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HA KEILLAH (LA COMUNITÀ) - BIMESTRALE - ORGANO DEL GRUPPO DI STUDI EBRAICI DI TORINO Sped. in A.p: 70% - filiale di Torino - n. 2 - 1° semestre 2017 - In caso di mancato recapito restituire al mittente che si impegna a pagare i diritti dovuti - C/O CMP TORINO-NORD www.hakeillah. com [email protected] MAGGIO 2017 ANNO XLII-208 IYAR 5777 NELL’INTERNO: n LETTERE (GIORGIO GOMEL) 2 n 1967 (IN- TERVISTA DI DAVID TER- RACINI) 3-7 n STORIE DI EBREI TORINESI (BRUNA LAUDI) 6-7 n ISRAELE (ISRAEL DE BENEDETTI, REUVEN RAVENNA, A- LESSANDRO TREVES, RIMMON LAVI) 8-11 n GERUSALEMME (DAVIDE SILVERA) 9 nUSA (GIOR- GIO GOMEL) 12 n TO- RINO (BEPPE SEGRE) 13 n STORIA (ALFREDO CARO, DANIELA VATURI) 14-15 n LIBRI (EMILIO JONA, PAOLA DE BENE- DETTI) 16-20 n MINIMA MORALIA (POESIA DI PRIMO LEVI) 20 n Diario dei 6 Giorni e oltre A cinquant’anni dalla Guerra dei Sei Giorni del giugno 1967 riemergono da un polveroso scaffale delle pagine di diario scritte in quei giorni. Li riproponiamo immutati, con tutto il candore di un ragazzo ventiquattrenne arriva- to in Israele sei mesi prima. 4 giugno 1967. Sono giorni tremendi di ten- sione militare e politica. Alla Casa dello Stu- dente dell’Università di Gerusalemme con i pochi studenti ebrei recenti immigrati e i più numerosi studenti arabi che non sono stati ar- ruolati, scaviamo trincee nel campus, riempia- mo sacchi di sabbia protettivi, copriamo le fi- nestre di vetro con strisce di carta gommata. La frattura di idee con il compagno di camera che mi è stato assegnato al mio arrivo qui in dicembre – Ibrahim Washahi, sudente di Ma- gistero, da Um-Al-Fahm, provincia di Hadera, proprio sul confine con la Giordania, padre musulmano religioso con due mogli, lui sem- mai vicino al partito comunista arabo – non potrebbe essere più totale. Abbiamo vissuto per sei mesi nella stessa cameretta di quattro metri per quattro, eppure possiamo dire di avere a malapena superato i sospetti reciproci derivanti dalle nostre diversità fondamentali di arabo e di ebreo, di nato in Israele e nato al- l’estero, di campagnolo e di cittadino, di figlio di contadini e di figlio di borghesi. Dopo al- cuni mesi di studio al mio ulpàn, passiamo TORINO 1967 LA RESPONSABILITÀ DELLA SCELTA Anna Segre (segue a pag. 2) Sergio Della Pergola (segue a pag. 4) Beppe Segre (segue a pag. 7) Questo numero di Ha Keillah porta in copertina un bel ri- tratto (opera di Stefano Levi Della Torre) di Primo Levi, che vogliamo ricordare a trent’anni dalla sua scomparsa. Abbiamo deciso inoltre di dedicare ampio spazio a un altro significativo anniversario “tondo”: questo numero arriverà nelle case a cinquant’anni esatti dalla Guerra dei Sei Giorni. Il nostro atteggiamento di fronte a questa ricorrenza po- trebbe a prima vista apparire contraddittorio: da un lato rie- vochiamo, attraverso i racconti dei testimoni, l’ansia e la trepidazione per Israele (allora condivise anche dal mondo non ebraico) e la gioia per una vittoria rapida e inaspettata nelle sue dimensioni. Dall’altro, come di consueto, ospitia- mo contributi che mettono in evidenza problemi anche gra- vi dell’Israele di oggi: il trattamento dei profughi, la cre- scente insofferenza verso le voci critiche e, naturalmente, la persistenza di un’occupazione militare che dura da cin- quant’anni senza che si possa intravedere all’orizzonte una possibile soluzione. In realtà la contraddizione non c’è affatto, se consideriamo che anche i testimoni di allora ci raccontano come si desse per scontato che i territori conquistati sarebbero serviti solo come merce di scambio per trattare la pace, che allora appa- riva imminente. Ed è anche importante ricordare che nel 1967 era in gioco la sopravvivenza stessa di Israele; nessu- na critica su temi specifici a governi o personaggi politici israeliani di oggi può mettere in discussione la nostra asso- luta convinzione che Israele abbia diritto ad esistere e a di- fendere il proprio diritto all’esistenza, oggi come nel 1967. Un conto è operare una chiara e netta scelta di campo, un al- bene in quale forma. “Il cuore dei torinesi – scrive la Stampa – è nella terra dove i super- stiti del ghetto di Varsavia lottano perché i lo- ro figli nati e cresciuti in Palestina non cono- scano più l’antico dolore di una gente mille volte perseguitata e mille volte dispersa”. A Torino una prima grande manifestazione si svolge nell’Aula Magna dell’Università il 29 maggio, organizzata dall’Associazione Italia- Israele. Dopo il Rettore dell’Università, che è anche Presidente della Sezione torinese del- l’Associazione, e che dà lettura delle numero- sissime adesioni ricevute, tra cui quella del Sindaco di Torino, prende la parola il professor Carlo Casalegno, ex-partigiano e giornalista, che analizza e condanna il “fanatismo razziale religioso che si vanta di educare i figli all’odio fino a quando Israele esisterà”, proclama il di- ritto di Israele all’esistenza e conclude così: Israele è l’unica vera democrazia del Medio Oriente e per noi Israele è uno Stato – San- tuario dove i perseguitati hanno trovato rifu- gio e speranza creando una meravigliosa ge- nerazione. Israele è una frontiera anche no- stra. Una frontiera che tutti gli uomini civili sono impegnati a sostenere e difendere”. ***** La sera del 31 maggio, alla vigilia di una gior- nata di digiuno e di preghiera, la Comunità or- ganizza una manifestazione di solidarietà per Israele. I partecipanti, migliaia, sono così nu- Il 16 maggio Nasser comincia ad ammassare truppe nella Penisola del Sinai, lungo il confine israeliano, il 19 maggio espelle le forze delle Nazioni Unite da Gaza e dal Sinai, il 22 mag- gio chiude alle navi israeliane gli stretti di Ti- ran. Il 26 maggio pronuncia alla radio un belli- coso discorso in cui afferma di essere pronto al- la guerra, che sarà “totale e si porrà come obiettivo la distruzione di Israele”. Il 30 mag- gio la Giordania e l’Egitto firmano un patto di mutua difesa. Il 31 maggio, dietro invito gior- dano, l’esercito iracheno comincia a schierare truppe e unità corazzate in Giordania, con un successivo rinforzo di un contingente egiziano. ***** Lo scontro appare inevitabile. Non è passata una generazione dalla fine della guerra mon- diale e gli slogan del Presidente egiziano, che minacciano morte e distruzione, suscitano or- rore in chi non ha dimenticato la tragedia della Shoà. La popolazione italiana, in larghissima maggioranza, trepida per il diritto all’esistenza del giovane Stato di Israele, minacciato e asse- diato dai potenti eserciti degli stati arabi, ed esprime in ogni modo solidarietà e simpatia. ***** A Torino, come in tutte le Comunità italiane, gli ebrei organizzano veglie di preghiere e di- battiti pubblici, raccolgono aiuti economici e materiale sanitario, i giovani si preparano ad andare in Israele ad aiutare, non si sa ancora merosi che il tempio grande non è sufficiente a contenere tutto il pubblico, che dilaga nell’a- trio e nella strada. Sono presenti il sindaco di Torino, prof. Grosso, il Presidente della Pro- vincia avv. Oberto, il Rettore del l’Università prof. Allara, sacerdoti cattolici, pastori valdesi e della Chiesa ortodossa, esponenti della cultu- ra, politici, ex-partigiani, rappresentanti di tut- ti i partiti. Il Rabbino Capo, Rav Sierra zl, co- sì si esprime: “Ancora una volta il popolo del- la pace è chiamato al doloroso e angoscioso dovere di impugnare le armi per difendersi dal fanatismo del mondo arabo che, fin dal 1948, s’è mostrato incapace di comprendere la nuo- va realtà di Israele, manifestando oggi un’esa- sperata volontà aggressiva”. Primo Levi esprime un’angoscia profonda che “ha radici lontane, in ricordi mai scom- parsi di luoghi che non devono più esistere, di esperienze e violenze che speravamo can- cellate dalla storia della civiltà. Ma a questi ricordi si sovrappongono parole recenti, che credevamo estinte: ‘Vinceremo con l’aiuto di Dio, stermineremo il nostro nemico’. Non esiste bestemmia peggiore. … Non esiste si- tuazione politica per cui un paese deve esse- re distrutto, un popolo sterminato… Israele deve vivere perché deve vivere ogni paese e ogni uomo... A Israele si chiede semplice- Ritratto di Primo Levi, olio di Stefano Levi Della Torre

