Il capolavoro

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93 IL CAPOLAVORO di Marko Miladinovic We think of the key Each in his prison Thinking of the key Each confirms a prison Thomas Eliot 1 Fu artista nei momenti in cui dimenticò chi fosse. Quando in quel giorno terribile inciampò per merito di una sua operetta, egli sbatté la testa tanto rovinosa- mente quanto la caduta non avrebbe potuto annuncia- re, e picchiata quella non mancò il resto. Quel giorno terribile egli non pensò essere uomo né amico, animale né dio: rialzato e dolente, prima di ta- stare per bene le novizie ferite, camminò dove aveva sorvolato e, impugnato il foglio da terra, ricordò che non poteva essere altro, ma sì altrove. Non dove si trovava avrebbe potuto concludere quel foglio appena abbozzato, che per buon auspicio di già chiamava col nome di operetta, quale invece non attese un nome per straziarlo. Quando incominciò a scriverla, ogni frase diventò un pre- ambolo e ciascuna pagina la penultima. Oppresso da ciò, si mise a scrivere pure di cerchi – visto che in un cerchio pensava stare – e tuttavia era troppo debole e stanco per uscire anche solo con un salto. Abbandonò allora la penna

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di Marko MiladinovicPubblicato nella raccolta "Là dove sorridono le muse". AA.VV.ISBN 978 88 98018 21 5Tutti i diritti dell'opera appartengono a Edizione Ulivo, via San Gottardo 26a, 6828 Balerna (CH). www.edizioni-ulivo.ch

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IL CAPOLAVORO

di Marko Miladinovic

We think of the key

Each in his prison

Thinking of the key

Each confi rms a prison

Thomas Eliot

1

Fu artista nei momenti in cui dimenticò chi fosse.

Quando in quel giorno terribile inciampò per merito di

una sua operetta, egli sbatté la testa tanto rovinosa-

mente quanto la caduta non avrebbe potuto annuncia-

re, e picchiata quella non mancò il resto.

Quel giorno terribile egli non pensò essere uomo né

amico, animale né dio: rialzato e dolente, prima di ta-

stare per bene le novizie ferite, camminò dove aveva

sorvolato e, impugnato il foglio da terra, ricordò che non

poteva essere altro, ma sì altrove.

Non dove si trovava avrebbe potuto concludere quel

foglio appena abbozzato, che per buon auspicio di già

chiamava col nome di operetta, quale invece non attese

un nome per straziarlo.

Quando incominciò a scriverla, ogni frase diventò un pre-

ambolo e ciascuna pagina la penultima. Oppresso da ciò, si

mise a scrivere pure di cerchi – visto che in un cerchio

pensava stare – e tuttavia era troppo debole e stanco per

uscire anche solo con un salto. Abbandonò allora la penna

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per comperare i pennelli, ma provati quelli riprese la pri-

ma: non poteva sopportare che questa. Dunque partì.

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Andò alla cerca di una oscura landa in altrettanta re-mota regione della terra, dove maggiormente splendere ed esercitare la corsa affi nché non un pensiero sarebbe più sfuggito.

Ma dopo molto tempo egli non splendeva e neppure aveva corso granché.

Inveiva contro sé, affaticato e impallidito, alla vici-nanza di quel foglio immutato e degli altri perduti.

Perché a qualche cosa ma non a questa avrebbe do-vuto servire quel terribile giorno, rantolando smise di inveire al buio e raccolse le sue cose. E raccolte ripartì.

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Affi nché la vista dell’orizzonte elevasse i suoi pensie-

ri ed egli stesso con loro, andò verso uno sperduto pae-

se in riva al mare. Ma dopo molto tempo ancora non si

era elevato, sì invece rinsecchito per l’incessante vento.

Tornò dove alloggiava e prima di sgretolare accumulò

quanto aveva con sé. Mancava soltanto la sua operetta

ma non riuscì a prenderla: un soffi o di vento la rapì e

l’accompagnò dalla fi nestrella dischiusa. A vederla ra-

pita egli si lanciò contro la chiusa porta e rincorse quel

foglio volante appena abbozzato.

