Il cliente

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Aristide Tronconi, LGTB, psicologico Marco è un uomo affetto da dolori alla schiena che, pur essendo lievi, gli creano un malessere generale con ripercussioni sull'attività lavorativa e familiare. Decide perciò di affidarsi alle cure di un fisioterapista. Durante le sedute di trattamento, all'interno di un dialogo inizialmente formale, emerge la storia presente e passata di entrambi, carica di emozioni e di passioni. Nel ricordo, oltre ai familiari e agli amici, si affacciano anche i personaggi illustri che hanno guidato il pensiero e formato la cultura dei protagonisti e che presentano una comunanza con i loro desideri, dubbi, aspettative e modi di essere. Da quel momento inizia per Marco un percorso che lo porta a scoprire dentro di sé qualcosa di insospettato: il lato omosessuale che mai avrebbe pensato appartenergli.

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In uscita il 30/5/2016 (14,50 euro)

Versione ebook in uscita tra fine giugno e inizio luglio 2016

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ARISTIDE TRONCONI

IL CLIENTE

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IL CLIENTE Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-990-6 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Maggio 2016 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

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"S’io mi ricordo bene di me medesimo, secondo la nostra età e modi e costumi della ciptà, non è stata la mia vita degna d’infamia. E se io non ho saputo molto bonore conseguire e molte virtù, io l’ò pure

desiderato e cerco con ogni studio"

[Luigi Pulci, lettera a Lorenzo il Magnifico]

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Capitolo primo Tutto cominciò quel giorno in cui mi sentii affaticato. Non seppi distinguere se fosse un fastidio del corpo o dell’anima. Volevo capire e nello stesso tempo cercare un rimedio. Ma era inutile: non riuscivo a fare chiarezza. Per frenare il tormento dell’indecisione presi in mano un foglio che recava l’indirizzo di un professionista e lo chiamai. Non importava chi fosse o come lavorasse, ma solo che mi desse pace. Trattandosi di un massaggiatore avevo inevitabilmente deciso per il corpo, accantonando l’anima e pensando che, se le avessi dato spazio, non mi sarebbero venute le parole per descrivere lo stato in cui versava. Potevo andare da mia moglie e dirle che non stavo bene, ma mi avrebbe chiesto cos’hai o cosa ti succede. E io non avrei saputo dirle più di quanto io stesso sapessi, ossia nulla. Quando la settimana seguente mi recai all’appuntamento, mi trovai di fronte un giovane dai modi gentili, un po’ leziosi. Mi mostrò il lettino su cui sdraiarmi, chiedendomi quale fosse il punto di maggior sofferenza. Rimasi in silenzio per un po’ non sapendo quale fosse la risposta. Non avevo segnali di dolore provenienti dal corpo. Gli dissi che talvolta soffrivo di mal di schiena. Non volevo che il mio silenzio facesse trapelare la verità di una domanda confusa, che utilizzasse il corpo perché era il solo che in quel momento potessi presentare a un altro. Non ero in grado di pronunciare parole che definissero uno stato di malessere, se non il mal di schiena. Così cominciò il contatto tra di noi: una mano esperta esplorava la mia schiena con delicatezza, ma anche con fermezza. «Se le faccio male me lo dica, perché sto facendo pressione su alcuni punti dei suoi muscoli che sono un po’ contratti. In parte può

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essere dovuto alla postura che assume e in parte allo stress.» «Al momento non sento male, continua pure, se ci sono problemi ti avverto.» Spontaneamente gli avevo dato del tu, avendo io il doppio dei suoi anni. Da quel momento anche lui fece altrettanto. Questo passaggio dal lei al tu mi fu particolarmente gradito, perché spesso con i giovani colleghi non riesco, benché glielo chieda, a convincerli che non sono poi così vecchio. È vero che, essendo rimasto senza capelli, rimando a chi mi guarda un’immagine di persona anziana. Non mi fa bene, tuttavia, sentirmi più vecchio di quel che sono e non mi fa bene essere trattato con troppa deferenza. Una volta chiesi a una collega ventottenne perché non riusciva a darmi del tu. Non me lo seppe o non me lo volle dire. Non feci nessuna ipotesi sul suo silenzio, forse spaventato dal farne qualcuna che sarebbe poi risultata non tanto gradita. Quando mi alzai dal lettino, mi chiesi se effettivamente mi sentissi meglio rispetto a prima. Se da una parte potevo dirmi contento per la possibilità di togliermi di dosso quella strana fatica, dall’altra mi mancava la chiarezza, poiché continuavo a sentirmi confuso. Guardando in faccia il massaggiatore e aspettando che fosse lui a capire e a sostituirmi in quel difficile compito di discernere, mi accorsi delle fattezze del suo volto, dei capelli folti e ricci che gli cadevano sulla fronte, di un corpo snello e fresco. La sua figura mi ricordava quella di Antinoo, l’amico dell’imperatore Adriano, come appare nelle due sculture di marmo, quella della famiglia Braschi e quella della collezione Farnese. «Sai che assomigli ad Antinoo?» Mi guardò un po’ perplesso, sorridendo. Decisi di non dire nulla neppure io, lasciando cadere il discorso. Dopo un breve saluto me ne andai giù per le scale, desiderando di tornare altre volte e chiedendomi se la cura al mio affaticamento non potesse essere ricercata proprio nell’incontro con quella bellezza, il cui sguardo melanconico incrociai furtivamente al momento di

