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HA KEILLAH (LA COMUNITÀ) - BIMESTRALE - ORGANO DEL GRUPPO DI STUDI EBRAICI DI TORINO Sped. in A.p: 70% - filiale di Torino - n. 1 - 1° semestre 2018 - In caso di mancato recapito restituire al mittente che si impegna a pagare i diritti dovuti - C/O CMP TORINO-NORD www.hakeillah. com [email protected] MARZO 2018 ANNO XLIII -212 ADAR 5778 NELL’INTERNO: n STORIE DI EBREI TORI- NESI: IMPEGNO POLITI- CO (INTERVISTA A SARA LEVI SACERDOTTI) 3 n CANDIDATI (TOBIA ZEVI INTERVISTATO DA ANNA SEGRE, TULLIA TODROS INTERVISTATA DA ALDA GUASTALLA) 4-5 n ITA- LIA (EMILIO HIRSCH, BEP- PE SEGRE) 6-7 n ISRAELE (YEHUDA BAUER, REU- VEN RAVENNA, GIACO- MO PAOLONI) 8-11 n ISRAELE - STORIA (YOSSI AMITAY, ALESSANDRO TREVES) 12-13 n LETTERE (GIULIANO DELLA PER- GOLA) 14 n STORIA (MANFREDO MONTA- GNANA) 15 n LIBRI (EMILIO JONA, PAOLA DE BENEDETTI) 16-20 n RICORDI: PAOLA DIENA DISEGNI (BRUNA LAUDI) 20 n Male, o peggio? Questo numero di Ha Keillah va in stampa imme- diatamente dopo le elezioni ed è stato preparato prima, tra grandi timori e grande pessimismo, che si è rivelato ampiamente giustificato. Abbiamo visto montare la marea del razzismo, abbiamo sentito parlare di espulsioni di massa e di difesa della razza bianca, abbiamo gridato, con ragione, al pericolo fascista. Eppure nulla di tutto questo è bastato a tenere unita una sinistra litigiosa e lacerata da faide interne. Da queste elezioni escono con le ossa rotte sia il Partito De- mocratico sia Liberi e Uguali, ma anche quella parte del centrodestra che si autodefinisce mode- rata, ma che non ha esitato a coalizzarsi con la destra radicale e farne propri gli slogan. Insomma, per quanto tutti si dichiarassero mol- to preoccupati, nessuno si è preoccupato abba- stanza. Personalmente ho sempre pensato che il voto non debba essere un attestato di stima o una testimonianza delle proprie idee ma un’as- sunzione di responsabilità. La stessa assunzio- ne di responsabilità che mi aspetto da coloro che ho votato, al di là dei calcoli delle conve- nienze. Chi ha gridato – giustamente – al peri- colo fascista a mio parere dovrebbe dimostrare di essere disposto anche a scendere a compro- messi pur di contrastarlo. Ci sarà tempo nei prossimi numeri per riflessio- ni e valutazioni più approfondite. Al momento in cui andiamo in stampa non si può ancora dire se le elezioni siano andate male, peg- gio o peggio ancora. Auguriamoci che in futuro si possa dire soltanto che sono andate male. Anna Segre Vergogna!!! Nell’inverno del 1943 una coppia di miei cugini De Benedetti non è riuscita ad essere accolta in Svizzera: non erano abbastanza perseguitati. Loro due assieme ad altri ebrei italiani sono stati allora respinti al confine e catturati dai nazisti per essere deportati. Va ricordato invece che decine e decine di ebrei italiani sono stati salvati e nascosti nelle case di tanti non ebrei che in nome della umanità non hanno avuto paura di ri- schiare la vita. Oggi il governo dello Stato degli ebrei ha de- ciso di deportare qualche migliaio di “rifu- giati” in Uganda dove il locale governo rice- verà 5000 dollari per ogni persona accolta. Assistiamo così all’assurdità per cui il nostro paese ingaggia decine e centinaia di lavora- tori cinesi, filippini e di altri paesi per farli lavorare nell’edilizia, in agricoltura, nell’assi- stenza agli anziani mentre rifiuta di impiegare in questi lavori i rifugiati. È veramente impossibile preparare questi profughi, concentrati purtroppo nei quartieri più poveri di Tel Aviv, a questi lavori, smi- standoli in zone diverse del paese? E cosa dire per le decine e centinaia di bambini nati e cresciuti in Israele che non conoscono altro paese e altra lingua dell’e- braico? IDEOLOGIA DEL RESPINGIMENTO Giorgio Berruto (segue a pag. 2) Il populismo ha i giorni contati Il populismo – dice – è una risposta semplice a problemi complessi. Semplice come “+ Europa (e - latino)”? “Populismo di destra, populismo di sinistra, po- pulismo né di destra né di sinistra...” Non sarà un po’ troppo semplice chiamare “po- puliste” tutte le espressioni del disagio sociale? Non sarà un po’ troppo semplice gridare, in coro con Merkel e Juncker, “al populismo!”, tentando di intimorire l’elettorato, avocando a sé il mono- polio della ragione e facendo di tutte le proposte politiche non in linea con quella neoliberale – an- che quelle più divergenti fra loro – un unico fa- scio “estremista e irrazionale”? Non sarà un po’ troppo semplice definire “anti- politico” il M5S, la cui presunta natura post- ideologica altro non è che il riflesso della presun- ta natura post-ideologica dei governi presunti tecnici o succubi della presunta tecnocrazia UE? Non sarà che la misera credibilità centrista che cercano di contendersi fra loro uomini di Stato come Luigi Di Maio, Matteo Renzi e Mario Monti, nasconde, in fondo, un’offensiva ideolo- gica contro l’idea della possibilità del progresso sociale? Non sarà, forse, che la figura politica del sapiente economista dall’apparenza tutta dotta e austera e quella del demagogo dalle possenti corde vocali e i modi un po’ rudi hanno ha che fare l’una con l’altra più di quel che siamo abituati a immagina- re, come le due facce di una moneta? “Populismo” (tra virgolette) è una risposta sem- Nonostante sia evidente che i fenomeni mi- gratori siano una delle cifre del nostro seco- lo, continuano a venire intesi quasi sempre in ottica statocentrica. Per rendersene conto è sufficiente prestare orecchio ai discorsi del mondo politico, e non soltanto nella recente e a dir poco accesa campagna elettorale. Op- pure leggere su Facebook i commenti di mi- gliaia di utenti ai più o meno sgangherati po- st di non pochi candidati. Oppure semplice- mente prendere un tram, entrare in un super- mercato, andare a un festival e ascoltare quel che dicono le persone. I discorsi che si sento- no ripetuti in modo sempre più frequente non sono peraltro originali: “l’Italia è casa no- stra”, “ciascuno stia nel proprio Paese”, “tor- natevene a casa vostra” è un piccolo campio- nario non particolarmente elegante, ma c’è anche spesso e volentieri di peggio. Chi si re- puta magnanimo aggiunge magari “aiutia- moli a casa loro”, uno slogan buono per tutte le stagioni che fa impennare benaltrismo e ipocrisia molto sopra le soglie di allerta. Mi sembra evidente che l’idea che soggiace a queste espressioni sia quella secondo cui un certo territorio (forse quello in cui si na- sce?) sia considerabile di proprietà. Sarebbe Israel De Benedetti (segue a pag. 8) però una proprietà che non ha niente a che vedere con il concetto giuridico classico, per- ché è evidente che l’Italia non è di mia pro- prietà nello stesso senso in cui lo è l’alloggio in cui abito, la sedia su cui sono seduto e il computer a cui sto scrivendo. Ma allora di quale tipo di proprietà si tratta? Può forse giungere in aiuto la vicenda del- l’esodo del popolo ebraico dall’Egitto, riper- corsa e rivissuta ogni anno dagli ebrei duran- te il seder di Pesach. È sufficiente sfogliare la Torah per rendersi conto che si tratta di un percorso di liberazione imprescindibile per la configurazione delle tribù ebraiche come po- polo, e che la vicenda si svolge durante qua- rant’anni nel deserto, per eccellenza spazio senza confini, terra senza territorio, superfi- cie illimitata e indivisibile. Nel deserto, in- fatti, viene concessa la legge, autentico moti- vo che porta al coagularsi di comunità umane non omogenee, tribù appunto, intorno a nor- me e principi condivisi. Il popolo nasce gra- zie a legami e confini invisibili dunque, non certo a una estensione territoriale limitata, d’altronde impensabile nel deserto. Ed è pro- Genesi 27: con pelli di capra sulle mani e un piatto di cacciagione per fingersi Esaù, Giacobbe inganna il padre cieco per carpirne la benedizione di primogenitura (Disegno di Stefano Levi Della Torre) Manuel Disegni (segue a pag. 2)

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HA KEILLAH (LA COMUNITÀ) - BIMESTRALE - ORGANO DEL GRUPPO DI STUDI EBRAICI DI TORINOSped. in A.p: 70% - filiale di Torino - n. 1 - 1° semestre 2018 - In caso di mancato recapito restituire al mittente che si impegna a pagare i diritti dovuti - C/O CMP TORINO-NORD

www.hakeillah. [email protected]

MARZO 2018 ANNO XLIII -212 ADAR 5778

NELL’INTERNO:

n STORIE DI EBREI TORI-NESI: IMPEGNO POLITI-CO (INTERVISTA A SARALEVI SACERDOTTI) 3 nCANDIDATI (TOBIA ZEVIINTERVISTATO DA ANNASEGRE, TULLIA TODROSINTERVISTATA DA ALDAGUASTALLA) 4-5 n ITA-LIA (EMILIO HIRSCH, BEP-PE SEGRE) 6-7 n ISRAELE(YEHUDA BAUER, REU-VEN RAVENNA, GIACO-MO PAOLONI) 8-11 nISRAELE - STORIA (YOSSIAMITAY, ALESSANDROTREVES) 12-13n LETTERE(GIULIANO DELLA PER-GOLA) 14 n STORIA(MANFREDO MONTA-GNANA) 15 n LIBRI(EMILIO JONA, PAOLADE BENEDETTI) 16-20 nRICORDI: PAOLA DIENADISEGNI (BRUNA LAUDI)20n

Male, o peggio?Questo numero di Ha Keillah va in stampa imme-diatamente dopo le elezioni ed è stato preparatoprima, tra grandi timori e grande pessimismo, chesi è rivelato ampiamente giustificato. Abbiamo visto montare la marea del razzismo,abbiamo sentito parlare di espulsioni di massa edi difesa della razza bianca, abbiamo gridato,con ragione, al pericolo fascista. Eppure nulla ditutto questo è bastato a tenere unita una sinistralitigiosa e lacerata da faide interne. Da questeelezioni escono con le ossa rotte sia il Partito De-mocratico sia Liberi e Uguali, ma anche quellaparte del centrodestra che si autodefinisce mode-rata, ma che non ha esitato a coalizzarsi con ladestra radicale e farne propri gli slogan. Insomma, per quanto tutti si dichiarassero mol-to preoccupati, nessuno si è preoccupato abba-stanza. Personalmente ho sempre pensato che ilvoto non debba essere un attestato di stima ouna testimonianza delle proprie idee ma un’as-sunzione di responsabilità. La stessa assunzio-ne di responsabilità che mi aspetto da coloroche ho votato, al di là dei calcoli delle conve-nienze. Chi ha gridato – giustamente – al peri-colo fascista a mio parere dovrebbe dimostraredi essere disposto anche a scendere a compro-messi pur di contrastarlo.Ci sarà tempo nei prossimi numeri per riflessio-ni e valutazioni più approfondite. Al momento in cui andiamo in stampa non si puòancora dire se le elezioni siano andate male, peg-gio o peggio ancora. Auguriamoci che in futuro sipossa dire soltanto che sono andate male.

Anna Segre

Vergogna!!!Nell’inverno del 1943 una coppia di mieicugini De Benedetti non è riuscita ad essereaccolta in Svizzera: non erano abbastanzaperseguitati. Loro due assieme ad altri ebreiitaliani sono stati allora respinti al confine ecatturati dai nazisti per essere deportati. Varicordato invece che decine e decine diebrei italiani sono stati salvati e nascostinelle case di tanti non ebrei che in nomedella umanità non hanno avuto paura di ri-schiare la vita.Oggi il governo dello Stato degli ebrei ha de-ciso di deportare qualche migliaio di “rifu-giati” in Uganda dove il locale governo rice-verà 5000 dollari per ogni persona accolta.Assistiamo così all’assurdità per cui il nostropaese ingaggia decine e centinaia di lavora-tori cinesi, filippini e di altri paesi per farlilavorare nell’edilizia, in agricoltura, nell’assi-stenza agli anziani mentre rifiuta di impiegarein questi lavori i rifugiati.È veramente impossibile preparare questiprofughi, concentrati purtroppo nei quartieripiù poveri di Tel Aviv, a questi lavori, smi-standoli in zone diverse del paese? E cosa dire per le decine e centinaia dibambini nati e cresciuti in Israele che nonconoscono altro paese e altra lingua dell’e-braico?

IDEOLOGIADEL RESPINGIMENTO

Giorgio Berruto (segue a pag. 2)

Il populismo ha i giorni contati

Il populismo – dice – è una risposta semplice aproblemi complessi.Semplice come “+ Europa (e - latino)”?“Populismo di destra, populismo di sinistra, po-pulismo né di destra né di sinistra...”Non sarà un po’ troppo semplice chiamare “po-puliste” tutte le espressioni del disagio sociale?Non sarà un po’ troppo semplice gridare, in corocon Merkel e Juncker, “al populismo!”, tentandodi intimorire l’elettorato, avocando a sé il mono-polio della ragione e facendo di tutte le propostepolitiche non in linea con quella neoliberale – an-che quelle più divergenti fra loro – un unico fa-scio “estremista e irrazionale”? Non sarà un po’ troppo semplice definire “anti-politico” il M5S, la cui presunta natura post-ideologica altro non è che il riflesso della presun-ta natura post-ideologica dei governi presuntitecnici o succubi della presunta tecnocrazia UE?Non sarà che la misera credibilità centrista checercano di contendersi fra loro uomini di Statocome Luigi Di Maio, Matteo Renzi e MarioMonti, nasconde, in fondo, un’offensiva ideolo-gica contro l’idea della possibilità del progressosociale?Non sarà, forse, che la figura politica del sapienteeconomista dall’apparenza tutta dotta e austera equella del demagogo dalle possenti corde vocalie i modi un po’ rudi hanno ha che fare l’una conl’altra più di quel che siamo abituati a immagina-re, come le due facce di una moneta?“Populismo” (tra virgolette) è una risposta sem-

Nonostante sia evidente che i fenomeni mi-gratori siano una delle cifre del nostro seco-lo, continuano a venire intesi quasi sempre inottica statocentrica. Per rendersene conto èsufficiente prestare orecchio ai discorsi delmondo politico, e non soltanto nella recentee a dir poco accesa campagna elettorale. Op-pure leggere su Facebook i commenti di mi-gliaia di utenti ai più o meno sgangherati po-st di non pochi candidati. Oppure semplice-mente prendere un tram, entrare in un super-mercato, andare a un festival e ascoltare quelche dicono le persone. I discorsi che si sento-no ripetuti in modo sempre più frequente nonsono peraltro originali: “l’Italia è casa no-stra”, “ciascuno stia nel proprio Paese”, “tor-natevene a casa vostra” è un piccolo campio-nario non particolarmente elegante, ma c’èanche spesso e volentieri di peggio. Chi si re-puta magnanimo aggiunge magari “aiutia-moli a casa loro”, uno slogan buono per tuttele stagioni che fa impennare benaltrismo eipocrisia molto sopra le soglie di allerta.Mi sembra evidente che l’idea che soggiacea queste espressioni sia quella secondo cuiun certo territorio (forse quello in cui si na-sce?) sia considerabile di proprietà. Sarebbe Israel De Benedetti (segue a pag. 8)

però una proprietà che non ha niente a chevedere con il concetto giuridico classico, per-ché è evidente che l’Italia non è di mia pro-prietà nello stesso senso in cui lo è l’alloggioin cui abito, la sedia su cui sono seduto e ilcomputer a cui sto scrivendo. Ma allora diquale tipo di proprietà si tratta? Può forse giungere in aiuto la vicenda del -l’esodo del popolo ebraico dall’Egitto, riper-corsa e rivissuta ogni anno dagli ebrei duran-te il seder di Pesach. È sufficiente sfogliare laTorah per rendersi conto che si tratta di unpercorso di liberazione imprescindibile per laconfigurazione delle tribù ebraiche come po-polo, e che la vicenda si svolge durante qua-rant’anni nel deserto, per eccellenza spaziosenza confini, terra senza territorio, superfi-cie illimitata e indivisibile. Nel deserto, in-fatti, viene concessa la legge, autentico moti-vo che porta al coagularsi di comunità umanenon omogenee, tribù appunto, intorno a nor-me e principi condivisi. Il popolo nasce gra-zie a legami e confini invisibili dunque, noncerto a una estensione territoriale limitata,d’altronde impensabile nel deserto. Ed è pro-

Genesi 27: con pelli di capra sulle mani e un piatto di cacciagione per fingersi Esaù, Giacobbe inganna il padre cieco per carpirne la benedizione di primogenitura (Disegno di Stefano Levi Della Torre)Manuel Disegni (segue a pag. 2)

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Daienu (=ci basterebbe)Se non avessimo Casa Pound al governo anche con Salvini premier ci basterebbe.Se non avessimo Salvini premier anche avendolo come ministro dell’interno ci basterebbe.Se non avessimo Salvini ministro dell’interno anche con un governo decisamente di destra ci basterebbe.Se avessimo un governo moderato anche sostenuto solo dal centrodestra ci basterebbe.Se avessimo un governo di larghe intese anche con un premier discutibile ci basterebbe.Se avessimo un governo di larghe intese con un premier decente, anche non di sinistra, ci basterebbe.Se avessimo un governo guidato da un premier di sinistra anche con la necessità di un appoggio esterno ci basterebbe.Se avessimo un governo di sinistra senza la necessità di larghe intese pur con molta conflittualità interna ci basterebbe.Se avessimo un governo di sinistra senza troppa conflittualità interna anche con ministri poco competenti ci basterebbe.Se avessimo un governo di sinistra, coeso e formato da ministri di grande competenza certo sarebbe assai meglio...

Bruna Laudi, Anna Segre, David Terracini(frutto di una chiacchierata sette giorni prima del voto)

prio l’uscita dall’Egitto, un territorio che si-gnifica schiavitù, a innescare il percorso ver-so la libertà. Ma la Torah è ancora più espli-cita dando la parola direttamente al Signoreche apostrofa il popolo sgombrando il campoda possibili fraintendimenti: “Mia è la terra”.La conseguenza è che per la legge ebraica,legge del deserto, gli uomini non possono fa-re della terra una proprietà, e meno che maiun possesso perenne. Il quarantennale percorso nel deserto, inoltre,scardina il mito dell’autoctonia: l’idea, cioè,che esistano popoli legati in modo tanto in-dissolubile e ancestrale a una terra da poteressere considerati suo frutto. In Bereshit/Ge-nesi, quando Abramo giunge a Canaan trovapopolazioni già insediate sul territorio. E amaggior ragione ne troverà Giosuè dopo averguadato il Giordano alla guida del popolo. Èdunque la Torah stessa a chiarire che c’èsempre qualcosa e qualcuno prima, e chequesto vale anche per la terra che costituisceuno dei vertici del patto con cui prende iden-tità e forma il popolo ebraico. Nessuno èdunque autoctono, nel mondo ebraico, nessu-no affonda radici nella terra. Nel mito greco,al contrario, esistono alcuni esempi di autoc-tonia. Quello forse più celebre, di cui rendeconto in modo completo per esempio Ovidionelle Metamorfosi, ha come protagonistaCadmo, che dopo aver sconfitto il drago di-voratore dei compagni, su consiglio di Atenane semina i denti. Da questi spuntano imme-diatamente uomini adulti armati che comin-ciano a uccidersi a vicenda finché, con i solicinque sopravvissuti, Cadmo fonda Tebe.L’autoctonia, dunque, sembra il preambolodella guerra civile e fratricida: un fenomenoche il mito inserisce nella cornice della ne-cessità, ma che nelle città greche era endemi-co e temuto, come emerge da numerosi passidi Eraclito, Platone, Aristotele e altri ancora.Credo che, per eludere le fallacie dell’autocto-nia, sia necessario un rovesciamento del pen-siero. E anche in questo caso possiamo attinge-re al modello di Israele. Non più al l’Israele an-tico, ma in questo caso all’origine dello Statomoderno, che si stende su almeno cinque de-cenni prima della proclamazione di indipen-denza il 14 maggio 1948. Il progetto rivoluzio-nario del sionismo non è meramente naziona-listico, ma si propone di gettare le fondamentaper un nuovo abitare e coabitare. Con il sorge-re dello Stato, forse inevitabilmente, il proget-to è stato progressivamente irreggimentatonelle strutture e nelle necessità quotidiane diquesto. Eppure non si tratta di un progetto na-zionalistico, dal momento che in esso la terranon è fine, ma mezzo indispensabile verso ilfine. La terra, così intesa, diviene condizioneper lo schiudersi di possibilità nuove. La dire-zione? Non avere diritti di proprietà sulla terra– diritti autoreferenziali di autoctonia, prodro-mi del conflitto con portatori di presunti dirittidi uguale intensità e segno opposto – bensì es-sere abitanti della terra. Fare rifiorire la terra eabitarla con altri.Il fantasma dell’autoctonia che sembra aggi-rarsi oggi inquietantemente per l’Europa, enon solo, porta a distinzioni arbitrarie: noi/lo-ro, cittadini/clandestini, autoctoni/stranieri, e a

distribuire diritti di conseguenza. Eppure comepossiamo dimenticare che nella Torah la figuradello straniero è presente costantemente? Nonaffliggerai lo straniero perché stranieri voi sie-te stati nella terra d’Egitto: è questo il monitoche torna in numerosi passi. È il viaggio diAbramo – lech lechà, vai verso te stesso attra-verso l’abbandono della tua terra, del tuo paesee della casa di tuo padre – a definire l’ebreo.Ivrì è colui che ha compiuto il passaggio (la’a-vor significa “passare”, “attraversare”), coluiche è stato capace di divenire straniero. Lostesso Abramo, d’altra parte, si considera“straniero e residente (gher vetoshav) con voi”(Gn, 23:4). Secondo rav Joseph B. Soloveit-chick è condizione propria a ciascun ebreo, aqualsiasi latitudine spaziale e storica, quella diresidente, ma anche di straniero: un doppioruolo ineliminabile dettato dall’assunzione dispecificità pratiche e valoriali vissute in unaterra condivisa con altri. Lo straniero residenteprotagonista nella Torah permette allora l’in-staurarsi di una responsabilità biunivoca: miaverso lo straniero, dello straniero verso di me.E così la creazione di uno spazio di convivenzacivile fondato sulla condivisione dei precettinoachici.Per questo è particolarmente doloroso leggeredell’espulsione di almeno 30.000 immigraticlandestini originari dell’Africa orientale de-cisa dall’attuale governo Netanyahu. Unascelta che allinea Israele a molti Paesi euro-pei, per lo più disponibili solo a parole ad ac-cogliere chi proviene da contesti di conflitto edi miseria in cui è spesso la vita stessa dellepersone a essere messa in discussione. Israe-le, come d’altronde l’Europa, non sembra af-fatto interessata a conoscere quale potrà esse-re la sorte degli espulsi una volta varcata lafrontiera, ma solo a liberarsi di quello cheviene avvertito come un problema, anche acosto di un piccolo esborso. Secondo alcuni,inoltre, esiste una differenza morale tra azio-ne e omissione, per esempio tra affogare unbambino in un lago e vederlo affogare senzamuovere un dito pur essendo in condizione diaiutare. In questo caso la scelta del governoisraeliano sarebbe ancora più criticabile dellepolitiche europee sull’immigrazione. La pri-ma infatti comporta l’azione diretta di portareoltre frontiera, in Paesi partner pagati per ilservizio che offrono, i clandestini, mentre leseconde si fondano in primo luogo su omis-sione e dissuasione a monte (in questa cate-goria rientra anche il muro edificato da Israe-le lungo il confine con il Sinai).Quello che più conta, però, è che il respingi-mento si stia configurando sempre più chiara-mente come ideologia, se non addirittura comecarattere identitario. A me sembra un atteggia-mento che prescinde totalmente dal l’umanitàdell’Altro che abbiamo di fronte. Perché l’Al-tro non è più persona verso cui abbiamo doverima un problema senza volto da superare, ba-dando bene a non guardarlo negli occhi. L’al-ternativa a questo scenario, come ha affermatorecentemente Donatella Di Cesare, è ritenereche migrare sia “un atto esistenziale e politicoche va ancora riconosciuto. Lo ius migrandi èil diritto umano nel nuovo millennio”. Settan-tacinque anni fa, nel l’Europa dominata dallabrutalità nazifascista, un piccolo Paese alpinomantenne l’indipendenza. La Svizzera si pro-clamava disposta ad accogliere i perseguitati,ma nei fatti operò con una minuziosa politicadi respingimento: alcuni passavano, altri veni-vano bloccati alla frontiera. Lia Levi raccontameravigliosamente una di queste storie nel suoultimo romanzo Questa sera è già domani, di-sponibile in libreria da alcune settimane. Re-spingere significa dunque Auschwitz? No cer-to, soprattutto se crediamo rimanga una diffe-renza essenziale tra chi uccide e chi omette disalvare. Eppure per molti ebrei la frontierablindata fu il primo passo verso la cattura, ladeportazione e infine, in una lontana e ancorasconosciuta località della Slesia, il lager.