Non gli dava pace il vento, fi gurarsi l’operetta: sem-

pre volava due braccia sopra la sua testa.

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Impavido la rincorse levandosi verso il cielo e contro-

vento, contro sabbia, contro tante onde che si può dire

corse in un perpetuo scatto e proprio in quello esaurì

più volte la riva.

Allo stremo delle forze si immobilizzò per la paura

che il vento volesse scagliare quel foglio in mare e il

mare volesse scioglierne l’inchiostro.

Mentre ormai completamente sgretolava, riprese a

correre come un pazzo. Immediatamente lo fermò dis-

sanguandolo una raffi ca di vento e un’altra, come un fa-

vore, riconsegnò l’operetta scagliata sul petto. La strin-

se a sé insieme alle ferite e fi nalmente poté stendersi

sulla spiaggia per recuperare il fi ato perso.

Felice di essersi riconciliato più di quanto basti, ciò

ch’era appena accaduto altro non pareva che una fanta-

sia. Almeno fi nché non udì gli applausi sempre più forti

delle ragazze divertite che godettero la vista dei suoi

stenti e, viste avvicinarsi, gli prese più fretta di quanta

ne aveva avuta: recuperò le cose lasciate e da loro fuggì.

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Lontano da quel luogo risanavano le sue ferite e tor-nava il naturale splendore. Mentre camminava verso una più distante meta, il tempo gli suggerì: quell’ope-

retta salvata sarebbe diventata il suo capolavoro.

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Fece ritorno alla casa materna, dove avrebbe potuto

dedicare alla sua opera ogni singola giornata e momento.

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Un’infermiera, per amore di questa, avrebbe ogni

mattino spalancato le tende e aperte le fi nestre e per-

messo al buon giorno e alla brezza stravolgere l’aria del

sonno e quella stantia; preparato la ricca colazione e

pulito le sporche stoviglie per ancora pulirle dopo il ge-

neroso pranzo; durante l’ora della pennichella avrebbe

pian piano sciacquato i pavimenti e levato la polvere

dalla scrivania e ogni luogo in cui si posa. Dopo aver

preparato una cena leggera avrebbe nuovamente pulito

e ogni cosa avrebbe svolto silenziosamente, fi nanche a

bassa voce, per non turbare, si sarebbe congedata rim-

boccandogli le coperte e baciandogli la fronte.

Ma dopo molto tempo egli per il troppo ozio diventò

a se stesso severo e d’altro non scriveva se non della ri-

gidità e della durezza. Non potendo più sopportare tale

stile, e per non rendersi oltretutto a se stesso insoppor-

tabile, fuggì anche da quella.

Desiderava dapprima ritrovare la leggerezza e perciò

necessitava respirare un’aria migliore.

S’incamminò tra le vette che sollevano il mondo e il

cielo divora, e che due cose sole permettono intravvede-

re: la lontananza e l’oblio.

Poiché nessuna vita è stata di già vissuta e di ognu-

na soltanto si può dire “Non di già fi nita”; e poiché ogni

invenzione sembra nascere dall’oblio ed è data al mondo

e agli uomini una volta sola e per tutte... egli tra quelle

vette prese alloggio.

“Scrivere” pensava, “è cantare l’oblio”. Imparò allora

l’arte dei funamboli e quella dei cantori.

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Ma il giorno in cui credeva possederne i segreti, le

esercitò entrambe e per pochissimo fi nì dove non v’è fondo.

Ciò lo rincuorò perché se l’avesse intravisto a nulla sareb-

bero serviti i segreti, le arti e tanto meno la sua opera.

Ma dopo molto tempo si commiserò di non esservisi

gettato: non sdoppiato né scomparso, né rimasto di lui

il solo corpo, senz’arbitrio o vanità. Quel foglio appena

abbozzato, sul quale scivolò ormai moltissimo tempo

prima, tale rimase.

