La favola di Latona di Orazio De Ferrari. Il ritorno di un capolavoro

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13 Il ritrovamento del dipinto dato per disperso A poche righe dall’incipit della monografia che Piero Donati ha dedicato a Orazio De Ferrari nel 1997 1 a oggi l’unico catalogo ragionato sull’opera del pittore genovese, sebbene dopo una ventina d’anni da quel la- voro fondamentale sono state aggiunte a quel corpus diverse opere allora ignote agli studiosi 2 –, viene ricor- data la prima fonte coeva al De Ferrari 3 . Si tratta dei Raguagli di Cipro del poeta Luca Assarino, edito a Bo- logna nel 1642 4 e dunque con Orazio ancora in vita, trentaseienne 5 . Già nel primo paragrafo del volume di Donati, pertanto, viene ricordata la tela con Latona, esplicitamente menzionata e dettagliatamente descritta dal poeta 6 . Si poteva pensare che quel quadro fosse frutto della to- tale invenzione dell’Assarino e non realmente realizzato dal pittore. Piero Donati scrive infatti: “Non so se Ora- zio abbia mai realmente praticato questo soggetto” 7 . Il dubbio è comprensibile visto che, nonostante l’elogio dell’Assarino, non vi è menzione del quadro nella bio- grafia di Raffaele Soprani, redatta a pochi anni dalla morte del pittore e ritenuta del tutto attendibile. Con- sta di tre pagine molto ben argomentate. Ma, si badi, egli segnala solo opere in edifici pubblici 8 . Confidando viceversa nell’attendibilità dell’Assarino, e cioè ritenendo plausibile che quella menzione così pre- cisa non fosse frutto della sua fantasia poetica, ma ispi- rata dalla visione diretta del quadro, ci si augurava che il capolavoro riemergesse in qualche collezione. Così è stato nel 2005, quando gli antiquari madrileni Jorge Coll e Nicolás Cortés, dopo aver acquistato il di- pinto (fig. 1) 9 dalla collezione dell’Infantado, ossia pres- so i discendenti di Rodrigo Díaz de Vivar y Mendoza VII Duca dell’Infantado 10 , e avendone immediatamente rilevato la firma sul bastone a sinistra – “HORAT. FER- RAR. GENO” , la hanno pubblicata in un catalogo di opere della galleria, insieme anche ad altri quadri geno- vesi di diversa provenienza 11 . Elena De Laurentis, autrice della scheda in quel volu- me, ha ovviamente ricondotto subito alla tela citata nel Raguagli il capolavoro spagnolo 12 . Ma su questo si tornerà ancora. LA FAVOLA DI LATONA DI ORAZIO DE FERRARI. IL RITORNO DI UN CAPOLAVORO Anna Orlando

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Saggio di Anna Orlando, pp. 13-29

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Il ritrovamento del dipinto dato per dispersoA poche righe dall’incipit della monografia che PieroDonati ha dedicato a Orazio De Ferrari nel 19971 − aoggi l’unico catalogo ragionato sull’opera del pittoregenovese, sebbene dopo una ventina d’anni da quel la-voro fondamentale sono state aggiunte a quel corpusdiverse opere allora ignote agli studiosi2 –, viene ricor-data la prima fonte coeva al De Ferrari3. Si tratta deiRaguagli di Cipro del poeta Luca Assarino, edito a Bo-logna nel 16424 e dunque con Orazio ancora in vita,trentaseienne5. Già nel primo paragrafo del volume diDonati, pertanto, viene ricordata la tela con Latona,esplicitamente menzionata e dettagliatamente descrittadal poeta6. Si poteva pensare che quel quadro fosse frutto della to-tale invenzione dell’Assarino e non realmente realizzatodal pittore. Piero Donati scrive infatti: “Non so se Ora-zio abbia mai realmente praticato questo soggetto”7. Il dubbio è comprensibile visto che, nonostante l’elogiodell’Assarino, non vi è menzione del quadro nella bio-grafia di Raffaele Soprani, redatta a pochi anni dallamorte del pittore e ritenuta del tutto attendibile. Con-sta di tre pagine molto ben argomentate. Ma, si badi,egli segnala solo opere in edifici pubblici8. Confidando viceversa nell’attendibilità dell’Assarino, ecioè ritenendo plausibile che quella menzione così pre-cisa non fosse frutto della sua fantasia poetica, ma ispi-rata dalla visione diretta del quadro, ci si augurava cheil capolavoro riemergesse in qualche collezione.Così è stato nel 2005, quando gli antiquari madrileniJorge Coll e Nicolás Cortés, dopo aver acquistato il di-pinto (fig. 1)9 dalla collezione dell’Infantado, ossia pres-so i discendenti di Rodrigo Díaz de Vivar y MendozaVII Duca dell’Infantado10, e avendone immediatamenterilevato la firma sul bastone a sinistra – “HORAT. FER-RAR. GENO” −, la hanno pubblicata in un catalogo diopere della galleria, insieme anche ad altri quadri geno-vesi di diversa provenienza11. Elena De Laurentis, autrice della scheda in quel volu-me, ha ovviamente ricondotto subito alla tela citatanel Raguagli il capolavoro spagnolo12. Ma su questo si tornerà ancora.

