III Dalla letteratura italiana alla letteratura degli italiani · sull’arte preconizzando un...

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III Dalla letteratura italiana alla letteratura degli italiani

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Dalla letteratura italianaalla letteratura degli italiani

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Letterature e lingue

La cultura romantica Nella storia del vecchio continente unevento politico importante fu certamente la realizzazione degli Statinazionali; un risultato della borghesia europea che si era convinta acontinuare, sulla scia della cultura romantica, la linea di alcuni fon-damentali principi settecenteschi di libertà, indipendenza e di autode-terminazione dei popoli. Lo storicismo romantico, infatti, aveva elabo-rato proprie idee sull’individuo, sulle nazioni, sul diritto, sullo Stato,sull’arte preconizzando un progresso continuo e costante dell’uma-nità. Un progresso lineare, non però nel senso delle «magnifiche sortie progressive» così esemplarmente censurate dal Leopardi, tuttaviaprogresso, soprattutto nel campo della convivenza civile, sulla base diuna conoscenza meno generica della condizione dell’uomo inseritonel complesso quadro della natura, progresso della scienza del cuoreumano e, dunque, della felicità possibile. Il sogno del resto non eranuovo. Era stato portato all’attenzione degli europei dalle relazioniche i missionari, partiti per evangelizzare il nuovo mondo, mandavanoalle loro case generalizie per rendere conto delle condizioni di vita de-gli indigeni, fossero essi della Nuova Caledonia, del nuovo Messico odell’Amazzonia. Fu un’approccio per certi versi inedito, non privo dicontraddizioni, che tuttavia poneva in termini nuovi il problema delladiversità culturale, soprattutto nel Settecento, quando cioè la strutturadella ricezione era orientata dalle filosofie sensiste piuttosto che daquelle razionaliste e la filosofia non ambiva ancora ai grandi sistemidel pensiero forte. Cominciò così quella riflessione antropologica cheappariva complementare, anche se opposta, alla visione classicisticadel mondo. Una riflessione che, ad esempio, non fu estranea alla for-mazione del giovane Leopardi che scorreva i libri di geografia dellabiblioteca paterna e che alimentò le profonde considerazioni sullacondizione umana e sul problema del piacere e della felicità (per altrodella sua produzione poetica esse costituirono quel nucleo di pensieroche tanto suscitò l’interesse di Schopenhauer il quale, disincagliatosidalle secche della razionalità hegeliana, aprì la filosofia alle energie

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della fantasia e della creatività ed ai saperi antropologico-religiosi). Unpercorso questo che, dopo l’avventura positivista, approderà a quelneoromanticismo che, solo da noi, fu chiamato «decadentismo», conuna connotazione negativa ripresa dalle ideologie progressiste dellaseconda metà del Novecento.

Oltre la visione eurocentrica Il Romanticismo, dunque, con lesue riflessioni sul linguaggio, sull’arte, sulla poesia e sulle nazioni posele basi per una rivalutazione dei diritti dei popoli, e non proprio e nonsolo di quelli occidentali, ma di quelli considerati dalla eurocentricaragione illuministica, meno civili, primitivi, e tuttavia destinati neltempo ad assumere sempre più coscienza della propria identità e delproprio ruolo nel complesso reticolo planetario. Basta riflettere per unattimo, tornando sul terreno letterario, ad alcuni punti fondamentalidel più noto manifesto del Romanticismo italiano: La lettera semiseriadi Crisostomo al suo figliolo del Berchet. Il nuovo pubblico viene cosìindicato: quello del passato, aristocratico e quindi elitario, costituitodal «parigino», quello borghese, protagonista del movimento roman-tico e risorgimentale per gli Stati nazionali, e quello primitivodell’«ottentotto», del selvaggio, che già si profilava all’orizzonte comeprotagonista della storia del secolo successivo. Il Romanticismo – daHerder a Umboldt a Kant – iniziò a mettere in crisi l’orgoglio e la su-perbia illuministica e ad aprire alla comprensione degli occidentali lavia ai grandi saperi antropologici e al pensiero mitico e religioso deipopoli primitivi. Un patrimonio culturale che andava compreso sulterreno dei suoi stessi valori e, semmai, confrontato col sapere occi-dentale.

Il «quarto stato» Tutti sappiamo che questa sorta di «quartostato» di cui è simbolo «l’ottentotto», il selvaggio, esisteva non soltantonelle colonie dei grandi Stati occidentali dei vari continenti, ma anchenelle piccole colonie interne dello stesso continente europeo. Universiantropologici che andavano considerati secondo gli stessi principi plu-ralistici (etnici, linguistici, estetici, politici e religiosi) con i quali eranostati considerati i popoli europei; semmai con un’attenzione maggio-re, poiché la «natura» aveva informato le loro culture. Occorrevaquindi non distruggere, non turbare quel grande e incontaminato

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patrimonio, meraviglioso nella sua spontanea organizzazione. Tutta-via fu chiaro dopo il penultimo conflitto mondiale – quello che con-cludeva i moti risorgimentali e decretava la fine dei grandi Imperi cen-trali, sovranazionali e coloniali – che la borghesia non dimostrava al-cuna intenzione di aprire al «quarto stato» e, prima di tutto, in Euro-pa. Proprio nel vecchio continente – dove la rivoluzione industrialeaveva creato nuovi e gravi problemi di libertà e di democrazia – il so-cialismo, alla fine dell’Ottocento, ricordava agli uomini l’importanzadell’autocoscienza e della solidarietà di fronte allo scatenarsi di dinami-che economiche non regolate. Per questo aveva incontrato una feroceopposizione nelle società liberali di fine secolo e in quelle del Nove-cento. Per altro la semplificazione della lotta di classe si dimostrò fun-zionale allo stesso disegno egemonico della borghesia. Invece d’imboc-care la via di un riformismo progressivo, infatti – più congeniale allanostra tradizione umanistica e storicista – si era imboccata la via dellarottura rivoluzionaria, che aveva allarmato soprattutto le buone co-scienze borghesi e le aveva rese insensibili, quasi anestetizzandole, difronte a soluzioni di segno opposto. Governare una democrazia indu-striale con masse in perenne stato di agitazione diventava troppo fati-coso per Stati ancora modellati su strutture istituzionali adatte persuffragi ristretti e non per suffragi di massa. Fu più comodo perciò la-sciare spazio ai regimi totalitari che gestirono il consenso con la re-pressione e con la violenza, lasciando ai tecnocrati il compito di go-vernare l’economia.

Il ritardo dell’Italia crociana Lo storico dell’arte Lionello Ventu-ri, fortemente interessato ai problemi della storiografia artistica, nelsuo fondamentale saggio Il gusto dei primitivi (1926), sostenne che inItalia, rispetto alle altre nazioni europee, la rivoluzione romantica nonaveva potuto esplicare a pieno la sua funzione. La ragione, a suo giu-dizio, stava nel fatto che quegli artisti (impressionisti, fauves, espressio-nisti, cubisti) che dopo la Secessione avevano messo in crisi i paradig-mi accademici e classicisti della pittura e dell’arte occidentale, nel no-stro paese, a differenza delle altre nazioni europee, avevano ottenutouna tiepida accoglienza. Gauguin, Van Gogh, Cézanne, Matisse, Pi-casso, infatti, con le loro concezioni estetiche avevano posto le pre-messe per una corretta lettura e una rivalutazione dell’arte dei popoli

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primitivi. E ciò in linea con le nuove teorie della percezione edell’antropologia. Questa nuova concezione estetica, che della culturaromantica ne era in un certo qual modo il risultato, andava inaugu-rando infatti la modernità (basti pensare al recupero dell’arte negraoperata da Picasso, al blues e al jazz recuperati da Gorge Gershwin,per comprendere la portata antropologica di questa rivoluzione). Fulogico e scontato che l’apertura che si era verificata in questo senso inItalia, sia pure in maniera confusa, per opera della Secessione e delleavanguardie, si richiudesse con la svolta moderata imposta alla culturadal fascismo. Il ritorno all’ordine produsse una ripresa della concezioneestetica classica di matrice crociana, favorendo nel sistema letterarionazionale, anziché un’inclusione, un’esclusione dei testi che risultava-no eccentrici o altri rispetto ai meccanismi di organizzazione del si-stema medesimo.

I paradigmi di una nuova scienza Nel dopoguerra gli scienziati,che avevano collaborato alle ricerche sull’atomo e sullo spazio, elabo-rarono i paradigmi di una nuova scienza. Questa, prodotto dell’ereditàcartesiana, iniziò, infatti, ad eliminare progressivamente l’euristica delluogo fondamentale di osservazione e a modificare la natura dei rap-porti classici di subordinazione, ai quali si erano sostituiti rapporti dicomplementarità, di concorrenza e di antagonismo. La scienza contem-poranea fu così «del generale e del particolare, dell’ordine e del disordi-ne, del necessario e del contingente, del ripetibile e dell’irripetibile».Inoltre, il venir meno dell’ideale regolativo del luogo fondamentale diosservazione condusse alla conclusione che non potesse esistere unmetapunto di vista rispetto al quale giudicare e rendere omogenee ledifferenze che intercorrevano fra i punti di vista, e tanto meno le lorocontrapposizioni. Queste differenze e queste contrapposizioni sono,infatti, irriducibilmente costitutive dei domini cognitivi dei punti di vistadati.

Per una intelligenza della complessità E tuttavia ancora oggipermane l’esigenza di coordinazione dei punti di vista in un discorsoche rinunci agli attributi di assolutezza e di neutralità per assumerequelli di storicità e di costruttività. Il problema non è più quello direndere omogenei e coerenti differenti punti di vista, quanto semmai

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quello di comprendere come punti di vista differenti si producano re-ciprocamente. Dinanzi alla perenne tentazione di rinchiudere il realein una struttura prestabilita (teorica o ideologica che sia), Edgar Mo-rin incita alla costituzione di un metodo della complessità che ci ri-chiede di pensare «senza mai chiudere i concetti, di spezzare le sferechiuse, di ristabilire le articolazioni fra ciò che è disgiunto, di sforzarcidi riprendere la multidimensionalità, di pensare con la singolarità,con la località, con la temporalità, di non dimenticare mai le totalitàintegratrici». La scienza ha progredito perché esiste una dialogicacomplessa e permanente, complementare e antagonista a un tempo, per-ché porta con sé l’idea che gli antagonismi possono essere stimolatorie regolatori.

Una nuova idea della democrazia Da tutto ciò ne deriva unaconcezione della democrazia che, per dirla con lo stesso Morin, «sibasa su di una regola mirante a salvaguardare la diversità» e a valoriz-zare e proteggere le minoranze. Mentre si diffondevano i presuppostidi questa nuova scienza, epistemologia, antropologia, fenomenologia,linguistica saussuriana, strutturalismo, semiotica, estetica, ermeneutica,segnavano in occidente una svolta negli studi letterari, tranne che inItalia dove ci si attardava su posizioni anacronistiche. Eppure nel no-stro paese erano state tradotte le opere di Wellek e Warren che tenta-rono di aprire orizzonti nuovi alla ricerca:

La nostra tendenza verso una teoria o verso una fenomenologia della creazio-

ne poetica ci ha reso disattenti al genere di rapporti in cui si colloca l’opera

letteraria nella sua qualità di comunicazione, di veicolo delle ideologie, di

rappresentazione di un dato mondo e di un data epoca, di direzione in una

certa misura, non soltanto del gusto, ma anche delle opinioni. Appare di una

sorprendente ironia, il fatto che la letteratura abbia preso ad isolarsi progres-

sivamente nella vita della società proprio quando prendeva impulso decisivo

il diffondersi dell’istruzione insieme con i mezzi più rapidi ed economici di

comunicazione; ciò significa che la letteratura ha scelto, se così si può dire,

un’altra strada e un’altra funzione, rinunciando alla più vasta influenza mo-

rale e sociale che aveva esercitato in altri periodi.

Queste parole di Contessi si riferiscono alla situazione italiana nel mo-mento in cui si dibatteva ancora il problema del modello storiografico

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desanctisiano che appariva, come evidente da queste parole, confermatoe superato dalle nuove problematiche della comunicazione letteraria.