Sempre più vecchio, riprese le sue sbiadite cose e una

volta ancora, si allontanò.

Mentre scendeva la montagna credette ormai di ave-

re perso le speranze, ma non disperò più di tanto, poiché

a passeggiare comunque si ricavano bei pensieri.

Ma dopo molto tempo non aveva ancora trovato sosta,

anzi, credeva sarebbe morto di stenti appena fermatosi.

Proseguì allora vagando per molto tempo ancora.

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Come ch’insegue la fi ne di un orizzonte, una vita, le

nuvole, una volpe in sogno o il suo proprio scopo, giunse

sopra una collina ormai stremato, senza la forza di un

ulteriore passo.

Lo vide un vecchio e l’accolse: “Civiltà è una piazza

intorno a una fontana!”. Non dovette neppure indicarla:

egli era già chino per abbeverarsi e trovò riposo sulla

panca attigua.

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Si sedette insieme a lui quel vecchio e gli chiese da

dove provenisse. Pieno di gratitudine, non rispose, do-

mandò a sua volta: “Che paese è questo?”.

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Chi per brillare impallidì nell’oscurità; per elevarsi rinsecchì nel vento; per la completa dedizione divenne a sé rigido; per la leggerezza, ormai vecchio, quasi scom-parve, non poté credere alle sue orecchie.

Ogni cosa fi nora confi data al suo pensiero venne smentita dal suo occhio. Nella naturalezza di quell’invi-to, non si sentì più in obbligo delle cose fi no allora cer-cate, delle vie imbattute e di quelle da battere. Egli, al fi anco di chi mutò in amico, riscoprì le orme degli uo-mini che lo precedettero e, nella brillantezza mediter-ranea, come una musica, ascoltò il nome di quel luogo: “Collina d’Oro”.

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L’amico non aveva dove ospitarlo, allora l’accompa-gnò a una vecchia pensione e accomodatosi lo salutò.

Venne sera, ritornarono i bei pensieri operosi e pre-sto si coricò perché li inseguissero le forze.

Tuttavia era così affaticato che prese tempo per pren-dere sonno e quando di già dormiente, scattò dal let-to morso come da un veleno e alzò le palpebre per non chiuderle più. Non fece in tempo ad accendere una luce: si lanciò a terra e raccolse i fogli che riuscì... una penna, e con i ginocchi puntati contro il freddo e buio pavimen-

to, senza nulla vedere, incominciò a scrivere.

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Minuscolo e tutt’attaccato per non perdere il fi lo dei

versi e perché il foglio splendesse per il bell’inchiostro...

quale forza aveva!

Non si fermava più! Strinse il polso ineluttabile per

non permettere al tendine di lasciare la penna inanima-

ta... e pur non vedendoci alcunché, per pigliare anche

i pensieri più agili e svelti, mai distolse lo sguardo in

agguato al pugno ballerino.

Con quale intraprendenza continuò! Tanta felicità

lo possedeva quanta ne contiene un solo punto! E quel

punto fi nale con una linea lo tracciò all’ultima lettera

dell’ultima parola per timore di bucare il foglio!

E prima che il sole mostrasse cosa fosse appena ac-

caduto, egli si sbrigò per nascondere quel tesoro a se

stesso, e lo ripose in due fogli di cartone.

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In fretta si vestì e corse fuori per la colazione. Se non

il mondo, certo lui era cambiato. Bevve il caffè come pri-

ma mai e lo persuase la bella vista dal respirare l’aria

più vasta e salutare e sorridere ai mattinieri che incon-

trava.

Con la cartella stretta al braccio, egli passeggiava per

conoscere il suo primo lettore.

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Incontrò una cameriera e la zittella: la prima era

occupata e la seconda nulla aveva da fare, ma quanto

s’affannava! Incontrò un pensionato e uno che niente

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aveva di cui occuparsi: il primo non aveva tempo perché

lo passava dedicandolo a un’attesa, e il secondo l’aveva

ma attendeva che qualcos’altro lo occupasse.