LA FAVOLA DI LATONA DI ORAZIO DE FERRARI. IL RITORNO DI UN CAPOLAVORO

Anna Orlando

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2. O. De Ferrari, Filemone e Bauci, collezione privata

e materno, il piccolo Apollo. Accanto a lui la gemellaDiana (Artemide) mostra la ciotola d’acqua, motivodella discordia.La figura di Leto (per i romani Latona), era figlia del titanoCeo e di Febe, madre di Artemide e Apollo, è qui prota-gonista del mito narrato da Ovidio. Questo episodio cela una morale ben chiara all’osser-vatore seicentesco, legata al tema dell’avidità e del suoopposto in chiave cristiana, la carità. Le ricerche di Raf-faella Besta condotte in questa occasione hanno evi-denziato come il soggetto della Favola di Latona sia sta-to spesso associato a quello di Filemone e Bauci che èun episodio portato ad esempio di grande generosità.Lo stesso Orazio sappiamo aver realizzato un quadrocon questa iconografia, nella tela pubblicata da Donaticome ubicazione sconosciuta, e da me recentementerintracciata in una collezione privata (fig. 2)15. Si trattaanche in questo caso di una tela di grandi dimensioni(186 x 212 cm), non molto diverse da quelle della Fa-vola di Latona (193 x 261 cm), ma è difficile che si pos-sa trattare di un pendant16.Il fascino del soggetto, in ogni caso, è anche più generi-camente legato al tema delle metamorfosi, cioè delle tra-sformazioni e dei mutamenti. In epoca barocca, tuttociò che desta meraviglia è di per sé privilegiato, perchéconsentiva al pittore di inscenare una breve ma efficacepièce di teatro. Quel teatro che in questo brano di Orazioè così ben riuscito.

Il De Ferrari imposta la scena con sviluppo narrativo edunque svolto in senso orizzontale, secondo la tipica tra-dizione del naturalismo delle scuola locale, specie deisuoi contemporanei Giovanni Andrea De Ferrari, Do-menico Fiasella e Giovanni Battista Carlone, per ricor-darne solo alcuni, in cui domina la vena del racconto,rispetto alle più complesse e convulse composizioni deipittori della generazione successiva o comunque piùpropriamente barocchi, come per esempio il geniale Va-lerio Castello o il più giovane Domenico Piola. In questo dipinto, tuttavia, Orazio riesce a mantenere laconsequenzialità del racconto senza stemperarne il sensodrammatico. Non si tratta del pathos che vi avrebbe po-tuto infondere un artista che gioca su un diverso registroespressivo, come Gioacchino Assereto, ed è abbastanzaprossimo alla teatralità di altri, per esempio del Fiasellanon a caso anch’egli molto amato dai poeti, ma la tavo-lozza cupa, tipicamente genovese, conferisce lo stessoun’indubbia drammaticità alla scena. Inoltre, un ruolodeterminante lo hanno il numero e la monumentalitàdelle figure. La dimensione delle figure rispetto all’ambientazionescenica è molto diversa in questa versione della Latonadal modo in cui è risolta da alcuni genovesi prima di luio all’incirca negli stessi anni, come Sinibaldo Scorza oAnton Maria Vassallo, sui quali si veda quanto osserva