Mondializzazione e multiculturalismo La scienza ha oggi, dun-que, strumenti precisi e affinati per studiare l’infinitamente grande el’infinitamente piccolo, per mettere in relazione e integrare microsiste-mi e macrosistemi. L’informatica, internet, la partecipazione telepla-netaria, realizzano oggi il villaggio globale di cui parlava McLuhan.Un villaggio attraversato da divisioni, unioni, amicizie e inimicizie.Come l’infinitamente piccolo, in fisica, rientra nell’infinitamente gran-de, e come la microstoria rientra nella grande storia, così la produzioneletteraria locale e la sua circolazione rientrano in una dimensione allar-gata e concentrica, tanto da costituire, di fatto, una mappa che coprel’intera pellicola comunicazionale terrestre. L’era planetaria, di cuiparlano scienziati, filosofi e antropologi, è realizzabile mediante unamondializzazione delle idee e della cultura. La decolonizzazione deglianni Cinquanta e Sessanta «ha fatto apparire sul proscenio del globoun miliardo e mezzo di esseri umani, fino ad allora relegatidall’Occidente nei bassifondi della storia. I due terzi del mondo, chechiamiamo terzo mondo, sono entrati nel mondo. Questa umanitàispira paura o compassione e le sue tragedie, le sue penurie, la suamassa ci spingono continuamente a relativizzare le nostre difficoltàeuro-occidentali, a mondializzare la nostra percezione e la nostra con-cezione delle cose umane. Di fatto, i problemi del terzo mondo (demo-grafia, alimentazione, sviluppo) sono sempre più sentiti come pro-blemi del mondo intero. Al tempo stesso e magrado tutte le rinnovatechiusure etnocentriche, l’era planetaria induce a riconoscere sia l’unitàdell’uomo che l’interesse delle culture che hanno diversificato questaunità. Sotto l’effetto della diffusione delle opere di antropologi comeLévi-Strauss, Malaurie, Clastre, Jauline, di documentari o film comeL’uomo di Aran, Ombre bianche, Nanook, Dersu Uzala, la visione cen-trata sull’Occidente, che considerava arretrati gli esseri umani dellesocietà non occidentali e infantili quelli delle società arcaiche, fa lenta-mente posto a una percezione più aperta che scopre la loro sagacia e il

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loro saper-fare, così come la ricchezza e le diversità inaudite delle cul-ture del mondo»82. La rottura dell’asse eurocentrico della cultura havalorizzato gli antichi saperi di popoli antichi che non sono stati per-meati dalla scienza occidentale. All’universo che, fino all’inizio delventesimo secolo era sembrato statico, Einstein ha tolto ogni centroprivilegiato. Anche se la cultura è riluttante e ancora resiste a rinun-ciare al suo carattere stabile e autosufficiente, sappiamo che la sua or-ganizzazione è frutto del caso e che ha avuto origine da una imperfe-zione e da una formidabile distruzione. È un universo che, come affer-mano gli scienzati, si organizza disintegrandosi. Non è facile accettarequesta condizione di perenne precarietà palesemente contraddistintada un suo sostanziale instabile equilibrio. Al contrario, la nostra educa-zione ci ha abituato a una sistematicità stabile, non dinamica, a crearecompartimenti, a separare, a isolare, non ci ha insegnato a collegare leconoscenze, a contestualizzare. Noi preferiamo considerarci al di fuoridel cosmo che ci circonda e della materia fisica di cui siamo costituiti.Non ci interroghiamo sul nostro destino che è appunto quello delcosmo di cui siamo parte. Morin ha scritto che non solo ogni parte delmondo fa sempre più parte del mondo, ma il mondo, come un tutto èsempre più presente in ciascuna delle sue parti. Questo si verifica nonsoltanto per le nazioni e i popoli ma anche per gli individui. A questacoscienza planetaria hanno indotto la minaccia nucleare, la formazio-ne di una coscienza ecologica, l’ingresso nel mondo del cosiddetto «ter-zo mondo», lo sviluppo e la mondializzazione dei processi economici eculturali. Se la nozione di civiltà include essenzialmente tutto ciò cheè universalizzabile (tecnica, oggetti commerciali, abilità, modi e generidi vita fondati sull’uso e il consumo di queste tecniche e oggetti), lanozione di cultura invece include tutto ciò che è singolare, originale,proprio di una etnia, di una nazione. La diffusione di questa civiltàgeneralizza nuovi modi di vita e di pensiero e crea alla fine una culturacosmopolita, dell’interdipendenza, dell’era planetaria. Il divenire cul-turale ha aspetti antagonisti: da una parte determina omogeinizzazio-

82 E. MORIN - A.B. KERN, Terra-Patria, Milano, Cortina Editore, Milano, 1994, 25 [Terre-Patrie, Paris, Editions du Seuil, 1993].

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ne, degradazione, perdite delle diversità; dall’altra, incontri, nuovesintesi, nuove diversità. Solo quando si tratta di arte, musica, lettera-tura, pensiero, la mondializzazione culturale non è omogeneizzante. Siformano, infatti, «grandi ondate transnazionali, ma che favorisconol’espressione al loro interno delle originalità nazionali. Così è stato inEuropa per il classicismo, l’illuminismo, il romanticismo, il realismo,il surrealismo. Le traduzioni da una lingua all’altra di romanzi, saggi,testi filosofici hanno consentito ad ogni paese di accedere alle opere dialtri paesi e di nutrirsi di cultura europea pur nutrendola attraverso leproprie opere»83. Questa nuova cultura mondiale, che raccoglie gliapporti originali di molteplici culture, è oggi confinata in ambiti anco-ra elitari e ristretti in ogni nazione; ma il suo sviluppo è stato un trattosignificativo della seconda metà del ventesimo secolo. Nel corso diquesto periodo i media hanno prodotto, diffuso e mescolato un fol-clore mondiale a partire da temi originali nati da culture differenti, tal-volta riportati alle origini, talvolta sincretizzati. Ha comunicato fin da-gli anni venti il cinema che veniva guardato con altezzoso sospetto fi-no a quando è stato riconosciuto come la settima arte. La formidabile«fabbrica dei sogni» ha creato i suoi generi. Le nazioni occidentali epoi quelle orientali hanno prodotto il loro cinema. La mondializza-zione culturale è evidentemente conseguibile con lo sviluppo dei modidi produzione (cassette, compact, video). Questa tendenza opera inpositivo e in negativo: porta distruzioni irrimediabili, massifica, omo-geinizza e standardizza le usanze, i cibi, i costumi, i viaggi, e generatuttavia, pur attraverso le frontiere nazionali, etniche e religiose, usan-ze costumi, generi di vita comuni che eliminano talora barriere di in-comprensione tra individui o popoli. All’antico substrato bioantropoli-gico che costituisce l’unità della specie umana si aggiunge ora un tes-suto di comunicazione, civile, culturale, economica, tecnologica, in-tellettuale, ideologica. Ormai l’umanità e il pianeta possono rivelarsinella loro unità, non soltanto fisica e biosferica, ma anche storica. Mi-grazioni e meticciati, produttori di nuove società polietniche, policul-turali, sembrano annunciare la Patria comune a tutti gli uomini. Tut-

83 Ivi, 26-7.

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tavia, nelle formidabili mescolanze di popolazioni non c’è sempre ve-ra integrazione, le forze di rigetto rimangono ancora molto forti. Sipuò dire, con Morin che la mondialità si accresce, ma che il mondia-lismo è appena agli inizi. In questo quadro, che può apparire forsetroppo ampio, il contributo che può venire dalla comunicazione lette-raria è centrale, anche se in ritardo e con difficoltà. Il problema delruolo delle produzioni locali e della loro circolazione va ricondotto inquesto ambito. Occorre mettere in relazione tra loro, in contesti sem-pre più allargati, le produzioni letterarie diverse e spesso lontane nellospazio geografico, per aprire al dialogo, alla comprensione reciproca eall’educazione alla multiculturalità.

La storiografia letteraria Siamo stati abituati, nella scuola nellaquale siamo stati allievi e in quella nella quale insegniamo o abbiamoinsegnato, a parlare di letteratura italiana come di una unità inscindi-bile e sacra, aulica e non popolare, che non ha localizzazione, non ha«radici», che aleggia come un corpo nuvoloso sulla Penisola e sulla Si-cilia, assai meno sulla Sardegna. Per di più, mai ci davano, o davamo,una spiegazione o un chiarimento, fossimo allievi o docenti, sui fon-damenti teorici sui quali poter definire la letteratura, la sua funzione ele sue finalità. La letteratura italiana veniva data in maniera assiomati-ca e in termini e secondo categorie concettuali che erano semmaiquelle del secolo in cui Francesco De Sanctis l’aveva costruita e orga-nizzata, fondandola sulla tradizione degli studi di erudizione letterariasettecenteschi, mediante un’immersione nella filosofia idealistica hege-liana per fornire alla nazione, che si avviava a divenire Stato, il segnodi una identità necessaria per saldare in un blocco unico il policen-trismo di piccoli stati e di relative letterature che le lotte risorgimentaliavevano finalmente unificato. Dietro la storia letteraria del De Sanctissi poteva intravedere immediatamente quella del Settembrini (le sueLezioni di Letteratura italiana furono pubblicate a partire dal 1866) eappena più indietro, magari quelle di Vincenzo Gravina o GirolamoTiraboschi, il cui equivalente sardo, se vogliamo, era la Storia lettera-ria di Sardegna del Siotto Pintor. Le storie letterarie successive a quelladel De Sanctis sono derivate, tutte, da quel modello ottocentesco. E gliscritti letterari del Carducci, per quanto decisivi e importanti per lacostante attenzione ai testi, non offrivano quel collante idealistico na-

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zionale che proponeva invece il De Sanctis. Benedetto Croce, proce-dendo sulla medesima linea di un universalismo astratto, non ritenevapossibile una storiografia letteraria ma solo monografie sui singoliautori. Mario Sansone, uno dei suoi più attenti seguaci, per ricavareda quei saggi un profilo storico della letteratura, aveva dovuto dispor-re in ordine cronologico i numerosi scritti letterari crociani. Si posso-no citare i nomi di autori di ottimi e fortunati manuali, quello diFrancesco Flora, di Attilio Momigliano, dello stesso Mario Sansone esoprattutto di Natalino Sapegno che, avendo scritto il volume, Il Tre-cento, della grande storia letteraria d’Italia per secoli della casa editriceVallardi, avvertiva assai viva l’istanza storicistica. Riscrisse, infatti, perla nuova edizione del suo Compendio di storia della letteratura italiana,il paragrafo iniziale del primo capitolo, La poesia, modificandone iltitolo in quello di Poesia e letteratura, per adeguarlo meglio al secondomomento della riflessione estetica crociana. Questo lasciava final-mente spazio al concetto di ‘Letteratura’, un prodotto estetico nobile,ma non frutto della intuizione pura e perciò di secondo livello. Si ri-cordi che l’intuizione dava luogo alla espressione e quindi alla poesia;ma se l’intuizione non si identificava nella espressione, il prodottoestetico non esisteva: o poesia o non poesia, non si davano alternative.La riflessione crociana successiva, quella consegnata nel volume Lapoesia, degli anni Trenta, ammetteva che potesse esistere un prodottodi seconda scelta che era appunto la letteratura. Nel 1958 Sapegnopubblicò su una rivista della R.A.I., «L’Approdo letterario», un saggiofondamentale dal titolo: Prospettive della storiografia letteraria. Propo-neva una seria riflessione sulla concezione della letteratura diGramsci, divulgata negli anni in cui erano stati pubblicati i Quadernidal carcere e gli altri scritti, e sottoponeva a ulteriori revisioni la conce-zione storiografica ed estetica idealistica, aprendola alle conclusionidel criticismo americano, e soprattutto alle considerazioni teoriche diWelleck e Warren. Del 1965 è la monumentale Storia della letteraturaitaliana, in otto volumi, che Sapegno cura insieme a Emilio Cecchi.Nell’introduzione egli riconosce l’impossibilità per un singolo di do-minare una materia vastissima e inaugura una storia letteraria a piùmani, ma soprattutto riconferma, «l’improbabilità di dar fondamentodi scienza a una critica letteraria che non si identifichi in una storiadella letteratura intesa come storia della civiltà nella particolare pro-