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HA KEILLAH (LA COMUNITÀ) - BIMESTRALE - ORGANO DEL GRUPPO DI STUDI EBRAICI DI TORINOSped. in A.p: 70% - filiale di Torino - n. 2 - 1° semestre 2017 - In caso di mancato recapito restituire al mittente che si impegna a pagare i diritti dovuti - C/O CMP TORINO-NORD

www.hakeillah. [email protected]

MAGGIO 2017 ANNO XLII -208 IYAR 5777

NELL’INTERNO:

n LETTERE (GIORGIOGOMEL) 2 n 1967 (IN-TERVISTA DI DAVID TER-RACINI) 3-7 n STORIE DIEBREI TORINESI (BRUNALAUDI) 6-7 n ISRAELE(ISRAEL DE BENEDETTI,REUVEN RAVENNA, A -LESSANDRO TREVES,RIMMON LAVI) 8-11 nGERUSALEMME (DAVIDESILVERA) 9 nUSA (GIOR -GIO GOMEL) 12 n TO-RINO (BEPPE SEGRE) 13n STORIA (ALFREDOCARO, DANIELA VATURI)14-15 n LIBRI (EMILIOJONA, PAOLA DE BENE-DETTI) 16-20 n MINIMAMORALIA (POESIA DIPRIMO LEVI) 20 n

Diario dei 6 Giornie oltreA cinquant’anni dalla Guerra dei Sei Giornidel giugno 1967 riemergono da un polverososcaffale delle pagine di diario scritte in queigiorni. Li riproponiamo immutati, con tutto ilcandore di un ragazzo ventiquattrenne arriva-to in Israele sei mesi prima.

4 giugno 1967. Sono giorni tremendi di ten-sione militare e politica. Alla Casa dello Stu-dente dell’Università di Gerusalemme con ipochi studenti ebrei recenti immigrati e i piùnumerosi studenti arabi che non sono stati ar-ruolati, scaviamo trincee nel campus, riempia-mo sacchi di sabbia protettivi, copriamo le fi-nestre di vetro con strisce di carta gommata.La frattura di idee con il compagno di camerache mi è stato assegnato al mio arrivo qui indicembre – Ibrahim Washahi, sudente di Ma-gistero, da Um-Al-Fahm, provincia di Hadera,proprio sul confine con la Giordania, padremusulmano religioso con due mogli, lui sem-mai vicino al partito comunista arabo – nonpotrebbe essere più totale. Abbiamo vissutoper sei mesi nella stessa cameretta di quattrometri per quattro, eppure possiamo dire diavere a malapena superato i sospetti reciprociderivanti dalle nostre diversità fondamentalidi arabo e di ebreo, di nato in Israele e nato al-l’estero, di campagnolo e di cittadino, di figliodi contadini e di figlio di borghesi. Dopo al-cuni mesi di studio al mio ulpàn, passiamo

TORINO 1967

LA RESPONSABILITÀDELLA SCELTA

Anna Segre (segue a pag. 2)Sergio Della Pergola (segue a pag. 4)

Beppe Segre (segue a pag. 7)