1. O. De Ferrari, La favola di Latona, Milano, collezioneGiorgio Baratti

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Analisi iconografica Forse anche a causa della selezione operata dal Soprani,sono assai più rare rispetto alle tele religiose le opere diOrazio di tema profano13. In questo ambito, tuttavia, LeMetamorfosi di Ovidio da cui è tratto l’episodio di Latona,qui mirabilmente interpretato e narrato, è certamente unodei testi favoriti.Il dipinto rappresenta l’episodio del libro VI, secondo cuiLatona, con i divini gemelli Apollo e Diana avuti da Giove,per sfuggire all’ira di Giunone, giunge dopo un lungo pe-regrinare in Licia e, stremata dalla calura, si avvicina a unlaghetto per attingervi acqua fresca da bere. È allora chealcuni contadini intenti a cogliere giunchi glielo impedi-scono, rendendo torbida l’acqua. Allora Latona, dopoaverli supplicato invano di concederle di bere, li puniscetramutandoli in rane14.Sulla destra, Latona alza le braccia al cielo e pare sentirlepronunciare la sua maledizione: “Che possiate vivereper l’eternità in questo stagno” (“impii agricolae, quiamiserae matri misericordiam non adhibuistis atque filiismeis aquam denegavistis, abhinc in huius paludis aquisripisque!”). Intanto stringe a sé, con un gesto protettivo

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cielo per domandar vendetta ed essi intanto rimaneanoa poco a poco tramutati in rane.Era indicibile vedere con quale stupenda maestria haveala mano operatrice saputo esprimere gli affetti della Dea,e la confusione di quei malnati. Con quale industria in unsolo individuo havea moltiplicato l’essenza di due diffe-rentissimi animali, e con qual ingegno, inserendo in uncollo umano il capo d’una bestia, gli era riuscito il dinudaraltrui un piede, e calzarlo colla zampa d’un mostro acqua-tile. Non si poteva a pieno lodare la dispositione delle fi-gure, l’attitudine delle membra, il dissegno, il colorito e ’lrilievo di tutta l’historia”17.

Così il genovese Luca Assarino descrive proprio questodipinto nel ventitreesimo dei suoi Raguagli del regno diCipro. Conoscendo oggi il dipinto abbiamo ulteriore con-ferma del fatto che alcuni capolavori dei coevi pittori ispi-rassero i poeti e letterati per le loro composizioni18.Il “re” a cui la grande tela fu mostrata è ovviamente fruttodi un’invenzione letteraria dell’Assarino che immagina ilfantasma di “Gostavo Rè di Svetia” (morto nel 1632), ilquale “fà la sua entrata solenne in Amathunta” (immagi-naria città dove ha sede il regno di Venere) “ove ricevutodalla Maestà di Venere con molto affetto, gli viene da essamostrata la sua Galeria” ... “favore fin’hora non fatto adaltri, che al gloriosissimo Carlo Quinto, quando passò inquesto Regno”.Lì Gustavo vede “gioie, pitture, statue, metalli, capricci, edi stravaganze... così grandi, & ammirabili, che non v’halingua, che agevolmente gli potesse esprimere”. La narra-zione prosegue descrivendo alcuni quadri che suscitanoparticolare ammirazione del sovrano, fino alla “ultima fa-tica del pennello”, che è proprio il quadro della Latona.

Il fatto singolare è che i quadri descritti prima sono riferitinell’iperbolica attribuzione del letterato vuoi a Zeusi, vuoiad Apelle o Aristide, mentre per il nostro si legge: “On-d’esclamando Gostavo come astratto interrogò la Regina,chi era l’Autore di così mirabil opra. Fugli da essa rispostoch’era un Genovese chiamato Oratio de’ Ferrari, la cui abi-lità nel dipingere crescea così stupenda, ch’ella l’havea conogni ragione stimato degno tra alcuni altri c’hoggidì vi-vono al Mondo, d’esser posto nella sua Galleria”19.Nella quadreria della dea della bellezza, Orazio ha l’onoredi primeggiare, nell’olimpo degli altri autori di notorietàe fama eterna. Un intreccio di sillogismi che sono un elo-gio davvero singolare e appassionato per il pittore e per ilquadro.L’intento encomiastico e diciamolo pure anche il campa-nilismo dell’Assarino proseguono oltre, dove si legge: “Fùgrandemente encomiato dallo Sveco il Ferrari, e dicendo,che molto bene havea prima d’allora inteso che la miglio-re scola di Pittura che fiorisca al presente in Italia, sia quel-la di Genova; Venere per confermar la sua opinione glimostrò alcun’altre cose del Sarzana, e del Borzone”, non