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spettiva delle vicende letterarie, e capace di riassorbire nel sentimentoconcreto e individualizzante dei valori poetici l’indagine genetica delcomplesso e multiforme contenuto che in quei valori si configura co-me nei nuovi organismi e, mentre li determina, ne è a sua volta de-terminato nel suo progredire». Per questo Sapegno riteneva correttorealizzarla mediante un apporto collettivo coordinando «una com-plessa varietà di strumentazioni tecniche e di impostazioni metodolo-giche e mettendo a profitto le esperienze diverse e concordi di critici,filologi, storici della dottrina e della cultura». Altro assunto era quellodi superare con una conduzione collegiale, il dissidio e la separazionetra critica accademica e critica militante. La ricerca sviluppataall’interno di un clima culturale che si proponeva di dare risposte adesigenze più sensibili all’esperienza critica collettiva e che, come so-steneva Sapegno, tendevano ad integrarsi reciprocamente, era statadocumentata e sintetizzata nel volume curato da Maria Corti e CesareSegre, I metodi attuali della critica in Italia (ERI / Edizioni Radiote-levisione Italiana, Torino, 1970). Il volume presentava i singoli metodiche si erano affermati nella storia culturale dei decenni successivi aldopoguerra, anche, attraverso esposizioni esaurienti di specialisti di-versi (Cases, David, Raimondi, Beccaria, Isella, Pagnini, Segre, Eco)e, mediante una scelta di saggi, proponeva esempi delle applicazioni,delle nuove strade e dei nuovi strumenti della critica, che divenivadunque anche sociologica, psicanalitica, simbolica e storico-linguistica,stilistica e formalista, strutturalistica e semiologica. Proprio per questoSapegno aveva voluto segnalare l’esigenza di accedere a una strumen-tazione concettuale più aggiornata. Né a molto era valso, per com-prendere la necessità di giungere finalmente a una letteratura italianapiù confacente, il successo dei saggi raccolti nel volume di Carlo Dio-nisotti, Geografia e storia della letteratura italiana (1951). Mancò, ingenere, un ripensamento adeguato in questa direzione anche se, pri-ma nel 1963, poi, insieme con Walter Binni nel 1968, Sapegno avevapubblicato una Storia letteraria delle regioni d’Italia. Un ulteriore ri-pensamento vi era stato nello storico convegno sulle letterature regio-nali della Associazione Internazionale di Studi di Lingua e LetteraturaItaliana, ma con risultati parziali e poco entusiasmanti. Si cominciavaallora a citare sempre più spesso la concezione della geografia dellaletteratura di Dionisotti ma non si considerava ancora abbastanza

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come, dal punto di vista della produzione e della circolazione dei testiletterari, ogni territorio presentasse punti di intersezione che rivelava-no prodotti comunicativi e letterari in lingue diverse. Né che la comu-nicazione letteraria, sia nella sincronia che nella diacronia, avviene ed èavvenuta, oltre che in dialetto, spesso anche in altre lingue, nello stessoambito territoriale. Si è in genere tenuto conto assai più del produttoredi testi che non del destinatario e della circolazione culturale. Non si èutilizzato il concetto di sistema che consente di integrare i vari sistemie subsistemi linguistici e letterari in macro e micro sistemi.

Gli storici dell’arte Solo gli storici dell’arte andavano facendostudi più avanzati di quelli degli storici della letteratura perché si era-no posti pragmaticamente il problema di superare le difficoltà cheponeva la concezione estetica crociana. Venturi aveva tentato, tra iprimi, di risolvere, con La critica del gusto, il dilemma poesia e nonpoesia per approdare ad una possibile storiografia delle arti della visio-ne, cinema compreso. Corrado Maltese già nel 1960 aveva pubblicato,Storia dell’arte dal 1785 al 1943, dove affrontava il problema del rap-porto tra la cultura illuministica e il linguaggio neoclassico. Si ricordi,inoltre, che Venturi, che aveva una formazione europea, aveva teoriz-zato l’arte primitiva e aveva studiato e fatto conoscere i Primitivi se-nesi, mettendoli sullo stesso piano dei grandi dell’arte rinascimentale ebarocca. Il discorso dei primitivi, collegato al discorso della Secessionenelle arti e delle Avanguardie, gli aveva offerto la chiave per compren-dere l’arte contemporanea. Una chiave che chiariva il passaggio dalPositivismo al Simbolismo e il perché la cultura positivista si eraespressa nell’arte del Naturalismo, mentre la cultura post-positivistaaveva prodotto l’arte del Simbolismo e del Decadentismo tanto censu-rato e deprecato sia dai critici crociani che ideal-marxisti. La censura ela conseguente incomprensione critica dell’arte simbolista o decadentedalla quale scaturiscono – più che dal Futurismo – le avanguardie sto-riche, ci hanno letteralmente escluso dalla comprensione dell’arte delNovecento.

Gli alfabeti del mondo Sappiamo bene che grazie ai linguisti e aiformalisti si sono potuti precisare meglio nel Novecento i concetti dinatura, funzione e ruolo della comunicazione letteraria. Questi indirizzi

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di studio hanno permesso di riconsiderare e quindi di recuperare erivalutare tutte le lingue naturali, di studiare con maggiore competen-za i cosiddetti dialetti, le lingue delle minoranze e con esse le letteraturelocali e regionali. D’altra parte il discorso delle lingue e delle letteraturenazionali ha dovuto fare i conti con il policentrismo, il plurilinguismoe con le sterminate aree ispanofone, anglofone, francofone del pianeta.Per altro le delimitazioni e le differenze etniche – ormai ammissibili inun universo complesso come quello costruito dalle nuove scienze –hanno moltiplicato le varietà linguistiche in tutti i continenti; varietàcon le quali la comunicazione letteraria si è costantemente dovutamisurare. La libreria del Congresso di Washington, ad esempio, con-serva e classifica oggi testi in quasi cinquecento lingue. E queste sonodestinate ad aumentare perché la democrazia parla le lingue che par-lano i gruppi che la costituiscono. Anche perché ormai appare scon-tato che non basta un solo codice veicolare, ma occorrono più codici,più idiomi, anche se la lingua della comunicazione poetica, la più pro-fonda, resta preferibilmente e comunque quella materna, linguadell’emancipazione e del riscatto individuale e collettivo.

Il valore formativo della poesia L’ampliamento delle conoscenzein ogni campo del sapere ha portato, quindi, sostanziali modifiche neiprocessi cognitivi. Gli strumenti di ricerca si sono ulteriormente affi-nati, si sono aperti nuovi orizzonti e sono state riconosciute capacitàcognitive alle percezioni, alle emozioni e alla memoria del soggetto. Ilcontinuum delle voci dei poeti si salda così alla memoria dei singoli cherimettono in circolo il patrimonio custodito dai saperi delle varie cul-ture. La necessità di un ritorno alle radici si impone perché favorisce lacrescita dei singoli e delle comunità di cui fanno parte. Ciò implica ilrecupero del valore formativo della poesia e quindi del fare poesia inogni lingua di maggiore o minore prestigio. Il poeta locale, dialettale oneodialettale, utilizza la lingua delle origini e delle radici per comunica-re la propria esperienza della realtà contemporanea e lo fa con estremaconsapevolezza e libertà. Con la sua scelta egli intende testimoniare emarcare le differenze, farci avvertire la straordinaria ricchezza el’irriducibile diversità dell’alterità insieme all’irrealtà del presente,poiché lo sguardo all’indietro ha una funzione rassicurante e in partestraniante che aiuta a prendere coscienza dell’oggi.

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Una letteratura plurilingue Queste considerazioni implicano unaconcezione che conduce ad uno studio diverso della fenomenologialetteraria, che non può essere inclusa in modo semplice nei vecchitermini della storia della letteratura in una sola lingua ma, semmai, inquelli nuovi di storia della comunicazione letteraria, di uno studiocioè della produzione ma anche della circolazione dei testi letterari inuno spazio storicamente circoscritto e in situazioni complesse di plu-rilinguismo e di pluriculturalismo. Insomma qualcosa di assai diversoda quanto avveniva agli inizi dell’Ottocento quando, in conseguenzadella crisi linguistica del Settecento, si poneva il problema dell’italianoe della letteratura italiana come unico possibile indicatore dell’unitàdella nazione italiana. Allorché il Monti, nella sua Proposta di alcunecorrezioni e aggiunte al vocabolario della Crusca, additava appunto lavia mediana dell’italiano letterario aprendo la strada alla soluzioneadottata poi di fatto, con straordinario favore di consensi, dal Man-zoni. Una concezione della lingua e della letteratura italiana che noncorrispondeva a quella che aveva maturato nel frattempo l’Ascoli ilquale riteneva invece che ci si dovesse confrontare con la situazionereale dei dialetti e delle culture regionali. Come è noto la linea seguitadal Manzoni si è affermata e ha dominato quasi incontrastata, salvoqualche rottura, sul fronte del monolinguismo letterario, con i ripen-samenti di Pascoli e di Contini e fino all’avvento appunto della lin-guistica post-saussuriana. Già dalla lettera sull’Utilità delle traduzioniMadame De Staël aveva ammesso che la via maestra della comunica-zione non era quella in una sola lingua ma in più lingue attraverso latraduzione. Pareva prevedesse e riconoscesse, fin da allora, che la let-terarietà, cioè il sapere letterario, oltre che il risultato di un uso elabo-rato e sapiente della funzione poetica del linguaggio, è un sapere parti-colare che può essere impiegato nelle lingue che si padroneggiano.

La ricchezza dei dialetti Se questo è avvenuto nel passato e av-viene ancora per le lingue che hanno una tradizione scritta di grandeprestigio, lo stesso può avvenire anche per le lingue di minor prestigioche hanno una lunga tradizione orale (semmai con una tradizionescritta in continua crescita). Tutte gli idiomi, compresi i dialetti, han-no in sé un patrimonio di saperi che costituiscono il presupposto perla crescita culturale e civile di un popolo. Il processo di inculturazione

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che ha portato all’affermarsi delle lingue nazionali nel secolo scorso hamesso in crisi queste lingue e le conoscenze che esse veicolavano, e se illinguista, il dialettologo e il filologo, non le avessero studiate, il dannosarebbe stato enorme. In Italia il processo è stato poi ancora più fortee rapido, poiché solo sulla letteratura, che era poi il risultato di varie edistinte letterature, si poteva costruire una storia di nazione.

Verso una letteratura degli italiani De Sanctis aveva concepito lasua Storia della letteratura italiana su un presupposto teorico unifi-cante di matrice hegeliana che non ammetteva le differenze e che ten-deva a ridurre la complessità e le diversità delle varie letterature regio-nali e a superare la frammentazione delle storie letterarie erudite sette-centesche. Quell’operazione, determinante e produttiva allora, tantoda attraversare indenne la concezione estetica crociana e quella ideal-marxista successiva, appare oggi poco proponibile. Quel modello, oquei modelli, hanno prodotto una deriva elitaria che certo non ha gio-vato alla diffusione capillare della cultura e quindi della vita democra-tica della nazione ed è responsabile di quegli stessi effetti che Gramsci,per bocca di Ruggero Bonghi, stigmatizzava quando si poneva il pro-blema del perché la letteratura non fosse popolare in Italia. Si tratta,dunque, di chiarire un nodo teorico fondamentale che segna un passag-gio netto, davvero epocale, tra una concezione della letteratura italia-na monolitica e monolingue, propria della tradizione nazionalista otto-novecentesca, e una nuova concezione della comunicazione letteraria,aggiornata in base a una strumentazione critica e filologica moderna ein linea, da un punto di vista politico istituzionale, sia con la Cartaeuropea delle lingue e dei saperi, sia con le leggi nazionali e regionali chene sono derivate. Una letteratura quindi post-nazionalista e semmainazionalitaria, che discende dai filoni culturali della nostra tradizionestorica, federalista (Gioberti, Cattaneo, Tuveri per la Sardegna) e,pertanto, plurilingue cioè aperta ai dialetti e alle lingue minori. Unaletteratura fondata non solo sulla produzione ma anche sulla circola-zione e la ricezione dei testi nel territorio. Insomma un passaggio dauna considerazione idealisticamente e astrattamente unitaria ad unaconsiderazione storica, effettuale e problematica. Una nuova imposta-zione interpretativa in grado di apprezzare, nello spazio geografico, ledifferenze e le distinzioni territoriali, storiche e linguistiche. Si parla per-

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ciò sempre più spesso dell’esigenza di ridefinire l’identità della lette-ratura italiana e si è giunti alla conclusione che è più corretto accede-re ad un modello storiografico che decida per la letteratura degli italia-ni piuttosto che per una letteratura italiana. Il nuovo modello con-sentirebbe così di recensire meglio la produzione letteraria ricca e variache contraddistingue le culture e letterature regionali. Una produzioneper lungo tempo esclusa dal canone, nonostante abbia sempre coin-volto, per il suo continuo e diretto rapporto con la società, parti nonirrilevanti delle tante comunità di lettori presenti nel territorio. Il si-stema letterario, del resto, si riorganizza di continuo in base alle inclu-sioni dei testi più recenti, i quali producono riletture e interpretazionidelle opere del passato, modificando così il paradigma del canone ingenere rigidamente mediato dalla scuola.