Giorgio Berruto

Vignetta di Davì

(segue da pag. 1) Ideologia del respingimento(segue da pag. 1) Il populismo ha i giorni...

plice a problemi complessi. Pur con tutta la suaprogrammatica vaghezza, l’accusa di populismosi presta bene a essere capovolta contro chi se neriempie la bocca. Le elezioni – dice – sono andate male. Pazienza,tanto il parlamento che si trattava di eleggere eragià esautorato. Che la sovranità non sia del popo-lo è chiaro a chiunque abbia il coraggio di con-fessarselo, al più tardi dal referendum greco del2015. Faremmo dunque meglio a cominciare achiamare “amministrative” le elezioni che crede-vamo politiche.La realtà dell’UE non ha niente a che vedere conil progetto di un’unione politica e democraticadei popoli europei. Si tratta piuttosto di uno stru-mento di dominio del capitale nordeuropeo e piùspecificamente tedesco utilizzato senza più alcunvelo di finto ritegno per fare concorrenza allaproduzione dei paesi mediterranei e imporre inmaniera autoritaria i costi sociali di questa con-correnza. La si chiama “austerità” ma in realtà èfoga sfrenata e arbitraria e conduce direttamentealla disgregazione sociale, all’imbarbarimento dimasse declassate e impaurite da un futuro più ne-ro degli immigrati africani.Occorre prenderne atto. Allora ci si troverà da-vanti due strade, una di destra e una di sinistra.Quella di destra è rappresentata grosso modo daSalvini: una posizione anacronisticamente sovra-nista che nutre il suo consenso di un’ideologianazionalista, xenofoba e allusivamente autarchi-ca. Quella di sinistra invece non è rappresentatada nessuno (dentro il prossimo parlamento italia-no): rottura definitiva col fantasma della pseudo-socialdemocrazia – che non è né socialista né de-mocratica, e grazie al cielo ha un piede nella fos-sa in Italia come altrove – e costruzione di unfronte continentale che unisca i movimenti socia-li di opposizione al centralismo di Francoforte.

Manuel Disegni

l’ultimo anno di liceo e non avevo ancora im-parato che per farsi votare bisognava per lomeno dirlo ai più stretti amici. Anni dopo, in-vece, entrai in circoscrizione Centro Crocettacome consigliere e vi rimasi per più di duemandati, fino al 2011, fino a diventare Vicepre-sidente. L’ambizione per la Presidenza dellaRepubblica si era decisamente ridimensionata!Da quel 1989, con momenti alterni ho vissuto,come molti, la vita politica italiana da una se-zione di partito con diversi momenti salienti:la Bolognina, la Cosa, le mozioni, i congressi,la democrazia interna, le commissioni, i sabatie le domeniche, le sere, le donne e gli uomini,le correnti, le sezioni tematiche, i congressi in-finiti, le mozioni. Era una scuola continua, erapartecipazione, era qualcosa di molto prezio-so. Ed era una dimensione anche privata con-divisa solo da chi faceva quelle stesse cose cheagli esterni potevano sembrare delle torture ci-nesi, come stare in un cinema o un teatro per18 ore di seguito.Poi la circoscrizione, le regole della democra-zia, il confronto con l’avversario politico el’amministrazione dei fondi pubblici.È stata una grandissima scuola di vita, ho ascol-tato riunioni infinite sui regolamenti e lezioni chefacevano venire i brividi per quanto erano toc-canti. Ho visto l’evoluzione del PCI fino al PD.Sono stata mandata al congresso nazionale laprima volta che fu invitato Berlusconi.Era un mondo a sé che molto dopo ho compre-so quanto sia stato fondamentale per la miaformazione di individuo consapevole.Molti di coloro che frequentavo scoprii poi es-sere amici di gioventù del mio papà e fui io ariportarlo a sentire con mia madre dibattitti in-finiti.Ritieni che la tua identità ebraica abbia in-fluenzato il tuo approccio all’impegno poli-tico? Ci sono temi a cui ti sei sentita parti-colarmente sensibile in quanto ebrea?Tra le tante definizioni sentite e risentite “l’e-breo è un ostaggio e un testimone” è fra quellein cui mi ritrovo di più. Certamente per un’ebrea non religiosa ma inqualche forma figlia della Shoah credo cheprendersi la responsabilità di qualcosa che ab-bia a che vedere con il bene comune, esserneparte e non osservatore, fa visceralmente partedella mia identità ebraica.I temi circoscrizionali naturalmente non eranodi grande dibattitto ideologico. Però alcunebattaglie hanno avuto una valenza forte: quellaper il crocifisso in aula, le celebrazioni delgiorno della memoria con i voti a favore di ANe Forza Italia e con le mozioni di Rifondazio-ne Comunista che si accaniva a sostenere che

la Shoah è anche degli zingari. In quelle occa-sioni naturalmente la mia appartenenza nonpoteva essere negata.Poi tanti dibattitti cui ho assistito in sezione do-ve mi sono imbattuta nel filone, per così dire,tradizionale di parte della sinistra ostile a Israe-le fino a diventare antisemitismo. Talvolta rea-givo e talvolta no, così, come tanti ebrei, hopensato di non mettere più piede in una sezionedel PCI-PDS-DS-PD. E poi invece ritornavo.Nel 2011 ho lasciato perché era finito un ciclopolitico e forse anche personale. La tua esperienza nell’Hashomer Hatazaire all’interno del mondo ebraico ti è statautile? Pensi che abbia influenzato in qual-che modo il tuo approccio alla politica?La scuola ebraica, l’Hashomer Hatzair, sonostate scuole di formazione insieme all’educa-zione famigliare che ho ricevuto e sono statecertamente alla base dell’attitudine alla politi-ca. Far politica, almeno com’era una volta, tiinsegnava a discutere, a non dare mai nulla perscontato e a seguire alcune regole. Così si fa-ceva anche al l’HH. Come vedi la politica oggi? Pensando alle im-minenti elezioni sei ottimista o pessimista?Ho molta più paura oggi rispetto agli anni del-lo sdoganamento di Fini. Fini, falso o vero chesia stato, ha fatto un viaggio in Israele accom-pagnato da Amos Luzzatto, e quindi almenoper il pubblico all’esterno ha cercato di rivede-re le sue posizioni, di ripulirsi un po’. I Cin-questelle per me sono peggio della Lega, sedevo fare un paragone. La Lega è apertamentefascista, razzista, antieuropeista, i Cinquestel-le sono furbescamente criptofascisti. Sono perlo sfascismo costante condito in parte con leepurazioni interne e in parte con la falsa de-mocrazia partecipativa. Mi auguro vivamente che vincano i partitiapertamente e sinceramente democratici e for-temente europeisti. Mi auguro inoltre che lapartecipazione al voto sia buona. Nel caso del-l’Italia non credo che la percentuale bassa divotanti sia sinonimo di “democrazia matura”.

Come era nata la tua decisione di impegnartinell’ambito della politica cittadina?In un modo totalmente autonomo e spontaneo.Un giorno, era il 1989, passai davanti alla se-zione di via Mazzini 44 vicino a casa mia e misoffermai a guardare i manifesti delle Europeeche si sarebbero svolte quell’anno. Anno, tral’altro, in cui avrei votato per la prima volta.Mentre guardavo il materiale elettorale uscì ilsegretario di sezione Antoine Manigas (capiscoche il linguaggio suoni arcaico, ma quello era ilruolo e quella era una sezione di partito: il PCI)e mi fece alcune domande. Alla fine mi chiese semi fosse interessato dare una mano per la cam-pagna elettorale delle europee di quell’anno.Così cominciai a volantinare senza pensarci sumolto, poi svolsi il mio primo “lavoro” retri-buito: mi fecero fare la scrutatrice di partito,solo che ai tempi le 80.000 lire venivano natu-ralmente devolute al partito! Sembra roba delpaleozoico eppure era così.Ero la più giovane in sezione e rimasi tale perlungo tempo; ero indipendente (non avevo presola tessera del PCI). Il segretario di sezione chie-se di costituire un gruppo di gente giovane per-ché la sezione aveva bisogno di “svecchiarsi” edi idee nuove. Ingenuamente dissi al Segretarioche però per fare questo lavoro avrei dovuto, co-me minimo, leggere la storia del PCI di Spriano(venivo dal liceo classico e le basi per qualun-que cosa erano fondamentali). Il segretario midisse che si poteva partire anche senza la letturadei cinque volumi della storia del PCI. Stessadomanda la feci a mio padre che mi rispose an-che lui così. Così la storia del PCI continua agiacere incellofanata imperturbata nella libreria.Il Segretario era l’unico, o quasi, operaio dellasezione: come è noto la connotazione socialedella sezione era fortemente marcata dalla bor-ghesia professionista o universitaria oltre a moltivolti noti della politica, allora torinese, che sa-rebbero diventati politici a livello nazionale inpoco tempo. Poi c’erano figure di peso decisa-mente significative come Gisella Giambone (fi-glia di Eusebio, fucilato a Torino il 5 aprile 1944,operaio, Medaglia d’oro al valor militare allamemoria), Ugo Spagnoli (Vicepresidente dellaCorte Costituzionale, nonché deputato per lungotempo) e molti altri di pari calibro e intelligenza.Certo la mia scelta, come ho detto, è stata deltutto indipendente, nel senso che nessuno mi haspinto, ma naturalmente a casa mia si mangiavapane e politica e io ero molto incuriosita da quelmondo. Tanto che a sei anni avevo già deciso(poi desiderio non mantenuto né avverato) chesarei voluta diventare Presidente della Repub-blica. Certo, allora c’era Pertini idolo assolutodell’antifascismo e dei bambini degli anni ’80. Nessuno a casa mia però aveva una militanzaattiva. Ma certamente le passeggiate della do-menica a Villa Genero con mio padre con inmano La stampa, La Repubblica e l’Unità pro-babilmente furono uno stimolo primario.Costituii un piccolo gruppo di giovani indi-pendenti all’interno della sezione con nessunobbligo di prendere tessere o di partecipare al-la vita della sezione, il mandato era quello diriunirsi per formulare nuove idee e discuteresu come coinvolgere il territorio circostante(problema immutato della politica italiana).In breve tempo alcuni miei amici seppure condubbi vari (allora si discuteva ancora…) miseguirono in questa avventura e da lì grazie alpassaparola arrivarono diversi giovani amicidi amici. Si fecero iniziative relative all’attua-lità e fu un momento anche molto divertenteoltre che formativo, anche perché potevamodavvero chiamare chiunque per farci un semi-nario o un’iniziativa pubblica. La disponibilitànei nostri confronti era massima.La prima volta che fui candidata fu a 19 anniper la circoscrizione sempre come indipenden-te del PCI; non vinsi, anche perché frequentavo

SARA LEVI SACERDOTTIPANE E POLITICA

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cand

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i ra alla Camera, quindi l’impegno a livellonazionale?Essere il candidato di territorio così vasto, ilcollegio più grande di Roma (350.000 abi-tanti), composto da una parte di periferia ro-mana e da alcuni territori fuori dal comune diRoma, richiama la dimensione cittadina dicui parlavo prima ma tocca anche alcunegrandi questioni nazionali, come l’aeroportodi Fiumicino, che è uno dei più importantiscali europei, o come la discarica di Mala-grotta, che era la più grande d’Europa, o latanto vituperata Ostia di cui si sono occupatea lungo le cronache. La legge elettorale attuale, che pure ha grandidifetti (il principale dei quali è che sarà diffi-cile formare un governo e una maggioranzaparlamentare) ha però il merito, almeno perun terzo degli eletti, di costruire un rapportodiretto tra gli eletti e i cittadini. Io sono il can-didato non soltanto del PD ma di tutta la coa-lizione, quindi non ho il problema di doverconquistare le preferenze, ma devo parlarecon tutti i cittadini, soprattutto con quelli chedi per sé non avrebbero voglia di votare ilcentrosinistra. Questo secondo me è il meto-do più sano per fare politica, e anche quellopiù divertente. Io mi sono scelto un collegiomolto difficile, ma comunque fare una cam-pagna di questo tipo è la cosa più bella chepossa accadere ad un politico: è estremamen-te entusiasmante poter parlare veramente contutti i territori che ti riguardano, con tutte lecategorie sociali, con tutte le persone, e nonsoltanto con quelli della tua area politica. Ritieni che la tua appartenenza ebraicaabbia influenzato il tuo approccio allapolitica?Assolutamente sì. Direi che due sono gliaspetti fondamentali. Uno è quello più scon-tato, cioè il fatto che noi ebrei abbiamo, anzi,dovremmo avere, una maggiore capacità direazione, di indignazione, di attenzione versotutti e in particolare verso le minoranze: ab-biamo un curriculum che ci rende più sensi-bili sui temi della democrazia, delle garanzie,delle tutele, dei diritti umani. Questa sensibi-lità dovremmo tenerla sveglia e anche un po-chino più manifesta. L’altro punto – che sento particolarmente per-ché di formazione sono uno storico della lin-gua – è che l’ebraismo è anche un grande eser-cizio di autocontrollo su se stessi e sul propriolinguaggio. La lingua è quella che fonda ilmondo, performativa e concreta. Questo eser-cizio di autocontrollo, personale e linguistico,è una delle grandi lacune della nostra epoca edella classe politica attuale. Oggi si è persa neldibattito pubblico la capacità di rendersi contodi quanto le parole possano essere pietre, pos-sano avere un ruolo dominante sia in positivosia in negativo. Io nel mio piccolo quando fac-cio politica cerco sempre di ricordarmi del-l’importanza delle parole. Questa forse, oggiche le ideologie sono tramontate, potrebbe es-sere la chiave che ci può salvare, per opporsial declino e al degrado.Peraltro mi pare che oggi anche nel mon-do ebraico ci sia qualche problema di nonattenzione al linguaggio.Certamente sì: anche nella nostra piccola co-munità ebraica nazionale, che è composta dipiccole comunità ebraiche locali, si perde lacapacità di discutere e di dibattere con civiltàe questo naturalmente è un grande dolore, ecredo che lo sia per molti. In parte è dovuto aisocial media, in parte al fatto che noi rappre-sentiamo i pregi e i difetti di tutti (anche se,come dicevo prima, per la nostra storia do-vremmo essere più capaci di rispettare certicodici di comportamento). Siamo in un mo-mento storico in cui, per la crisi economica ein generale per una serie di crisi epocali, spes-so le persone sono preoccupate, disperate, incondizione precaria; questo non può non in-

Candidato alla Camera per il PD nel collegioRoma 9.

Come è nata la tua decisione di impegnonel PD?La mia passione politica è nata, come spessoaccade, come passione civile che solo doposi è trasformata in un lavoro. Ho iniziato nelmondo delle associazioni, in particolare inambito ebraico (Ugei, ecc.), quindi fuori dauna dimensione di partito; quando poi nel2007 Veltroni, che allora era il sindaco dellamia città, ha formato il PD, un po’ per caso eun po’ per scelta mi sono trovato a essere im-pegnato nel processo fondativo; il PD nasce-va dalla fusione di alcune grandi tradizionidella politica italiana, quella comunista,quella socialista, quella cattolico-sociale, eanche di altre tematiche che apparivano at-tuali per un giovane, come quella ambienta-lista, oppure le esperienze civiche in alcunecittà, tra cui Roma che allora (era solo diecianni fa ma ricordarlo ora sembra una bizzar-ria) era considerata un’esperienza di buongoverno. Dopo quell’inizio di impegno nelPD ho avuto poi occasione di lavorare alcunianni in un’amministrazione locale, la provin-cia di Roma presieduta allora da Nicola Zin-garetti, e poi negli ultimi tre anni ho fatto ilconsigliere politico di Paolo Gentiloni primaalla Farnesina e poi a Palazzo Chigi. Ho mantenuto la voglia di fare politica nellamia città, dove sono stato candidato nella se-greteria nel PD. A mio parere la dimensioneurbana rappresenta la sfida più grande nellacontemporaneità e nel futuro: dal 2008 la mag-gior parte della popolazione mondiale risiedenei centri urbani. Questa trasformazione epo-cale può avere conseguenze devastanti se nonè sostenuta da una riconversione ecologica, mapuò essere anche l’occasione per costruire unmondo migliore. Così l’impegno locale diven-ta anche un impegno, come si diceva alcunianni fa, glocale: molte delle grandi questionidel nostro tempo hanno nelle città il loro epi-centro. Per fare un esempio, la solitudine (do-vuta a molti fattori come l’invecchiamento de-mografico, la rivoluzione tecnologica, l’allen-

tamento delle relazioni familia-ri e amicali) è una condi-

zione che ha nella cittàil cuore della sua ma-

nifestazione. Que-sta è una delle ra-gioni per cui, nono-stante le condizionidisastrose in cuiversa Roma, mipiacerebbe impe-

gnarmi nella miacittà.

Come è natala candi-

datu-

fluenzare anche la dimensione ebraica, soprat-tutto in alcune comunità più numerose. A que-sti fenomeni le classi dirigenti possono contri-buire in bene o in male. Se, come accade a li-vello di politica nazionale, sono i gruppi diri-genti a far leva su questi sentimenti compren-sibili per mobilitare un proprio consenso, èchiaro che questi sentimenti si acuiscono e di-ventano più aggressivi; se invece lo sforzo è dirassicurare e costruire ponti è chiaro che nelbreve periodo non è uno sforzo facile ma nelmedio periodo è più solido e più positivo.Pensi che la tua esperienza all’interno delmondo ebraico (Ugei, ecc.) sia stato un ba-gaglio utile?Moltissimo. Gli anni giovanili sono quellidella formazione: avere la possibilità di af-fiancare allo studio anche un impegno civile,la possibilità di misurarsi con problematicheconcrete, e anche con grandi questioni inter-nazionali, sociali, ecc. è stato molto impor-tante e ne ho un bellissimo ricordo.Devo dire che la litigiosità del mondo ebrai-co di cui parlavi prima è stata nella mia espe-rienza personale anche, tristemente, unagrande palestra. Visti gli attacchi che mi è ca-pitato di subire nella mia gioventù, durantegli anni del mio impegno ebraico, credo diessere vaccinato quasi contro qualunque co-sa, a meno che gli Spada non mi facciano unattentato a Ostia; tolto quello sono già attrez-zato a sostenere qualunque polemica o scon-tro. E questo mi ha dato una maggiore forzanell’impegno pubblico.Dunque, al di là delle dimensioni, non hainotato grosse differenze tra il modo di farpolitica in ambito ebraico e nel mondoesterno?Stando alla mia esperienza l’ambito ebraicoè persino peggiore. Il tasso di litigiosità cheho respirato in ambito ebraico non l’ho re-spirato altrove. Naturalmente non è che al-l’esterno sia meglio. Nella comunità il dibat-tito è più viscerale, e questo rende le discus-sioni più accese (a volte anche in manierainaccettabile) mentre invece quando si ha ache fare con il potere purtroppo non c’è bi-sogno di essere apertamente cattivi: si puòessere cinici senza bisogno di urlare, lo si facon un tratto di penna.Noi di Ha Keillah abbiamo l’impressioneche la sinistra ebraica sia in crisi rispetto aqualche anno fa, che abbia perso peso. Oforse è un’impressione sbagliata? Ti rispondo brevemente perché ci vorrebberomolte pagine. Io penso che la sinistra ebraicasconti la crisi della sinistra in generale nelmondo; in tutti paesi occidentali c’è una diffi-coltà a stabilire il perimetro dei propri obietti-vi (la Merkel che difende l’ambiente è di sini-stra o di destra? Macron che parla del l’Europaè di sinistra o di destra? Difendere l’occupa-zione a discapito della salute degli abitanti diuna zona è di destra o di sinistra?). Recente-mente qualcuno ha detto una cosa molto inte-ressante: per assurdo la sinistra, che per prima

TOBIA ZEVI

5nella storia aveva saputo costruire una narra-zione internazionale, in qualche modo si è tro-vata spiazzata di fronte alla globalizzazione;quando il mondo è diventato veramente inter-nazionale la capacità di fare battaglie a livellonazionale si è enormemente ridotta. Poi c’è naturalmente una crisi fortissima dellasinistra in Israele, che era un punto di riferi-mento: se c’era dibattito nelle comunità c’eraanche la percezione di appoggiare una partedella società israeliana; se invece ci si ritrovaa fare battaglie prive di sponda ci si sente nonsolo ininfluenti ma anche, diciamo, fuori asse.Naturalmente – e lo dico da dirigente del PD,consapevole di tutte le cose buone che ven-gono fatte – c’è anche una difficoltà della si-nistra italiana, in cui si rispecchia la sinistraebraica italiana. Il senso di spaesamento chedicevi è un dato di fatto su cui si rende neces-sario uno sforzo di riflessione. Secondo te perché la sinistra italiana è ar-rivata alle elezioni così divisa? E a tuo pa-rere è un bene o un male?Io penso che la spaccatura sia sempre una cosanegativa. Quando ci si separa le responsabilitàsono sempre di marito e moglie, tuttavia ho lasensazione che l’unico vero obiettivo di Liberie uguali sia quello di far perdere il PD; del re-sto – parlo da candidato in un collegio unino-minale – noi avremo molti collegi in cui beneo male avremmo vinto con gente mediamentepiù capace, che invece verranno vinti dalla Le-ga o dai Cinquestelle perché c’è un candidatoche ci fa perdere quella manciata di voti pre-miando di fatto quelli che secondo me sono iveri avversari, cioè le destre nelle varie sfac-cettature. L’operazione di far andare al gover-no Salvini per eleggere venti deputati di Liberie uguali francamente è complicata da spiegare.In conclusione – tieni presente che questonumero di Ha Keillah andrà in stampa do-po le elezioni, altrimenti ovviamente non tifarei questa domanda – sei ottimista o pes-simista?Certamente noi scontiamo una cosa che si ègià vista in Europa, cioè il fatto che abbiamogovernato bene per cinque anni eppure mol-te persone non ci amano. Questo è un pro-blema su cui finita la campagna elettoraledovremmo riflettere. Dovremmo chiedercicome mai riforme importanti, che comunquehanno migliorato il benessere delle persone,di aggressione alla povertà che è stata la ve-ra piaga di questi anni, non producono con-senso. Ci sono stati errori di comunicazionema anche qualcosa di più profondo. Del re-sto abbiamo dei precedenti emblematici, co-me la vittoria di Trump o quella della Brexit.Chi è più colpito dalla globalizzazione e dal-le sue malattie tende ad arroccarsi su posi-zioni che porteranno a peggiorare ulterior-mente la propria condizione. E a tuo parere quali errori di comunica-zione sono stati commessi?Dico una cosa a partire dalla mia esperienza dicandidato: è chiaro che se le persone sentono distare male l’elenco delle cose fatte, dei successiottenuti e dei dati numerici può addirittura es-sere controproducente; se io ho la percezioneche tutti abbiano trovato lavoro tranne me, senon posso andare una sera al mese in pizzeriacon la mia famiglia, i dati positivi sull’occupa-zione mi fanno solo incavolare di più. Poi siamo anche in un’epoca che cambiamolto rapidamente. Cose che ci apparivanomeravigliose soltanto pochi anni fa oggi so-no considerati errori; gli anni a guida Renzisono iniziati con un grande entusiasmo: l’e-nergia che questo giovane leader era in gradodi sprigionare è stata molto importante peravviare questa fase di ripresa; ma poi in pocotempo è come se questo senso, come dire, dicontinuo rilancio della sfida avesse affaticatocerte fasce di elettori; non è necessariamenteuna critica, è che viviamo in un’epoca in cuile leadership hanno una difficoltà a rigene-rarsi perché i cicli sono molto ravvicinati.