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lasciarci. Non posso negare che la scoperta di quel volto fosse avvenuta dopo un trattamento fisico, dopo un massaggio fatto con perizia e attenzione. Che avesse in sé la potenzialità di liberare i miei sensi e di far sì che registrassero qualcosa che all’inizio ignoravo? Quando ci eravamo incontrati, all’entrata, non avevo visto nessun Antinoo, concentrato com’ero sul mio disagio. La realtà esterna mi appariva sfumata, ripetitiva, alquanto insignificante e così il massaggiatore, tolto dalla sua specificità, era soltanto uno dei molti che cercava di guadagnarsi da vivere. Di lui sapevo solo il nome e l’indirizzo che mi aveva passato un amico, non ricordo neppure in quale occasione. E quando mi ero rivolto a lui non ero così sicuro che mi avrebbe dato quello che cercavo, omettendo che neppure io sapevo ciò che mi occorreva, quale fosse il rimedio al fastidio del vivere. Nel tragitto verso casa pensai alle contratture muscolari. Il massaggiatore mi aveva detto che le più consistenti si trovavano all’altezza delle spalle e che era riuscito ad addolcirle, anche se non era possibile eliminarle del tutto, perché in parte erano dovute alla mia struttura. Se ben ricordo, il muscolo contratto, la cui rigidità è apprezzabile al tatto, produce dolore a causa dell’ipertonia delle fibre. Ma io non avvertivo nessun dolore. Forse il massaggiatore voleva sottolineare che l’assenza era causata da una tensione muscolare cronica, a cui mi ero abituato e che talvolta, in condizione di eccessivo carico, poteva procurare il così detto mal di schiena, di cui soffrivo solo saltuariamente e in particolare durante il riposo notturno. La contrattura è un atto difensivo da parte del muscolo; quando viene sollecitato oltre il suo limite di sopportazione reagisce contraendosi, togliendo elasticità ai movimenti e disturbando la camminata. Nel mio caso però sembrava che la contrattura riguardasse più la mia mente che il mio corpo. Ero incapace, da un po’ di tempo, di registrare con i sensi ciò che avveniva all’esterno di me stesso. Poteva trattarsi di un ausilio difensivo, anche se la causa

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mi risultava oscura. Una sofferenza dell’anima quindi, più che del corpo, o meglio di entrambi. La teoria della congiunzione tra anima e corpo formulata da Spinoza non ammetteva che si considerassero entità separate: mens et corpus una, eademque res sit. Avevo passato intere giornate estive al mare a discutere con mia nipote dei suoi scritti, in particolare dell’Etica e del Trattato Politico. L’avevo infatti convinta a scegliere quel filosofo per la sua tesi di laurea, evitando di sminuire troppo il suo relatore che le aveva consigliato altro. Quando si ama un autore si ha voglia che anche altri provino lo stesso interesse. Quante volte dedichiamo parte del nostro tempo a convincere gli amici a leggere quel libro o a guardare quel film! Non ho idea del perché mia nipote avesse deciso di accontentarmi: non so se veramente le interessasse Spinoza o se volesse semplicemente che ci fosse qualcuno accanto a lei, non importa quale fosse l’argomento da trattare. La sua insicurezza era antica, fin da quando suo padre se ne era andato lasciandola ancora piccola alle cure della madre e degli zii. Da allora fu un incessante elemosinare un’attenzione paterna in qualunque uomo adulto si intrattenesse un poco con lei. Non me la sono mai sentita di farle da padre, anche se nel corso degli anni l’ho sempre aiutata nei momenti difficili, tenendo come zio nei giusti limiti le manifestazioni affettive per gli ottimi risultati che crescendo otteneva a scuola, nello sport e, successivamente, nel lavoro. La settimana seguente tornai dal massaggiatore. Ero di nuovo avvolto da una nube di stanchezza. Mi sembrava questa volta però di essere meno disorientato; avevo capito che quella sensazione non poteva attribuirsi al solo corpo, anche se da lì si doveva nuovamente ripartire. «Ciao com’è andata?» «Abbastanza bene, il mal di schiena mi è passato.» Non sapevo cos’altro dire: una frase di circostanza, giusto per

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riprendere il contatto e immergermi subito nell’esperienza tattile e percettiva dell’ultima volta. Mi coricai cercando di unire l’immagine di Antinoo al scivolamento delle mani sulla mia schiena. Questa volta volevo avvertire la sensazione di piacevolezza già all’inizio, mediata dalla pelle e non solo dalla vista. Ho sempre cercato nella mia vita di unire il disunito. La famiglia in cui sono cresciuto era un esempio di irriducibile frammentazione: i miei genitori cercavano di andare d’accordo, ma erano troppo tormentati per riuscirci: mio padre dal timore di essere mal giudicato dalle persone che frequentava, mia madre da una vita di casalinga mal sopportata. Verso i figli, ben tre maschi, le attenzioni e le cure erano intermittenti, influenzate dagli umori. Mio padre riteneva che nulla ci dovesse dare se non la sicurezza economica e il prestigio sociale, mia madre cercava, anche attraverso sacrifici, di liberarsi dal senso di colpa per non averci amato per quelli che eravamo. I figli, soprattutto il primogenito, dovevano essere il riscatto di una vita infelice e frustrante, divisa tra sogni di gloria e triste realtà. Era un bellissimo giovanotto, mio fratello, quello più grande, non così dotato intellettivamente come lo era fisicamente. Mia madre voleva che studiasse, che sapesse perfettamente far di calcolo. Sento ancora nelle mie orecchie le sue urla quando sbagliava i compiti di matematica. Che responsabilità poteva avere Giorgio se non riusciva a ragionare con logica e limpidezza? Quando nacque l’altro mio fratello e poi io, era già una madre affranta, con poche energie e poche speranze da investire sui nuovi figli. Per questo motivo noi due siamo cresciuti acquisendo brillanti risultati scolastici, cercando instancabilmente di rimediare, o meglio di compensare l’handicap del fratello, nell’illusione che ciò potesse dare sollievo all’umore materno. Vederla sorridere era uno dei nostri desideri, che non fu mai esaudito. È morta assai giovane per l’età media delle donne. Aveva appena compiuto cinquant’anni, ma nell’animo ne aveva già vissuti il doppio. Un ictus le tolse la capacità di rendersi conto di quanto l’unità della famiglia fosse una finta e quale futuro oscuro attendeva il suo primogenito.