Questo numero di Ha Keillah porta in copertina un bel ri-tratto (opera di Stefano Levi Della Torre) di Primo Levi, chevogliamo ricordare a trent’anni dalla sua scomparsa. Abbiamo deciso inoltre di dedicare ampio spazio a un altrosignificativo anniversario “tondo”: questo numero arriverànelle case a cinquant’anni esatti dalla Guerra dei Sei Giorni.Il nostro atteggiamento di fronte a questa ricorrenza po-trebbe a prima vista apparire contraddittorio: da un lato rie-vochiamo, attraverso i racconti dei testimoni, l’ansia e latrepidazione per Israele (allora condivise anche dal mondonon ebraico) e la gioia per una vittoria rapida e inaspettatanelle sue dimensioni. Dall’altro, come di consueto, ospitia-mo contributi che mettono in evidenza problemi anche gra-vi dell’Israele di oggi: il trattamento dei profughi, la cre-scente insofferenza verso le voci critiche e, naturalmente, lapersistenza di un’occupazione militare che dura da cin-quant’anni senza che si possa intravedere all’orizzonte unapossibile soluzione.In realtà la contraddizione non c’è affatto, se consideriamoche anche i testimoni di allora ci raccontano come si desseper scontato che i territori conquistati sarebbero serviti solocome merce di scambio per trattare la pace, che allora appa-riva imminente. Ed è anche importante ricordare che nel1967 era in gioco la sopravvivenza stessa di Israele; nessu-na critica su temi specifici a governi o personaggi politiciisraeliani di oggi può mettere in discussione la nostra asso-luta convinzione che Israele abbia diritto ad esistere e a di-fendere il proprio diritto all’esistenza, oggi come nel 1967.Un conto è operare una chiara e netta scelta di campo, un al-

bene in quale forma. “Il cuore dei torinesi –scrive la Stampa – è nella terra dove i super-stiti del ghetto di Varsavia lottano perché i lo-ro figli nati e cresciuti in Palestina non cono-scano più l’antico dolore di una gente millevolte perseguitata e mille volte dispersa”.A Torino una prima grande manifestazione sisvolge nell’Aula Magna dell’Università il 29maggio, organizzata dall’Associazione Italia-Israele. Dopo il Rettore dell’Università, che èanche Presidente della Sezione torinese del-l’Associazione, e che dà lettura delle numero-sissime adesioni ricevute, tra cui quella delSindaco di Torino, prende la parola il professorCarlo Casalegno, ex-partigiano e giornalista,che analizza e condanna il “fanatismo razzialereligioso che si vanta di educare i figli all’odiofino a quando Israele esisterà”, proclama il di-ritto di Israele all’esistenza e conclude così:“Israele è l’unica vera democrazia del MedioOriente e per noi Israele è uno Stato – San-tuario dove i perseguitati hanno trovato rifu-gio e speranza creando una meravigliosa ge-nerazione. Israele è una frontiera anche no-stra. Una frontiera che tutti gli uomini civilisono impegnati a sostenere e difendere”.

*****La sera del 31 maggio, alla vigilia di una gior-nata di digiuno e di preghiera, la Comunità or-ganizza una manifestazione di solidarietà perIsraele. I partecipanti, migliaia, sono così nu-

Il 16 maggio Nasser comincia ad ammassaretruppe nella Penisola del Sinai, lungo il confineisraeliano, il 19 maggio espelle le forze delleNazioni Unite da Gaza e dal Sinai, il 22 mag-gio chiude alle navi israeliane gli stretti di Ti-ran. Il 26 maggio pronuncia alla radio un belli-coso discorso in cui afferma di essere pronto al-la guerra, che sarà “totale e si porrà comeobiettivo la distruzione di Israele”. Il 30 mag-gio la Giordania e l’Egitto firmano un patto dimutua difesa. Il 31 maggio, dietro invito gior-dano, l’esercito iracheno comincia a schieraretruppe e unità corazzate in Giordania, con unsuccessivo rinforzo di un contingente egiziano.