Letteratura ed educazione interculturale Sempre di più, si im-pone, dunque, l’esigenza di rendere conto dell’emergere di nuove co-dificazioni rappresentate da produzioni letterarie nelle diverse lingue,anche di prestigio, impiegate nel territorio e prima neglette o conside-rate fuori dal canone. Si tratta, inoltre, di approfondire e completare,da prospettive critiche diverse, la ricognizione della produzione lettera-ria locale, orale e scritta, in quelle aree linguistiche e in quegli strati so-ciali che la cultura egemone ha penalizzato mortificando la creativitàdei singoli, influendo negativamente sulla competenza attiva del codicelinguistico e letterario e quindi sul processo di autocoscienza e di par-tecipazione democratica. Sotto questo profilo l’Università e la scuolanon hanno saputo adeguare il proprio ruolo per ragioni che sonoculturali, intellettuali e politiche. Sono rimaste indietro rispetto a mo-vimenti culturali spontanei e all’invadenza dei media, senza opporreinterventi adeguati con discipline, metodi e programmi nuovi. E tantopiù appaiono in ritardo se si considerano le nuove e più complesseresponsabilità, i problemi che i cambiamenti sociali e le immigrazionidai paesi in via di sviluppo impongono costantemente. Se si esaminaquesto nuovo aspetto culturale si deve riconoscere che se, dal punto divista educativo, già esistono nei paesi postcoloniali problemi seri cheriguardano il rapporto tra lingue locali e lingue della colonizzazione,tanto più appare difficile, in una società complessa come quella euro-pea, affrontare la situazione nuova degli immigrati. Occorre valutare

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adeguatamente l’importanza che ha, per la crescita delle comunità edei singoli, la codificazione delle lingue locali in situazione più che dibilinguismo o di plurilinguismo, di effettiva diglossia. Un’impostazioneculturalmente corretta dovrebbe portare a riconoscere che gli antichisaperi delle antiche lingue andrebbero ricuperati e rimessi in circolazio-ne affinché, nel confronto con i saperi delle lingue dell’inculturazione,possano favorire la crescita democratica e lo sviluppo culturale e so-ciale delle singole comunità. Questo potrebbe favorire il superamentodelle chiusure tribali ed etniche e portare verso una integrazione chegarantisca difesa e rispetto delle identità. Se questo è il problema con isuoi complessi risvolti di natura politica e sociale è facile immaginarequali possano essere i compiti dei nostri studiosi e della nostra scuolanel momento in cui si dovesse attuare un insegnamento che muovaproprio «dalla soglia di casa» e sia in grado di proporre lo studio delsottoinsieme culturale e letterario locale considerato in relazione aquello nazionale, europeo e mondiale. Esiste l’altro grande portato deldistacco dalla quotidianità e dalla realtà. Il fatto che l’individuo noncostituisca più il centro di osservazione di se stesso e del mondo che locirconda. A volte si ha l’impressione che manchi la consapevolezzache la conoscenza cominci proprio «dalla soglia di casa», nello spazioantropologicamente connotato, dalla geografia. Occorre che l’io insi-sta sul territorio e organizzi le sue conoscenze a partire dal presuppo-sto che la lingua che apprende dal gruppo, la lingua materna, non puòessere discriminata e avversata, come avveniva una volta. La coscienzaculturale e linguistica degli insegnanti deve quindi crescere e raffor-zarsi sulle base delle nuove conoscenze, mediante le discipline antro-pologiche, estetiche, linguistiche e filologiche; discipline che possonoconsentire una migliore conoscenza anche delle culture locali. La lette-ratura, nella nozione più ampia di sistema integrato della comunicazio-ne – che tiene conto non solo dell’emittente ma anche del destinatario,non solo della produzione ma anche della circolazione dei testi in linguediverse – può concorrere in modo significativo a potenziare ed arric-chire quella sorta di sociosfera, di pellicola comunicazionale, entro cuisi sviluppa la vita culturale e di relazione di ogni società inserita in unterritorio. Spazio e tempo sono essenziali al suo statuto così come ilconcetto stesso di sistema, linguistico e letterario. I testi, nella libera di-namica delle culture, entrano a far parte, mediante meccanismi di in-

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clusione e di esclusione, nei subsistemi o microsistemi, e questi a lorovolta in sistemi più grandi o macro sistemi. La geografia e la storia dellacomunicazione letteraria possono così giungere a rappresentare e adescrivere i prodotti di un universo comunicativo complesso il quale,utilizzando l’attività estetica, attualizza la funzione poetica del lin-guaggio nelle lingue o codici di cui dispongono i soggetti di una co-munità. È possibile perciò pensare, fin da ora, che una sistematicaesplorazione della produzione letteraria nel territorio, possa portareun suo attivo contributo al progetto di una rete globale di informazionie di studi che si configuri come un vero e proprio atlante planetariodella comunicazione letteraria.

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Antologia critica

Letteratura e dialetto

Un storia policentrica La dialettica lingua-dialetto è stata in Italiauna delle strutture portanti dell’espressione letteraria, particolarmenteradicata e perennemente ritornante, sin dalle Origini. Questo soprat-tutto per l’eccezionalità della policentrica storia d’Italia, paese di seco-lare tradizione comunale e regionale ove l’esito dialettale ha potuto co-stituire (ed anche sul piano dei valori) non già un paragrafo estrava-gante e marginale, ma una variante equipollente degli esiti in lingua.Sul piano dell’ideologia e dello stile ha operato come forza centrifuga;l’uso del dialetto (o il recupero massiccio del dialettismo) ha costi-tuito una robusta alternativa di carattere espressivo, quando non, addi-rittura, una sovversione della sicurezza nel linguaggio unico (il toscano),immobile, onnicontestuale. La storiografia recente ha difatti giusta-mente inglobato nel canone dei valori, a parità di livello degli scrittoriin lingua, i grandi dialettali come Ruzzante, Basile, Maggi, Porta eBelli; la storia della letteratura è in realtà monca se non dà il luogo cheloro compete.

Una scelta di cultura La scelta dialettale non è stata una sceltaprivata, soltanto di lingua, ma una scelta di cultura che ha inteso porsiin antinomia rispetto alla tradizione letteraria nazionale e ha potutospesso esprimere una «visione dialettale», cioè una esperienza lettera-ria derivante da suggestioni di cultura diverse da quelle fissatesi nellaletteratura in lingua. Il rapporto non si è configurato soltanto comesoggezione ed influenza univoca dal grande al piccolo, dall’alto albasso, come processo di assimilazione, di conservazione (o di con-traffazione). Né Porta né Belli si sono limitati a «tradurre» modellicolti estranei alla dialettalità.

L’Europa Una situazione dunque eccezionale rispetto ad altripaesi. L’assenza in Francia di una letteratura dialettale riflessa fu do-

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vuta al prestigio di una lingua nazionale affermatasi assai presto: ildialetto dell’lle-de-France che già nel sec. XIV sottomette il rivale pic-cardo, e dal Cinquecento in poi è l’unico volgare in Francia che servaper l’espressione letteraria. Anche in Spagna la centralizzazione dellavita culturale ha ostacolato vitalità e sviluppo di una letteratura regio-nale. In Inghilterra la lingua nazionale ha potuto soppiantare sin dalMedioevo i dialetti, che dal Quattro al Settecento scompaiono addi-rittura dall’uso scritto. In Germania la Bibbia di Lutero e l’autore-volezza e la popolarità ad un tempo della sua lingua (il germe dellalingua letteraria moderna tedesca) hanno emarginato sin dal sec. XVIi dialetti basso-tedeschi dall’uso pubblico e dall’uso letterario: neppurela forte tradizione regionalistica ha potuto reggere al prestigio cultu-rale di una lingua letteraria nazionale. Le corti di Parigi, Londra, Ma-drid, le rispettive amministrazioni statali, sono state strumento diunificazione politica, culturale, linguistica.

La diversità italiana In Italia è mancata una capitale linguistica eculturale accentratrice. La nostra storia è frazionata in mille storiecomunali e provinciali dialetticamente attive e partecipi al dialogo conla cultura della nazione. Per secoli i nostri centri regionali sono statiportatori di una mentalità culturalmente autonoma; se non egemone,certamente avanzata, di avanguardia. Il contrasto dialetto/lingua nonsi è mai evidenziato nei termini di Francia, poniamo, patois/lingua,cioè come opposizione sociolinguistica di incultura/cultura, comecriterio e segno esteriore di una situazione socioculturale di inferiori-tà. Al contrario, il dialetto è stato sentito come segno di distinzione (sipensi al lombardo, al veneziano), come tramite di libertà e di distacco, edi cosciente superiorità culturale rispetto alla prigione anche letterariadel toscano (nel pieno dell’espansione del toscano, nella seconda metàdel Cinquecento, Maffeo Venier può dire del suo veneziano:

[…] questa è una lengua che ha oggi saor/dove che, se vorò scriver to-

scan,/besogna per el più parlar d’amor.

Toscano lingua d’inappartenenza La nostra unità nazionaleconta un secolo appena. L’italiano è stato, fuori di Toscana, e per se-coli, lingua più scritta che parlata; e tra le scritte, la meno rinsanguata

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dal parlato, la più costante nel tempo, immobile in una fissità letterariaimpopolare; quasi una lingua di cerchie ristrette di persone social-mente privilegiate; «lingua di cultura», non «lingua di natura» per latotalità di una nazione (salvo la Toscana). Ancora nel secondo Otto-cento, a unificazione politica avvenuta, un piemontese, un lombardo,un siciliano continuano a esperimentare la drammatica scelta tra dia-lettale e libresco, tra naturale e culto, tra koinè e mediazione dialetto-lingua, tra equilibrio puristico e mistilinguismo provocatorio. Il chepermetterebbe di scrivere, con tutta legittimità, una storia della lingualetteraria italiana prendendo a principio direttivo le difficoltà di adat-tamento degli scrittori periferici a calarsi in un sistema linguisticoespressivo ad essi naturalmente estraneo. Per lo stesso Manzoni, nelmomento linguistico contemporaneo alla revisione dell’abbozzo co-minciata nel 1824 (quando si accosta al toscano partendo dal milaneseo dal francese), si tratta di una «partenza dal noto per giungereall’ignoto» (Corti). Al Manzoni erano naturali lombardo e francese, lostesso che piemontese e francese ad Alfieri; il toscano, termine di con-quista. Ne sono scaturite soluzioni diverse, antitetiche, personalissi-me, certamente non delusive. Nel tentativo di uscire dall’isolamento ilperiferico si è tuffato nelle braccia toscane ora per commemorare, sullespalle dei grandi scrittori toscani, l’antico (Alfieri), ora per attingere adun livello espressivo popolare, unitario, attuale (Manzoni), ora per at-tingere contemporaneamente a varietà di livelli, di cui il toscano era unotra i tanti, rifiutando la soluzione ristretta, orizzontalmente e vertical-mente limitata (Dossi, Faldella ecc.).