3. O. De Ferrari, La favola di Latona, Milano, collezioneGiorgio Baratti, dettaglio

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Raffaella Besta nel suo saggio in questo volume. Nelle lo-ro prove si capisce che il pittore rimane imbrigliato nel-l’esigenza narrativa e poco concede all’approfondimentodei sentimenti, emozioni, sensazioni vissute dai protago-nisti della storia. È invece questa profonda umanità dellefigure (figg. 3-4) nel nostro capolavoro di Orazio che lorendono superiore a tante altre sue prove.L’evento viene colto al culmine del suo accadere e vedecontrapporsi all’eroica Latona i beceri contadini sulla si-nistra. Sono attoniti e spaventati perché uno di loro, alcentro, sta già per trasformarsi in rana (fig. 5). La con-trapposizione è giocata da Orazio con gli strumenti delpittore: innanzi tutto il colore. Si noti la diversità tra ilcandore dell’incarnato della donna a differenza della pellescura di questi uomini rudi. Si noti come Latona volgalo sguardo in alto – verso i valori che trascendono le mi-serie della terra – e come gli amici di Ulisse siano invecechini verso terra.

La menzione dell’Assarino“Fu mostrata al Re una tela ove si vedeva Latona che, ol-traggiata nell’acqua da alcuni villani, alzava gli occhi al

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5. O. De Ferrari, La favola di Latona, Milano, collezioneGiorgio Baratti, dettaglio

meglio specificate, e poi alcuni ritratti in miniatura diGiovanni Battista Monti, un pittore che, a differenza deiprimi tre, il tempo ha completamente gettato nell’oblio20.

Il testo dell’Assarino, infine, fornisce anche le indicazionicronologiche dell’arco temporale entro cui circoscriverel’esecuzione della Latona, dipinta tra il 1632, anno dellamorte del Re di Svezia che costituisce a sua volta un postquem per i Raguagli dell’Assarino, e il 1642, anno di edi-zione di questo testo in cui è descritto il quadro.

La provenienza spagnolaAltri indizi per una corretta lettura dell’opera e della suacronologia giungono dai dati di provenienza che ha pre-cisato Piero Boccardo in occasione di questo studio ap-profondito sul capolavoro di Orazio.Innanzi tutto va notata sia la presenza della firma, noncosì frequente per il De Ferrari, sia, soprattutto, l’indica-zione della città natale accanto al nome del pittore. Comeaccade ad altri genovesi che lavoravano molto fuori cittào per committenze forestiere – e penso al Grechetto e alPodestà, per esempio – il nome della città è un indizio delfatto che l’opera fosse stata realizzata altrove, o comunque

4. O. De Ferrari, La favola di Latona, Milano, collezioneGiorgio Baratti, dettaglio

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che qui si pubblica (fig. 6) reca la data 163621. La criticaha ipotizzato per questo lasso temporale viaggi di studio,a Napoli e a Roma (dove l’Assereto va nel 1639, allievoanch’egli dell’Ansaldo sebbene prima di Orazio, nel1618-22 circa). Là erano le scuole pittoriche che rappre-sentavano le fonti più genuine alle quali abbeverarsi perconoscere il caravaggismo nella versione di più stretta os-servanza e in quella tenebrosa del Ribera (1591-1652), aNapoli già dal 1616. Questi, come noto, era in stretto con-tatto con la committenza genovese e in particolare quelladi Marcantonio Doria22, ed era quindi noto ai giovani pit-tori della Superba indipendentemente da un viaggio nellacittà partenopea, che tuttavia resta plausibile. Il legameforte tra Napoli e la Spagna, dove riteniamo che la notaLatona sia giunta molto presto, era tale che un viaggio inquella città possa aver favorito al pittore contatti con qual-che spagnolo. E mentre mi trovo a formulare queste ipo-tesi, altri indizi trovati da Piero Boccardo aiutano a ren-dere sempre più solida la “pista spagnola” per questa La-tona e anche per una sua cronologia negli ultimi anni delquarto decennio23.