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Mio padre non fu sorpreso per la morte della moglie e, forse, in cuor suo ne fu anche sollevato. Non seppe dirci nulla quando dall’ospedale l’avvertirono che l’ambulanza l’avrebbe riportata a casa, pronta per essere sepolta. La sua vita continuò come sempre, tra il lavoro, il bar e le sue lunghe vacanze invernali, che lui preferiva godersi da dicembre a tutto febbraio, lavorando poi regolarmente tutta l’estate; una preferenza che impedì a noi figli di trascorrere una vacanza insieme a lui. Un giorno tornò dalla villeggiatura con una nuova donna, che presentò prima come amica, poi come futura moglie. Voleva che noi figli fossimo d’accordo. Dovetti far da testimone alle loro nozze, con lacrime sopite, che presero forma sul mio viso solo molti anni dopo, quando me ne andai di casa, a seguito di un litigio non rimediabile con mio padre. L’altro fratello, il secondo, aveva già scelto di lasciarci un poco prima, preferendo varcare il confine italiano, quale fosse una linea di demarcazione obbligata, non tanto dal punto di vista territoriale, quanto da quello affettivo: il suo ambito di vita doveva essere qualcosa di completamente diverso, per lingua, cultura, lavoro. Un esilio necessario? Non so: il dolore per la sua lontananza impedì che qualsiasi pensiero si formasse nella mia mente, ipotizzandone le cause. «Ora puoi girarti, adagio. Va tutto bene?» Così mi ingiunse il massaggiatore. Ubbidii volentieri, perché guardarlo in faccia mi avrebbe reso più facile il compito di riprendere il contatto con il presente, alla ricerca affannosa di un benessere che nel lontano passato fu pressoché impossibile. Cominciò il massaggio dai piedi, salendo fino al capo. Quando prese la mia testa tra le sue mani e iniziò a trattarla con movimenti circolari, percepii per la prima volta di essere tenuto dentro mani sicure, che avrebbero protetto e accarezzato non solo l’esterno, la cute e i pochi capelli rimasti, ma anche l’interno dove i pensieri e i ricordi spingevano contro la parete per farsi sentire, ma anche per farsi sciogliere, come contratture che nel tempo si erano quasi

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ossificate. Mentre mi rivestivo vidi il massaggiatore precipitarsi verso il suo cellulare, la cui vibrazione segnalava una chiamata in arrivo. «Scusami, torno subito: è una telefonata importante dei miei, a cui devo rispondere adesso.» «Non ti preoccupare, fai pure.» Andò nell’altra stanza e io sentii il tono della sua voce alterarsi e non di poco. Il significato delle parole mi sfuggiva. Ero sbigottito dal repentino cambiamento: il dolce e calmo Antinoo si era trasformato in un agitato aggressore. Poiché si chiamava Alessandro mi venne da pensare ad Alessandro il Grande, figlio di Filippo II il macedone. Non era bello e slanciato quanto il giovane di Bitinia, ma possedeva l’ardore della guerra, della conquista senza tregua e della vendetta, come quando distrusse Tebe, incendiò Persepoli e uccise Clito. Eppure ho sempre ammirato Alessandro Magno fin dai tempi del liceo. Di lui mi entusiasmava la capacità di organizzare l’esercito e di schierare gli uomini durante le battaglie, la prontezza nel prendere decisioni, l’intelligenza nel disporre tempi e luoghi per colpire il nemico. Non fu solo un grande condottiero, ma anche un abile stratega. Alle straordinarie doti militari alternava quelle politiche e diplomatiche. Seppe indurre i nemici a diventare alleati e ad assicurare alla Grecia una definitiva sicurezza rispetto agli attacchi persiani. A soli 32 anni aveva edificato un impero dalla vastità fino ad allora sconosciuta. Quando Alessandro il massaggiatore rientrò, visibilmente provato, si sentì in dovere di giustificarsi, asserendo che con i suoi genitori non aveva un buon rapporto: non l’avevano aiutato né mai capito. Aggiunse che sarebbe stato meglio essere orfano. Considerai quelle parole esagerate. Mi limitai a sorridergli quasi volessi influenzarlo attraverso la mimica, ma senza alcun risultato. Colse questo mio tentativo come un disagio da parte mia, in effetti così era, per cui mi rassicurò dicendo che abitualmente al telefono succedeva che litigassero e che per non farsi sentire dai vicini, li chiamava quando alla sera faceva la sua passeggiata fuori casa. Per

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strada il rumore del traffico poteva confondere le urla e le parole grevi che in certi momenti gli era impossibile controllare. Tornato a casa ancora turbato, chiesi a mia moglie Sara di Antinoo e Alessandro. «Erano entrambi omosessuali: uno dolce e femmineo, l’altro aggressivo e maschile, ma sono la faccia di una stessa medaglia: mostrano un aspetto di sé e ignorano, o nascondono, l’altro. Alessandro era dolcissimo con Efestione, l’amava di una tenerezza invidiabile e Antinoo ha agito contro se stesso e Adriano, uccidendosi.» Non ero d’accordo con mia moglie, soprattutto per la sua sicurezza che Antinoo attraverso il suicidio avesse aggredito la propria vita e il rapporto con l’imperatore Adriano. Se di suicidio si trattava, ma su questo gli storici non sono concordi, penso potesse avere altre motivazioni. A proposito di Alessandro poi aveva detto una sciocchezza: ebbe diverse mogli e il suo amore per Efestione, ma anche per Cratero, rientrava nella cultura di allora. Definizioni come omosessuale o bisessuale non esistevano nel mondo ellenico. Ritengo sia tipico degli psicoanalisti, perché mia moglie fa questo di mestiere, ricavare dall’inconscio una verità che confermi la teoria. È anche questo un modo di darsi sicurezza. Mia moglie è una incorreggibile ansiosa, che detesta l’incerto e ama il controllo. Tuttavia la sua osservazione, anche se priva di una verità storica, mi sembrò preziosa. Come spesso accade, si è aiutati grazie a qualcosa che non era stato predisposto in tal senso. Mi è sempre piaciuto far l’amore con lei e tale piacere non è mai venuto meno nell’arco dei nostri vent’anni di vita comune. Si concedeva anche quelle volte in cui ero più io a volerlo. La sua soddisfazione nel darsi a chi amava sostituiva il piacere fisico che talvolta le mancava. Mi trovavo ora a dover affrontare un altro aspetto della vita, delle relazioni, di me stesso. Se fossi stato un cittadino greco o romano, al pari di Alessandro o Adriano, il problema non si sarebbe posto, sarebbe stato persino assurdo il formularlo.