I prosatori dell’Ottocento Gran parte dei nostri prosatoridell’Ottocento hanno sentito l’italiano come lingua di Stato, grigia escolorita, quasi entità burocratico-scolastica «estranea e inamabile»(Isella); ora come lingua di una élite culturale, ora come lingua dellaborghesia, ora come medietà che ricalcava una mentalità cultural-mente arretrata. La storia della lingua letteraria italiana va dunque ri-visitata e disegnata a rovescio, rivoltando lo schema storiografico in-valso in cui tutto tende all’unità nazionale e dove il vivacissimo regio-nalismo ha corso il rischio di esser prospettato come momento negati-vo, o rallentante. I dialetti e i linguaggi letterari intinti di dialetto hannoin effetti proposto «un processo centrifugo, di resistenza e repulsione

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all’unità, che è esattamente l’opposto del processo seguito dalla storiadella lingua» (Dionisotti), che è storia di espansione e di accettazionedel toscano. Ma la storia di approssimazione al toscano letterario, allalinea vincente, non è percorso rettilineo e trionfante. Non tutti gliscrittori, è noto, hanno optato per la conversione. O vi hanno optatonon in prima istanza. Lo stesso Manzoni, nel suo secondo momentolinguistico toscano-milanese (quello rappresentato dalla ventisettana, edocumentato minutamente nelle Postille al Vocabolario della Cruscanell’edizione veronese), fu propenso a valorizzare la forza linguisticaperiferica.

Dialetto come elemento vivo Comunque, l’artificiale coscienzatoscana dello scrivente, a partire dal Cinquecento, quando l’assunzio-ne del toscano a lingua letteraria generale porta a che la letteratura re-gionale discenda linguisticamente al rango di dialetto, ha fatto sì che apiù riprese e con soluzioni diverse il dialetto diventasse un elementovivo e operante nello svolgimento della lingua letteraria, sia come op-posizione sia come coadiuvante. La storia della lingua e della lettera-tura italiana nei suoi rapporti con i dialetti non comincia che con lavittoria decisiva (nel Cinquecento) del toscano. Soltanto da allora sipuò parlare di letteratura dialettale «riflessa». Da quel momento la lin-gua letteraria ha uno sviluppo apparentemente compatto e lento;mantiene il suo originario impianto arcaico, trecentesco e toscano, enei generi più seri ed ufficiali quel singolare tono alto, separato dalparlato: una peculiare impopolarità. Prima non era stato che un sus-seguirsi di lotte e di crisi, perché le parlate locali cercavano tutte diuscire dall’isolamento, di rompere con la letteratura il cerchio dellaprovincia.

Il Medioevo Nel Medioevo assistiamo alla concorrenza tra dia-letti diversi per dare la lingua letteraria: dal siciliano di Federico II allombardo di Uguccione da Lodi; all’interno dello stesso toscano ab-biamo varietà in concorrenza con il fiorentino. La letteratura medie-vale cerca di dissolvere il dialetto da cui proviene, e mira ora ad unvolgare «medio», ora ad un volgare «illustre» depurato di dialettismi.Il primo passo per uscire dalla frammentarietà del dialetto è compiutoin Italia dalla scuola poetica siciliana: essa assume tematica e forme

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metriche dalla poesia occitanica ed impiega il dialetto non nella suaforma immediata; attraverso un’opera di nobilitazione, il dialetto èreso «illustre», privo di caratteri locali e plebei, nettamente rescissodall’uso pratico.

Dante e il volgare «illustre» Per questo Dante, alla ricerca dellaforma più nobile del volgare del sì, riconoscerà che quell’ideale di vol-gare illustre, inseguito nel De vulgari eloquentia tra la selva dei dialettiitaliani, è realizzato, la prima volta, nella lirica dei Siciliani (nei Sici-liani a lui noti, sappiamo, attraverso le trascrizioni dei copisti toscaniche avevano travestito di panni toscani, formalmente unificanti, ogniforma locale siciliana). Troppo municipali appunto, quanto alla lin-gua, gli parevano i «siculo-toscani», Bonagiunta, Brunetto e gli altri,Guittone sopra tutti; troppo rustici e dialettali, componimenti quali lacanzone osimana del Castra fiorentino, i versi composti «in imprope-rium» di varie parlate municipali, il «contrasto» di Cielo d’Alcamo. Ilproblema del rapporto lingua-dialetto non è comunque (e questo sindalla sua prima importante messa a punto dantesca) un problema lin-guistico, ma squisitamente stilistico, letterario. A Dante sta a cuore nonla ricerca e la definizione di una lingua italiana nazionale, sopradialet-tale (problema di più tarda attualità illuministica e romantica, da Ce-sarotti a Manzoni ad Ascoli), ma la definizione di quel volgare che poe-ticamente aveva trovato applicazione nello «stile sublime» dei buoni di-citori siciliani e stilnovisti; un volgare «illustre» che però non sarà quellocui aderisce lo stile comico (cioè opposto al superiore, tragico) dellaCommedia, che consentirà a Dante, su una lingua di base fiorentina,l’emergenza dell’idiotismo, dell’infimo e del plebeo, le forme basse delparlato e le forme fiorentine dialettali, le parole di pregnante realismo,aspre ed «yrsuta», e voci anche estranee al fiorentino, periferiche; iltutto inserito in una lingua che accoglie pienamente lo stile «sublime»,il latinismo più evidente, la soavità dell’elegia, il tecnicismo dellescienze, le altezze della filosofia e della Scrittura. Nella Commedial’intera gamma delle possibilità espressive è esaurita. L’elemento an-che dialettale è assunto in una sostanza mistilingue, dove ribolle la va-rietà intera delle voci e degli stili, entro la massima escursione tematica,che va dall’umile al sublime, dalla descrizione più realistica alla visioneestatica di Dio. Dante realizza, con libertà non più osata per i secoli a

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venire, una lingua letteraria sopradialettale. L’appello già umanisticodel Petrarca richiamerà sulla linea vincente la scelta opposta, mono-linguistica; instaura selezione, uniformità; l’espunzione non solo deldialettale, del plebeo, del realistico, ma il ritorno al sublime, all’assesiciliani-stilnovisti; inaugura la linea ufficiale della lirica, di tenuta se-colare.

Tradizioni dialettali: le Origini Tradizioni dialettali si erano co-munque costituite sin dal Duecento, parallelamente allo stilnuovo.Ma non hanno capacità di irradiarsi; chiudono il loro ciclo soccom-bendo alla tradizione più ricca di prestigio e più vitale, il toscano, chetra l’altro si normalizzava in istituzioni stabili valide per scrivere nonsoltanto poesia, ma per trattare, come in Dante, ogni argomento:l’epistola, il trattato, la prosa narrativa e didascalica, il componimentolirico. Mancava tra l’altro il prestigio di una personalità poetica capacedi rompere il cerchio regionale, di imporre modelli validi per unospazio geografico e culturale più ampio. Nel Trecento (e, nonostanteil recupero del latino, con rinnovata forza per tutto il Quattrocento) iltoscano si espande fuori dei confini regionali. Che il toscano è lingua«magis apta […] ad literam sive literaturam» (Antonio da Tempo, pa-dovano) è sin dal Trecento riconosciuto anche da parte dei non to-scani. I testi toscani si diffondono perciò in tutta la penisola. La «dit-tatura» linguistica fiorentina è sentita nel Trecento in modi diversi, aseconda dall’assetto sociale e culturale dell’area periferica. Ora nelmodo più incombente (a Perugia, poniamo), ora con travaglio lin-guistico più complesso che conosce tutta una serie parallela di opzionivariegate e quasi contraddittorie (nel Veneto, ad esempio). L’assimila-zione della cultura e della lingua toscana declassa comunque il dia-letto, reso inabile d’ora in poi alla formazione di volgari illustri «loca-li». La provincia inizia a vivere la lingua letteraria in una dimensioneastorica; il periferico ha la coscienza di adoperare spesso un materialeartefatto, quasi usurato; gli è meglio consentita la sperimentazione, lamescolanza degli stili, la contaminazione volontaria. Il dialetto, non giàincontrollato e spontaneo, emerge e mette radici come parodia e mi-mesi vernacolare. Alla fine del sec. XIII la canzone trevisana di Aulivercostituisce già un esempio di quell’espressionismo veneto che cono-scerà una trafila ininterrotta, sino a Ruzzante, di bilinguismo o di ol-

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tranza stilistica, di eclettismo ammanierato e ritardatario anche, e dicorrosione comica, realistica, parodistica.

Tradizioni dialettali: l’età umanistica Nel Quattrocento i poeti siadeguano al modello Petrarca. Il Canzoniere è utilizzato come minieradi modi stilistici e lessicali. Il modello non consente l’ingresso di ele-menti dialettali nel lessico, mentre il settore fono-morfologico, menocontrollabile dallo scrittore, è ancora largamente aperto all’infiltra-zione. Un più vario sperimentare e una maggiore libertà linguisticaincontriamo però in settori meno «regolari», là dove la curiosità versogerghi o dialetti non toscani si sposa con vivaci intenti parodistici (an-che del linguaggio petrarchesco). Si pensi a Berni, Burchiello, Doni; alPulci raccoglitore di riboboli, alla sua variazione inventiva, e nonmeccanica, del popolare, alle pennellate gergali, alla suggestionedrammatico-teatrale dei dialoghi che aderiscono al parlare comune.Accanto al ritorno del latino ciceroniano, alla filologia raffinata di Po-liziano, il Pulci poeta popolare non per semplicità o ignoranza, maper colta elezione, si nutre di una cultura diversa. La tentazione popo-lare non è incultura, incapacità scrittoria, ma raffinatezza, edonismo sti-listico, gusto (accademico anch’esso) verso lingue di cultura diversa daltoscano eletto, non già disposizione verso una lingua naturale. Quantoalla prosa, dopo Boccaccio il dialetto è accettato in posizione subalter-na, come macchia umoristica e lingua del comico: entro una prospetti-va dunque aristocratica. Un’eccezione va fatta per il Trecentonovelledel Sacchetti, dove il linguaggio popolare non è soltanto lessico, colo-re ambientale, ma sintassi interiorizzata che fa riemergere il popolareper foggiare moduli narrativi più immediati, vivacemente spigliati.L’affermazione della cultura umanistica provocava apparentementeuna crisi al prestigio del volgare letterario. In effetti si ponevano lepremesse per la ricerca di una certezza linguistica, di una selezione chericonducesse la molteplicità predominante nel Quattrocento nel-l’alveo di una «grammatica» regolata. Il discorso non era comunquedi mera grammatica. Il giudizio espresso in favore del latino lingua dei«classici» non stava a significare, semplicemente, il richiamo alla im-mutabilità linguistica, al termine stabile di confronto, alla misura dìuna grammatica regolata; nel profondo, si trattava di appello ad unanuova lingua volgare garante, al pari del latino, dell’imperituro, del-

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l’eternità e della dignità letteraria, della perennità e del valore. Neconseguiva quel richiamo all’ordine ed al valore del canone, inaugu-rato dai sistematici correttori: un Sannazaro, già prima della discri-minazione sancita dal Bembo, abbandona il colorito napoletano dellaprima redazione dell’Arcadia, per avvicinarsi, nella summontina del1504, al toscano. Dopo la pubblicazione delle Prose della volgar linguadel Bembo (1525), Ariosto ritorna sul proprio Furioso, ricco di formelatineggianti e padane, per conformarsi nel complesso, nella terza edi-zione (1532), al tipo del toscano letterario.

