto è più ampia. Il culto antico come quello di oggi svolse un ruolo

pubblico, come prima istituzione, intesa come un’espressione che si annuncia nel terreno della teologia; esso diventa

espressione viva della funzione sacerdotale di Cristo. Si tratta di un culto reso a Dio dalla Chiesa: quelli che partecipano

a questo culto sono i fedeli, cioè coloro che sono chiamati nella Chiesa; si tratta del popolo eletto (è un’espressione

presa dalla letteratura biblica). Questo culto si rende evidente per mezzo di segni sensibili e tramite riti istituiti nel

vecchio culto. Questa definizione un po’ complessa la si può trovare nel volume La Chiesa in preghiera, di Martimort,

Vol. I (Principi della Liturgia). Una tale definizione è il frutto di una evoluzione del culto che in origine non aveva

questa complessità, perché la liturgia primitiva era diversa dalla nostra. Come ogni cosa viva questa istituzione è

cresciuta come un albero che inizia la sua vita proprio dal seme. Le fonti di cui ci serviremo partiranno dagli scritti

neotestamentari, non escludendo però quelli dell’Antico Testamento.

Oltre a questo fatto abbiamo altri caratteri che riguardano il culto: in primo luogo c’è un carattere liturgico e

canonico che si esprime, nei primi secoli attraverso canoni conciliari ed altri scritti che spesso vengono messi sotto il

nome degli Apostoli, anche se non sono tutti di origine apostolica, come ad es., la Didaché o dottrina dei dodici

Apostoli. Abbiamo anche una didascalia degli Apostoli che è molto simile alla Didaché: si tratta di u insegnamento degli

Apostoli che risale alla prima metà del III secolo, la cui origine è sicuramente siriana.

Dunque, oltre all’aspetto teologico e a quello che si detto sopra, nel 380-390 ci sono le costituzioni apostoliche,

presenti in otto libri contenenti prescrizioni di diversa natura che vengono messe nella bocca degli Apostoli;

evidentemente si tratta di una finzione letteraria, ma tale sforzo di mettere questi scritti sotto l’autorità degli Apostoli

riguarda innanzitutto scritti liturgici, sia il sentimento che la liturgia cristiana. Si tratta di scritti che trasmettono in modo

più o meno diretto l’insegnamento di Cristo e di Dio: uno di questi è il Testamentum Domini che intende presentarsi

come dottrina cristiana sotto il nome di Gesù.

A tutto questo c’è un’altra serie di documenti di carattere diverso perché si tratta di testi apocrifi dei quali rimane

più difficile stabilire la datazione: un esempio concreto sono le Odi di Salomone, che sono degli inni battesimali; si

tratta di uno scritto giudeo cristiano del II-III secolo. Seguono gli atti apocrifi degli Apostoli, come quelli di Giovanni o

di Tommaso, dove si trovano formule battesimali ed altre formule eucaristiche. Si tratta generalmente di formule molto

arcaiche. Eccezionalmente abbiamo propriamente conservati testi liturgici antichi, cioè testi di preghiera liturgica, come

le anafore (di preghiere vere e proprie) per la consacrazione delle specie del pane e del vino (il canone della messa);

così abbiamo due o tre testi di questo tipo. Una di queste anafore è relativa all'ambiente siriaco, perché rispetto alla

Didaché, che riporta la scritta in greco, essa riporta una scritta orientale. Siccome questa preghiera è rimasta in uso

ininterrotto fino ad oggi, la forma sotto la quale esiste attualmente è ampliata. Un altro testo di questo tipo è il contenuto

della Didaché (di origine molto antica che va dall’anno 100 agli anni 110-120), al quale segue un altro testo che ci è

stato tramandato da un papiro egiziano del V secolo, conservato all’Università di Strasburgo nel quale si può trovare

uno degli estratti più antichi risalenti al III o IV secolo.

Infine ci sono testi letterari, patristici, agiografici e epigrafici, anche se si tratta di una documentazione frammentaria

e incompleta: questi documenti saranno presentati nell'ordine cronologico e geografico, perché rimangono le due

coordinate essenziali nell'ambito della ricerca. Si tratta di coordinate spazio-cronologiche.

In questo corso esamineremo anche i principali riti, come l'iniziazione, l'eucaristia ed altri momenti liturgici.

COORDINATE SPAZIO TEMPORALI NEL MONDO PRIMITIVO.

Il culto giudaico era essenzialmente legato al tempio di Gerusalemme; era il solo culto della liturgia ufficiale. Solo

con l'esilio di Babilonia sorsero le sinagoghe come dei luoghi di preghiera, ma non furono mai luoghi di culto per

l’offerta dei sacrifici perché ciò avveniva solo nel tempio. Il culto sinagogale comportava delle letture, dei canti e

un’istruzione. Queste tre parti verranno tramandate tali e quali nel mondo cristiano e costituiranno la prima parte della

messa, quella che noi chiamiamo Liturgia della Parola; invece, per la parte sacrificale non c'è più alcun legame tra il

culto giudaico e quello cristiano, perché il sacrificio cristiano è un sacrificio incruento e non consiste nell’uccidere degli

animali in onore di Dio; quest'ultimo, tra l’altro, è anche esso legato ad un luogo ed ad un tempo determinato. Però

queste coordinate spazio-temporali avevano ed hanno nei referti cristiani primitivi un’importanza molto diversa non solo

dal rito ebraico, ma anche dal nostro culto odierno. E’ una considerazione importante che dobbiamo avere sempre

davanti agli occhi perché si tratta del nucleo del culto antico che rimane sostanzialmente diverso dal culto odierno .

Allora un primo capitolo deve essere dedicato ai luoghi di culto. I giudeo-cristiani del tempo rimasero fedeli al culto

del tempio (es., gli Apostoli che ogni giorno salivano al tempio per le ore di preghiera: la nona, per il pomeriggio);

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generalmente i sacrifici erano legati all'ultima ora del giorno (sono i sacrifici della sera). I giudeo cristiani rimasero

fedeli a ciò finché esistesse il tempio, ma quando, nel 70 d.C. il tempio di Gerusalemme fu distrutto, ad opera del futuro

imperatore Tito, cessò anche il culto giudaico. Da quel momento l’attività religiosa degli Ebrei si riversò nelle

sinagoghe, anche se il culto giudaico divenne puramente un culto di preghiera.

In tal senso una testimonianza ci viene proprio dagli Atti degli Apostoli che parla dei cristiani che si riunivano nelle

loro case per pregare e per spezzare il pane (fractio panis è uno dei termini più antichi per designare l'Eucaristia). Questa

situazione un po’ complessa dei primi cristiani di Gerusalemme comportava due orientamenti, cioè la fedeltà alle

osservanze giudaiche, da una parte, e, dall'altra, l'osservanza delle tradizioni propriamente cristiane, ma solo nell’ambito

delle loro case. Questa situazione, come si è già detto durò fino alla distruzione del tempio di Gerusalemme, nel 70. Ci

fu qualche sopravvivenza per una cinquantina di anni fino all’arrivo di Bar Kof Bak, il quale negli anni 132-135 fu

domato dall’imperatore Adriano. E’ un momento anche di transizione dove non mancheranno i diversi nazionalismi che

sfoceranno nel sangue. Nel 135 la velleità di indipendenza ebraica fu distrutta completamente e l'entità politica della

religione venne meno. Infatti Adriano costruirà un tempio pagano, al posto di quello ebraico, così da cancellare la

tradizione giudaica.

I cristiani, già prima della distruzione del tempio, si erano in gran parte allontanati da Gerusalemme e gli stessi si

sparpagliarono oltre il Giordano, da Pella fino ad Antiochia ed altre città fuori dalla Palestina. A Gerusalemme la

dinastia dei vescovi giudeo-cristiani finì e al suo posto subentrò quella di vescovi provenienti dall'ellenismo greco. Ciò

cambierà enormemente la struttura della prima comunità cristiana primitiva, il che influì evidentemente anche sulla

struttura liturgica. Ciò ci permetterà di studiare e di comprendere i nuovi aspetti del culto cristiano nel quale si possono

notare due caratteristiche:

a) all’eccellenza del culto ebraico che si celebrava con il sacrificio cruento degli animali, il culto cristiano è

spirituale nella sua espressione ed è sobrio anche nella forma. Dio è spirito in verità e spirito (un esempio concreto è la

samaritana).

b) il culto cristiano non è legato a nessun luogo.

Queste caratteristiche le possiamo già notare nel dialogo di Gesù con la Samaritana al pozzo di Giacobbe (Gv 4,

23-24), dove si trova l’espressione: Dio è Spirito e i suoi veri adoratori lo adorano in spirito e verità. E’ un culto nuovo

che non è legato a nessun luogo. La samaritana obiettava a Gesù: Voi Giudei dite che si deve adorare Dio nel tempio di

Gerusalemme. I nostri Padri con i Samaritani adorano Dio sul monte vicino alla Samaria...Qui si notano dei luoghi di

culto determinati, ma Gesù risponde: Verrà il tempo in cui i veri adoratori lo adoreranno in spirito e verità. Con questo

vuol dire che essi non saranno più legati al tempio di Gerusalemme, né al tempio di Samaria.

Dunque, Gesù nel dialogo della samaritana caratterizza questo nuovo aspetto e lo presenta come un messaggio

escatologico (verrà un tempo in cui...) che creerà nei cristiani l'attesa del ritorno immediato del Signore (1Cor 11,26). Si

tratta di una delle caratteristiche della nuova fede.

Questo culto è anche un culto passeggero e transitorio, non destinato a durare per sempre, poiché è limitato dal

giorno del Signore e a causa della condizione peregrina dell’uomo (Eb 13, 14): tale culto indica la transitorietà

dell'uomo che quaggiù non ha dimora permanente, ma è alla ricerca della città futura. Inoltre questi cristiani hanno

considerato Cristo come presente in mezzo a loro, poiché là dove due o tre erano riuniti nel suo nome era presente (Mt

18,20). Cristo è anche considerato come il solo mediatore tra Dio e gli uomini, perché da Lui ricevono la missione da

compiere: andate e battezzate nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo (Mt 28, 19). Da Gesù ricevono la

regola del culto, cioè della loro condotta: fate questo in memoria di me (1Cor 11,25). Si tratta, dunque, di un culto

spirituale legato alla persona di Gesù, in un certo modo sempre vivo nella Chiesa che diventa il nuovo centro di culto: è

l'ambiente nel quale si realizza la presenza divina; è il nuovo tempio spirituale nel quale sgorga l'acqua viva e nel quale è

istituito il pane della vita (Gv 2, 21 e Gv 6). Dunque, l'assemblea cristiana è il nuovo luogo del culto cristiano, anzi,

nella misura in cui il cristiano fa parte della comunità, anche lui diventa tempio di Dio per lo spirito che abita in lui. Lo

spirito lo consacra al servizio di Dio e lo chiama al dovere della santità personale (1Cor 3, 15-17 e 2Cor 6, 14 sino 2Cor

7,21). Si creano così le condizioni della nuova fede cristiana, così da vedere la prima comunità cristiana di

Gerusalemme secondo At 2, 42, dove si distingue l’espressione: Erano assidui all’insegnamento degli Apostoli, che

indica la comunione fraterna e la frazione del pane (At 2, 46).

In un altro passo degli Atti degli Apostoli viene precisato un luogo dove gli Apostoli si riunivano abitualmente,

dopo l'ascensione: si tratta della sala alta, dove Gesù aveva istituito l'Eucaristia prima della sua morte (At 1, 13). Così si

viene a creare un legame più o meno sentimentale con l’eucaristia che celebravano. Un altro luogo lo vediamo

comparire nel racconto degli Atti 12,12, che riguarda la liberazione di Pietro che si reca successivamente nella casa di

Maria, madre di Giovanni, soprannominato Marco, dove era riunita un’assemblea abbastanza numerosa che pregava.

Un altro esempio lo abbiamo da At 20,8: Paolo, quando ritorna dalla Macedonia per ritornare a Gerusalemme, si

trovò a Tròade, nella regione del Bosforo, dove si reca nella sala alta, nel bel mezzo di una riunione che si era

prolungata tutta la notte, e dove compirà il miracolo risuscitando un ragazzo di nome Èutico trovato morto, dopo essere

precipitato dal terzo piano della casa.

Questo fa comprendere, allora che il culto cristiano si celebrava in una casa qualunque, un ambiente profano dove ci

poteva essere un spazio sufficiente per accogliere una comunità abbastanza ristretta. Da questa testimonianza si può

vedere che quel tempo non esisteva un luogo specifico di culto. Ancora nell’anno 200 Clemente Alessandrino

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giustifica questa situazione con delle considerazioni teologiche: Il culto di Dio non poteva essere legato a un luogo,

poiché Dio stesso, come spirito non era legato ad un luogo. Il culto cristiano e spirituale poteva essere celebrato dal

vescovo. Non è buono e giusto che noi limitiamo l’inafferrabile ad un luogo e che vogliamo rinchiudere quello che

contiene tutto in santuari fatti da mano d’uomo. Da queste parole scaturisce uno dei temi più importanti della polemica

antigiudaica: i pagani adorano le divinità in santuari costruiti da mani d’uomo, mentre i cristiani non adorano tali

manufatti. Nello stesso modo Dio non può essere legato ad un edificio fatto da mano d’uomo. Come, del resto - continua

Clemente - potrebbe essere santa un’opera di architetti, di muratori e di artigiani, se invece il concetto di santità è

compreso in un doppio senso, in primo luogo di Dio stesso e l’opera fatta per la sua gloria. Come allora potremo non

considerare in primo luogo, come santuario di Dio, la Chiesa che una santa coscienza ci rivela creata in suo onore.

Questa Chiesa ha un valore molto più grande senza essere prodotto...ne decorata da mani artigiane e che la volontà di

Dio che rivela è il suo tempio. E intendo, infatti, quando parlo di Chiesa non il luogo, ma la comunità dei credenti.

Questa è il miglior tempio che possa accogliere la grandezza e la maestà di Dio (cfr. Clemente Alessandrino Stromata

7, 5).

Dunque, quando Clemente parla di Chiesa lo dice in senso sociologico e non geografico, cioè un luogo specificato

nell'ambito della funzione pubblica. Si tratta dell’assemblea dei fedeli, non in senso topografico. E’ vero che Clemente

inizia a conoscere anche questo nuovo senso, cioè un luogo specifico per la funzione liturgica, ma rimane fedele

all’antica tradizione secondo la quale è la comunità il vero centro di culto cristiano.

E del resto, quando consideriamo la storia della Chiesa primitiva, sappiamo che nelle città, dove si erano costituite

delle comunità cristiane, come a Gerusalemme, a Corinto, a Efeso, a Colossi e a Roma, i fratelli si riunivano in una casa.

Paolo chiamava questa comunità delle Chiese, cioè delle case dove i cristiani si riunivano. Questa situazione fu quella

dei cristiani durante i primi secoli della loro esistenza, ma la situazione cambiò proprio nel III secolo: ci sarà una casa

del luogo, generalmente di un privato, che sarà luogo abituale della celebrazione del culto cristiano. Così si conosceva

verso l’anno 201-202 ad Edessa della Siria una casa che in quell’anno fu distrutta dall’inondazione. Il che vuol dire che

la casa esisteva prima dell’inizio del III secolo, cioè già dalla fine del II secolo. Anche Tertulliano parla di Ecclesia, di

Domus Dei in senso di edificio, nel De Idolatria 7, nell’Ad Uxorem, Libro duo, cap. 8, e nell’Adversus. Valentinianum

3. Con Clemente Alessandrino abbiamo la testimonianza secondo cui inizia a introdursi l’uso delle case che

regolarmente venivano usate per la celebrazione. Questo fa capire che egli conosce già l’espressione Chiesa nel senso di

edificio, che lui non ama, e nel senso di comunità che lui preferisce.

Anche a Roma Ippolito, nello stesso giro di tempo, nei primissimi anni del III secolo, parla di case di culto che erano

oggetto di attacchi da parte degli Ebrei e dei pagani, mentre i fedeli erano riuniti per la preghiera (cfr. Ippolito,

Commentario al profeta Daniele, libro I , cap. 32).

Anche Origene conosce delle Domus Ecclesiae, nelle quali si faccia preghiera e nelle quali i presbiteri riempiono il

loro ministero in cui l’altare è consacrato dal sangue prezioso di Cristo (cfr. Omelia in Esodo, Libro II, v. 2 e Libro XII,

v. 2; Omelia in Levitico, Libro IX, v. 9). Anche Cipriano adopera la parola Ecclesia in senso monumentale: è probabile

che nelle sue opere la parola dominicum non designi l’edificio di culto, ma la riunione cultuale.

Dunque, è notevole che i più antichi testimoni letterari provengano dall’Oriente in cui, del resto, conserviamo anche

le rovine di una di queste domus ecclesiae: si tratta di Dura Europos che era una casa siriana comune, il cui ingresso non

si trovava nella facciata principale, ma era posto lateralmente. La casa si trovava a ridosso delle mura della città. La

forma era approssimativamente quadrata, dove al centro si trovava un cortile, attorno al quale si sono conservati gli

ambienti del piano terreno. La casa fu adattata al culto cristiano come attesta un’iscrizione del 232. Essa fu distrutta con

tutta la città, nel 260, durante la guerra dei Romani contro i Parti. In questa guerra, condotta in persona dall’imperatore

Valeriano, lo stesso imperatore fu fatto prigioniero e fu ucciso. Dura Europos si trovava proprio sul fronte della guerra

che si sviluppava sulle sponde del fiume. Negli anni novanta è stato localizzata l’esatta posizione della casa, che si

trovava sopra una roccia, a picco sulla sponda del fiume. Era, dunque, posta, insieme a tutta la città in una posizione

fortificata e di difesa. La città, in origine era un campo militare di forma quadrata, con al centro il foro, il pretorio,

mentre il lato occidentale vi era anche una sinagoga. Dopo la distruzione della città la sabbia del deserto ha ricoperto

progressivamente le rovine. Le prime scoperte furono fatte dopo la prima guerra mondiale.

Gli affreschi della casa cristiana furono trasportati dagli Americani nel museo di New York, mentre i resti degli

affreschi della Sinagoga si possono vedere nel Museo di Damasco. Ora, è interessante

notare come questa casa si disponga nei vari ambienti costituitivi, secondo questo

disegno:

Come si può notare essa è di forma approssimativamente quadrata, dove si trova al

centro un cortile. La sala di preghiera è distinta da quella dove viene celebrata la cena,

che fa pensare ad un’analoga distinzione anche nel cenacolo di Sion. Nella parte destra

abbiamo una sala dove è collocato una specie di ciborio, il cui interno era pitturato in

blu con delle stelle. In fondo ad esso troviamo una cavità, sulla quale sono state fatte

diverse ipotesi: la prima sostiene che si sarebbe trattato di una tomba, mentre la seconda sostiene si tratti di una vasca

battesimale; questa seconda ipotesi è più conforme alla decorazione parietale di questo piccolo ambiente che, tra l’altro

è simile a quella delle catacombe romane. Su tali pareti sono raffigurate tre donne con dei vasi in mano che

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Il culto cristiano nei primi due secoli. 4

simboleggerebbero le tre donne che andavano al sepolcro di Gesù, alla mattina di Pasqua. Viene raffigurato anche un

sarcofago, dietro il quale si trovano queste tre donne, che dovrebbe raffigurare la tomba di Gesù. In un altro ambiente

viene raffigurata, a quanto pare, la risurrezione di Gesù, mediante la figura di un uomo che porta sulla spalla un teschio.

Si trova anche la figura di una nave sulla quale sta ritto un personaggio, mentre sull’acqua un altro che cammina. Si

tratterebbe di Pietro salvato dal naufragio sul lago di Tiberiade. Su altre pareti troviamo altre pitture, sempre di natura

biblica, come Adamo ed Eva, Davide e Golia. Ci sono anche altri affreschi di più difficile interpretazione: in queste

scene rappresentate c’è un contesto di guarigione e di riflessione, che si adattano abbastanza bene al tema del battesimo.

Allora, questo fatto rinforzerebbe la seconda ipotesi, secondo la quale quella cavità interna corrisponde al fonte

battesimale.

Ora se in questa casa vi era il battistero, la sala dove esso è collocato potrebbe essere anche la sala della riunione.

Alcuni pensavano di trovarvi l’altare fisso, ma di esso non ci sono tracce ed, inoltre, sarebbe stato un primo esempio di

altare fisso, nell’ambito della prima metà del III secolo. E’ molto più probabile, invece, che si possa trattare di un altare

mobile, che si possa trasportare facilmente. Esso veniva usato solo per la celebrazione liturgica. Allora questo fa pensare

che la bretella situata nella parte destra del disegno, in alto, potrebbe essere il luogo dove sedeva il celebrante. La sala

stessa probabilmente, durante le riunioni, non avrebbe potuto ospitare un numero superiore alle cento persone.

Comunque la scoperta di questa casa a Dura Europos, ha potuto facilitare le ricerche degli studiosi del culto cristiano

antico, anche se, purtroppo, non rimangono tracce significative di altre Domus ecclesiae situate un po’ dappertutto, ma

particolarmente a Roma. Tra queste alcune si troverebbero proprio sotto San Martino ai monti, sotto San Giovanni di

Paolo a Celio, a S. Clemente, a Santa Susanna. Questa teoria non è, però, suffragata da prove certe, come risulta,

nell’analisi dei resti di San Martino ai monti, dalle disposizioni poco convenienti dei resti per una sala di culto. A San

Giovanni di Paolo al Celio i resti raffigurano una sala di una casa comune, con delle decorazioni cristiane. Sembra si

tratti di una sala da pranzo, dove in una delle pareti, in modo decentrato, sarebbe posta una figura aggiunta alla

decorazione primitiva, tanto che si pensa risalga al IV secolo. Per quanto riguarda San Clemente, gli studi e le verifiche

precedenti, dagli anni ’80 sino ad oggi avrebbero permesso una migliore conoscenza dell’edificio. La zona sarebbe stata

distrutta nel ’64, all’incendio di Roma ed i resti della casa sarebbero da situarsi dopo l’incendio di Roma. Però questo

ambiente consisteva in un grande edificio quadrangolare, con all’interno un cortile. Sul lato meridionale si notano degli

ambienti contigui che si affacciano sul cortile. Essi erano molto lunghi (circa 6-7 metri di lunghezza). Questo edificio

del primo secolo rimane tale e quale fino alla fine del II secolo, per poi subire altre trasformazioni nei secoli successivi.

Tale edificio, tra l’altro, avrebbe un primo piano che dà accesso ad una casa di civile abitazione, almeno nella parte

orientale. Della casa, però, rimane ben poco. Nella seconda metà del IV secolo, questo è sicuro, questo ambiente

quadrangolare è stato trasformato in chiesa, al quale, sul lato corto, è stata aggiunta una grande abside di 10 metri di

apertura. Questa sarebbe una chiesa cristiana risalente non prima del IV-V secolo.

Pochi anni orsono è stato ritrovato recentemente il battistero, allo stesso livello della basilica, del VI secolo circa.

Sarebbe stato ricavato anche un ambiente dove il papa vestiva i paramenti per la celebrazione liturgica delle stazioni che

era una celebrazione che si spostava a turno nei diversi luoghi di culto cristiano. Nell’atrio si preparavano i ministri ed i

chierici. Questo cerimoniale lo conosciamo attraverso l’Ordo Romanus Primus.

Dunque della Domus ecclesiae sappiamo ben poco. In merito a i resti di Santa Susanna, negli anni immediatamente

anteriori all’ultima guerra si fecero dei lavori che distrussero una parte di un edificio antico. In questo caso, dai resti

venuti alla luce si tratterebbe della Domus duo trecinas, costruita vicino alle terme di Diocleziano. Tali resti si trovano

sotto l’attuale chiesa, i quali hanno messo in luce delle pitture nelle pareti di questa casa distrutta. Dal Liber pontificalis

si sa che la basilica è stata costruita intorno all’VIII secolo e non prima. Questo può far pensare che questa Domus sia

stata la Domus ecclesiae rimasta in funzione con degli adattamenti, fino al VII secolo, ma rimane purtroppo un’ipotesi.

In conclusione, fino ad ora non si è trovata una Domus ecclesiae che ci permettesse di avere dati più certi, circa il

luogo di culto nei primi secoli, quindi dobbiamo rassegnarci a sapere ben poco. Siamo documentati un po’ meglio sulle

Domus ecclesiae a partire dal IV secolo. Per rimanere nel III secolo, dopo la persecuzione di Traiano (257-259), le

chiese furono confiscate. L’imperatore Valeriano restituì le chiese ed i cimiteri ai cristiani; il suo editto è conservato,

grazie al quale abbiamo un’attestazione sicura, dopo il 250, circa l’esistenza di edifici di culto a Roma in quell’epoca.

Allora, questi edifici sarebbero esistiti anche in un periodo anteriore alla loro confisca decisa dalla persecuzione. Quindi

la sola Domus ecclesiae conosciuta e sussistente sarebbe quella di Dura Europos, sicuramente attestata. Altre Domus si

troverebbero a Edessa, a Roma, in Africa, e ad Alessandria.

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Il culto cristiano nei primi due secoli. 5

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Conclusione sul tema relativo alle “Domus Ecclesiae” del III secolo: Sulle “Domus Ecclesiae” del III secolo,

come è già stato detto nella precedente non rimane gran che della loro presenza e pochi sono gli elementi che possono

far luce sui loro resti archeologici. Un po’ meglio documentati sono, invece, gli edifici di culto dell’inizio del IV secolo,

attestati in documenti relativi alla persecuzione dioclezianea. Uno degli editti della persecuzione aveva vietato ai

cristiani di tenere delle riunioni cultuali e nello stesso modo era stato loro vietato l’accesso ai cimiteri. Per tenere le loro

riunioni i cristiani si ritrovavano nelle cosiddette case o “ecclesiae”. Sappiamo che a Nicomedia, che era allora la

residenza dell’Imperatore, la Chiesa sorgeva proprio dinanzi al palazzo imperiale. Fu il primo edificio cristiano ad

essere stato distrutto in seguito a questo editto. Lo riporta Eusebio di Cesarea nella sua Storia Ecclesiastica. Ci sono,

poi, degli scritti agiografici, gli Atti dei Martiri, quelli di Doroteo che si riferiscono all’avvenimento. Poi, per l’Africa,

abbiamo un documento posteriore, cioè il verbale della confisca degli edifici di culto, in applicazione della persecuzione

di Diocleziano. Effettivamente il verbale primitivo fu redatto il 19 maggio del 303, durante il primo periodo di

persecuzione; esso fu redatto e firmato alla presenza del vescovo e del suo clero, nella casa in cui si riunivano i cristiani,

quella che in altri luoghi prende il nome di “Domus Ecclesiae”. Probabilmente questa casa è la stessa che in un altro

documento più tardivo, viene chiamata basilica, termine menzionato da Optato di Milevi (cfr. DACL, vol. III, 1914, col.

27,17-18). Ora, In questa casa il verbale enumera diversi ambienti, in particolare una sala da pranzo ed una biblioteca, il

che vuol dire che si trattava di una normale abitazione. In più, oltre a questi due ambienti, vi era un’altra sala dove

probabilmente fu redatto il verbale. Questo verbale della conquista è stato conservato in un Dossier in un altro

documento, cioè nei Gesta apud Zenofilum. Nel 313-314, sorse la controversia tra i donatisti ed i cattolici che

rivendicavano lo stesso edificio di culto, dal momento che un altro editto ordinò la restituzione dei beni confiscati. A

questo segue la Passio martyrum Abitiniensum, cioè la “Passione dei martiri di Abitina” (BHL 7492). Questi martiri

morirono l’11 febbraio del 304: gli atti di questo martirio di poco posteriore alla loro morte. Ora, in questi atti si

racconta che i martiri furono arrestati, imprigionati e martirizzati perché, contrariamente all’editto, si erano riuniti per

celebrare l’Eucaristia. Probabilmente l’Eucaristia fu celebrata in un’altra casa diversa da quella da dove abitualmente si

riunivano per celebrarla, perché quest’ultima fu confiscata. Qualsiasi casa, in quest’epoca, poteva essere usata come

luogo di culto. Questa eucaristia i martiri la chiamano Dominicum. Uno di loro dirà espressamente che non “noi non

possiamo rimanere senza il dominicum”, cioè senza la celebrazione eucaristica. Si tratta, in questo caso, di una

testimonianza particolarmente commovente perché attesta uno dei motivi principale che è proprio la celebrazione

eucaristica, una forza spirituale che animava i martiri in tempo di persecuzione.

Accanto a questi documenti letterari abbiamo poche testimonianze archeologiche, non della stessa regione. Infatti, si

sono trovate ad Aquileia, in fondo al golfo adriatico, delle aule cosiddette “teodoriane” perché in una di esse, un

pavimento mosaicato dà il nome del vescovo Teodoro, di cui si dice che era stato educato e cresciuto in seno alla Chiesa

locale. Di questo Teodoro, abbiamo un’altra informazione di carattere cronologico che ci permette di datare sicuramente

il suo episcopato, poiché questo Teodoro aveva partecipato nel 314 al Concilio di Arles, nelle Gallie, cioè un concilio

riunito su ordine dell’Imperatore per dibattere il caso dei donatisti di Africa (a chi dovevano appartenere le chiese

confiscate). Uno dei motivi dell’accanimento dei donatisti, nella lotta contro i cattolici, fu proprio la contesa delle

proprietà, oltre ai motivi dottrinali.

Ora, come si presentano ancora oggi queste aule? Esse si presentano in forma rettangolare, sono lunghe e sono due

aule parallele, secondo lo schema sotto disegnato:

in mezzo a queste aule, è stato identificato un battistero; ora, l’aula più importante

è la prima a sinistra, perché appare la più antica. Oggi, è parzialmente occupata

dall’attuale campanile che risale al decimo secolo, indicato in un altro rettangolo,

posto in basso alla figura. Proprio lì che fu ritrovata l’iscrizione del nome del vescovo

Teodoro. Questa aula, poi, secondo il disegno della pavimentazione, sembra si possa

dividersi in tre parti, non separate da un manufatto murario fisso. Però, i motivi

geometrici che ornano il pavimento - sono dei tondi e dei quadrati - occupati ognuno da raffigurazioni di animali. In uno

di questi quadri si trova la scena di due animali che si combattono, cioè la tartaruga ed il gallo. Secondo

un’interpretazione si tratterebbe della lotta fra cristianesimo e paganesimo. Ma non ci sono segni cristiani. Ora, questa

divisione tripartita suggerisce che poteva essere materializzata per la celebrazione cultuale da qualche barriera ,

possibilmente movibile. Questa ipotesi si appoggia soprattutto sul fatto che posteriormente, nell’evoluzione successiva

dell’edificio, ci sono effettivamente delle separazioni effettuati con cancelli di legno. Se questa supposizione è giusta,

allora si potrebbe pensare che la terza parte, più in basso fosse riservata al clero, mentre quella mediana e la terza in alto

fossero rispettivamente riservate ai fedeli e ai catecumeni. Si tratta di una ipotesi interpretativa che non è surrogata,

però, da prove certe. Anche l’altra aula, porta un pavimento in mosaico, anche se le scene in esso presenti sono diverse:

si tratta, generalmente di soggetti marittimi o campestri, che occupano tutto il pavimento. In quest’ultima aula è difficile

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Il culto cristiano nei primi due secoli. 6

individuare le separazioni dell’ambiente. Comunque, se si cerca di dare un’interpretazione complessiva di tutto

l’edificio, ci troviamo di nuovo dinanzi a delle interpretazioni. Si potrebbe, dunque, pensare che in un tempo successivo

l’aula eucaristica fosse stata quella indicata sopra, a sinistra. Effettivamente fu utilizzata come Chiesa per un certo

periodo, fino ad un’epoca abbastanza recente. Invece, il battistero, che si trova fra le due aule, sparì abbastanza presto

perché fu usato poco e ben presto fu ricoperto da uno strato di pavimento.

Abbiamo dunque qui delle sale parallele che avranno una certa vita nella Chiesa antica, perché chiese doppie o

parallele, si sono ritrovate altrove, come ad esempio, Treviri, che nel IV secolo era stata città imperiale (residenza

dell’Imperatore). Si ritrovano questi edifici paralleli, qua e là, anche durante il medioevo. Allora, generalmente si può

supporre che almeno uno di questi due edifici corrisponda ad una cattedrale, mentre l’altro una chiesa comune.

Queste aule, di cui si è parlato possono essere datate intorno dal 310 al 320. Un altro gruppo di questo tipo di edifici

esiste anche a Salona, presso l’attuale Spalato, in Croazia; poi, chiese di questo tipo si ritrovano più o meno in tutto

l’arco subalpino, nel Nord Italia. Inoltre, il gruppo episcopale di Salona suggerisce l’uso di queste aule.

Se continuiamo l’esame di questa architettura, ritorniamo in Siria nel IV secolo, dove ci sono delle chiese che

sembrano riprodurre il tipo della “Domus ecclesiae”: anche in questo caso si tratta generalmente di aule lunghe e

rettangolari, la cui estremità è riservata al clero e al popolo, forse con la stessa tripartizione che si è trovata ad Aquileia.

Una delle chiese di questo tipo, in Siria, è quella di KircK Bizzet: questa chiesa prende lo stile dalla casa siriana, con un

ingresso laterale, ma si tratta di un tipo già evoluto, poiché vi ritroviamo in muratura il cosiddetto “Bema” che è una

costruzione tipica delle case siriane. Si tratta di un manufatto che si trova in mezzo alla Chiesa con dei segni circolari,

da una parte, e con un piano rialzato, con una scala d’accesso, che propriamente il “Bema”, cioè il luogo dove si

scende, perché serviva alle letture pubbliche. Su questo tipo di edifici Cfr. Dizion. Archeol. Cristiana, Vol. XV, coll.

1880-81 e Testini, Archeologia cristiana, p. 555. Tali edifici siriani deriverebbero dalla casa scoperta a Dura Europos,

perché si nota una certa continuità tipologica abbastanza chiara, però, dobbiamo guardarci da conclusioni retroattive,

cioè non supporre elementi, come ad esempio gli arredamenti, che appartengono al IV o al V secolo.

Una costante di questi edifici è che si utilizzano delle case comuni e che gli edifici specificamente cultuali

continuano a riprodurre questa pianta dell’edificio del III secolo, con un arredamento primitivo, cioè una tavola

trasportabile, delle barriere movibili, mentre il “Bema” in muratura appare solo Kirck Bizzet nel IV secolo.

Simultaneamente a questi edifici, più o meno fedeli alla casa comune, sorge un altro tipo architettonico, di tipo

basilicale, che prevarrà nel corso del IV e soprattutto nel V secolo. Qual’è la caratteristica essenziale del tipo basilicale?

Si tratta sempre di un edificio lungo con due lati corti, dei quali in uno si trova l’ingresso, mentre l’altro si apre con un

abside. La suddivisione interna dell’edificio può essere ad una navata, oppure a tre navate. Nel caso della tripartizione a

tre navate, il lato d’ingresso può essere dotato di tre porte, in corrispondenza ad ogni navata. Questo tipo di edificio lo

vediamo attestato per la prima volta nel 313-315, nella Chiesa del Laterano in Roma. Negli anni 325 si verrà ad attestare

in Oriente la chiesa episcopale di Gerusalemme.

Una delle conclusioni sicure da fare su quanto si è detto è che l’utilizzazione primitiva di case comuni del tipo

basilicale non hanno nessun significato simbolico, poiché sono derivate dal tipo di costruzione anteriore. Quando gli

architetti le costruivano, non avevano particolari idee di natura simbolica, ma adattarono il tipo basilicale preesistente

alla basilica cristiana, soprattutto al tempo di Costantino. Però si può rilevare una differenza fra il tipo basilicale profano

da quello cristiano: si tratta del fatto che la basilica cristiana è longitudinale, mentre quella profana si apre sul lato più

largo ed ha l’abside sul lato opposto (vedi, ad es., le basiliche forensi che sono destinate ad usi diversi, ad esempio alle

riunioni pubbliche dei cittadini, oltre al culto da officiare, oppure i processi, le conferenze, il mercato, ecc.). Il tipo

basilicale profano si conserverà fino al IV-V secolo. Tra gli esempi più noti abbiamo la basilica di Massenzio o di

Costantino, vicino alla Chiesa di Santa Maria nuova o Santa Francesca Romana.

Dunque, i cristiani, nell’epoca, accordavano un valore simbolico non all’edificio, ma all’assemblea liturgica, cioè la

Ecclesia, cioè l’assemblea convocata per il culto del Signore. Ci sono voluti tre secoli perché i cristiani avessero dei

luoghi specifici per la celebrazione del loro culto, mentre all’origine si servivano delle loro civili abitazioni.