Come si è ricordato, il dipinto è riapparso presso la Gal-leria Coll&Cortès di Madrid che lo aveva acquistato nellacollezione dell’Infantado, ossia presso i discendenti di Ro-drigo Díaz de Vivar y Mendoza VII Duca dell’Infantado.Questo nobile, di una delle più antiche casate spagnole,legato in parentela alla dinastia di Filippo IV, è da questinominato ambasciatore e suo rappresentante in Italia nel1649. In quell’anno arriva a Roma e qui risiede, in PalazzoMonaldeschi, per poi essere nominato viceré del Regnodi Sicilia. Nel 1656 torna in Spagna. È nota la sua attività collezionistica durante il soggiornoromano e i nomi di artisti moderni e contemporanei pre-senti nella sua raccolta − da Raffaello a Tiziano, da Bassanoa Guercino, da Giulio Romano ad Andrea del Sarto e Gui-do Reni a Pietro da Cortona e Battistello Caracciolo – chelascerebbero ipotizzabile l’acquisto da parte sua dell’operadel De Ferrari. In realtà, le fondamentali ricerche di PieroBoccardo condotte in questa occasione hanno chiarito chenon si deve a lui la committenza dell’opera, che non risultaab antiquo in quella raccolta, bensì quasi certamente al con-te di Monterrey, di passaggio a Genova nel febbraio del163824. A ulteriore conferma di questa ipotesi, Boccardo harintracciato nell’inventario madrileno della raccolta delconte di Monterrey redatto nel 1654 “un quadro grande deuna fabula con una muger, dos ninos y un hombre con-bertido en rrana”, che risulta ben difficile a questo puntonon collegare al nostro quadro. Si noti, in aggiunta, cheproprio negli anni in cui Orazio De Ferrari non è docu-mentato a Genova, ossia tra l’inverno del 1634 e l’estate del1637, e nei quali abbiamo quindi ipotizzato un viaggio aRoma e a Napoli che spiegherebbero la sua maturazionestilistica, sappiamo che il conte di Monterrey era nella cittàpartenopea con funzioni di Viceré25.

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avesse una destinazione in una altra città italiana o addi-rittura all’estero. Nel caso specifico di Orazio De Ferrari,sappiamo dalla puntuale ricostruzione che restituisce inquesto volume Agnese Marengo, che la sua presenza a Ge-nova è documentata fino al 15 ottobre 1634, giorno delbattesimo del figlio Andrea, e il 25 agosto 1637, anno incui riceve un pagamento dalla confraternita di Sant’An-tonio Abate di Mele, nell’entroterra della natia Voltri. Cosa ne è del pittore tra l’inverno del 1634 e l’estate del1637? Che continuasse a dipingere ne abbiamo certezza,visto che il San Francesco in estasi della collezione Terruzzi,

6. O. De Ferrari, San Francescoin estasi, datato 1636,collezione Terruzzi

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7. O. De Ferrari, Ratto delleSabine, Genova, collezioneZerbone

8. O. De Ferrari, Erminia fra i pastori, collezione privata

9. O. De Ferrari, La cattura di Sansone, Ascoli Piceno,Pinacoteca, 177 x 229 cm

indugiare, dopo il primo impatto di stupore e meraviglia,sulle singole figure. L’effetto dinamico nella Latona di Orazio si limita alladiagonale impostata al centro della scena dalla figura cheapre le braccia, una verso il cielo e l’altra, con la manoin piena trasformazione, verso terra. Ma le figure, paionoposare per noi, e anche l’assenza di una vera e propriascansione dei piani, come si vede invece nel Ratto delle

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Analisi critico-stilistica e conclusioni Le considerazioni in base allo stile, precedenti il forte in-dizio di committenza al 1638 fornite da Piero Boccardo,portano significativamente alla stessa ipotesi di cronolo-gia. Non mi pare privo di significato sottolineare che le ri-cerche condotte da Boccardo e da me, sui diversi piani,documentario il suo, stilistico il mio, si siano svolte in mo-do parallelo e solo alla fine, confrontandole, se ne sianoappurate le analoghe conclusioni.