La proposta normativa di Bembo La soluzione aristocratica giàdel Boccaccio che consentiva al dialetto la sola funzione umoristicaambientale, la proposta normativa del Bembo che ripropone il lontanomodello comune (Petrarca per la poesia, Boccaccio per la prosa) favo-riscono sempre più il formalismo e l’estraniamento dalla realtà dellalingua letteraria italiana. Nella lirica e nella prosa d’arte non troviamopiù tracce dialettali. Chi legge una pagina di prosa di fine Quattro-cento o primi del Cinquecento (fa notare Migliorini) può dire conrelativa facilità da quale regione proviene; per un testo della fine delCinquecento la cosa è assai difficile. L’ideologia umanistica sanzionatadal Bembo aveva appunto queste conseguenze linguistiche vistose. Nési può dire che sia stata questione di autorevolezza da parte del Bem-bo, né di moda; o che la posizione del Bembo fosse reazionaria edastorica. Si appoggiava invece su una solida ideologia emersa dal pen-siero umanistico che proponeva il concetto di imitazione dell’anticocome atto creativo: il trasferimento delle scritture classiche dalle spallegigantesche degli antichi sulle moderne trasferiva perennità e norma-tività (cioè la «verità») nelle nuove scritture.

L’espansione unitaria del linguaggio letterario L’espansioneunitaria del linguaggio letterario ottenuta sul piano formale e con laforza della tradizione (e non attraverso l’affermazione di un centropolitico e culturale, come Parigi per la Francia) ha delle notevoli con-seguenze. Il consenso e l’uniformità si trova a livello della linguascritta dalle persone colte, mentre la lingua parlata è per la quasi tota-lità della penisola una lingua regionale, e negli strati più bassi della so-cietà, completamente dialettale.

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La dialettalità plurima della commedia Perciò un genere «popo-lare» come la commedia ad esempio è commedia di dialetti con perso-naggi schematizzati in maschere che parlano dialetto, oppure è com-media colta aperta al termine dialettale recuperato in chiave edonistica.Non è spontanea ed incontrollata emergenza del volgare e del dome-stico, del popolare e del «comico» naturale, ma rapporto cosciente tralivelli diversi della lingua, gusto contaminatorio, gioco. La dialettalitàplurima della commedia è essa stessa segnata di formalismo, sprovvi-sta di caratterizzazione sociale. La letteratura dialettale che nel Cin-quecento comincia a svilupparsi non si nutre di natura, non è mossada volontà mimetica e realistica, ma è fatto d’arte e d’artificio, caricatu-ra comica, disegno stilistico. Negli scritti in lingua il dialettismo è, pertutto il Cinque ed il Seicento, dialettismo extraregionale, non emer-genza inconscia (Annibal Caro adopera termini dell’Italia mediana evoci del fiorentino parlato; Bruno usa napoletanismi, e Magalottimescola alla forma straniera dialettismi di regioni non sue). L’uso diforme dialettali non intacca il sentimento dell’unità linguistica insitanella coscienza di chi scrive. Nella stessa commedia cinquecentesca,quelle forme sono, al pari del forestierismo, deviazione giocosa e vo-lontaria, convenzione stilistica, non già riflesso realistico. Si recupera-no i dialetti allo stesso titolo, e allo stesso modo con cui si rinvanganel latino (vedi il latino del Pedante) o nelle lingue straniere più note.Il Capitolo, la Satira, la Commedia, filoni cioè «irregolari» che si di-stanziano formalmente (non ideologicamente) dalla soluzione aulicadella letteratura ufficiale, perseguono varietà composita, ricchezzanomenclatoria (attingendo a più fonti areali). La forma periferica edaberrante, il popolare, l’idiotismo sono adunati per disporre un di-sordine formale comico. Il virtuosismo edonistico è contestazioneformale contemplata nel culto della forma instaurato dalla letteraturaregolare: l’irregolarità rientra nel sistema.

Ruzzante Il Cinquecento, oltre che del teatro dei dialetti, è co-munque l’età del grande teatro dialettale. Negli edonisti della lingua lascelta dei dialetto è scelta colta. Per un Ruzzante invece il dialetto nonè evasione letteraria, ma luogo in cui lo scrittore trova una libertàespressiva, per comunicare ad un pubblico reale; è scelta del naturale.Ruzzante fa parlare i contadini nel dialetto del contado di Padova; an-

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che se le parole dei contadini non sono voci autentiche, ma stilizza-zioni di scrittore colto, tuttavia la rappresentazione non è folclorica oregionale, ma innalzata ad una visione della vita in universale (la sem-plicità naturale, l’istintivo, il semplice, il popolaresco autentico oppo-sti alla città, al signore). Non è lecito considerarlo scrittore che deldialetto vuol fare strumento di impegno sociale, denuncia di situazio-ni tragiche e disperate delle plebi; la popolarità del teatro di Ruzzanteha incidenza sociale nel senso che il suo teatro non è museo ed acca-demia: è rappresentazione autentica che si innesta su una tradizioneviva e vissuta nell’ambiente veneto, sui temi villaneschi del «contra-sto» e della «farsa», e continua una tradizione operante nel mondouniversitario padovano, nelle rappresentazioni buffonesche dialettali.La lingua del Ruzzante non è artificiosa. Artificiosa piuttosto, non ve-ramente parlata, è la lingua dei villici ricca di storpiature della com-media ru sticale toscana (vedi la Tancia di Michelangelo Buonarroti ilgiovane, 1611). Fuori dell’ambito del teatro dialettale veneto, il comi-co della parola è cercato attraverso la sperimentazione di tutte le pos-sibilità espressive offerte dal dialetto (vedi il napoletano del DellaPorta, e il gusto intellettualistico con cui l’autore intende nella Taber-naria sentire la parola nei vari dialetti). Il dialetto è uno dei tantistrumenti che appoggiano il comico del significante. Occorre giungereal Maggi perché un dialetto (il milanese) assuma la dignità di stru-mento di verità e di moralità. Il Maggi non alterna più, giocosamente,il dialetto al linguaggio accademico, ma intende offrire una caratteriz-zazione sociologica del milanese, che è lingua del personaggio positi-vo, e si oppone al dialetto italianizzato degli arricchiti, all’italiano let-terario e melodrammatico e falso dei personaggi falsi che lo utilizza-no. Il Maggi inaugura la serie dei dialettali lombardi che porterannonell’Ottocento il dialetto a svolgere una funzione polemica nei con-fronti della letteratura, della lingua e della cultura ufficiale ed egemo-ne.

Il Settecento Nel Settecento si allarga il fronte della poesia mila-nese in dialetto (Tanzi, Balestrieri, Ottolina). Parini, in polemica colpadre barnabita Onofrio Branda, afferma che lingua e dialetto sono in-differenti riguardo agli esiti poetici (1759-60): anticipa il tema dellapolemica successiva (1816) tra Porta e Giordani. Ma nel sec. XVIII il

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più celebre tra i poeti in dialetto è il siciliano Giovanni Meli; al modo(tra Sette e Ottocento) del piemontese Calvo, egli traduce in dialettotemi della poesia in lingua, e scrive in un dialetto nobilitato e diroz-zato ad uso di lettori colti. Il solo grande autore popolare è CarloGoldoni: neppure lui dialettale in senso stretto, poiché vuole un teatronazionale e realistico insieme, tributario perciò al dialetto di moduliespressivi non troppo stretti e aperto ad un italiano non letteraria-mente marcato. Ne scaturisce una koinè teatrale che concerta demo-craticamente i piani bassi della lingua e i piani alti, l’italiano melo-drammatico e la «baruffa», il nobilmente conversevole ed il naturale.L’azione scenica e il discorso raggiungono un ambiente sociale varie-gato; non soltanto i piani alti, ma i medi e i bassi. Al di fuori della let-teratura teatrale l’italiano, per tutto il Settecento, esiste ancora e sol-tanto nel libri e nella letteratura. Negli ambienti culturali dominati dalclassicismo anche i prosatori mirano, nel Settecento e nell’Ottocento,ad una lingua letteraria aulica, costruita su modelli trecenteschi e cin-quecenteschi.

L’Ottocento I romantici cercano di rompere questo mondochiuso e raffinato; vagheggiano una lingua viva, parlata dal popolo. Lanuova situazione culturale induce e giustifica scelte apparentementeopposte di un Porta (che si «chiude» nel dialetto) e di un Manzoni(che si apre alla lingua collettiva). Ma il Porta opta per il dialetto a finidi popolarità appunto, e di realismo. Non fenomeno privato, o minore,la sua poesia è parte integrante dei ben definito contesto culturale delromanticismo lombardo, che sin dal precorritore Settecento tendevaad un rapporto immediato col pubblico tramite una lingua più po-polare, da non impararsi soltanto da una remota società di scrittori, econtestava una cultura accademica che aveva perso gli strumenti lin-guistici per esprimersi al livello della realtà. Anche in Toscana, nel-l’Ottocento, poiché la lingua popolare a fini letterari vagheggiata dairomantici non esisteva, si comincia ad attingere a piene mani dal par-lato fiorentino o lucchese. Significativo l’esempio del Giusti e delle sueLettere, che per tutto il secolo costituirono un autentico serbatoio diricchezze lessicali ritenute autenticamente popolari. Il problema cen-trale, per lo scrittore in prosa, è nell’Ottocento quello di trovare unasoluzione «popolare» all’annosa questione della lingua. Sia Manzoni

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sia Nievo cercano di trasferire il carattere di lingua parlata e familiaredai dialetti alla lingua, di strappare ai dialetti il privilegio dell’imme-diatezza e della spontaneità. Nievo opta per un italiano venato di re-gionalismi. Manzoni, nel Fermo e Lucia, usa un vocabolario più mila-nese che toscano. In Nievo tradizione letteraria e spinta dialettale rag-giungono un compromesso di toni contrastanti e discontinui. NelleConfessioni cade il friulano presente nelle prime esperienze (il Novel-liere campagnolo) ed il posto è preso da forme genericamente venete olombarde di più larga comprensibilità e inscritte in una tradizioneletteraria non toscana; voci e costrutti dialettali non sono, per lo più,circoscrivibili in un’area ben delimitata, ma appartengono ai dialettidi tutta l’Italia settentrionale. La dialettalità è vaga e prudente, il dia-lettismo lenito, toscanamente declinato (ciaccolina «parlantina» ecc.),o parificato nella tastiera delle varianti regionali (bimba, fanciulla, put-tina; briaco, ubbriaco, cionco). La dialettalità è attenuata (contare e nonraccontare, sbassare e non abbassare, sfreddare e non raffreddare), e sin-tatticamente generalizzata nell’affiorare insistente dei costrutti prolet-tici o pleonastici tipici di ogni parlata popolare.

Manzoni Manzoni aveva intanto indicato una soluzione rivolu-zionaria: occorreva ricercare uno strumento di comunicazione, la po-polarità di esso, ma nel senso di trovare una popolarità stilistica alloscopo di raggiungere una popolarità linguistica. Manzoni aveva intesocon i Promessi Sposi raggiungere un linguaggio collettivo, superiore altempo e ai personaggi. Come i vari lui e sovvenir del Cinque Maggionon sono evasione verso l’antico, ma attaccamento al notorio, al fra-terno ed al comune nell’ambito del linguaggio poetico, così l’uso fio-rentino cui egli affidava la funzione regolatrice della lingua era un ad-ditamento (non da purista e da passatista) ad una lingua popolare ed’uso, ad una lingua di conversazione e di comunicazione che tra-scendesse i limiti geografici e culturali del regionalismo e potesse ga-rantire con la propria medietà la «popolarità» della letteratura. Sispiega perché il Manzoni abbia cercato con fatica e studio la corri-spondenza tra milanese e uso toscano; la forma milanese gli offrespesso lo spunto per scoprire l’equivalente toscano. Egli è per la lingualetteraria una e media; non per il peregrino e il caratterizzato, ma peruna lingua letterariamente accettabile al suo pubblico (una nazione

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intera), senza preoccupazioni di immergersi nella realtà e nel singolopersonaggio tramite l’evocazione dialettale. Le correzioni al testo del‘27 sono apportate non già per ripulire il romanzo dai lombardismi (almodo degli scrittori del Cinquecento), ma per sostituire con espres-sioni della parlata «media» fiorentina le corrispondenti toscane; i rite-nuti «lombardismi» eliminati nell’edizione del ‘40 sono in effetti vociautorizzate da scrittori toscani, ma non per questo vive. La sciacqua-tura in Arno, il soggiorno a Firenze e la frequentazione degli amicifiorentini lo portano a contatto non con il fiorentino popolare, macon la lingua dei fiorentini colti. Quel parlato, non troppo alto nétroppo basso, gli pare debba servire all’immediatezza, all’agilità dellaprosa; vi riconosce spontaneità e comprensibilità insieme, al cospettodi una unità nazionale. In effetti tale conquista unitaria non era anco-ra valida per la totalità dei parlanti.