Un altro quesito non meno importante è quello di carattere cronologico: su questo problema l’atteggiamento

cristiano è stato diverso da quello relativo al luogo di culto. Infatti, sin dalle origini i cristiani si riunivano in giorni

determinati: in base all’esempio di Cristo hanno osservato per la celebrazione del culto i ritmi del tempo, ma cosa vuol

dire? Si tratta di una successione dei giorni riuniti per settimana, con il ritorno annuale di certi avvenimenti. Questa

divisione del tempo è frutto di un’esperienza umana molto lunga: la prima di queste esperienze fu il succedersi del

giorno e della notte. Per sperimentare la successione dei mesi e degli anni ci volle un’osservazione più attenta per

osservare che ogni anno le costellazioni nel cielo, per es., si ritrovavano nella stessa posizione dopo un anno. Dunque, è

su queste osservazioni che si basano i ritmi cronologici del culto cristiano ed, inoltre, per l’uomo antico era naturale

l’interpretazione religiosa ai fatti della natura. In modo particolare gli Ebrei hanno intravisto in questi ritmi l’opera

creatrice di Dio. Questi ritmi furono l’oggetto di celebrazioni cultuali settimanali, mensili ed annuali. Il cristianesimo

accoglie ciò che nelle religioni anteriori si è potuto sperimentare nell’ambito cronologico.

Nell’ambito di questo corso, in riferimento a quello che è stato detto sopra, tratteremo gli argomenti relativi la

settimana cristiana, la domenica cristiana, la Pasqua cristiana annuale. Tali argomenti sono enumerati nell’ordine

della loro progressiva importanza.

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Il culto cristiano nei primi due secoli. 7

Di fatto la settimana cristiana riproduce la settimana ebraica dei 7 giorni, con una differenza, cioè che il punto di

riferimento di questa settimana differisce tra i cristiani e gli Ebrei. Per questi ultimi il punto di riferimento era il sabato,

poiché nella Genesi abbiamo un primo tentativo di spiegare il ritmo della settimana e di dargli un fondamento teologico.

Si sa che il primo racconto della creazione è fatto secondo i sei giorni della settimana e che il settimo giorno - dice la

Genesi - il Signore cessò da ogni suo lavoro e si ripose. Evidentemente questo racconto è fatto per giustificare, a

posteriori, l’esistenza della settimana e per imporre, in qualche modo, l’obbligo del riposo del sabato. Questo racconto è

abbastanza chiaro. Ora, questo ritmo settimanale, osservato dagli Ebrei, ha dato fastidio ai Romani che erano abituati a

ritmi diversi. Infatti, nei poeti pagani troviamo delle battute abbastanza forti e ripetute, nei riguardi dell’uso ebraico

della settimana (cfr. Giovenale, Sesta Satira, 157-160, la satira 14, v. 96-97, Ovidio, Seneca, nelle lettere a Licinio...

Tutti questi autori cercano di ridicolizzare gli Ebrei, anche se sono costretti, per motivi di affari, a seguire questo ritmo).

Per i cristiani il giorno di riferimento non è più il sabato, ma è la domenica. Però questa domenica non viene subito

chiamata tale (Dies Dominica): talvolta, lo vediamo ancora nel II secolo, viene chiamata “dies solis”. Dunque, la

domenica sostituisce il sabato ebraico, il che suppone uno spostamento dei giorni di penitenza settimanale (i cristiani

facevano penitenza il mercoledì ed il venerdì, mentre gli ebrei celebravano i digiuni il martedì ed il giovedì). Perché è

avvenuto questo spostamento? Perché la domenica è il giorno della risurrezione del Signore. Questo giorno è

espressamente nominato nei racconti della risurrezione nei quattro Vangeli: è il primo della settimana, che è ancora

riferito alla settimana ebraica, poiché nella settimana ebraica il primo giorno della settimana è proprio la domenica,

secondo il racconto genesiaco. Allora il sabato risulta essere l’ultimo giorno, mentre per i cristiani il rapporto è inverso

perché il giorno di riferimento è il primo giorno della settimana, perché questa risurrezione del Signore costituisce un

rovesciamento dei concetti antichi e fissa in questo giorno la partenza di un’era nuova. La domenica è l’inizio del mondo

nuovo che Cristo è venuto a portare. Se confrontiamo questo concetto di “primo giorno” con le nostre usanze attuali

constatiamo una specie di ritorno all’uso ebraico, perché si parla di Week-end (fine settimana) che ingloba anche la

domenica. Questo non è più un concetto cristiano.

La domenica è diventato giorno di culto cristiano perché vi si celebrava Cristo risorto: secondo tutti i racconti

sinottici e di Giovanni è dato questo riferimento, cioè il primo giorno della settimana. I passi biblici, relativi alla

risurrezione di Cristo sono: Mc 16; Mt 28; Lc 24,1 e Gv 20,1. C’è da dire che c’è una concordanza assoluta dei Vangeli

su questo argomento, perché indicano la domenica - quale giorno della risurrezione di Cristo - come primo giorno della

settimana. Questa concordanza significa che, sin dalle origini, i cristiani celebravano questo giorno come giorno della

risurrezione. Ora, secondo gli stessi Vangeli, Cristo risorto apparve ai discepoli di mattina, mentre di sera Cristo ha

condiviso il pane con i discepoli di Emmaus (Lc 24,35). Proprio questo incontro avvenne la sera del medesimo giorno

della risurrezione e poi lo stesso giorno Gesù apparve a Gerusalemme agli Undici, secondo Gv 20,26-27 e lì mangiò con

loro. Dunque la celebrazione domenicale fu messa, fin dall’inizio, in rapporto con la Passione di Cristo: ciò lo vediamo

bene con il racconto dell’apparizione di Gesù all’Apostolo Tommaso, otto giorni dopo (Gv 20,26-27), quando Gesù

mostrò le piaghe della passione al discepolo incredulo.

Dunque, la celebrazione domenicale fu messa in rapporto alla risurrezione di Gesù, attraverso la quale richiamò la

passione, poiché la risurrezione non soppresse le stigmate della passione. Quindi la celebrazione domenicale è ricordo

ebdomadario della morte e risurrezione di Cristo. Questa è la prima significazione della celebrazione domenicale, alla

quale ne segue una seconda perché i cristiani non celebrano questo momento da soli, ma comunitariamente. Tutta la

comunità si riunisce per celebrare questo ricordo. Ecco che abbiamo due aspetti, cioè l’oggetto ed il modo: il primo e la

passione e la risurrezione del Signore, mentre il secondo è la riunione collettiva di tutti quelli che credono nel Cristo

Risorto, che diventa un’esplicita manifestazione di fede.

Più tardi, in seguito, Paolo inserirà e collegherà alla riunione domenicale la colletta in favore della Chiesa di

Gerusalemme: lo vediamo nella 1Cor 16,2. Poi, un’altra testimonianza data a Paolo a Troade, quando sta per tornare a

Gerusalemme (At 20,6-12), l’abbiamo quando spezza il pane con i cristiani del luogo il primo giorno della settimana.

Dunque, il costume di celebrare Cristo risorto il primo giorno della settimana è già ben stabilito. E’ un costume

generale, diffuso nelle sue comunità dall’Apostolo Paolo, il quale a sua volta lo ricevette dalla Chiesa di Gerusalemme o

dai cristiani di Antiochia che erano venuti a Gerusalemme. Quindi, il primo giorno della settimana era diventato per i

cristiani il giorno della riunione eucaristica e della carità fraterna, poiché alla frazione del pane era collegata la colletta

per i poveri di Gerusalemme.

Dunque, il primo nome della domenica, il più antico, è il primo giorno della settimana, in riferimento al computo

ebraico. Verso la fine del I secolo si vedrà per la prima volta il termine di “dominica”: infatti, vediamo nell’Apocalisse

1,9-10 il passo dove dice: “Io Giovanni, vostro fratello e compagno nella prova, trovandomi sull’Isola di Patmos, caddi

in estasi il giorno del Signore”. Poco dopo si moltiplicheranno le testimonianze in favore di questa nuova

denominazione: infatti, una prima testimonianza è quella della Didaché cap. 14, v. 1. In questo passo leggiamo una

formula che può sembrare pleonastica. Dice infatti: “Il giorno domenicale della domenica del Signore, radunatevi per la

frazione del pane e per l’eucaristia”. Questa prima testimonianza della Didaché la possiamo, grosso modo, datare

all’anno 100, forse leggermente dopo. L’Apocalisse dà una testimonianza di poco anteriore, poiché si data l’Apocalisse

nei ultimi anni del I secolo. E’ bene notare l’ubicazione di queste due testimonianze: se la prima, l’Apocalisse, è stata

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Il culto cristiano nei primi due secoli. 8

scritta nei pressi di Patmos, in Asia Minore, la seconda, la Didaché, è stata scritta in Siria, ma non nella Siria, dove si

parlava il siriaco, ma nella Siria Occidentale, dove si parlava greco, poiché la Didaché si trova in greco, probabilmente

nella regione di Antiochia. Dunque, rimane interessante vedere che in questi due punti distinti della geografia, quasi allo

stesso momento, appare il termine nuovo di “Dies Dominica” (Giorno del Signore). Ora, è senza dubbio lo stesso giorno

che Plinio il Giovane cita, quando riferisce dell’Imperatore Traiano, nel momento in cui lo stesso Plinio, governatore

della Bitinia (Provincia romana che comprende le città di Nicea, Nicomedia e Calcedonia), conduce i processi contro i

cristiani. La Bitinia, al tempo di Plinio, era già popolata da un grande numero di cristiani, tanto che, secondo la lettera di

Plinio, i templi pagani venivano disertati, perché i cristiani convertiti dal paganesimo non vi andavano più e non

compravano più la carne usata per la celebrazione dei sacrifici pagani. Questo fu un altro motivo di inquietudine per il

popolo. Ritornando a Plinio, è vero che non parla di domenica, ma dice semplicemente che ad un preciso giorno i

cristiani si riunivano e cantavano un inno a Dio e a Cristo. La sua lettera a Traiano può essere data intorno agli anni che

vanno dal 112 al 113. In un tempo di 10 anni posteriori alla Didaché notiamo lo stesso uso osservato in Bitinia. Dunque,

questo fa comprendere che l’Asia Minore è stata interessata ad un numero alto di conversioni dal paganesimo.

Segue adesso la testimonianza di Ignazio di Antiochia, che avverte i cristiani di Magnesia che il giorno di culto

cristiano non è più il sabato, ma “il giorno del Signore in cui è sorta la nostra vita tramite lui e tramite la sua morte e che

mediante questo mistero noi abbiamo ricevuto la fede per essere trovati discepoli di Gesù Cristo” (Ignazio, Lettera ai

magnesiani, cap. 9, v.2). Quindi è abbastanza significativo che le prime testimonianze, del nuovo giorno di culto

cristiano, da una parte, attestino l’esistenza della frazione del pane - nella Didaché e negli Atti - mentre, dall’altra,

questa celebrazione è specifica ai cristiani. Inoltre, la più antica testimonianza è dalla Didaché che proviene proprio

dalla città - Antiochia - nella quale i fedeli di Gesù per la prima volta furono chiamati cristiani. Sembra, dunque, essere

stata la città di Antiochia il punto di partenza di questo nuovo nome della domenica. Se si cerca di valutare

correttamente le due denominazioni - “primo giorno della settimana” e “dies dominica” - possiamo pensare

rispettivamente, con una certa probabilità, che l’uso del primo giorno della domenica sia di origine giudeo-cristiana

(gerosolimitana) mentre il secondo sia di origine pagano-cristiana e antiochena. Questa ipotesi non è molto lontana dalla

realtà.

Ora, la prima descrizione del culto domenicale la dobbiamo a Giustino il filosofo, verso la metà del II secolo; egli

nel cap. 67, vv. 3-8 della prima Apologia dice:

“Nel giorno che si chiama giorno del sole si tiene una riunione di tutti quelli che abitano in uno stesso

luogo, sia nelle città che nelle campagne. Vi si leggono le memorie degli Apostoli e gli scritti dei profeti per

quanto lo concede il tempo. Poi quando il lettore ha finito il presidente dell’assemblea prende la parola per

indirizzarci degli avvertimenti ed esortarci all’imitazione di questi bei esempi o insegnamenti. Poi ci alziamo

tutti insieme e preghiamo ad alta voce, e come stato detto più sopra, quando abbiamo finita la nostra preghiera,

viene portato del pane come del vino e dell’acqua. Il presidente fa salire verso il cielo delle preghiere e dei

rendimenti di grazie, per quanto possibile. E il popolo esprime la sua adesione con l’acclamazione “amen”. Poi

ha luogo la distribuzione e la divisione, ognuno ricevendo una parte di Eucaristia. Se ne invia anche agli assenti

per il tramite dei diaconi. Quelli che lo possono e che vogliono dare qualcosa, danno liberamente ognuno

quello che vuole ed il raccolto è deposto ai piedi del presidente. E’ lui che fa distribuire dei soccorsi agli orfani

e alle vedove, a quelli che sono nel bisogno, perché malati o per qualche altro motivo, cosicché ai prigionieri e

agli ospiti stranieri. Insomma, è quello che soccorre tutti quelli che sono nel bisogno. E’ il giorno del sole, che

noi ci riuniamo tutti insieme perché questo giorno è il primo in cui Dio, trasformando la tenebra e la materia

creò il mondo, giorno in cui Gesù Cristo nostro Signore è stato risuscitato dai morti, era stato crocifisso, il

giorno prima di saturno e l’indomani di questo giorno, cioè il giorno del sole è apparso ai suoi apostoli e ai

suoi discepoli ed insegnò loro quello che abbiamo esposto”.

Giustino descrive una riunione localizzata nel tempo e nel luogo, cioè a Roma, dove si trova in quel momento e

quando scrive la sua apologia agli imperatori, intorno all’anno 150. Negli atti del suo martirio, d’altra parte, risulta che

nella stessa città di Roma vi erano parecchie riunioni liturgiche del tipo di quelle descritte da Giustino, la cui descrizione

è molto verosimile. Tale descrizione sembra essere abbastanza rappresentativa dell’uso, del tempo e del luogo, cioè un

uso di una Chiesa ellenizzata, a dimostrazione che al tempo era diffusa la lingua greca tra il ceto medio. Questa riunione

è fissata alla domenica e commemora due cose: il primo giorno del mondo (la creazione) ed il giorno della risurrezione.

Si nota qui un primo sviluppo tematico nel significato della domenica: alla risurrezione del Signore è stata aggiunta la

commemorazione dell’opera creatrice di Dio, come del resto avveniva anche nelle riunioni sabbatiche che

commemoravano anche l’opera salvifica di Dio durante l’esodo.

Un’altra caratteristica riguarda una mancata fissazione del testo relativo alle preghiere dei fedeli e del presidente: la

preghiera è lasciata alla libera aspirazione di ognuno ed in modo particolare alla libera aspirazione del presidente (il

vescovo o il presbitero) dell’assemblea liturgica. Inoltre, il medesimo presidente, non è designato da un termine tecnico

(filologicamente ed in senso etimologico, presidente significa “stare davanti” o “quello che presiede” ), perché non è un

termine che designa una funzione, ma è un termine che designa un atto. Ora, questo presidente, non solo fa la preghiera

a nome di tutti, ma pronuncia l’omelia e distribuisce i soccorsi. E’ quello che potremo dire un capo di comunità; tale

espressione non deve essere troppo formalizzata come se si trattasse necessariamente di una funzione fissa. In rigore di

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termini, il presidente lo potrebbe svolgere un cristiano oggi ed un cristiano domani. E’ colui, dunque, che presiede

attualmente. Noi ci troviamo all’origine di questa tradizione che va accolta nel suo divenire, anche se rimane difficile da

compiersi perché siamo costretti a capovolgere le nostre idee ed il nostro modo di pensare.

Gli elementi sui quali è fatta la preghiera sono chiaramente indicati, cioè il pane, il vino, l’acqua. Lì per capire

dobbiamo riferirci ai costumi e agli usi del tempo: pane e vino erano gli elementi normali di un pasto, ma perché

l’acqua? Perché gli antichi non bevevano il vino senza l’acqua. Il vino antico era molto più forte del nostro (raggiungeva

anche i 18 gradi), per cui era necessaria l’aggiunta dell’acqua che per di più non era fredda, ma tiepida.

Ora, è Giustino a darci queste indicazioni: questo vino e questo pane sono eucaristiati, cioè su di loro è stata

pronunciata la preghiera di ringraziamento. Questi elementi eucaristiati non sono più il pane ed il vino, ma la carne e

sangue di Cristo tramite un “discorso di preghiera che viene da Cristo”. Quindi la formula eucaristica ha origine dal

Signore, probabilmente quella derivante dai racconti dell’istituzione dell’Eucaristia nei Vangeli. Quindi questo pane e

vino sono diventati corpo e sangue di Cristo nella maniera in cui il Logos di Dio è diventato carne in Gesù Cristo. Si

tratta, allora, di una specie di incarnazione rinnovata. Perciò tale pane e tale vino “nutrono nostro sangue e nostra carne

tramite un cambiamento” (I Apologia 66, 2 metabolé o cambiamento). Non si parla di transustanziazione, ma di questo

cambiamento che malgrado appaia povero nell’ambito della teologia odierna, è abbastanza chiaro. Inoltre questa

eucaristia è il “memoriale della sofferenza e della risurrezione di Cristo” (Giustino, Dialogo con Trifone 41,1). E’ un

dialogo più meno fittizio che Giustino avrebbe avuto con un Ebreo chiamato Trifone. E’ possibile che questo dialogo

sia effettivamente avvenuto tra Giustino e gli Ebrei, durante i suoi viaggi.

Questa passione e la risurrezione del Signore, Giustino le colloca tra le prodezze del Signore, simili a quelle che il

Signore nel passato ha compiuto al tempo di Mosè. L’Eucaristia non è soltanto una delle prodezze del Signore, ma è il

compimento di tutti i prodigi compiuti nel passato. Il ricordo di queste magnalia dei viene di nuovo riattualizzato.

Quindi l’Eucaristia rende nuovamente attuali la passione e la risurrezione del Signore, perciò conviene celebrarla nel

giorno ebdomadario in cui si verificarono per la prima volta questi avvenimenti. Nella Apologia e nel Dialogo a Trifone

possiamo trovare un primo schizzo di una teologia dell’Eucaristia. Nono solo Giustino è testimone dell’uso, come si

osservava al suo tempo, cioè alla seconda metà del II secolo, ma è ancora uno dei primi (non il primo in assoluto se si

tiene in conto le lettere di Ignazio, dove c’è un altro tentativo di interpretazione teologica). Siamo in un epoca in cui sta

prendendo corpo la liturgia primitiva della Chiesa; siamo in un tempo in cui questi riti fanno riferimento al gesto di

Cristo dell’ultima Cena, ma nello stesso tempo acquisiscono una consistenza molto più complessa del medesimo gesto

di Cristo, in primo luogo (lo notiamo bene già nella testimonianza di Giustino) perché nella riunione cristiana

confluiscono due usi diversi:

a) il sistema delle letture, dei canti e della liturgia occupa la prima parte della celebrazione che è

derivata dall’uso sinagogale;

b) un uso propriamente cristiano che consiste nella frazione del pane in ricordo del gesto del Signore,

durante l’ultima cena, mediante una preghiera di ringraziamento. Si tratta di uno sviluppo del rendimento di

grazie, accompagnato da una preghiera di ringraziamento che dà il nome a tutto il rito eucaristico.

__________Note Personali di Studio__________________________________________________________

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Il culto cristiano nei primi due secoli. 10

[PC 511.3]

La Pasqua annuale

La più antica celebrazione della Pasqua fu quella della domenica, Pasqua settimanale. I cristiani non pensavano di

celebrare il ritorno annuale dell’avvenimento prima della fine del I e dell’inizio del II secolo.

Paolo si era accontentato di suggerire ai fedeli il nuovo senso della Pasqua ebraica:

“Non sapete che un po’ di lievito fa fermentare tutta la pasta? Togliete via il lievito vecchio per

essere pasta nuova, poiché siete azzimi. Perché nostra pasqua è Cristo ed è stato immolato.

Celebriamo la festa non con vecchio lievito, né con lievito di malizia e di perversità, ma con

azzimi di sincerità e di verità”. (1Cor 5,6-8)

Allude al rito ebraico di vuotare la casa del vecchio lievito per ricominciare con la Pasqua un nuovo anno. Sembra

che la lettera sia stata scritta nell’anno 57, probabilmente nelle vicinanze della Pasqua ebraica. San Paolo reinterpreta il

vecchio rito ebraico: il pane azzimo era il pane senza lievito durante la festa di Pasqua. Per il cristiano è avvenuto un

cambiamento analogo con la morte e la risurrezione di Cristo.

Paolo da così al vecchio rito ebraico un senso nuovo. Nella comunità di Corinto c’era un incestuoso che voleva

essere riammesso nella comunità senza altra formalità. Azzimo è esente da ogni lievito, come la vita cristiana in purezza

e verità. Il concetto di Pasqua ebraica, di liberazione dell’Esodo, è rinnovato: non è più liberazione dalla servitù

d’Egitto, ma dal peccato.

I cristiani continuavano a celebrare la Pasqua ebraica, particolarmente i cristiani di Gerusalemme e quelli delle

comunità ebraiche della diaspora.

La rottura tra giudaismo e cristianesimo avviene verso la fine del I secolo. Abbiamo vari indizi:

La distruzione del tempio

Intorno all’85 gli ebrei celebrarono una specie di Sinodo di Rabbini a Jamnia, dove decisero

di non considerare più ebrei i cristiani. Cfr il racconto di Gv sul cieco guarito ed espulso dalla sinagoga

La situazione divenne universale quando nel 135 Gerusalemme sparì come tale e fu sostituita da Aeia Capitolina (da

Aeius Adrianus).

I cristiani celebravano la Pasqua ebraica, il 14 Nisan, anniversario simbolico dell’Esodo e della passione del Signore

secondo Gv 18,28 e 19,14. Questo è l’uso quartodecimano che risale alle origini della chiesa.

Qual è il senso cristiano dato alla Pasqua giudaica? Come si esprime questo nuovo senso? Risponderanno i

documenti.

Secondo l’apocrifa Epistola degli Apostoli (fine I e inizi del II sec.), la Pasqua del 14 Nisan era la commemorazione

annua della passione di Cristo. Tale commemorazione avveniva durante una vigilia notturna che si chiudeva al canto del

gallo. La lettera esiste in diverse versioni orientali: etiopica, copta, siriaca. L’area egizia sembra quella in cui la lettera

sembra nata.

Ci sono due Omelie Pasquali del 2° e 3° secolo, che danno alla festa una spiegazione diversa. Il 14 Nisan sarebbe la

commemorazione unitaria di due avvenimenti: Passione e Risurrezione.

Di queste due omelie:

1. Pronunziata da Melitone di Sardi circa 160-170.

2. Anonima ispirata al trattato di Ippolito sulla Pasqua1

Melitone spiega che la Pasqua cristiana era stata preparata da lontano (prooikonome,w) per ottenere credenza

quando fosse stata realizzata, perché prefigurata da molto tempo nella Pasqua Ebraica. 2 Siamo in presenza di un

esempio di esegesi tipologica: l’AT prefigura il NT e il NT realizza l’AT.

L’uso quartodecimano sembra essere stato universale in tutta la chiesa e continua ad essere osservato in Asia Minore

fino alla fine del 2° secolo. Verso i confini della Siria con la Persia, l’uso si prolungò molto più tardi.

Dell’uso abbiamo parecchie testimonianze antiche. Policarpo a Smirne, Policrate di Efeso osservano l’uso

quartodecimano. Ireneo di Lione, Epifane di Salamina, ne sono testimoni, ma nonli osservano più.

Il secondo uso era quello di celebrare la Pasqua di Domenica, dopo il 14 Nisan. Nacque dopo Jamnia e la sua

diffusione si fece progressivamente e non sensa difficoltà. Secondo Epifanio, nel Panarion, collezione di eresie antiche,

le prime difficoltà sorsero verso il 135, dopo la conquista di Gerusalemme da parte di Adriano, quando sparirono anche

a Gerusalemme i vescovi giudeo-cristiani, che erano tutti della famiglia di Gesù. La situazione sparì con la

1 Cfr. SC 123 e 127. Lo studio della questione è in M. RICHARD, La question Pascal, L’Orient Chretienne 6

pp.169-212. Contro il DUCHESNE? esprime la sua opinione nella Storia Antica della Chiesa vol. I 186-212. 2 Cfr. SC 123 pp. 92-93.

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Il culto cristiano nei primi due secoli. 11

ristrutturazione della città e con la comparsa di vescovi pagano-cristiani. In questa congiuntura si crearono delle

difficoltà tra i partigiani della Pasqua quartodecimana e quelli della Pasqua di Domenica.

In quanto esistono ancora al tempo del Concilio di Nicea (325), il concilio rende universale e obbligatoria la

celebrazione nella domenica dopo il 14 Nisan.

La storia registra altre difficoltà:

Laodicea di Frigia: siamo informati da Eusebio di Cesarea che riferisce sulla base di documenti

provenienti da Melitone di Sardi e Clemente Alessandrino.3 Questi menziona l’opera sulla Pasqua nel suo proprio

trattato sulla Pasqua, composto a causa del libro di Melitone di Sardi. (informazione di quarta mano). Melitone, nel

frammento riportato da Eusebio,4 dice:

Sotto Servilio Paolo proconsole dell’Asia, al tempo del martirio di Sagaris, ci fu una grande

disputa a Laodicea a riguardo della Pasqua, che era in corso di celebrazione.

La testimonianza di Laodicea è data da Eusebio tramite due coordinate cronologiche:

A. Il proconsolato di Servilio Paolo. Personaggio sconosciuto nel II secolo. Eusebio ha mal trascritto il

nome, esiste piuttosto un Sergius Paulus. Difatti Rufino traduce con Sergius Paulus. Si trova un Lucius Sergius

Paulus, proconsole nel 164-166.

B. Il martirio di Sagalis. Questo nome si trova solo in Eusebio, non possiamo verificare quando visse e

morì.

La controversia si può datare nel 165.

Oggetto della controversia. Eusebio inserisce la controversia nei suoi capitoli sulle controversie pasquali, in cui

precisa l’oggetto. Nell’Hist. Eccl V, 23,1-2 scrive:

“Le chiese di tutta l’Asia, seguendo una tradizione molto antica, pensavano che si dovesse

osservare il giorno decimoquarto della luna per la Pasqua della salvezza, giorno in cui era prescritto

agli ebrei di immolare l’agnello, e che si dovesse allora porre termine in ogni caso al digiuno,

qualunque fosse il giorno della settimana in cui cadeva la festa. Però le chiese del resto della terra

non avevano l’abitudine di osservare questo costume, ma seguendo la tradizione apostolica,

mantenevano l’uso in vigore fino ad oggi, pensando che non era conveniente porre fine al digiuno in

altro giorno che non fosse la risurrezione del Signore.

Sinodi e assemblee di vescovi si riunirono a questo proposito e tutti, unanimemente, presero il decreto

ecclesiastico per i fedeli di ogni parte del mondo, secondo il quale non si doveva celebrare il mistero

della risurrezione del Signore in un giorno diverso dalla domenica e che soltanto in quel giorno si

doveva porre fine al digiuno pasquale”.

Per riassumere la maniera usata da Eusebio: Egli oppone l’uso quartodecimano di una provincia all’uso di tutte le

altre chiese. Quest’uso era molto localizzato, si pensa all’odierna Turchia occidentale, Efeso e Smirne. Nelle altre chiese

si celebrava la Pasqua nella domenica seguente il 14 Nisan.

La presentazione di Eusebio sembra essere semplificata. La decisione che lui dice presa una volta, sembra essersi

scaglionata per parecchi anni nel tempo. Così si dovrebbe spiegare il decreto di Laodicea. Dice che la Pasqua cadeva

proprio nei giorni del concilio, inoltre ricorda l’opera di Melitone di Sardi, che era stato all’origine del dibattito e che è

stato rifiutato da Clemente Alessandrino, la cui opera non ci è pervenuta. Siamo ridotti alle informazioni di Eusebio che

sono visibilmente semplificate. Ma con sicurezza possiamo affermare che Melitone è partigiano della Pasqua

quartodecimana, mentre Clemente è sostenitore della Pasqua annua di domenica.

Questo è l’oggetto del dibattito di Laodicea, anche se è possibile che la questione si sia allargata ad altri problemi:

come mettere d’accordo i dati non omogenei dei Vangeli, la tradizione sinottica e quella giovannea.

Difficoltà a Roma, durante l’episcopato di Vittore (189-199). Questo problema è già complicato in se stesso,

ma lo è di più se teniamo conto della posizione contraddittoria degli storici attuali che hanno ragionato sul problema.

Occorre tornare alle fonti e non tener conto degli storici.5

Eusebio sembra disporre nella sua biblioteca di Cesarea di una documentazione più ricca di quella che appare

nell’Hist. Eccl. Parla infatti di Sinodi e Riunioni di vescovi

I Sinodi erano presieduti da Teofilo di Cesarea e Narciso di Gerusalemme, le cui lettere sono state conservate.

Conosce per sentito dire una lettera sinodale romana, al tempo in cui Vittore era vescovo. Era a conoscenza di lettere dei

3 Cfr. Historia Eccl. V, 26 n. 3-4. 4 Cfr Hist. Eccl. IV, 26, 3. 5 Cfr. DUCHESNE, vol 1, pp. 285-291; ID, Origini del culto cristiano, pp. 249-253.; BOTTE, La question pasqal;

CANTALAMESSA, La Pasqua nella chiesa antica.

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Il culto cristiano nei primi due secoli. 12

Vescovi del Ponto, riunioni presiedute dal vescovo Palamas, Sinodi delle comunità della Gallia, di cui Ireneo era

vescovo, di altre riunioni dei vescovi di Osroene (Asia) e di Bacchilo, vescovo di Corinto. 6 Riassume questa

documentazione in una frase: “Tutti costoro espressero una stessa opinione e stabiliscono un decreto uguale”.

Aggiunge che la loro unica regola di condotta è quella di cui ha parlato: la domenica seguente il 14 Nisan. Sulla

particolarità delle decisioni non apprendiamo nulla. Così facendo sembra contraddirsi: all’inizio del capitolo ricorda

l’antichissima tradizione della pasqua annuale di domenica, nella seconda parte le decisioni sinodali del 2° secolo. Il

problema è stabilire l’antichità di questa tradizione. L’alternativa 1° secolo o fine del 2° è notevole, in un’epoca, in cui

tutto è in formazione.

La sua informazione deriva dall’imbarazzo per l’antichità della tradizione quartodecimana, come difendere

l’antichità dell’altra tradizione? Eusebio cita due testimoni importantissimi: Policrate di Efeso e Ireneo di Lione.

Policrate scrive a nome dei vescovi Asiatici al Vescovo Romano Vittore. Dice che in Asia loro celebravano la

Pasqua il 14° giorno secondo il Vangelo.7

La tradizione quartodecimana ha per garanti Filippo, uno dei dodici, e le sue figlie, Giovanni che ha riposato sul

petto del Signore, Policarpo di Smirne, Trasea di Eumenia, Sagaris di Laodicea, vescovo e martire (peso particolare

della loro testimonianza), Melitone di Sardi. Policrate è l’ottavo vescovo della sua famiglia, nella quale si è sempre

osservata questa data. Così per Eusebio è fondata la tradizione quartodecimana.

La tradizione antica non impressionò Vittore che scomunicò i vescovi asiatici.8 Il più notevole dei difensori delle

persone fu Ireneo di Lione che è per Eusebio il 2° testimone che parla a favore dei fratelli.9 Ireneo era partigiano della

Pasqua domenicale, però esorta Vittore a tornare sulla sua decisione.

Completa poi l’informazione quando parla delle difficoltà sorte a Roma sulla durata del digiuno prepasquale: 1, 2 o

3 giorni? La divergenza dei costumi non aveva impedito la pace fra le chiese.

Eusebio offre una testimonianza importante che mostra Ireneo conoscitore esatto della situazione romana. Nel 177,

al tempo della persecuzione di Lione, Ireneo era stato mandato dai martiri per intercedere a favore della tradizione

asiatica. Eusebio dice:

I presbiteri anteriori a Sostene (vesovo di Roma) e che furono a capo della Chiesa che ora governi

tu, parlo di Aniceto, Pio, Igino, Telesforo e Sisto. Costoro non osservavano la costumanza e non

l’hanno imposta a quelli che erano con loro. Anche se non l’osservavano loro stessi, erano in pace con

coloro che l’osservavano. Eppure nessuno fu mai rigettato per questo motivo, ma anzi, gli stessi tuoi

predecessori che non osservavano mandavano l’eucarestia a coloro di altre comunità che

l’osservavano

Lo scandalo della decisione di Vittore era grande per i non osservanti della tradizione quartodecimana. Nessuno fu

mai rigettato a causa della differenza. La differenza di osservanza non impediva la comunione di fede.

Il verbo threi/n in Eusebio è senza complemento, vuol dire che parla di osservanza.

Dunque due sono le tradizioni, l’asiatica e la romana. Vittore ha voluto imporre l’uso romano agli asiatici. Il

problema è quale fosse l’uso romano prima di Vittore. Per Duchesne l’uso romano di Vittore è quello di sempre.10

Questa posizione non trova accordo globale.11 Roma avrebbe celebrato la pasqua solo di domenica, ogni settimana. Non

ci sarebbe stata Pasqua annuale. La decisione di istituire la festa annuale di Pasqua sarebbe intervenuta prima di Vittore,

al tempo di Eleuterio, all’inizio della seconda metà del 2° sec. La Chiesa romana decide allora di celebrare la pasqua

una volta all’anno. Di questa festa Vittore avrebbe preteso di farne un segno di unità. In realtà Ireneo, citato di Eusebio,

non oppone ai quartodecimani l’uso di celebrare la Pasqua la domenica dopo il 14 Nisan, ma la traduzione del Bardi

forza il testo greco:

Costoro non hanno osservato e non hanno imposto questa osservanza agli altri.

Ma qual è questa osservanza? Mi pare che questa espressione voglia dire che ad eccezione della celebrazione

domenicale, i romani non conoscevano la celebrazione annua della Pasqua. Pur non celebrandola, erano in buoni

rapporti con le altre chiese che la celebravano.

Il Papa sapeva che l’uso asiatico rimontava a Giovanni e agli altri apostoli. Dal canto suo Policarpo dice che si deve

tornare all’uso ??????

6 Cfr Hist. Eccl. V, 23, 3. 7 Hist. Eccl. V, 24, 2-8. 8 Hist. Eccl. V, 24, 9-10. 9 Hist. Eccl. V, 24, 11. 10 Cfr. DUCHESNE, Storia Ecclesiastica; DANIELOU, ne La nouvelle histoire de l’Eglise, vol I, pp. 106-107;

ODO CASEL ….. 11 Cfr. HOLL, RICHARD nell’articolo già citato.

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Il culto cristiano nei primi due secoli. 13

Aniceto cedette a Policarpo l’onore di (celebrare l’eucarestia) nella sua chiesa, separandosi in

pace. In tutta la chiesa si era in pace, sia che si osservasse, sia che non si osservasse il 14 Nisan.12

L’episodio è ricco di insegnamenti: Vittore ed Ireneo sono due temperamenti diversi, uno autoritario, l’altro pacifico.

Dice che Ireneo portava bene il nome perché era pacificatore di nome e di fatto. Ireneo si rivela migliore conoscitore

dell’usanza romana, perché la memoria di Vittore risale a Sotero, fino al sec. ?.

Nella persona di Vittore il vescovo è chiaramente emerso dal gruppo presbiterale, è vescovo monarca, anche se

Ireneo preferisce presbiteri per questi vescovi. Ireneo è fedele alle usanze antiche, più di Vittore. L’atto autoritario ha

segnato in modo durevole la memoria della sua chiesa.

Eusebio permette di completare il quadro, illumina le origini del costume romano.

Sulla questione della Pasqua ci fu uno scisma13 Blasto vuol introdurre l’uso quartodecimano. Ciò può giustificare

l’intervento di Vittore, che in realtà voleva ricomporre uno scisma interno, ma ha allargato troppo l’orizzonte.

Nel 325 il Concilio di Nicea conferisce alla chiesa d’Alessandria il compito di fissare la Pasqua e di comunicarla alle

altre chiese. Alessandria aveva ereditato delle conoscenze scientifiche (astronomiche).