Incontrò il postino e il farmacista: il primo aveva da

consegnare dei pacchi che aveva prima da raccogliere e

catalogare, e il secondo la prese così sul personale che

cercò vendergli qualche vitamina per rifarsi del pallore.

Incontrò lo scolaro con un passante: fuggì prima di ri-

spondere il passante; rise lo scolaro di chi fuggì e derise

chi alcunché domandò.

A non uno sembrava interessare la lettura, o forse il

problema stava nell’inedito...

Egli perse un po’ gusto a cercare un lettore. Ma non

appena lo deglutì, vide in fondo alla strada una donna

che gli parve un angelo mai veduto.

Non bastarono i lunghi passi per raggiungerla, allora

ne feci anche di brevi e apparve a quell’angelo mentre

stava per andare. Lo fermò e salutò, e vide che dietro lei

stava l’amico incontrato alla fontana. Mostrò alla don-

na la chiusa cartella contenente il suo tesoro, ma appe-

na venne rifi utata egli abbassò lo sguardo in cerca del

sostegno dell’amico, mentre disse quell’angelo lasciando

entrambi: “Arrivederci... io sono impegnata e lui è cieco”.

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Dopo tanti indaffarati, solitario si sedette tra i cipres-

si. Languido come chi non dorme o pigli il sonno come al-

cunché da rimandare, “Forse le vitamine avrebbero fatto

bene”, pensò.

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Fece una smorfi a alla bella vista ma questa la diede

indietro e ricordò allora ch’egli stesso non solo era custo-

de di quel tesoro, soprattutto il lettore che non altrove

avrebbe potuto trovare.

Poggiò sulle gambe la cartella contenente il suo capo-

lavoro e accarezzandola tra i palmi e le dita la contem-

plò: “Quanta disperazione, quante miserie accumulate

per questa sola piccola ricchezza! Quanti luoghi fi no a

questa Collina d’Oro! Quanti anni d’esercizi per la più

minuscola ispirazione!

Stanotte come in una morsa sentì sollevarmi! Non

feci in tempo neppure ad accendere la lampada! Era ar-

rivata! Tutti questi anni ed ecco quel bagliore! Quell’i-

stante! La grande lucidità! Che salute!

Neppure potei grattarmi il naso! Irritato dalla polve-

re che i fogli raccolgono... tanto il mio corpo era in balia

della vita intera... neppure mi permise starnutire!”

Rideva dalla gioia ora, felice e potente, per il supe-

ramento di sé e tutte le resistenze fi no a quella notte

incontrate.

Alzò lo sguardo al sole, le mani smisero di accarez-

zare quella ricchezza e si sollevarono per cogliere i suoi

raggi: “Quando stamane mi illuminasti per la prima

volta, avrei giurato fosse per ringraziarmi! Scusami! Mi

coprì gli occhi non per la tua grandezza... Non avrei po-

tuto reggere la vista di quanto appena scritto!” e riprese

la sua opera ancora celata per mostrargliela.

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Dove le muse sorridono, ora egli tace, poiché se le ve-

desse desidererebbe non vederle, vecchio com’è diven-

tato, che succederebbe se quelle gli screditassero quel

poco fatto fi no ad allora?

Non affaticherà l’occhio né affi lerà gli strumenti; non

scorgerà il loro volto né arderà per i loro nomi. Egli ha

riconosciuto questo: molti sono i volti che riguardano le

muse, molti di più sono i luoghi che abitano e tantissi-

mi sono coloro che le cercano. Ma con un nome soltanto

cercatori e muse si richiamano all’unisono: Impotenza.

Ispiratrice d’ogni cosa al mondo manufatta o spensie-

rata. Chi cerca una musa, scappa invero da quella.

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Per la prima volta aprì la cartella e aperta il cuore si

fermò.

Il sole non ringrazia nessuno per davvero. Quella not-

te, la penna non funzionò.