L’Ascoli e il Manzoni Proporre un discorso comune che avessecentro in una sola città o regione, in una classe sola, senza coinvolgerearee sociali e geografiche diverse, fu “errore” del Manzoni. L’unifica-zione della lingua della prosa e della conversazione che fosse insiemeun fatto civile e politico non poteva che basarsi sul contributo dellevarie regioni ed essere il risultato di una elaborazione collettiva, com-piuta dalla storia, non da una scelta individuale. L’Ascoli, di sorpren-dente modernità, capì benissimo che la questione dell’unità della lin-gua e della sua vitalità non si poteva risolvere indicando semplice-mente un nuovo modello di perfezione formale. La rivoluzione man-zoniana in certo senso falliva, se si pensa a quanto la snaturasseroimmediatamente in applicazioni meccaniche i linguaioli, sentendosiautorizzati al ribobolo. Ma era un fallimento relativo, quanto ad indi-cazioni future. Manzoni aveva mostrato che si poteva scrivere guardan-do, finalmente, fuori della tradizione letteraria. Soltanto a quel modo eda quel momento in poi si potranno scrivere romanzi in Italia. Inmateria di lingua toccava legiferare non più soltanto, come in passato,alla letteratura, ma al linguaggio vivo e alla lingua collettiva. Familiare epopolare acquistavano per sempre diritto di cittadinanza nella lette-ratura. Si poteva tornare alla provincia; o alla Toscana, ma come aduna delle provincie.

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Dopo Manzoni Dopo Manzoni, dalla seconda metà dell’Otto-cento sino ad oggi, la struttura regionale endemica e connaturata allacultura italiana, torna ad emergere vistosamente; il momento centri-peto e l’evasione centrifuga riprendono la secolare alternanza. La solu-zione fiorentina dei manzoniani, e la neutra e grigia prosa vulgata nelsecondo Ottocento, spingono gruppi periferici a distanziarsi dallamedia linguistica, che si teneva lontana da ogni audacia ed oltranzastilistica. La plurisecolare mancanza di una capitale culturale e lingui-stica consentono e legittimano anche sul piano della comunicazione,oltre che sul piano dell’espressione, la forzatura espressionistica tra-mite il dialetto («In Italia difettiamo – scriveva Faldella, 1877 di unalingua universale che sia accettata da tutti gli italiani come buona, cor-rente e alla mano. La ragione di questo difetto consiste non solo nelleantiche nostre divisioni politiche che impedirono la formazione di uncentro chimico, in cui si lambiccassero purificandosi e chiarificandositutti gli elementi della lingua comune; ma risiede altresì nella pretesa,tuttavia dominante, di voler codificare la lingua universale nelle fio-rentinerie»). Gli scapigliati lombardi, Dossi innanzitutto, ricercanol’eccezione alla norma, alla scoloritura dell’uso: il dialetto è posto fìan-co a fianco al toscanismo e alla forma arcaica. Faldella svaria tra poliopposti del purismo e del dialetto, in una tensione espressiva di esitoespressionistico. Vittorio Imbriani, scrittore antiaccademico, carica lapropria prosa, per avversione alla banalità, di preziosismi letterari, diforme vernacolari, di «goffaggini fiorentine». L’uso del dialetto non èpiù recupero romantico della parlata popolare, né debito pagato alnaturalismo. In Dossi e in Faldella l’uso del dialetto è antitetico aquello dei veristi. Sia Verga sia gli espressionisti scapigliati intendonouscire dai binari del linguaggio ordinario: Verga, grazie al dialetto,dalla «solita nenia delle frasi lisciate da cinquant’anni». Ma per i veri-sti l’ordinario è la tradizione letteraria; per gli espressionisti il con-formismo dilagante nel neutro italiano comune in via di formazione.Lo scopo degli ‘irregolari’ scapigliati è la fuga dalla media; il risultatoil pastiche. Il dialetto diventa uno dei magazzini d’eccezione (al parlarecorrente e neutrale), dove si può attingere con libertà. Verga, tramiteil dialetto, persegue un mimetismo realistico; la sintassi corale, il colo-rito provinciale, la sgrammaticatura, il dialettismo sono assorbiti inun’alta e classica ‘monotonia’, in una sostanziale unità stilistica. Per

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Dossi e Faldella il dialetto è invece tessera di un mosaico stilistica-mente plurimo; ed è assunto come strumento di rottura, anormalità,deformazione e non rispecchiamento. Il dialetto non serve come‘forma’ per ritrarre un ambiente dialettale, provinciale, ma per de-formarlo. Antirealisti avanti lettera e veristi accrescono comunque ledimensioni linguistiche della prosa narrativa e già tracciano grossomodo le direttive future. Verga, selezionando verso il basso, innestan-do cioè la «forma interna» del dialetto su quella della lingua, inaugurala via del regionalismo novecentesco; gli espressionisti, senza discri-minante selezione, aprono verso ogni settore e livello (alto e basso,nobile e plebeo) il ventaglio delle possibilità epressive; s’innestano nelfilone «macaronico» e «plurilinguistico» della dialettalità plurima che,inaugurata da Dante comico, è tornata ciclicamente nelle nostre lette-re; segnano un punto di transito della linea espressionistica che daFolengo, Ruzzante, Dossi, Faldella giunge al grandissimo Gadda. Lageniale soluzione del Verga, la sua discesa verso il basso, verso le classiche non hanno mai avuto menzione letteraria, aiutava intanto a supe-rare la barriera del naturalismo, l’impiego cioè «caratterizzante» deldialetto entro opere in lingua, il dialettismo d’ambiente diretto e im-mediato, quasi citazione senza elaborazione (De Marchi e la patinadialettale d’ambiente meneghino che macchia la narrazione; il dialettoin Fogazzaro adoperato come ‘gergo’ casalingo, battuta che entra neldialogo in quanto lingua di un piccolo mondo provinciale, in quantoimpressione locale, colore). Nei Malavoglia il dialetto non è, sempli-cemente, inserito, ma tutto il romanzo è scritto in lingua italianapensata in siciliano. Il dialetto non è posto in subordine rispettoall’italiano letterario come nel bozzettismo ottocentesco toscano (neLe veglie di Neri di Renato Fucini il dialetto rappresenta una culturapopolare in quanto periferica, subordinata a quella colta e centrale. Sifinirà per usare l’idiotismo in funzione caratterizzante in senso dete-riore, caricaturale, come accade, poniamo, in Ferdinando Paolieri).

Il Novecento Il dopo D’Annunzio, per reazione al lusso di quella«declamata superprosa», segna una varia soluzione di ritorni a Verga.Vi ritorna, per antidannunzianesimo, Federico Tozzi. Il suo linguag-gio fitto di toscanismi riesce a dare un singolare senso realistico allanarrazione, che ritrae con forza la vita di provincia. È presente so-

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prattutto la tradizione linguistica senese nella sua componente verna-cola e arcaica. Il fatto che l’assunzione dialettale spesso coincida conl’arcaismo (così in altri toscani: Lorenzo Viani ad esempio) fa sì che ilrecupero del lessico e della sintassi popolare (una sintassi, quella to-scana, alleggerita dal predominio della frase nominale, e ritmicamentescarna, rude) recuperi insieme la solennità arcaicizzante peculiaredelle parlate toscane, gravide di letteratura due-trecentesca. A nessunperiferico era consentita l’asciuttezza e l’ascetismo evocati dal toscano;essenzialità e purismo di secoli «aurei» contaminati col dialetto con-sentono una singolare e inedita risonanza di realismo e di primitivo,non già di preziosità antiquaria alla D’Annunzio. Comunque la To-scana poteva meno di altre regioni «trasfigurare» in termini di largaaccettazione linguistica l’eredità verghiana; assurgere a dignità di au-torevole modello. Ai periferici il toscano continua a suonare verna-colo dotato di forza non linguisticamente coesiva e universale, bensìdi forza espressionistica pari a quella degli altri dialetti. Manca alloscrittore toscano la coscienza del distacco fra lingua e dialetto; l’uso diforme dialettali è perciò più indifferenziato, anche se risponde comenei periferici a pari esigenze di espressività. Entro una dialettica avvi-cinabile in parte a quella verghiana sembrano muoversi alcuni scritto-ri della stagione neo-realistica. Come per Verga, così per Pavese latradizione letteraria è peso e freno. Ma questa sazietà di «retorica» ac-comuna scrittori moderni tra loro assai lontani, Pavese e Fenoglio,Verga e Pirandello: in tutti c’è sazietà delle forme convenzionali. PerPavese e Fenoglio, così per Verga, la forma dialettale risponde ad unafase non più arretrata di civiltà, ma più elementare, o mitica, capace discardinare il raffinato e l’aristocratico della tradizione, oppure di ri-trovare la forza di una perduta classicità. Pirandello è immune da taliansie di primordiale e di epico; si muove a suo agio nell’attualità e nelgrigiore del mondo borghese. Ai dialettali si associa, al massimo, perla comune volontà di mettere a fuoco ogni elemento capace di con-correre all’andamento «parlato» del periodo. E più che nel lessico, ènella sintassi che la lingua di Pirandello (come in Verga) ottiene i ri-sultati più nuovi. Ma, diversamente dalla dialettalità interna del Ver-ga, la popolarità sintattica pirandelliana è mimetismo attento ad atteg-giarsi sulle movenze dell’azione e del parlato, non strumento per ade-rire ad una «visione dialettale». È piuttosto duttilità che si avvicina ad

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un uso parlato di tipo medio, efficace per ritrarre con distacco e pe-netrazione ad un tempo il mediocre della mediocrità borghese. Lostesso lessico difatti è preso nei valori attuali, medi, senza profonditàstorica, con un voluto «grigiore» quale oggi possiamo incontrarenell’oggettività di un Moravia. I modi dialettali vi sono appena rico-noscibili. La negligenza dei valori formali predomina. La dialettalitàsembra trasfigurata nel «parlato» di una lingua sentita come comuni-taria e nazionale, koinè già urbana e media. Ideologicamente è posi-zione radicalmente opposta all’evocazione, ricca di valori arcaici e po-polari ad un tempo, perseguita dalla poesia e dalla prosa nata in am-bito «decadente». Al canone neopositivistico dell’oggettività il deca-dentismo contrappone l’inattualità linguistica di linguaggi «inauditi»,ed anche il segno marcatamente popolare e dialettale è annegato in unmondo simbolico e polivalente; si pensi alla dialettica «metaforica» diun Pascoli, all’arcaico e vergine friulano di un Pasolini, al monolin-guismo quasi ‘petrarchesco’ di un Biagio Marin che scrive in una lin-gua remota (il dialetto di Grado) che pochissimi parlano, e che si di-rebbe invenzione sua. Ma anche i moderni neorealisti, dialettali spesso«metaforici» e non sempre «oggettivi», sono stati dei raffinati stilisti, amodo loro calligrafi e retori. Anche quando, negli anni Cinquanta, ildialetto assume quella funzione di ricerca e di denuncia sociale, e «lacaratterizzazione locale voleva dare sapore di verità», ebbero impor-tanza quasi preminente «il linguaggio, lo stile, il ritmo» (Calvino).Dialetto e gergo non sono che «colori della tavolozza, note del penta-gramma, sapevamo fin troppo bene che quel che contava era la musi-ca e non il libretto, mai si videro formalisti così accaniti come queicontenutisti che eravamo, mai lirici così effusivi come quegli oggettiviche passavamo per essere» (Calvino). L’ultimo Pavese, approda ap-punto ad un «volgare» di misurata classicità, all’essenzialità del direattraverso l’inserimento del dialettale nell’allusione letteraria. La tra-sfusione di sangue popolare nei moduli della lingua si appoggia suuna tradizione letteraria sottilmente mascherata. Dopo la prima nega-zione vistosamente polemica contro il tono alto della lingua ermeticae post-ermetica e la parola letteratissima della prosa d’arte, Paveseentra nelle linee di sviluppo della storia con un rivolgimento più sot-tile ed attenuato, senza «trascrizioni» troppo crude del dialetto. Piùche ai prestiti effettivi dal dialetto, egli si allarga ad un iposistema lar-