In Occidente la festa era celebrata dopo il 14 Nisan, la festa è la cinquantina pasquale. Terulliano, a proposito del

miglior tempo per i battesimi, scrive:

“Il giorno più solenne per il battesimo è la Pasqua, perché in essa si è compiuta la passione del

Signore, nella quale siamo battezzati. Altro giorno è quello della cinquantina pasquale. Ma ogni

domenica, ora e stagione si prestano all’amministrazione del battesimo. Se ci sono tempi più solenni,

la loro grazia rimane autentica”.14

Così è attestata alla fine del 2° sec. l’esistenza di un periodo festivo di 50 gg pasquali, giorni di gioia in cui sono

soppressi tutti gli usi penitenziali (si canta l’alleluia, si sta in piedi, non in ginocchio, non si fanno digiuni ed atti di

penitenza).

In modo analogo si è sviluppato un periodo preparatorio alla Pasqua. In alcune chiese era in uso un digiuno assoluto,

uno, due o tre giorni prima della Pasqua quartodecimana. Un digiuno più esteso lo vediamo attestato in Siria, nella

prima metyà del 3° sec. nella Didascalia Apostolorum. Da questi nuclei uscirà l’uso della quaresima.

Ma prima si costituisce il Triduo Pasquale, Venerdì, Sabato, Domenica. Poi si aggiungerà il Giovedì Santo. Vediamo

poi attestata la settimana intera del digiuno di Pasqua. Sono specificazioni cronologiche progressive per commemorare

l’evento della passione, morte e risurrezione di Cristo. La celebrazione è ancora unitaria, non distingue ancora giorni

precisi per la sepoltura e la risurrezione.

La quaresima si costituisce solo nel IV secolo, quando la preparazione battesimale prese una forma istituzionalizzata.

I catecumeni dovevano farsi conoscere all’inizio del periodo, farsi iscrivere nel registro e seguire una preparazione

intensiva, con riunioni ogni giorno del periodo, preghiera e altri esercizi penitenziali e alcuni interventi rituali

(imposizione delle mani e segni di croce, esorcismi). La preparazione ascetica (digiuni, preghiere, elemosine, vigilie

notturne) rappresentava un impegno forte che richiedeva la cessazione di ogni lavoro. Erano presi a carico della Chiesa.

Esercizio spirituale di 40 giorni. È un periodo preparatorio al battesimo e per loro anche di preparazione alla

risurrezione di Gesù. È preparazione unitaria al Battesimo di questi candidati.

La Pasqua era diventata il punto centrale di riferimento durante l’anno. Questa evoluzione è percepibile solo nel IV

secolo.

12 Hist. Eccl. V, 24, 17. 13 Hist. Eccl V, 15; 20,1. 14 De baptismo 19, 1-3.

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Il culto cristiano nei primi due secoli. 14

[PC 511.4]

Storia dei principali riti

Vedremo:

1. Il battesimo, ed il complesso iniziatico dell'entrata nella vita cristiana;

2. L'eucarestia, considerata come atto di culto centrale nel cristianesimo

Il Battesimo.15

Seguiamo le testimonianze in ordine cronologico, dalla Scrittura fino ai Padri della fine del VI secolo.

Il battesimo è specificamente cristiano, inutile cercarlo nell'AT. Le più antiche testimonianze sono di S. Paolo e della

sua scuola. Quando nella 1Cor Paolo dice che lui non ha celebrato battesimi a Corinto, fa eccezione per tre persone, o

tre gruppi di persone: per lui sono delle eccezioni alla regola di non battezzare. Il motivo lo spiega in 1Cor quando

critica questi club, le parti che si richiamavano a Paolo, Apollo, Pietro, Cristo, come se fossero stati battezzati nel nome

di Paolo, Pietro od Apollo, o come se Cristo stesso li avesse battezzati. Si vede una comprensione sbagliata del

battesimo, parla di fazioni e lascia intravedere che il battesimo non è amministrato a nome di Paolo, Pietro o di Apollo.

In un capitolo successivo della lettera, 1Cor 6,11, dice espressamente che i Corinzi sono stati lavati, santificati e

giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio. Il problema è sapere se battezzare nel nome

di Cristo esprime una formula battesimale.

Nella stessa lettera, al cap. 7 v. 14,16 alcuni vedono un richiamo al battesimo dei bambini. In realtà del battesimo dei

bambini non è fatta alcuna allusione in questo passo. Inoltre, se il congiunto pagano è santificato dall'altra parte

cristiana, per analogia i bambini sono santificati dai genitori già cristiani. Del passo può essere data un'interpretazione

stretta, il battesimo, e una più larga che mette in questione il battesimo sacramentale, forse il battesimo dei bambini in

età di ragione.

In Ef 5,26 Paolo fa un breve discorso sui doveri di famiglia, sui rapporti tra marito e moglie. L'apostolo propone alla

coppia il modello di Cristo che per amore della chiesa si è consegnato per santificarla e purificarla "con una parola nel

bagno d'acqua". Qui c'è allusione al battesimo, perché due sono gli elementi essenziali: il bagno d'acqua e la parola di

santificazione. Non si parla di ministro del battesimo e di altre circostanze. Nel testo greco è diverso. Nella Vulgata c'è

l'aggiunta: "il bagno d'acqua con una parola di vita". Ma la Vulgata è traduzione latina fatta da Girolamo alla fine del IV

sec. Girolamo lo ha detto in funzione di quello che si faceva nel suo tempo, in modo più o meno consapevole.

L'epistola agli Ebrei sviluppa una specie di dottrina sul battesimo, dalla quale risulta che il battesimo era prassi

comune nella chiesa al tempo in cui fu redatta. In 6,1-2 sono enumerate:

1. la conversione dalle opere morte

2. la fede in Dio

3. l'istruzione sul battesimo

4. l'imposizione delle mani.

C'è allusione esplicita al battesimo. Abbiamo l'impressione di un'allusione alla preparazione battesimale e ad un rito

complementare. Ma il problema è sapere quali sono i riti cristiani e se per caso non c'è un ricordo più o meno esplicito a

pratiche ebraiche o al battesimo di Giovanni.

L'autore dell'epistola enumera diverse tappe nel battesimo:

1. Conversione

2. Fede

3. Imposizione delle mani.

Cioè, preparazione al battesimo (catecumenato), il battesimo, riti complementari.

In 6,4 e 10, 32 abbiamo i termini fotismoi e fotismoj. Il battesimo è chiamato illuminazione, secondo questo

vocabolario battesimale. È l'illuminazione dell'uomo che riceve i lumi della rivelazione cristiana. L'effetto spirituale è

parallelo al bagno del corpo.

In 10,22 leggiamo:

15 Per la bibliografia: XXXIII Settimana di studi sull'alto Medioevo, pubblicata nel 1987 dal Centro Italiano

sull'Alto Medioevo; SAXER, libro pubblicato dallo stesso centro di studio nel 1988, 21992; seguì una raccolta di testi

patristici sul battesimo, soprattutto del IV e V secolo; BENOIT - MUNIER, Le bapteme dans l'eglise ancienne, Berna

1994. 16 "Perché il marito non credente viene reso santo dalla moglie credente e la moglie non credente viene resa

santa dal marito credente; altrimenti i vostri figli sarebbero impuri, mentre invece sono santi."

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Il culto cristiano nei primi due secoli. 15

I cuori sono puliti da ogni sozzura della coscienza cattiva e il corpo è lavato con acqua pura.

Anche qui vediamo un parallelismo tra rito esteriore e il bagno spirituale.

La 1Pt ricorre alla tipologia del battesimo, alle figure veterotestamentarie che spiegano il rito cristiano. Una delle

figure che torneranno spesso è il diluvio e l'arca di Noè. In 3,20 troviamo:

“Noè costruiva l’arca, nella quale un piccolo numero, cioè otto persone, furono salvate per mezzo

dell’acqua (questo è il tipo). L’antitipo è il battesimo, che che vi salva adesso e non consiste

nell’allontanare la sozzura del corpo, ma è l’impegno a Dio di una buona coscienza mediante la

risurrezione di Cristo”.

Elementi importanti sono:

1. Il parallelo tra l’episodio veterotestamentario e il compimento nel NT

2. L’acqua è l’elemento materiale per salvare la vita delle persone. Nel battesimo i salvati sono

molto numerosi.

3. La parola importante è avnti,tupoj che introduce il battesimo, presuppone il tu,poj, l’arca di

Noè. È l’esegesi tipologica: il modello è un fatto dell’AT che si realizza con il NT. L’AT annuncia il NT e

il NT compie l’antico. L’arca di Noè salvò 8 persone dal diluvio, l’antitipo è il battesimo cristiano, che

però non salva i corpi, ma le coscienze e suppone da parte del battezzato un impegno, reso efficace e

possibile mediante la risurrezione di Cristo. L’arca della nuova alleanza è la chiesa. Questa tipologia si

ritroverà come un filo conduttore attraverso i testi patristici. L’esegesi tipologica affonda le sue radici nella

Scrittura, nella rivelazione. I padri in questo modo di procedere seguono l’esempio di Pietro.

Gli ATTI sono stati composti ad Antiochia negli anni 70/80 del primo secolo. Troviamo il ricordo di parecchi

battesimi celebrati nel nome di Cristo o di Gesù: Cfr 2,38; 8,12-16; 10, 48; 19,5-26. Inoltre per trovare una formula

simile: At 22,16; 1Cor1,13; Gal 3,27; Gc 2,7.

Il primo batte4simo che ci interessa è quello di Paolo. Gli Atti non danno alcuna indicazione, riferiscono il fatto

senza dare particolari sullo svolgimento: viene battezzato da Anania e guarito dalla cecità (cfr 9,18). Sono riferiti

parecchi battesimi di gruppi:

a Samaria 8,12-16

la famiglia di Cornelio17 10, 48

Lidia a Filippi16,15

la guardia della prigione a Filippi 16,33

a Efeso 19,5

In questi passi si parla solo di battesimo, cioè di un bagno d’acqua. In altri passi si parla dell’imposizione delle mani

per conferire lo Spirito Santo, rito a volte distinto dal battesimo. I samaritani battezzati dopo aver ricevuto lo Spirito con

l’imposizione delle mani (cfr 8, 15; 19,6). Nel caso di Cornelio il dono dello Spirito precede il battesimo, è il fatto che

permette a Pietro di battezzare Cornelio, un non ebreo, pagano (10,47-48).

Un caso particolare è il battesimo dell’eunuco (8,26-39), che dà immagine viva del modo con cui amministravano i

battesimi. L’eunuco tornava da un viaggio a Gerusalemme, doveva essere un ebreo, forse discendente da quelli cacciati

nella dispersione della diaspora. Era eunuco della regina Candace, che non si sa chi fosse. L’Etiopia era indeterminata:

si indicavano le regioni oltre il Mar Rosso, la parte orientale e non solo l’Etiopia in senso stretto, anche i paesi

dell’Oceano Indiano. L’etiope torna dal pellegrinaggio nel suo carro, doveva avere un cocchiere perché leggeva il

profeta Isaia sul Servo di Jahvè (53,7ss), senza comprendere. Il pellegrino era un vero e proprio ebreo o un proselito?

Forse era un pagano che si era avvicinato alla religione ebraica. Mosso dallo Spirito Filippo si avvicina, e spiegando il

passo gli insegna la buona novella di Gesù. L’eunuco ha capito la lezione, chiede il battesimo che viene compiuto. Il

battesimo è preceduto da una breve catechesi, una breve istruzione, non è un catecumenato lungo.

Filippo dice: “Se credi con tutto il cuore , il battesimo è permesso”. Rispose l’eunuco: “Credo che

Gesù Cristo è il Figlio di Dio.” (8,37)18

C’è una variante nei codici: per alcuni codici è più sviluppata la confessione di fede. Si tratta di un rituale completo

del battesimo primitivo. Possiamo così riassumerlo:

1. Istruzione che mostra la corrispondenza tra AT e NT mediante un’esegesi tipologica.

2. Il battesimo è preceduto da una professione di fede, Gesù è il Figlio di Dio. È un elemento

nuovo attestato per la prima volta.

17 La famiglia va intesa in senso antico: non solo i figli, ma anche i servitori e i domestici facevano parte della

domus. 18 Nota del compilatore di questa trascrizione: Il testo citato dal professore è una glossa molto antica che si

ispira alla liturgia battesimale. Non tutte le traduzioni la riportano.

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Il culto cristiano nei primi due secoli. 16

3. L’elemento rituale del battesimo: è compiuto in un luogo dove c’era acqua. Che significa? Un

fiume, una sorgente, una fontana, una cisterna dove le carovane si fermavano. In questo racconto non si

parla di imposizione delle mani, c’è solo il bagno d’acqua.

Per concludere la rassegna neotestamentaria c’è una domanda che si pone: che significa la formula battezzare nel

nome di Gesù? C’è da distinguere il battesimo di Gesù da quello di Giovanni Battista. Nel NT ci sono cristiani battezzati

col battesimo di Giovanni che non conoscevano il battesimo di Gesù e si facevano poi battezzare nel nome di Gesù.

C’era indeterminazione sul significato del battesimo: quello di Giovanni non è quello di Gesù. La ripetizione della

formula in Paolo e Atti può significare che siano state formule battesimali usate nei primi battesimi: Ti battezzo nel

nome di Gesù.

La formula di Mt 28,18-19 è formula più precisa, ma forse cronologicamente posteriore. La formula di Mt è

trinitaria. Queste due formule sono echi di due usanze diverse e successive nel cristianesimo primitivo:

a) Battezzare nel nome di Gesù

b) Battezzare nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.

La stessa differenza la troviamo nella Didachè, prima testimonianza patristica, datata agli inizi del II secolo, poco

dopo l’anno 100. Il cap 7,1ss è dedicato al battesimo:

1.Per il battesimo battezzate nel modo seguente: dopo aver detto primariamente quanto precede,

battezzate nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo in acqua viva. 2. Se non hai acqua

corrente, battezza in altra acqua; se non puoi avere acqua fredda prendi acqua calda. 3.Se manchi

dell’una e dell’altra, versa per tre volte sul capo l’acqua nel nome del Padre, del Figlio, e dello Spirito

Santo. 4. Che il battezzante e il battezzando e altre persone che lo possono, digiunino prima del

battesimo. Ma comanda al battezzando di digiunare uno o due giorni prima.

Il battesimo è preceduto da istruzione previa che si trova nei 6 capp. precedenti: tau/ta pa,nta proeipo,ntej.

L’espressione peri. de. tou/ bapti,smatoj sembra distinguere il paragrafo dai precedenti e dai successivi. Più tardi dirà:

peri. de. th/j euvcaristi,aj. L’istruzione precedente riguarda le cosidette due vie, secondo la tradizione giudaica il

catecumeno deve scegliere una delle due vie. Il carattere preliminare di questa istruzione risulta da tau/ta pa,nta

proeipo,ntej, solo dopo battezzate. C’è un chiaro legame tra istruzione previa e battesimo.

Seguono nel passaggio che ho letto le istruzioni sul modo di conferire il battesimo. Il battesimo normale è

immersione nell’acqua viva non riscaldata artificialmente. Se l’acqua non basta, allora si usa un po’ d’acqua sul capo. Le

modalità pratiche del battesimo sono diverse, anche se c’è una preferenza evidente per l’acqua viva. Si fa riferimento

all’uso cristiano corrente, attestato nel NT, Gesù battezzato nel fiume e l’eunuco in un punto d’acqua non precisato.

Secondo Tertulliano Pietro aveva battezzato nel Tevere, per gli Atti apocrifi degli apostoli nel mare. C’era una grande

variabilità nel luogo, a seconda delle possibilità locali e topografiche.

La formula è quella trinitaria che troviamo in Mt.

Chi battezza? La Didachè non lo dice. Il ministro non è precisato, può essere un cristiano qualsiasi. Non c’è ancora

un ministro speciale incaricato del battesimo. Anche se il NT attesta che generalmente sono gli apostoli a battezzare i

fedeli. Ma in comunità già formate chi battezza? Rimane indeterminato.

La formula non è la sola che troviamo nella Didachè. In 9,5 c’è allusione a formula cristologica:

“Nessuno mangi né beva della vostra eucarestia, tranne i battezzati nel nome del Signore”.

Questa formula ricorda quella degli Atti degli apostoli riguardo al battesimo nel nome di Gesù. Sembra attestare una

formula cristologica anteriore a quella trinitaria. Tanto che la formula di Mt per alcuni critici è fabbricata nel IV secolo.

La Didachè è nata in un ambiente vicino ad Antiochia, più la campagna di Antiochia che la città, perché certi indizi

rivelano nel compilatore la conoscenza della campagna. Può darsi che la doppia formula sia legata all’esistenza di due

comunità etniche ad Antiochia, la giudeo cristiana che battezzava nel nome del Signore, e la pagana che battezzava nel

nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Questa con l’andar del tempo si è fatta più numerosa. La coesistenza

di due formule rivela un rito in via di evoluzione.

Per quanto riguarda il rito stesso, il battesimo in acqua viva sembra essere l’uso più antico. Quando si comincia a

battezzare nelle case con l’acqua disponibile in grandi e piccole quantità, ci si è accontentati dell’infusione (Tertulliano,

De baptismo 4,3).

Secondo la Didachè, la preparazione battesimale non è solo dottrinale (cfr. la dottrina delle due vie), ma anche

ascetica. Questa consiste in un digiuno più o meno lungo, per il battezzando due giorni, per il battezzante e gli altri

cristiani che lo vegliano, in un digiuno preparatorio, probabilmente fino alla sera. Questo sottolinea il carattere

comunitario della preparazione al battesimo: tutta la comunità è invitata a condividere il digiuno.

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Il culto cristiano nei primi due secoli. 17

In un passo seguente, il didachista precisa che solo i battezati hanno il diritto di partecipare all’eucarestia. C’è un

intimo legame tra battesimo ed eucarestia. I non battezzati sono esclusi dall’eucarestia.

Nessuno mangi o beva della vostra eucarestia, se non quelli battezzati nel nome del Signore. Per

questo il Signore disse: non date le cose sante ai cani. (9,5).

L’eucarestia è l’ultima tappa del percorso iniziatico, l’iniziazione cristiana non è completa senza eucarestia. La

cerimonia del battesimo si conclude normalmente con un’eucarestia. Testi più tardivi diranno che la vigilia battesimale

si conclude la mattina con la celebrazione dell’eucarestia. Ciò non è detto nella Didachè, ma penso che non ci sia rottura

tra usanza della Didachè e quella del tempo successivo. Possiamo supporre anche al tempo della Didachè una vigilia in

cui si fa istruzione, battesimo ed eucarestia.

Tra il battesimo del cap. 7° e preghiera eucaristica del cap. 8° e le preghiere eucaristiche che si trovano nei capp. 9°

e 10°, abbiamo una sequenza uguale a quella che troveremo in testi più tardivi. Ad es. nei capp. 61-65 della prima

Apologia di Giustino.

Il battesimo primitivo appartiene al complesso iniziatico che comprende riti diversi che si seguono e sono integrati in

un insieme. Il percorso iniziatico va dalla preparazione iniziale all’eucarestia con il percorso intermedio.

C’è conferma del carattere dell’iniziazione cristiana nell’Apologia di Giustino. Lì è distinta l’eucarestia battesimale

da quella che si ripete ogni domenica. L’ordine lo troviamo in due documenti. Da una parte l’eucarestia faceva parte

integrante del rituale, dall’altra c’è un rituale diverso per l’eucarestia domenicale. In questa sono menzionate letture,

canti ed omelia nella prima parte, poi l’eucarestia propriamente detta quando sono presentati i doni, sui quali si fa la

preghiera di eucarestia che si conclude con la comunione. È la liturgia della parola seguita dalla liturgia propriamente

eucaristica.

Il seguirsi dei riti è attestato in Giustino, ma dobbiamo supporlo esistente in qualche modo già nella Didachè.

L’eucarestia domenicale non è doppia della prima eucarestia battesimale, è modo diverso di celebrare l’eucarestia in

circostanze diverse.

La Didachè consente di precisare le altre osservazioni fatte sul NT, come il problema delle due formule battesimali.

Coesistono tutte e due nella Didachè e nel NT, ma non nella stessa forma. Gli scritti del NT non permettono di stabilire

chiaramente la successione cronologica delle due formule, mentre la successione cronologica sembra più chiara nella

Didachè in relazione al contesto in cui le formule sono citate. La formula trinitaria si trova due volte nella Didachè,

mentre la formula cristologica è citata a proposito di quelli che hanno ricevuto il battesimo e possono partecipare

all’eucarestia. Nel cap 9 l’autore parla dell’eucarestia. Possiamo pensare in primo luogo che la formula cristologica

riguarda un uso giudeo-cristiano, mentre la formula trinitaria è dell’uso pagano-cristiano. In secondo luogo dobbiamo

distinguere nella Didachè autori diversi, che hanno preceduto il compilatore finale, dell’inizio del 2° sec., che ha

compilato documenti preesistenti. La sezione delle due vie è libretto di origine ebraica e in certi casi il tema è pagano,

come quello di Ercole al bivio, tema pagano di Proclo di Ceas, V sec. a. C. Questo tema pagano lo troviamo in Oriente,

e medio, e estremo. Il Bagawat indiano è versione delle due vie. C’è una versione giapponese, le due strade. Il tema

della diaspora è stato ebraizzato, poi è stato cristianizzato. Il compilatore finale della Didachè è cristiano di origine

pagana, ed usa la formula trinitaria.

Le due formule alludono alla coesistenza di due comunità, una giudeo-cristiana, l’altra pagano-cristiana nella stessa

città, nelle quali la convivenza non sembra essere stata facile, quando si esprimevano in riti diversi. Al tempo in cui la

Didachè fu compilata la componente pagano-cristiana sembra essere più importante dei giudeo-cristiani, sopraffatti

dall’arrivo sempre più importante di pagano-cristiani. I giudeo-cristiani sono vecchi sopravvissuti ai primi tempi

dell’evangelizzazione. Il compilatore della Didachè è della generazione successiva.

Allora l’uso trinitario è posteriore a quello cristologico. Quest’ultimo sembra essere stato il modo di battezzare al

tempo dei primi apostoli, che poi è scomparso. Nella Didachè c’è stratificazione di testi provenienti da ambienti e tempi

diversi.

Perciò possiamo collocare la Didachè non necessariamente nella città di Antiochia, ma in una regione molto vicina

all’inizio del 2° secolo. Se dobbiamo immaginare la successione cronologica:

Gli Atti sono prima del 70, perché si chiudono con il soggiorno di Paolo a Roma.

I Vangeli dopo il 70, Mt circa l’80.

La Didachè all’inizio del 2° secolo.

La Didachè rispecchia un cristianesimo primitivo che dal giudeo-cristianesimo si sviluppa progressivamente verso il

pagano-cristianesimo, nella composizione e nell’origine etnica dei suoi membri.

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Il culto cristiano nei primi due secoli. 18

La testimonianza successiva sul battesimo è alla metà del 2° secolo: l’Apologia di Giustino. Tra la Didachè e

l’Apologia di Giustino si può mettere la lettera dello Ps. Barnaba, intorno al 125-130. Se l’epistola ci informa sul

pensiero e su certe dottrine di altre correnti giudeo-cristiane, le sue informazioni sul battesimo sono quasi inesistenti.

Parlando del battesimo lo chiama fotismoj, illuminazione, ma di passaggio.

L’Apologia di Giustino ci dà informazioni più precise. Il suo scopo era di rispondere a certe critiche rivolte ai

cristiani nella prima metà del secolo. Le accuse fondamentali sono tre:

Ateismo, perché non partecipavano al culto del panteon di Roma

Cannibalismo, mangiavano la carne di un bambino, avviluppato nella farina

Si baciavano, si chiamavano fratelli e sorelle, praticavano l’incesto.

Accuse visibilmente popolari, che manifestavano incomprensioni del mistero cristiano, reinterpretato in una visione

paganeggiante, incapace la novità della rivelazione cristiana. Il filosofo Giustino intendeva fare esposizione della

dottrina e della prassi cristiana del suo tempo. Indirizza la sua apologia all’imperatore Marco Aurelio e al figlio adottivo

Lucio Vero.

Giustino, filosofo, martire verso gli inizi degli anni 160, ha vissuto a Roma due volte successive, lo dice nelle sue

apologie e nel Dialogo con Trifone. Nato a , ha girato per l’intero impero. In Occidente non sembra essere

stato oltre Roma. Qui apre una scuola privata, come era di moda a quel tempo: ogni filosofo poteva avere discepoli ed

insegnare loro. Aveva stabilito la sua dimora sul bagno di Timoteo, che sembra essere stato vicino alla Tiburtina. Il testo

è corrotto nel codice: parla di Bagni di Martino, forse corruzione di Tiburtino.

Scrive due apologie, la prima verso il 153-154. Per la seconda il problema è capire se sia distinta dalla prima, o è un

complemento aggiunto alla prima. Rientra nella tradizione apologetica del 2° secolo dove i cristiani colti sentono il

bisogno di difendere il cristianesimo dalle tre accuse accennate, riprese poi dai filosofi pagani (Porfirio per es.). Alcune

di queste apologie non avevano destinatari, altre erano indirizzate agli imperatori. L’ultimo degli apologisti sarà

Tertulliano, che indirizza l’Apologeticum al governatore della provincia d’Africa.

____Note Personali di Studio_____________________________________________________________________

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Il culto cristiano nei primi due secoli. 19

[PC 511.5]

Siamo arrivati alla testimonianza di Giustino: nella sua prima apologia c'è un primo passo, nel cap. 61 che riguarda

la preparazione battesimale. Infatti, per rispondere con efficacia alle accuse rivolte ai cristiani dai Pagani, Giustino

descrive le riunioni cristiane:

“Tutti quelli che si lasciano convincere e che credono alla verità dei nostri insegnamenti e della nostra dottrina

e che dichiarano di poter conformarvi la loro vita, a questi noi insegniamo a pregare e a chiedere a Dio nel digiuno

la remissione dei peccati, dei loro peccati passati, e anche noi stessi preghiamo e digiuniamo assieme a loro. Poi

sono condotti a noi in luogo dove c’è acqua e li sono rigenerati secondo il modo di rigenerazione che abbiamo

conosciuto noi stessi. Infatti è a nome di Dio Padre e sovrano dell’universo del Nostro Salvatore Gesù Cristo e

dello Spirito Santo che loro prendono nell’acqua il bagno di purificazione... perché Cristo ha detto: “Se non siete

rigenerati non entrerete nel regno dei cieli”. Questo bagno è chiamato illuminazione perché quelli che capiscono

queste cose hanno la loro mente illuminata...”.

Si nota, in primo luogo, il posto preciso di questi estratti: con il cap. 60 dell’apologia si conclude la prima parte della

apologia, che contrappone e oppone alle accuse pagane la dottrina cristiana ed in modo particolare la dottrina della

salvezza. E’ dunque un periodo indeterminato di insegnamento che viene dato a tutti, in modo indistinto, perché tra

questi uditori ci sono quelli che accettano l’insegnamento cristiano e si propongono di conformarvi la loro vita. Poi ce

ne sono altri che pur avendo ascoltato non sono stati toccati profondamente dall’insegnamento stesso necessario per la

loro conversione. Dunque, abbiamo un primo periodo preparatorio, di cui non si sa la durata: quando questo periodo è

arrivato al termine si pone per gli uditori il problema di sapere quale seguito bisogna dare all’insegnamento stesso, cioè

se convertirsi alla nuova fede oppure no. Arrivati a questo punto Giustino dice "quelli che si sono lasciati convincere":

così si ha un processo intellettuale di conversione, anche se non manca quello morale (cioè coloro che si propongono di

conformare la loro vita all’insegnamento). Bisogna, dunque, notare questo doppio piano dell’adesione: a quanti hanno

deciso questa conversione viene insegnata la preghiera insieme ad alcune pratiche di condotta cristiana come il digiuno.

Dunque, circa la preparazione battesimale, possiamo distinguere due grossi periodi: c'è un periodo indeterminato che

riguarda la preparazione generale che si dà ai fedeli e ai non credenti durante ogni riunione non eucaristica, cioè la

prima parte della messa, quella costituita dalle letture, dalle preghiere, dai canti e dalle esortazioni (liturgia della parola).

Bisogna perciò essere consapevoli che questa prima parte della liturgia è aperta a tutti senza alcuna distinzione.

Evidentemente tra gli uditori non credenti c'è anche una certa scelta che indica un bisogno di perfezione anche se non

arriva sempre ad esprimersi in una decisione definitiva.

A partire da un certo momento la preparazione viene riservata a quelli che si sono convertiti, cioè a coloro che si

vogliono conformare la loro vita all’insegnamento teorico ricevuto. Questa conversione avviene per la remissione dei

peccati, per cui non si tratta soltanto di una conversione intellettuale, ma anche di una scelta religiosa che stabilisce

finalmente un nuovo tipo di rapporto con Dio.

Il secondo periodo si richiama alla preghiera e al digiuno rivestendo un carattere comunitario: la comunità prega e

digiuna con i futuri battezzandi. La sequenza delle diverse tappe è semplicemente indicata con un "poi" che non indica

una cronologia precisa, ma indica il modo in cui si seguono gli atti. Effettivamente poi i battezzandi vengono condotti ad

un luogo dove c'è l'acqua: si tratta di una indicazione topografica molto indeterminata. Non c'è un luogo preciso dove

avviene amministrato il battesimo, se in una casa con bagno, oppure presso le fontane. A Roma, ad esempio, numerose

erano le case con bagni interni molto grossi, delle vere e proprie terme capaci di ospitare tutte le persone della casa.

Anche sul rito preciso della rigenerazione non ci sono molti elementi chiari, anche se abbiamo due indicazioni più

precise: “Sono rigenerati nello stesso modo in cui noi lo fummo” sono parole di Giustino che riguardano il bagno

accompagnato con una formula. Tali indicazioni dimostrano che si tratta di un'immersione vera e propria nell'acqua che

assume un significato particolare con la formula (non esplicita) che dice semplicemente che il battezzando è rigenerato

nel nome di Dio Padre, del Salvatore Gesù Cristo e dello Spirito Santo. Dunque si tratta di una formula trinitaria, poiché

vengono enumerate le tre Persone della Trinità. Il pronunciare della formula è concomitante con il bagno: tutto avviene

contemporaneamente. Segue la giustificazione scritturale dove Cristo stesso dice che “Se non siete rigenerati non

entrerete nel regno dei cieli”. Con questa parola Giustino riattacca il bagno purificatore alla volontà di Cristo.

L’ultimo passo della prima apologia dà uno dei nomi del battesimo: il nome comune è “bagno”, però il t.

“photismon” è riferito alla illuminazione non materiale: nel battesimo c'è dunque un'illuminazione interiore, intellettuale

e spirituale, perché questo bagno è chiamato illuminazione e i battezzati capiscono l'insegnamento di Cristo. Lo spirito

viene inondato dalla luce: il battesimo ha per effetto quello di far capire l’insegnamento previo e davanti a questa

conclusione di Giustino, siamo, in realtà, in presenza di un'abitudine delle comunità primitive. L'insegnamento previo

non consiste nella spiegazione del battesimo, ma consiste in tutto quello che è necessario per arrivare al battesimo

stesso, del quale si ha una conoscenza esistenziale. Si vive questa conoscenza e si ha l'esperienza del modo di diventare

cristiani. Quello che rimaneva nell’insegnamento previo era piuttosto allusivo alla realtà cristiana che bisognava vivere.

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Il culto cristiano nei primi due secoli. 20

Anche qui notiamo una costante, cioè l’insegnamento previo è spirituale, spesso dato in modo tipologico, e con dei

riferimenti alla Bibbia. Dunque, il neofita riesce a comprendere il senso di quello che gli viene insegnato perché lo inizia

a vivere sin dai primi istanti, sino ad una completa progressione spirituale. E' una conoscenza sperimentale vera e

propria. E' il caso anche dell’eucaristia di cui Giustino parlerà nei capitoli successivi.

Dunque il rito battesimale è ridotto, agli occhi di Giustino ad un bagno, là dove c’è acqua: come nel NT il bagno non

si non si prende, ma viene dato perché sia un vero e proprio un battesimo. Il battezzando viene introdotto nell’acqua.

Questo bagno è dato nel nome di Dio. I tre nomi di Dio (Padre, Figlio e Spirito Santo) devono essere invocati sul

battezzato nell’acqua, mentre il battezzato sta nell'acqua; così il neofita viene lavato nei peccati e viene illuminato nello

spirito e rigenerato nella vita nuova, poiché il battesimo è anche una nuova rigenerazione. Questa rigenerazione

battesimale presuppone la fede previa, consapevole e volontaria del battezzato, che crede alla Verità insegnata. Queste

sono caratteristiche che esprimono il modo antico di amministrare il battesimo il quale sottolinea la dottrina della

salvezza ed aggrega il neofita nella comunità dei credenti. Effettivamente il battesimo apre al neofita le porte della

comunità. Ma come si traduce questo ingresso del battezzato nella comunità? Giustino prosegue nel cap. 65 dicendo:

“Noi dopo aver lavato quelli che ha abbracciato la fede, che ha dato il suo assenso, noi lo conduciamo presso

quelli che chiamiamo fratelli nel luogo dove sono radunati”.

Dunque, durante la cerimonia del battesimo, che si è svolto in un primo ambiente non determinato, il neofita viene

introdotto in un altro ambiente dove è riunita la comunità e vi prende posto per partecipare all'eucaristia che conclude

l'iniziazione dl neofita che assiste per la prima volta al rito eucaristico. Effettivamente nel cap. 65 segue la descrizione di

tale sacrificio.

Giustino precisa questa eucaristia alla quale (cap. 66,1) non è permesso a nessuno di prendere parte se non ha

ricevuto il bagno della remissione dei peccati (l'eucarestia è accessibile solo ai battezzati). Questa precisazione la si

trova già nella Didaché, dove troviamo la citazione scritturistica “non dare le perle ai porci”. Dunque, Giustino

sottolinea due volte il legame tra l’iniziazione battesimale ed il culto cristiano. Solo i battezzati sono ammessi al culto

perché soltanto loro sono preparati e degni di partecipare al rito eucaristico che comprende tre atti essenziali, cioè la

preghiera dei fedeli, il bacio della pace e le offerte eucaristiche, accompagnate dalla preghiera e dalla comunione. Molto

più chiaramente della Didaché, Giustino riferisce l'eucarestia al battesimo, non solo perché nella stessa Didaché ed in

Giustino i due riti si seguono, ma anche perché l’eucaristia è accessibile ai soli battezzati. Quindi si può dire che

l'iniziazione cristiana è compiuta solo quando il neo-battezzato per la prima volta ha partecipato all'eucarestia

comunicandosi con il corpo ed il sangue di Cristo. A partire da questo momento il neofita è un cristiano vero e proprio,

con tutti i diritti ed i doveri e senza alcuna distinzione.

Siccome questa testimonianza riguarda la comunità di Roma, dove vive Giustino, quando scrisse la sua prima

apologia, possiamo concludere che lo svolgimento dell'iniziazione cristiana è sostanzialmente uguale a quello osservato

in Siria, a circa 50 anni di distanza. Forse possiamo notare alcune differenze tra la testimonianza di Giustino e quella

della Didaché: una prima differenza, forse quella più importante, riguarda il tempo di preparazione. Giustino è preciso

rispetto alla Didaché perché in Giustino stesso è evidente l’importanza che si attribuisce a questa preparazione che è

aperta a tutti, senza distinzione. Le esclusioni vengono solo dopo questo insegnamento per coloro che non lo accettano.

Lo schieramento non è opera della comunità dei fedeli, ma avviene per decisione degli ascoltatori. In Giustino, ancora

più accentuato rispetto alla Didaché, è l’affermarsi del carattere comunitario nell’ambito della preparazione battesimale,

quando i fedeli pregano e digiunano assieme ai candidati al battesimo. Ciò vuol dire che la comunità si sente

responsabile nell'ammissione dei nuovi membri, in quanto intende aiutarli, offrendogli una comunità di vita, dove non

solo si condivide uno stesso stile di vita, ma si vive la mutua carità. Un ultima osservazione, che possiamo forse ricavare

dall’apologia di Giustino, sta nel fatto che questa preparazione ultima al battesimo riveste una certa riservatezza,

affinché i neofiti comprendano sperimentalmente il significato dell'insegnamento previo. In questo modo di fare c'è un

primo accenno alla disciplina dell'arcano, come prassi costante nei secc. III, IV e V, secondo la quale ai non battezzati

era vietato comunicare le formule della preghiera ed i riti del culto cristiano. Quindi, la cerimonia battesimale veniva

descritta in termini molto generali e vaghi, per cui non bisognava comunicare ai neofiti il testo della preghiera del Padre

Nostro e a fortiori il contenuto dei riti stessi. Rimaneva, dunque, fondamentale l’esperienza personale di ciascun neofita,

prima di ricevere il battesimo.