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D’altra parte trovo patetici coloro che giustificano la propria omosessualità, persino la propria pederastia, appellandosi alla civiltà greco-romana, commettendo un grosso errore storico-culturale. Ad Atene l’amore dell’adulto per il giovinetto era un fatto transitorio. L’amato, nello scritto greco ἐρώμενος, non era destinato a rimanere tale, ma giunta l’età adulta prendeva moglie e costituiva la sua famiglia; l’amante, ovvero l’ἐραστής, spesso anche lui ammogliato, lo sapeva e non aveva alcun intento di costruire un rapporto stabile con lui. Nella cultura macedone l’amore tra maschi poteva durare anche oltre la giovinezza, non ostacolando tuttavia il progetto matrimoniale di entrambi. Quello che inizialmente provai per il massaggiatore non era un’attrazione fisica, nel senso erotico del termine, ma un’attrazione estetica ed emotiva, un’ammirazione per un’armonia del corpo senza uguali. Cercavo all’esterno qualcosa che non trovavo nel mio interno. Tale era la mia disunione intima che non potevo sperare di riaggiustarla senza ancorarmi a un supporto. Occorre aggiungere tuttavia, sull’onda di quanto detto da mia moglie, che questo appoggio avveniva all’interno di una relazione maschile. Probabilmente la stessa cosa non sarebbe successa se al suo posto ci fosse stata una donna, pur bella ed eccezionale. Il rimando rappresentativo sarebbe stato alquanto differente; avrebbe portato la mia mente a prendere in considerazione un altro da me, invece che un altro come me. Non misi al corrente Sara di questa riflessione, perché sorridendo mi avrebbe parlato di narcisismo o di rispecchiamento narcisistico. E prolungando la conversazione mi avrebbe forse indicato i primi anni di vita come il periodo in cui quella dimensione sarebbe stata del tutto comprensibile e normale. Alla mia età, avrebbe aggiunto, sarebbe stato solo il segno di una sofferenza psichica che si radicava in un rapporto non risolto con mia madre, la quale si era sottratta a quella funzione di rispecchiamento che tutti i bambini piccoli cercano. Non penso che ogni disagio sia sempre rapportabile all’infanzia; può

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derivare anche da un presente difficile da sistemare e da vivere, che induca il soggetto a rifugiarsi nel passato, non avendo a disposizione altra opportunità. Il terzo incontro col massaggiatore avvenne a quindici giorni di distanza. Al telefono, per fissare l’appuntamento, l’avevo sentito sbrigativo e quando lo vidi lo trovai chiuso in sé. La tristezza disegnata sul suo volto lo incupiva e lo rendeva dolorosamente sfuggente. Mi sentii di dirgli qualcosa, per aiutarlo a uscire da sé e per ritrovare quell’intimità che mi era piaciuta. «Coi tuoi come va?» «Non ci parliamo da quella telefonata. Io non li ho più chiamati e quando loro hanno cercato di farlo, ho interrotto la comunicazione.» «Sei ancora arrabbiato?» «Se lo meritano. Pensano solo a se stessi. Meriterebbero di peggio.» «Non è che stai esagerando?» «Mi hanno rovinato la vita, devo pure difendermi.» «Ti hanno rovinato la vita?» «È meglio non parlarne, altrimenti passo male tutta la giornata.» Sotto le sue mani riuscii comunque a rilassarmi, apprezzando l’impegno messo per sciogliere i nodi. Capii che il fastidio fisico che mi procurava, insistendo e pigiando su alcuni fasci muscolari, veniva attenuato e superato dal tatto lieve che seguiva quelle mosse. Sempre più assomigliavano a carezze che si spandevano su tutto il corpo e che la mia mente non portava come ricordo. Quando mia moglie si avvicinava e mi accarezzava nei suoi avvolgenti abbracci e baci, sentivo un sapore diverso, stimolante ed erotico. Da parte dei miei parenti si usavano soltanto registri convenzionali: un bacio a mia madre e a mia nonna quando si partiva o si arrivava, un accenno di saluto verbale a mio padre, i miei nonni non li ho mai conosciuti. Mi ricordo a tal proposito di una cena con amici. Stavamo discutendo della ristrutturazione di un immobile di loro proprietà, quando posi ad Antonio una domanda sul comportamento tenuto dal direttore dei lavori. Egli ritenne quanto da me detto assolutamente ingenuo.

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«Amore mio… Esimio professore ed egregio dottore, dovresti sapere che è nell’interesse dell’amministratore comportarsi così.» Il primo a essere colpito da quella uscita, immediata e spontanea, fu proprio Antonio. Quelle parole, così eloquenti dal punto di vista affettivo, avevano generato un visibile sconcerto, per cui si sentì in obbligo di riparare con una aggettivazione quasi notarile, che di emotivo non aveva più nulla. Il mio imbarazzo terminò al pensiero che non è insolito, quando si parla con bambini, utilizzare quel termine, però anagraficamente non ero un bambino e questo ad Antonio era risultato insopportabile. Mi stupii, tornando a casa dopo il massaggio, della capacità di Alessandro-Antinoo di dividere quello che faceva pubblicamente da quello che sentiva nel privato del suo animo. L’odio nei confronti dei suoi genitori non passava dalle sue mani al mio corpo, che aveva continuato a beneficiare della sua attenzione, tra la dolcezza del tocco e la pressione sulle contratture. In occasioni successive mi parlò della sua passione per i film di guerra, che vedeva e rivedeva più volte, quando non era impegnato con il lavoro o con gli amici. Ancora di più si accentuò ai miei occhi questo divario tra l’apparire esteriormente come Antinoo e scoprirlo nella sua intimità come Alessandro il macedone. Fuori si era mostrato bello e gradevole, uno splendore; dentro, dove stavano le sue emozioni, era invece pieno di rabbia, totalmente immerso nel suo desiderio di vendetta: un luogo da cui chiunque avrebbe desiderato allontanarsi. Per alcuni potrebbe sembrare una fatica immane scindere la propria personalità in due parti così nette, difficilmente conciliabili, eppure a lui risultava di una estrema facilità, come non avesse conosciuto altro modo di essere. Mentre le sedute di massaggio progredivano, ora con cadenza settimanale, ora quindicinale, a seconda degli impegni di lavoro, sentivo la mia stanchezza psico-fisica dissolversi lentamente. La nebbia che mi avvolgeva e talvolta mi tormentava, impedendomi di capire, di guardare il mondo con interesse e piacere, si era diradata.