Intervista di Anna Segre

Perché ci sia stata questadifferenza fra me e mia so-rella non mi è del tutto chia-ro. Io ho fatto l’ultimo annodi liceo negli Stati Uniti do-ve sono stata ospite di unafamiglia ebraica molto si-mile alla mia e dove lamaggior parte dei mieicompagni di scuola eraebrea; tornando mi sonoiscritta all’università, mi so-no trovata in pieno 68: sonostata presa da altre cose. Ilfatto che mia sorella abbiaavuto per un po’ un fidanza-to israeliano, che sia andataun’estate in Israele, che ab-bia studiato l’ebraico ha fat-to probabilmente la differenza. La mia credosia stata più che altro una non scelta. Forseanche la mia timidezza mi ha un po’ frenato;mi sento un po’ a disagio a frequentare am-bienti nuovi; mi sento anche un po’ ignorante.Forse se mia sorella fosse stata a Torino sareirimasta più inserita. Andrò in pensione a fineanno ed uno dei miei pensieri è proprio quellodi prendere più contezza delle mie origini, diriprendere a frequentare la Comunità ebraica. Ritieni che la tua identità ebraica abbiainfluenzato il tuo approccio alla politica?Io sono, secondo me, molto condizionatadalla mia educazione ebraica; penso di esser-lo stata nella mia attività lavorativa e, adesso,nella scelta di far politica; mi sento moltomoralista, con principi rigidi. Secondo te gli altri hanno un modo diver-so di fare politica?Non so come farò io politica visto che per meè un’esperienza nuova.Perché la sinistra italiana è arrivata alleelezioni così divisa?In realtà rispondo a una domanda appena di-versa: perché siete usciti dal PD? la senatriceNerina Dirindin, alla presentazione di Liberie Uguali al cinema Ambrosio, ha risposto se-condo me acutamente: è il PD che è uscitodalla sinistra. È senza dubbio una deriva didestra.Pensi che sia meglio essere usciti da un PDdi centro sinistra, o di centro, e poi rischia-re di avere la Meloni ministro e magariSalvini premier?Il PD è poco di sinistra. Sono convinta che, inquesto momento, chi voterà LeU molto proba-bilmente non sarebbe andato a votare. Nonavrebbero votato PD comunque. E molti diquelli che voteranno LeU chiedono: ma non èche poi dopo tornate ad allearvi col PD, se nonon vi voto. C’è comunque molta gente chenon vota. Quando il PD ha avuto il 40% alleeuropee in realtà aveva votato solo il 60%.Non finirà come per il Comune di Torinodove abbiamo adesso persone assoluta-mente incompetenti? E in Regione? Forse non per incompetenza,ma il livello regionale della Sanità è statofrancamente pessimo.Non pensi che fosse peggio quando al gover-no c’erano Berlusconi e Lega e che, tuttosommato, questo governo qualcosa di accet-tabile, anche se non ottimo, abbia fatto?Renzi ha fatto tanti guai. Ho proprio paura diuna deriva fortemente di destra. Ho paurache si allei con Berlusconi. La Lorenzin, an-che se non è certo di sinistra, ha fatto alcunecose, ma tante altre no. Ad esempio i con-traccettivi, con un colpo di mano, non sonopiù mutuabili da agosto 2016: questo è sinto-matico di come funzionano le cose. Se uno fauna buona opposizione penso sia meglio cheun cattivo governo; francamente non credosiano voti sottratti al PD.

Intervista di Alda Guastalla

Candidata per il Senato di Liberi e Uguali, èlaureata in Medicina e Chirurgia e specializ-zata in Ostetricia e Ginecologia presso l’Uni-versità di Torino. Attualmente Professore Or-dinario di Ginecologia e Ostetricia pressol’Università di Torino e Direttore della Strut-tura Complessa di Ginecologia e Ostetricia2dell’AOU Città della Salute e della Scienza diTorino, Presidio Sant’Anna.

Come è nata la tua decisione di impegnopolitico in Liberi e Uguali?Ho sempre sviluppato il mio impegno civiconel lavoro. Ho infatti sempre privilegiatopiuttosto che i mega congressi l’attività di-dattica di ogni livello, corsi di laurea, master,dottorati, corsi di perfezionamento, e la ricer-ca, e nell’ambito clinico mi sono dedicata an-che molto ad aspetti organizzativi, sia a livel-lo regionale che nazionale, su come organiz-zare i percorsi formativi, le reti ospedale-ter-ritorio. Ultimamente sono però piuttosto fru-strata perché non c’è stata risposta alle mierichieste di dare certi indirizzi, nonostante ilmio grande impegno; nulla è andato avanti. Ipaletti burocratici estremamente rigidi e lecarenze di personale rendono davvero diffi-cile dare le continuità assistenziali, che perme sono un punto assolutamente cruciale, odare una multidisciplinarità nell’approccio alpaziente, cosa che ho portato avanti nel mioreparto ed è a mio avviso altrettanto cruciale.Ci si scontra con ristrettezze assurde che ten-dono a mortificare la professione. È semprepiù difficile e ormai getto la spugna.Ho quindi pensato di impegnarmi ad un livellodiverso e nuovo per me. Ho partecipato quindialla nascita del nuovo soggetto politico MDP(Movimento Democratico e Progressista) e miè stato chiesto con mia sorpresa di andare co-me delegata quando c’è stata l’assemblea aRoma; con mia ancora più grande sorpresa mihanno poi chiesto di candidarmi; io tenden-zialmente mi sentivo e ancora mi sento asso-lutamente inadeguata, ma ho comunque deci-so di lanciarmi in questa avventura in un mo-mento in cui avrei potuto invece decidere, vi-sto che andrò in pensione a fine anno, di met-termi tranquillamente a fare la nonna. In effet-ti fino a due mesi fa a chiunque mi chiedessecosa avessi intenzione di fare rispondevo cheavrei cessato totalmente la poca attività priva-ta che faccio attualmente; che avrei potuto, seci sarà qualche sviluppo, occuparmi ancoradella start up che ho avviato, che in realtàadesso è una s.r.l., e di alcuni progetti scienti-fico organizzativi, con l’istituto superiore disanità e con la fondazione Generali ad esem-pio. Con MDP mi è sembrato di ritrovare unposto di discussione, non una gestione vertici-stica, non una politica classica di tipo demo-cristiano. Come dicono gli inglesi: nothingventured nothing gained; uno ci prova.Tu non sei iscritta alla Comunità ebraica:quale ne è la ragione? Quali sono i tuoi le-gami con l’ebraismo?Ho un grande senso di appartenenza anche senon sono iscritta alla Comunità; mia sorella èinvece iscritta alla Comunità di Firenze. Miamadre aveva il padre ebreo, Segre, ma mianonna non era ebrea, per cui lei non era for-malmente ebrea; al momento delle leggi raz-ziali mia mamma, a differenza dei suoi fra-telli maggiori (Bruno, ad esempio, che eragià all’Università), è stata battezzata col suofratello minore per consentire loro di termi-nare il liceo: ha patito moltissimo questo fat-to ed anche il non essersi poi sposata religio-samente, cosa a cui la famiglia di mio padreavrebbe tenuto molto; in famiglia abbiamoperò sempre vissuto una vita ebraica, festeg-giato le feste andando al Tempio, fatto il se-der a Pesach. Anche quando sono stata perlavoro in Canada era Pesach e sono andata afare il seder da colleghi ebrei.

TULLIA TODROS

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dei Sitihttp://www.hakeillah.

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Oltre 400 siti com-mentati e aggiornatisu 23 argomenti e -braici, da An tise miti -smo a Yiddish, unma re di informazionie di link ulteriori.

MEMORIA SMEMORANDA6

Scrivo a cavallo di Shabat Zakhor, quando laTorah ci fa obbligo ricordare le persecuzionidi Amalek e ci impone di mantenere la me-moria per costruire un futuro migliore. Sha-bat Zakhor capita circa un mese dopo la gior-nata che per lo Stato Italiano rappresenta ilmomento di ricordare le persecuzioni nazifa-sciste. Le intenzioni di questa giornata digennaio sono le migliori e in fondo la co-scienza della Shoah viene attizzata un po’ovunque anche in persone totalmente ignaree indifferenti. Ci vuole però poco perchéquesta stessa occasione si tramuti in un mo-mento in cui l’antisemitismo si sfoga conmaggiore energia del solito. Porto in calce unesempio che mi ha particolarmente colpito.Si tratta di uno scritto che mi è arrivato viainternet, presentato dal “foglietto della ricer-ca”, blog di orientamento progressista cheoffre informazione accademica nel senso piùampio del termine e sempre di buon livello.L’articolo è firmato da Adriana Spera, unadelle fondatrici del blog e precedentementeconsigliere comunale di Rifondazione Co-munista a Roma. Lo scritto, inizialmente sultono impegnato e positivo, atto a ricordaregiustamente che le vittime della Shoah nonerano solo ebrei, conclude come riporto inte-gralmente.“Insomma, la persecuzione etnica nei con-fronti di questi popoli non ha, ad oggi, rice-vuto alcun riconoscimento istituzionale, nétemiamo mai lo avrà, considerato che tuttorasono vittime di discriminazioni ed emargina-zione sociale. Chissà, forse, hanno pesato inumeri? La cattiva coscienza dell’Europa edel mondo cieco dinanzi alle persecuzionidegli ebrei? Non vogliamo pensare che visiano vittime dello sterminio nazista di serieA e di serie B.La lezione della storia sembra non l’abbianoimparata in molti, neppure le vittime, se è ve-ro come è vero che uno dei posti dove i mi-granti in fuga da guerre e persecuzioni tro-vano meno accoglienza è proprio Israele, sela popolazione palestinese è costretta a vive-re in condizioni di totale deprivazione.”È inutile spiegare ad altri ebrei perché questosillogismo ci fa temere che la giornata dellamemoria sia da abolire perché divenuta unveicolo di antisemitismo, ormai sdoganatodal linguaggio “politically incorrect” ma digrande seguito inaugurato da Trump e oracon epigoni locali tra Lega/5 Stelle. Altret-tanto inutile sarebbe dialogare se le paroledella Spera fossero arrivate dall’antisemiti-smo storico di destra. Dobbiamo perdere lesperanze di una spiegazione e di una maggio-re empatia anche se queste parole arrivano dasinistra, pur sempre estrema? Dobbiamo

davvero rassegnarci all’adagio secondo cui,come in un cerchio, gli estremi si ricongiun-gono. Da un giornale ebraico progressistacome HK questo dovrebbe essere rigettato. Èper questo che qui cercherò brevemente di ri-volgermi alla Spera probabilmente annoian-do e intristendo buona parte dei nostri carilettori.Tutti gli ebrei a cui ho mostrato le righe del“foglietto” si sono sentiti frustrati e offesi maspesso scrittori come la Spera si trinceranodietro una fittizia distinzione tra antisemiti-smo e antisionismo. Dov’è che il ragiona-mento della Spera diventa antisemita? Evi-dentemente è nell’inciso “neppure le vitti-me”. A chi si sta riferendo? Alle “vittime”:quindi a quelli che non ci sono più. Quindi aqualcuno che certamente non ha contribuitoal conflitto in Medio Oriente. Oppure inten-de estendere il termine “vittime” a tutti gliebrei? Me incluso che ovviamente non sonoaguzzino di palestinesi? (Non si può neanchedare per scontato che tutti gli israeliani losiano, ma questo è un altro discorso). È ov-vio che non ha senso. Ecco dove il semedell’antisemitismo è di nuovo sbocciato. Ilcliché è sempre lo stesso: sei italiano, ebreoo israeliano? Per chi tieni? Sei colluso! È unpo’ come quando vedendo l’immigrato ma-grebino ci immaginiamo subito il terroristaislamico o incrociando il vicino senegaleselo inquadriamo come spacciatore. Eppure so-no sicuro che la scrittrice dell’articolo aborrequeste semplificazioni. Perché allora, nelgiorno della memoria, ci si permette questolinguaggio? Non ho spiegazioni se non unclima in cui si è deciso di ridurre le barrieredel pudore nel confronto con l’altro e soprat-tutto nel confronto con il diverso. Accusaregli ebrei di oggi, non un nucleo informe mame e te lettore in prima istanza, di sfruttare lapersecuzione della Shoah per un proprio tor-naconto, di aver costruito il mito delle vitti-me di serie A e di serie B per giustificare leproprie nefandezze è raccapricciante. Sequalcuno l’ha fatto ne risponda singolarmen-te ma accusare le “vittime” di non avere im-parato nulla dalla storia, sempre che le “vitti-me” in realtà siano i discendenti dei supersti-ti e pertanto anche cittadini inermi ed estra-nei a quanto imputato, significa colpire l’e-breo in quanto ebreo e ovviamente questonon ha altri nomi se non antisemitismo. Sem-pre perché ho simpatie progressiste non hoancora perso la speranza che la scrittrice ungiorno avrà l’illuminazione di cambiare regi-stro.Quando penso alle “vittime” e quindi ai non-ni ed ai genitori bambini, mi chiedo spessoperché non fossero fuggiti prima. Perché non

avessero percepito di essere in pericolo e nonavessero reagito con maggior decisione e ri-solutezza. Ora nel pieno della maturità mi èpiù chiaro e posso ritornare al passato conmaggiore indulgenza: è difficile perdere lasperanza nel vicino, soprattutto quando nehai condiviso ideali e percorsi. È difficileperdere la speranza che si tratti di un episo-dio marginale e che in fondo ci saranno altriche si schiereranno sinceramente a difenderele “vittime”. Forse la giornata della memoriauna utilità ce l’ha anche per noi: dobbiamoabituarci a vivere con meno speranza.

Emilio Hirsch

italia

Qui sotto:Dario Treves,

Ritratto della moglie;più a destra:

Le Croisic, 1961

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Dario Treves,1907-1978

Nato a Torino, frequenta Cesare Pa-vese, Norberto Bobbio, Piero Go-betti, Riccardo Gualino, Felice Ca-sorati. Del Gruppo dei Sei di Torinonon condivide però l’orientamentostilistico, pur nutrendo lo stesso inte-resse nei confronti della pittura fran-cese. Nel 1940 è costretto dalle leg-gi razziste ad emigrare negli USA,dove apre una scuola di pittura. Tor-na in Italia nel ’47. I suoi dipinti, chefigurano in numerosi musei europeie in collezioni pubbliche e private inItalia e all’estero, si caratterizzano,nei ritratti come nei paesaggi, perla forte sintesi della realtà e per laluminosità e immediatezza dellapennellata.

7UNA GIORNATAPER EDUCARE

Sotto a sinistra:Dario Treves,

Viareggio, 1961;qui sotto:

La Camargue, 1962

Quest’anno il Giorno della Memoria, a To-rino, è durato da lunedì 15 gennaio a mer-coledì 31. Si sono svolte commemorazioni ufficiali ecerimonie di omaggio alle lapidi dei depor-tati, sono state posate alcune Pietre dell’In-ciampo e sono state organizzate visite itine-ranti alle pietre già posate negli anni prece-denti, le scuole hanno invitato gli ultimi te-stimoni a raccontare le loro esperienze, sisono svolte presentazioni di libri di storia edi narrativa, convegni storici, recite daiDiari di Anna Frank e di Etty Hilllesum edalle opere di Irène Némirovsky, spettacolimusicali e teatrali, mostre fotografiche,proiezioni di film, esecuzione di musichecomposte nei ghetti e nei campi di concen-tramento, lettura pubblicha e integrale di Sequesto è un uomo, mostre di documenti sul-l’applicazione delle leggi razziali, installa-zioni artistiche, e altri eventi ancora. Si è parlato anche di Porrajmos, la persecu-zione di rom e sinti, e si sono presentatestorie e testimonianze di internati militari.Comunità Ebraica, Pubblica Amministra-zione, Museo Diffuso della Resistenza edella Deportazione, associazioni di depor-tati e di internati militari, scuole, enti dicultura e volontari hanno creato un’offertadi diecine di proposte per ricordare, in mo-do da permettere ad ognuno di sceglierel’attività più adatta e gradita, secondo lapropria cultura e il proprio carattere. Possiamo dunque valutare che la legge 20luglio 2000 n. 211 ha inciso profondamentesulla nostra società e costituisce una fortespinta a meditare sulla Shoah, anche se, inun’offerta così abbondante, naturalmente cisono proposte che risultano più consone al-la nostra sensibilità e altre che condividia-mo di meno.Ho sentito discorsi che spostano l’attenzio-ne verso il passato: cinquecento anni faCortès distrusse per sempre le civiltà deiMaya e degli Aztechi, sterminando milionidi individui; fu un genocidio, non fu il pri-mo ed a quello altri ne sono seguiti nel cor-so della storia, e la Shoah ne costituisceuno dei tanti.C’è invece chi ragiona filosoficamentesulla Shoah, vista come una rappresenta-zione del male assoluto, e sull’uomo, cheè sempre tentato alla violenza, poiché: “Ilmale sta in agguato dietro la porta” (Ge-nesi, 4, 7).E c’è chi porta la sua riflessione sull’attua-lità. Il contesto storico e le motivazioni non

politici”, di “sfruttamento dell’Olocaustoper la creazione e la conservazione diIsraele” nonché di “pulizia etnica dei pale-stinesi”. Si tratta di antisemiti che devonoessere svergognati, bisogna far loro digri-gnare i denti, come al figlio malvagio del -l’Haggadah di Pesach. Ma, al contrario diquanto avviene nell’Haggadah, con loro èinutile discutere, si tratta di atti di oltrag-giosa diffamazione e di incitamento all’o-dio etnico, che devono essere denunciati epuniti secondo le leggi della RepubblicaItaliana.E poi ci sono, fortunatamente, gli incontricon le scuole, in cui tanti docenti preparatie sensibili insegnano la storia del passatoed educano i ragazzi a contrastare razzismoe xenofobia.Ci sono le letture e le riflessioni sui testipiù profondi. Bastano a Primo Levi pochis-sime parole per ricordare Emilia, bambinacuriosa, ambiziosa, allegra e intelligente,destinata a essere uccisa a tre anni, “perchéai tedeschi appariva palese la necessitàstorica di mettere a morte i bambini degliebrei”, sono sufficienti poche parole peresprimere l’orrore di fronte all’odio ed allafollia del progetto nazista di sterminio ditutto un popolo.A proposito di cerimonie di commemora-zione, ricordo un discorso di Rav AvrahamDe Wolff di qualche anno fa, quando era vi-ce Rabbino Capo a Torino, che ci insegnòche in queste occasioni si devono fare trecose. Innanzitutto si devono ricordare le vittime,ed onorare chi ebbe il coraggio di opporsial nazismo e chi rischiò la vita per salvarepersone in pericolo.Poi bisogna studiare ciò che è stato. Per-ché non sia dimenticato, distorto o, peg-gio, negato, bisogna organizzare lavorinelle scuole, spiegare agli studenti, soppe-rire ai programmi scolastici che spesso po-co tempo dedicano alla storia dell’ultimoperiodo.E infine la cosa più importante: la vendetta.Il termine “vendetta” è una parola forte,che evoca violenza, e violenza in rispostaad altra violenza… senza fine. E allora,perché mai la evochiamo? Che cos’è questavendetta dal punto di vista ebraico?È la reazione all’ingiustizia patita. È voleree poter vivere in pace e con gioia. E viverein un altro modo, nel modo opposto a quel-lo che i nostri persecutori desideravano: bi-sogna comportarsi secondo democrazia,giustizia, apertura verso il prossimo, rispet-to verso i diversi da noi, solidarietà verso ipiù deboli.Questo il nostro compito, questo è quantodobbiamo insegnare ai giovani.

Beppe Segre

sono confrontabili, ma l’odissea di centi-naia di migliaia di esseri umani costrettioggi ad abbandonare la loro terra, attraver-sare deserti e mari, sopportare carceri e tor-ture, rischiare di essere uccisi e di annega-re, nella sostanziale indifferenza delle na-zioni più ricche d’Europa, ci ricorda dolo-rosamente le tragedie degli ebrei braccatidai nazifascisti.Amici cari ci invitano a condividere ricorditerribili, come se il Giorno della Memoriafosse una festa da celebrare insieme: comegià scriveva Elena Loewenthal nel libro“Contro il Giorno della Memoria” vorrem-mo gridare che non sono gli ebrei che devo-no ripercorrere la Shoah, gli ebrei hannogià patito allora, e non hanno bisogno distudiare, il ricordo di sei milioni di uomini,donne, bambini ammazzati ci tortura ognigiorno dell’anno.Ci sono incontri in cui vengono proiettati idocumentari crudeli che conosciamo a me-moria, con cumuli di cadaveri ignudi, e noici chiediamo se è proprio necessario vederequesta oscenità per capire il nazifascismo,e vorremmo che con rispetto e pudore ci siastenesse “dal dilungarsi a raccontare lacrudeltà delle loro azioni per non profana-re quell’aspetto divino che il Creatore haconcesso all’uomo”, come recita il Ritualedella Rimembranza che leggiamo durante ilSeder di Pesach.Quest’anno una mostra al Museo della Re-sistenza e della Deportazione ha propostouna antologia di barzellette della tradizio-ne ebraica, con l’utilizzo di vecchie vali-gie consumate, la cui presenza suscita me-morie di fughe in cerca di rifugio e salvez-za. Certo, lo sappiamo che Abramo ride,che Sara novantenne all’annuncio dellaprossima tardiva maternità ride, che Isac-co, con la storia drammatica che si troveràad affrontare, porta un nome che rimandaalla risata; l’ironia ha accompagnato il po-polo ebraico nella sua storia dolorosa el’ha aiutato a sopportare i dolori e le umi-liazioni ed a sperare nel futuro, ma la rac-colta di barzellette è proprio lo strumentopiù giusto da usare per il ricordo dellaShoah?Da alcuni anni, poi, il Giorno della Memo-ria è l’occasione per l’apparizione davantiai cancelli della Comunità o nelle aule delleUniversità di alcuni figuri, che osano parla-re di “responsabilità dei sionisti nello ster-minio degli ebrei nella seconda guerramondiale e sul suo utilizzo postumo a fini

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sorbiti in Israele come i 300.000 immigratiche sono giunti qui in virtù della Legge delritorno ma non sono considerati ebrei. Gliafricani sono appena il 10 per cento rispettoa loro. Ma il problema non è economico, at-tiene al colore della pelle. Il problema non èTel Aviv sud, che sarebbe povera senza gliafricani così come lo era prima del loro ar-rivo. La gente di quell’area imprecherebbecontro il governo e il comune eppure vote-rebbe per loro nelle elezioni. Quelli che so-no oppressi votano sempre per coloro che liopprimono. La persona a cui competono le deportazioni,il Ministro dell’Interno Dery, getterà in pri-gione senza limiti di tempo coloro che rifiu-tano di lasciare Israele. L’incarico gli siconfà: conosce infatti personalmente la que-stione essendo stato lui stesso in carcere:inoltre sa cos’è la discriminazione. Vi era di-scriminazione un tempo contro gli immigratidal Marocco anche se senza la minaccia diessere espulsi. I rifugiati meritano il carcere,o no? Gli “orientali” del Ministero dell’Internoperseguitano coloro che sono più orientali diloro, la cui pelle è più scura, agli ordini diquella che è essenzialmente un’ideologia na-zionalista askenazita. Il Dipartimento immi-grazione del Ministero ha emesso un comu-nicato preciso: il Ruanda li accetterà. Abbia-mo visto un documento rilasciato dal Ruandao dal l’Uganda o da altri paesi che lo attesti esi impegni a mantenere quanto è stato pro-messo ai deportati?Qual è l’interesse di noi israeliani ed ebrei intutto ciò? Abbiamo posto fine all’arrivo di ri-fugiati in Israele con un muro e i Beduini nelSinai non possono più derubarli, violentarli otorturarli. Ci avevano detto che sarebbero arrivati in cen-tinaia di migliaia. Non è avvenuto. Se voglia-mo essere amati dall’Africa dovremmo accet-tare i rifugiati – “gli infiltrati” – possa Dio ave-re pietà di noi – ed esserne orgogliosi così co-me lo fummo quando accogliemmo profughidal Vietnam o dalla Bosnia. In più otterremmouna piccola ma importante forza lavoro. Non diventeranno ebrei, non lo vogliono, maforse saranno amici degli ebrei, il che è im-portante. Moralità e politica coincidono qui.