La testimonianza di Tertulliano.

Tertulliano scrisse il primo trattato sul battesimo, nell’ambito dell’epoca paleocristiana. Si pensa che questo trattato,

De baptsmo debba essere collocato intorno al 198-200, piuttosto che nel periodo successivo, cioè tra il 200 ed il 206. In

ogni modo questo trattato appartiene al periodo cattolico della vita, prima di diventare completamente montanista,

intorno al 207. Questo trattato potrebbe essere il riflesso del suo insegnamento sul battesimo, cioè l’insegnamento che

elargiva come catechista, perché questa preparazione catechetica al suo tempo poteva essere fatta sia dai laici che dai

chierici, in particolare dai presbiteri. Che Tertulliano fosse stato presbitero è pacificamente ammesso, anche se le

argomentazioni addotte non sono molto convincenti.

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Il culto cristiano nei primi due secoli. 21

Comunque, l'insegnamento che sviluppa nel suo trattato permette di coglierlo una tappa più evoluta e

particolareggiata, rispetto al pensiero di Giustino e secondo i due aspetti dell'iniziazione cristiana, sopra enunciati, cioè

la preparazione e la celebrazione del battesimo. Se confrontiamo i dati del battesimo con altre informazioni sparse che

possiamo raccogliere dagli altri scritti di Tertulliano, si può avere un’idea abbastanza precisa del rito battesimale del suo

tempo. In ogni modo questo trattato è il più antico trattato sistematico a livello di dottrina e di rito cristiano.

Esaminando i diversi aspetti che emergono da questo trattato, questa preparazione battesimale è in via di

strutturazione: ciò risulta in modo particolare dal vocabolario battesimale. Come sono chiamati i candidati al battesimo,

che ricevono una certa preparazione: in un primo luogo troviamo la parola catechumenus che è la semplice

traslitterazione del termine greco. E’ un fenomeno abbastanza diffuso nel primo latino cristiano. Certi termini, che hanno

un valore tecnico, vengono semplicemente traslitterati in latino. L'ortografia della parola catechumenus non è ancora

definitivamente fissata. Infatti essa varierà in diversi modi perché già in Tertulliano e ancora di più in Cipriano lo

troviamo già scritto senza la “h”, cioè, catecumenus. Ci sono addirittura termini come caticuminus o catecuminus o

caticumenus. Ci sono infinite varianti ortografiche che probabilmente sono più o meno il riflesso del linguaggio parlato

e scritto al momento. Comunque questa parola designa coloro “che ascoltano” (kate echeo) l'eco della parola

pronunciata. Però esistono anche traduzioni latine del termine, cioè gli equivalenti latini sono audientes o auditores, che

precisano il senso della parola, perché si rifanno ad un insegnamento piuttosto orale che si ascolta. Questo spiega il

senso della memoria che a quel tempo era una facoltà molto più sviluppata della nostra.

Dunque, i catecumeni ascoltano l'insegnamento e cercano di penetrare la dottrina ricevuta: la loro situazione è

simile al periodo del noviziato di cui c'è un aspetto rituale. Tertulliano usa espressamente il termine novitioli (?), per

indicare coloro che imparano una determinata cosa. Questo noviziato viene accompagnato da certi riti, anche se

Tertulliano non dice niente di questi riti. Talvolta si può cogliere una leggera allusione ad un preciso rito, però, è

necessario rifarsi ad altre fonti per comprenderlo meglio. Nello stesso modo rimane ancora indeterminato il modo e la

durata di questa iniziazione, tanto più che non si sa la durata dell'ultimo periodo di preparazione, cioè del periodo

dell’ultima quaresima, prima del battesimo. Una particolarità di vocabolario a Roma è che i catecumeni vengono

chiamati eletti (i scelti): è forse questa una differenza del modo di scegliere i candidati, rispetto ad altre comunità

cristiane perché a Roma sembra intervenire la gerarchia della comunità cristiana e perché possiamo immaginare il caso

di persone che chiedono il battesimo, ma non sono ancora pronte per riceverlo. Nel resto dell'Occidente, solo a partire

dalla seconda metà del III secolo, questi candidati al battesimo saranno chiamati competentes (cioè coloro che sono stati

ammessi). In Oriente la terminologia è ancora molto più fluente: anche qui si vede una certa esitazione nell’uso dei

termini, perché talvolta i catecumeni vengono chiamati "quelli che stanno sul punto di essere illuminati" o “gli

illuminati” (si dovrebbe dire "illuminandi"), cioè coloro che sono destinati ad essere battezzati. Ma quello che rimane

ancora più flessibile è la durata della preparazione, perché risulta chiarissimo da Tertulliano stesso nel De baptismo

18,4. La durata è variabile perché viene adattata alle persone e al loro progresso spirituale.

Tertulliano, invece, enuncia esplicitamente le condizioni primarie per ricevere il battesimo, cioè le esigenze morali

che tale sacramento richiede. Nel De Penitentia al cap. 6,8 infatti Tertulliano dice:

“Il battesimo è un tempo di penitenza, di prova e di timore”.

Questo vuol dire che ci sono delle difficoltà che devono essere superate per rispondere a queste esigenze. Quando si

ha l’impressione che il superamento è definitivo, allora il catecumeno potrà finalmente essere ammesso tra coloro che

devono ricevere il battesimo. Si tratta di una preparazione morale, con un doppio aspetto, cioè la confessione pubblica

dei peccati (primo aspetto) e dare la prova di un miglioramento della propria condotta come garanzia del proprio

cammino di conversione (secondo aspetto).

Tertulliano, nel cap. 19 del De Baptismo arriva a fare delle precisazioni quando parla della data del battesimo:

“Il giorno più solenne per il battesimo è quello di Pasqua perché noi siamo battezzati nella passione del Signore”.

In questo modo l’autore descrive in modo esplicito il carattere penoso e sofferto di questa preparazione al battesimo.

Poi c'è anche la cinquantina pentecostale: per Tertulliano è tutto il periodo dei 50 giorni, nei quali è auspicabile il

battesimo. Infatti Tertulliano conclude dicendo:

“Infine, ogni giorno del Signore, ogni ora ed ogni stagione si prestano alla sua amministrazione”.

Se cerchiamo di confrontare questa posizione di Tertulliano, che è preferenziale per la Pasqua, con quella della

Traditio apostolica di Ippolito, possiamo notare che per quest’ultima il battesimo è fissato in una vigilia domenicale non

precisata.

Siamo intorno al 200 in cui la prassi sta per fissarsi, anche se non è ancora fissato l’uso di riservare alla vigilia

pasquale il battesimo solenne dei neofiti. Essendo questa la situazione, la vigilia battesimale si svolge già in un modo

abbastanza complesso: ma quali sono gli elementi di questa vigilia pasquale? Essi sono:

1) la celebrazione previa della benedizione dell'acqua;

2) la professione della rinuncia a satana;

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Il culto cristiano nei primi due secoli. 22

3) il rito battesimale;

4) i riti post battesimali ( l’unzione, la signazione, imposizione delle mani e la sinapsi eucaristica).

Tornando su ognuno di essi, Tertulliano è il primo autore in Occidente che segnali la benedizione dell’acqua che

deve servire al battesimo: lui riporta alcuni temi della preghiera di benedizione dell'acqua; infatti evoca lo Spirito di Dio

che aleggia sulle acque primitive e che è presente sulle acque del battesimo per riempirle con la grazia divina (c'è un

riferimento esplicito a Gen 1,2 secondo la versione dei LXX). Un’altra allusione, anche quella scritturistica riguarda

l'angelo della piscina di Betzaeta che a ore fisse scendeva dal cielo per agitare le acque e per riempirle della virtù divina

che permetteva la guarigione degli ammalati (Gv 5,4). Un’altra allusione neotestamentaria, ancora, riguarda il Giordano

dove viene battezzato Cristo stesso (Mt 3,16). Ma perché queste immagini sono evocate? Sono evocate per significare il

potere rinnovatore e rigeneratore delle acque secondo l’opera dello Spirito che in un qualche modo risulta mischiato alle

acque.

In seguito poi alla prima lettera ai Corinti 10,1-13, viene sviluppata una seconda immagine cioè, non più quella della

ricreazione o rigenerazione, ma quella della liberazione, con riferimento al libro dell’Esodo, cap. 14,15-31 quando parla

del passaggio del Mar Rosso, tramite il quale gli Ebrei sono liberati dalla schiavitù d’Egitto. L’esercito nemico viene

immerso completamente dalle acque, mentre il popolo eletto attraversa le acque per arrivare alla terra promessa.

In questo ambito, allora, possiamo dire che ci troviamo davanti ad una doppia tipologia del battesimo, come

rigenerazione e come liberazione, ma sempre in senso spirituale. E’ lo spirito che viene ricreato.

Queste idee sviluppate da Tertulliano le troviamo in alcuni testi del IV e del V secolo e particolarmente non solo

nelle catechesi battesimali, ma anche in certe preghiere di benedizione dell’acqua del VI secolo (benedizione romana

delle acque battesimali). C’è però da fare un’osservazione: al tempo di Tertulliano, e ancora di più anteriormente, non si

parlava ancora di benedizione dell’acqua perché per il battesimo si usava ancora l’acqua viva, cioè l’acqua dei fiumi e

delle sorgenti o del mare. Tali acque primitive santificate dallo Spirito non avevano bisogno del rito della benedizione.

Questa benedizione speciale veniva invece riservata all’acqua contenuta nei serbatoi, o in cisterne, oppure alle riserve

domestiche.

Effettivamente le preghiere di benedizione comportano un esorcismo per cacciar via dalle acque il demonio e

chiamare su di esse la presenza dello Spirito. Comunque in questa acqua entrano i candidati al battesimo: quando stanno

nell'acqua, prima di immergersi, attestano la rinuncia al diavolo, alla sua pompa, ai suoi angeli (De Spectaculis 4,1).

Tertulliano nel De Corona militis 13,7 spiega che cosa intende per “pompa”: le pompe del secolo, del diavolo e dei suoi

angeli sono le dignità del secolo, le solennità, gli onori, i suffragi popolari, le glorie, le servitù umane e l’idolatria. Tutte

queste cerimonie civili, sociali e politiche sono più o meno legate al culto degli dei antichi (culto degli idoli). Dunque

c’è una rinuncia solenne a tutte queste servitù umane perché il cristiano non è servo del diavolo, ma di Cristo.

Tertulliano non dice espressamente che questa rinuncia sia stata espressa da una formula determinata che la vedremo

meglio definita in Cipriano, anche se pare ci sia già una certa formulazione nella quale entra il diavolo, le pompe19 e gli

angeli.

Il battesimo segue immediatamente, ma effettivamente nello stesso De Corona 3,2-3 dice:

“Rinunciamo al diavolo, poi siamo battezzati”.

Ora il battesimo comporta due gesti distinti, cioè la professione di fede ed il bagno: anche in questo caso non

sappiamo esattamente quale sia stata la formula di professione. Il confronto dei testi, però, ci mostra che questa formula

aveva avuto nell’Africa una certa stabilità da Tertulliano a Cipriano. Si ammette generalmente che la formula consisteva

in una triplice interrogazione seguita da una triplice risposta (Credi in Dio Padre...? Credo - accompagnato con una

prima immersione, Credi in Gesù Cristo, Figlio di Dio....? Credo - accompagnato da una seconda immersione, Credi

nello Spirito Santo... Credo - accompagnato da una terza immersione). Nell’ambito delle formule, per quanto riguarda la

terza domanda, conosciamo una precisazione della Chiesa d’Africa cioè viene formulata l’espressione “per la

remissione dei peccati”, per indicare che avveniva nell’ambito del rito battesimale che si veniva a concludere

definitivamente in una specie di concelebrazione tra il ministro ed il battezzato.

Per designare il bagno stesso, la terminologia è abbastanza molteplice: si parla di “mergere”, o “mergitare”, o

“intiguere”, o “aspergere”, o “perfundere”, o “battizzare” (che è una parola greca semplicemente traslitterata.

Talvolta ci sono delle espressioni più complesse, come ad esempio “in aqua de mittere”). C'è dunque una terminologia

abbastanza fluente ma non ancora ben fissata con un solo termine. Queste espressioni designano sia l’immersione

completa sia quella non completa (vedi le funzioni nel Battistero). Dunque la forma precisa del battesimo poteva variare

da una semplice doccia ad un effettivo bagno. Ai tre articoli della professione di fede corrisponderanno le tre

immersioni o perfusioni, che si vedrà un po’ meglio con Ippolito.

Il prossimo argomento riguarderà in modo rapido i riti post-battesimali in Tertulliano.

19 Le pompe sono le processioni solenni in certe occasioni del culto pagano, come ad esempio le processioni

che inauguravano i giochi del circo, con la venerazione ed il culto degli dei.

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Il culto cristiano nei primi due secoli. 23

[PT 511.6]

LE PRINCIPALI TRADIZIONI DELLA LITURGIA.

Una delle tradizioni principali della liturgia è la Traditio Apostolica. Sotto questo titolo si trova un opera di carattere

insieme canonico e liturgico che si è attribuita nel secolo scorso a Ippolito romano sulla base di un elenco di opere che è

iscritto sul dorsale di una cattedra che si trova oggi nell’ingresso della biblioteca Vaticana. La scritta di questo elenco di

opere è della prima metà del III secolo (secondo i caratteri paleografici). Vi sono elencati una decina di opere, e la

prima, di due righe è la paradwsij apostolikh dunque Traditio Apostolica in latino.

Queste opere sono, come sembra, da attribuire al personaggio che sedeva sulla cattedra e che si è identificato

nel ‘500 con Ippolito romano perché la cattedra, mutila, fatta a pezzi, è stata trovata nelle vicinanze immediate del luogo

dove sorgeva la Basilica di Sant’Ippolito sulla via Tiburtina di fronte all’Agro Verano (l’attuale cimitero).

L’attribuzione di queste opere a Ippolito romano e in particola re della Traditio Apostolica ha suscitato delle

controversie pro e contro l’attribuzione ma credo che vi siano motivi ragionevoli per mantenere questa attribuzione in

ogni modo quello che è importante è che l’opera è testimone di usanze romane del primo terzo del III secolo. Comporta

una 50 di capitoli più o meno lunghi e in questo ce ne sono una mezza dozzina che riguardano il battesimo e il

complesso dell’iniziazione cristiana. Esistevano anticamente parecchie traduzioni e parecchi rifacimenti e in particolare

traduzioni orientali: siriaca, araba, copte (2), una etiopica, il che indica una diffusione dell’opera, in Oriente L’originale

greco non esiste. Una versione importante è quella latina. Credo ci sia anche una versione armena. Del greco esiste un

epitomh, compendio che forse talvolta produce passi dell’originale. Bernard Botte, OSB, ne ha tentato una

ricostruzione Sulla base delle versioni, lo dice espressamente nella sua opera La Tradition Apostolique de St Hippolite.

Essay de reconstitution. Munster 1963, ried, 1972. Questo edizione fa testo e spiega il suo modo di procedere in una

lunga introduzione. Negli ultimi anni ci sono stati parecchi interventi per controbattere la posizione tradizionale, ma

credo che la maggior parte di questo interventi sono fatti da non specialisti della liturgia sicché le critiche non sembrano

molto pertinenti. Questo Traditio Apostolica rientra in una serie di testo della stesso genere letterario, canonico liturgico

di cui il primo è la Didachè; la Didadchalia apostolorum, e alla fine del IV sec. le Costituzioni Apostoliche senza

parlare di uno scritto siriaco del VI del Testamentum Domini, talvolta offre un testo molto vicino all Traditio Apostolica

che conferma la diffusione soprattutto Oriente dell’opera Vi è stata anche una diffusione latina nei così detti frammenti

di Verona che sono della fine del secolo. Quali sono i capitoli nei quali l’autore parla dell’iniziazione cristiana?. Sono

otto. Ne darò solo il titolo del capitolo 15: Dei nuovi venuti alla fede (o venuti di recente). Gli altri capitoli sono:

- 16 I mestieri e le professioni, (perché esistono professioni incompatibili con il cristiana)

- 17 La durata dell’istruzione (o catechesi)

- 18 Della preghiera di quelli che ricevono l’istruzione

- 19 Dell’imposizione delle mani sui catecumeni

- 20 Di quelli che stanno per ricevere il santo battesimo

- 21 (il più importante) della consegna del santo battesimo, (l’atto battesimale)

- 27 I catecumeni non devono mangiare con i fedeli;

questi otto capitoli possono raggrupparsi sotto tre rubriche più importanti:

- in primo luogo è contemplato il catecumenato come preparazione più lontana al battesimo;

- in secondo luogo si parla della preparazione immediata al battesimo;

- in terzo luogo l’amministrazione del battesimo con i suoi riti di complemento.

Riprenderemo questo tre aspetti successivamente.

Come bibliografia abbiamo:

Art. nel Dictionaire de Histoire et de Geographie Eclesiastique (DHGE)

vol. 24, 1993, coll. 627-635. Si troveranno le indicazioni su Ippolito e nella bibliografia relativa

Cosa dice il testo del catecumenato.

Per accedere all’istruzione lontana che precede il battesimo non ci sono condizioni; l’accesso è libero ed aperto a

ogni tipo di uomini, pagani ebrei, convertiti. La sola cosa che si chiede ai nuovi venuti è il motivo della loro venuta.

Allora viene fatta un’inchiesta di complemento quando sono richieste informazioni presso quelli che conoscono i

candidati a questo istruzione affinché possano confermare o meno quali sono le intenzione dei nuovi venuti. Questa

inchiesta se si può chiamare cosi riguarda la sincerità, dal passo fatto dai nuovi venuti affidata ai così detti doctores nella

versione latina il che nell’originale greco probabilmente designa i didascali e vengono chieste al candidato st

informazioni sul suo stato civile, dati anagrafici, sullo stato sociale, quale professione, se sposati o no, se hanno figli o

no, per avere una immagine un po più precisa della personalità dei candidato in particolare viene chiesto se sono schiavi

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Il culto cristiano nei primi due secoli. 24

o liberi, quello era importante al momento della loro ammissione definitiva. Chiesto se il loro padrone era consenziente

in caso contrario potevano sorgere difficoltà che era meglio evitare, generalmente le domande e le risposte relative erano

abbastanza rare per che i padroni erano abbastanza liberali per le preoccupazioni spirituali dei loro suddetti. Se

l’inchiesta si rilevasse negativa, il candidato è rinviato, se invece è positiva S’insegna loro di come ben servire il

padrone per gli schiavi, a condursi bene nel matrimonio o nel celibato, e in particolare s’indagava su certe condizioni

Spirituali o psicofisiche dei candidati, i così detti posseduti o energumeni come si diceva. non erano ammessi al

catecumenato prima di essere guariti perché potevano porre dei problemi nel seno di un assemblea per mosse

incontrollate, dunque dovevano essere prima guariti poi potevano essere ammessi. Quest’inchiesta voltava soprattutto

sui mestieri e le professioni perché certe professioni considerate incompatibili con la professione cristiana sia perché

contrari alla fede o alla morale cristiana.

Cap 16:

Si farà un inchiesta sui mestieri e le professione di quelli che sono stati presentati per l’istruzione se

qualcuno è proprietario di un bordello cesserà o sarà rinviato se qualcuno è pittore o scultore insegnerà loro a

non fabbricare idoli. Cesserà o sarà rinviato. Se qualcuno è attore o dà rappresentazioni teatrali cesserà o sarà

rinviato,

quello che da insegnamento ai bambini è meglio che cessi se non ha un altro mestiere gli sarà

permesso d’insegnare (il tono e più sfumato)

Lo stesso per il cocchiere che partecipa alle gare, o a quello che partecipa ai giochi, il gladiatore o il

loro allenatore, o il bestiario (che prende parte alla caccia alle belve nell’arena), cesseranno o saranno rinviati.

Il sacerdote o il guardiano di idoli, cesseranno o saranno rinviati.

Il soldato subalterno non ucciderà nessuno, se ne riceve l’ordine, non lo eseguirà e non presterà il

giuramento, se rifiuta sarà rinviato. Quello che ha il potere del gladio o il magistrato che porta la porpora

cesseranno o saranno rinviati.

il catecumeno o il fedele che vorranno diventare soldati saranno rinviati perché hanno disprezzato Dio

La prostituta, l’omosessuale, il giovane che si presta alla sessualità e chiunque fa della cose di cui non

si può neppure parlare saranno rinviati per che impuri, neppure si ammetterà il mago all’esame l’incantatore,

l’interprete di sogni, il ciarlatano, il falsario (generalmente si tagliava il bordo delle monete per recuperare il

metallo prezioso), il fabbricante di amuleti

Un capitolo speciale è dedicato alle concubine:

Se è la schiava del padrone ha educato i suoi figli e si è attaccata a lui solo potrà ascoltare la parola

altrimenti sarà rinviata. L‘uomo che ha una concubina cesserà e la prenda come moglie secondo la legge se

rifiuta sarà rinviato.

Se abbiamo omesso qualche altra cosa, le professioni stesse vi istruiranno perchè abbiamo tutti lo

Spirito di Dio.

Le esclusioni portano su professioni contrarie alla morale o alla fede. Contrarie alla morale la maggior parte di

queste enumerazioni: falsari e soprattutto quello che riguarda la morale sessuale e coniugale. Le professioni contrarie

alla fede perchè legate all’idolatria: i fabbricanti di idoli ma anche certe altre professioni, quelle legate al culto dei

templi anche se si trattava di un servitore subalterno impiegato in un tempio.

Più interessante è la questione dei magistrati. Come tali intervenivano per forza in certi sacrifici offerti a nome

della città. Non dovevano parteciparvi o cessare un ufficio, non sempre facile per chi l’ha accettato ed è ancora in carica.

Il caso di chi riveste porpora designa i più alti funzionari dello Stato dai proconsoli in su fino all'Imperatore, sono

esclusi o devono cessare. Vuol dire che c’erano candidati di questo ordine superiore altrimenti la prescrizione non

avrebbe senso. Quelli che hanno il potere del gladio, il magistrato che può condannare a morte o assolvere, si rende

colpevole della morte di un uomo lo stesso per il soldato che rifiuta di uccidere in guerra sarà ucciso lui stesso. Vedete

fin dove va la prescrizione. Anche il caso dei giochi del circo perchè legati all’idolatria, generalmente iniziavano con

una cerimonia religiosa, una processione solenne. Erano portate le statue o altri simulacri degli dei e all’inizio si offriva

un sacrificio. Pure i combattimenti dei gladiatori che finivano sempre con la morte di qualcuno erano considerati la

sostituzione dei primitivi sacrifici umani e dal quel punto di vista evidentemente vietati a un cristiano. Dunque la rosa

dei mestieri esclusi dal catecumenato era abbastanza ampia. Alcuni casi in cui il legislatore era più morbido. Il caso

della concubina situazione sociale che aveva uno status giuridico nella società antica. I figli del concubinato seguivano

la situazione giuridica della madre se era schiava diventavano schiavi anche se erano figli del padrone. Per essere

riconosciuti come figli a pieno diritto dovevano esser riconosciuti all’anagrafe dal Padre. A volte nella storia ciò si è

verificato ma generalmente non andava così. L’atteggiamento può sembrare negativo tutto sommato , perché agli occhi

del redattore della Traditio Apostolica l’ordine sociale antico era visto come cattivo. Dunque era abbastanza difficile.

per un uomo dell'antichità diventare cristiano. Non posso fare una statistica delle professioni dalle quali un cristiano era

escluso e per quel motivo i cristiani erano considerati come gente asociale non integrabile nella società romana, una

specie di frangia non integrabile alla società antica, stranieri , che non potevano inserirsi. Il che non è totalmente esatto.

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Il culto cristiano nei primi due secoli. 25

Conosciamo molti cristiana cittadini romani come Paolo. Già dalla fine del I secolo il Cristianesimo era già penetrato

nelle classi più alte se Falvius Clemens cugino di Domiziano era cristiano.

Al tempo di Ippolito a Roma e Tertulliano a Cartagine si era posto il problema dei matrimoni inferiori tra

padrona e schiavo e tra padrone schiava . Quel concubinato era riconosciuto a certe condizioni dalla Chiesa, a

condizione di esclusione di rapporti sessuali con altri e che la donna educasse i suoi figli come lo farebbe qualsiasi altra

donna cristiana. Accanto a matrimoni a pieno diritto di gente di ceto sociali uguale c’erano situazioni diseguali , ceti

sociali diversi, Tertulliano nel De pudicitia polemizza contro questo donne che sposano schiavi. Ippolito nei suoi

Philosophumena nel libro decimo fa una polemica simile con il Papa della sua epoca Zefirino e Callisto. Era nella’aria

del tempo man mano che il Cristianesimo si estendeva e penetrava nelle diverse classi sociali si confrontava con

situazioni di cui tener conto e cogliamo sul vivo l’atteggiamento della Chiesa,. L'atteggiamento della Traditio Apostolica

è di tipo rigoristico: " cesserà o sarà rinviato",

non c'è via di mezzo, o l’uno o l’altro. Il problema di come far vivere questa gente esclusa dal suo mestiere è

previsto il caso in cui potranno imparare un altro mestiere. Si tratta probabilmente di giovani, oggi si vede come è

difficile riconvertire gli anziani ad altri lavori. E' un problema di tutti i tempi quando società molto diversificata e si

confronta con le esigenze etiche di una religione.

La conclusione è interessante.

"Se abbiamo omesso qualche altra cosa, le professioni stesse vi istruiranno perchè abbiamo tutti lo

Spirito di Dio.”

Dunque non elenco limitativo ma adattabile a ogni situazione particolare che si poteva trovare nei diversi paesi

in cui si diffondeva la fede cristiana se l’elenco della Traditio Apostolica si applica sorta alla società dell’importante

romano e fuori si trovano altre leggi e si potevano porre altri problemi. Ecco quali erano le condizioni per accedere al

catecumenato.

Qual era la durata normale del catecumenato?

Normalmente di tre anni ma poteva essere abbreviata per i catecumeno zelanti. Nel cap. 17 "I catecumeni

ascolteranno la parola durante 3 anni ma se qualcuno e zeloso e si applica bene all suo dovere, non si giudicherà la

durata ma sarà solo giudicata la condotta". Quindi era abbreviata o prolungata se non soddisfaceva alle condizione si

prolungava la prova se invece si mostrava attento poteva essere abbreviata.

Di questa preparazione catecumenale era l’istruzione la catechesi ma non era la sola. Vi si aggiungevano altri

tipi di preparazione, in particolare c’erano delle preghiera proprie al catecumenato, di questo preghiere era previsto lo

svolgimento, l'organizzazione. Anche la disposizione dell’aula nella quale si riunivano i catecumeni c'erano uomini da

una parte e donne dall’altra. Pure il vestito era regolato, doveva essere decente, le donne per forza velate. Si trattava di

evitare ogni promiscuità. Catecumeni sempre separati dai fedeli, battezzati: una parte è riservata a i fedeli l’altra ai

catecumeni. Dopo la preghiera i catecumeni ricevevano un’imposizione delle mani dunque erano sottomessi a certi

esorcismi il cui scopo era purificare l’anima del candidato dalla presenza diabolica, perché per l’uomo antico e il

cristiano in modo particolare ognuno aveva il suo demonio personale Lo vediamo anche nei Dialoghi Platone , Daimon,

(che i cristiani trasformeranno in una specie di angelo custode). C’è un demonio per ogni città, nazione. Questo lo

troviamo anche negli scritti neotestamentari. Importante è che fosse buono e non seguace di Satana.

Impariamo anche chi fosse il didascalo. Poteva essere il presbitero ma anche laico, Siamo nell’epoca in cui ad

Alessandria Origene ricopriva l'uficio nel didascaleion della città, fino al 231 quando fu ordinato presbitero. Questo

didascalos, che insegna la dottrina cristiana poteva essere o chierico o laico,

Poi c'è la sorte del catecumeno se muore prima del battesimo questo è giustificato per esempio se muore

martire ha ricevuto il battesimo del sangue , se muore di malattia generalmente si amministrava il battesimo di

emergenza sul letto di morte. Se non era possibile, per morte improvvisa, si pensava che avesse avuto il battesimo del

desiderio Anche lui si poteva considerare giustificato.

Il periodo di tre anni è tassativo Allora vengono ammessi alla preparazione immediata e intensiva quelli che

hanno superato questo prova. Si tratta di una scelta. effettivamente a Roma quando sarà usata la lingua latina verranno

chiamati electi. In Africa e nel resto dell'Occidente latino si parlava di competentes Si tratta di due termini per la stessa

categoria di cristiano salvo che erano visti da due punti di vista diversi: electi il punto di vista della gerarchia che decide

chi può essere o meno ammesso alla preparazione finale; competentes sottolinea più la preparazione del catecumeno che

chiede il battesimo Chi è ammesso e chi non lo è risulta da una collaborazione tra gerarchia e candidato. Questi electi o

competentes sono sottoposti a una nuova prova, esame che verterà sull’onestà della loro vita e sul loro comportamento

specificamente cristiano, cioè se hanno regolarmente pregato, digiunato, sono stati assidui all’istruzione (si prendeva

nota di chi era presente chi no, bastava una buona memoria per saperlo) Uno che non era abbastanza assiduo a questi

esercizi non aveva possibilità di accedere a questo preparazione ultima. Altro test di preparazione cristiana era

l’elemosina. Dunque non esclusivamente personale ma anche del modo d'inserirsi in nuova una comunità e di come uno

si comportava. col suo vicino col suo prossimo e si interrogava si nuovo quelle persone che vivevano accanto ai

catecumeni: a casa nella professione e cosi via che li conoscevano meglio di altri, i loro familiari e compagni di lavoro e

in part quelli che li avevano presentati per la prima volta al didascalos quelli che più tardi si chiameranno padrini,

garanti delle buone disposizioni del candidato. Se questa seconda prova positiva saranno ammessi alla preparazione

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Il culto cristiano nei primi due secoli. 26

immediata al battesimo. Allora erano appartati i competentes non più mescolati agli altri catecumeno, c’era il gruppo

speciale dei competentes o electi che si distaccava nella massa dei catecumeni.

La durata di questo ultima preparazione non è indicata dalla Traditio Apostolica Solo genericamente col titolo

quelli che stanno per ricevere il battesimo. Però a ragione del giovedì, venerdì e del sabato che sono esplicitamente

menzionati in questo preparazione immediata, questa doveva essere di una settimana. E durante questo tempo ogni

giorno ricevevano l’imposizione della mano, designata come un esorcismo e non più dato dal didascalos ma dal vescovo

stesso e si dice:

Quando si avvicina il giorno del battesimo Il sabato il vescovo riunirà in uno stesso luogo quelli che

devono ricevere il battesimo comanderà loro di pregare, inginocchiarsi e imponendo loro le mani il vescovo

esorcismo ogni spirito straniero di lasciarli e di non più tornare in essi. Quando avrà cessato l’esorcismo

soffierà sul loro viso. Dunque c’è una descrizione del rito Dopo averli segnato sulla fronte, gli orecchi e le

narici li farà rialzare e passeranno tutta la notte a vegliare riceveranno letture e istruzioni e quelli che devono

essere battezzati non porteranno seco altra cosa eccetto quello che è previsto per l’eucarestia perché è

conveniente che quello che è diventato degno del battesimo offra anche lui l’oblazione, (partecipi

all’offertorio).

Quindi vuol dire che questa vigilia ultima del sabato precede la notte del battesimo quindi come sembra si tratta

di una settimana di preparazione con esercizi, istruzione e preghiera quotidiane. I tre ultimi giorni sono segnati da

esorcismi particolari e anche da altri atti specifici. Il giovedì i battezzandi dovevano fare un bagno perché era stato

vietato loro di andare alle terme, ai bagni sia pubblici che privati. E' uno degli atti di penitenza considerato come tale. Se

è consigliato loro di lavarsi il giovedì è perché dovevano essere puliti il sabato dove riceveranno il battesimo Privazione

di bagno esercizio di penitenza. Venerdì è un giorno di digiuno fino alla sera e sabato il digiuno è prolungato durante

tutta la notte.

Notate che l'inginocchiarsi è anche un atto penitenziale, la preghiera in ginocchio è un atto di penitenza mentre

l’atteggiamento normale per i fedeli è in piedi con le mani alzate come prega il sacerdote durante la messa. La

consistenza dell’esorcismo è precisata insufflazioni, signazioni, sulla fronte, orecchie e narici e poi la vigilia notturna.

Credo che l’attuale vigilia pasquale almeno quella precedente la riforma era molto più lunga e poteva dare un‘idea

migliore di quello che era la vigilia al tempo. Una notte intera di digiuno preghiera istruzioni. Le letture erano

abbastanza lunghe, ne abbiamo ancora un'idea per esempio nella lettura della Genesi sulla creazione e il sacrificio

d'Isacco in cui viene letto il testo intero. Sono letture lunghe seguite normalmente da un canto, ritornello, salmo, che

riprende l’idea principale della lettura e che permette di memorizzare certi particolari della lettura a volte il ritornello è

perso dalla lettura nel caso della lettura dell’Esodo accompagnato dal cantico di Maria preso come canto responsoriale.

Quello che è sparto dalla vigilia anche prima della riforma sono le istruzioni. Ogni lettura doveva esse seguita

da un'omelia, dovevano esserci probabilmente dei tempi di silenzio per permettere all’uditore di penetrarsi del contenuto

del testo della lettura.- Il termine della lettura è segnato dal canto del gallo nel cap 21: "Quando canta il gallo".

Evidentemente in questo fatto c’è forse un ricordo del gallo che ha cantato nella notte del tradimento di Pietro ma non è

esplicitato. Più semplicemente può essere un fatto corrente, il gallo canta alla fine della notte. Questo documento, la

Traditio Apostolica, e lo si vede bene nel cap 21 è un documento composito. Già Botte ammetteva che il cap 21 poteva

aver avuto un esistenza indipendente del rituale battesimale ma non si è fatto delle domande sul carattere composito di

questo stesso cap ora ci sono indizi sul carattere composito. spiegabile dal fatto che il compilatore di questo opera

Traditio Apostolica ha messo insieme dei documenti di origine diversa che lui non ha cercato di unificare e coordinare.

Effettivamente il ministro normale di questo vigilia battesimale è il vescovo che interviene o solo o assistito da 1

presbitero e da diaconi a seconda del rito da compiere. Ora di questo vescovo il 21 parla sia alla seconda sia alla terza

persona, talvolta "Tu farai questo" a volte "Il vescovo farà questo". Delle irregolarità di percorso nella redazione di

questo cap. Poi ci sono dei doppioni, in particolare per le unzioni. Una è fatta dal presbitero l’altra dal vescovo Si tratta

di due unzioni, o in origine di una sola? Problema. Poi ci sono delle incoerenze di carattere redazionale. Chi è il

presidente di questa vigilia?. Generalmente viene nominato il vescovo. Una voltasi parla di quello che è battezzante che

può essere altra persona diversa dal vescovo si ha impressione di almeno 2 fonti giustapposte, l’una mette in scena un

celebrante non determinato, l’altro il vescovo Il problema è sapere qual è la più antica di questo 2 fonti, quella in cui si

parla in modo generico del battezzante o l'altra che designa specificamente il vescovo. Non so se questa differenza

redazionale non rispecchi una situazione molto arcaica in cui il vescovo episcopos non era ancora distinto dal collegio

presbitero. Ricordatevi abbiamo visto l’anno scorso alla fine del I ma soprattutto nel corso del II secolo l’episcopos sia

progressivamente emerso dal gruppo indistinto del collegio presbiterale, nel III secolo la cosa è fatta: il vescovo funge

da capo della comunità e i presbiteri sono suoi associati che agiscono sotto la sua direzione. E’ curioso che la Traditio

Apostolica possa ancor aver contenuto dei ricordi di una situazione antiquata. Altro problema sapere a quale comunità

Ippolito romano s’indirizzava nella sua Traditio Apostolica si dice la Chiesa romana ma anche lì non sarei così sicuro

che all’interno di questo Chiesa romana non ci siano stati dei gruppi giustapposti soprattutto in una città cosmopolita

come era Roma in cui diverse comunità etniche abbiano conservato una certa identità: il gruppo degli egiziani, quello

dei siriani, dei giudeocristiani. Sappiamo per quanto riguarda gli ebrei, che avevano le loro sinagoghe spesso con un

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Il culto cristiano nei primi due secoli. 27

carattere etnico, anche negli Atti leggiamo sinagoga Cirenensium, Alexandrinorum, e altri di altri paesi. La stessa

situazione probabilmente si è verificata anche nella Chiesa cristiana soprattutto nelle grandi città di Oriente e Occidente

dove giustapposti cristiani di origine diversa. Questo problema va visto per non sbagliarsi sull’interpretazione del testo.