La fama del pittore è alla fine degli anni Trenta in decisacrescita, fino a scavalcare i confini regionali e nazionali.Conferma ne è il documentato favore da parte di Ono-rato II Principe di Monaco che lo nomina “Cavaliere del-l’Ordine di San Michele” il 17 novembre 165226, e che glicommissiona molte opere, in parte rintracciate e in partedisperse27.Gli anni subito prima e subito dopo il 1640 costituisconoper Orazio De Ferrari un momento particolarmente pro-pizio e di fervente attività, scandito da opere firmate e da-tate (laddove in precedenza firme e date sono quasi ine-sistenti), e caratterizzato dall’alternarsi di soggetti sacri eprofani, commesse pubbliche e incarichi di quadri perprivati. Siamo, cioè, davvero nel pieno della sua maturitàartistica.Datato al 1640 si conosce il Ratto delle Sabine di Collezio-ne Zerbone a Genova (fig. 7), un capolavoro di grandeimpatto scenico e di esuberanza coloristica memore diRubens e Van Dyck, che potrebbe seguire di poco la nostraLatona. Piero Donati, che per primo pubblica il Ratto delleSabine e a cui si deve anche il rinvenimento della firma28,lo accosta per cronologia e stile a una bella Erminia fra ipastori (fig. 8), che è vicina stilisticamente anche alla no-stra tela, seppur meno complessa. Dal 1640, la critica sottolinea l’acquisizione di grande fe-licità pittorica per il De Ferrari: “Da questo momento inpoi, questa capacità di coniugare splendore materico e ri-gorosa coerenza spaziale connoterà sensibilmente la pit-tura di Orazio, conferendole un’intima originalità”29. È il “raggiungimento della piena maturità” a cui segue unaproduzione di “altissimo livello medio”. E Donati prose-gue: “Orazio può adesso cimentarsi con tutta tranquillitàcon le composizioni più affollate, come le due Storie diSansone”, l’una ad Ascoli Piceno (fig. 9), l’altra alla BobJones University di Greenville negli Stati Uniti, forse partedi una stessa serie peraltro documentata30. Per impatto di-mensionale e scenico questi due grandi dipinti sono cer-tamente i più vicini al nostro capolavoro, ma forse impo-stati, oltre che sull’effetto della “folla” di figure, sul loro di-namico, quasi vorticoso movimento sulla scena. Cosa cheavrebbe potuto fare anche con un soggetto come Latona,come dimostrano le interpretazioni fornitedai più giovani – e più barocchi – Domenico Piola e Gre-gorio De Ferrari31. Orazio preferisce invece proporre lascena come a rallentatore, come se invitasse chi guarda a

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11. O. De Ferrari, San Gerolamoe le trombe del giudizio,collezione privata, dettaglio

rolamo (fig. 11 e tav. 4) le cui condizioni conservativeottimali consentono un giudizio senza riserve, si noterànella Latona una maggior morbidezza che potremmodefinire più vandichiana, rispetto alla pastosità di ma-trice rubensiana – che adotta Strozzi per intendersi – ealla solidità conferita dalla luce nelle opere dei caravag-geschi. Nel modo in cui è trattato il corpo del santo sen-tiamo più vicine le influenze del caravaggismo di strettaosservanza da un lato e della lezione ansaldiana dall’al-tro, come accade per i corpi solidi, ben saldi nel rigoredisegnativo che li ha costruiti, delle due straordinariecomposizioni con il Martirio di Sant’Andrea e il Marti-rio di San Biagio, che qui si pubblicano (figg. 12-14 etavv. 7-8)33.

10. O. De Ferrari, Ecce HomoGenova, collezione Zerbone

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Sabine, rende il tutto più lento e cadenzato, lasciandoche ci si concentri, appunto, sulle figure.Di loro offre una ricca campionatura di fisionomie edespressioni, come Orazio si dimostra capace di fare anchein altre occasioni. Si guardi per esempio lo straordinarioEcce Homo sempre in collezione Zerbone, tra le più belleredazioni di questo soggetto (fig. 10).Si confrontino anche le quattro figure nella parte sinistradella Erminia tra i pastori, tra i brani più simili alla varietàdi figure nella Latona. Per il gruppo di uomini sulla sinistra nel quadro di Latona(fig. 3), valgono le stesse parole usate da Donati a propo-sito dell’Erminia, dove “Orazio si dimostra imbattibilenell’indagine infinitesimale dell’epidermide maschile; eglilavora il colore come se fosse cera, prestando la massimaattenzione alla morbidezza ed alla continuità della pen-nellata, sì da ottenere la massima varietà luministica conil minimo di materia cromatica”32. E se ci concentriamo proprio sui corpi maschili (fig. 3),e lo si confronti per esempio con il bellissimo San Ge-