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Impossibile pretendere che se ne andasse completamente e per sempre, esattamente come le contratture dei muscoli che percorrevano la schiena non potevano risolversi definitivamente. Il graduale risveglio delle mie sensazioni corporee, accompagnato da un recupero della capacità percettiva di accorgersi degli altri e di provarne piacere, mi entusiasmava sempre più anche se l’oggetto dell’attrazione, il bello, lo ritrovavo solo nel massaggiatore. La mia speranza che da lì si spostasse e investisse altri uomini o altre donne, magari con gli stessi requisiti, tardava a realizzarsi. Non sapevo spiegarmi questo vincolo emotivo. La gratitudine per avermi restituito un benessere perduto? La fedeltà? Il timore di perdere quello che avevo guadagnato? Non so con tutta sincerità quale ne fosse la causa, per cui decisi, per non ingigantire questo aspetto e crearmi colpe artefatte, o vuoti di senso, che era troppo presto per capire e pretendere più di quanto in quel momento mi fosse possibile. Una sera tornai dal lavoro visibilmente stanco, per cui dopo cena lasciai mia moglie sul divano a guardare un telefilm che piaceva a entrambi e andai a letto. Sentivo il bisogno non soltanto di riposare fisicamente, ma anche di escludere dalla mente tutto quanto la giornata mi aveva obbligato a prendere in considerazione. Raramente mi accadeva, per cui Sara mi chiese, con l’ansia che la caratterizza, cosa stava succedendo. «Solitamente non ti lasci coinvolgere così tanto, sai misurare il tuo impegno. Non sei mai tornato a casa così esaurito. Prova a pensarci. Non mi ricordo di averti visto così altre volte.» «Provare a pensarci in questo momento?» «Domani, domani. Vengo a darti la buona notte e chiudo la porta.» Mi svegliai l’indomani, dopo aver dormito profondamente sino al mattino. E come accade quasi sempre, ripensai alle parole di Sara. Ascoltare è pensare, ossia apprendere. Dovevo perciò tornare alla giornata di ieri per cercare di ricordare che cosa di diverso avevo fatto. Avevo lavorato interagendo con diverse persone, lasciandomi

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coinvolgere più del solito nei loro problemi; mi ero occupato dei conflitti con il personale del reparto e mi ero recato da solo a trattare col primario. In sostanza ero stato più intraprendente, ma anche più presente nelle comunicazioni. Avevo anche sofferto per un problema non risolto che aveva procurato un immeritato disagio a una persona per bene. Alcune rigidità che facevano da scudo alla mia persona si erano improvvisamente incrinate, col risultato che ero diventato emotivamente più permeabile, più attivo e psicologicamente meno centrato su me stesso. Tutto ciò era avvenuto su troppi versanti in una volta sola e senza che io potessi fermare quel flusso che, in modo naturale, aveva guidato i miei comportamenti, facendomi uscire da quelle forme di difesa che mi avevano portato a chiudermi nei confronti degli altri. Una cosa insolita per me, che aveva bruciato le mie energie, senza che venissero rinnovate. Avevo bisogno di rimediare, di equilibrare le forze: di riuscire in sostanza a ricostruire una nuova pelle, quella giusta per me. Una volta ebbi modo di assistere a un seminario in cui mia moglie presentava un caso. Ci andai per lei, pur odiando i raduni tra psicoanalisti. Raramente in quei luoghi si trova simpatia, leggerezza, modestia; sembra che tutti i relatori vogliano cimentarsi nel formulare nuove teorie, proponendosi come più bravi di qualcun altro. Si trova in quell’ambiente più competitività e arroganza che in qualsiasi altro, al di fuori di quello della moda. Ebbene, nella sua relazione Sara descriveva il sogno di una paziente che si era vista senza pelle. I muscoli, i vasi, i nervi erano direttamente a contatto con l’esterno, fatto che le faceva percepire l’ambiente circostante come pericoloso, poiché esponeva il suo corpo a infezioni, a lancinanti dolori, a sanguinamento. Ascoltando quella relazione cercavo di ricordarmi quanto spessi fossero la cute e il sottocute. Sara parlava di pelle psichica, citando Anzieu, uno psicoanalista francese, che quando era bambino, prima di dormire, immaginava di spogliarsi della sua pelle, che arrotolava su se stessa per deporla sul comodino durante la notte, per farla riposare e per