Rituale finale del battesimo L’atto battesimale e poi i complementi di questo bagno d’acqua

"In primo luogo si pregherà sull’acqua al momento in cui canta il gallo". Si tratta dunque di una preghiera di

benedizione dell’acqua (come già in Tertulliano) che sia acqua di fontana o acqua che viene dall’alto (piovana) può

essere utilizzata, poco importa la sua origine o acqua conservata in cisterna in caso di necessità si prenderà acqua dove

si trova, (fontana pubblica ad esempio). Questo regolamento ricorda la Didachè non si parla più di acqua viva ma di

cisterna. Ci troviamo qui in ambiente urbano

Se confrontiamo Didachè e Traditio Apostolica ci accorgiamo di alcune differenze la più evidente nel fatto

della benedizione, la Didachè non parlava della benedizione dell’acqua e vediamo che quasi simultaneamente

Tertulliano e Ippolito romano prevedono una benedizione previa dell’acqua vuol dire che, per questi autori recenti, non

si tratta più di acqua viva ma di acqua conservata in contenitori artificiali, venuta a Roma mediante acqua dotti non è più

viva come fiume o sorgente anche se cola. Dopo la benedizione dell'acqua anche la benedizione dell’olio Al momento

fissato per il battesimo il vescovo renderà grazie sull’olio in un vaso Olio di rendimento di greco o di eucarestia olio sul

quale recitata un’eucarestia poi prenderà anche un altro olio che esorcizzerà e che si chiamerà olio di esorcismo. “oli

diversi eucarestiato e uno esorcizzato. Due oli diversi e usi diversi 1 per l’esorcismo prebattesimale e l’altro per

l’unzione post-battesimale e questi oli tenuti in mano da 2 diaconi uno a destra l’altro a sinistra e c'è in un luogo

l’unzione presbitero battesimale e questa unzione è legata a delle domande alle quali il catecumeno dovrà rispondere.

Sembra che la risposta sia unica e globale “Io rinuncio a te Satana al tuo servizio e alle tue opere” L’equivalente greco

no sicura servizio la parola greca era latreia o pompe (?). Rimane incerto. Notate che Satana viene nominato all’inizio

e che la rinuncia è un atto diretto contro Satana rinuncio a te Satana non come nel rituale attuale “Rinunci a Satana....” e

il battezzando risponde: “Rinuncio”. Dopo questo rinuncia il catecumeno è unto con l’olio di esorcismo e l’esorcismo e

accompagnato da questo parole “Che ogni Spirito cattivo si allontani da te……...

Dunque l’esorcismo è un rito apotropaico allontanare lo Spirito cattivo da battezzando un rito purificatorio

perché consiste nel purificare l’anima da una presenza diabolica, dunque un atto negativo, cacciar via. Questo esorcismo

ha una sua importanza in un mondo, mentalità interamente permeate dal diavolo e sua presenza lo vediamo meglio nelle

opere di Tertulliano, nel De idolatria ad esempio che interpreta gli atti idolatrici in funzione della presenza del diavolo

nell’idolo dunque ogni atto idolatrico è atto di culto reso a Satana e per questo la mentalità del cristiana deve essere

purificato e questo purificazione è l’esorcismo l’unzione acquisterà solo più tardi un altro significato, quello che si tirerà

dalle usanze termali e agonistiche romane. Nei bagni pubblici prima a dopo il bagno proprio si facevano delle unzione

sapete che i bagni pub comportavano 3 ambienti successivi, calidarium (acqua calda), tiepidarium (acqua tiepida),

frigidarium (acqua fredda) dall’una si passava all’altra e dopo acqua fredda bisogno di un riscaldamento, una frizione

con un altro olio generalmente profumato. Dunque il bagno era un’operazione abbastanza complessa e siccome il bagno

su tutto il corpo anche le unzione Prassi agonistica il gladiatori soprattutto quelli che praticavano la lotta corpo a corpo

si frizionavano il corpo con olio per rendere la presa meno facile l’avversario slittava, c’è anche questo immagine che

l’unzione inizia il candidato alla lotta contro il diavolo, una lotta spirituale, mistica, morale ma pur sempre lotta. Nella

Traditio Apostolica questo simbolismo non ancora esplicitato solo più tardi nelle catechesi del IV secolo già nella

Traditio Apostolica la rinuncia al diavolo era legata ad una unzione 2 riti. Una legata all’altro poi segue il battesimo

propriamente dette, Già per la 1 unzione di esorcismo il candidato era nudo a fortiori per il battesimo solenne essendo

amministrato per immersione effettiva o quando si passava sotto un gettito d’acqua (già parlato di 2 modi battesimo per

bagno o per doccia). La sistemazione del battesimo del Laterano di Sisto III del Vescovo secolo, ci da un’idea di quello

che poteva essere il battesimo costantiniano. Una vasca su cui su poteva scendere, con 30/40 cm d’acqua in modo che

l’acqua raggiungesse il ginocchio vi si poteva immergere ma c’era anche una fontana: uno o forse cervi dalla cui bocca

sprigionavano l’acqua. Questioni di ingegneria idraulica che i romani conoscevano bene oprtando la in alto e facendola

uscire da una apertura più stretta della conduttura.

Prima del battesimo quando il catecumeno sta nell’acqua il vescovo pone delle questioni rituali al candidato

sulla fede è la professione di fede

“Credi in Dio Padre Onnipotente”, Talvolta si poteva completare “creatore del cielo e della terra creatore delle

cose visibili e invisibili”, ma la Traditio Apostolica non lo fa.

Il battezzato risponde “Credo” e viene battezzato 1 volta

“Credi in Cristo Gesù Figlio Dio nato per opera dello Spirito Santo, nato dalla Vergine Maria, crocifisso sotto

Ponzio Pilato, morto risuscitato il terzo giorno salito al cielo e verrà di nuovo a giudicare i vivi e i morti” Il vescovo

recita un brano del Credo e il candidato risponde “Credo” e viene battezzato una seconda volta

Terza domanda “Credi nello Spirito nella santa Chiesa”

Terza risposta “Credo”.

In realtà ogni volta lo battezza, il vescovo, lo dice espressamente la Traditio Apostolica: “Quando quello che è

battezzato è sceso nell’acqua, quello che lo battezza chiederà…. Il battezzante imponendogli la mano sul capo gli dirà

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Il culto cristiano nei primi due secoli. 28

Credi e subito tenendogli la mano sul capo lo battezzerà una volta probabilmente lo invita a immergersi per tre volte di

seguito si tratta proprio di una concelebrazione del battesimo tra vescovo e battezzato e questo si capisce solo nel caso

del battesimo degli adulti o di bambini che abbiano raggiunto l’età della ragione.

Dopo che è battezzato è unto una seconda volta dal presbitero ma con l’olio di eucarestia che si fa di nuova su

tutto il corpo “Io ti ungo con olio santo nel nome di Gesù Cristo”. Il rito non è ulteriormente precisato se c’è un’altra

cerimonia. Il neofita si riveste senza dire se prende vesti nuove o no e riceve dal vescovo un’ultima imposizione della

mano per il conferimento dello Spirito espressamente detto. Dopo averlo segnato sulla fronte (probabilmente a forma di

croce fatta col pollice come ancora oggi al momento della cresima) con le parole “Il Signore sia con te… e con il tuo

Spirito”. Io ti ungo con l’olio in Dio Padre onnipotente, in Gesù Cristo e nello Spirito Poi il bacio di pace e cerimonia si

conclude con la messa che per il neofita comincia con l’offertorio porta per la prima volta le sue offerte all’altare e

rimanendo vicino all’altare vede da vicino tutto quello che vi succede e comunica al pane e vino. Così finisce

l’iniziazione del neofita.

________Note Personali di Studio____________________________________________________________________

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Il culto cristiano nei primi due secoli. 29

[PC 511.7]

LE PRINCIPALI TRADIZIONI DELLA LITURGIA (2a. parte).

Riprendendo il discorso relativo all’atto centrale del battesimo, cioè l’immersione battesimale e la professione di fede,

questo rito è accompagnato da una serie di altri riti complementari che hanno avuto una storia abbastanza complessa già

nel III secolo. Infatti, abbiamo visto che il neofita, dopo essere risalito dalla piscina, viene unto dal presbitero che lo ha

battezzato, ma non più con l’olio di esorcismo, ma con l’olio di eucaristia - come lo stesso Ippolito lo chiama - o di

rendimento di grazie (può essere chiamato così perché è stato benedetto con una preghiera di rendimento di grazie, cioè

una preghiera eucaristica, che non è l’eucaristia maggiore, ma è un’altra formula nella quale si rende grazie a Dio per la

concessione dell’olio). Questa unzione non si dice dove viene fatta, ma è accompagnata da una formula molto semplice:

“Io ti ungo con l’olio santo nel nome di Gesù Cristo”. Poi il neo battezzato si riveste e riceve dal vescovo una nuova

imposizione della mano, accompagnata da una preghiera per il conferimento dello Spirito Santo. Secondo la

testimonianza di Ippolito, questo momento viene successivamente accompagnato da una nuova unzione con lo stesso

olio di eucaristia. Questa ultima unzione è accompagnata dalla formula seguente: “Io ti ungo con olio in Dio Padre

Onnipotente e in Gesù Cristo e nello Spirito Santo”.Poi il neofita riceve sulla fronte il segno della croce ed il bacio della

pace. In questo modo si chiude la cerimonia battesimale.

Dunque, bisogna riprendere questi riti post-battesimali perché sembrano per un non iniziato delle ripetizioni. Ci sono

dei doppioni nel senso che c’è un’unzione data dal presbitero ed un’altra conferita dal vescovo. La formula che

accompagna quella presbiterale è semplicemente cristologica, mentre quella del vescovo è trinitaria. Potrebbe darsi che

nella Traditio Apostolica questa complessità risulti dalla combinazione di elementi anteriori isolati o dalla giusta

posizione di rituali anteriori diversi. Dunque ci sarebbe un’armonizzazione voluta dal compilatore della Traditio

Apostolica di elementi diversi e più antichi e per questo motivo degni di una certa venerazione e di un certo rispetto.

Bisogna, tra l’altro, aggiungere che questi elementi anteriori sembrano di origine orientale e non romana.

Sembra dunque che il compilatore abbia voluto armonizzare questi diversi elementi per una comunità composta

anche da elementi diversi: gli uni di origine locale ed altri di origine straniera, in modo particolare di provenienza

orientale. Ciò rispecchia, effettivamente, il caso di Roma. Già Tacito nei suoi annali, quando parla dell’incendio di

Roma, la chiama la sentina di tutti i vizi ed il crocevia di diversi influssi provenienti dall’esterno.

Poi, vi è un altro modo di confrontarsi con questi quesiti: si tratta di capire come si siano formati geneticamente

questi riti, nella loro successione evolutiva, in modo che l’uno completi l’altro e sviluppi il precedente, come un essere

vivente che si sviluppa subito dopo la nascita. Ma ci troviamo pienamente nel campo delle ipotesi. Però, per capire

questa evoluzione genetica di questi riti, bisogna innanzitutto mettere in ordine cronologico i documenti che ci sono

pervenuti, non in senso cronologico della loro creazione, ma in quello dei documenti nei quali sono attestati (questi

ultimi li possiamo meglio adattare).

Ora Clemente Alessandrino, verso l’anno 200, è il primo che parla di “unzione”, anche se la chiama “unzione

dell’anima”: si tratta di un’unzione che tocca il corpo il cui effetto sull’anima è puramente spirituale. Il che desta il

sospetto che questa unzione materiale non esistesse ancora al tempo di Clemente. Può darsi che l’unzione fisica iniziasse

ad esistere inizialmente come un’usanza non battesimale, ma di origine termale (vi era un massaggio con olio prima del

bagno ed un massaggio con olio dopo il bagno). Può darsi che questa usanza antica sia stata trasferita nell’uso

battesimale per gli stessi motivi di natura igienica e pratica. In tal senso è curioso che questo uso fosse presente nelle

pratiche termali per poi rendersi presente nella pratica battesimale. Un’ipotesi che si può ritenere valida è quella di

propendere verso una continuità tra queste due pratiche diverse tra loro, in modo tale che le pratiche termali, trasferite

nel battesimo, ricevano una spiegazione spirituale. Ecco, che in questo senso interviene Clemente con l’unzione

dell’acqua.

Ora, in Occidente, contemporaneamente a Clemente, Tertulliano parla di una unzione, ma sembra averla già

incorporata nel rito battesimale con un senso specificatamente cristiano. A tale riguardo abbiamo molti testi di

Tertulliano che permettono la spiegazione del rito battesimale. Inoltre, questa usanza non è soltanto attestata da

Tertulliano a Cartagine, ma anche a Roma, da parte di Ippolito, sicché sembra che l’uso e l’unzione post-battesimale sia

coeva sia a Cartagine, sia a Roma. Tertulliano fu il primo a ragionare sull’uso del rito battesimale per ricercarvi un

significato spirituale: egli mette in parallelo le diverse azioni esteriori con quelle interiori. Il corpo è lavato, il corpo è

unto, ma è l’anima che viene purificata. In un tempo successivo abbiamo anche Cipriano che sviluppa una medesima

teologia battesimale e conferma, in un certo modo, l’origine recente di questa interpretazione del battesimo.

Non manca, a tale riguardo, la tentazione di mettere l’unzione spirituale in relazione con il tempo, in cui i presbiteri

erano ancora i capi della comunità, a livello collegiale. Inoltre, un altro segno dell’antichità riguarda la formula di

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accompagnamento durante l’unzione presbiterale, nel senso che questa formula è unicamente cristologica la quale

potrebbe confermare l’antichità del rito presbiterale. Invece, la formula cristologica, adoperata dal vescovo, è più

tardiva, perché i primi tentativi di una teologia trinitaria appaiono non prima del III secolo, in quanto un primo tentativo

lo abbiamo con Tertulliano nell’Adversus Praxean e con Cipriano. Tale formula trinitaria diverrà universale durante e

dopo le controversie ariane del IV secolo. Dunque, potrebbe darsi che l’unzione episcopale, con formula trinitaria, sia

posteriore a quella presbiterale.

Da ciò si spiega la relazione tra il vescovo ed i presbiteri, nel momento del battesimo, nel senso che questi due riti

con le relative formule cristologica e trinitaria risultano un doppione. Non si sa, però, di preciso come veniva svolta

l’unzione da parte del presbitero, mentre quella riservata al vescovo conserva un indizio abbastanza importante secondo

cui che potrebbe essere stata limitata alla cosiddetta signatio (segno di croce sulla fronte). In tale ambito dobbiamo

capire se la signatio veniva svolta, come oggi, con il pollice intinto nell’olio (in questo caso si tratterebbe di una signatio

con un’unzione simultanea), oppure no. Nel primo caso, però, abbiamo una forma di rito molto più tardiva per la quale

non si è sicuri di poterla riagganciare a monte sino al III secolo. Qui ci troviamo di nuovo nel campo delle ipotesi, anche

se è plausibile mantenere questa direzione per avere la possibilità di una spiegazione della formazione di questi riti

(origine termale, interpretazione cristiana ed il rito effettivo).

Più in là si potrà vedere meglio come un rito dipenda dall’altro, nell’ambito del IV secolo.

Comunque, dopo questi riti battesimali, che si facevano ancora nel Battistero, il gruppo dei neofiti si doveva

trasferire nella sala dove veniva celebrata l’Eucaristia: essi vi partecipavano per la prima volta. Questa eucaristia era

probabilmente la conclusione dell’iniziazione battesimale. A questo rito i neofiti partecipavano attivamente poiché

portavano la loro offerta sotto forma di pane e di vino, al momento dell’offertorio. Successivamente seguiva il bacio

della pace che era esclusivamente riservato ai battezzati. Per la prima volta i neo battezzati ascoltavano la preghiera

eucaristica con la relativa formula di preparazione e di introduzione all’Eucaristia stessa - “Il Signore sia con voi”. La

frazione del pane è menzionata come una cosa normale e nello stesso modo si arriva alla comunione che in Ippolito è

descritta molto più dettagliatamente. La comunione è distribuita sotto le due specie, accompagnata da formule

appropriate. Il vescovo stesso distribuisce il pane consacrato e dice: “Il pane del cielo in Gesù Cristo. Poi intervengono i

presbiteri ed i diaconi che presentano le diverse coppe o calici, dei quali uno è ricolmo di acqua, mentre gli altri

contengono il latte, il miele ed il vino eucaristiato. Ogni calice è presentato con una formula appropriata, alla quale il

ministrante risponde “Amen”.

Ma perché ci sono queste diverse coppe? Si tratta del povero vestigio della cena primitiva, tanto più che i neofiti

avevano bisogno di un certo conforto materiale, dal momento che avevano osservato integralmente il digiuno durante

tutta la giornata di sabato sino al momento della comunione che si svolgeva dopo la veglia del sabato sera. In effetti

qualcuno poteva venire meno, per cui gli veniva dato un bicchiere di latte con miele. In Africa, certi testi parlano del

formaggio come un ulteriore elemento del povero vestigio. Tra l’altro il pane eucaristico era vero pane e non l’ostia che

viene usata oggi per la celebrazione eucaristica. Ma già il rito eucaristico al tempo di Ippolito è già ridotto perché non

prevede più l’uso del pane vero e proprio.

LA DIDASCALIA DEI DODICI APOSTOLI.

Questa didascalia o insegnamento, è una compilazione nata nella Siria greca, cioè nella regione di Antiochia: essa

può essere data alla prima metà del III secolo, quindi di poco posteriore alla Traditio Apostolica. L’originale greco è

andato perduto, ma di essa abbiamo diverse versioni, quali la siriaca, l’araba, l’etiopica ed anche latina, ma soltanto in

diversi frammenti.

Ora, di queste diverse traduzioni, la più antica è quella siriaca, databile intorno al IV secolo, almeno la parte relativa

al Battesimo (cfr. cap. 15, n. 9), con il titolo: Non è permesso ad una donna di battezzare. A questo titolo segue il testo:

“Noi non permettiamo ad una donna di battezzare, né di lasciarsi battezzare da una donna, perché è

contrario all’ordine e pericoloso per quello che battezza e per quella che è battezzata”.

Al n. 2 recita:

“Se fosse permesso ad una donna di battezzare il Nostro Signore e Maestro lo sarebbe stato da Maria, sua

Madre, mentre lo è stato da Giovanni, come molti altri del popolo”.

Al n. 3 recita ancora:

“Non attirate dunque dei pericoli su di voi, o fratelli e sorelle, con una condotta fuori della regola del

Vangelo”.

Al capitolo 16, sezione 12, che riporta il titolo Della ordinazione dei diaconi e delle diaconesse, dice al n. 2:

“In molte altre cose ancora, l’impiego di una donna diaconessa è richiesto: in primo luogo quando le donne

scendono nell’acqua è richiesto che quelle che scendono nell’acqua siano unte di olio di unzione da una

diaconessa. Se non c’è una donna e soprattutto non c’è una diaconessa è necessario che il battezzante unga lui

stesso la battezzata. Però là dove c’è una donna, e soprattutto una diaconessa, non conviene che le donne siano

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Il culto cristiano nei primi due secoli. 31

viste dagli uomini. E all’imposizione delle mani unge solo la testa, come si ungevano già i re ed i presbiteri in

Israele”.

Al n. 3 recita ancora:

“Dunque allo stesso modo, alle imposizioni delle mani ungi la testa di quelli che sono battezzati, prima

degli uomini, dopo delle donne. E questo lo si deve fare sia che tu (il vescovo) battezzi o un altro che hai

incaricato tra i diaconi o i “seniori” (sarebbero i presibiteri)”.

Anche in questo ultimo caso è contemplata la possibilità di una diaconessa, come “Colei che ha il compito di

ungere le donne, mentre l’uomo nel contempo invoca i nomi divini sulle acque. Quando la battezzata uscirà

dall’acqua, la diaconessa la riceverà, la istruirà e la nutrirà affinché il sigillo infrangibile del battesimo sia

impresso con purezza e santità”.

Al n. 4 dice:

“Abbiamo detto che il servizio di una donna diaconessa è richiesto e necessario soprattutto perché il Nostro

Signore e Salvatore è stato servito da “donne diaconesse” che sono Maria di Magdala, Maria, figlia di

Giacomo, e la madre di Giuseppe e quella dei figli di Zebedeo, con altre donne. Il ministero delle diaconesse ci

è ancora necessario per molte altre cose”.

Ritornando ai testi sopra citati, nel cap. 15, n. 9 è vietato alle donne di battezzare, mentre nel cap. 16, n. 12 è

permesso alle donne di fare l’unzione pre-battesimale. Ora, questi due passi apparentemente sono in contraddizione,

perché il primo è contrario all’ordine ed ai motivi di decenza che spiegano la ragione di questa interdizione nel cap. 15.

In realtà il motivo indicato nel cap. 15 è diverso da quello invocato nel cap. 16: nel cap. 15 c’è un riferimento al

battesimo di Gesù che viene amministrato da Giovanni il Battista e non da Maria, mentre nel cap. 16 è richiesto

l’intervento della donna con una differenza, nel senso che quello che è vietato ad una donna è l’atto propriamente

battesimale (l’immersione del battezzato nell’acqua con la pronuncia della formula battesimale). Ma nel cap. 16 è

permessa l’unzione pre-battesimale da parte della diaconessa. Anche a livello delle giustificazioni scritturali i testi sono

diversi nel senso che nel primo caso abbiamo il racconto del battesimo da parte di Giovanni il Battista, in modo

particolare quello di Gesù nel Giordano (), mentre nel secondo caso abbiamo a Mt 27,55-56 (con i testi paralleli dei

Sinottici) che si richiama all’unzione del cadavere di Gesù deposto nel sepolcro. Questo dimostra, però, che la

giustificazione scritturale non è sempre aderente alle realtà battesimali.

Quando c’è una diaconessa essa stessa deve intervenire: in sua assenza deve intervenire un’altra donna, mentre se

mancano l’una e l’altra interverrà il presidente della cerimonia che battezzerà ed ungerà il battezzato. Anche in questo

caso dobbiamo stabilire effettivamente in che cosa consisteva questa unzione sul corpo intero dell’uomo o della donna,

non priva del pericolo di mancare nell’ambito della decenza. Proprio questa ultima ragione diventa la giustificazione del

divieto che abbiamo trovato nel cap. 15, sopra enunciato. Questo lascia intendere che in casi, dove avveniva il battesimo

dell’uomo e della donna, era necessario prendere delle giuste precauzioni al fine di evitare possibili deviazioni. Ma,

occorre notare che questa testimonianza è propria alla didascalia, cioè ad un luogo geografico molto delimitato. Ciò

spiegherebbe tra l’altro l’origine del ministero delle donne: la stessa Didascalia dice che in alcuni casi è necessaria la

presenza della donna per la visita degli ammalati.

Le informazioni che la Didascalia Apostolorum ci dà, sono molto esigue, perché non descrive il cerimoniale del

Battesimo. Si confronta piuttosto con il problema relativo alla partecipazione delle donne all’amministrazione del

battesimo.

Comunque quali sono gli elementi che ritroviamo in questo rituale circostanziale?

1) In primo luogo, abbiamo l’imposizione delle mani da parte del vescovo prima del battesimo, seguita dall’unzione

del capo, fatta sempre dallo stesso vescovo, anche prima del battesimo, mentre il resto del corpo riceve

un’unzione dal presbitero o dal diacono per gli uomini ed una diaconessa per le donne.

2) In assenza di una diaconessa interviene una donna qualunque della comunità; in assenza delle donne, interviene il

battezzante (il vescovo o un suo delegato).

3) Anche quando interviene una donna, è sempre il celebrante che recita la formula battesimale e dell’unzione.

4) In questo rituale non si parla dei i riti battesimali perché si accenna alle unzioni che sono tutte pre-battesimali.

Quando alla fine del n. 3 si parla del sigillo infrangibile del battesimo, si tratta in realtà del battesimo e non di una

unzione d’olio: specificatamente si tratta della “sfraghis” che è un termine utilizzato nel II secolo e già nella Didaché

per designare il battesimo, cioè il bagno di acqua. Dunque, nella Didascalia Apostolorum la parola “sfraghis” rileva

un’usanza paleocristiana molto antica. Di per se non designa un rito di natura fisica, poiché la “sfraghis” battesimale è

un modo metaforico di indicare uno degli aspetti del battesimo, cioè la trasformazione interna operata nel battesimo.

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Il culto cristiano nei primi due secoli. 32

Concludendo l’analisi dei testi, a partire dal IV secolo usciamo dal periodo primitivo della Chiesa. La pace

costantiniana concessa alla Chiesa ha permesso una fioritura dei riti che esploderà proprio nel IV secolo. Le più belle

testimonianze le abbiamo proprio dalle catechesi pre-battesimali e mistagogiche di questo tempo. In effetti se

ripercorriamo i documenti utilizzati, oltre al NT, come la Didachè, l’Apologia di Giustino, gli scritti di Tertulliano, la

Traditio Apostolica, gli scritti di Cipriano e la Didascalia, possiamo renderci conto dello sviluppo che c’è stato

nell’ambito dell’iniziazione cristiana, soprattutto a partire dai riti pre-battesimali, battesimali e post-battesimali.

Certamente dobbiamo prendere in considerazione almeno tre di questi documenti: la Didaché, la Traditio Apostolica

e la Didascalia Apostolorum. Sono dei documenti dello stesso genere letterario, cioè scritti che hanno per scopo quello

di regolare certi riti all’interno della comunità cristiana. Per regolare tali riti, si ricorre all’usanza degli Apostoli; questi

tre documenti si richiamano proprio agli Apostoli. Questi stessi documenti rivelano, tra l’altro il carattere evolutivo dei

riti battesimali. I testi del NT, in modo particolare gli Atti degli Apostoli ed alcuni passi di S. Paolo, rivelano due riti:

a) il bagno d’acqua;

b) l’imposizione della mano.

Dunque, ci sono due riti, dei quali bisogna cercare di vedere come si compivano. In questo senso è necessario

accettare i termini nel loro uso comune, al momento in cui sono usati dagli scritti neotestamentari che non devono essere

spiegati con i commentari successivi dei Padri della Chiesa, perché si commetterebbe un’anacronismo. Essi devono

interpretati nel modo in cui determinate parole venivano usate al tempo degli Apostoli. Il “Baptismos”, ad esempio, è un

bagno ed è una imposizione della mano: si tratta di un rito che anche i Giudei conoscevano, nell’ambito delle loro

comunità sinagogali.

E’ vero che soprattutto Paolo ricava da questi riti una “simbolica”: in lui abbiamo già lo sforzo di una teologia,

ovvero una prima interpretazione teologica relativa al battesimo, nel senso che Paolo stesso identifica il battesimo

cristiano con la morte e la risurrezione di Cristo. Lo si nota chiaramente in Rm 7, dove dice che il cristiano è sepolto con

la morte di Cristo e risuscita con la risurrezione di Cristo stesso. Evidentemente si tratta di una identificazione non

materiale, ma simbolica, il cui effetto non è fisico, ma è spirituale. Si tratta della morte dell’anima al peccato e della sua

risurrezione a vita nuova con Cristo. Paolo spiega, in questo modo, il rito battesimale, ma non parla dell’imposizione

della mano, perché non cerca il significato simbolico di questo rito.

Effettivamente questo rito della imposizione della mano lo troviamo negli Atti degli Apostoli: questo stesso rito,

curiosamente, è passato sotto silenzio durante tutto il II secolo. Non c’è un solo testo, al di fuori degli Atti che parli di

codesto rito. Esso ricomparirà soltanto per la prima volta nella Traditio Apostolica di Ippolito, il che significa che

durante anche il II secolo tale rito esisteva già da qualche parte soprattutto dell’Oriente.

Ora, questo silenzio del II secolo non è proprio ad un luogo o ad un periodo del secolo, ma si tratta di un silenzio

totale, per cui il problema che rimane è quello di stabilire se da questo silenzio si deve concludere l’inesistenza del rito.

Ma in questo caso si tratterebbe di una conclusione forzata perché è sempre molto pericoloso argomentare ex-silenzio,

cioè tirare dal silenzio una prova decisiva. Può darsi che questo silenzio sia semplicemente casuale perché i documenti

che non erano silenziosi sono spariti o le comunità non hanno trovato qualcuno che consegnasse per iscritto quello che si

faceva. Quest’ultima ipotesi è realmente possibile.

Ora, il passaggio tra il II ed il III secolo marca un momento decisivo nell’ambito dell’evoluzione dei riti battesimali,

secondo due livelli:

1) da una parte viene organizzato un catecumenato, cioè un’istituzione che assicura l’insegnamento, la formazione

morale ed ascetica ed una formazione liturgica o rituale del candidato al battesimo che viene abituato a pregare, a

digiunare, a fare delle vigilie notturne e a fare delle elemosine. Dunque si nota un complesso di gesti nella vita

comune che possono attestare la sua conversione vera e propria, perché questi atti suppongono e richiedono una

conversione del cuore. Non c’è preghiera, non c’è digiuno, non c’è elemosina senza un movente spirituale, quello

della carità. I catecumeni, durante questa preparazione ricevono gli esorcismi ed altri riti del genere. Questa

purificazione interna riceve una specie di consacrazione rituale tramite gli esorcismi. Non si tratta soltanto di una

purificazione simbolica perché gli Antichi erano convinti profondamente della presenza di agenti malvagi o

diabolici nel mondo in cui vivevano. Essi, per tale ragione, avevano il bisogno di purificarsi, compresa la loro

mente, dal mondo fantastico di rappresentazioni diaboliche. Questo fatto è molto appariscente nei documenti del

III secolo. Però siamo meno informati sugli ultimi giorni della preparazione battesimale dei catecumeni.

Quest’ultima fase di preparazione non era coestensiva alla quaresima - che non esisteva ancora e si svilupperà

solo nel IV secolo - pertanto non si protraeva oltre la settimana che precedeva il battesimo. Tra l’altro c’è da

aggiungere che i digiuni, le preghiere e le veglie notturne erano quotidiane, anche se in un primo momento si

svolgevano due o tre volte alla settimana. E’ vero che questo condizionamento psicologico era voluto per mettere

i neofiti nella condizione morale e spirituale di ricevere il battesimo. Poi non bisogna dimenticare che questa

preparazione intensiva era incentrata sul mistero di Cristo morto e risorto, tanto più che l’amministrazione

solenne del battesimo era preferibilmente fissata la notte di Pasqua. Già in quell’epoca, quando fu fissata la

celebrazione della Pasqua, alla domenica dopo il 14 di Nisan, la vigilia di Pasqua era stata scelta preferibilmente

come vigilia battesimale. Tertulliano conferma tale tradizione ed in più aggiunge che questa vigilia non era

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Il culto cristiano nei primi due secoli. 33

esclusiva di altre possibili vigilie. Basta pensare al caso delle donne che, al momento del battesimo non potevano

partecipare, per cui lo stesso battesimo veniva rinviato ad un momento successivo, preferibilmente nella

cinquantina di Pasqua, oppure alla vigilia domenicale se erano ammalate. Dunque, in questa prospettiva, vivere

con Cristo il mistero di Pasqua condizionò lo sviluppo dei riti battesimali concentrati nella vigilia di Pasqua. In

tal senso vediamo che i Padri della Chiesa riprendono in modo attivo la simbolica del battesimo, la quale, come è

già stato detto, identifica il battezzato con Cristo morto e risuscitato.

2) Abbiamo uno sviluppo molto complesso del cerimoniale battesimale che si verifica contemporaneamente in

Tertulliano, in Ippolito ed un po’ dopo nella Didascalia Apostolorum e in Cipriano. Si tratta della benedizione

dell’acqua, dell’olio (il cosiddetto olio eucaristiato), seguita, all’unzione battesimale, dalla rinuncia al diavolo e

al bagno battesimale, dalla professione di fede. In questo caso abbiamo delle descrizioni molto precise nel luogo

in cui sono celebrati questi riti. Finalmente avviene anche lo sviluppo e la complicazione dei riti post-battesimali.

Per la prima volta possiamo notare la descrizione di questi atti del battesimo. Dunque, se cerchiamo di penetrare

nello spirito e nella mente dei cristiani che hanno vissuto questo rituale ed in parte l’hanno elaborato, si può

notare la severità della preparazione al battesimo. Lo stesso Ippolito attesta un elenco di mestieri che sono esclusi

dal battesimo. La scelta è molto severa e gli esclusi sono anche molti. Inoltre, oltre alla severità si può notare la

sobrietà dei riti per i quali abbiamo un inizio di interpretazione simbolica: i riti parlano per se stessi e sono

eloquenti in se stessi (ad es., l’immersione in acqua indica che il battezzato muore con Cristo e risuscita con

Cristo). La loro forza espressiva viene dalla loro sobrietà che è anche intonata ai luoghi dove si celebrano tali riti.

In tal senso possiamo fare riferimento alla Domus Ecclesiae di Dura Europos, una casa comune disposta come le

altre che la circondavano (vedi lezioni precedenti). Il locale dell’eucaristia e soprattutto quello del battesimo

vengono riservati a quell’uso e dopo la cerimonia non vengono più destinati all’uso comune. Questo è

particolarmente evidente nell’ambiente battesimale i cui affreschi denotano chiaramente l’uso battesimale. Però

non si tratta ancora di aule sontuose ed ampiamente decorate con affreschi di pregio, ma abbiamo ancora dei

luoghi molto semplici che forse spiegano meglio il significato che i cristiani del tempo intendevano dare al rito

battesimale. Certo una trasformazione della persona viene ad inserirsi in una comunità, poiché, dopo il battesimo,

per la prima volta il neofita è introdotto nell’aula comunitaria, dove partecipa a pieno diritto all’eucaristia

comunitaria, con la quale si conclude l’iniziazione cristiana.

L’EUCARISTIA.

Ma ora passiamo a parlare di un altro rito essenziale alla comunità cristiana: si tratta del rito eucaristico, di cui

seguiremo l’evoluzione dei primi tre secoli, allo stesso modo dei riti battesimali. In tal senso rimangono importanti e

significative le testimonianze in senso cronologico, a partire dai testi del NT per passare poi ai testi dei Padri della

Chiesa.

Però è bene notare subito una cosa: nell’ambito del nostro studio è bene fare una distinzione tra i gesti e le preghiere

che riguardano propriamente il rito eucaristico.

Nell’ambito neotestamentario abbiamo le informazioni più antiche sull’Eucaristia, in modo particolare la 1Corinti di

S. Paolo: questa lettera, come sembra, è databile all’anno 57 d.C. Se si tiene conto di un passo più preciso della lettera

sembra che sia stata scritta in occasione della Pasqua di quell’anno, cioè un prima della Pasqua del 57. Ma perché Paolo

scrive questa lettera? Probabilmente Paolo la scrisse a motivo dei disordini che si erano verificati nella comunità di

Corinto e che turbavano in modo particolare le riunioni comunitarie ed eucaristiche della comunità. E’ da notare che

Paolo critica severamente degli usi pagani, in modo particolare quello degli idolotiti, cioè delle offerte o sacrifici fatte

agli idoli (1Cor 8-10).

Una prima allusione al rito eucaristico la troviamo proprio nella 1Cor 11, dove parla della Cena del Signore. Il

capitolo 10 della medesima lettera, ai vv. 16,17,21, tra l’altro recita:

“Il calice di benedizione che benediciamo non è comunione al Sangue di Cristo? Il pane che rompiamo non

è comunione al corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane noi tutti non formiamo che un solo corpo perché tutti

partecipiamo a questo unico pane...Voi dunque non potete bere al calice del Signore e poi anche al calice dei

demoni. Voi non potete condividere la mensa del Signore e la mensa dei demoni”.