Hanno attraversato frontiere senza permessogenerando con ciò problemi sociali, econo-mici e politici. Abbiamo cercato di fermarli,inutilmente, fino a quando la frontiera si èstabilizzata e l’ingresso di rifugiati è giuntoalla fine. È la storia di noi ebrei fra il 1945 eil 1947. Circa 250.000 persone in fuga, im-migrati illegali. Nel nostro caso non vi era unpaese terzo disposto ad “assorbire” i rifugiatiin cambio di accordi in materia di sicurezzae altro.Israele non è un’eccezione. Raramente i po-poli apprendono dalla loro storia e anche noinon abbiamo appreso niente. Come i “nostri”africani, gli ebrei erano stranieri, un’altrarazza. E come faremmo senza gli africani?Scaricheremmo i nostri impulsi razzisti suipalestinesi e su noi stessi. Da un punto di vi-sta pratico la deportazione di africani è un at-to di totale stupidità. Sono circa 37.000, cioè lo 0,4 per cento del-la popolazione, disposti a lavorare accantoo al posto di altri lavoratori stranieri che im-portiamo in massa in Israele perché gliisraeliani, soprattutto gli ebrei fra di loro,non amano sporcarsi le mani. Non abbiamobisogno di portare qui gli africani; essi stan-no già qui. La logica economica ci insegnache decine di migliaia di loro possono esse-re occupati al salario minimo e pagare letasse fino a quando decidano di tornare neiloro paesi. Se non possono tornare possono essere as-

Israele non deve cacciare questi profughi ar-rivati nel paese perché perseguitati nella loropatria da regimi di terrore.Israele, che a detta del suo primo ministro è`il paese più forte nel Medio Oriente, il paesedove vivono gli ebrei che hanno i miglioricervelli del mondo, non è in grado di acco-gliere qualche migliaia di profughi fuggitidal terrore o “solamente” dalla fame ? Abbia-mo la forza e la scienza, ma il cuore?Mi sono commosso a leggere sui giornali chegruppi di ex deportati si sono offerti di acco-gliere e perfino nascondere famiglie dei pro-fughi. Mi sembra giusto che anche il movimentodei kibbutzim si offra di accogliere famiglieminacciate di deportazione.Vergogna che il governo dello Stato degliebrei prenda simili decisioni, dimentican-do tutto quello che ha sofferto il nostro po-polo.

Proseguo dopo due settimane Il governo ha consegnato a tutti gli uominiprofughi in età di lavoro un documento che liinvita entro due mesi a scegliere tra la prigio-

I NOSTRI NIPOTICI CHIEDERANNO

isra

ele

Non ingannarené angustiare lo straniero,

perché stranieri fostenella terra d’Egitto(Esodo, 22,20)

(segue da pag. 1) Vergogna!!! ne e la partenza volontaria per altro paese.Per ora donne, vecchi e bambini non hannoricevuto questa ingiunzione. Ovviamente con ogni probabilità quegli uo-mini che accetteranno di partire in seguito fa-ranno venire il resto della famiglia. Dovesaranno inviati? Il documento non nominanessun paese ma assicura che saranno trattatibene. Nel frattempo giornalisti israeliani hanno in-tervistato in Uganda alcuni “deportati” e leloro condizioni sono apparse molto misere,sotto tutti i punti di vista. In Israele continu-ano le manifestazioni a favore dei profughida parte di magistrati, giornalisti e gentequalunque. Anche il movimento dei kibbutzim ha di-chiarato la possibilità di accogliere qualcuno,ma per ora niente di concreto.

22 febbraio La settimana scorsa due notizie migliori: untribunale di Tel Aviv ha deliberato che esserestato disertore o renitente alla leva in Eritreaè un motivo sufficiente per ottenere l'asilopolitico. Un altro tribunale ha permsso a col-oro cui era stata respinta la richiesta di asilopolitico di ripresentarsi. Ciononostante pare

continui la manovra di espulsione o carcere.In queste ultime due settimane i massa me-dia hanno smesso di occuparsi dei rifugiati,date tutte le altre novità nel paese. Tensioneal nord con l'abbattimento di un drone per-siano e la successiva caduta di un nostroaereo. Anche al sud si è rinnovata la tensione. D'al-tra parte giornali, radio e televisione sonozeppi di articoli sulle inchieste su Ne-tanyahu. Ormai pare siamo arrivati a quattroo cinque. Bibi appare alla televisione e con-tinua con volto sorridente a sostenere che so-no tutte bolle di sapone. Uno degli ultimisondaggi dimostra di nuovo che il 70% dellapopolazione lo crede colpevole, ma continuaa votare per lui!!!! A me, che sono ben lontano dal capire i sot-tofondi delle indagini, due cose sembrano ri-levanti: un primo ministro che accetta regalidi un milione di shekel (cosa confermata an-che da lui) e che si circonda di portavoce,consiglieri, avvocati di famiglia oggi tutti in-dagati non può considerarsi in grado di gui-dare il paese.

Israel De Benedetti kibbuz Ruchama

Se tutti questi argomenti non servono, dob-biamo fare appello a coloro che eseguono leespulsioni: gli agenti di polizia che arrestanoi rifugiati, i funzionari del Ministero, gli au-tisti degli autobus chiamati a trasportarli, ipiloti alla guida degli aerei destinati ad anda-re in Africa.Dobbiamo trovare i nomi di costoro ed ap-pellarci a loro dicendo loro: quello che vi sichiede viola ogni regola morale ed umana.Non fatelo. Se lo farete renderemo pubblici ivostri nomi, un atto pienamente legale. L’ar-gomento che avete soltanto obbedito agli or-dini e che siete addetti del settore pubbliconon vi aiuterà. Ci ricorda molto da vicino vi-cende simili nel nostro passato. Un ordinedall’alto non ci libera dalla responsabilitàmorale. I vostri nipoti vi chiederanno: cosahai fatto, nonno o nonna?

Yehuda Bauer Haaretz, 26 gennaio 2018

Traduzione di Giorgio Gomel

Yehuda Bauer è uno storico (Universitàebrai ca di Gerusalemme) ed è Presidenteonorario dell’International Holocaust Re-membrance Alliance

9Lettera a NetanyahuJcall Italia ha promosso, insieme alle ana -loghe associazioni di ebrei europei in piùpaesi (vedi www.jcall.eu) e a molte organiz-zazioni ebraiche negli Stati Uniti, la letteraqui allegata, sottoscritta da numerosi ebreiitaliani, rivolta al governo di Israele inprotesta contro il piano di espulsione di rifu-giati eritrei e sudanesi (circa 35.000 attual-mente nel paese) e in appoggio alle richiestepressanti espresse in questi giorni da intel-lettuali, accademici, medici, operatori so-ciali, autori e attori di cinema e teatro in Is-raele. L'insieme delle adesioni raccolte in di-versi paesi europei sarà trasmesso al gover-no di Israele. Riteniamo importante informare l’opinionepubblica in Italia di questa nostra iniziativa,diffonderne motivi ispiratori e contenuti esollecitare una sensibilità a un problema cheagita la società israeliana e il suo ordine de-mocratico.

Sig. Primo Ministro,Come ebrei europei e amici di Israele siamoprofondamente preoccupati circa il piano delsuo governo di espellere decine di migliaia dirifugiati eritrei e sudanesi entro tre mesi o dilasciare loro l’unica alternativa di affrontareun futuro di lunghe pene detentive in Israele.Nella maggior parte delle democrazie occi-dentali il tasso di accoglimento di richiested’asilo per rifugiati eritrei e sudanesi è supe-riore al 50 per cento mentre in Israele rimaneal di sotto dell’1 per cento.Siamo turbati dalle numerose testimonianzesecondo cui i richiedenti asilo che hanno ac-cettato di lasciare “volontariamente” Israelenon hanno trovato né sicurezza né protezionenei paesi che li hanno accolti, siano essi i lo-ro paesi d’origine o paesi terzi quali l’Ugan-da o il Ruanda. Sappiamo che molti di essinon sono più in vita. Temiamo che se si darà attuazione al pro-gramma la vita di migliaia di persone saràmessa in pericolo e che ciò produrrà unamacchia incancellabile alla dignità dello Sta-to di Israele e del popolo ebraico.In quanto discendenti noi stessi di rifugiati eparte di un popolo che fu straniero in una ter-ra straniera riteniamo di avere un obbligoparticolare verso i profughi, indipendente-mente dalla loro appartenenza etnica o reli-giosa. Riteniamo inoltre che lo Stato d’Israe-le – che fu fra i primi firmatari della Conven-zione internazionale circa lo status dei rifu-giati nel 1951 e che è uno stato fondato da ri-fugiati e immigrati – dovrebbe essere un mo-dello nel trattamento e nell’accoglienza deiprofughi.Le chiediamo quindi di riconsiderare il pia-no, appoggiando in questo senso le richiestepressanti che vengono da scrittori, accademi-ci, medici, attori e registi, in Israele. La esor-tiamo a rispettare i diritti dei richiedenti asilocosì come sanciti dalla Convenzione interna-zionale sui rifugiati e nel rispetto delle tradi-zioni e dei valori etici dell’ebraismo ed aconsentire loro di vivere in dignità fino aquando potranno ritornare nei loro paesi incondizioni di sicurezza.“Non consegnare al padrone uno schiavo chesi sia salvato presso di te fuggendo il propriopadrone. Egli potrà risiedere in mezzo a tenel luogo che avrà scelto in una delle cittàche più gli piacerà; non dovrai perseguitarlo”(Deuteronomio 23,15)“Il forestiero dimorante con voi deve essereuguale ad un vostro conterraneo ed ameraiper lui quel che ami per te; poiché anche voisiete stati forestieri nella terra d’Egitto” (Le-vitico 19,34)

Seguono 120 firme

Per adesioni: [email protected]

RifugiatiTrovo nel disordine di vecchie carte, la foto-copia della dichiarazione stilata da mio Padrez.l. con i miei dati biografici, al posto di con-fine svizzero, dove ci portarono all’indomanidella nottata guidati da contrabbandieri per lamontagna che divideva l’Italia occupata dal-la Svizzera. Strada facendo, spossati, i mieigenitori consegnarono uno dei sacchi a spallaad un boscaiolo che scendeva a valle, che,dopo aver incassato una lauta mancia, si per-mise di borbottare: “Ecco altri stranieri checi vengono a portar via il pane!”.Il mondo del terzo millennio è tra l’altrocoinvolto in correnti migratorie senza prece-denti, determinate da conflitti, dalla ricercadi condizioni di vita decenti o dalla fuga dal-l’oppressione politica. Israele negli ultimilustri è stata anch’essa toccata da questo fe-nomeno planetario. La polemica odiernaverte su cosa fare per i 35.000 infiltrati, rifu-giati (entrati in passato, via Sinai, attualmen-te blindato da una barriera) che sono rimastinel Paese. Sono per lo più fuggiaschi dall’E-ritrea in regime dittatoriale o dal Sudan.Senza una chiara politica governativa, annifa un gran numero di infiltrati si sono stabi-liti nei quartieri diseredati di Tel Aviv. Moltivi risiedano da anni, formando famiglie. Ibambini nati in Israele parlano solo ebraico.Date le proteste degli abitanti, vittime diquesta massa di stranieri, le autorità di im-migrazione si sono finalmente occupate delproblema. Nel frattempo è stato istituito uncampo di detenzione al Sud, ma si è legife-rato che, consegnando loro una somma didenaro, una gran parte dei rifugiati, sarà re-spinta in altri Paesi africani quali il Ruanda.Il problema non è affatto risolto e la polemi-ca è in calda effervescenza. Da una parte sisostiene che non possiamo sopportare l’one-re di altri stranieri che nuociono agli israe-liani, d’altro canto il popolo ebraico che èstato per secoli il perseguitato per antono-masia, non deve moralmente porre un ulti-matum: “O ve ne andate entro tre mesi o sa-rete reclusi come illegali”.

Il pendoloL’altro ieri le notizie trattavano spasmodica-mente del pericolo iraniano, da ieri la denun-cia della polizia su presunte azioni di malgo-verno del Premier di Israele occupa quasi to-talmente i notiziari, i dibattiti e i sondaggidell’opinione pubblica. Un paese che vive dinews non è una novità. Da mesi il dibattitopolitico è stato in gran parte dominato dallevoci, dai sospetti riguardanti il Re Bibi, an-che se accadessero nel frattempo attacchi ter-roristici, avvenimenti locali e mondiali dipreoccupante interesse. I problemi di fondorimangono e trascorreranno molti mesi finoalla decisione del potere giudiziario per unaincriminazione o assoluzione totale di Ne-tanyhau e come sempre tutto può succedere.

Reuven Ravenna,15 febbraio

Il TrentottoI cultori della storia notano, con un pizzico dimisticismo, che il numero otto denota spessoavvenimenti, al positivo o al negativo, digrande importanza. Dalla Pace di Vestfalia(1648) alla “Primavera dei Popoli” (1848),dalla fine della Grande Guerra (1918) al fa-migerato Trentotto delle Leggi Razziste (Raz-ziali) dell’Italia fascista. Attualmente per gliottant’anni di quella pagina disonorevole, adir poco, della storia italiana, è naturale che sidiscuta e si rifletta sulle cause, le complicità esoprattutto sulle conseguenze di quelle leggi.In prospettiva furono lo spartiacque per la mi-noranza degli “Israeliti” dello Stivale, che danovant’anni godevano della eguaglianza edella parità dei diritti e dei doveri nell’ambitodella collettività nazionale. E fu la prima fasedi un iter dall’esclusione alla repressione fisi-ca del ’43-’45, con la complicità fascista as-secondante l’occupazione nazista.Non ho quasi percepito la realtà di quegli an-ni per i miei dati biografici. Non ho compre-so, per esempio, entrando nel ’41 nella primaelementare nella scuola ebraica di Ferrara,dove nelle classi superiori insegnava GiorgioBassani, come questa da istituto preesistentedella Comunità Ebraica fosse per imposizio-ne diventato la scuola degli esclusi. Il mioTrentotto, si può dire, mi coinvolse nella suadrammatica attualità nel ’43, nei giorni dellafuga verso la libera Helvetia. Oggi ci rimaneil dovere di rivivere il dramma di coloro chepersero gli impieghi, degli scolari e degli stu-denti espulsi dalle scuole e dalle università,assieme ai loro docenti, non dimenticando lasolidarietà di tanti “ariani”, come si nomina-vano allora i non ebrei, ma non ignorandol’indifferenza di molti, per tacere sulle di-chiarazioni o peggio sugli atti di tipico anti-semitismo degli accoliti del regime.

NegevDopo decenni ho rivisitato il Negev, in untour di quattro giorni organizzato dall’Asso-ciazione dei pensionati amministrativi del -l’Università Bar Ilan di Ramat Gan. Ho rivi-sto la fattoria di Dan Balutin, figlio di Ada Al-granati di Firenze, sposa nel dopoguerra di unsoldato della Brigata Ebraica, che coltiva va-sti terreni e alleva animali salvati, con unapuntata a Revivim, uno dei tre punti che nel’43 anticiparono il possesso del Negev alloStato Ebraico, dove anni fa Yoel De-Malach(Giulio De Angelis) mi offrì un ortaggio irri-gato coll’acqua salmastra, frutto della sua ri-cerca pioneristica, che gli procurò il Pras(Premio) Israel. Oggi è un kibbutz fiorente,quasi un’oasi. Da Yeruham a Dimona, città inascesa, fino ad Hazeva nell’Aravà dove si te-neva una mostra sulla tecnica più avanzataper far rifiorire il deserto e infine SedehBoker, l’ultima dimora dei coniugi Ben Gu-rion, la cui tomba è situata al cospetto di unpaesaggio mozzafiato. E mi risuonano le pa-role del Grande Vecchio: “Il nostro futuro ènel Negev, dove si stabiliranno milioni diebrei”. Attualmente molti vedono l’avvenirein altre regioni.

BLOCKNOTES

Coltivazioni nel deserto del Negev Casa di Ben Gurion nel Negev

La redazionedi Ha Keillahringrazia

calorosamentei lettori checi hannosostenutocon le lorogeneroseofferte

Grazie!

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isra

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questo loro anno (Shnat Sharut - anno diservizio), prima di entrare nell’esercito, aquesti bambini bisognosi di punti di riferi-mento, limiti, attenzione e forse un po’ disemplice affetto. Altri due progetti interes-santi di cui abbiamo fatto parte, sono statilavorare in un Giardino Comunitario, unavera e propria comunità che si è formata in-torno ad un orto organizzato nel mezzo diun quartiere sul mare. Anziani in pensione ebambini delle scuole della zona riuniti percoltivare verdure insieme. Siamo state an-che fortunate a trovarci lì durante i festeg-giamenti di TuBishvat, che per la prima vol-ta per me ha segnato davvero l’inizio deiboccioli e della vita verde, che qui, a diffe-renza di Torino, ricomincia davvero ora, do-po un brevissimo inverno. La settimanaquindi si concludeva con un po’ di intratte-nimento in una casa di riposo russa vicino almunicipio, dove abbiamo fatto ballare dellesignore anziane, senza poter comunicare,perché nessuna di loro parlava né ebraico néinglese, ma solo e rigorosamente russo eforse un po’ di yiddish. La responsabile del-le attività del posto, una polacca, immigratain Israele con la famiglia a sedici anni neglianni ’60, sionista fino nelle ossa, che ha in-fatti poi cercato di convincerci a farel’Alyah, ci ha raccontato dell’importanza diquel luogo per i partecipanti, trasferitisi inIsraele per sionismo intorno agli anni’80/’90, a volte soli, senza famiglia o nipoti,e per i quali è stato impossibile impararel’ebraico, poiché già troppo avanti con l’età.

A confronto con la realtà

Questo mese e mezzo a Haifa mi è sembratoeterno, abbiamo conosciuto talmente tantepersone, abbiamo parlato e ascoltato storieincredibili, e siamo venute a contatto conrealtà israeliane nuove (anche se le scuoledove abbiamo lavorato mi ricordano quelledel quartiere in cui abito, San Salvario) espesso ignorate o nascoste durante i viaggiorganizzati in Israele. Questo è un meravi-glioso Paese multiculturale, ma finché conti-nueremo a lottare per l’assimilazione dellediversità, perderemo sempre più cultura enon arriveremo mai a creare una società equa.È difficile per me, però, pensare che la solu-zione contro l’assimilazione possa essere,per esempio, dividere i sistemi scolastici se-parandoli totalmente (laico, religioso, dru-so/arabo e privato), come funziona qui, in cuiognuno impara su se stesso e ignora la storiae le difficoltà degli altri. Come si può pensa-re che la popolazione si unisca sotto un’unicabandiera se è lo Stato stesso a tenere i bam-bini separati dalla prima infanzia? E in unPaese come questo, fondato dall’immigra-zione, è spesso incredibile immaginare chenon siano accettati casi di immigrazioneodierna e non si solleciti l’integrazione piut-tosto che l’espulsione o l’isolamento. Comefa uno Stato creato da chalutzim (pionieri),

dendo budget per la spesa e la vita del grup-po. Come kvutzà la prima settimana abbiamoavuto una lunga discussione su come avrem-mo dovuto regolare la kuppà (fondo colletti-vo), Vogliamo usare i nostri soldi privati? cichiedevamo, Come facciamo a sopravviveree a vivere come vogliamo o come siamo abi-tuate, solo con 25 shekel al giorno? Alla fineci siamo convinte che sarebbe stato megliocercare di non spendere denaro personale,per rendere l’esperienza più completa; abbia-mo deciso dunque di dedicare 20 shekel ognidue settimane per interessi personali e 30 almese per viaggi al di fuori di Haifa. Anche sealla fine non ha totalmente funzionato e spes-so ci siamo ritrovate ad usare i nostri soldi,soprattutto nei weekend, in cui di sovente al-cune si allontanavano dalla Comuna per visi-tare amici e parenti, mi ritengo soddisfattadel tentativo. Adesso so su cosa bisognereb-be fare più attenzione per una possibile futu-ra vita del genere.

Il volontariato e la società israeliana

La parte più interessante di questo periodoperò, sono stati i vari volontariati che cihanno portato a conoscere davvero dall’in-terno la comunità multiculturale della città edel Paese in generale. Alla domenica e al lu-nedì abbiamo insegnato inglese in una scuo-la elementare di periferia, chiamata Izrae-lia, in cui i bambini sono per il 90% figli onipoti di immigrati dai paesi dell’Est Euro-pa. Al martedì e al mercoledì, invece abbia-mo dedicato i pomeriggi ad un’altra scuolaelementare, Ein Hayam, in cui siamo statecoinvolte nel programma dell’Hashomer,chiamato Nachshonim, che gestisce dei do-poscuola in tutta Israele, in scuole con bam-bini in difficoltà. Infatti in questa scuola cisiamo trovate con cinquanta bambini per lopiù violenti e maleducati con famiglie pro-venienti da tutto il mondo. È stato emozio-nante vedere questo vero e proprio meltingpot di bambini che comunicavano tra loroesclusivamente in ebraico, bambini sicura-mente israeliani, alcuni ebrei religiosi, altrimeno religiosi ed altri ancora musulmani ocristiani, ma tutti israeliani. Qui prima ditutto ho migliorato molto il mio ebraico. Maho anche stretto un bel rapporto, attraversoquesta esperienza, con un altro gruppo di ra-gazzi israeliani della nostra età, che hannodeciso di aderire al programma e dedicare

FACCIA A FACCIA CONLA REALTÀ ISRAELIANA

La Comuna

Finito il kibbutz, salutati i nostri compagnisudamericani, che sono tornati a casa, io e lemie altre quattro compagne (messicane e sta-tunitensi) ci siamo avventurate con i ragazzidell’Hashomer israeliana, nel deserto delNegev. Dopo quattro giorni di hiking, che trasofferenza, emozione e soddisfazione, cihanno legate molto come gruppo, ci siamofinalmente trasferite a Haifa!Arrivate in questa casetta nel turistico quar-tiere della vecchia Colonia Tedesca, abbiamoprovato a sentirci a casa, ma era difficile so-stituire il sentimento che ormai ci legava alkibbutz e non credevamo che in un mese emezzo saremmo riuscite ad instaurare lostesso rapporto con questa nuova città. Ma èstato più facile del previsto. Questa parte del programma è chiamata laComuna, dal nome, appunto, che viene datoalla casa in cui viviamo e al tipo di gruppoche la condivide, non semplicemente coin-quilini. La Comuna è una comunità di perso-ne che condivide i propri beni, un percorso diideologia comune, e si applica nel socialecon delle messimot (missioni) come gruppo ocome singoli membri per migliorarlo e pergarantire un’alternativa collettiva alla vita in-dividualistica e competitiva a cui la societàspinge oggi. La Comuna viene spesso consi-derata, soprattutto in Israele, un kibbutz ur-bano; a Tel Aviv per esempio dei Bogrim(adulti) del nostro Movimento, hanno com-prato un palazzo che stava per essere demo-lito e ne hanno ricavato vari appartamenti incui vivono delle kvutzot (gruppi). Insiemeformano una micro-collettività nella città,condividendo spazi come la cucina, il salot-to, i bagni, le macchine e altro.Questo periodo è dunque per noi un periodoper poter sperimentare e vivere un’altrarealtà di vita comunitaria, diversa dal kibbutze forse un po’ più moderna. Non avendo deiveri stipendi da mettere in comune, il Movi-mento ci ha fornite di 25 shekel (6€) al gior-no per persona, che le due incaricate cometesoriere si sono occupate di gestire, preve-Vignetta di Davì

Un nuovo traguardo raggiunto, quattro mesi e mezzo in Israele, ed eccomi di nuovo qui a con-dividere con voi la mia esperienza dello Shnat Hachshara (anno di formazione) del MovimentoGiovanile Hashomer Hatzair.