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cancellare ogni traccia di ammaccatura subita durante il giorno; io, di contro, pensavo ai tessuti epiteliale, connettivo e adiposo soprastanti il muscolo. Sia la mente che il corpo hanno bisogno di difendersi quando entrano in contatto con il mondo esterno, poiché gli stimoli che provengono dall’ambiente e dalle persone non sempre portano benefici. Ma quale deve essere lo spessore giusto di questa protezione? Se eccessivo porterebbe il soggetto a vivere chiuso in se stesso e isolato dagli altri, senza dolori e fatiche, ma anche senza gioie; se carente lo esporrebbe a troppi squilibri, nell’umore, nel riposo, nell’agire. In greco μέτρον vuol dire sia misura che moderazione. Misurare la propria reazione emotiva, come avere la misura delle proprie passioni e dei propri desideri era un obiettivo per gli antichi greci non solo nobile ed elevato, ma anche seriamente necessario, soprattutto per chi si impegnava nella guida della città, della casa, dei giovani. La moderazione è l’esatto punto di mediazione tra l’assenza e l’eccessiva presenza. Il mio massaggiatore doveva segretamente aiutarmi a trovare questa dimensione, essere colui che, lavorando sul corpo, mi avrebbe guidato a riordinare la mente. Era dovuto a lui e al suo massaggio, infatti, il cambiamento che in me era avvenuto e che mia moglie aveva subitamente avvertito. Agendo con le mani sulle mie contratture muscolari e con la bellezza su quelle affettive, aveva abbattuto la feroce resistenza tra me e il mondo. Aveva addolcito il mio temperamento e aperto la strada verso le emozioni, per prima la gioia: del riposare quando ci si sente stanchi, dell’incontrare chi piace, del lavorare sentendosi importante, del provare interesse per qualcun altro e infine la gioia nell’essere accarezzati e curati. Ma successivamente alla gioia emerse il dolore. Approfittando dell’incrinatura operata dal massaggio nella mia pelle, affiorarono alla coscienza ricordi penosi, prima di tutto la morte tragica di mio fratello, il primogenito. Quando accadde fu un’esperienza che registrai e cancellai immediatamente, non riuscendo a fare altro. Il

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dolore si affacciò quando ripensai al mio comportamento di allora. Nella prima scena mi vedo entrare nella stanza di rianimazione dove Giorgio era ricoverato. La temperatura corporea da qualche giorno non era più farmacologicamente controllabile, per cui il suo tempo di vita stava velocemente terminando. La dottoressa si avvicinò chiedendomi se autorizzavo l’espianto degli organi. A quel tempo ero così insensibile dal punto di vista affettivo che quella richiesta mi sembrò legittima. Concordai con lei i modi e i tempi, dimenticandomi che Giorgio era nella stanza accanto, ancora vivo. Devo un attimo interrompermi, perché le lacrime mi scendono senza tregua. Sento un intenso dolore per quella insensatezza e indifferenza. In quel momento Giorgio avrebbe potuto percepire, anche se a un livello di non piena coscienza, l’abbandono umano da parte di persone che parlavano di lui come fosse già all’obitorio. Lasciata la dottoressa e mia moglie nell’atrio, e dopo aver indossato le sovrascarpe, la cuffia e il camice monouso, mi accostai al letto di mio fratello per l’ultimo saluto. Respirava a fatica; non riusciva a parlare, mosse leggermente le labbra; mi guardò con occhi grandi e sembrò riconoscermi. Recuperando con la memoria quello sguardo lo scoprii ora intelligente e comunicativo. Per un’unica volta nella sua vita, in punto di morte, si era concesso di uscire da quella coltre di deficitarietà in cui il mondo scientifico, con le sue scale di valutazione, lo aveva permanentemente rinchiuso. Vi è un’ultima scena, forse la più dolorosa, quella del funerale. Voluto in forma ristretta, erano presenti, oltre a me e mia moglie, mio padre, la seconda moglie, l’altro fratello, gli zii, i cugini e i cognati. Dopo la cerimonia nella chiesa del paese dove Giorgio aveva la residenza, lo accompagnammo al camposanto per la tumulazione. Da quel giorno nessuno si ricordò più di lui, né si occupò di costruirgli la tomba secondo le convenzioni e la dignità umana. Quando mi risvegliai dal torpore affettivo che caratterizzò quegli anni e volli rimediare, mi accorsi che di lui nel terreno del cimitero non vi era più traccia. L’impiegato del Comune mi guardò sbalordito

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quando gli chiesi informazioni sulla mappa del campo e sulla distribuzione delle tombe. Erano passati quasi dieci anni e nemmeno mi ero accorto. Esplorai in lungo e in largo quel terreno arido e assolato, dove fiori, fotografie e sculture ornavano le tombe degli abitanti di quel paese, tranne una, quella di Giorgio, le cui tracce il vento e l’incuria avevano fatto sparire. Seppellire i propri cari, dice Antigone, fa parte di quelle norme non scritte, che non sono di oggi o di ieri, ma di sempre. Antigone, così devota al fratello scomparso, oltremodo coraggiosa, aveva sfidato tutti, agendo da sola contro il decreto del governatore di Tebe, che ne aveva vietato la sepoltura. Ismene, l’altra sorella, timorosa, attenta a non creare dissapori con chi deteneva il potere, ammise di non poter condividere il piano di Antigone, perché per natura era incapace di agire contro il volere della città. Nelle sue tragedie Sofocle ci mostra che l’uomo, nonostante la sua fragilità e instabilità, nonostante possa essere schiacciato dagli eventi e abbandonato dagli amici, ha la possibilità di rimanere fermo nei suoi valori e di difendere fino alla fine i suoi ideali. In tal senso il suicidio di Antigone non è l’espressione di un fallimento, ma la testimonianza che il senso di giustizia e la pietà umana necessitano di trovare il giusto spazio nella mente degli individui, tanto quanto nella realtà sociale. Come si fa a non essere d’accordo con Sofocle e amarlo per quello che ci ha tramandato? Nel mio caso, a quel tempo, i valori non mancavano, ma erano separati dalla pietà: agivo secondo ritmi e consuetudini che li comprendevano, ma senza nessun coinvolgimento emotivo. Antigone era una realtà sconosciuta, a me era più vicina Ismene. Penso sia stata questa affettività frenata a far sì che a fine cerimonia la famiglia in cui Giorgio era nato e cresciuto, riprendesse la vita di sempre, sentendo di aver fatto tutto ciò che praticamente occorreva, ma senza una lacrima che potesse indurre chiunque dei componenti a tornare in quel luogo sacro, per rammentare che si trattava di una persona che aveva fatto disperare e soffrire, ma che aveva anche lui

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disperatamente sofferto. Posso solo chiederti perdono, anche se in ritardo, fratello mio, per non averti mai detto che ti volevo bene, per non essermi occupato della tua tomba, per non avere mai portato un lume alla tua soglia. La tua morte e la mia dimenticanza mi sconvolgono tuttora, più di quanto tu e io osassimo immaginare. Atque in perpetuum, frater, ave atque vale.