Questo ultimo passo fa allusione agli idolotiti. Dunque, il fatto di partecipare alla cena e al calice del Signore vieta ai

cristiani la possibilità di partecipare agli idolotiti, sotto qualsiasi forma. Sulla tavola dei demoni ci sono gli idolotiti,

mentre sulla mensa dei cristiani vi sono il Corpo ed il Sangue di Cristo. Questa partecipazione è il segno della

comunione tra i fedeli perché partecipando ad un unico pane formano un solo corpo. Allora, Paolo critica, su questa

base, gli scismi, cioè le divisioni interne della comunità, che si manifestano in un modo pratico, cioè di distinzione fra

ricchi e poveri. Questa discriminazione sociologica Paolo la critica in modo assoluto. I ricchi devono condividere con i

poveri quello che hanno in nome della carità che deve essere esercitata nel vincolo dell’amore. Paolo critica questo

genere di divisioni in virtù della tradizione ricevuta dal Signore, ricordando alla sua comunità l’istituzione

dell’Eucaristia (1Cor 11,23):

“Il Signore Gesù nella notte in cui fu tradito prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il

mio corpo che è per voi, fate questo in memoria di me”. Nello stesso modo, dopo la cena, prese il calice dicendo:

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“Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio Sangue. Ogni volta che lo berrete lo farete in memoria di me. Ogni volta

infatti che mangerete questo pane e berrete questo calice annuncerete la morte del Signore finché Egli venga””.

Questo è il più antico racconto dell’istituzione dell’Eucaristia, mentre i racconti dei Vangeli verranno 20-30 anni

dopo. In questo racconto paolino la cena del Signore viene ripetuta con alcune semplificazioni mediante diversi atti:

a) Eucaristia, frazione e distribuzione del pane;

b) Eucaristia e distribuzione del calice;

c) ripetizione del gesto eucaristico.

Ripetendo il gesto del Signore, i cristiani annunciano la sua morte finché Egli venga, fino alla parusia che viene

attesa. Quindi, l’eucaristia cristiana ha una doppia dimensione: da una parte è memoriale del passato, circa il gesto di

Cristo, mentre dall’altra è l’annuncio della parusia. In un certo senso l’eucaristia è anche una preparazione a questa

parusia. Per rispettare il carattere proprio di questo “banchetto” Paolo invita i Corinzi a prendere il loro proprio pranzo a

casa, prima di venire alla riunione eucaristica. Ciò vuol dire che già in quest’epoca vi è la tendenza a separare il pranzo

o la cena dalla Eucaristia. Questa separazione implicherà una ritualizzazione della cena del Signore.

Dunque, bisogna notare che nel racconto eucaristico di Paolo la “fractio panis” è menzionata, ma non riceve un

rilievo particolare, perché è citata fra gli altri atti del Signore, durante l’ultima Cena. Ora, questa “fractio panis” si

ritrova come termine tecnico nei Vangeli in due occasioni: nei racconti della moltiplicazione dei pani e nei racconti

dell’istituzione eucaristica. Nei due casi il racconto subisce una stilizzazione liturgica. In Mt 14, 19, Mc 6,41, Lc 9,16 e

Gv 6,11 abbiamo il racconto della moltiplicazione dei pani. A tale riguardo è bene sviluppare uno schema sinottico:

Frase dei passi citati: Vangeli Sinottici Vangelo di Giovanni

Gesù prese i pani

Alzò gli occhi verso il Cielo

Disse la benedizione

Rese grazie

Ruppe i pani

Gli diede ai discepoli

che li distribuirono alla folla

Mt 14,19; Mc 6,41; Lc 9,16.

Mt 14,19; Mc 6,41; Lc 9,16.

Mt 14,19; Mc 6,41; Lc 9,16.

Mt 14,19; Mc 6,41; Lc 9,16.

Mt 14,19; Mc 6,41; Lc 9,16.

Mt 14,19; Mc 6,41; Lc 9,16.

Gv 6,11.

Gv 6,11.

Gv 6,11.

Questa tabella sinottica ci mostra in modo chiaro l’elaborazione redazionale che i diversi evangelisti hanno fatto

subire al miracolo della prima moltiplicazione dei pani. Alcuni di questi gesti descritti corrispondono alla natura delle

cose, cioè prendere, rompere e distribuire pani abbastanza consistenti. Altri gesti, come “Alzò gli occhi verso il cielo”,

“Disse la benedizione” e “Rese grazie”, lasciano, invece, intravedere l’influsso della tradizione giudaica: su questo

punto c’è l’assoluta concordanza dei Sinottici. Due volte solo la possiamo vedere in Giovanni. Questa stilizzazione

redazionale rimonta all’origine della tradizione evangelica. Nella misura in cui i quattro Vangeli riportano gli stessi

gesti, si può essere sicuri che corrispondono all’uso primitivo della comunità cristiana di Gerusalemme e probabilmente

anche delle altre comunità cristiane che vi erano già nel ’57, al tempo di Paolo. Per quanto riguarda l’epoca dei Vangeli

ci troviamo già in un momento posteriore.

L’altra alternativa che ci rimane, è quella di sapere se queste usanze della comunità primitiva riproducono i gesti di

Cristo: in un certo senso la risposta è affermativa, perché tutti questi gesti sopra accennati si ritrovano nei quattro

Vangeli, anche se non è da escludere che Giovanni abbia spinto oltre la stilizzazione narrativa che si trova già nei

Sinottici e che dunque abbia anche semplificato di più la sintesi già presente nei Sinottici. Ciò riguarda essenzialmente i

racconti della prima moltiplicazione dei pani. Si può dunque fare una tabella sinottica simile alla prima, per quanto

riguarda la seconda moltiplicazione dei pani, per vedere in quale misura le due tabelle si corrispondono. Tutti questi

confronti sono utili per ritrovare le usanze delle comunità primitive ed attraverso quelle ricostruire i gesti originali di

Cristo stesso. A tale riguardo possiamo riprodurre la seconda tabella:

Frasi dei passi citati: Vangeli Sinottici Vangelo di Giovanni

Gesù prese i sette pani...

Rese grazie

Li spezzò, li dava ai discepoli

e i discepoli li distribuivano alla folla

Mt 15,36; Mc 8,1-10.

Mt 15,36; Mc 8,1-10.

Mt 15,36; Mc 8,1-10.

Mt 15,36; Mc 8,1-10.

Da questa seconda tabella, come si può vedere, sono praticamente assenti il Vangelo di Luca e di Giovanni, ma

troviamo una corrispondenza con la prima tabella per quanto riguarda i gesti descritti: da una parte, abbiamo i gesti che

si richiamano alla natura delle cose come “Li spezzò”, mentre dall’altra abbiamo i gesti, come “Rese grazie” relativi al

compimento di un rito che era già presente nella tradizione giudaica; si tratta della benedizione del pane e del

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Il culto cristiano nei primi due secoli. 35

rendimento di grazie che richiamano alla struttura della Berakà (o preghiera di benedizione). Questi ulteriori indizi

confermano praticamente il consolidarsi di una tradizione liturgica delle prime comunità cristiane intorno alla mensa

eucaristica. Questo dimostra che i dati raccolti mediante la prima tabella sinottica corrispondono alla seconda e che

sostanzialmente tra i Sinottici troviamo una concordanza.

[PC 511. 8]

La sequenza dei gesti compiuti da Cristo corrisponde alla natura delle cose: per distribuire i pani si deve

romperli, Gesù, poi, si è servito degli apostoli per distribuirlo.

Altri gesti rilevano una certa stilizzazione rituale e rispondono in parte alla tradizione cultuale giudaica, come

l'alzare gli occhi al cielo, benedire i pani.

Nel racconto del miracolo è intervenuta una certa maniera di fare degli autori. La tradizione è stata orale prima

di essere trascritta nei vangeli. Questa stilizzazione corrisponde all'uso delle comunità cristiane, che senza problemi

hanno seguito gli usi cultuali degli ebrei.

Da sottolineare la concordanza assoluta dei Sinottici per tutti i gesti, eccetto uno proprio di Giovanni: rese

grazie. Ciò potrebbe orientarci verso una tradizione particolare della comunità in cui scrisse Giovanni. La concordanza

riflette probabilmente il gesto stesso di Cristo. La stilizzazione risale certamente alla tradizione evangelica primitiva e in

un'altra misura vediamo delinearsi una tradizione particolare di Giovanni.

Un'osservazione analoga può farsi a proposito dell'istituzione eucaristica, a proposito del gesto stesso di Cristo.

Ho fatto ricorso ad una sinossi, quella di Boismard e Lanouille. Non bisogna poi dimenticare il racconto anteriore di

Paolo in 1Cor 11,23-26.

Il vangelo di Giovanni non riporta il racconto dell'istituzione. I testi esistenti vanno due a due:

Mt/Mc e Lc/Paolo.

Lc conserva in proprio una breve evocazione del pranzo pasquale di Gesù, mentre i tre altri testi riflettono più

fedelmente l'uso liturgico della loro comunità di origine. Lascio da parte i problemi letterari (rinvio alla sinossi, vol II

pp. 380-383). Mi limito al senso storico dei racconti e traggo delle conclusioni:

1. all'origine della tradizione evangelica si situa il racconto del pranzo pasquale di Cristo, senza menzione

dell'istituzione eucaristica. Un pranzo che si è svolto secondo le usanze giudaiche. In questa prospettiva Lc 22,15-18 ha

conservato meglio lo svolgimento del pranzo. Paolo ne conserva una sola traccia 1Cor 10,16. In questa prospettiva Lc e

Paolo sono più vicini alle origini.

2. In un secondo momento il pranzo pasquale fu reinterpretato in funzione dell'istituzione eucaristica, sulla base

della parola del Signore: "Fate questo in memoria di me". L'istituzione eucaristica è stata integrata nel pranzo pasquale.

Di conseguenza, la cena del Signore acquista un doppio senso teologico:

memoriale della sua morte

annuncio della sua parousia "Fate questo finché io ritorni". Questa formula si trova in certe liturgie.

Questa evoluzione è già acquisita nella 1Cor. È stata evoluzione breve, perché Paolo scrive ai Corinti negli anni

intorno al 56. In questo canovaccio psicologico possono inserirsi alcune informazioni diverse.

In Col 4,16 si parla di una lettura della lettera in Colossi e a Laodicea.

In 1Ts 5,27 è raccomandata la lettura della lettera a tutti i fratelli santi della città.

Lo stesso a proposito della colletta che l'apostolo aveva raccomandato in favore dei poveri della comunità di

Gerusalemme (1Cor 16,1.4). La colletta deve farsi una volta la settimana, in un giorno della settimana, che deve essere il

giorno della riunione collettiva. Dunque, alla sinassi settimanale sono uniti due atti:

1. la lettura delle lettere; 2. la colletta.

Questo giorno sembra essere stato quello abituale della riunione eucaristica. Sono i primi abbozzi della sinassi

eucaristica. Questa prassi la vediamo crescere dalla comunità di Gerusalemme alle diverse comunità primitive. Nei primi

5 capp. degli Atti, c'è il riassunto della crescita della comunità: At 2,46; 4,32; 5,12. 15-16.

Il primo passo menziona la frazione del pane: è la prima menzione di questo rito. L'insegnamento degli apostoli

è chiamato Didaché. I cristiani sono fedeli alla comunione fraterna, alla frazione del pane, alla preghiera. Il passo evoca

un pranzo giudaico, in cui quello che presiede recita una benedizione prima di distribuire il pane. Il pane è rotto,

secondo una necessità fisica (il pane in Oriente era più piatto. Nel linguaggio cristiano il termine Fractio panis, insieme

al greco kla,sij tou/ a;rtou designa sempre il rito eucaristico.

Fractio panis è termine che la latinità classica non conosce, è terminologia propria dei primi cristiani. La

fractio panis è celebrata nelle case dei fedeli (cfr. At 2,46). Fa sempre parte di un pranzo (cfr. 1Cor 11,20-34). Paolo

celebra la fractio panis a Troade, "il primo giorno della settimana" (At 20,7). C'è un altro passo, At 27,35, sulla nave

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Il culto cristiano nei primi due secoli. 36

dopo la tempesta. Non oserei dire che sia eucaristico, sembra un gesto normale di ringraziamento a Dio per essere

sacmpati dalla tempesta. Ma i termini scelti dal narratore sembrano essere fatti in riferimento al rito eucaristico. Può

essere stato il narratore a dare una patina eucaristica.

La fractio panis è accompagnata da una benedizione. Una volta si parla di rendimento di grazie (Lc 22,17; Gv

6,11). Le espressioni benedire e rendere grazie sono equivalenti alla berakà ebraica dei pranzi ebraici. Mentre l'azione

di grazie, l'eucarestia ha dato alla preghiera il suo nome tecnico. Nei termini eucarestia e fractio panis un particolare ha

dato il nome a tutto il rito: è un caso tipico di metonimia (la parte per il tutto).

I PRIMI PADRI

a) la Didachè

Il didachista ha proposto dei modelli di preghiera eucaristica nei capp. 9-10. Si è detto che siano quelli che

concludevano il rito battesimale. Nel cap. 7 la celebrazione del battesimo è seguita dal testo del PN che i neofiti recitano

per la prima volta nella comunità dei fedeli. Prima non lo recitava pubblicamente, lo imparava a memoria privatamente,

senza l'aiuto di un non iniziato. Poi per la prima volta ascoltava la preghiera eucaristica.

Per l'eucarestia rendete grazie così:

IX, 2 In primo luogo sulla coppa [...];

IX,3 Dopo sul pane rotto [...];

X, 1-2. 4 Dopo il pasto c'è una nuova eucarestia.

Nell'intervallo è raccomandato che nessuno mangi nè beva della vostra eucarestia fuori dei battezzati.

L'eucarestia è rito riservato ai battezzati. (X,5).

Il termine eucaristia è già ora un termine complessivo che designa diverse cose:

la preghiera eucaristica (per noi consacrazione);

gli elementi eucaristiati;

la preghiera conclusiva.

Ciò significa che eucarestia è cosa complessa già al tempo della Didachè.

L'eucarestia domenicale è descritta nel cap. XIV:

Nel giorno domenicale (del Signore) riunitevi per rompere il pane e fare eucarestia.

Abbiamo tre termini tecnici: il giorno del Signore, rompere il pane, fare eucarestia.

L'eucarestia domenicale comincia con un rito attestato qui per la prima volta e messo in rapporto diretto con

l'Eucarestia: l'exomologesi (confessione) dei peccati. Questa parola diventerà tecnica per designare la confessione.

Perchè l'exomologesi non fa parte della celebrazione eucaristica battesimale? Non è necessario, perchè i peccati

sono perdonati dal battesimo. Ciò conferma che i capp. 9 e 10 designano l'eucarestia battesimale. Nello stesso modo che

c'è un legame organico tra i capp. 7 - 8 e 9-10, allo stesso modo tra 9-10 e 14-15.

La sequenza, dunque, è Battesimo Eucarestia battesimale Eucarestia domenicale

L''eucarestia è celebrata dagli episcopi e dai diaconi. Cap. 15,1 dice. "eleggetevi dunque degli episcopi e dei

diaconi. La successione è logica: il battesimo seguito dall'eucarestia, l'eucarestia della domenica, per celebrarla

occorrono dei ministri speciali.

Da questo momento esistono due termini per designare l'eucarestia: la fractio panis e l'eucarestia. Il primo

termine sparirà a favore del secondo. Il gesto continuerà a far parte del rituale.

b) Giustino

Il testimone seguente è Giustino. Come già la Didachè, dedica due capitoli distinti dell'Apologia all'Eucarestia

battesimale (cap. 65) e all'Eucarestia domenicale (cap. 67). Il cap. 66 è dedicato al significato teologico dell'eucarestia.

SINOSSI DEI RITI secondo Giustino

Eucarestia battesimale (cap. 65) Eucarestia Domenicale (cap. 67)

_______________________________________Preghier

a dei fedeliBacio della paceOfferta del pane, vino,

acqua.Preghiera eucaristicaAcclamazione finale: AMEN

Distribuzione del pane e del vino20

(agli assenti è portato da uno dei fedeli)

Letture: memorie degli apostoli e gli scritti dei profeti

Omelia del presidente

Preghiera dei fedeli

-----------------------

Offerta del pane, vino, acqua.

Preghiera eucaristica

Acclamazione finale: AMEN

Distribuzione del pane e del vino21

20 Temperato con acqua, gli antichi non bevono vino puro 21 Temperato con acqua, gli antichi non bevono vino puro

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Il culto cristiano nei primi due secoli. 37

Nella sinossi è importante non completare i vuoti con i dati dell'altra. Sono due colonne a se stanti, sono due

realtà diverse. Sarebbe un errore metodologico supporre che nell'eucarestia battesimale ci fossero letture ed omelia e che

ci fosse il bacio della pace nell'eucarestia domenicale. Ciò non vuol dire che che nell'eucarestia domenicale non si

scambiassero il segno di pace, ma che non figura nel cap. 67. Non sappiamo perchè sia stato omesso il bacio di pace

nell'eucarestia domenicale. L'eucarestia battesimale non comincia con le letture e l'omelia, perchè letture, canti,

preghiere ed istruzioni del presidente furono fatti durante la vigilia battesimale. Perciò credo che si possa ammettere che

l'eucarestia battesimale cominci ex abrupto con la preghiera dei fedeli, il bacio della pace e l'offerta del pane, vino con

acqua. La parte precedente era il rito battesimale.

Se confrontiamo queste tabelle con quelle della Didachè, c'è una differenza che si spiega abbastanza se teniamo

conto della diversa origine geografica.

la Didachè rispecchierebbe l'uso della Siria Occidentale;

Giustino l'uso romano, perchè era a Roma quando ha indirizzato l'apologia.

Per il resto la concordanza tra la Didachè e Giustino è perfetta. C'è un'altra anomalia da prendere in

considerazione. Giustino menziona le offerte nel cap. 67,6, dopo la comunione della Messa. Non è ordine normale, forse

è ritorno all'offertorio, perchè i fedeli portano doni in abbondanza, che superano i bisogni dell'Eucarestia. Non tutti sono

usati nell'Eucarestia. Perciò dice che è a carico del presidente distribuire i doni. Non si può dire se tutto sia stato

consacrato o solo una parte. Ciò che è avanzato è distribuito ai bisognosi dal presidente della comunità. Il presidente

non riceve una designazione particolare: è o proestw,j. Non sappiamo se era l'episcopo o portava altro titolo. Nel cap.

66 spiega il senso dell'eucarestia:

Una volta eucaristiati non sono più alimenti ordinari, perché sono diventati il corpo ed il sangue di

Cristo.

Giustino parla di metabolh,, trasformazione, paragonata alla prima metabolh: l'incarnazione di Cristo. Ci sarà

un'altra metabolh,, la parousia alla fine dei tempi. Questa metabolh risulta dalla potenza creatrice del logos. Giustino

non spiega il come, ma il perché della trasformazione.22 In Giustino c'è un progresso rispetto alla Didachè, che non

spiega il senso dell'Eucarestia. Ma a Giustino interessa non il come, ma il perché. I Padri sono molto preoccupati per il

ritorno del Signore.

c) La Traditio Apostolica

L'eucarestia è descritta nell’edizione del Botte, pp. 55-59.

Dopo il battesimo i neofiti pregheranno con tutto il popolo, perché non pregano con i fedeli prima di

aver ottenuto tutto questo.

Quando avranno pregato daranno il bacio di pace. L'oblazione sarà presentata dai diaconi al vescovo.

Lui renderà grazie sul pane perché sia l'antitipo del corpo di Cristo, sul calice, perché sia l'immagine

del sangue che è stato versato per tutti quanti credono in lui. Renderà grazie sul late e sul miele

mescolati per il compimento delle promesse fatte ai padri, nelle quali è detto della terra dove colano il

latte e il miele. Renderà grazie, infine, sull'acqua presentata in offerta per significare il bagno, affinché

l'uomo interiore ottenga gli stessi effetti nel corpo.

Di tutto queste cose il vescovo renderà conto ai comunicanti, quando avrà rotto il pane, presentando

ogni boccone dirà: Il pane del cielo in Cristo Gesù, il comunicante dirà Amen.

Se i presbiteri non bastano, anche i diaconi terranno i calici e si sposteranno in buon ordine: il primo

con acqua, il secondo con il latte, il terzo con il vino. Tre volte dirà quello che li tiene: "In Dio Padre

onnipotente". E colui che lo riceve dirà: "Amen". "E nel Signore Gesù Cristo" e dirà: "Amen".

"Nello Spirito Santo e nella Santa Chiesa" E dirà : "Amen".

Quando la distribuzione è finita ognuno si applicherà a fare delle buone opere, a piacere a Dio, a ben

comportarsi, a essere zelante per la chiesa .....

Lo svolgimento della Messa Battesimale è, pertanto:

1. Preghiera dei fedeli

2. Bacio di pace

3. offertorio

4. preghiera eucaristica su tutti gli elementi

5. Comunione al pane, all'acqua al latte al miele

Come è definito il pane? Antitipo del corpo di Cristo. Il vino è immagine del corpo di Cristo. Siamo in

presenza di un linguaggio tipologico. Antitypos è termine tecnico per designare una cosa che significa altra ventura. Ad

es. le profezie dell'AT sono antitipo della loro realizzazione nel NT, dove c'è il typos. Anche nella vita della chiesa ci

22 Cfr. PEARL, Logos un eucharestie, Divus Thomas, vol XVIII (1940), p. 303.

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Il culto cristiano nei primi due secoli. 38

sono antitipi che annunziano una realtà futura. In questo senso il corpo ed il sangue di Cristo storico sono il modello

degli elementi eucaristici, che sono la replica di questi antitipi.23

Accanto ad Ippolito abbiamo altre attestazioni in Tertulliano, Cipriano, Ambrogio e in Cirillo di Gerusalemme.

La stessa tipologia è applicata al latte e al miele, poiché compimento delle profezia di Lv 20,24: "Una terra

dove scorrono latte e miele". Questo paese è identificato con la chiesa, paese dove si realizzano le profezie dell'AT.

L'acqua è il ricordo di quella fatta appena scorrere sui neofiti nel Battesimo. La testimonianza della Traditio

Apostolica è importante. Perché mette l'eucarestia nel contesto battesimale. Ricorda che l'eucarestia è riservata ai

battezzati.

Per quanto riguarda gli elementi diversi, qui latte e miele sono solo per l'eucarestia battesimale, sono i

rimasugli, povere vestigia del pranzo in cui era anticamente inserita l'eucarestia. Questo uso si è conservato per un

tempo più lungo nell'eucarestia battesimale.

I neofiti avevano digiunato tutto il sabato e tutta la notte della veglia pasquale. Il conforto era per loro il

benvenuto. Si tratta di alimenti molto calorifici (latte caldo, anche vino caldo).

d) La Didascalia Apostolorum

Non descrive completamente l'uno e l'altro rito. È il primo documento ad ambientare il rito eucaristico: cfr. cap.

12,57,2-5.24

“Nei vostri luoghi di riunione, la santa chiesa, radunate il popolo con grande cura, preparando

attentamente i posti ai fratelli con ogni purezza. Riservate un posto ai presbiteri sul lato orientale

della casa. Che il trono del Vescovo sia in mezzo a loro. I presbiteri si seggano con lui.

Sul restante lato orientale si sederanno i secolari. È richiesto che sul lato orientale della casa siedano

i presbiteri col vescovo, i secolari ed infine le donne, perché quando vi alzerete per pregare i capi si

alzeranno a capo dell'assemblea, poi i secolari, poi le donne.

Dovete pregare rivolti ad oriente, ricordate quello che è scritto: "Suonate a Dio che è asceso ai cieli

dei cieli verso oriente”” ( Il Signore sarebbe dovuto tornare dall'oriente).

E

SN

O

Se co la r i

D o n n e

Nella preghiera il presidente prega verso oriente e tutti nella stessa direzione. Il presidente è a capo della

comunità. Doppia è la direzione: della preghiera e dell'omelia. I fedeli non cambiano la direzione, è l'episcopos e i

presbiteri a farlo.

Pela Didascalia il ruolo di presidente è dell'episcopos. I presbiteri sono aggiunti in modo subordinato,

cooperano con lui nella preghiera.

Abbiamo un il problema della traduzione: non abbiamo il testo greco. Nella traduzione siriaca per designare il

presbiteor il termine è qashishò, qohen designa il sacerdos dell'AT. Nella traduzione francese qashishò è tradotto con

23 Cfr. V. SAXER, Figura Corporis et Sanuini Domini, Arheologia Cristiana 47 (1971), 65-89. 24 Cfr. il prof. segue la traduzione francese di NAU pp. 112-113

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Il culto cristiano nei primi due secoli. 39

vecchi, non sono gli anziani, ma i presbiteri, si vede che i presbiteri condividono col vescovo la presidenza, anche se il

vescovo ha un posto preminente: è meglio conservare il tema translitterato in greco.

Durante la riunione eucaristica sono presenti anche dei diaconi, che hanno un ruolo subordinato, perchè al

servizio del vescovo e della comunità. Presentano le offerte ricevute dai fedeli, mentre tocca all'episcopos la loro

consacrazione. I diaconi sorvegliano la comunità, assegnando ai ritardatari i posti, e curando la separazione dei sessi.

Dove siano i bambini non è detto. È ovvio che i lattanti stiano con le madri, i ragazzi staranno con gli uomini.

In questo contesto generico, due osservazioni precise:

1. Se c'è un vescovo di passaggio, il vescovo della città lascerà la presidenza. Se non accetta lo

pregherà di pronunciare almeno la formula di consacrazione, "se non vuole offrire, parlerà sulla

coppa". Questo scambio di cortesie era usuale. Lo vediamo per Policarpo, quando a Roma visita

Aniceto, questi gli lascerà la presidenza dell'eucarestia. Le difficoltà riguardavano la celebrazione

della data di Pasqua.

2. "Anche nei cimiteri leggete i santi libri e senza rumore fate il vostro servizio e la vostra preghiera,

offrite la vostra eucarestia .....

Nelle vostre assemblee e nei cimiteri, all'uscita di coloro che muoiono, offrite il pane immacolato

cotto nel fuoco, pregate ed offrite l'eucarestia per coloro che sono morti" Viene raccomandata

l'eucarestia per i defunti, un 'eucarestia completa, perché l'offerta del pane e del vino.

Si parla di où`moi,wma come già abbiamo trovato nella Traditio Apostolica. Il pane è detto immacolato

(a;kratoj), consacrato dall'invocazione. Questa terminologia si trova solo a partire dal IV sec. nella Costitutio

Apostolica, nelle Catechesi Mistagogiche di Cirillo, ed altri testi della fine del IV e degli inizi del V sec. Può darsi che

su questo punto la Didascalia sia stata rimaneggiata nel IV secolo. Il pane consacrato dall'invocazione fa riferimento alla

preghiera consacratoria.

Exodus, indica la morte come uscita dalla vita terrena. Cipriano parla di decessus, parla di dipartita, partenza: è

terminologia frequente in questo tempo.

La testimonianza della Didascalia è doppia: la mostra nel suo ambiente con la preoccupazione di rispettare un

ordine gerarchico. Può darsi che l'ordine gerarchico corrisponda ad un certo ordine socisle. Nella società antica le classi

erano distinte. Troviamo altre attestazioni nelle scritture canoniche. In 1 Cor Paolo sembra alludere: i ricchi portano

doni e i poveri, ma i ricchi li mangiano tra di loro e così i poveri. In Gc si dice che se nelle assemblee entra un

personaggio ricco lo conducete al primo posto e che ognuno deve prendere posto mano a mano che arriva.

______Note Personali di Studio______________________________________________________________________

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[PC 513.9]

18.12.98.

Circa i riti dell'eucaristia, nei primi tre secoli, in sintesi si può dire che quelli attestati sono i seguenti a

secondo degli autori:

1) la confessione dei peccati;

2) le letture degli scritti apostolici, i Vangeli, gli scritti profetici dell'AT e del NT;

3) Commentario delle letture: è lo scopo dell'omelia;

4) la preghiera dei fedeli che conclude la prima parte della liturgia..

Ad una parte della preghiera vi assistono anche i catecumeni che a un certo momento sono congedati, rimanendo

all'assemblea solo i fedeli, cioè i battezzati per la conclusione di questa preghiera.

Il problema è di sapere se nella preghiera era incluso anche il Padre Nostro: si può solo fare una ipotesi nel senso che

una liturgia riservata ai fedeli comportava anche il bacio della pace, cioè il "bacio santo" come dice l'Apostolo Paolo in

una sua epistola. Successivamente inizia l'atto eucaristico propriamente detto, con la preparazione e l'offerta dei doni,

fatta da tutti i fedeli, che vengono poi successivamente presentati al presidente dell'assemblea dai diaconi. Su questi doni

il presidente recita la preghiera eucaristica, cioè il rendimento di grazie propriamente detto. Alla fine c'è la comunione di

tutti i presenti alle offerte consacrate; le quali sono anche portate anche agli assenti. Ci troviamo ancora in un'epoca in

cui i fedeli conservano le specie eucaristiche nella propria casa, sia per il proprio uso (la comunione quotidiana), sia per

farvi partecipare gli ammalati, i bambini ed altre persone impedite alla partecipazione della celebrazione eucaristica. Poi

la cerimonia si conclude con la distribuzione dei doni ai poveri che sono avanzati, nell'ambito dell'eucaristia celebrata.

Dunque, grosso modo si può dire che si tratta dell'ordinamento della messa nei primi tre secoli, anche se ci sono

delle variazioni in funzione del luogo.

Le preghiere eucaristiche ed i formulari.

Il NT ha conservato alcuni formulari delle preghiere liturgiche antiche, mentre altri formulari risalgono all'epoca

patristica. Questi testi possono essere raggruppati secondo i seguenti titoli:

1) la preghiera del NT;

2) le preghiere patristiche di ispirazione liturgica;

3) le preghiere eucaristiche arcaiche;

4) le preghiere tradizionali, che sostituiranno le forme arcaiche.

Vediamole, adesso, singolarmente:

La preghiera del NT.

Come si può notare, ogni preghiera sviluppa una tematica particolare che ci è necessaria per poter vedere in quale

misura nel NT sono conservate le preghiere di stampo eucaristico. Un primo fatto negativo che dobbiamo raccogliere è

che nel NT non abbiamo conservato il testo della preghiera che il Signore pronunciò sul pane e sul vino nell'ultima

Cena, né le preghiere relative ai due episodi della moltiplicazione dei pani. Forse non ci sono pervenute per motivi non

conosciuti o probabilmente perché nessuno ne aveva conservato il ricordo. Quest'ultima rimane la questione più ovvia,

perché, infatti, quando gli evangelisti parlano della moltiplicazione dei pani o dell'ultima Cena si limitano a dire che il

Signore "benedisse" (cfr. la preghiera di benedizione), senza riferirne il contenuto.

La più antica di tutte queste preghiere conservate è della Didaché, che si conclude con la dossologia finale, di cui

troviamo alcuni esempi nel NT. Soprattutto li abbiamo in Paolo e nelle preghiere eucaristiche antiche. Ma quali sono le

preghiere neotestamentarie conservate?

In primo luogo abbiamo i tre Cantici, quali Lc 1,46-55, Lc 1,68-69, Lc 2,29-32. Si tratta rispettivamente del

Benedictus di Zaccaria, del Magnificat e del... Sono in realtà delle preghiere eucaristiche nel senso che esprimono un

rendimento di grazie, per tutti i prodigi e le azioni del Signore nella storia dell'uomo, in modo particolare nella storia del

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popolo eletto. Queste preghiere sono nate con il Vangelo di Luca nella comunità in cui il Vangelo medesimo fu

composto. La loro sostanza risale alla persona alla quale sono attribuite, ma si può notare che queste preghiere sono

intessute di formule bibliche tradizionali, soprattutto quelle veterotestamentarie che è molto simile a quella del NT, cioè

il Cantico di Anna, quando fu concepito il figlio Samuele. Queste preghiere bibliche cantano la benevolenza di Dio, la

salvezza universale che non è riservata agli Ebrei, ma è estesa a tutti gli uomini. Questa universalità della salvezza risale

al periodo della predicazione profetica, proprio perché alcuni profeti hanno intravisto nella storia dell'uomo questa

salvezza.

Ora il carattere peculiare di questi cantici sta nel fatto che questa salvezza è in corso di realizzazione. I profeti la

vedevano promessa nel futuro, mentre nel NT è in atto. Anche dalle epistole di Paolo si possono estrarre degli inni sia

a Dio, sia a Cristo, sia al battezzato e sulla sua unione con Cristo [Inni indirizzati a Dio: Ef 1,3-14; Inni indirizzati a

Cristo: Fil 2,6-1, Col 1,15-20, 1Tim 3,16, 1Tim 6,15-16; Fil 2,6-15; Col 1,15-20; 1 Tim 3,16). Altri inni riguardano

l'uomo salvato, cioè il battezzato (Ef 5,14), nonché l'unione del cristiano con Cristo (2Tim 2,11-13).. Il Canto del

famoso inno alla carità (1Cor 13,1-13) è un caso particolare perché non è un inno liturgico, ma di una categoria di inno

lirico di Paolo (di stampo poetico), che non riveste la forma liturgica.

Ci sono poi inni nell'Apocalisse di Giovanni, di cui alcuni sono di natura liturgica: sono anche essi lirici per

incoraggiare i cristiani nella perseveranza durante le persecuzioni, (Ap 4,8; 5,9-10; 11,15-17.18; 12,10-12; 15,3-4;

19,5-6.7-8; 22,20-21). In questo elenco ci sono alcuni inni particolarmente significativi come il Canto di Mosè, e

dell'Agnello (Ap 15), che riprendono il contesto dell'Esodo (si tratta del canto di Maria, sorella di Mosè) per celebrare la

vittoria dell'agnello sul peccato e sulla morte; invece il capitolo finale, di Ap 22 parla della piena realizzazione della

Città di Dio sulla terra. Di questo inno dell'Apocalisse abbiamo delle tracce in altri scritti, in modo particolare nella

1Cor 16,22 e nella Didachè, cap. 10,6.

A livello bibliografico possiamo ricordare P. Hamann che ha fatto una raccolta di preghiere di questo tipo. Egli, ha

tra l'altro scritto un libro sulla preghiera dei primi cristiani, raccogliendo i testi più belli di questa categoria letteraria. Ci

sono anche preghiere non bibliche dei primi tempi cristiani.

Le preghiere patristiche.

La più antica è la lettera di Clemente Romano ai Corinti, una lettera che i critici sono concordi a datare tra il 95 ed il

96 d.C. Clemente è considerato il secondo o il terzo successore di Pietro a Roma. Questa lettera ai Corinti è uno dei testi

più importanti: sono particolarmente significativi i cc. 59-61. Proprio nel libro di Hamann si trova la migliore

presentazione perché viene evidenziata la struttura strofica della lettera, come in un inno. La funzione della preghiera è

paragonata ad una preghiera universale dei fedeli: questa preghiera universale è nutrita dal pensiero biblico, come ad es.,

"Tu abbassi l'arroganza dei superbi, tu svii i calcoli dele nazioni, tu elevi gli umili e butti a terra i potenti" (c. 59,3).

Passi di questo tipo rievocano dei temi biblici, in modo particolare ritroviamo gli echi dei Salmi e del Cantico di Anna.

Anche il Magnificat della vergine rievoca questi temi. La poreghiera di Clemente inizia con la lode del creatore (c.

59,2-3) ed enumera le intenzioni di preghiera della Chiesa (c.59,4: da ciò si ha la ragione secondo cui si può parlare di

preghiera universale ), come la concordia, la fedeltà alla parola di Dio, l'umiltà e la perseveranza. Inoltre, esalta anche

l'azione continua della Provvidenza nella storia dell'uomo (c. 60,1). A questo proposito si può parlare di una preghiera

anche di natura tipologica perché l'autore vede realizzata nella storia presente della sua Chiesa le promesse di Dio nel

passato ed un'attualizzazione del piano di salvezza annunziatodai profeti e realizzato da Cristo. E' abbastanza

interessante vedere che essa contiene anche un'intenzione per i poteri civili dello Stato (c. 60,4 e c. 61,2). Una

caratteristica di questa preghiera è l'aspetto esortativo (le cosiddette raccomandazioni degli Apostoli ai cristiani come ad

esempio: "Obbedite ai rappresentanti dello Stato", "Pregate per loro"). Nello stesso tempo i cristiani vengono messi in

guardia dall'essere pagani e dal prestare culto sia agli dei che all'imperatore. Il cristiano si deve limitare soltanto a

pregare per l'imperatore ed altri funzionari dell'Impero. La preghiera di Clemente si conclude con una dossologia nela

quale viene implorata la mediazione di Cristo: per Cristo la preghiera deve essere portata a Dio Padre. Così si può

vedere che la formula "Per Gesù Cristo" appartiene sin dall'inizio alla tradizione e al formulario di ogni preghiera

cristiana, che diverrà obbligatoria nel IV secolo, secondo anche la testimonianza di Sant'Agostino..