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è stato interrogato per il sospetto che avesseoccultato alcune prove per diminuire la re-sponsabilità del soldato condannato per l’o-micidio di un assalitore palestinese già inca-pacitato. Altro noto personaggio presente èAnat Cohen, residente a Hevron e nota peraver spesso attaccato fisicamente sostenitoridei diritti civili palestinesi che si trovasserosulla sua strada, davanti all’insediamento diBeit Hadassah. Durante la visita viene spiegato al gruppo co-me la strada principale di Hevron, Shuhada,sia chiusa al commercio palestinese da dopoil massacro di Hevron, quindi dal 1994. Insostanza, un crimine perpetrato da un cittadi-no israeliano ha portato alla punizione collet-tiva dei palestinesi a Hevron. Dalla secondaintifada in poi, Shuhada è totalmente inter-detta ai palestinesi, anche l’accesso pedona-le. Più avanti, dove un tempo sorgeva unasontuosa stazione degli autobus, adesso c’èuna base dell’IDF. Essa protegge tre insedia-menti lungo la strada, Avram Avinu, Beit Ro-mano e Beit Hadassah. Alla fine di Shuhada, più di cento persone at-tendono un’ora prima che l’IDF e la poliziapermettano loro di visitare il quarto insedia-mento, Tel Rumeida. Ma una volta arrivati lì,delle residenti inferocite si scagliano addossoalle guide. In particolare contro AvnerGvaryahu, il direttore di Breaking the Silen-ce. Nonostante la violenza da parte di questeresidenti, i partecipanti alla gita, senza averfatto nulla, vengono scortati e controllati dasoldati e poliziotti. Subito dopo, presso il centro di ‘YouthAgainst Settlements’, l’attivista palestineseIssa Amro, venuto a parlare con i visitatori,cerca di far uscire senza successo i poliziottidal proprio giardino. La richiesta sembrereb-be logica, dato che Amro non è colpevole dialcunché in quegli eventi. Ma è la situazionea sfuggire ogni logica di uno stato di dirittodemocratico. In questa situazione, le persone che hannoprovocato, insultato e agito con fare violentosono cittadini israeliani, e le autorità lì pre-senti non possono impartire loro più di unrimprovero paternale. Issa Amro è un palesti-nese. Non è un cittadino israeliano, ma è soggettoad un’occupazione militare. La sua opposi-zione all’occupazione, per quanto portataavanti rispettando principi non violenti è, inqualunque forma, una minaccia alla sicurez-za israeliana. Quel giorno, di questa situazio-ne illogica ne hanno avuto un esempio tutti ivisitatori. Il tour è finito prima del previsto poiché leautorità competenti non potevano garantirnela sicurezza. Ma Issa Amro e i palestinesi chevivono ad Hevron, nella zona H2, paganotutti i giorni il prezzo più caro di questa si-tuazione: la mancanza di dignità e libertà. Risulta quindi comprensibile che Amro nelsuo discorso agli avventori si concentri piùsu dignità e uguaglianza come principi per lapace piuttosto che su quanti stati debbanosorgere.Questa situazione nulla ha a che fare con larichiesta legittima di sicurezza da parte dimolti israeliani. Essa è il risultato di unalunga occupazione militare, che per preser-vare la presenza di seicento israeliani, con-trariamente al diritto internazionale, rendela vita di ottocento palestinesi miserabile.Verrebbe quindi da chiedersi cosa spaventidi più riguardo a Breaking the Silence, larealtà raccontata o alcune falle nel modo diraccontarla?

Giacomo Paoloni

immigrati in questa terra anche illegalmen-te, e onorati come eroi per questo, a proget-tare adesso di deportare 35.000 immigraticlandestini, che hanno rischiato la loro vitae la vita dei loro cari per raggiungere questaisola democratica? Queste sono le contrad-dizioni che ho notato e a cui ho spesso pen-sato in questo periodo, ma si tratta di un’al-tra lunga riflessione da affrontare, magari inun prossimo articolo.L’esperienza a Haifa però è finita, abbiamodovuto salutare tutti, promettendo di andarlia trovare presto, abbiamo riempito le nostrevaligie, e detto addio alla nostra Comuna, incui ormai dopo decine di cene e pranzi con-divisi, con paste scotte e tortillias bruciate,peulot, discussioni, litigi e confessioni, cisentivamo totalmente a casa. Prima di partireper la successiva avventura, però, abbiamotrascorso quattro giorni a Givat Haviva, cen-tro culturale dove si trova l’archivio dell’Ha-shomer e il “Quartiere Generale”, parteci-pando alla Veidà (congresso) del Movimentoisraeliano, dedicata ai 70 anni della MedinatIsrael. Abbiamo affrontato appunto temati-che relative alla storia dello Stato, alla Politi-ca e al Movimento, insieme ad un migliaio dialtri ragazzi più o meno della nostra età. Èstato particolarmente emozionante essere cir-condati da così tante chultzot shomriot (ca-micie blu, uniforme del movimento) e vederesoprattutto una numerosa partecipazione daparte della Tnuat Haim (il movimento dellavita) composto da centinaia di giovani (e me-no giovani) adulti che hanno deciso di conti-nuare la propria vita all’interno del Movi-mento. Essi vivono collettivamente in kib-butzim o Comunot, e spesso portano avantiprogetti supportati dal Movimento, per in-fluenzare la società che li circonda e il Mon-do, come il Centro di Giustizia Sociale, ilprogramma Nachshonim (di cui ho parlatoprima), la scuola per immigrati a Lesbo emolti altri.

Il Machon

Infine dunque è arrivato il momento di la-sciare Haifa e trasferirsi a Gerusalemme,per iniziare il Machon Le ’Madrichei ChutzLaAretz, un programma della JewishAgency per leader giovanili dei movimentisionisti mondiali. Qui io e le due statuni-tensi ci siamo unite ad un gruppo di trentaragazzi e ragazze provenienti dal Sud Afri-ca, dall’Australia, dalla Nuova Zelanda edall’Inghilterra, appartenenti a svariati mo-vimenti, chi di destra, chi di sinistra, chi dicentro e chi apolitico, chi modern ortho-dox, chi conservative, chi reformed, chi lai-co, chi umanista. Un incredibile crogiuolodi culture e ideologie, che mi ha già iniziatoad arricchire e che invece di dividerci ci sti-mola ad un profondo confronto e amicizia.Le altre due messicane si sono unite, inve-ce, a duecentotrenta compagni sudamerica-ni (anch’essi di vari movimenti). Qui nelCampus di Kiryat Moriah, infatti, si svol-geranno due programmi contemporanea-mente, uno in spagnolo e portoghese e unoin inglese. L’esperienza si profila molto ap-pagante, queste prime settimane sarannooccupate da gite e attività dedicate alla sto-ria del popolo ebraico nella Terra di Israele.Dopodiché inizieremo delle vere e proprielezioni e workshop sul conflitto, sulla lea-dership giovanile, sulla società israeliana,sull’educazione, sull’etica, sulla religione esulla cultura ebraica. Mi onora fare parte diquesta parte del programma, che, in questocampus, dal 1946 educa giovani sionisti adiventare leader ebraici della Diaspora espero di riuscire a trarre tutto quello cheposso da questi prossimi tre mesi e mezzodi esperienza, prima di tornare a casa con ilmio nuovo bagaglio.

Beatrice Hirsch

Nel 2016, il governo israeliano, tramite il suoministro della giustizia Ayelet Shaked, hacambiato la corrente legge sui finanziamentialle organizzazioni non governative (ONG).Quelle il cui budget è finanziato per oltre il50% da finanziamenti pubblici stranieri de-vono dichiarare nei report pubblici e negli in-contri con deputati alla Knesset di essere fi-nanziati ‘da fonti straniere’. Dato che tuttequeste organizzazioni da sempre rendono lemedesime informazioni accessibili al pubbli-co, è chiaro che la legge avesse un altro in-tento. In altre parole, creare un alone di ille-gittimità attorno alle ONG di sinistra. Infatti,basta pensare che ONG di destra, con finan-ziamenti stranieri più onerosi, sono esentateda questo provvedimento in quanto finanzia-te da privati.Delle 25 ONG colpite, non molte sono noteagli israeliani quanto Shovrim Shtikà, in in-glese Breaking the Silence. L’organizzazione, fatta da ex soldati che han-no servito in Cisgiordania, prova a sensibi-lizzare il pubblico israeliano ed internaziona-le riguardo all’occupazione. La sua attivitàprincipale sta nel raccogliere testimonianze,la maggior parte anonime, di quei soldati chehanno servito in Cisgiordania. Breaking theSilence è soggetta a una campagna di delegit-timazione trasversale. Perfino il comico Israeliano Lior Schleien,accusato spesso di essere troppo progressistada politici come Naftali Bennet, ha dedicatoun’intera puntata all’organizzazione ripeten-do note accuse, come l’illegittimità delle sueattività internazionali o l’accusa di mostraresenza contesto ‘la biacheria sporca d’Israele’al mondo. Qualche mese fa, un leader di Breaking theSilence, Dean Issacharoff, è stato soggetto aduna campagna d’odio a causa di una testimo-nianza pubblica da lui rilasciata e ritenuta fa-sulla dalla polizia militare. Ciononostante,questo articolo non discute dei vizi di formacontestati a Breaking the Silence. Piuttosto,esso cerca di concentrarsi sulla realtà chel’organizzazione racconta.Questo febbraio, nel ventitreesimo anniver-sario del massacro ad opera del fondamenta-lista ebreo Baruch Goldstein, l’organizzazio-ne ha portato oltre cento persone nella suaescursione mensile a Hevron. Per l’occasio-ne, ho deciso di partecipare alla visita guida-ta in ebraico.Lo svolgimento della visita convincerebbemolti che probabilmente il motivo per cuiBreaking the Silence fa paura è dovuto allarealtà che cerca di raccontare piuttosto che almodo in cui la racconta. Infatti, la realtà rac-contata mette in discussione la stessa defini-zione di Israele come stato democratico, chesia progressisti che conservatori sembranocondividere. Hevron è la seconda città più grande dellaCisgiordania. Essa è divisa in due settori, H1e H2 da dopo gli accordi del 1997 fra Ne-tanyahu al suo primo governo e Yasser Ara-fat. La visita guidata si svolge presso il setto-re H2, dove vivono fianco a fianco 600 israe-liani e 850 palestinesi. Gli insediamentiisraeliani a Hevron sono noti per la violenzae il fanatismo dei residenti, così come l’adia-cente insediamento di Kiryat Arba. Difatti,ad accogliere i gruppi, oltre alle guide, ci so-no alcuni volti famigerati dell’estremismo didestra israeliano, intenti a provocare le guidecosì come i partecipanti. Uno di questi è Ofer Ohana. Di professioneparamedico, Ofer Ohana è residente a KiryatArba ed ammiratore di Baruch Goldstein, co-me alcuni video su Youtube dimostrano. Du-rante il noto processo ad Elor Azaria, Ohana

COSA FA PAURA DIBREAKING THE SILENCE?

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12 SADAT A GERUSALEMME40 ANNI DOPO

le e altri paesi arabi, compresi i Palestinesi.Tali diversità di aspettative causarono senzadubbio grossi ostacoli. Infatti l’accordo furaggiunto dopo 13 giorni di aspre discussioni.Ora, mi disse Hoffman, si tratta di vederequali aspettative saranno realizzate, se quelledi Begin o quelle di Sadat.Dopo questa conversazione feci un passo ul-teriore e mi dedicai all’analisi del testo deidiscorsi pronunciati da Sadat e da Begin du-rante la sessione alla Knesset, con l’intentoverificare se ci fossero state differenze o con-traddizioni anche solo impercettibili tra i dueleader riguardo al nocciolo delle ragioni delconflitto e alle eventuali soluzioni. Devoconfessare che sul momento, mentre si tene-vano i discorsi, mi ero lasciato trasportare,come la maggior parte degli israeliani, dal-l’euforia di quell’evento e, in una certa misu-ra, avevo trascurato le differenze che emer-gevano e il loro potenziale impatto sul pro-cesso di pace, le loro conseguenze e implica-zioni. Riscontrai sostanziali differenze neiquadri di riferimento dei due leader e nelleloro definizioni delle componenti della pacee degli obiettivi in almeno otto punti. Li ci-terò brevemente:Nel suo messaggio di pace Sadat si era rivol-to al “popolo di Israele”, intendendo la col-lettività delle persone che vivono in Israele enon altrove. Begin, a sua volta, aveva parlatonel l’interesse del “popolo ebraico” nel mon-do la cui nazione storica è “Eretz Israel” enella quale sarebbe rimpatriato.Sadat si era astenuto dall’affrontare il temadella legittimità dell’esistenza di Israele. Siera riferito alla sua esistenza come a un “faitaccompli”, riconosciuto da tutto il mondo epertanto anche dall’Egitto. Begin aveva ri-petutamente affermato l’eterno legame stori-co, che non era mai cessato, tra il popoloebraico e la sua terra che secondo lui costi-tuiva la base della legittimazione dell’esi-stenza di Israele come stato-nazione del po-polo ebraico.Quanto al carattere della pace tra Israele e ivicini arabi, dando un’enfasi particolare allaquestione palestinese, Sadat aveva asseritopiù e più volte che la pace doveva essere“giusta”. Begin aveva parlato di una “paceautentica e completa che avrebbe riconciliatoil popolo ebraico e la nazione araba” (senzamenzionare nessun popolo arabo specifico).Sadat aveva enfatizzato la centralità dellaquestione palestinese nell’intero conflittoarabo-israeliano. Begin nel suo discorso nonaveva menzionato per nulla la questione pa-lestinese salvo una volta quando aveva invi-tato i leader arabi ad andare in Israele a di-

scutere la pace. In quel contesto aveva invi-tato gli “autentici rappresentanti degli arabidi Eretz Israel”, riferendosi a loro come asemplici abitanti di Eretz Israel e non come auna particolare entità nazionale.Quanto alla dimensione territoriale del con-flitto, Sadat aveva insistito su un “completo ri-tiro di Israele dai territori che erano stati con-quistati dalle sue forze armate, compresa Ge-rusalemme araba”. Il termine “occupazione”non era mai stato adoperato nel discorso diBegin. Secondo lui la forza era stata impiegatacontro Israele e fu Israele che “vinse control’aggressione e assicurò la sopravvivenza delnostro popolo non solo per l’attuale genera-zione ma per tutte le generazioni future”.Gerusalemme era stata dipinta da Sadat co-me una “città di pace, che sarà sempre l’in-carnazione vivente della coesistenza tra i po-poli delle tre religioni” Aveva dichiarato cheera inammissibile che il suo status fosse con-cepito all’interno di un quadro di annessionee espansionismo. Begin, a sua volta, avevainsistito sul libero accesso da parte degli ap-partenenti alle tre religioni ai rispettivi luo-ghi santi, accesso garantito nel momentostesso in cui la città era stata riunificata (cioè,sotto la sovranità israeliana). Quanto alla sicurezza, Sadat aveva ricono-sciuto il diritto di Israele a vivere sicuro ac-canto ai suoi vicini arabi, garantito da qual-siasi tipo di aggressione. Qualsiasi garanziainternazionale di sicurezza Israele fosse riu-scito a ottenere sarebbe stata accettata dal -l’Egitto. Begin aveva affermato che Israeleaveva ricevuto lezioni di sicurezza dall’Olo-causto, vale a dire che soltanto a Israele eraaffidato il compito di salvaguardare la sicu-rezza del suo popolo, che garanzie interna-zionali non avevano alcun valore e che ren-dere sicura la vita degli israeliani richiedevauna dimensione territoriale.Sadat aveva affermato che il ritiro delle forzearmate israeliane dai territori occupati nel1967 doveva essere “un fatto logico e incon-testabile, non soggetto a discussione o dibat-tito”. Begin aveva sostenuto che tutto era ne-goziabile e aveva invitato Sadat e gli altrileader arabi a non escludere dai negoziatinessuna questione, senza porre condizioni apriori.Dopo aver elencato queste differenze di im-postazione tra Egitto e Israele, ci si può chie-dere: bene, allora? Erano differenze così im-portanti? In fondo, il superamento di qualsia-si conflitto sta nelle differenti posizioni delleparti prima che siedano al tavolo dei nego-ziati. Le differenti posizioni dovrebbero es-sere dibattute nel corso dei negoziati. Almassimo le parti si devono adoperare pergiungere a un compromesso che se anchenon è l’ideale può essere accettato da en-trambe. Non è quello che effettivamente av-venne a Camp David? Infatti, le due partierano consapevoli fin dal l’inizio delleprofonde divergenze esistenti, ma questo non

Il mese di novembre del 1977 è stato testi-mone di una serie di eventi consecutivi diimmenso rilievo nella storia del conflitto ara-bo-israeliano. Il primo fu l’annuncio del Pre-sidente Sadat al Parlamento egiziano dellasua decisione di recarsi alla Knesset israelia-na e portare un messaggio di pace al popolodi Israele. Il secondo, l’immediata calorosaaccettazione di tale iniziativa di pace da partedel Primo Ministro israeliano Menachem Be-gin. Il terzo, l’arrivo del Presidente egizianoall’aeroporto Ben Gurion il 19 novembre e ilquarto la festosa sessione alla Knesset doveda entrambe le parti furono pronunciati di-scorsi in favore della pace. Furono giorni in-dimenticabili di sollevamento morale e digrandi speranze per una nuova era di pace edi amicizia tra i due paesi fino a quel mo-mento nemici, forse una promessa di paceper l’intera regione che avrebbe posto fineper sempre a guerre e a spargimento di san-gue. Mentre guardavamo in televisione l’ar-rivo del Presidente egiziano all’aeroporto diTel Aviv, ci sentivamo come se si stesseroaprendo i cancelli del cielo e stesse succe-dendo l’inimmaginabile.La gioia per un simile evento e l’assolutaeuforia che invase tutti noi in quei giorni cifecero dimenticare per un momento i puntiessenziali della controversia fra le due parti,già emersi in quei festosi discorsi alla Knes-set. Eravamo tentati di credere che la stradaper un accordo di pace fosse realmente aper-ta e percorribile. Ma dopo solo poche setti-mane ci rendemmo conto che i sentimenti diostilità e di paura così profondamente radica-ti e gli ostacoli concreti esistenti non poteva-no essere spazzati via in una notte. Ci ren-demmo conto anche che il raggiungimentodella pace sarebbe stato disseminato da alti ebassi. E questo fu ciò che in effetti avvenne.Questa storia ebbe apparentemente un lietofine. Il 17 settembre 1978, dieci mesi dopo lastorica campagna di Sadat a Gerusalemme, aCamp David furono raggiunti due accordi:uno, bilaterale, tra Israele e l’Egitto e l’altro– la struttura di un accordo – riguardava laquestione palestinese. L’accordo bilateraletra Israele e Egitto fu approvato dai parla-menti di entrambi i paesi e concluso ufficial-mente sul prato della Casa Bianca nel marzodel 1979. Quanto ai negoziati per un accordoriguardante la questione palestinese, essi sidimostrarono zoppi fin dall’inizio e vennerocongelati a causa delle insormontabili diver-genze di opinione tra Israele e Egitto, in as-senza del partner palestinese.Il mio proposito di mettere in luce [riconside-rare?] il carattere unico dell’accordo di pace ei suoi problemi intrinseci, fu rafforzato dallaconversazione che ebbi con Stanley Hoff-man, già professore di relazioni internaziona-li all’Università di Harvard. Egli mi disse chenel corso della sua carriera aveva studiato afondo processi di pace e accordi di pace trapaesi precedentemente rivali, ma raramenteaveva riscontrato il caso in cui due parti fos-sero riuscite a sedere a un tavolo di negoziatiavendo in partenza aspettative e quadri di ri-ferimento così contrastanti, e tuttavia, alla fi-ne, fossero riuscite a giungere a un accordo dipace. Secondo lui, Begin si aspettava che unaccordo di pace con l’Egitto avrebbe elimina-to il maggiore e il più potente stato arabo dalquadro del conflitto, il che avrebbe migliora-to la posizione di Israele in qualsiasi trattativafutura nei confronti della Siria, della Giorda-nia o nei confronti dei Palestinesi. Sadat, percontro, credeva che un accordo di pace conIsraele, basato sulla formula “territori in cam-bio della pace” sarebbe diventato un modelloper qualsiasi futuro accordo di pace tra Israe-

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Il ministro degli esteriMoshe Dayan

e il presidente egizianoAnwar Sadat

13impedì che i negoziati fossero avviati, contutti i loro alti e bassi. È un fatto che le due parti in effetti giunseroa un accordo grazie al quale si ebbe perfinoun testo per una sua realizzazione. Inoltre,giungere alla pace non è mai una mossa ideo-logica, bensì pragmatica. Ognuna della partiin causa può continuare a rimanere fermanella sua posizione ideologica ma ciò checonta realmente sono gli equilibri di potere egli interessi manifestati da entrambe. In ve-rità, il vantaggio percepito, che era stato ap-parentemente raggiunto alla fine della guerradel Kippur, facilitò il conseguimento di unaccordo di pace che le due parti definironoun accordo strategico che doveva essere sal-vaguardato e mantenuto.Tutto questo è vero. Eppure a me pare che ilpeso dei contrasti tra Egitto e Israele, emer-si nei discorsi dei due leader alla Knessetnon dovrebbero essere sottovalutati. Essipossono avere un grosso impatto sulla qua-

lità della pace nel corso della sua realizza-zione o, come Mubarak ha puntualizzato piùdi una volta, sulla sua “temperatura”. Bastiricordare l’o biezione di ampi circoli egizia-ni, in particolare di intellettuali, a approfon-dire e vivificare la pace con Israele. È unfatto che mentre in Israele si è dato grandespazio a cerimonie per il quarantesimo anni-versario dell’iniziativa di pace di Sadat, inEgitto non è avvenuto nulla di simile e suimedia l’argomento è stato trattato in sordi-na. Senza dubbio molto è dovuto all’imma-gine di Israele e al modo in cui è percepitodalla coscienza egiziana. Potranno questi di-vari di percezione diminuire in futuro? Amio giudizio, pur consapevoli della profon-dità e della dimensione di tali divari, non sidovrebbe scartare questa eventualità. I con-cetti ideologici non sono mai definitivi e im-mutabili. Essi possono essere intaccati da uninsieme di interessi bilaterali e regionali.C’è molta saggezza nel tentativo del Presi-

dente al-Sisi di marginalizzare le compo-nenti ideologiche del conflitto e forse perfi-no di portare a una loro de-ideologizzazioneche aumenterebbe la speranza che possa cre-scere il peso delle componenti pragmatiche,soprattutto nei riguardi della questione pale-stinese. Purtroppo finora questo cauto otti-mismo non ha ancora portato a una svoltatangibile. La causa palestinese è sempre sta-ta ed è tuttora il centro dell’intero conflittoarabo-israeliano. Fino a quando rimarrà irri-solto, la percezione dei dissensi può tornarealla ribalta e mettere perfino in pericolo i li-mitati risultati oggi raggiunti.Permettetemi di concludere questa previsionenon tanto ottimistica citando un vecchio dettodei nostri Maestri: “Le tue azioni possono farti fare passi avanti,le tue azioni possono farti fare passi indietro”.