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Capitolo secondo «Mi piacerebbe metterci una pianta, perché questa stanza mi pare un po’ spoglia. Che dici? Un bonsai per esempio?» «È una stanza per il massaggio e secondo me sta bene così, però se vuoi ti posso portare io un ficus benjamin. Sta meglio di un bonsai. A casa ho fatto una talea che adesso è abbastanza cresciuta, te la porto volentieri. Però ricordati che devi metterlo vicino alla finestra, dove c’è più luce.» La settimana seguente arrivai con il ficus promesso. Alessandro mi ringraziò con sincerità, sottolineando quanto apprezzasse la mia gentilezza e aggiungendo che gli sarebbe piaciuto che tutti i suoi clienti fossero un po’ come me. Gli capitava purtroppo di incontrare persone scortesi e scorrette, anche poco pulite. Mi riferiva di un cliente che in modo reiterato arrivava con venti, talvolta anche trenta minuti di ritardo, nonostante gli avesse più volte segnalato che creava una serie di difficoltà rispetto agli appuntamenti successivi o agli impegni programmati. Durante il massaggio ebbe modo di aggiungere che preferiva soggetti magri, e io indubbiamente lo ero; ero anche assai puntuale. Aveva notato che non arrivavo mai né in anticipo, né in ritardo; inoltre prima di andare da lui, passavo sempre da casa a farmi la doccia. La convivenza con mia moglie, che aveva lo studio in casa, mi aveva sensibilizzato su questi aspetti. Non apriva mai la porta quando un suo paziente arrivava in anticipo, e quando al contrario era in ritardo, dedicava parte della seduta a parlarne. Non so proprio quanto ci fosse da dire su un ritardo, se non che è sconveniente per un professionista, ma si sa che gli analisti trovano buon gioco a vedere sempre dell’altro. In ogni modo mi resi conto che andavo dal

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massaggiatore con la stessa modalità con cui i pazienti venivano da mia moglie. «Secondo me, quando tu arrivi un po’ prima passeggi qui sotto fino all’ora esatta del nostro appuntamento.» «Semplicemente calcolo bene il tempo per venire da te. Non ci sono problemi di traffico perché vengo a piedi e quindi esco da casa all’ora giusta.» Cercai di giustificarmi come se la puntualità fosse un reato, anche se per certi aspetti il mio massaggiatore non aveva torto. Non passeggiavo sotto il suo studio, questo era vero, ma era altrettanto vero che cincischiavo in casa fino all’ora di uscire oppure rallentavo il passo quando non riuscivo più a trattenermi e mi precipitavo fuori. A proposito della magrezza era stato il primo ad apprezzarla, contrariamente alle discussioni estenuanti con mia moglie, talvolta con amici, che mi colpevolizzavano per un peso che a loro sembrava inaccettabile. Non sono mai riuscito a far capire a Sara quale amarezza mi creava quando sosteneva che non mangiavo a sufficienza. L’avevo pregata più volte di smettere di assegnarmi una condotta che non mi apparteneva: non era mia abitudine saltare i pasti, non l’avevo mai fatto. Ma inutilmente. La sua convinzione, preoccupazione o forse invidia, era più forte della capacità di controllare i suoi giudizi. Di se stessa lamentava di aver fisicamente cambiato forma, di avere ora una pancia non più liscia ma rotondetta; il che era vero, ma non in modo così abbondante da apparire esteticamente sgradevole. «Guarda che tu devi piacere a me, e così come sei mi piaci.» «Sono ingrassata e diventata brutta.» «Brutta proprio non direi. E poi ingrassata? Se pesi meno di me.» «Ma io sono una donna.» «Sei una donna carina! Come fai a vederti brutta e grassa?» Mi ricordo che il tema della magrezza, oltre a impegnare mia moglie, aveva nel passato ossessionato mia madre, forse per questo non volevo che si ripresentasse a distanza di anni e dopo tante fatiche per dimenticarlo. In primavera mi riempiva di sciroppi

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ricostituenti perché la mia magrezza le dava l’idea che fossi malato, essendo i miei due fratelli ben messi, forse anche in sovrappeso; sicuramente lo era il secondogenito, perché era stato costretto a seguire una dieta su consiglio del medico. I miei gli avevano persino comperato un cane per distrarlo e per indurre in lui un piacere sostituivo del cibo. Non mi faceva bene sentirmi così diverso dal resto della famiglia, tutti reputati sani in funzione del peso. Mia nonna non si fece mai visitare, tanto appariva a se stessa come il ritratto della salute, benché grassa. Fu un amico internista che, prelevandole un po’ di sangue, la scoprì diabetica; lo stesso successe a mio fratello Ernesto trent’anni dopo. Il rimandarmi l’immagine dell’ammalato, anche se non lo ero, in funzione di un peso corporeo che mai inquietò il medico di famiglia, mi fece crescere con l’idea di non avere un corpo piacevole per gli altri. E il mio massaggiatore, con sorpresa e con gioia, mi stava comunicando l’esatto contrario. Fu solo a diciannove anni appena compiuti che attirai l’attenzione di una ragazza. Io pensavo a tutt’altro a quell’epoca, impegnato com’ero con i guai familiari e personali. Mi infastidiva quando i compagni di scuola e gli amici parlavano di donne e di sesso, mi sembrava che quegli argomenti non avessero nulla a che fare con me. Anche all’esterno davo l’impressione del ragazzo ascetico e rigoroso, al punto che il sacerdote della parrocchia mi aveva invitato qualche anno prima a pensare al seminario. Un lieve ritardo puberale doveva aver sicuramente concorso a confermare quell’immagine di angelico bambino. Fino a diciannove anni dunque non mi ero accorto che il mio corpo stava assumendo la forma del maschio adulto. Il farmi la barba ogni giorno era entrato a far parte degli automatismi che caratterizzavano la mia giornata, privo di alcun significato per la mia identità, equiparabile alla doccia della sera o alla colazione del mattino. Gli androgeni che nel maschio sono causa dello sviluppo dei caratteri sessuali secondari, ossia dell’aumento del volume del pene e dei