La preghiera di Policarpo.

Abbiamo anche il testo di Policarpo che morì martire il 23 febbraio 167 (gli studiosi non sono concordi sulla data

della morte di Policarpo: infatti alcuni la fissano intorno al 155, altri verso il 177 ed altri ancora intorno al 167;

quest'ultima ipotesi è forse la più probabile). I cristiani di Smirne, in Asia Minore, fecero il racconto del martirio del

loro vescovo, circa un anno dopo la morte: tale racconto fu chiesto da altre comunità, come quella di Filomeno, che si

trovava nella Frigia (di questa comunità si hanno poche notizie ed è la prima volta che la vediamo menzionata in un

testo antico). Nel racconto è inclusa la preghiera di Policarpo al momento di salire sul rogo (Schr 10, pp.232-238). Tale

preghiera contiene numerosissime allusioni di carattere liturgico (c. 14 e Schr 10, pp. 232-238). Anche questa preghiera

è intessuta da reminiscenze bibliche che probabilmente sono venute spontaneamente sotto la penna dell'agiografo, ma

potrebbero essere state realmente pronunciate dal martire Policarpo, perché preghiere di questo tipo sono comuni

nell'epoca.

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Questa preghiera è indirizzata al "Signore Dio Onnipotente": è un'acclamazione tipica del carattere liturgico del

tempo che la troviamo già nelle preghiere giudaiche.

Un'altra invocazione è, invece tipicamente cristiana quando viene invocato il Padre "Tou paidos sou" (c'è un

significato antipologico dove troviamo il riferimento al figlio e al servo). Nella traduzione greca del Deutero Isaia, la

traduzione greca del "Pais Teou" indica il servo di Jahvè. Questo appare il termine che indica il significato di tale

espressione nel contesto della civiltà antica. Questo termine è stato ripensato dai cristiani quando lo applicarono a Gesù,

sicché Gesù Figlio di Dio "Pais Teou" è anche il servitore più eccellente di Jahvè. San Policarpo all'inizio della sua

preghiera usa l'espressione "o tou agapetou kai euloghetou paidos sou Iesou Cristou pater". Questo fatto dimostra che

ci troviamo dinanzi ad una tradizione veterotestamentaria, ma reinterpretata dai cristiani poché il termine "Pais" è

precisato con gli aggettivi "agapetou kai euloghetou": ora già nell'ultimo libro veterotestamentario, cioè quello della

Sapienza 2,10, la parola "Pais" significava figlio, che appare come la reinterpretazione del termine di Isaia, da parte

degli Ebrei della diaspora, in modo particolare quelli di Alessandria. In questo testo la saggezza è figlia di Dio. Dunque,

nell'uso cristiano, "Pais Teou" designa Gesù Cristo come figlio di Dio, anche se dobbiamo sottintendere il servitore di

Dio, quando i testi neotestamentari citano i passi di Isaia, dove l'espressione "servitore" è applicata a Gesù per

sottolineare la continuità del disegno di Dio nella rivelazione progressiva della sua benevolenza verso gli uomini. C'è

qui un carattere liturgico, anche se il termine usato è incluso in una preghiera tipicamente biblica, poiché alla fine la

parte conclusiva contiene questa tripla benedizione: "Ti lodo", "Ti benedico", "Ti glorifico". Queste ripetizioni sono

specificamente liturgiche che troveremo molte volte all'inizio dell'anafora nelle Chiese primitive. Dunque, questa

gradazione è frequente nella tradizione liturgica, come ad esempio nelle Costituzioni apostoliche 7,47 (esse risalgono

alla fine del IV secolo, intorno al 380-390). La dossologia finale della preghiera esprime di nuovo la mediazione di

Cristo, che è indispensabile ad ogni preghiera cristiana perché possa essere esaudita da Dio. Perciò Policarpo loda,

benedice e glorifica Dio mediante il Figlio, grazie al quale ogni gloria sia resa a Dio, con Lui e lo Spirito Santo adesso e

nei secoli venturi. Questa dossologia è conclusa con l'acclamazione del popolo che conclude con l'amen finale. Senza

dubbio si tratta di una formula trinitaria.

In questo caso abbiamo la preghiera eucaristica nella sua forma tradizionale: essa è indirizzata a Dio per mezzo di

Gesù Cristo e lo Spirito Santo. C'è da dire però che la tradizione manoscritta di questo testo appare manomessa ed

appare, come sembra, il risultato di una rielaborazione successiva del testo medesimo, tanto da farla risalire alla stessa

epoca di composizione delle Appendici che furono fatte al martirio, intorno al IV e V secolo. Però, tutto sommato è

notevole che la tradizione eucologica primitiva abbia fissato presto le sue regole di formulazione: sono delle regole

universali che vengono usate ancora oggi.

Questo discorso, oltre alla lettera di Clemente e alla preghiera di Policarpo, lo possiamo anche estendere ad altre

preghiere antiche, in modo particolare alle Odi di Salomone, che sono delle produzioni poetiche in un'epoca un pò

difficile da determinare nel I e II secolo d.C. Anche se vengono attribuite a Salomone, in realtà sono delle preghiere

giudeo-cristiane. Avremmo potuto fare anche una scelta negli atti apocrifi degli Apostoli del II e III secolo, dei quali

possiamo avere delle informazioni nel libro di Padre Hamann, alle pp. 65-77.

La Didaché.

Si tratta di una preghiera propriamente eucaristica, anche se, insieme ad altre preghiere dello stesso genere, è stata

oggetto di discussione sul suo carattere eucaristico, a causa di criteri che richiamano alle preghiere classiche del IV e V

secolo, mentre le preghiere più arcaiche non sono ancora arrivate a questa maturità di espressione e di composizione.

Tra queste, appunto, possiamo ricordare la Didachè (o Dottrina dei Dodici Apostoli), nei capitoli 9 e 10: si ritiene che

questa preghiera sia pienamente eucaristica, anche se l'editore delle Schr non la vede come tale, ma la inserisce nel

contesto delle agapè, cioè i pranzi di carità.

Il capitolo 9,2-4 così si esprime:

"Quanto all'eucaristia rendete grazie così: prima sul calice rendiamo grazie o nostro Padre per la

santa vigna di Davide tuo servitore. Tu ce lo hai fatto conoscere per Gesù Cristo tuo servitore. Gloria a Te

nei secoli.

Dopo sul pane rotto ti rendiamo grazie o nostro Padre per la vita e la Scienza che ci hai fatto

conoscere per Gesù Cristo tuo servitore. Gloria a Te nei secoli. Come questo pane rotto, altre volte

disseminato sulle montagne, è stato raccolto per diventare un solo (pane), così che la tua Chiesa sia

raccolta dalle estremità della terra nel tuo Regno, perché a Te è la gloria e la potenza per Gesù Cristo nei

secoli".

Il capitolo 10,1-6 della Didachè dice:

"Dopo esservi saziati dalla fine del pranzo rendete grazie così: Ti rendiamo grazie o Padre Santo per

il tuo santo nome che tu hai fatto abitare e nei nostri cuori, per la conoscenza, la fede e l'immortalità che

ci hai rivelate per Gesù tuo servitore. A Te la Gloria nei secoli. Sei tu, Signore onnipotente, il creatore

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dell'universo. Hai dato agli uomini, per il loro godimento, l'alimento e il (?) perché ti rendano grazie, ma

tu ci hai dato anche un nutrimento e un voto(?) spirituale e la vita eterna per mezzo del tuo Servo.

Innanzitutto noi rendiamo grazie perché sei potente. Gloria a Te nei secoli. Ricordati Signore di liberare

la tua Chiesa da ogni male e di renderla perfetta nell'amore. Raccoglila dalle estremità dei quattro venti,

santificata nel tuo regno, che hai preparato per lei, perché a Te è la potenza e la gloria nei secoli. Venga

la grazia, passi questo mondo. Osanna al Dio di Davide. Se qualcuno è santo che venga. Se qualcuno non

lo è che faccia penitenza. Maranathà. Amen".

Dunque, in primo luogo, questo testo richiama all'eucaristia della messa battesimale: il problema è dunque di sapere

se questa eucaristia è ancora legata o meno ad un pranzo o ad una cena, come la cena del Signore. Se è ancora ad una

cena, questa eucarastia segue l'ordine delle benedizioni, come le troviamo in Luca, cioè la benedizione di una prima

coppa, la frazione del pane e la sua distribuzione ai presenti, accompagnata dalla benedizione del pane, ed infine la

benedizione dell'ultima coppa (seconda), alla fine della cena o del pranzo. In questo caso si tratta ancora di una

eucaristia non ancora codificata e non ancora separata dal contesto primitivo del pranzo o della cena. Questo schema si

applicherebbe solo alla preghiera del capitolo nove della Didachè, dove manca, però, la benedizione della seconda

coppa. Dunque, tutto sommato, non è sicuro che questa preghiera della Didachè sia legata ancora ad un pranzo. L'ipotesi

è di avere davanti una prece nell'ambito dell'Eucaristia che è già distaccata dal pranzo. Si tratta comunque di una

eucaristia in cui ci sono due parti della preghiera: la prima si trova nel cap. 9 e la seconda si trova nel cap. 10. Questi

due capitoli potrebbero costituire due momenti diversi nell'ambito dell'Eucaristia, cioè prima e dopo la comunione. La

prima preghiera è fatta sul vino e dopo sul pane che potrebbe ancora riflettere l'uso vicino alla cena primitiva, rispetto

all'uso tradizionale dove avviene dapprima la benedizione del pane e poi quella del vino. In secondo luogo si può notare

un'altra differenza molto importante che sta nel fatto che questa prima eucaristia non fa menzione all'istituzione

eucaristica. Gli elementi benedetti indicano questa preghiera come un semplice rendimento di grazie per le offerte del

pane e del vino. Proprio questo fatto ha spinto alcuni studiosi a dire che questi capitoli 9 e 10 della Didachè non sono da

considerarsi preghiera eucaristica in senso specifico, perché manca anche una formula consacratoria. In questo senso,

possiamo notare che la preghiera ha conservato l'ordine primitivo delle benedizioni. Però, in senso inverso, ci sono due

considerazioni da fare perché c'è una differenza sostanziale tra l'antica Berakà e questa preghiera eucaristica:

1) la menzione di Gesù "che ci ha fatto conoscere la santa vite di Davide", grazie alla vita e alla scienza di Gesù

Cristo. C'è dunque un primo elemento cristico di Gesù. C'è anche un secondo elemento che è la Chiesa, perché questa

eucaristia contiene anche una preghiera da "raccogliere dalle estremità della terra nel regno". Solo dopo aver

sottolineato questi due elementi, tipicamente cristiani si distribuisce agli assistenti il vino ed il pane. Questa comunione è

il segno ed il mezzo dell'unità ecclesiale. Grazie alla comunione viene manifestata e realizzata l'unione dei comunicanti.

Una tale preghiera trova il suo miglior posto in una eucaristia propriamente detta, perché da una parte commemora il

Cristo, mentre dall'altra costituisce la Chiesa. Un particolare di topografia palestinese, che possiamo certamente notare,

è quando troviamo l'espressione "disseminato tra le montagne...", che ci dice il luogo di origine della preghiera. Si tratta

del pane raccolto che deve diventare un solo pane. Queste montagne probabilmente si riferiscono a quelle della Siria o

della Palestina. Si tratta di una evocazione del paesaggio rurale nel quale viveva l'autore della Didachè. Si tratterebbe, in

modo più preciso, di un paesaggio della Siria Occidentale, vicino ad Antiochia, ma non nella città, ma fuori dalla città.

2) La preghiera di questo secondo capitolo non è eucaristica nello stesso senso di quella del cap. nove: non è un

ringraziamento, un'eucaristia che più tardi diventerà consacratoria. E', invece, una preghiera di comunione, la cui

funzione è quella di ringraziare Dio per questa comunione. Effettivamente la preghiera è introdotta dopo le parole

"Dopo esservi saziati", il che vuol dire che questa prece è pronunziata alla fine del pranzo. E' una preghiera che avviene

dopo la comunione, anche se nello stesso contesto si trova un altro passo che sembra smentire questa prima

dichiarazione. Infatti, c'è l'avvertimento indirizzato ai fedeli: "Se qualcuno è santo che venga, se non lo è che faccia

penitenza". Si tratterebbe allora di un preciso avvertimento che avviene prima della comunione. Una formula simile di

avvertimento la troviamo nelle liturgie del IV secolo, sempre prima della comunione, sotto la forma "ai Santi le cose

sante". Tale avvertimento lo troviamo appunto nel cap. 9, v. 5 della Didachè, quando si dice che la comunione è

riservata ai battezzati.

Concludendo questa preghiera della Didaché, come si è già accennato sin dall'inizio, potrebbe essere il risultato di

una compilazione di elementi di provenienza diversa che il redattore o il compilatore non ha posto secondo un ordine

logico. Questa mancanza di logica rimane l'unico indizio di tradizioni diverse che sono confluite nel decimo capitolo 10,

dove si trova, tra l'altro, l'acclamazione finale, "Maranathà" che significa "Il Signore viene" o sotto la formula optativa

"che il Signore venga". Si tratta delle medesima formula che ritroviamo nell'Apocalisse, come un'allusione alla Parusia

finale (Ap 22,20), ma soprattutto la troviamo già nella 1Cor 11,26 che si conclude con la formula "Fate questo in

memoria di me finché venga". Dunque, l'eucaristia è legata non solo come ricordo al passato, ma soprattutto come attesa

della parusia al futuro. Anche questa connotazione è propria all'eucarestia classica che ritroveremo più tardi. Abbiamo,

dunque, un testo molto singolare nella sua formulazione, che ci fa pensare ad una situazione molto primitiva della

preghiera eucaristica, che non ha trovato ancora le sue regole definitive. Siamo alla fine del I ed inizio del II secolo, il

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che vuol dire che l'evoluzione liturgica si è realizzata molto lentamente. Questo vuol dire che ogni Chiesa segue una

propria evoluzione, secondo un suo specifico progresso nell'ambito liturgico.

La preghiera di Addai e Mari

Nelle edizioni troviamo il titolo seguente: Anafora degli Apostoli, Addai a Mari. Questa preghiera contiene una

formulazione arcaica in certi passi e rimane ancora in uso da certe comunità cristiane orientali della Siria e dell'Iraq, i

cosiddetti nestoriani e Caldei, Malabari e Maroniti. Nelle comunità maronite la preghiera si trova nella terza anafora di

S. Pietro (cfr. Martimort, La Chiesa in preghiera, Vol. II). Questa preghiera, a causa del suo lungo uso ha subito delle

modificazioni continue nel corso dei tempi. Inoltre, è conservata soprattutto in manoscritti molto tardi del XVII e XVIII

secolo. Però, gli studiosi sono concordi nel vedere nel nucleo una liturgia molto tarda. La maggior parte dei critici

protendono per il III secolo, mentre alcuni protendono verso la fine del II secolo. Su questa preghiera non vi è al

momento nessuna edizione critica: di essa abbiamo un solo codice, un pò più antico dell'XI o del XIII secolo. Questo

codice può essere importante per rilevare l'evoluzione contenutistica di questa preghiera. Il testo deve essere cercato in

edizioni antiche del Renaudot, dal titolo Liturgiarum orientalium Collectio, Parigi 1713, Vol. II, pp. 592-642. Esistono

anche studi recenti del B. Botte, del D. Webb e del A. Verheul (quest'ultimo porta un'abbondante bibliografia).

Quest'ultimo ha ricostituito la preghiera nella forma più antica, secondo il modo seguente:

1) il primo paragrafo dice che "è degno di essere glorificato da tutte le labbra, confessato in tutte le lingue, adorato

ed esaltato da tutte le creature, il nome adorabile e glorioso, il quale ha creato il mondo per la sua grazia ed i suoi

abitanti con la sua clemenza, ha salvato gli uomini nella sua misericordia e ci ha fatto a noi mortali una grande

grazia". Si tratta di una formula tripartita (glorificato - confessato - adorato ed esaltato).

2) Il secondo paragrafo dice: "Ti rendiamo grazie Signore, noi, tuoi servitori fragili, deboli ed infermi, perché ci hai

dato una grande grazia che non può essere pagata o ripagata, perché tu ha rivestito la nostra umanità per vivificarci

con la tua divinità. Hai elevato la nostra bassezza e hai risollevato la nostra caduta, hai risuscitato la nostra mortalità,

perdonato le nostre colpe e rimessi i nostri peccati. Hai illuminato la nostra intelligenza ed hai vinto il nemico, Signore

Dio. E tu hai fatto trionfare la nostra debole natura per le misericordie abbondanti della tua grazia. Per tutti i tuoi

soccorsi e le tue grazie, riguardo a noi, noi ti rendiamo lode, onore, confessione e adorazione, adesso e sempre nei

secoli dei secoli. Amen. Noi Signore, tuoi servitori fragili, deboli, infermi, siamo riuniti e stiamo davanti a te in questo

momento. Abbiamo ricevuto per tradizione il mistero che viene da Te. Ci rallegriamo, ti glorifichiamo, ti esaltiamo e

commemoriamo e celebriamo questo mistero grande" (si può notare una formulazione che ci richiama al mistero

tremendo della passione, morte e risurrezione di Gesù Cristo).

3) A questa seconda parte che si dimostra propriamente eucaristica, segue un terzo paragrafo che contiene una

epiclesi: "Venga Signore il tuo Spirito Santo che riposi in questa oblazione dei tuoi servitori che la benedica e l

santifichi, affinché sia in vista del perdono e della remissione dei peccati, per la grande speranza della risurrezione dai

morti e per la vita nuova nel regno dei cieli, con tutti quelli che sono stati graditi ai tuoi occhi".

4) Il paragrafo 4 si esprime così: "E per tutto questo grande e ammirabile disegno nei nostri riguardi noi ti lodiamo

e ti glorifichiamo senza fine nella tua Chiesa riscattata dal sangue prezioso del tuo Cristo. A voce alta e a viso

scoperto, noi indirizziamo lode onore, confessione, adorazione, al tuo nome vivo e vivificante adesso e sempre e nei

secoli dei secoli" (la versione un pò più ampia si trova in Martimort nel libro: La Chiesa in preghiera).

______Note personali di

studio_______________________________________________________________________

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[PC 513.10]

Riprendendo dalla lezione precedente, abbiamo già visto le preghiere di ispirazione eucaristica, come quelle di

Clemente Romano e di Policarpo. Abbiamo anche visto alcune preghiere di carattere arcaico, che non contengono però il

racconto dell’istituzione eucaristica, né una epiclesi di consacrazione eucaristica. Tra queste ultime si possono ricordare

la preghiera della Didachè e di Addai e Mari.

Secondo la tradizione siriaca quest’ultima si richiama agli apostoli della Siria, considerati i primi dai Siriaci e dai

Caldei. Questa preghiera è ancora recitata oggi come prece eucaristica nelle liturgie orientali dei Nestoriani, dei Caldei

dei Malabari e dei Maroniti, che si trovano all’estremo Oriente.

Questo testo, nella sua lunga storia, ha subito delle modifiche e soprattutto degli ampliamenti: purtroppo è conservata,

ad eccezione di un solo codice, in codici del XVII e XVIII secolo. Esiste anche un codice del XII-XIII secolo. Questa

documentazione manoscritta è abbastanza ristretta per poter rintracciare la storia di questa preghiera, per cui rimane solo

la possibilità di una critica interna del testo. Comunque questa preghiera ha un carattere arcaico, sicché è stata datata tra il

II ed il III secolo. La problematica della data, però, rimane aperta perché rimangono in piedi svariate ipotesi relative alla

forma primitiva di questa preghiera. Di questa prece non vi è alcuna edizione scientifica, per cui è necessario fare delle

ricerche nelle edizioni liturgiche ancora in uso oggi. Uno degli studi più recenti è stato quello di Verheul, in “Questioni

liturgiche e pastorali”, Vol. IV 1980, pp. 19-27, dove si trova un’abbondante bibliografia. Questo autore propone la

ricostituzione seguente della forma più antica della preghiera:

“E’ degno di essere glorificato da tutte le bocche, confessato da tutte le lingue, adorato ed esaltato da

tutte le creature, il nome “adorando” (?) e glorioso, che ha creato il mondo per la sua grazia, gli abitanti

per la sua clemenza, e ha salvato gli uomini per la sua misericordia e ci ha fatto a noi mortali una grande

grazia.

Noi ti rendiamo grazie Signore, noi tuoi servitori deboli, fragili e infermi, perché tu ci hai dato una

grande grazia che non può essere pagata in cambio, perché tu hai rivestito la nostra umanità, per vivificarci

con la tua divinità. Tu hai elevato la nostra bassezza e ci hai rilevati dalla nostra caduta. Tu hai risuscitato

la nostra mortalità, hai perdonato le nostre colpe e hai rimesso i nostri peccati. Tu hai illuminato la nostra

intelligenza ed hai vinto il nostro nemico, Signore Dio, e tu hai fatto trionfare la piccolezza della nostra

debole natura per le misericordie abbondanti della tua grazia. E per tutti i tuoi aiuti e le tue grazie nei

nostri riguardi, noi ti rendiamo lode, onore, confessione e adorazione, adesso e sempre e nei secoli dei

secoli, amen.”.

La preghiera, poi, prosegue con queste parole:

“Noi, Signore, tuoi servitori, fragili, deboli e infermi, ci siamo riuniti e stiamo davanti a te in questo

momento. Abbiamo ricevuto per tradizione il mistero che viene da te. Ti glorifichiamo, ti esaltiamo e

commemoriamo e celebriamo questo grande mistero tremendo della passione, morte e risurrezione del

nostro Signore e salvatore Gesù Cristo”.

Ai nn. 3-4 prosegue dicendo:

“3. E venga, Signore, il tuo spirito santo che posi su questa oblazione dei tuoi servitori, che la benedica

e la santifichi perché sia in vista del perdono e della remissione dei peccati per la grande speranza della

risurrezione dai morti e della vita nuova nel regno dei cieli, con tutti quelli che sono stati graditi ai tuoi

occhi.

4. E per questo grande ed ammirabile piano che ci riguarda noi ti lodiamo e ti glorifichiamo senza fine

nella tua Chiesa riscattata dal sangue prezioso del tuo Cristo. A voce alta e a viso scoperto noi indirizziamo

lode, onore, confessione, adorazione al tuo nome vivente e vivificante, adesso e sempre nei secoli dei secoli,

amen”.

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In merito si possono fare diverse osservazioni: in primo luogo, dal punto di vista della terminologia, a due riprese

viene adorato il nome di Colui che ha creato il mondo, che si trova nell’ultima parte. Questo modo di esprimersi è tipico

delle lingue semitiche, perché il nome designa la persona che nel nostro caso riguarda Dio creatore. Dunque, si tratta di

una perifrasi di rispetto per designare la persona di Dio. Anche gli Ebrei nell’AT non osano usare il nome proprio di Dio,

ma lo esprimono in un modo perifrastico, adoperando la parola “nome” riferendosi a Colui che ha fatto le cose.

In secondo luogo, se si osserva l’insieme di questa preghiera, si può notare che si tratta di una preghiera di

glorificazione: le parole ed i verbi di glorificazione sono piuttosto abbondanti, come ad esempio, “glorificato”,

“confessato”, “adorato” ed “esaltato”. Tra l’altro, alla fine troviamo l’espressione “Ti lodiamo”, “ti glorifichiamo”.

Dunque si tratta di una vera e propria lode che la possiamo inserire nel contesto delle preghiere eucaristiche più antiche,

nel senso che questo modo di esprimere la preghiera eucaristica è il più antico. Di fronte a Dio si presenta l’uomo, del

quale viene sottolineata la fragilità, la debolezza, l’infermità. L’adorazione rivolta a Dio è fatta dagli uomini nel loro stato

creaturale. Anche questa adorazione è espressa in modo sinonimo dei termini “lode”, “onore”, confessione”, adorazione”.

Anche il modo di descrivere l’opera redentrice, non lo è in termini giuridici, secondo i quali, ad esempio, ad ogni colpa

corrisponde una pena, ma in termini redentivi, cioè Dio ha rivestito la nostra umanità della sua forza per vivificarci25.

Però, dietro a questa soteriologia, che descrive l’opera di salvezza, c’è un’antropologia, cioè un certo concetto dell’uomo

che in tutte le sue componenti viene redento ed assunto verso Dio.

Poi, verso la fine troviamo un’epiclesi con l’espressione: “Venga il tuo Spirito Santo, riponi su questa oblazione, la

benedica e la santifichi”. Per tutto questo viene reso grazie a Dio.

Da tutti questi elementi c’è un evidente carattere semitico di questa preghiera, non solo a causa di alcuni vocaboli

tipicamente semitici, ma anche per la costruzione di frasi con ripetizioni, parallelismi e sinonimi accumulati, che sono

caratteristici, in modo particolare della preghiera giudaica.

In questa preghiera di Addai e Mari abbiamo un esempio della berrakà in veste cristiana. Rimane interessante notare

che il nome di Cristo non compare, ma si parla semplicemente del Signore. Si tratta, dunque, di una preghiera cristiana

perché è presente l’invocazione dello Spirito Santo. Soltanto in una occasione troviamo il termine “Cristo”, quando dice

“Signore e nostro salvatore Gesù Cristo”, immediatamente prima dell’epiclesi. Il riferimento, è senza dubbio alla

passione, morte e risurrezione del Signore.

Le articolazioni principali di questa preghiera sono:

1) la lode per la creazione;

2) la lode per la redenzione,

3) la preghiera per la venuta dello Spirito Santo sulle offerte;

4) ripresa della lode a modo di conclusione.

Se cerchiamo di collocare tale preghiera nel suo ambiente geografico e culturale, possiamo fare un confronto con la

Didachè, la quale proviene dalla Siria occidentale ed è lingua greca. Invece, la preghiera di Addai e Mari proviene dalla

Siria Orientale, di espressione semitica, dove le comunità ebraiche erano abbastanza numerose e vive. Qui è interessante

notare un fatto di natura archeologica, poiché nella regione, nella Siria orientale, è stata ritrovata la “Domus ecclesiae” di

Dura Europos. Anche se non si può dire che questa preghiera di Addai e Mari non provenga direttamente da questa città,

si può comunque affermare che provenga dalla medesima regione, confinante con la Persia, il cui limite è l’Eufrate, come

confine tra i due imperi romano e persiano. E’ anche per questo motivo che la preghiera si è diffusa in queste parti

orientali dell’impero persiano e più tardi tra i Sassanidi, sino all’India.

Questa ricostituzione sopra esposta rimane effettivamente un’ipotesi, perché si possono presentare altre tesi relative

alla arcaicità delle preghiere più antiche. Secondo il prof. Saxer questa ricostituzione tiene conto di un certo numero di

parametri storici e geografici con i quali si potrebbe riscontrare una certa somiglianza.

Un’altra preghiera conservata in un papiro26 e custodita nella Biblioteca nazionale e universitaria di Strasburgo. La

sua prima pubblicazione avvenne nel 192827, a cura di due specialisti, i professori Andrieu e Collomp. Questo papiro è

stato datato tra il IV ed il V secolo ed è considerato la forma più antica dell’anafora alessandrina di S. Marco.

Circa il contenuto di questa preghiera, dopo le formule iniziali di azione di grazia, viene sviluppato il tema della lode

di Dio per l’opera e la creazione che culmina con l’uomo creato ad immagine somiglianza di Dio. Questa opera è stata

compiuta dal Figlio di Dio, Cristo. Segue, poi, la menzione del sacrificio spirituale (Tusia loghike), in quanto l’eucaristia

viene considerata come il compimento della profezia di Malachia 1,11 (dove si parla di un sacrificio spirituale che viene

celebrato in tutta la terra sino agli estremi confini della terra).

Seguono poi le intercessioni per i vivi ed i defunti: espressamente viene menzionata la recitazione dei nomi, che

equivarrà più tardi alla recita dei dittici, cioè di quelle tavolette di cera sulle quali venivano scritti i nomi dei morti dei

25 “Tu hai rivestito la nostra umanità per vivificarci dalla tua divinità. Hai elevato la nostra bassezza e

rilevato la nostra caduta, hai risuscitato la nostra mortalità, hai perdonato le colpe hai rimesso i peccati. Hai

illuminato la nostra intelligenza”. 26 Si tratta del papiro greco n. 254. 27 Cfr. Frammento papiro dell’anafora di S. Marco, in Rivista …, vol. VIII 2, 228, pp. 489-515.

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Il culto cristiano nei primi due secoli. 47

quali si faceva menzione. La formula conclusiva è conservata. Si tratta di una dossologia cristologica, non trinitaria, ma

molto vicina a quella relativa all’epistola ai Corinti di Clemente romano.

Di questa preghiera si può notare una struttura ternaria che sviluppa tre parti:

a) la lode;

b) l’azione di grazia;

c) l’intercessione con la dossologia finale.

In questa prece sono da notarsi delle assenze importanti: non ci sono, infatti, il Sanctus, il racconto dell’istituzione

eucaristica e l’epiclesi. Se consideriamo il modo in cui si presenta questo papiro si può più o meno valutare quale poteva

essere la sua estensione primitiva. Allora si potrebbe pensare che all’inizio mancavano forse il dialogo preparatorio già

attestato nelle preghiere eucaristiche della Traditio apostolica, all’inizio del III secolo. Il papiro, all’inizio e alla fine è

guasto ed è sano solo nella parte centrale corrispondente a tutto il corpus della preghiera: la sostanza della preghiera

sembra essere conservata. Da diverse considerazioni importanti di alcuni studiosi, si arriva, però, a dire che non ci si

trova dinanzi ad una forma primitiva dell’anafora di S. Marco, perché tale preghiera è da considerarsi di intercessione, il

che vuol dire che può essere attestata soltanto alla fine del IV e all’inizio del V secolo. In essa non si trova, come si è

detto prima, né il racconto dell’istituzione dell’eucaristia, né l’epiclesi: per questa parte, certamente, la preghiera sembra

essere più antica, ma per la presenza delle preghiere di intercessione, sembra essere più recente. La redazione, come è

conservata nel papiro, risale al V secolo, anche se certi elementi presenti provengono da una forma più arcaica di

preghiera. Un’altra considerazione da farsi è che questa prece è prossima alle “berakot” ebraiche, in modo particolare con

le preghiere di Addai e Mari e della Didachè: in questo senso possiamo scorgere una maggiore arcaicità della preghiera

eucaristica.

Un’altra preghiera eucaristica arcaica è conservata negli Atti apocrifi degli Apostoli.

Di tutte queste preghiere eucaristiche una significativa ed importante raccolta è stata fatta da Vogel nel 1980 e

pubblicata nella rivista “Augustinianum”, Vol. XX, pp. 401-410. Tali preghiere sono state estratte dagli Atti apocrifi di

Giovanni (120-150) e dagli Atti apocrifi di Tommaso (200-250): esse venivano recitate sia sul pane solo, sia sul pane e

sull’acqua e sia sul pane, sul vino e sull’acqua. Già la materia dell’eucaristia si diversifica dalla forma tradizionale,

perché accanto all’eucaristia vera e propria (pane e vino) si trovano altre eucaristie di diversa fattura (solo pane, oppure

pane e acqua). Di queste usanze eucaristiche, Harnack aveva fatto uno studio all’inizio del nostro secolo dal titolo Pane e

acqua. D’altra parte vi erano dei cristiani che gli eresiologi avevano chiamato gli “acquarii”, i quali celebravano

l’eucaristia con il pane e con l’acqua, escludendo del tutto il vino. Questo uso, abbastanza diffuso in quel tempo, è

confermato dallo stesso Cipriano che nell’Epistola 63 conferma la presenza di questi “acquarii”. Ciò costituisce un fatto

preciso che riguarda in primo luogo la materia eucaristica, però vi è un secondo fatto che riguarda la preghiera di

consacrazione di questi elementi sopra accennati (il pane e l’acqua), che sono di diverso tipo. Alcuni di questi sono da

considerarsi totalmente aberranti ed estranei alla tradizione classica dell’Eucaristia, mentre altri tipi sono più vicini alla

medesima.

Tra questi possiamo prendere in considerazione la preghiera che l’apostolo Giovanni avrebbe pronunciato sulla tomba

di una certa Domiziana (?), una donna che sarebbe stata risuscitata per essere battezzata. Per la sua formulazione la

preghiera è una prece di ringraziamento indirizzata a Cristo salvatore, senza alcuna allusione al pane e al vino. Dunque,

potrebbe trattarsi di un ringraziamento non eucaristico, però le formule sono eucaristiche, come appare dal testo qui sotto

riportato:

“Glorifichiamo il tuo nome che ci ha convertiti dall’errore e dalla crudele menzogna. Noi ti

glorifichiamo, tu che ci hai fatto vedere con i nostri occhi quello che abbiamo visto28. Noi ti rendiamo

testimonianza per la bontà che tu ci manifesti in diverse maniere. Noi lodiamo il tuo nome potente, Signore,

tu che giudichi quelli che hai già rimproverati. Noi ti rendiamo grazie perché siamo convinti della tua

immutabilità. Ti rendiamo grazie perché assumendo la nostra natura tu hai voluto che sia salvata. Noi ti

rendiamo grazie perché ci hai dato una fede imperturbabile. A te, che sei adesso e sempre, i tuoi servitori

rendono grazie a giusto titolo perché sono stati radunati ed eletti da te”.

Questo ringraziamento è fatto per la salvezza accordata da Cristo, mentre non vi è alcun riferimento all’eucaristia,

anche se questa preghiera viene fatta sul pane e sull’acqua. Quindi, tematicamente la prece potrebbe essere un

ringraziamento qualsiasi, perché il solo legame con l’eucaristia rimane proprio questo pronunciamento sul pane e

sull’acqua.

Riepilogando un po’ tutto il discorso relativo alle diverse preghiere eucaristiche, bisogna, ora, concludere che non

esiste ancora una regola fissa e definitiva, il che vuol dire che l’Eucaristia primitiva comportava un elemento fisso, cioè il

ringraziamento per la creazione e per la redenzione o salvezza. Ma il legame tra questa tematica soteriologica e questa

eucaristia del Signore non è accennato. Ciò non vuol dire che non ci possa essere l’epiclesi: un esempio concreto lo

abbiamo con la preghiera di Addai e Mari, dove si trova un’epiclesi di consacrazione eucaristica. Se rivediamo questa

preghiera nel contesto di queste preci, sopra citate, non si esclude che questa epiclesi sia frutto di un’aggiunta posteriore.

28 Questa parte della preghiera riecheggia la forma della 1Gv.

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Il culto cristiano nei primi due secoli. 48

Ma ci troviamo soltanto nel campo delle ipotesi, per cui c’è semplicemente il fatto dell’esistenza di questa linea al di

fuori della tradizione comune. A questo proposito le preghiere tratte dagli Atti apocrifi degli Apostoli ci danno una

conferma indiretta della loro esistenza, almeno in certi ambienti, fuori della grande tradizione. Allora ci troviamo davanti

ad una tradizione molto variabile e multiforme, secondo gli ambienti culturali, geografici e religiosi, come se il messaggio

evangelico fosse stato percepito in modo diverso.

A tale riguardo, dobbiamo volgere il nostro sguardo alle preghiere che saranno considerate come l’espressione vera

della tradizione ecclesiastica. Queste preghiere le possiamo conoscere mediante alcuni frammenti che ci fanno

comprendere come nel tempo esse saranno considerate secondo la tradizione. Un primo frammento di Ireneo nelle cui

edizioni del secolo scorso si trovano altri frammenti pubblicati Harvel (?) con il titolo di Sancti Irenei episcopi

lugdunensis libros V, Adversus haereses, è stato pubblicato per la prima volta da Pfaff, uno studioso tedesco, al quale non

si è prestata una grande attenzione. C’è da dire che l’andamento della preghiera in esso contenuta è tipicamente

eucaristica, come appare da queste parole:

“Noi offriamo a Dio il pane e il calice di benedizione, rendendoli grazie del fatto che abbia comandato

alla terra questi frutti per il nostro nutrimento. Poi avendo compiuto l’offerta noi invochiamo lo Spirito

Santo, affinchè manifesti in questa vittima che il pane è il corpo ed il calice il sangue di Cristo, di modo che

quelli che riceveranno questi antitipi ottengano la remissione dei loro peccati e la vita eterna. Infatti quelli

che compiono questa offerta in memoria del Signore non seguono i precetti dei Giudei, ma compiendo una

liturgia spirituale meritano il nome di “figli della saggezza””29.