Yossi AmitayTraduzione di Anna Maria Fubini

“Dite agli uomini di portare i carri... altrimen-ti verranno gli ebrei e vi prenderanno tutto”ordina il generale egiziano, ma il sindaco diJaffa cade nel tranello. Seicento combattentientrano a tradimento, e la città è perduta.Un resoconto molto succinto della presa di Jaf-fa nell’Aprile del 1948, due settimane primadella fine del Mandato e della proclamazionedello Stato d’Israele? Non proprio. È vero, nel1948 gli inglesi schierarono i carri armati, conl’ordine di difendere Jaffa araba ad ogni costo.Haifa era già stata conquistata dall’Haganà.Però i seicento combattenti del l’Irgun, galva-nizzati dalle parole di Menachem Begin, attac-carono frontalmente, il secondo giorno di Pe-sach, senza infingimenti, anzi sospettosi dellamanovra di aggiramento (nome in codice, ope-razione “Hametz”) architettata dall’Haganà. Èvero, nel 1948 si pensava che gli egiziani po-tessero sopraggiungere dal mare e romperel’assedio; nonostante le molte incomprensioni(quando non aperte liti) fra Comitato Superio-re Arabo, Lega Araba ed autorità locali come ilsindaco di Jaffa, Yusif Haykal, la convinzionedel muftì Amin al-Husayni e dei suoi accolitiera che gli egiziani e gli altri eserciti arabiavrebbero facilmente schiacciato le forze rac-cogliticce dell’Yishuv. Però, a leggere bene il testo, e qui è colpa miache non ve l’ho trascritto tutto, si legge che fuproprio il generale egiziano a tendere il tranel-lo al sindaco di Jaffa, lungi dal soccorrerlo. Untranello direi più machiavellico di quanto po-tessero mai escogitare i capi dell’Irgun. Dopoaverlo invitato ad un ricevimento ed averlo fat-to bere, il generale colpisce il sindaco col suobastone del comando e lo fa prendere prigio-niero. Indi finge che il suo esercito abbia deci-so di ritirarsi, lasciando duecento sacchi di vet-tovaglie ed altri doni agli assediati. Una versio-ne un po’ surreale del riutilizzo a chilometri ze-ro degli avanzi dell’accampamento. Ma da cia-scuno dei sacchi, portato in città da due facchi-ni nell’entusiasmo precoce degli incauti abi-tanti, esce un combattente, anche i facchinigettano la maschera, in tutto sono seicento ar-mati fino ai denti, e Jaffa viene rapidamenteconquistata.La Presa di Jaffa è un testo egizio rinvenutosul lato posteriore del papiro Harris 500, cheracconta in forma romanzata le gesta del -l’astuto generale Djehuty, che aveva servitocol faraone Thutmose III. Secondo la modernaesegesi, però, il fatto cui si riferisce sarebbeavvenuto davvero, ma durante il regno del suc-cessore di Thutmose III, Amenhotep II, forsenel 1418 a.e.v. L’anno in cui venne soppressaanche la rivolta di Aphek, guarda caso situatanon lontano dalla moderna Haifa. Scavi ar-cheologici a Jaffa sembrano avvalorare l’ipo-tesi di una distruzione di almeno parte della

città, in quegli anni, da parte di forze egiziane.Sarebbero 3365 anni prima della Guerra d’In-dipendenza d’Israele, ma anche un duecentoanni prima che i figli d’Israele ricevessero laLegge sul Sinai. Può darsi che Kadosh Baru-chù temporeggiasse, ancora incerto sulla suaformulazione definitiva, sta di fatto che gli ha-biru (che forse è improprio tradurre tout courtcome ebrei, ma di cui pare assodato le futuredodici tribù fossero almeno una componente) aquel tempo scorrazzavano per la terra di Ca-naan fra saccheggi e violenze, ancora liberi eignari di quel pesante apparato di regole di vitasociale che gli sarebbe poi capitato fra capo ecollo solo una manciata di generazioni dopo.Pastori nomadi, occasionalmente servitori oriottosi mercenari, comunque marginali, inquesto ed in altri testi essi vengono evocati co-me una minaccia per la società civile degliagricoltori e dei cittadini, qui forse addiritturauno spauracchio di cui si serve lo scaltroDjehuty per attrarre in trappola l’ingenuo sin-daco di Jaffa. Gli ebrei usati come fake news,o come immaginarie armi di distruzione dimassa per procedere all’invasione. Parte delfascino della Presa di Jaffa sta proprio nel suocarattere di romanzo storico, se è vero che riu-nisce elementi reali ma nella realtà disgiunti(Djehuty, la risottomissione di Jaffa sottoAmenhotep II) non a fini storiografici ma difiction storicamente plausibile. E la ricerca del-la plausibilità si spinge fino all’analisi psicolo-gica dei personaggi, nel fine dettaglio presumi-bilmente inventato della curiosità sottilmenteadulatoria che spinge il sindaco, un po’ ubria-co, a chiedere al generale di mostrargli il ba-stone del comando, e quello glielo molla sulcranio. Alla Presa di Jaffa è dedicato il terzo capitolodel volume di Colleen Manassa, Imagining thePast: Historical Fiction in New KingdomEgypt 1. Può essere un’occasione per riflettere,anche noi amanti dell’israeliana Tel Aviv, suldestino plurimillenario della consorella meri-dionale. La sua forzata sottomissione agli egi-ziani, per quanto ripetutasi più volte, si allon-tana per noi in un passato semi-leggendario, incui il dolore e l’umiliazione del trauma sfuma-no nel mito. Ma quella di settant’anni fa, alle forze del na-scente stato ebraico, non è così lontana; il do-lore e l’umiliazione sono ancora ben impressiin chi li ha vissuti o nei loro discendenti. #Me-Too, sembra twittare ogni infrangersi delle on-de sullo scoglio di Andromeda. Jaffa aveva ol-tre settantamila abitanti nel 1947, per un terzocristiani, ed una classe media colta ed agiatache dava vita ai quartieri eleganti di Ajami, asud della città vecchia, e di Jabaliya, ancorapiù a sud, verso Bat Yam. Negli ultimi mesi delMandato, col dilagare della violenza verso la

UNA NAQBA ORMAI LONTANA guerra aperta, cristiani e borghesi erano statifra i primi a fuggire, e la debole società pale-stinese era implosa, come analizzato nel recen-te libro di Itamar Radai, Palestinians in Jeru-salem and Jaffa, 1948: A Tale of Two Cities(Routledge, 2015); alla resa del 13 Maggio1948 in tutta Jaffa erano rimaste non più di tre-mila persone. Del quartiere Ajami, rimasto per anni lo sche-letro di se stesso e recentemente in via di tra-sformazione in quartiere ebraico ultra-chic, haraccontato un recente film; Jaba-liya è stata ribattezzata con mini-mo sforzo fonetico Giv’at Aliyah,si è tentato di ripopolarla senzamolto successo con olim europei,e vi sorge ora, con forse involon-tario sarcasmo, il mai veramentedecollato Centro Peres per la Pa-ce. Ma tutto questo è successo do-po. Di per sé non ci dice quelloche ci preme sapere, come sicomportarono gli ebrei in quei fa-tidici giorni di fine aprile. Su que-sto, al di là degli episodi singoli,non possiamo che attenerci alleparole di Menachem Begin (ri-portate sul website dell’Irgun): Soldati dell’Irgun!Prenderemo Jaffa. Stiamo ini-ziando una delle battaglie decisi-ve nella lotta per l'indipendenzad’Israele.Sappiate chi avete di fronte, ricor-date chi avete lasciato dietro. Affrontate un ne-mico crudele, che vuole distruggerci. Dietro divoi ci sono i nostri genitori, i nostri fratelli, inostri figli.Colpite il nemico! Mirate bene! Non sprecatele munizioni! In questa battaglia, non mostratepietà per il nemico, che non ne ha alcuna peril nostro popolo. Risparmiate donne e bambi-ni. Risparmiate la vita a chiunque alzi le maniin segno di resa. È vostro prigioniero. Non fa-tegli del male...... colpo di scena dell’ultimo paragrafo: del pa-piro, frammentario e di difficile interpretazio-ne, può essere data anche una lettura opposta,per quanto riguarda gli habiru: tratterebbesi inquesta circostanza non di bande di predatori,bensì di umili palafrenieri al servizio dell’ar-mata egiziana 2. Segno che la narrazione di co-me esattamente siano andate le cose a Jaffa hacominciato a divergere già parecchio tempo fa.

Alessandro TrevesTrieste e Tel Aviv

1 2013, ISBN-13: 9780199982226, pubblicato inOxford Scholarship Online, Aprile 2014, DOI:10.1093/acprof:oso/9780199982226.001.00012 vedi http://www.reshafim.org.il/ad/egypt/texts/the_taking_of_joppa.htm

Dario Treves,Autoritratto

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lett

ere

FanaticiCara Ha Keillah,Chi sono dunque quei “prepotenti” contro cuiAmos Oz si scaglia alla pagina 36 del suo ul-timo libro? (Cari fanatici, Feltrinelli, Milano2017). L’autore si dichiara oppositore di ognitipo di fanatismo. È contrario ai coloni israe-liani che vanno ad abitare in case abusivamen-te costruite dal governo in territori non ricono-sciuti dal diritto internazionale e, con egualefermezza, è contrario a tutte le forme di fana-tismo palestinese, insomma ad ogni violenzadi parte. Non ama i fanatici e vede nel fanati-smo il nemico da combattere in ogni forma.Se la prende però in modo specifico contro i“fanatici prepotenti”: quelli proprio li consi-dera i peggiori.Cosa differenzia un fanatico “prepotente” daun fanatico “semplice”? Il fanatico prepotenteusa il proprio potere in modo dispotico, men-tre quello semplice enfatizza oltre misura ilrango delle proprie argomentazioni. È dunquel’opportunità di avere un certo potere, e di ge-stirlo in forme violente, ciò che determina lapossibilità di peggiorare il proprio fanatismo,per poi farlo evolvere verso quello di tipo pre-potente.Uno che non ha potere non è prepotente: è unfanatico come se ne trovano ad ogni latitudinee il suo fanatismo contiene, in quantità variabi-li, esasperazione, ignoranza argomentativa, bi-sogno di rivincita, disperazione individuale… Quelli invece che sono più prossimi alla sferadel Potere, o che ne sono parte integrante eformale; quei fanatici che agiscono da fanaticiessendo ben armati, protetti, meglio nutriti,più organizzati, si possono trasformare nellarisma peggiore dei prepotenti.

Il fanatismo in questo caso è una miccia acce-sa contro le ragioni, contro la consapevolezzae la verità. Dei fanatici prepotenti non c’è dafidarsi. La distorsione fanatica di chi non ha potere èquestione che riguarda l’orientamento ideolo-gico e l’esasperazione esistenziale; mentre in-vece la distorsione fanatica dei prepotenti ri-guarda un orientamento organizzato, la produ-zione di un’ideologia collettiva che vede nellaprevaricazione e nel sistematico abuso di po-tere le forme normali con le quali esprimere lapropria azione.Dietro la buona creanza che pervade il libro diOz, si legge dunque una dura condanna chedifferenzia il ragazzo palestinese il quale, co-me il Balilla, lancia pietre contro l’abusivoesercito invasore della sua terra, e invece lapattuglia israeliana che, armata di tutto punto,abbatte una povera casa contadina di una fa-miglia araba residente vicino a Hebron.Il libro non nasconde quell’inquietudine mo-rale che nessuna forma di retorica nazionalistariesce a eludere. Il libro disvela al lettore undiffuso disagio morale che in Israele ancoramolti avvertono (almeno quelli che non sonogià diventati cinici), ma che non sempre riescea trovare la possibilità di diventare discorso. ÈAmos Oz che impresta le proprie parole discrittore a chi ha perduto la capacità di espri-mersi criticamente.Lo fa con bonomia e con senso civico, peròdal suo libro trapela un dolore continuo, unmalessere che sfinisce. Il libro non diventamai un pamphlet antigovernativo: lo scrittoreci addita responsabilità che chiedono di esseremesse in chiaro, che esigono la loro giustizia.Anzi, si direbbe che il libro sia quasi una let-tera rivolta ai nipotini, a Din, a Nadav, Alon eYael: sono loro i rappresentanti di una nuova

generazione che sta crescendo in Israele e chedefinitivamente dovrà sciogliere il nodo poli-tico più intricato del mondo.Voce alta di Israele, insieme a quella di DavidGrossman e di Abraham Yehoshua, quella diOz è misurata nei toni e pacata nelle argomen-tazioni, ma profondamente inserita nel dibat-tito politico, nelle ferite più aperte e più dolo-rose del suo Paese. Scrive: Da molti anni il mio presupposto sionistico èsemplice: non siamo soli su questa terra. Nonsiamo soli a Gerusalemme. lo dico anche aimiei amici palestinesi. Non siete soli su questaterra. Non c’è scampo alla spartizione di que-sta piccola casa in due appartamenti ancorapiù piccoli. Sì, una casa bifamiliare. Se, da unfronte come dall’altro della barricata israelo-palestinese, qualcuno dice: “Questa è la miaterra”, ha ragione. Ma se su un fronte comesull’altro della barricata qualcuno dice:“Questa terra, dal Mediterraneo al Giordano,è solo mia, è tutta mia”, quel qualcuno è inodore di sangue (pag. 96).Personalmente, molte cose ho in comune conOz; non tutte, ma il suo garbato modo di di-scutere proprio là dove quasi tutti alzano lavoce mi avvince.Vorrei argomentare il punto che secondo me èquello decisivo: da dove nasce il fanatismo?Quale ne è la matrice? Perché alligna e poi sidilata tanto velocemente? Perché sembra unfuoco sospinto da un vento impetuoso?Quel che penso è che il fanatismo abbia unamatrice profonda legata ad umiliazioni subite;che conservi un’esigenza inesausta di rivalsa eun bisogno di rivincita; che nasca dalla pauradi non sapere affrontare la complessità dellavita, radicalmente selezionando le opzioni escegliendo tra le molte possibilità solo le piùestreme.Il fanatismo cerca visibilità e spettacolarizza-zione perché la rabbia covata è stata di nottiinsonni e di urla mai gridate, perché è pieno diinvettive mai urlate, di odio e di bisogno digiustizia. Ridurlo a temperanza e a comprensione non èpercorso che si possa ottenere con le armi, conun esercito di occupazione, con la prepotenza.Se si percorre questa strada, inevitabilmente ilfanatismo cresce, anziché ridursi. C’è il fanatismo di chi si è sempre sentitoemarginato, ma poi c’è l’altro, del tutto diver-so, di tipo istituzionale: il fanatismo prepoten-te di chi è sempre stato dalla parte del Potere. L’uno non vale l’altro. In questa guerra-guer-riglia che sembra non finire mai, molte cosesono speculari e reciprocamente opposte, manon il fanatismo.Ci sono due fanatismi di natura diversa che sifronteggiano e si può essere sicuri che la ca-setta bifamiliare che dovrebbe ospitare i duepopoli, sarebbe piena di urla e di improperiche da un appartamento si espanderebberoverso l’altro appartamento, che dunque risul-terebbe troppo vicino geograficamente, mamolto distante sentimentalmente. Il fanatismo cova la propria forza sotto la ce-nere, per poi riaccendersi improvviso. Quandopoi esplode sembra solo irrazionalità e furore,ma forse noi possiamo ancora credere che sesi abbandonasse la prova di forza, se ne po-trebbero cogliere assai più nitidamente anchele ragioni profonde.

Giuliano Della Pergola

Ci domandiamo se non sia riduttiva una let-tura che declina in una sola direzione, quel-la degli insediamenti, l’analisi molto piùcomplessa condotta da Amos Oz sul fanati-smo. Ci sembra che trascurare tutti gli altrifanatismi presenti al mondo – e non solo inMedio Oriente – cui Oz si riferisce, ancheesplicitamente elencandone alcuni ad esem-pio, non faccia giustizia al pensiero delloscrittore.

HK

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stor

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RITA MONTAGNANA

Rita Montagnana nacque a Torino il 6 gen-naio del 1895, la quarta dei sette fratelliMontagnana. Suo padre Moise e sua madreConsolina Segre erano iscritti alla Comunitàebraica di Torino ed erano entrambi abba-stanza osservanti, almeno finché Moisescomparve nel 1903. La famiglia viveva inuna villetta di Borgo San Paolo, lo storicoquartiere operaio, acquistata grazie ai guada-gni di Moise, direttore della sartoria Bellomche serviva casa reale.Come le sorelle Gemma, Lidia ed Elena, an-che Rita imparò a lavorare da sartina; la suaesperienza nell’atelier Sacerdote la segnòprofondamente: raccontava spesso che quasiogni giorno una delle sue compagne svenivaper lo sfibrante lavoro di dieci ore. Nel 1911aderì, insieme a Lidia, alle manifestazioniche accompagnarono lo sciopero degli operaimetallurgici; a diciotto anni assunse la caricadi segretaria del Circolo socialista femminileLa difesa di Borgo San Paolo, partecipandoattivamente alle manifestazioni operaie del1917 contro la guerra, insieme alla sorellaClelia e al fratello Mario.Furono anni di impegno a fianco di altri atti-visti socialisti “sanpaolini”, durante i qualifondò il Ricreatorio Laico Pilade Gaj, luogodi gioco e di formazione per i bambini delborgo e fece parte delle “compagnie di difesaproletaria” durante il “biennio rosso”.Questi pochi cenni ai primi vent’anni dellasua vita fanno anticipare l’eccezionale impe-gno di Rita a favore del movimento operaio,soprattutto dopo l’adesione al Partito Comu-nista d’Italia nato dalla scissione del PartitoSocialista nel 1921. Fu lo stesso Antonio Gramsci a chiamarlal’anno successivo a Roma per organizzare ilmovimento femminile e dirigere il quindici-nale La compagna. Proprio nel 1921 Rita fuinviata a Mosca dove partecipò alla Confe-renza Internazionale Femminile, che si af-fiancava al III Congresso del Comintern (In-ternazionale Comunista). Durante questoviaggio si maturò la sua sconfinata ammira-zione per l’Unione Sovietica, che la portò adignorare fino alla fine gli orrori dello stalini-smo. Durante il viaggio di ritorno passò per Riga e

Ho raccontato questo episodio perché ci aiu-ta a capire gli ultimi trent’anni della vita diRita, trascorsi nel quartiere di Santa Ritaquasi a Mirafiori, ormai esclusa dalla vitapolitica attiva, ma sempre disposta a dialoga-re con le donne del quartiere.Rita si mantenne sempre incontatto con il mondo politico,non solo attraverso la letturade L’Unita e della Pravda (chericeveva per posta) ma anchetramite il rapporto con la suasezione del partito. Nel -l’alloggetto dove abitava con ilfiglio Aldo da tempo malato,giungevano periodicamentelettere e cartoline da tutto ilmondo, specialmente in occa-sione della Giornata della don-na l’8 marzo, come quelle diDolores Ibarruri, la “pasiona-ria”.Di Rita, mancata il 18 lugliodel 1979, mi pare giusto con-servare l’immagine di unadonna che voleva a tutti i costirimanere una del popolo, cherifiutava di farsi intervistare,che scriveva pochissimo e maidi sé. Mi ricordo che, in occa-sione delle visite a casa sua aSanta Rita, sorrideva quasisempre forse per nascondere lenon poche difficoltà incontratenella sua tormentata esistenza, superate finoall’ultimo con l’estrema dedizione alla causache aveva sposato fin da giovanissima.

Manfredo Montagnana

ricordò poi: “Che miseria c’era allora! E gliebrei come erano trattati!” Non dimenticòmai la sua identità ebraica, ricordava volen-tieri alcune parole ebraiche, tanto che con-vinse la famiglia a ebraicizzare il nome dellaprima nipotina Enrichetta in Rivkà (Rebec-ca), storpiato poi in Reukà e infine in Richi.Sposatasi con Palmiro Togliatti nel 1924, lenacque l’anno successivo il figlio Aldo. No-nostante le nuove responsabilità familiari,continuò a svolgere attività di partito, finchéespatriò con il marito, prima in URSS e poi aParigi dove lavorò al Centro estero del parti-to e operò come “fenicottero” cioè incaricatadi portare nell’Italia fascista materiale propa-gandistico e di mantenere i collegamenti coni compagni in clandestinità.Nel 1936 accompagnò Togliatti in Spagna evi restò per tutta la durata della guerra civilefino al 1939. Anche in questa occasione, co-me spesso nei due decenni successivi, si con-fermò la totale dedizione di Rita al partito,anche quando comportava la rinuncia ad ac-compagnare la crescita del figlio Aldo, la-sciato allora in URSS in un collegio per i fi-gli di dirigenti dei partiti comunisti di tutto ilmondo.Rientrata in Italia nel 1944, Rita ricoprì subi-to importanti ruoli politici: fondatrice e pre-sidente dell’UDI (Unione Donne Italiane),organizzatrice instancabile del movimentofemminile, una delle 26 donne elette nel1946 nell’Assemblea Costituente, senatricenel 1948. Fu sempre presente quando si po-tevano difendere i diritti delle donne, comein occasione di una visita del 1948 agli stabi-limenti Mirafiori della FIAT, così ricordatada una compagna:“C’era il reparto presse, dove io sapevo chele donne quasi tutte avevano perso un dito oun pezzo di dito ... Allora quando sono arri-vata lì dico a Rita: ‘È quel reparto’. Allora leifa fermare la macchina ... è salita su quellascaletta e ha fatto il comizio: ‘Operaie, fate-mi vedere le mani’. E tutte le operaie cosìd’attorno ... con la tuta da lavoro, con le loromani così ... ci riceve Valletta e dice: ‘Cosane pensa della FIAT?’. E lei: ‘... non avreimai immaginato che gli operai stessero cosìmale’. Valletta si è sbiancato”.

Vignetta di Davì

Abbiamo pensato, a settant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione italiana, di dedicarequalche riga al ricordo di una delle 21 donne (su 556) protagoniste dell’Assemblea che pro-dusse la nostra carta fondamentale, Rita Montagnana che ebbe un ruolo decisivo nel far cre-scere il movimento femminile in Italia.

Minima moraliaFinché pace e giustizia terrene sarannocosì fatte, allora qualsiasi firmatario ditrattato o di sentenza potrà di volta in vol-ta essere considerato un messia. I Maestrialludono a ben altro. Nel mondo avvenireche annunciano è implicito il riconosci-mento, da parte di tutti i contendenti incausa o in guerra, dei rispettivi e reciprocidiritti e doveri, meriti e torti, individualitàe personalità. … Se il paradosso è lecito,si potrebbe dire che il Messia riuscirà adarrivare e a dimorare sulla terra quandoogni singolo individuo sarà diventato ilmessia di se stesso, perché la storia inse-gna che sono ben pochi gli autentici mes-saggeri di Verità morti nel proprio letto, eancora meno quelli a cui il genere umanoha consentito un’esistenza vivibile. IMaestri tengono in gran conto la storia equindi mirano molto in alto restando peròcon i piedi ben radicati nel suolo.

Giacoma Limentani, Gli uomini del libro. Leggende ebraiche,

Adelphi, 1975, nota introduttiva, pp. 17-18

Gianfranco Moscati

Nel suo costante impegno a tener viva la me-moria della Shoah Gianfranco Moscati(1924-2018) ha raccolto per decenni fotogra-fie, giornali, lettere, francobolli, oggetti rela-tivi alla persecuzione nazifascista: una colle-zione vastissima, che desiderava far cono-scere a un pubblico il più ampio possibile(mantenendo, tra l’altro, un costante dialogocon Ha Keillah) e che oggi ha trovato in par-te collocazione all’Imperial War Museum diLondra. Significativo anche il suo impegno a favoredell’ospedale pediatrico Alyn di Gerusalem-me.Che il suo ricordo sia di benedizione.

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libri

SalvatiAggiungo a questa mia recensione lo stralciodi una testimonianza che avevo intitolata“Un terrore tranquillo”, e che ho reso nel1989 a Torrazzo (Bi) in un convegno cheaveva per argomento: “Dalle leggi razzialialla deportazione”. Gli otto personaggi del-la mia famiglia offrono, nella varietà del lorosalvarsi, uno spaccato perfettamente coinci-dente con quello storicizzato da Liliana Pic-ciotto, con un finale anomalo e impensabile.