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gamente regionale, che in effetti da tempo scorreva sotto lo schemad’obbligo toscano-manzoniano. Il dialetto è nobilitato senza abbassa-re la lingua. Le ragioni socio-stilistiche de Il compagno si tramutanonelle ragioni francamente stilistiche de La luna e i falò. Comunque, adifferenza dell’Ottocento, quando sembravano testimoniare unarealtà genuina e ingenua, nella stagione neo-realistica i dialetti sonoassunti come testimonianza sociale. S’intende mimare dal di dentro lavita e il linguaggio delle masse lavoratrici o delle classi emarginate,senza partire più da una posizione di distacco critico: il popolo, oltreche soggetto della narrazione, si fa narratore di sé, direttamente o at-traverso un fedele mediatore. Pasolini vuole immedesimarsi, tramiteil dialetto del milieu adoperato con rigore filologico, negli ambientidegli esclusi che non sono ancora arrivati a possedere la lingua. Pariviolenza e impegno realistico, con un di più di stravolgimento alluci-nato, mostra il dialetto milanese «cosiddetto arioso, che si parla allaperiferia nord» adoperato ne Il dio di Roserio (1954) di Testori. C’èchi, come Davì, cerca la trascrizione quasi stenografica della vicenda(nei Banditi a Partinico, 1954). C’è chi rimane invece entro una dia-lettalità più esterna, e s’accontenta di una regressione mimetica versoil parlato, lasciando il dialettismo diretto irrisolto nel testo, ove figuracon mera funzione di localizzazione geografica o di caratterizzazioneculturale e sociale. In questi casi l’autore resta al di qua di ogni intentoinnovatore nei confronti della lingua letteraria; inserisce elementiesteriori, facilmente individuabili (gli apporti di dialetti del Sud neL’alfiere di Alianello, 1942, o ne Il fiume di pietra di Bonaviri, 1964,sembrano rimanere estranei al contesto, staccati dalla pagina). Assi-stiamo dunque nella narrativa contemporanea a momenti dialettalipuri, a momenti di lingua miscedata con intenti ancora documentari;a momenti in cui l’italiano è riprodotto come lingua di incolti; a mo-menti in cui il dialetto è qualcosa di fuso nel discorso, non tropposollevato da esso, quasi ritmo interno della parlata più che rappre-sentazione di un personaggio: «forma interna» dialettale che non siesaurisce nell’uso di elementi dialettali sparsi, ma si trasfigura nellastruttura del periodo o nel calco (la lezione appunto del Verga).Quanto a fortuna, vitalità e funzione, nel Novecento, della poesia indialetto, c’è da tenere in conto, per una corretta valutazione, la mutatasituazione sociolinguistica, che ha fatto registrare in questi ultimi de-

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cenni la diffusione sempre maggiore della lingua nazionale su tutta lapenisola come lingua parlata. Ciò ha avuto conseguenze decisivesull’esistenza stessa, oltre che sulla funzione, della poesia dialettale. Ilpoeta dialettale non è più (come Goldoni, Porta o Belli o ancora DiGiacomo) il poeta popolare. L’uso parodistico tradizionale è subita-mente decaduto. È venuto a mancare di mano in mano l’interlocutoreprincipale, cioè il pubblico della borghesia dialettofona, la piccolaborghesia postunitaria cui si erano rivolti i Trilussa e i Pascarella. Èdecaduto per lo stesso motivo il teatro vernacolare (una eccezione vafatta per il teatro non popolaresco di Eduardo De Filippo, la cui te-nuta si spiega tenendo in conto che il suo testo ha bene rispecchiato iltentativo di parlare italiano da parte dell’individuo incolto presentatocon intento non caricaturale. La mistura di lingua e dialetto nel suoteatro – la lingua, per gli aspetti solenni e ufficiali della vita; il dialetto,per la vita autentica, la domestica sincerità, i problemi quotidiani – hadato luogo a una scrittura che bene ha penetrato gli aspetti espressivi ei limiti della classe media dell’Italia del dopoguerra). Il poeta dialettalenon è più (come Goldoni, Porta o Belli) il poeta popolare. Occupainvece la posizione dello scrittore colto che regredisce ora, nelle provepiù forti, in un’arcaicità remota (nel dialetto di Tursi, Pierro; nel dia-letto quasi ignoto di Grado, Biagio Marin), ora, nelle prove più debo-li, nel manieristico legame tra il dialetto e gli ambienti, le cose rievo-cate, il tipico, la provincia perennemente intatta, con gusto nostalgicoper il dialetto transeunte e le cose che furono (una superata malinco-nia gozzaniana); in questi casi la poesia dialettale si rifugia appuntonel registro minore sentimentale e intimistico, di matrice pascoliana ecrepuscolare, e si estenua e si rinchiude nel canto delle piccole cose ditutti i giorni, nell’immobilità, nell’arcadia; protrae stancamente unatematica superata dalla poesia in lingua, che ha intanto battuto vie di-verse e opposte. L’impiego del dialetto, in ogni caso, si è concentratoesclusivamente nel momento lirico. È voce di individualità più che diprotesta, di impegno, di sovversione o di moralità. Non può più esserecanto socialmente condizionato. Nel Settecento e nell’Ottocento (perun Goldoni, un Porta, un Belli) la scelta del dialetto fu scelta di cultu-ra, in antinomia e con autonomia culturale rispetto alla tradizioneletteraria nazionale. Nel Novecento un poeta dialettale, salvo casi ra-rissimi ed eccezionali, non può che situare la propria poesia nei confi-

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ni di una quotidianità più angusta, intinta di materia locale, di inti-mità familiare appartata e casalinga. Raramente il dialetto riesce aduscire dall’ambito della sua storia privata, per affrontare momenti dipiù ampio respiro. Anche l’equilibrio stilistico si è fatto cosa ben fra-gile: basta l’intrusione di un vocabolo o di un sintagma o di una rimaletteraria per spezzarlo. Ma la poesia in dialetto ha conosciuto pure isuoi vantaggi. La diffusione dell’italiano a tutti i livelli e la proverbia-lità usurante raggiunta da una lingua letteraria mediamente vulgata ebanalizzata ha per così dire riserbato al dialetto lo statuto di lingua‘alta’, quasi la sola in grado d’esprimere, senza falso suono o mala fe-de, senza retorica, situazioni e valori «inattuali» o «enfatici» (la casa, lafamiglia, gli affetti, l’infanzia ecc.): notevole in questo senso la «poesiain dialetto» (e non «poesia dialettale») di Giacomo Noventa. Il dia-letto ha potuto diventare strumento di antieloquenza, spontaneità,mezzo insomma per superare il conflitto tra prosaicità della materiaverbale e condizionamenti retorico-ritmici dovuti alla tradizione. An-che l’accordo su rime inedite, sconosciute alla lingua letteraria infla-zionata di convenzionalità rimiche, ha aiutato la freschezza e l’anti-letterarietà degli esiti. È il caso di un poeta di vasta cultura come il tri-estino Giotti, che supera le soglie della letteratura minore non solo (ha difatti accompagnato e integrato l’esperienza della poesia di Saba),ma per il fatto di lasciarsi alle spalle un uso vernacolare del dialetto,inventa una lingua d’arte, aristocratica e assoluta, riscopre in una cit-tà, in una regione, in una gente, gli eterni motivi umani intorno a cuiruota da sempre la Poesia, senza evadere dalla cultura e dalla poesia inlingua, e senza correre il pericolo di suonare falso, retorico. Una posi-zione invidiabile, indefinibile e privilegiata, fuori e dentro la ‘dialetta-lità’. Nel Novecento la neoavanguardia ha cercato di superare la sin-golare situazione culturale e linguistica italiana, valicando il tradizio-nale rapporto lingua-dialetto perennemente ritornante nelle nostrelettere. La neoavanguardia ha assunto difatti il dialetto come materialedi grado neutro, di valore pari ai linguaggi tecnico-scientifici ed aicultismi, per tentare una disgregazione eversiva di un linguaggio rite-nuto «merce» del neocapitalismo, conformista e standardizzata. Ildialettismo, lo stesso che il cultismo, non è più considerato nella suapeculiarità e singolarità storica, sociologica e letteraria. Il dialetto puòessere perciò assunto nel testo non per arricchire la lingua ma per far-

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ne esplodere le contraddizioni, per disintegrarla. Tale irrazionalisticasoluzione opposta al razionalismo della letteratura «borghese» tendead una eversione anarcoide. Il dialettismo usato fuori dal contestoabituale, instaura una sorta di collage con gli altri elementi di grado edi livello diverso (tratti da «codici corporativi» più disparati); inseritocioè in una struttura che non gli è propria, avrebbe la funzione dirottura dell’uso «medio». Se in passato il dialetto costituiva una sceltasociale o una scelta espressionistica, nella pagina degli scrittori dellaneoavanguardia vi cade neutrale, come elemento inutilizzabile; nonmacchia, ma elemento estraneo e pungente entro una scrittura im-personale e meccanica, come «un parlato da falsa registrazione su na-stro» (Sanguineti). Si spiega come l’audacia espressiva di autenticaavanguardia di un Gadda, la sua mescolanza degli stili, sia apparsa allaneoavanguardia «una specie di Arcadia espressionistica» (Giuliani). Idialetti, condannati dalla neoavanguardia, e in forte regresso comelinguaggi parlati, continuano comunque nella narrativa anche recen-tissima, al di fuori della dialettalità, del provincialismo, del preziosi-smo idillico, ad esser richiamati e assolti in appello; sia nel filone rea-listico sia nel filone espressionistico; sia come pregnanza e forza delpopolare e dell’autentico, sia come alternativa alle forme «medie» diun linguaggio conformistico imperante. L’elemento dialettale in Gad-da non ha nulla a che vedere, si capisce, con la coralità verghiana, chefiltrava ogni evento entro un’unica mentalità, lo riduceva ad un solopunto di vista (le proporzioni di un piccolo mondo di pescatori deiMalavoglia); la coralità era sociologicamente e geograficamente indi-viduata. In Gadda l’elemento dialettale immesso nel calderone delleespressioni astratte, sublimi ed enfatiche, dotte e tecniche, è visto condistacco critico, e collabora ad una composizione raffinata che non hapiù contatto con la dimensione psicologica e linguistica della coralitàe dell’autenticità popolare. In Verga, e ancora in Pavese, in Fenoglio,entrava con forza nella dinamica narrativa di una lingua anche parla-ta, in Gadda entra invece in una sincronia linguistica di elementi di-sparati tesi alla creazione di una lingua arbitraria capace di attraversa-re tutti gli strati dei linguaggi, dal basso all’alto, dal periferico al cen-trale. Il dialetto dunque è stato nelle patrie lettere caricato di funzionisvariatissime, e opposte talvolta: strumento al servizio del mondo po-polare o elemento astorico e neutrale, aideologico e disimpegnato;

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documento e denuncia, ribellione o gioco aristocratico, divertimentofilologico; suggestione e nostalgia di un mondo e di un ordine antico;trascrizione diretta della realtà, strumento di oggettività e di realismo,informazione; rappresentazione di un ambiente, di affetti e di valori,di ordini non decaduti; ma anche deformazione, negazione dell’ordi-ne, babele mistilingue, barocco e caotico stravolgimento; strumentodel comico, caricatura, ironia dissacrante, degradazione; ma ancheevocazione di mitico e di remoto, lessico tribale di un mondo patriar-cale, o vinto, umiliato e doloroso, di straordinaria dignità.

[da G. L. BECCARIA, Prefazione a Letteratura e dialetto,

Bologna, Zanichelli, 1975, 1-19]