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14. O. De Ferrari, Martirio di sant’Andrea, Ginevra, Rob Smeets Gallery, dettaglio

12. O. De Ferrari, Martirio di sant’Andrea, Ginevra, Rob Smeets Gallery, dettaglio

13. O. De Ferrari, Martirio di san Biagio, Ginevra, Rob Smeets Gallery, dettaglio

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Dal punto di vista del ductus e complessivamente dellostile, mi pare che le opere più vicine alla nostra Latonapossano essere, oltre all’Erminia, alcune pale che si pos-sono datare con precisione al 1638 e 1639, ambito crono-logico in cui tutto sommato credo vada circoscritta l’ese-cuzione del nostro capolavoro. Si vedano cioè la Madonnacol Bambino e i santi Cosimo e Damiano di Albenga, data-bile al 1638, e la Madonna col Bambino e i santi AntonioAbate e Antonio eremita di Loano34. La Vergine assume làuna monumentalità e una certa aurea classica che qui ve-diamo nella figura di Latona (fig. 15); i bambini sono dav-vero simili ai nostri piccoli Apollo e Diana (fig. 4). È forse questo il primo quadro di Orazio di grandi di-mensioni che non sia una pala d’altare. La dimensioneda parata e la tematica profana potrebbero essere statiadottati qui dal pittore per la prima volta, subito primadel Ratto delle Sabine e qualche anno prima delle impor-tanti tele con le Storie di Sansone già ricordate e Venerenella fucina di Vulcano e Apollo e Marsia più mature35.

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3 Donati 1997 cit., p. 9.4 L. Assarino, Raguagli di Cipro, Bologna, Monti e Zenero, 1642.5 Per un profilo biografico aggiornato e ragionato cfr. il saggio di A. Ma-rengo in questo volume.6 Cfr. oltre e il saggio di S. Morando e F. Vazzoler in questo volume. 7 Donati 1997 cit., p. 12.8 R. Soprani, Le Vite de’ Pittori, Scoltori et Architetti Genovesi e de’ Fora-stieri che in Genova operarono…, Genova 1674, pp. 219-221.9 L’opera misura 193 x 261 cm ed è di proprietà dell’antiquario GiorgioBaratti che qui si ringrazia.10 Ringrazio Jorge Coll e Nicolás Cortés per avermi mostrato l’opera nel2005 e per avermi informato sulla provenienza. Sulla provenienza deldipinto e altre informazioni su quella raccolta cfr. il saggio di P. Boccardoin questo volume. 11 Ringrazio Elena De Laurentis per aver condiviso con me il lavoro dischedatura delle opere genovesi per quel volume.12 E. De Laurentiis, Orazio de Ferrari: Latona convierte en ranas los Cam-pesinos de Licia, in Maestros del Barroco europeo, Madrid, Coll&Cortés,2005, cat. 25, pp. 84-86.13 Cfr. G. Biavati, Orazio De Ferrari: inediti di tema profano, in “La Casa-na”, 2-3, 1993, pp. 84-93.14 Ovidio, Metamorfosi, VI, 137-318.15 Ringrazio Guido Sgroi della segnalazione. 16 La tela con Filemone e Bauci non mostra segni di riduzione ai lati.17 Assarino 1642 cit., e altre considerazioni nel saggio di Morando e Vaz-zoler in questo volume. 18 F. Vazzoler, “…Anche dagli scogli nascon pennelli…”: Luca Assarino e ipittori genovesi del Seicento. Le dediche degli Argomenti dei Giuochi di For-tuna, 1655, in “Studi di Storia delle Arti”, 7, 1991-1994, pp. 35-62.19 Assarino 1642 cit., p. 167.20 Su Monti cfr. Orlando 2001 cit., p. 20; A. Manzitti, Luciano Borzone1590-1645, Genova 2015, p. 31.21 Cfr. la scheda 43 di chi scrive in appendice al volume.22 A scanso di equivoci, si precisa che la famiglia di Marcantonio Doria(e di suo fratello Agostino) ha un legame molto lontano, come mi con-ferma Piero Boccardo che ringrazio, con quella del Carlo Doria di Am-brogio a cui sono dedicati i Raguagli dell’Assarino e che compare comedebitore di Orazio nel testamento del pittore del 1657, come mi segnalaAgnese Marengo, che parimenti ringrazio, e che quindi fu molto pro-babilmente un suo committente. 23 Cfr. il contributo di P. Boccardo in questo volume e le considerazionistilistiche di chi scrive oltre nel testo.24 Rimando al fondamentale contributo di Piero Boccardo in questo vo-lume. 25 Cfr. ancora per precisazioni e bibliografia il saggio di Boccardo in que-sto volume.26 Cfr. Marengo in questo volume.27 Cfr. Zennaro 2007 cit.28 Donati 1997 cit., pp. 39-43, fig. 34 pp. 40-41.29 Donati 1997 cit., p. 87.30 Donati 1997 cit., catt. 55-55 e da ultimo P. Boccardo in Le segrete pas-sioni. La collezione di Antonio Ceci fra Ascoli Piceno e Pisa, catalogo dellamostra a cura di S. Papetti, Ascoli Piceno 2007, pp. 90-91.31 La piccola tela di Gregorio De Ferrari è nota da tempo (cfr. da ultimoP. Ciliberto in Le metamorfosi del mito, catalogo della mostra di Genovaa cura di M.A. Pavone e L. Magnani, Milano 2003, p. 202; il foglio diPiola è conservato al British Museum di Londra, Dept. Prints and Dra-wings (inv. 1950.11.11.36) mi è stato segnalato da Raffaella Besta in oc-casione del presente lavoro. Entrambi sono illustrati nella pagine del suosaggio in questo volume (figg. 14 e 13).32 Donati 1997 cit., pp. 42-43.33 Cm 192,4 x 140,3; cfr. le relative schede 23-24 nel catalogo in questovolume. 34 Ill. in Donati 1997 cit., figg. 38 e 39 pp. 44-45. 35 Biavati 1993 cit. e Donati 1997 cit., catt. 102-103.