Nel settembre1943 il tempo era splendido,l’aria tiepida, i colori dell’autunno trionfali.Quello che doveva rappresentare la fine dellaguerra, la dichiarazione di resa dell’8 settem-bre, mi fu annunciata da mia madre, sve-gliandomi dolcemente con un bacio, ricordola sua voce rassicurante al mio orecchio chediceva: “Figlio, la guerra è finita”.Dodici giorni dopo fuggivamo precipitosa-mente alla notizia che venti ebrei greci eranostati trucidati dai tedeschi e gettati, mani epiedi legati, nel lago Maggiore.Fuggimmo tutti insieme, padre, madre equattro figli tra gli otto e i quindici anni, euna domestica di “razza ariana”; trovammorifugio nell’alta valle d’Andorno nella casaospitale di un avvocato antifascista.Mio padre che era un ottimista temerario, edovrei dire incosciente nel suo ottimismo,non solo riceveva nel nostro rifugio i clientipiù fidati, ma scendeva talvolta a Biella, do-ve scampò per caso all’appuntamento condue SS che lo attendevano nel suo ufficio,Mi fu detto, ma non so se sia storia o leggen-da, che quando i tedeschi vennero a cercarcia Biella-Piazzo si informarono, nel borgo,dove era la nostra casa ed ebbero dai nostricompaesani una risposta evasiva per dar mo-do a qualcuno di venire ad avvertirci.Furono venti mesi tragici, rischiosi e difficiliche tuttavia, nella memoria, mi appaiono co-me del tutto privi di paura e ricchi di espe-rienze umane, di generosità e di altruismo, aldi là della morte e degli orrori.Quell’inizio di autunno in quella casa ospitale,con tutta la famiglia di nuovo riunita, fu l’ulti-ma vacanza felice della mia adolescenza.Quando una telefonata anonima minacciò ildirettore delle Ferrovie elettriche biellesi didenunciare le sue visite all’avvocato Jona aS. Paolo Cervo, ove non avesse munito diuna lampada più luminosa la stazione diMiagliano e di una panca quella di Andorno,questi vi provvide immediatamente e tutti cisparpagliammo per il Biellese in cascine ocase ospitali.Teneva i contatti e trasmetteva le comunica-zioni tra i membri di questa famiglia disper-sa, Delfina, un’impiegata dello studio di miopadre, che bella, regale, impavida o inconsa-pevole dei pericoli, passò per diciassette me-si dagli uni agli altri portando viveri, lettere,denaro, notizie.Può avere un qualche interesse tracciare unamappa dei percorsi e delle vicende di questogruppo che comprendeva anche nonni e zii.Il figlio più piccolo, otto anni, visse con lasua vecchia balia, in un luogo che non so co-me potesse essere considerato sicuro, vistoche si trattava di una cascinetta che la mia fa-miglia possedeva sulle colline di Valdengo.Giulio, dodici anni, seguì la sorte di una no-bile famiglia di antifascisti biellesi, quelladel prof. Angelo Cova; assistette una nottealla cattura sua e dell’intero comitato di libe-razione biellese appena formato; morironotutti in campo di sterminio, ritornò il soloprof. Cova per spegnersi poco dopo la Libe-razione. Giulio seguì la famiglia, sempre ap-parendo, come in quella notte, uno dei figlidel professore, nelle sue peregrinazioni, inuna vita di disagi e di privazioni.Silvia visse a Pollone con Delfina, come fos-se una sua nipote, sino alla Liberazione.Il primogenito fu ospitato da una famiglia

SalvarsiCon Salvarsi. Gli ebrei italiani sfuggiti allaShoah-1943-1945, Einaudi 2017, LilianaPicciotto prosegue, e in un certo senso con-clude, il suo encomiabile lavoro di ricerca,documentazione e analisi delle vicendedell’ebraismo italiano sotto il fascismo. Sitratta di un libro che trae origine dai materialiraccolti dal Centro di documentazione ebrai-ca contemporanea (CDEC) ed è frutto di unlavoro di molti anni su di un vastissimo cam-

pione degli ebrei che sisalvarono in quel brevelasso di tempo in cui il fa-scismo italiano emulò laGermania nazista nellarealizzazione della “solu-zione finale”. Quanti negano l’evidenzae cioè che la guerra che sicombatté con la Resisten-za fu una guerra civile, ol-tre che patriottica e diclasse, e che vedono laRSI (Repubblica SocialeItaliana) come un fantoc-cio e un’appendice dellaGermania nazista e i suoimilitanti solo come deisuoi servi potrebbero tro-vare un qualche supporto(isolando questa vicendada quella più generale) nelfatto che i fascisti “repub-blichini” non applicaronole norme che, nel novem-bre 1943, avevano emana-to sulla sorte degli ebrei(secondo le quali, come

nemici, dovevano essere isolati in campi diconcentramento), ma consentirono ai tede-schi di operare direttamente sul territorioitaliano, catturando ogni ebreo per avviarlofuori del paese, verso i campi di sterminio oconsegnarono loro, per quello scopo, quantiebrei diligentemente andarono a ricercareper le città e le campagne. A quelle migliaiadi persone catturate ed uccise, pari al 19%dell’ebraismo italiano, Liliana Picciottoaveva dedicato un libro memorabile, chenell’individuarne i nomi e i tempi e i luoghiin cui 7172 ebrei erano stati trucidati, mette-va indirettamente anche in luce le conniven-ze e le responsabilità italiane in quello ster-minio (va ricordato che metà degli ebrei fu-rono arrestati ad opera dei “repubblichini”).In questo libro invece si racconta la storia diquell’81% che si salvò e dei modi con cuiciò avvenne. Il suo interesse, anche se il suocontenuto riguarda prima di tutto noi ebreiuno per uno, i pochi ancora sopravvissuti egli eredi di coloro che si salvarono, non èstrettamente ebraico, perché riflette soprat-tutto il comportamento e la storia delle don-ne e degli uomini del nostro paese in queglianni cruciali, ed è una storia e un comporta-mento che fanno loro onore e che riscattanol’indifferenza con cui la quasi totalità delpopolo italiano accolse le leggi razziali del1938, che erano palesemente inique e puni-vano ed isolavano immotivatamente unapercentuale, per altro insignificante (lo0,011%) della popolazione, perfettamenteintegrata nella nazione fin dagli anni del Ri-sorgimento, e in parte persino fascista. 19anni di fascismo, duramente repressivo soloverso i suoi oppositori reali o potenziali eper il resto paternalistico, retorico e tran-quillizzante, avevano ottuso le menti e ac-centuato il conformismo e la disattenzioneper i valori di libertà e uguaglianza, ma orafinalmente tutti i nodi erano venuti al petti-ne: le sorti ormai chiare di una guerra impo-polare e malamente combattuta, la disgrega-zione del regime fascista, la violenza da oc-cupante del vecchio alleato, le condizionidisastrose in cui il fascismo aveva ridotto il

paese. Ora il fatto che di una comunità chenel 1943 era costituita da 32.802 ebrei italia-ni e da 5542 ebrei stranieri se ne sia salvatol’81% è un dato significativo della mutazio-ne di quell’indifferenza in una partecipazio-ne e in una solidarietà che la Picciotto esa-mina in tutto lo spettro delle sue componen-ti. Anzitutto il campione preso in esame, po-co meno di un terzo dell’intera comunitàebraica italiana, è significativo e imponentee individua nelle sue varie componenti sog-gettive, positive e negative, una sorta di geo-grafia della salvezza. La giovane età, le buo-ne condizioni sociali ed economiche, la vici-nanza alla frontiera svizzera (furono 4265gli ebrei ivi accolti), la più breve duratadell’occupazione nazista, ad esempio, ne fu-rono le principali componenti positive. Que-sta indagine sulla geografia della salvezzaha significato poi l’individuazione, sul pia-no sociologico e antropologico, dei modi edella storia di come quelle decine di mi-gliaia di ebrei si sono salvati e sono stati sal-vati. E qui lo spettro delle varie modalità edelle loro rilevanze appare chiaro e convin-cente. Vi è stato anzitutto e in misura gene-ralizzata un movente umanitario, una solida-rietà umana e una sorta di “resistenza civilenon armata e non politicizzata (che) germo-gliò in mezzo alla gente stanca della guerra,della retorica del regime, della violenza na-zista e delle difficili condizioni di vita”, epoi il sorgere finalmente di un impegno po-litico e di un antifascismo assistenziale. Ri-levante e capillare fu il soccorso prestato dalmondo cattolico, l’ospitalità in case religio-se, (a Roma il 30%, vale a dire 220 di esse,ospitarono ebrei) l’aiuto di parrocchie e sa-cerdoti e delle comunità valdesi, e poi, dif-fuso e variegato, quello delle amicizie, delleparentele, di dipendenti fedeli, collaboratoriamici, partigiani, antifascisti, coraggiosi pri-mari di ospedali e di case di cura. Particola-re rilievo ebbe la DELASEM (acronimo diDelegazione assistenza emigranti) che, pas-sata in clandestinità, operò prima di tutto afavore degli ebrei stranieri, profughi senzadenaro, documenti e luogo dove riparare, epoi a favore anche degli ebrei italiani. Ac-canto alla storia delle salvazioni nelle sue li-nee generali, l’autrice riserva un ampio spa-zio alle testimonianze degli scampati; delle613 testimonianze raccolte ne vengono scel-te una sessantina che con la vivezza del vis-suto raccontano i tanti modi con cui ci si èsalvati e la tipologia dei salvatori. Ci si èsalvati disperdendosi tra la folla, nasconden-dosi sotto un letto, diventando partigiano,sconfinando in Isvizzera, buttandosi da unafinestra, vagando di rifugio in rifugio, mi-metizzandosi da malato in un ospedale,mentre i salvatori rappresentano una mondoquanto mai eterogeneo e variegato: un colle-ga di lavoro, una portinaia, uno sconosciuto,una balia, un amico antifascista, alcune suo-re, un industriale, un prete, una folla amica,un primario ospedaliero, un giudice, un car-ceriere, una guardia di finanza. Quella cheappare ben documentata è un’Italia sommer-sa, fatta non solo di ebrei ma anche di un al-tro popolo in fuga, militari sbandati, soldatidegli eserciti alleati, oppositori politici cheun’Italia ufficiale aiuta protegge e salva conun comportamento di apertura verso l’altro,spontaneo e collettivo che finalmente rompee riscatta l’indifferenza e la meschinità delpassato. Una storia, quella di Salvarsi,rac-contata in modo appassionato ed esaustivo,che dovrebbero meditare oggi i tanti ritorna-ti a rinchiudersi nel loro meschino ed egoi-stico particolare.

Emilio Jona

Liliana Picciotto, Salvarsi. Gli ebrei ita-liani sfuggiti alla Shoah. 1943-1945, Ei-naudi, 2017, pp. 592, € 38

17RassegnaElisabeth Roudinesco – a cura di Diana Na-poli – Ritorno sulla questione ebraica – Ed.Mimesis – 2017 (pp. 273, € 24) L’antisemiti-smo, ovvero “uno dei codici culturali più con-divisi in Europa” viene analizzato in chiavediacronica a partire dal XIX secolo, inalteratofino a dopo la Shoah e rinfocolato dalla nasci-ta dello Stato d’Israele, sotto le mentite spo-glie dell’antisionismo. Il saggio, pubblicato inFrancia nel 2009, viene ora presentato in tra-duzione italiana e arricchito dalla prefazionedella stessa traduttrice Diana Napoli (contri-buendo così alla collana “Filosofia per il XXIsecolo” diretta da Donatella Di Cesare) ecompletato con le considerazioni sugli svilup-pi della questione, alla luce degli ultimi tragicieventi, sia in Francia che altrove. (s)Pia Settimi – L’ultimo traduttore. Jacob Al-pron tra yiddish e italiano. – Ed. Il prato –2017 (pp. 157, € 18) Una ricca messe di ma-teriali inediti, risalenti ad anni a cavallo tra’500 e ’600, ha offerto la possibilità di rico-struire vita e opere di un infaticabile maestro,divulgatore, rabbino, tipografo, sempre ra-mingo e solo ospite presso famiglie facoltosedell’Italia settentrionale. Destinatarie dellatraduzione dei “Precetti per le donne hebree”(Mitzwot nashim) sono appunto le fanciullee le donne ashkenazite. Il presente lavoro of-fre il confronto tra l’originale e la traduzione,sia dal punto di vista linguistico che contenu-tistico, dei precetti, presentati dalla curatricein ordine alfabetico. Interessanti sono i con-cetti espressi da Alpron nella sua introduzio-ne, dove considera ingiusto valutare le donnemeno degli uomini (sic), elenca alcuni esem-pi biblici di donne illustri a cui ispirarsi, con-siglia alle donne di aver caro il volumettopreferendolo a quelli profani, esortandole in-fine alla lettura e all’applicazione dei Precettionde meritare la vita eterna. (s)Primo Levi – a cura di Mario Barenghi,Marco Belpoliti e Anna Stefi – Ed. Marcosy Marcos – 2017 (pp. 573, € 35) “Questovolume fornisce un fondamentale contributoalla scoperta e alla riscoperta di uno scrittoredecisivo per la nostra epoca, consentendo diconoscere meglio la sua attività poliedrica eilluminando aspetti ancora in ombra dellasua personalità letteraria ed umana”. Affian-cando numerosi studi analoghi su vita e ope-re dello scienziato-umanista e ricercandone inumerosi piani di intersezione, il presente la-voro offre una vastissima raccolta di testi, in-terviste, recensioni e saggi tratti in parte dalvolume RIGA del 1997 (dedicato a PrimoLevi) e si completa con gli atti del convegno“Primo Levi antropologo ed etologo” tenuto-si nel 2016 presso le università di Bergamo edi Milano-Bicocca. (s)Gabriele Rigano – L’interprete di Au-schwitz – Ed. Guerini e Associati – 2015(pp. 254, € 22,50) Assodata ormai la corni-ce della Grande Storia, veniamo a cono-scenza di un’altra tessera della Storia OraleIndividuale a completamento di un mosaicoche continua a svelare situazioni incredibili.Il protagonista di questi fatti risulta esserestato persona dalle molteplici brillanti qua-lità intellettuali e morali, un testimone de-gno della massima attenzione e stima, es-sendosi sempre trovato al centro di eventiche la storiografia necessariamente schema-tizza. (s)Maria Pia Scaltrito – Puglia. In viaggio perSinagoghe e Giudecche – Ed. Mario Adda –2017 (pp. 135, € 10) Con la collaborazione enel solco tracciato da Cesare Colafemmina(massimo esperto di antichità giudaiche nelmezzogiorno d’Italia) la studiosa offre unaguida aggiornata sullo stato dell’arte in mate-ria. L’antica Apulia e il Salento sono stati i ter-ritori dei più notevoli insediamenti ebraici e i

Sionisti cristiani in EuropaElia Boccara, di cui HK aveva recensito nelnumero dello scorso maggio l’autobiografia(Un ebreo livornese a Tunisi), attingendo aun gran numero di fonti sia primarie sia distudiosi precedenti, cerca le voci cristianeche, fin dal XVII secolo, hanno riconosciuto– e sostenuto – la legittimità dell’aspirazionedegli ebrei di porre fine al loro esilio, ai pre-giudizi, alle persecuzioni, e di ritornare allaterra promessa.Sono voci diverse, che hanno alla base sia ilriconoscimento della non facile situazionedegli ebrei in Europa, sia un particolare inte-resse per l’ebraismo partendo dallo studiodella Bibbia. La visione messianica del ritorno, contro laposizione della Chiesa ufficiale, è stata vistanon come una strada per – o un effetto di –una conversione al cristianesimo, ma comeliberazione temporale, come un diritto dellanazione ebrea: per questo Boccara parla di“sionisti”.Boccara rilegge la Esther di Jean Racine, do-ve più volte da parte di personaggi o del corosi rimpiange Gerusalemme e si invoca il ri-torno a Sion; ricorda il coraggio di Padre An-tonio Vieira, portoghese, studioso dell’ebrai-smo, che affronta l’Inquisizione e la Chiesadi Roma, che lo accusano di filogiudaismoper la sua difesa degli ebrei convertiti e peraver auspicato l’avvento di un “liberatore”che riconduca gli ebrei nella loro terra. Dopo aver ricordato l’Emile in cui Rous-seau afferma che per comprendere le lororagioni occorre che gli ebrei abbiano unoStato, delle scuole, delle università, Bocca-ra si sofferma a lungo sul l’Inghilterra, daiPuritani del XVI e XVII secolo fino allafondazione dello Stato di Israele, daCromwell a Balfour, Wingate. Di GeorgeEliot, cui dedica in memoriam il libro, Boc-cara ricorda l’interesse per l’ebraismo e lostudio approfondito delle fonti, e riassumeil contenuto del libro il cui protagonista,Daniel Deronda, quando scopre (dopo oltre600 pagine: a prova di resistenza del lettore…) di essere ebreo si dedica alla ricerca delmodo di restituire agli ebrei un’esistenzapolitica dando loro un centro nazionale.Boccara ricorda ancora altri precursori del -l’8/900, tra cui Benedetto Musolino, “eroedel Risorgimento”, che nel suo libro Geru-salemme del 1851, pubblicato soltanto unsecolo dopo, auspicava accordi internazio-nali per consentire il ritorno degli ebrei inPalestina.Con il suo lavoro Elia Boccara ha voluto, co-me si legge nel quarto di copertina, “onorarela memoria di tutti coloro che nel mondo cri-stiano hanno nutrito fraterni sentimenti neiconfronti degli ebrei”.

p.d.

patriarcale di un industriale cliente del padre,come fosse un parente sfollato, lavorò nel -l’ufficio paghe, vide per la prima volta unafabbrica tessile dall’interno, ma dopo circaun mese, a seguito di una denuncia, forse piùimmaginata per comprensibili paure che rea-le, fu fatto scappare da una finestra per sfug-gire all’imminente cattura. Il ragazzo quindi-cenne passò nella notte per Biella, andò adabbracciare sua madre che giaceva malata dicancro in una cameretta dell’ospedale, era il22 dicembre, e fu l’ultima volta che la vide,morì tre mesi dopo; proseguì per l’alta valledi Andorno, raggiungendo il padre e uno zioospiti di una ignota signorina di mezza età,molto povera, dall’animo generoso e dal ca-rattere difficile, parente di un cliente dell’av-vocato che, per altruismo, bisogno e forseimprovvisa burbera simpatia, li aveva accoltinella sua casa. Il giorno dopo, un primo ra-strellamento tedesco e fascista si conclusenei pressi di quel loro rifugio con l’uccisionedi un vecchio socialista che si era nascostoall’avvicinarsi dei nazisti.Anche il primogenito e i suoi famigliari inquell’occasione e ripetutamente in seguitosfiorarono con perfetta incoscienza, senzapaure e con una sorta di indifferenza, la mor-te: una pattuglia passò a distanza di pochimetri. Ma le paure apparvero dopo la Libera-zione nei sogni notturni.Si deve aggiungere che sicuramente gli abi-tanti dell’intera frazione, e non solo quelli,sapevano della presenza di quel gruppetto diebrei a Vallemosche, e che, nel gelido inver-no 1944-45, i tedeschi e i loro accoliti visseroper circa un mese a cinquanta metri dalla ca-sa in cui essi erano nascosti, eppure nessunomai parlò.Ma la storia più insolita, rischiosa e fortunatafu quella dei tre nonni ultranovantenni.La vecchia casa di Biella Piazzo era stata re-quisita dai tedeschi che si installarono nel-l’alloggio del primo piano, più grande econfortevole, mentre al piano superiore si si-stemarono i repubblichini; ma con loro con-vissero per diciotto mesi i tre nonni con la lo-ro domestica “ariana”.Avevano avuto una segreta assicurazionedalla Questura locale che gli ebrei ultraset-tantenni non sarebbero stati deportati e checomunque in caso di pericolo sarebbero statipreavvertiti tempestivamente.Così ci fu questa incredibile convivenza consaluti formali e scambio di cortesie tra ebrei,repubblichini e tedeschi mentre a poche deci-ne di chilometri, a Casale, Torino, Vercelligli ebrei ultrasettantenni erano regolarmenteavviati allo sterminio.Nel ricordare questi momenti di una famigliaebrea biellese e gli aiuti generosi che le con-sentirono di salvarsi, credo che non si debbadimenticare che io sono qui a documentarlo,mentre gli ottomila ebrei morti in campo disterminio tacciono. Essi documentano col si-lenzio un’altra vicenda che nessuno può rac-contare, ma che è esistita e che la loro mortetestimonia: quella dell’indifferenza, della de-lazione, dell’odio.Che questa memoria e il risentimento per laloro sorte non ci abbandonino perché anchesu memoria e risentimento si fonda la spe-ranza che quei tempi, quegli eventi non si ri-peteranno.