Una prima osservazione è che Ireneo non riproduce il testo stesso della preghiera eucaristica, ma ne dà un riassunto

che ci fornisce la sostanza della preghiera stessa, che lo stesso autore avrebbe potuto usare. Se ciò fosse vero tale testo ci

riporterebbe negli anni 200 circa che rimane un riferimento cronologico significativo. Secondo Ireneo, la preghiera

comportava una offerta ed una invocazione dello Spirito Santo. La parola offerta designa, secondo Ireneo, questa parte

della preghiera eucaristica nella quale si incontra il verbo offrire (prosferomen) ed i suoi sinonimi che spesso esprimono

l’offerta fatta dopo il racconto eucaristico. Anche nel canone della messa romana, precisamente nella preghiera

eucaristica n. 1, troviamo l’espressione “offerimus” (offriamo) che è presente anche in preghiere eucaristiche del IV-V

secolo30. Questa offerta è un’azione di grazia, perché il verbo “offriamo” è spesso accompagnato dal participio “facendo

un’azione di grazia” (eucaristuntes), cioè si offre ringraziando per i doni che Dio ha fatto produrre alla terra, come il pane

ed il vino. Nella preghiera attuale dell’offertorio è ripresa questa idea con l’espressione: “Noi ti offriamo il pane, frutto

della terra e del lavoro dell’uomo. Lo presentiamo a te perché diventi cibo di vita eterna. Noi ti offriamo il vino, frutto

della vite e del lavoro dell’uomo perché diventi bevanda di salvezza”.

Da ciò si può notare che questa prece è, in realtà, la preghiera della berrakot giudaica. L’ultima riforma eucaristica ha

ripreso queste due preghiere alla luce della tradizione giudaica al tempo di Gesù che rimettono in risalto il fatto che

ritorna a Dio ciò che Lui ha dato all’uomo come dono. Questi doni sono offerti a Dio perché diventino il corpo ed il

sangue di Cristo. In questa preghiera riassunta da Ireneo, il corpo ed il sangue di Cristo sono doni di Dio, non nella loro

forma consacrata, ma come elementi che costituiscono il sacrificio. Per tale ragione si ringrazia il Signore che esprime il

senso proprio dell’Eucaristia. Si tratta del ringraziamento del pane e del vino che diventano il corpo ed il sangue di

Cristo. In realtà questo ringraziamento rientra nell’opera creatrice perché pane e vino sono creati da Dio, per cui, in un

certo senso si ringrazia il Signore per la sua opera di creazione. Ma bisogna notare che Ireneo non fa allusione a questa

estensione del ringraziamento. Il riassunto di Ireneo si riferisce solo al pane ed al vino per i quali si ringrazia Dio. Non

c’è alcuna allusione al resto della creazione, ma un altro fatto importante che possiamo trovare nel riassunto di Ireneo è

che fa seguire subito dopo l’invocazione allo Spirito Santo, il quale manifesterà la trasformazione avvenuta. Coloro che

comunicheranno al Pane e al Vino riceveranno questi antitipi che per Ireneo sono un’espressione corrente: questi antitipi

rispondono al tipo (tupos) al corpo e al sangue di Cristo. Essi sono le immagini e le rappresentazioni del tipo, cioè una

rappresentazione figurativa che rende presente il corpo ed il sangue di Cristo, o meglio rinnovano la loro presenza.

Questo modo di spiegare il termine diventa molto importante perché arriva alla radice del vero significato del termine

“rappresentare”. Tra l’altro, questa offerta viene fatta in memoria del Signore, secondo anche il richiamo della parola

evangelica: “Fate questo in memoria di me”.

Questo commemorare il Signore non si fa secondo i riti giudaici, i quali si svolgono con i sacrifici di vittime vere e

proprie, ma secondo un’offerta spirituale in conformità alla profezia di Malachia, che fu uno dei profeti contrari alle

usanze dei sacrifici cruenti dell’AT e che predicò una liturgia spirituale. Per il cristiano, effettivamente, questa eucaristia

realizza questa offerta, o meglio questa liturgia spirituale.

Per dare un giudizio d’insieme si può notare la presenza dei prodotti della terra che Dio ci dà in nutrimento che

conferma l’antichità della preghiera di Ireneo che potrebbe risalire ad una data anteriore allo stesso Ireneo. Allo stesso

modo il termine “antitipo” che si ritroverà in Tertulliano, in Ippolito e in Ambrogio, è anche una attestazione del carattere

molto arcaico di questa preghiera di Ireneo.

29 Harvè, Vol. II, Cambridge 1857, pp. 502-505. 30 Cfr. Martimort, La Chiesa in preghiera, Vol. II, p. 116 (edizione francese).

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Un secondo frammento riguarda un’altra preghiera conservata interamente nel suo testo. Si tratta della preghiera

eucaristica di Ippolito della cosiddetta Traditio Apostolica, contenuta nel cap. IV, pp. 11-17 nella edizione del Bott.

Il testo seguente è inserito nel rituale dell’ordinazione del vescovo, ma è probabilmente è una preghiera che si usava

anche nell’ambito della celebrazione eucaristica. La preghiera incomincia con il famoso dialogo: “Il Signore sia con

te…e con il tuo Spirito…In alto i vostri cuori…Li teniamo verso il Signore…Rendiamo grazie al Signore…Questo è

degno e giusto…”.

Il testo che segue è il seguente:

“Noi ti rendiamo grazie o Dio per il tuo Figlio ben amato Gesù Cristo che ci hai inviato in questi ultimi

tempi come salvatore, redentore e messaggero del tuo disegno di salvezza. E’ il tuo Verbo inseparabile per

il quale hai tutto preparato. Nel tuo buon piacere l’hai inviato dal cielo nel seno di una Vergine. Essendo

stato concepito si è incarnato e si è manifestato come tuo Figlio, nato dallo Spirito Santo e dalla Vergine. E’

lui che per compiere la tua volontà e acquistarti un popolo santo ha esteso le mani mentre soffriva per

liberare dalla sofferenza quelli che hanno creduto in te. Consegnandosi volontariamente alla sofferenza ha

distrutto la morte, ha rotto le catene del diavolo, ha calpestato con i piedi l’inferno, ha condotto i giusti alla

luce, ha stabilito l’alleanza ed ha manifestato la sua risurrezione. Poi prese il pane ti rese grazie e disse:

“Prendete e mangiate, questo è il mio corpo rotto per voi”. Similmente prese la coppa dicendo: “Questo è il

mio sangue versato per voi. Quando farete questo fatelo in memoria di me”. Ricordandoci, dunque, della

sua morte e risurrezione, noi ti offriamo questo pane e questa coppa in azione di grazie perché ci hai

giudicati degni di tenersi in tua presenza e di essere al tuo sacro servizio. E noi ti domandiamo di inviare il

tuo Spirito Santo sull’offerta della tua Santa Chiesa. Radunala per dare a tutti i partecipanti di essere

riempiti dallo Spirito Santo, confermati nella loro fede, nella verità, affinché possiamo lodarti e glorificarti

per il tuo Figlio Gesù Cristo. Per lui a te gloria e onore con lo Spirito Santo nella Santa Chiesa adesso e nei

secoli dei secoli, amen”.

C’è, poi, un altro passo che riguarda l’eucaristia domenicale. Il compilatore della Traditio Apostolica fa notare che

questa preghiera, proposta da lui, non è obbligatoria. Dice infatti al capitolo 9 che il vescovo renda grazie, secondo il

dialogo di introduzione sopra esposto, però non è necessario che pronunci le stesse parole che sopra sono state dette,

come se si sforzasse di dirle a memoria, ma ognuno preghi secondo le sue capacità. Se qualcuno è capace di fare una

lunga preghiera solenne è una cosa buona. Se qualcuno fa una preghiera misurata che non ne sia impedito, purché la sua

preghiera sia di una sana ortodossia.

Dunque la preghiera eucaristica della Traditio apostolica è un esempio di quelle che si facevano ed un modello per

coloro che non sono capaci di improvvisare o di comporre da loro stessi. In questo senso si può dire che il testo proposto

da Ippolito sia esemplare. In primo luogo abbiamo il dialogo preparatorio con il quale il celebrante associa alla sua

preghiera quella dei fedeli. Nello stesso modo, quando la preghiera è terminata i fedeli danno il loro consenso con l’amen

finale, che è già stato segnalato una prima volta da Giustino il filosofo. Inoltre, rispetto al frammento di Ireneo, la

Traditio Apostolica non fa iniziare la prece con l’azione di grazia, ma passa subito ai benefici dell’Incarnazione e della

redenzione. Anzi, i termini di questa preghiera sembrano molto vicini a quella di una professione di fede. Inoltre, il

racconto dell’Istituzione è messo in relazione con la passione del Signore. Ciò avviene con una certa insistenza: “Estende

le braccia durante la sua passione”, “Si consegna alla sofferenza”. Così vengono pronunciate le parole dell’istituzione

eucaristica, anzi il pane rotto, il sangue versato sono il memoriale di questa sofferenza secondo l’espressione: “Fate

questo in memoria di me”.

Dunque, l’eucaristia di Ippolito è di ispirazione essenzialmente soteriologica. Tra l’altro, dopo aver riportato il

racconto dell’istituzione eucaristica, Ippolito inserisce l’anamnesi a cui segue l’oblazione con l’azione di grazia. Questi

ultimi sono tutti presenti anche nel frammento di Ireneo. C’è da dire poi che questa azione di grazia non è personale al

celebrante, neppure nella formula, quando dice “Noi stiamo in tua presenza e al tuo servizio sacro”, perché in un certo

senso tutti i fedeli, durante la preghiera eucaristica si trovano alla presenza del Signore e partecipano alla preghiera

eucaristica. In un certo senso essi riempiono il ministero sacro della lode del Signore, in virtù della loro partecipazione al

sacerdozio comune dei fedeli, cioè al sacerdozio regale di Cristo (2Pt 2,9).

Segue poi l’epiclesi che non espressamente consacratoria, mentre lo è effettivamente la preghiera riassunta da Ireneo.

Ippolito esprime una invocazione a Dio per chiedere che venga lo Spirito Santo sulle offerte. E’ una vera e propria

domanda, il che vuol dire che la santificazione del pane e del vino è opera dello Spirito Santo, allo stesso modo

dell’Incarnazione di Cristo. Ciò riproduce in modo misterioso l’incarnazione del Signore.

L’epiclesi è anche una domanda fatta in favore della Chiesa perché sia radunata: è una domanda fatta in favore dei

fedeli affinché siano confortati nella verità. Ciò allude ai pericoli dell’eresia e dello scisma. La dossologia finale non ha

nulla di particolare, ma bisogna notare che questa preghiera è la prima di una serie: è la sola completa prima della pace

della Chiesa. La preghiera eucaristica n. 2 è una versione ammodernata di quella di Ippolito.

____Note Personali di

Studio_________________________________________________________________________

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Il culto cristiano nei primi due secoli. 50

[PC 513.11]

Nella lezione precedente abbiamo visto delle anafore eucaristiche che le possiamo considerare tra quelle

tradizionali, cioè quelle che hanno avuto il sopravvento su altre forme anaforiche che oggi sembrano aberranti perché

non contenevano elementi che noi siamo abituati a vedere in un anafora. Esse iniziano generalmente con il rendimento

di grazie sviluppando il tema eucaristico. Esse rendono grazie, in primo luogo, per la creazione ed in secondo luogo per

la redenzione. Ora, tra gli atti della redenzione, il tipo tradizionale mette anche l’istituzione eucaristica che si conclude

generalmente con la raccomandazione del Signore: “Fate questo in memoria di me”. Dopo di che l’anafora continua con

l'anamnesi cioè il ricordo della passione e risurrezione di Gesù. Generalmente si ripete formalmente un atto di offerta del

pane e del vino che sono stati eucaristiati, cioè consacrati in modo che non c'è più il pane ed il vino, ma il corpo ed il

sangue di Gesù. Questi elementi vengono presentati al Padre. Segue immediatamente, in modo normale, l'epiclesi perché

il Padre mandi lo spirito per santificare il pane ed il vino stessi. L’epiclesi, nel suo senso etimologico, è una invocazione

a Dio perché mandi il suo Spirito.

Le preghiere eucaristiche classiche, cioè quelle che sono conservate a partire dal IV secolo, aggiungono un quarto

elemento, cioè le preghiere di intercessione in favore di certe persone vive e defunte. Queste preghiere non sono

attestate nel III secolo. Talvolta l’epiclesi non è proprio consacratoria, ma è preparatoria, cioè di preparazione alla

comunione. Viene, allora espressa un’altra intenzione che comporta la santificazione dei fedeli affinché manifestino

nella loro vita e nella loro comunione l'unità della Chiesa radunata dalle estremità della terra nel regno unico di Dio. La

preghiera si conclude con una dossologia che generalmente all’inizio e cristologica, mentre a partire dalla fine del IV

secolo questa dossologia diventa trinitaria.

Di queste anafore possiamo prendere in considerazione quella usata da Origene della quale non conserva il testo, ma

l’alessandrino ne dà un a sola testimonianza31. Ora questa anafora Origene la presentata nel modo seguente:

“L'anafora si fa sempre a Dio onnipotente per Gesù Cristo, in modo che si attribuisca al Padre la

divinità di Gesù Cristo (sarebbe stato più normale attribuire a Gesù Cristo la divinità del Padre). Non si

faccia l'anafora in due volte, ma che si faccia a Dio per Dio. Forse sarei o sembrerei audace quando dico di

rispettare queste regole della preghiera”.

Dunque la specificità di questa anafora sta nel fatto di una tradizione fondamentale nell'anafora eucaristica perché è

tradizionalmente indirizzata a Dio Onnipotente per Gesù Cristo. Questa regola fondamentale la vediamo ripetuta alla

fine del IV secolo da Agostino stesso. Vuol dire che esistevano a quel tempo, tra il III ed il IV secolo delle anafore che o

preghiere eucaristiche che non rispettavano queste regole, ma che erano ancora liberamente fatte dai celebranti senza un

testo fisso. Talvolta la preghiera era indirizzata a Gesù Cristo invece del Padre. Dunque, questa regola, a Dio per Gesù

Cristo, è ricordata da Origene, ma questa formulazione sembrava insufficiente ed ambigua a Origene stesso perché non

si affermava espressamente la divinità di Gesù Cristo. Perciò volle proporre una formulazione più precisa, nel senso che

l’anafora doveva essere indirizzata a Dio per Dio, cioè a Dio Padre Onnipotente per Gesù Cristo. Ma si sa che questa

formulazione di Origene non fu più presa in considerazione tanto che si continuò a pregare Dio per mezzo di Gesù

Cristo, come avviene anche oggi. Ogni preghiera fatta a nome della comunità, sia che si tratti delle collette segrete post

31 Cfr. Vogel nel suo studio sulle anafore pre-eucaristiche pre-costantiniane e cfr. (?), Lettere e scrittori

cristiani del II e III secolo. Parigi 1961.

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Il culto cristiano nei primi due secoli. 51

comunione, sia delle diverse preghiere eucaristiche: esse sono indirizzate allo stesso modo a Dio per mezzo di Gesù

Cristo.

Sotto questa forma tradizionale attestata da Ireneo e dalla tradizione apostolica e anche da Origene, la preghiera

eucaristica si è imposta come tradizione apostolica se ci riferiamo all’opera omonima di Ippolito. Ciò vuol dire che tale

tradizione risaliva agli Apostoli e aveva dunque l’autorità degli Apostoli. Allora, adoperando una formula scolastica

vediamo applicata la regola che la lex credendi è conforme alla lex orandi. In sostanza la regola di fede è uguale alla

regola liturgica, cioè quella della preghiera, o viceversa le preghiere devono conformarsi alla fede ed esprimere in un

certo modo la fede tradizionale della Chiesa.

Per riassumere tutto quello che è stato detto sulle preghiere eucaristiche l’anafora comportava sempre, il dialogo

iniziale di introduzione32, a cui segue l’eucaristia, cioè il ringraziamento propriamente detto che ha per oggetto la

creazione e la redenzione, a cui si aggiunge il racconto dell'istituzione eucaristica che occupa un posto centrale, come

perno tra l'eucaristia antecedente e le preghiere che seguono che sono l'anamnesi, l’oblazione e l'epiclesi. Poi, per

ribadire la regola fondamentale a Dio per Gesù Cristo, segue la dossologia che è proprio concepita in questo senso, cioè

si tratta della preghiera indirizzata a Dio Padre in comunione con lo Spirito Santo per mezzo di Gesù Cristo. In ultima

analisi, nessuna di queste preghiere eucaristiche del III secolo fa allusione al canto del Sanctus. Ciò vuol dire che il

Sanctus è stato introdotto nella preghiera nel corso del IV secolo.

Alcune riflessioni conclusive su tutto il culto cristiano:

1) Circa le origini del culto cristiano abbiamo visto che esso affonda le sue radici nella preghiera

giudaica ed ebraica.

La sua originalità e la sua specificità risiedono nel fatto che il culto è riferito ai detti e ai fatti di Cristo, che

sono fondatori in quanto creano un nuovo modo di rendere culto a Dio. Per quanto si può sapere, le prime attestazioni

riflettono le prime usanze delle comunità cristiane primitive. E’ difficile, invece, risalire mediante le prime comunità

cristiane ai detti e ai fatti di Gesù perché negli scritti più antichi del NT, che sono le lettere paoline, troviamo un eco di

quello che si praticava nelle comunità alle quali erano indirizzate tali comunità. Generalmente, almeno in alcuni casi

precisi, Paolo si riferisce esplicitamente a queste usanze e dice, del resto che era stato lui ad insegnarle. Prima che

esistesse uno scritto biografico dei detti e dei fatti di Gesù, sotto forma di Vangeli, esisteva una tradizione orale che ha

determinato anche le forme della preghiera del culto. In alcuni casi possiamo cogliere sul vivo il modo in cui queste

comunità pregavano e celebravano il culto. Sin dall'inizio i primi cristiani si sono trovati confrontati con le usanze

giudaiche. Da una parte avevano coscienza di essere di tradizione giudaica, mentre dall’altra sentivano il bisogno di

affermare la specificità della loro fede cristiana. Sicché c’è o si crea una specie di tensione fra la fedeltà giudaica e la

nuova fede cristiana. Si tratta di una tensione che a volte si risolveva o in favore della continuità ebraica, soprattutto

nelle comunità giudeo-cristiane e, dall’altra, e la fedeltà alla novità della fede cristiana. In tal senso possiamo notare la

polemica di Paolo contro coloro che vedono nel cristianesimo una forma del culto ebraico. Quindi si crea una continuità

ed una frattura con il giudaismo. Soprattutto quest’ultima la possiamo avvertire in alcuni fatti precisi. La rottura è quasi

immediata sul giorno cultuale, perché per gli Ebrei il giorno del culto era il sabato, ma la tradizione ebraica era

fortemente risentita nel I secolo poiché se ne era separata l’usanza cristiana per la quale il nuovo giorno di culto era la

domenica e non il sabato. In modo più preciso è il giorno in cui si ricordava e si ricorda la passione e la risurrezione del

Signore. Quindi il riferimento settimanale, in funzione del quale si sviluppa questa settimana, non è il più il sabato che

era il giorno conclusivo, ma è la domenica, come primo giorno della settimana. Dunque, anche il concetto di intendere il

culto cambia nel senso che ci troviamo dinanzi ad un nuovo inizio cultuale. Si tratta del nuovo modo di rapportarsi con

Dio nell’ambito cultuale e in quello della preghiera.

Un altro punto sensibile è la Pasqua annuale che creò divergenze tra i gli Ebrei ed Giudeo-cristiani, da una parte, ed i

pagani-cristiani dall’altra. Infatti i giudeo-cristiani continuarono a celebrare la Pasqua come gli Ebrei, cioè il

quattordicesimo giorno del primo mese dell’anno, il 14 di Nisan, che avviene in base alla coincidenza del ciclo lunare

con quello solare33 . Invece i cristiani di origine pagana presero l’abitudine di celebrare la Pasqua alla domenica

successiva il 14 di Nisan: è' una reazione tipicamente cristiana quella di mantenere il primato della domenica rispetto a

un qualsiasi giorno della settimana. Il 14 di Nisan poteva coincidere con la domenica, ma poteva anche coincidere con

un qualsiasi altro giorno della settimana. Dunque, i cristiani affermarono la primazia della domenica. Questo problema

divenne acuto nella seconda metà del II secolo e si risolse in favore della celebrazione pasquale annuale alla domenica,

giorno del Signore.

Un altro punto di continuità e di rottura è quello del “bagno” rituale: è certamente un aspetto meno evidente rispetto

agli altri perché gli Ebrei, soprattutto i Giudei del tempo di Gesù, praticavano abluzioni parziali o bagni completi

parecchie volte al giorno, in modo particolare il lavarsi prima di ogni pranzo o il lavarsi le mani dopo un contatto con un

qualcosa di impuro (es., un animale morto o un animale ritenuto impuro). Tra questi bagni, uno in particolare prese una

certa importanza quando fu predicato dal Battista: si tratta del bagno di penitenza che si faceva una volta che è il

preludio del battesimo cristiano in vista della remissione dei peccati. Quindi si viene a creare una differenza

32 Tale dialogo è attestato interamente per la prima volta dalla Traditio apostolica. 33 Si tratta di due cicli paralleli che ben difficilmente coincidono tra loro.

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Il culto cristiano nei primi due secoli. 52

fondamentale fra gli Ebrei e Giudeo-cristiani, da una parte, e i Pagani-cristiani, dall’altra, sulla ripetibilità di questo

bagno, nel senso che presso gli Ebrei si poteva fare più volte, mentre tra i cristiani di origine ellenistica lo si poteva fare

una sola volta. Inoltre questo bagno unico è riferito a Cristo perché è lui che ci ha meritato il perdono dei peccati nella

sua morte e risurrezione.

Un altro punto divergente fu quello dei pasti cultuali. I Giudei e gli Ebrei, al tempo di Gesù, facevano un pranzo

rituale ogni sabato, cioè iniziava al venerdì sera e si prolungava durante tutta la notte. Ma, in particolare tra questi pasti

primeggiava quello pasquale che aveva un rituale molto più solenne e complesso. Proprio questa cena prese modello

l’eucaristia cristiana. Ciò lo possiamo vedere molto bene nel Vangelo di Giovanni, dove l’evangelista mostra questa

continuità e questa peculariatà dell’eucaristia cristiana, in riferimento con la Pasqua del Signore. Uno dei temi giovannei

è che Cristo è l’agnello di dio che toglie i peccati del mondo. Quindi, da una parte c’è una continuità perché l’eucaristia

cristiana riproduce ante litteram il formulario della berakà ebraica, cioè le preghiere di benedizioni che accompagnavano

il pranzo di Pasqua. La rottura consistette dal fatto che la celebrazione cristiana dell’Eucaristia si staccò gradualmente

nella seconda metà del I secolo dal pranzo divenendo così a se stante.

Tra il culto cristiano e quello ebraico si venne a formare un doppio rapporto che, come abbiamo visto, da una parte

esprime una certa continuità, mentre dall’altra si trova all’origine di una certa rottura. Questa dialettica avrà un suo

significato alla persona di Cristo che costituisce il ricordo dei suoi fatti e dei suoi detti che serve da regola al culto

cristiano che sta costituendosi. Dunque i fatti e i detti di Cristo sono considerati come fondatori di un culto nuovo, nel

fatto che Gesù si trova all’origine di questa novità. Per questa ragione possiamo parlare di culto cristiano. A nome di

Cristo sono battezzati credenti secondo anche la testimonianza degli Atti degli Apostoli. Segue dapprima una formula

esclusivamente cristologica34 e successivamente troveremo una formula trinitaria del battesimo che sembra essere più

tardiva, ma già attestata alla fine del I secolo nella Didachè35.

Il riferimento a Cristo è anche sensibile ed è evidenziato nel culto cristiano, poiché questo culto eucaristico è

celebrato in memoria di Gesù finché ritorni. Già a partire dalla prima generazione cristiana questi fatti sono evidenziati:

è' importante accertare questo fatto perché collega il culto cristiano con la persona di Gesù. I primi cristiani avevano il

sentimento e la convinzione che celebrando il battesimo e celebrando l’eucaristia loro ubbidivano al comandamento di

Cristo, secondo le espressioni: “Andate e battezzate” (Mt), “Fate questo in memoria di me” (Mt, Mc, Lc, 1Cor).

L’evoluzione è forse un po’ meno celere nel fatto della domenica, nel senso che soltanto due generazioni cristiane dopo

la morte di Gesù, si inizia a parlare del giorno del Signore, come primo giorno della settimana. Evidentemente questo

primo giorno della settimana si riferisce al modo giudaico di contare la settimana nel senso che per i Giudei la settimana

si concludeva con il sabato, sicché il primo giorno della settimana è il primo giorno cristiano di contare la settimana

stessa. Soltanto alla fine del primo secolo i cristiani inizieranno a parlare del “giorno del Signore”: la più antica

attestazione la troviamo nell'Apocalisse di San Giovanni apostolo. C’è voluto, poi, un po’ di tempo perché si giungesse a

capire e ad esprimere la specificità della domenica, come “giorno del Signore”.

Il processo fu ancora più lungo per la Pasqua annuale. La pasqua cristiana si staccò dalla pasqua ebraica in un tempo

relativamente più lungo. La Pasqua quartodecimana sembra essere la prima forma della Pasqua, probabilmente collegata

con le tradizioni ebraiche e giudeo-cristiane. Dunque i cristiani hanno portato nelle loro consuetudini l’usanza ebraica

senza cambiamento alcuno e celebrando la Pasqua lo stesso giorno degli Ebrei. Il che vuol dire che i cristiani misero più

tempo a riflettere sul concetto della pasqua annuale. Solo nella seconda metà del II secolo abbiamo una riflessione

cristiana più forte e specifica che viene dettata dal bisogno di distinguersi dagli Ebrei per affermare la propria identità

cristiana. Una testimonianza significativa l’abbiamo proprio da Melitone di Sardi con il quale è presente la riflessione

sulla passione e sulla risurrezione di Cristo che richiama alle origini cristiane quando Paolo fa una riflessione simile

nelle sue lettere. Ma la fissazione della Pasqua annuale, diverso dal 14 di Nisan la si vede non prima della seconda metà

del II secolo.

Questo sforzo di avere una Pasqua propria distinta da quella ebraica non fu sentito, però, con la stessa urgenza e allo

stesso modo dai cristiani ubicati nelle diverse parti dell'Impero, tenendo conto anche del fatto che una parte di essi, nelle

zone orientali, come Efeso e Smirne rimasero fedeli alla tradizione giudeo-cristiana. Si tratta proprio della regione

dell’Asia. In quel periodo intervenne la Chiesa di Roma non solo per favorire l’uso della domenica, ma anche per evitare

il pericolo di uno scisma vero e proprio. Comunque questi diversi esempi permettono di isolare una terza influenza che

si è manifestata nel culto cristiano: si tratta dell'esperienza cristiana. Come si è fissata questa tradizione cristiana ce lo

dimostrano i diversi testi che abbiamo potuto vedere in questo corso. Possiamo, dunque, dire che questa esperienza

cristiana la possiamo seguire sin dall’inizio a partire delle prime comunità cristiane, fino al II secolo. A tale riguardo,

possiamo ricordare alcune tappe:

1) Paolo nella 1Cor 11,17-34 non indica nessuna periodicità nella celebrazione eucaristica, ma menziona

semplicemente l’esistenza di riunioni eucaristiche di cui non indica il giorno.

34 Probabilmente “ti battezzo a nome di Cristo”, che non è ancora trinitaria, è la formula più antica del

battesimo che possiamo trovare. Tale formula è presente in alcuni passi degli Atti degli Apostoli. 35 Essere battezzati “nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”.

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Il culto cristiano nei primi due secoli. 53

2) negli Atti 2,46 la fractio panis era quotidiana nella prima comunità gerosolomitana36. Ogni giorno i cristiani si

riunivano nelle loro case per la fractio panis. In confronto con gli stessi Atti, si può notare che Paolo non

indicava in quale giorno si celebrava l’eucaristia.

3) Secondo la testimonianza di Atti 20,7, dove si parla della missione di Paolo, la celebrazione eucaristica diventa

settimanale e viene fissata proprio il primo giorno della settimana.

4) La stessa periodicità settimanale è attestata, poi, dalla Didaché al cap. XIV,1 e nella Lettera ai Magnesiani Cap.

VI,1.

Da questi elementi abbiamo una progressiva fissazione della celebrazione comunitaria, indeterminata in

Paolo, quotidiana nella comunità di Gerusalemme e settimanale il primo giorno della settimana nelle comunità

paoline. Le osservanze anche se possono essere cronologicamente disposte indicano tuttavia delle usanze

leggermente diverse secondo le comunità, in modo particolare quella Giudeo-cristiana di Gerusalemme e

quella pagano-cristiana di Paolo. Ma tra tutte queste tradizioni prevarrà quella di Paolo per la semplice

ragione che i pagani-cristiani saranno molto più numerosi rispetto ai cristiani di tradizione giudea. Questi fatti

storici e sociologici vanno presi in considerazione per capire meglio l’evolversi del culto cristiano, a partire

proprio dai primi secoli di vita della Chiesa.

Ora, lo stesso percorso lo possiamo fare per quanto riguarda alcuni riti precisi come il battesimo e

l’eucaristia, dove l'esperienza cristiana diventa fondamentale. Il battesimo è stato amministrato per la prima

volta nel giorno della Pentecoste (At 2,38-41), ma gli altri passi degli Atti degli Apostoli, dove si parla di altri

battesimi, come quello dei Samaritani (At 8,12,17) e quello dell’eunuco (At 8,26-39), permettono di

individuare certi elementi costitutivi come il bagno d’acqua e l’uso della formula, a nome di Gesù, seguita

dall’imposizione delle mani per il conferimento dello Spirito Santo. Questi elementi indicano una certa

materialità dei riti, ma qual è il loro significato? In tal senso Pietro, proprio il giorno della Pentecoste, afferma

che Gesù è stato risuscitato e che gli Apostoli sono divenuti testimoni di questo fatto. Così chiarisce per la prima

volta il battesimo nel suo significato, cioè la remissione dei peccati che è legata al messaggio cristiano della

buona novella, cioè la rivelazione di un Dio Padre misericordioso disposto a perdonare, ma la misericordia

accordata da Dio è legata alla passione e alla morte di Cristo. Questa mistica Paolo la approfondisce quando

parla dell’unione dei cristiani con Cristo tramite il battesimo. I neofiti sono, in un qualche modo, innestati in

Cristo, come il tralcio alla vita, per la somiglianza della morte e risurrezione di Cristo. Il battesimo è una specie

di comunione del battezzato con le sofferenze e la risurrezione di Cristo. Si tratta di un linguaggio molto

concreto riferibile ad un linguaggio della viticultura, però assume un significato spirituale, nel senso che il

cristiano, spiritualmente, è innestato alla vite di Cristo. Lo stesso si può dire dell'eucaristia: Per Paolo è

partecipazione al corpo e al sangue di Cristo (1Cor 10,16-17). Ma con quali gesti si ottiene questa

partecipazione? La si ottiene con riti precisi sul pane e sul vino che divengono corpo e sangue di Cristo. A

questo primo significato ne abbiamo un altro della Didachè, nell’immagine dei grani di frumento e di uva

raccolti dalle estremità della terra per essere riuniti nel corpo e del sangue di Cristo, allo stesso modo di come

si sono formati il pane ed il vino.

A questa eucaristia è la traditio apostolica di Ippolito che dà il suo vero e pieno significato, insieme alle

informazioni che ci dà sul formulario e sui riti stessi.

2) C'è un carattere evolutivo del culto cristiano: esso è particolarmente sensibile nel periodo delle origini ed è

percepibile a partire dal II secolo. Allora se confrontiamo le testimonianze del II secolo con quelle del I secolo, si può

notare questo sviluppo graduale delle istituzioni cultuali. Questa evoluzione non riguarda solo i riti e le formule stesse,

ma anche la natura delle fonti del II secolo, che sono diverse da quelle del I secolo le quali consistono nel proclamare il

Vangelo, cioè la buona novella della salvezza. La caratteristica di questa letteratura neotestamentaria è kerigmatica. Il

Kerigma è la proclamazione del messaggio evangelico. Questo kerigma viene precisato in modo diverso ed in primo

luogo in forma apologetica. Gli apologisti, come Giustino, descrivono i riti cristiani nei loro scritti indirizzati alle

autorità romane per difendere meglio il culto cristiano contro gli attacchi sistematici dei pagani e degli Ebrei. Su questo

punto l'esempio di Giustino è molto significativo.

Un altro aspetto, messo in risalto dagli apologisti, è il fatto che questi riti sono tradizionali e risalgono all’origine

apostolica, anzi corrispondono alla volontà di Cristo stesso. Quindi si può notare negli apologisti questo sforzo di

riattaccare le forme cultuali del loro tempo agli atti fondatori di Cristo stesso. Questa convinzione è condivisa anche dai

celebranti nella maniera in cui si esprimono nelle preghiere. Infatti essi non sono dei legislatori, ma osservano una

tradizione che è indipendente da loro nella quale si inseriscono. Essi vivono questa tradizione come ci mostra

chiaramente Clemente romano nella sua lettera ai Corinti, che ha delle reminiscenze eucaristiche, come pure la

preghiera di Policarpo di Smirne che presenta una forma liturgica evidente ed ispira la sua pietà personale37.

36 Si tratta esplicitamente di un’usanza gerosolimitana. 37 S. Policarpo prega personalmente come quando pregava a nome della comunità, usando la formula

eucaristica.

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Il culto cristiano nei primi due secoli. 54

Dunque, questa evoluzione dei riti è percepibile nel II secolo nelle testimonianze di Giustino, nella Traditio

Apostolica di Ippolito e nella didascalia degli Apostoli siriaca del III secolo. Se mettiamo insieme queste testimonianze

possiamo vedere molto bene questo sviluppo dell'iniziazione cristiana e dell'eucaristia che prenderanno una consistenza

sempre più grande. Così per l’iniziazione cristiana vediamo apparire nel II secolo un catecumenato e dei riti precisi

nell’atto del battesimo, che non sono attestabili anteriormente, come ad esempio la benedizione dell’acqua battesimale,

la benedizione degli oli di unzione, la rinuncia a Satana. Ciò non significa che tali riti non esistessero prima di allora, ma

probabilmente pur avendo un’origine più antica rispetto ai documenti che li illustrano, non venivano ancora usati. Lo

stesso discorso vale anche per l'istituzione eucaristica perché i formulari più antichi mostrano una forma più o meno

precisa, come ad es., la formula eucaristica della Didaché che, confrontata con la preghiera eucaristica della Traditio

apostolica, lascia intravedere un certo progresso del culto cristiano: se nella Traditio apostolica la preghiera eucaristica

comporta quasi tutti i suoi elementi costitutivi ed essenziali, nella preghiera eucaristica della Didaché sono praticamente

assenti.

Ora, di questi testi primitivi non c'è stata una posterità: sono testi arcaici senza discendenza, come ad esempio la

preghiera di Addai e di Mari che è stata usata durante un arco di tempo molto lungo, dal III secolo sino ai nostri giorni, e

si è arricchita di elementi assenti nella forma più arcaica della preghiera stessa, come l’istituzione eucaristica e

l’epiclesi. Dunque, questi testi non hanno avuto alcuna discendenza perché non erano adatti alle usanze posteriori.

Questa loro mancanza è stata all’origine della loro sparizione. L’unica preghiera che si è conservata è quella di Addai e

Mari perché è stata completata. Questo fatto comportò il disuso di formule arcaiche le quali sono state sostituite con

formule più complete secondo questo schema:

1) l’eucaristia per la creazione e per la redenzione;

2) il racconto dell’istituzione;

3) l’epiclesi con anamnesi ed oblazione.

Il fatto caratteristico di queste preghiere nuove è il loro riferimento all'opera salvifica di Gesù come redentore e

come mediatore: per mezzo di Gesù la preghiera è indirizzata a Dio Padre. In Occidente si insiste su questo aspetto

dell’opera redentrice di Cristo, mediante la sua morte e la sua passione, mentre in Oriente il centro di gravità della

preghiera eucaristica insiste sulla epiclesi, cioè l'intervento dello Spirito nell'opera di santificazione dell’eucaristia, allo

stesso modo in cui lo Spirito è stato agente durante l’incarnazione di Gesù, sicché l'eucaristia è una specie di

incarnazione prolungata ed estesa a tutta l’umanità. L’uomo battezzato è innestato in Cristo. Questo tipo nuovo è già

attestato da Ireneo ed è sopravvissuto sino ai nostri giorni.

_____Note Personali di Studio_______________________________________________________________________