15. O. De Ferrari, La favola di Latona, Milano, collezioneGiorgio Baratti, dettaglio

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Non si dimentichi che il 1638 è una data cruciale per lacarriera di Orazio, perché è allora che muore l’Ansaldo,suo maestro e suocero. Quindi questo essere pienamentese stesso che constatiamo in queste opere eseguite alla finedel quarto decennio si può spiegare con l’avvenuta ma-turità e piena emancipazione di un pittore trentenne opoco più, spavaldo e sicuro di sé come la sua età gli con-sentiva di essere, ma soprattutto come gli fu offerto dallevicende personali legate al suo talento, e quelle più gene-rali di una Genova in quel momento trionfante, gloriosaed effervescente.

1 P. Donati, Orazio De Ferrari, Genova 1997.2 Aggiornamenti con consistenti aggiunte di inediti in T. Zennaro, L’at-tività di Orazio De Ferrari per Onorato II Principe di Monaco in GenuaTempu Fà. Dipinti e pittori attivi a Genova tra Seicento e Settecento e re-lazioni artistico-culturali tra la Repubblica Ligure e il Principato di Mo-naco, catalogo della mostra di Monaco a cura di T. Zennaro, Bordighera1997, pp. LIII-LXXXIX; A. Orlando, Ritrattisti genovesi del Seicento. ‘Pun-ti fermi’, aggiunte e precisazioni, in “Paragone”, terza serie, 36 (613), marzo2001, pp. 18-38, tavv. 15-42; A. Orlando in Dipinti genovesi dal Cinque-cento al Settecento. Collezione Koelliker, a cura di A. Orlando, Torino 2006,pp. 92-93, 175-178; A. Orlando, Dipinti genovesi dal Cinquecento al Set-tecento. Ritrovamenti dal collezionismo privato, Torino 2010, pp. 100-101.Per altre aggiunte già registrate dalla critica e non pochi inediti, si vedal’appendice con un ampio catalogo di una sessantina di opere stilato dachi scrive in questo volume (con relativa bibliografia).