Elia Boccara, Sionisti cristiani in Euro-pa. Dal Seicento alla nascita dello Statodi Israele, Giuntina, 2017, pp. 228, € 16

Cerimonie di estremo saluto

PRIMO STABILIMENTO DI TORINOCASA FONDATA NEL 1848

ORGANIZZAZIONE FIDUCIARIA DELLA COMUNITÀ EBRAICA DI TORINO

Via Barbaroux, 46 - 10122 TORINO - Tel. (011) 54.60.18 - 54.21.58(segue a pag. 18)

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libri

cui reperti testimoniano una vita culturale, re-ligiosa e produttiva di alto livello. Commer-cio, artigianato, arte e agricoltura furono setto-ri di successo fino all’espulsione del 1541. Lavoce narrante dell’autrice ci accompagna inun racconto fiabesco, ricco di colpi di scena esorprese, di contemplazione estatica davanti atesori inestimabili, fino al più recente ritrova-mento della sinagoga di Andria. (s)Antonio Forcellino – La ceramica sugliscogli. La storia cancellata di Max e FloraMelamerson – Ed. La Conchiglia – 2017(pp. 302, € 22) Architetto ed esperto di ce-ramica, Antonio Forcellino, nativo di Mari-na di Vietri, ha compiuto una ricerca com-plessa per ricomporre gli elementi di unavergognosa vicenda, cancellata dalla co-scienza degli italiani. Nel 1926 una coppiadi ebrei mitteleuropei lascia Berlino, ormairischiosa, e approda a Vietri. Quel minusco-lo borgo del meridione, oltre alle bellezzepaesaggistiche della Costiera,vantava ric-chezze speciali: abbondanza di acqua dolce,roccia calcarea e argillosa e lo sbocco sulmare. Già i Romani ne avevano sfruttato lerisorse e le ceramiche vietresi, inadatte allaproduzione di vasellame “alto”, erano tutta-via perfette per pavimentazioni, oggettisticadevozionale e conserve alimentari. I coniu-gi Melamerson, nutriti dalle esperienze conle avanguardie artistiche tedesche, ne rinno-varono l’estetica ricavandone un grandesuccesso commerciale: il Vaticano e i palaz-zi del potere fascista vennero pavimentatidalla loro impresa e la Rinascente diffuse iloro manufatti per la grande distribuzione.Poi la tragedia: espropriazione, persecuzio-ne, internamento… approdo negli Stati Uni-ti e ritorno alla vita. (s)Carlo Giacobbe – Storie (vere) e canti dellaterra di Israele e dintorni – Ed. EurilinkUniversity Press – 2017 (pp. 201, € 25) conCD musicale. Dedicato alla memoria diYizhak Rabin e di Herbert Pagani, il librovuole essere una difesa lucida e appassionatadel sionismo e di Israele da parte di una co-scienza libera e priva di pregiudizi stereotipa-ti. I brani contenuti nel CD, introdotti da op-portune notazioni storico-linguistiche e tecni-che, seguono un percorso diacronico che, apartire dagli anni dell’Yshuv sotto mandatobritannico, giungono agli anni Ottanta del No-vecento con incursioni nella tradizione giudai-co-spagnola che affianca lo yiddish degli sthe-tlach e l’ebraico moderno. (s)Silvana Calvo – L’informazione rifiutata.La Svizzera dal 1938 al 1945 di fronte al na-zismo e alle notizie del genocidio degli ebrei– Ed. Silvio Zamorani – 2017 (pp. 359, €38) Dunque si sapeva e non si agì! L’annun-cio dello sterminio sistematico fatto dal Mi-nistro degli Esteri britannico alla Camera deiComuni aveva prodotto una dichiarazione

d’intenti congiunta tra Inghilterra, Russia eAmerica: nulla venne fatto! La neutrale Sviz-zera riceveva notizie la cui gestione non fuunivoca né coerente: i vari organi di informa-zione furono assoggettati al governo e allacensura. Questo corposo lavoro di reperi-mento delle fonti primarie “consente di inda-gare in profondità la relazione fra il mondodel l’informazione e i comportamenti dellapolitica e delle società svizzere, nel contestoparticolarissimo di un paese neutrale sotto-posto a dura repressione da parte della Ger-mania nazista”. (s)Marco Francesco Dolermo – Alla fiera diTantah. Il sionista che amava l’islam: Raf-faele Ottolenghi. (1860-1917) Ed. SilvioZamorani – 2017 (pp. 271, € 32) Cultoredi politica praticata quanto di filosofia, teo-logia ed etnografia, questo eclettico ebreopiemontese – lontano dall’ossessione iden-titaria – indagava invece i legami tra le fedimonoteiste. La sua vicenda “può costituireun requisito utile per addentrarsi” nella sto-ria degli anni a cavallo dell’avvento del so-cialismo, del colonialismo e della primaguerra mondiale, anni tumultuosi specie perl’identificazione della componente ebraicadella società. I suoi numerosi scritti affron-tano tra l’altro il modernismo ebraico a con-fronto con il cattolicesimo, il socialismo ri-voluzionario, il sionismo spirituale e politi-co fino alle colorite descrizioni della “fieradell’est” dell’Oriente islamico. Un perso-naggio singolare e tuttavia emblematico delsuo tempo e del fervore intellettuale ribol-lente nelle piccole ma vivaci comunitàebraiche piemontesi. (s)Lia Levi – Questa sera è già domani – Ed.e/o – 2018 (pp. 219, € 16,50) Allo scaderedegli ottanta anni dalla promulgazione delleleggi razziste, l’obiettivo di questa memorianon risiede tanto nella ricostruzione (in partebiografica e in parte romanzata) dei fatti,quanto nella urgente necessità di puntualiz-zare le responsabilità. Ambientato tra Geno-va e Livorno, il gruppo famigliare verrà poidisperso e confinato in varie regioni italianeper approdare, dopo inenarrabili traversie,nella “accogliente” Svizzera. A differenza dialtri paesi, l’Italia non ha mai chiesto scusaper il trattamento riservato a quei suoi citta-dini, allora sudditi di un re che firmò. L’at-tualità evidenzia l’importanza di questo ap-passionato lavoro di Lia Levi. (s)Rita Baldoni – Ilse Weber, l’ultimo Lied –Ed. Salomone Belforte & C. – 2017 (pp.291, € 22) Illuminante la prefazione di Ro-berto Olla (già cimentatosi con la biografiadi Ida Macheria) nel guidarci alla riflessio-ne sulla Shoah e sull’unicità della beffa diTheresienstadt: i bambini dovevano man-giare pane e margarina, le ragazze si dove-vano esibire nella ginnastica, l’operettaBrundibar andava rappresentata e Ilse We-ber aveva composto i suoi lieder. La chiave

di lettura di quelle composizioni viene indi-cata da Rita Baldoni come la necessità diinfondere serenità e speranza nei cuori deipiccoli cui erano destinate: le ninna nanne,le filastrocche, le poesie in rima e musicaequivalevano ad una forma di resistenzaspirituale estrema. Sia la prima parte del vo-lume, costituita dall’epistolario quasi diari-stico, che la traduzione italiana delle poesiesono l’esito del lavoro degli studenti dellaprofessoressa Baldoni, nell’ambito del Con-corso per le Scuole “I giovani ricordano laShoah”. (s)Umberto Fortis – Manoello volgare. I ver-si italiani di Immanuel Romano (1265-1331?) – Ed. Salomone Belforte & C. –2017 (pp. 130, € 15) Sapido volumetto pergli amanti della letteratura trecentesca aitempi di Dante e Petrarca. Il nostro protago-nista costituisce un caso letterario “unico eirripetibile” per l’opera e la personalità: ri-tenuto il maggior poeta ebreo dell’età me-dievale, Immanuel Romano “è stato capacedi fondere armonicamente… la tradizionepoetica della scuola giudeo-spagnola con leesperienze liriche italiane, stilnovistiche ogiocose”. Al pari di Dante raccontò di unimmaginario viaggio nell’oltretomba (unmust per quei tempi), si espresse sia inebraico che in volgare e può, a buon diritto,venir considerato alla stregua di un media-tore culturale. Tuttavia il poeta fu fatto og-getto di una sorta di ostracismo da parte de-gli studiosi ebrei per via di certi suoi versi“troppo erotici”. Una figura interessante,già da tempo inserita nel panorama dellaletteratura italiana e le cui composizioni ri-sultano ora facilmente accessibili. (s)Sergio Luzzatto – I bambini di Moshe. Gliorfani della Shoah e la nascita di Israele –Ed. Einaudi – 2018 (pp. 393, € 32) “Gio-vani ebrei immigrati in Palestina negli anniTrenta che, fra il 1944 e il 1945, hanno ri-salito l’Italia come soldati volontari nel Ge-nio Britannico (Brigata Ebraica) per salva-re il salvabile”. Tra questi Moshe Zeiri cheorganizza nella ex colonia fascista di Selvi-no (acquistata e messa a disposizione dallaComunità ebraica di Milano) un modello disocietà libera e democratica di improntasionistica per la formazione dei futuri citta-dini di Israele. Idealista e homo faber, Mo-she diventa guida e maestro per i circa otto-cento orfani sopravvissuti ma smarriti:“salvazione individuale e redenzione col-lettiva”, costruendo un ponte tra la Shoah ela nascita dello stato del popolo ebraicoNON annientato. Una storia luminosa etoccante affrontata con competenza da unvalente storico. (s)Bruno Maida – I luoghi della Shoah inItalia – Ed. Edizioni del Capricorno –2017 (pp. 157, € 9,90) Max Horkeimer dis-se che “rischiarare le tenebre è l’onore dellaricerca storica” e Bruno Maida oggi com-pleta il concetto affermando che “ricordaree conservare i luoghi dei crimini fascisti enazisti… deve essere considerato l’onoredelle generazioni di italiani del dopoguer-ra”. E poiché secondo Tzvetan Todorov “ilbuon uso della memoria è quello che serveuna giusta causa, non quello che si limita ariprodurre il passato” certamente l’agilepubblicazione, curata da Bruno Maida epresentata insieme a La Stampa in concomi-tanza con il Giorno della Memoria 2018,raggiunge l’obiettivo per il taglio facile, lachiarezza e la sintesi a supporto di una riccoapparato iconografico. (s)Carry Ulreich – Di notte sognavo la pace.Diario di guerra (1941-1945) – Ed. Longa-nesi – 2018 (pp. 425, € 18,90) Inevitabile ilconfronto con Anne Frank, salvo che perl’epilogo di salvezza. Pubblicato in Olandae in olandese, volto in inglese con il sempli-ce titolo Diary, il documento viene ora pro-posto nel nostro paese e si avvale di unaprefazione e dell’inquadramento storico ne-cessari per una fruizione completa e consa-

(segue da pag. 17)

19pevole. A partire dal dicembre 1941 il diarioviene aggiornato dall’adolescente anche piùvolte al giorno, fotografando la tragicarealtà e nominando persone variamentescomparse nella Shoah. Ma sono molto pre-senti anche i salvatori: una famiglia di Rot-terdam, cattolica praticante, che offrì rifu-gio agli Ulreich per tutta la durata dellaguerra. (s) Margherita Oggero – Non fa niente – Ed.Einaudi – 2017 (pp. 244, € 19) Il romanzoè costruito, soprattutto nella prima parte, co-me un puzzle, con continui e vistosi sbalzi ditempo e di situazioni che obbligano a tenerben desta l’attenzione e acuiscono l’interes-se del lettore. La narrazione, condotta con ilsolito stile colloquiale proprio della scrittri-ce, nella seconda parte si avvicina un po’troppo al romanzo a lieto fine. Rimane inte-ressante, comunque, per la rievocazione dieventi, anche tragici, vissuti, prima e dopo laguerra, specialmente dagli ebrei, in Piemon-te e a Torino. (e)Brunetto Salvarani (a cura di) – Il folle so-gno di Neve Shalom Wahat al-Salam. Israe-liani e palestinesi insieme sulla stessa terra –Ed. Terra Santa – 2017 (pp. 208, € 15) Ilvolume – composto da una serie di contributidi specialisti di diverse discipline educative edi testimoni diretti – è stato concepito per ri-cordare, da un lato, i venticinque anni dallanascita dell’Associazione italiana Amici diNeve Shalom Wahat al-Salam, il Villaggiodella pace nel quale convivono, in Israele,ebrei, cristiani e palestinesi; dall’altro perl’occasione dello scadere dei vent’anni dallamorte del suo fondatore, Bruno Hussar, fratedomenicano figlio di genitori ebrei che si de-finiva “veramente cristiano e veramenteebreo”, iniziatore della cosiddetta “Chiesaebraica in Israele”. I principi chiave del siste-ma educativo adottato nel Villaggio della pacesono i seguenti: una uguale partecipazione diebrei e palestinesi nell’amministrazione e nel-la didattica; un quadro d’insegnamento siste-matizzato che renda possibile l’incontro quo-tidiano e naturale tra i bambini dei due popoli;l’uso di entrambe le lingue, ebraico e arabocome mezzo di istruzione per tutti i bambini;coltivare l’identità di ciascun bambino tra-smettendogli la conoscenza e il rispetto dellacultura e delle tradizioni del proprio e degli al-tri popoli. (e)Adolf Hitler – Mein Kampf – Ed. Mimesis– 2017 (I volume, pp. 429 € 25; II volu-me, pp. 365, € 20) Esce “la prima edizionecritica integrale, curata da una AssociazioneEbraica” (la FREE Ebrei), del celebre librodi Hitler (in italiano La mia battaglia), mol-to citato e poco letto, nei suoi due volumi(come in originale), intitolati, il primo Laresa dei conti, il secondo Il movimento na-zionalsocialista. Il primo volume contieneessenzialmente la biografia politica di Hi-tler; il secondo la nascita, la formazione e

gli scopi del movimento nazionalsocialistada lui fondato. La critica del testo è indivi-duata, dal punto di vista formale, nella suapresentazione abborracciata e composta dal-l’autore unificando pezzi scritti in tempi econdizioni diversi; dal punto di vista sostan-ziale, nel metodo adottato, abduttivo-divi-natorio (basato, cioè, su una spiegazionefondata su indizi e intuizione che, in via ditentativo, si dà di una serie di fatti noti o checomunque si ritengono adattabili alla tesi difondo, che consiste nella lotta all’ebraismocapitalista e al comunismo volta a garantireal “popolo ariano” la superiorità e lo spaziovitale che gli competono. L’apparato criti-co-didattico utilizzato a questo scopo è con-sistito, da un lato, nell’anteporre a ogni ca-pitolo una premessa contenente: la genesidel testo con riferimento al periodo in cui fuscritto o pubblicato; il contenuto, cioè i fattie le idee espressi; l’analisi, cioè i motivi e iriferimenti che stanno alla base del testo; leparole-chiave, utili a indicare i punti fortiche l’autore vuole far emergere. Dall’altrolato, nel far seguire a ciascun capitolo unaserie di approfondimenti didattici indicatisia al lettore comune come supporto utile auna migliore comprensione del testo, sia, esoprattutto, ai docenti che volessero “educa-re alla tolleranza attraverso la comprensionedell’intolleranza” e, talvolta, anche unaanalisi culturale “dedicata a discutere ilcontesto in cui nacquero, sorsero e si sedi-mentarono le culture nazionalpopolari chediedero il via al nazionalsocialismo”. Il li-bro è completato da una analitica cronolo-gia della vita di Adolf Hitler, da una biblio-grafia generale e da un opportuno glossa-rio. (e)Giovanni Tesio – Primo Levi. Ancora qual-cosa da dire. Conversazioni e letture tra bio-grafia e invenzione – Ed. Interlinea – 2018(pp. 153, € 18) Uno zibaldone di scorci diinterviste, brani di conversazioni, ricordi, an-notazioni e commenti dell’autore su variaspetti della vita e dell’opera di Primo Levi,fotografie e documenti, articoli e recensionigiornalistiche: “non cose grosse… non cosedel tutto nuove… ma cose che tuttavia inte-grano o tornano a sottolineare aspetti, se nonpiù segreti o addirittura inediti… di certo di-versamente rivissuti in un momento di parti-colare fragilità”, cose in parte riprese da unaltro libro dello stesso autore (Io che vi par-lo: conversazione con Giovanni Tesio) stam-pato da Einaudi nel 2016. (e).Jo Koopman – La notte di Auschwitz. Dia-rio inedito di un ebreo olandese – EDB(Edizioni Dehoniane Bologna) – 2018 (pp.143, € 13) La relazione di un ebreo olandesegiunto ad Auschwitz nel 1944, poco primadella liberazione, scritta quasi subito e prati-camente inedita (parzialmente uscita in di-spense su un mensile clandestino della Resi-stenza tra l’agosto del ’45 e il marzo ’46), ri-

sente del carattere cronachistico e si incentrasoprattutto sul viaggio di rientro in Olanda.Rimane, tuttavia, una testimonianza preziosaproprio per la immediatezza e spontaneità delracconto. (e)Kim Brooks – La casa dei sopravvissuti.Erano ebrei in fuga dalla deportazione: luili salvò – Ed. Newton Compton – 2018 (pp.326, € 10) La tragedia della Shoah vissuta inmodi diversi e, talora, contrastanti dalla co-munità ebraica americana sia in generale sianei confronti dei profughi che vi approdano:incerto tra saggio e romanzo finisce per nonessere né l’uno né l’altro.(e)Aharon Appelfeld –Giorni Luminosi – Ed.Guanda – 2018 (pp.1279, € 19) Il romanzo –l’ultimo del grande autoreisraeliano sopravvissutoalla Shoah e morto recen-temente – è un vivace esentito racconto dei giornisuccessivi alla fine dellaguerra, sospeso tra la me-moria di un passato scom-parso da tempo, il ricordodella violenza dei campidi concentramento e unpresente di incerte speran-ze. È “il viaggio del ritor-no a casa” pieno di avven-ture e difficoltà ma anchedei ricordi d’infanzia di ungiovane ebreo sopravvis-suto allo sterminio che porta con sé la con-clusione di una vita: “Ognuno di noi ha vistoil male sulla propria carne. Abbiamo vinto lepaure e abbiamo raziocinio. Sappiamo checosa è importante e cosa non conta. Non è fa-cile trasmettere la nostra esperienza agli altri.Ma noi dal nostro canto ci proveremo. Ognidettaglio della nostra esperienza è importan-te. Pregheremo in cuor nostro di non fallire”.(e)Colette Shammah – In compagnia della tuaassenza – Ed. La nave di Teseo – 2018 (pp.19, € 16) Come dichiara la stessa autrice“questa non è una autobiografia, nemmenouna biografia romanzata”. È “una confessioneda figlia a madre che non aveva ancora trovatovoce”. È una storia d’amore filiale, un raccon-to di madri e figlie, di viaggi obbligati e dipensieri sparsi, spesso solo abbozzati. Un rac-conto di avventure, una memoria familiare incui risulta difficile ritrovare quanto vi sia diapparenza e quanto di realtà. (e)Mihail Sebastian – Da duemila anni – Ed.Fazi – 2018 (pp. 278, € 17) Ristampa di unlibro uscito per la prima volta nel 1934. Il rac-conto, tra romanzo e diario, degli anni neri diuna Romania percorsa da antisemitismo e na-zionalismo, anni che preludono a quelli, anco-ra più oscuri e violenti, di una dittatura alleatadel nazismo. Il protagonista, giovane ebreo,che ne è vittima, vi inserisce profonde rifles-sioni sull’ebraismo (“duemila anni trascorsifra roghi, naufragi e peregrinazioni”). (e)

A cura diEnrico Bosco (e)

e Silvana Momigliano Mustari (s)

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20 Primo Levi. Una vitaÈ la traduzione italiana del noto lavoro pub-blicato in Gran Bretagna nel 2002. Anche sequesta biografia è esposta in forma di rac-conto, è talmente approfondita in ogni detta-glio che si presenta piuttosto come un vero eproprio saggio. Lo stesso autore ricorda nellaPrefazione che le ricerche sono durate cinqueanni attraverso diversi paesi oltre l’Italia(Germania, Polonia, Stati Uniti, Gran Breta-gna), con oltre trecento interviste, tutte docu-mentate nelle abbondanti note. Ne emerge un’immagine compiuta di PrimoLevi in cui assume un rilievo particolare ilsuo disagio di fronte alla difficoltà di far con-vivere il suo impegno letterario con i doverifamiliari e con l’amato lavoro di chimico.Naturalmente la grande mole di notizie e diracconti consente di spaziare su tutti i princi-pali momenti della vita di Primo Levi, dalleesperienze direttamente legate alla deporta-zione alle molte presentazioni dei suoi libriin Europa e negli Stati Uniti, accompagnateda incontri e scambi epistolari con ex depor-tati e altri letterati. Si tratta dunque di una lettura d’obbligo pertutti coloro che desiderano conoscere e capi-re uno scrittore che, secondo l’autore, “è unodegli scrittori più stimati del mondo”.

m.m.

Ian Thomson, Primo Levi. Una vita, Ed.Utet, 2017, pp. 806, € 35

PAOLA DIENA DISEGNI

Perché il giudeo-piemontese?È facile supporre che al tempo della suamassima diffusione la parlata fosse alquan-to più ricca e rigogliosa e servisse da stru-mento comunicativo a tutta la popolazionedei ghetti, indistintamente. A quei tempi,per quanto in Piemonte le condizioni dellapopolazione ebraica fossero meno rigideche altrove e la segregazione non fosse co-sì totale, vita familiare, religiosa, rapportisociali, attività, tutto si svolgeva entro lospazio chiuso del ghetto, e l’uso di un co-dice particolare costituiva veramente unanecessità costante, quotidiana che, oltre aricoprire una funzione dissimulativa, rap-presentava anche, pur se con scarsa co-scienza di questo, un tipo di risposta alleforze disgregatrici del mondo esterno, inquanto difesa e conservazione della pro-pria alterità culturale.Con l’aprirsi dei cancelli dei ghetti la vita diquesti nuclei ebraici incominciò a proiettarsiall’esterno, in una tensione sempre crescenteverso il raggiungimento di una completa in-tegrazione nella società circostante; questomolto spesso significò perdita, spoliazione diqualunque segno dell’identità ebraica, inquanto richiamo ad un passato stato di infe-riorità. E in questo graduale processo di dise-braicizzazione ovviamente cadevano le pre-messe per una lunga sopravvivenza di questiusi linguistici, ormai divenuti soltanto unostacolo alla fluidità dei rapporti sociali eculturali con la società dei gentili.L’unica raccolta sistematica di “voci, detti emotti proverbiali giudaico-piemontesi” chefinora sia stata fatta, a parte un breve elenco

del Virgilio, è il glossario contenuto nel sag-gio di Bachi, risalente al 1929. Già primadella compilazione di questo glossario il Ba-chi si era espresso molto a favore circa l’ini-ziativa di svolgere con intento sistematicoricerche sui vari linguaggi ancora usati dagliebrei italiani nella seconda metà dell’800. Ilglossario ha un primo e indiscutibile valorecome testimonianza della vita e dei costumidi alcune famiglie ebraiche torinesi alla finedel XIX secolo attraverso l’esempio di alcu-ne loro espressioni di uso quotidiano e do-mestico; inoltre sono contenute nel saggioosservazioni di carattere, si po-trebbe dire, sociolinguistico, pur-troppo mai in seguito sviluppate,utili ad un inquadramento delproblema partendo dalle caratte-ristiche socio-culturali della co-munità linguistica. Bachi con-fronta il suo glossario con unelenco di termini in giudaico-ro-manesco raccolti da Zanazzo e faentrare in gioco come variabiledi differenziazione tra i due codi-ci “il diverso tipo sociale dellapopolazione ebraica romana e to-rinese considerata”. Dice il Ba-chi che “il vocabolario romanosembra corrispondere in buonaparte al tipo del gergo conven-zionale di un gruppo con fineprotettivo, carattere questo chenon mi sembra rinvenirsi nel“parlare” torinese, il quale se-gna semplicemente il perdurare(soprattutto in aspetti intimi, re-ligiosi o faceti) di generali tradi-zioni di vita anteriormente assaipiù estese”.Di parere diverso sembra PrimoLevi quando afferma che anchead un esame sommario non si può non de-nunciare nella parlata giudeo-piemontese“la funzione dissimulativa e sotterranea dilinguaggio furbesco destinato ad essereimpiegato parlando dei gôjim in presenzadei gôjim; o anche, per rispondere ardita-mente, con ingiurie e maledizioni da noncomprendersi, al regime di oppressione eclausura da essi instaurato”.A nostro parere, in base all’osservazione delmateriale raccolto, è limitativo intravederenell’uso di queste espressioni solamente unintento criptico, un fine esclusivamente of-fensivo-difensivo, protettivo; come anche cipare un po’ generico non ammettere l’esi-stenza di questo aspetto e attribuire alla par-lata semplicemente la funzione di mantenerecerte abitudini linguistiche, legate a partico-lari consuetudini di vita. È comunque inne-gabile l’aspetto gergale, di codice segreto,convenzionale, utile alla difesa dal mondo

Alla fine dello scorso anno ci ha lasciatiPaola Diena Disegni. Ci sono persone cheattraversano la nostra vita con discrezio-ne: che sanno essere grandi senza volerapparire. Paola era così: empatica, capacedi condividere con sensibilità le gioie e lepreoccupazioni di chi le si avvicinava.Tutto quello che si poteva dire di Lei è sta-to espresso in modo commovente duranteil rito della sepoltura: dolcezza, bellezza,intelligenza, bontà d'animo sono state evo-cate da tutti quelli che l'hanno ricordata.Non c’è stata retorica, ma il sincero deside-rio, da parte di tutti, di condividere e fissarenella mente i ricordi più belli.Paola era schiva, non amava esibire i suoisuccessi ma si interessava a quelli degli al-tri: discrezione ed equilibrio hanno contrad-distinto i suoi rapporti con la Comunità.Laureata in lettere, fece una tesi sul dialet-

to giudaico-piemontese, fondamentale perricordare e tramandare l’identità culturaledel Piemonte ebraico. Ne pubblichiamoun breve stralcio in cui vengono analizza-te e messe a confronto diverse interpreta-zioni sulle origini e le motivazioni di que-sta parlata.In seguito si dedicò all’insegnamento, ini-zialmente al Liceo valdese di Torre Pelli-ce, esperienza che ricordava sempre congioia, poi a Torino, mantenendo fino al-l’ultimo l’entusiasmo per il suo lavoro.Un grande dispiacere condiviso ha ac-compagnato le sofferenze di Paola primae la lacerazione del distacco dopo.Ci sentiamo tutti impotenti di fronte al do-lore della perdita ma siamo comunque ar-ricchiti dal ricordo del suo sorriso.

Bruna Laudi

esterno; anzi questo ne è il tratto indubbia-mente più appariscente e macroscopico.Però c’è una lunga serie di espressioni, perlo più usate in famiglia o comunque tra soliebrei, senza la presenza di estranei, dallequali si deduce la funzione tipicamenteespressiva assunta dalla parlata in certe si-tuazioni comunicative; situazioni in cui, nonnecessitati dal ricorso ad un codice segretoincomprensibile ad altri, i parlanti scelgonolo stesso di usare il giudeo-piemontese, per-ché ricco di maggiore tensione espressiva,emotiva, di una più forte carica di ironia, diallusività.

Da Paola Diena, Il giudeo – piemontese: tracce attuali

e testimonianze sociolinguistiche, tesi discussa nel 1980

Relatore Prof. Corrado Grassi

Dario Treves,Antagnod, 1963

Dario Treves, Egle, 1933

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