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testicoli, della comparsa dei peli e della barba, del cambiamento del timbro della voce, sembravano non aver modificato la mia mente, limitandosi al corpo. Tornando insieme a casa una sera, Laura mi invitò a salire da lei per farmi ascoltare un disco appena comprato. Entrambi adoravamo ascoltare De André e la Vanoni. Di quest’ultima ci piaceva in particolare Sto male: un adattamento della versione francese Je suis malade, di cui cantavamo spesso insieme il ritornello:

Io sto male, sto veramente male Come le sere in cui mia madre

usciva e mi lasciava là, con la paura Io sto male, lo sai che io sto male

Mi hai tolto ogni capacità, ogni parola e volontà

Non davamo tanto peso al significato di quelle strofe, non rendendoci conto che potevano essere l’espressione del nostro stato d’animo. Apprezzavamo la voce roca e tormentata della Vanoni, nascondendo a noi stessi il nostro di tormento. Esternamente apparivamo persone a modo, studiose e volenterose, appartenenti a buone famiglie, motivate a crescere secondo i canoni più tradizionali. Laura, di un anno più giovane di me, era in lite perenne soprattutto con la madre, non riuscendo a darsi un obiettivo che andasse bene sia a lei che ai suoi genitori. Talvolta si insultavano e la madre si vendicava mostrandole quanto non riuscisse a eguagliare la sua competenza e bellezza. In effetti era una donna brillante e attraente. Laura aveva un corpo leggero e piacevole, ma il suo viso non catturava l’attenzione e la simpatia dei ragazzi. Da tempo cercava affannosamente una via d’uscita, prendendosela con gli amici che voleva l’aiutassero. Non so perché, ma ero l’unico del gruppo con cui si appartava volentieri, confidandomi i suoi progetti e lamentandosi della sua famiglia. Della mia non osavo parlare,

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bastava la sua, che riassumeva per entrambi la condizione di pena e di malessere. Quella sera, appena entrati nella sua stanza che stava nel semi-interrato, con tanto di impianto stereo, mi invitò a mettermi comodo sul sofà mentre lei caricava il giradischi. Ma ancor prima che il suono giungesse alle nostre orecchie, le sue mani erano già dentro i miei pantaloni. Per un attimo mi sentii stordito, impedito nel parlare, ma anche nel pensare. Ben presto una sensazione mai provata prima prese il sopravvento: piacevolezza e meraviglia si mescolavano in un crescendo inarrestabile. Non avevo mai pensato di avvertire un calore così intenso, un’energia così vitale e soprattutto non ero preparato alla magia di un flusso sanguigno che dai corpi cavernosi del pene stava prendendo possesso di tutto il corpo e mi imponeva di riversarmi su quello di Laura, che nel frattempo si era in tutta fretta spogliata, per cogliere dentro di sé e gustare ciò che da tempo aspettava. Volli ripetere quell’esperienza nei mesi e negli anni a venire, più spesso con Laura che con altre, rimanendo tuttavia vittima di quell’incantesimo, che se da una parte aveva dato vita a un istinto sessuale dormiente e dato consistenza a una virilità che era solo di facciata, dall’altra aveva lasciato disgiunto l’altro aspetto della relazione, ossia il sentimento. Avevo cioè appreso a fare all’amore senza amore. Non ero innamorato di Laura, né delle altre che iniziai a frequentare, ricambiato allo stesso modo. Ci si vedeva con un unico interesse: quello di andare a letto. Fu facile per me, che amo la letteratura greca e latina, ricordarmi di Lucrezio, il quale nel Libro IV del De rerum natura parla diffusamente della nascita del desiderio sessuale. La sua teoria della conoscenza si basa sul presupposto che le immagini, in latino simulacra, siano composte da flussi di atomi che si staccano dalla superficie dei corpi, senza che vi sia una riduzione della materia di cui il corpo è costituito, grazie alla sua continua reintegrazione. Una volta emessi, i simulacra si aggirano sparsi per l’aria, sollecitando i sensi degli individui che ne vengono in contatto e generando, tra i

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vari desideri, anche quello sessuale. Si tratterebbe quindi di un bisogno fisiologico che differisce dalla passione amorosa. Anzi, secondo Lucrezio conviene fuggire dall’amare perché genera affanno, rende ciechi e sovente fa piangere. Giorno dopo giorno nell’innamorato l’ardore aumenta e il dolore s’aggrava. Perciò conviene che il fisiologico desiderio sessuale possa essere soddisfatto in un modo che preservi il personale equilibrio. Lucrezio adotta a tal proposito l’espressione volgivagaque vagus Venere. Volgivaga è un neologismo lucreziano composto da vulgus e vagus, ossia quel girovagare di Venere che offre il suo amore a chi, come lei, vagabonda. La genialità di Lucrezio mi aiutò a capire che il legame d’amore, oltre che di gratificazione, può essere fonte di disturbo emotivo. La gioia dell’avere accanto a sé, fisicamente e affettivamente, una persona comporta anche la presenza del sentimento opposto, in particolare nei momenti in cui l’intesa e la comprensione sono difficili, l’aiuto manchevole, la tolleranza fugace. Per Lucrezio la donna occasionale, ma anche un giovinetto dalle membra femminee (sive puer membris muliebribus), erano la soluzione all’esigenza posta dall’istinto sessuale. In sostanza non era quello che stavo facendo? Non ero da annoverare tra i suoi meritati discepoli? Fine anterpima.Continua...