*****Lo scontro appare inevitabile. Non è passatauna generazione dalla fine della guerra mon-diale e gli slogan del Presidente egiziano, cheminacciano morte e distruzione, suscitano or-rore in chi non ha dimenticato la tragedia dellaShoà. La popolazione italiana, in larghissimamaggioranza, trepida per il diritto all’esistenzadel giovane Stato di Israele, minacciato e asse-diato dai potenti eserciti degli stati arabi, edesprime in ogni modo solidarietà e simpatia.

*****A Torino, come in tutte le Comunità italiane,gli ebrei organizzano veglie di preghiere e di-battiti pubblici, raccolgono aiuti economici emateriale sanitario, i giovani si preparano adandare in Israele ad aiutare, non si sa ancora

merosi che il tempio grande non è sufficiente acontenere tutto il pubblico, che dilaga nell’a-trio e nella strada. Sono presenti il sindaco diTorino, prof. Grosso, il Presidente della Pro-vincia avv. Oberto, il Rettore del l’Universitàprof. Allara, sacerdoti cattolici, pastori valdesie della Chiesa ortodossa, esponenti della cultu-ra, politici, ex-partigiani, rappresentanti di tut-ti i partiti. Il Rabbino Capo, Rav Sierra zl, co-sì si esprime: “Ancora una volta il popolo del-la pace è chiamato al doloroso e angosciosodovere di impugnare le armi per difendersi dalfanatismo del mondo arabo che, fin dal 1948,s’è mostrato incapace di comprendere la nuo-va realtà di Israele, manifestando oggi un’esa-sperata volontà aggressiva”.Primo Levi esprime un’angoscia profondache “ha radici lontane, in ricordi mai scom-parsi di luoghi che non devono più esistere,di esperienze e violenze che speravamo can-cellate dalla storia della civiltà. Ma a questiricordi si sovrappongono parole recenti, checredevamo estinte: ‘Vinceremo con l’aiuto diDio, stermineremo il nostro nemico’. Nonesiste bestemmia peggiore. … Non esiste si-tuazione politica per cui un paese deve esse-re distrutto, un popolo sterminato… Israeledeve vivere perché deve vivere ogni paese eogni uomo... A Israele si chiede semplice-

Ritratto di Primo Levi, olio di Stefano Levi Della Torre

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2tro è mettere in evidenza difficoltà e maga-gne nel proprio campo, o prendere atto del-l’esistenza al suo interno di divergenze mar-cate anche su temi rilevanti. Una differenzache sembra non avere ancora capito chi de-scrive il nostro giornale come “nemico diIsraele” o chi prende a pretesto i nostri arti-coli critici per demonizzare lo Stato di Israe-le in sé, o metterne addirittura in discussioneil diritto all’esistenza.Operare una scelta di campo significa pren-dere atto dell’impossibilità di un’equidistan-za, significa ripudiare la logica del “né con…né con…”, che tanti danni ha prodotto nelcorso della storia e altrettanti continua a pro-durre oggi: né con lo stato né con le BR, nécon Israele né con Hamas, né con Clinton nécon Trump, né con Macron né con Le Pen(andiamo in stampa nell’intervallo tra il pri-mo turno delle elezioni francesi e il ballot-taggio e, dati i precedenti della Brexit e del-le elezioni americane, i sondaggi in favore diMacron non ci tranquillizzano più di tanto).Anche la sinistra italiana è stata più volte ne-gli ultimi cent’anni divorata da questa sin-drome del “né con… né con…” e anche og-gi a leggere e ascoltare la violenza di certecritiche ci si domanda fino a che punto si vo-glia arrivare prima che scatti un minimocampanello di allarme: né con Renzi né conGrillo? Né con Renzi né con Salvini? Dietro questa logica c’è l’idea che la politicasia pura testimonianza e non assunzione di re-sponsabilità. Come se si vivesse in una torred’avorio fuori dalla storia, puri e incontamina-ti dalle sue brutture, liberi di giudicare tuttodall’alto. Leggendo l’intervista di David Terra-cini a Susan Ruff pubblicata sul numero di di-cembre, in cui la Ruff dichiara di aver votato

per un terzo candidato, non ho potuto fare ameno di chiedermi come una persona intelli-gente che crede nei valori della democrazia ab-bia potuto non sentire la responsabilità di im-pedire l’elezione di Trump alla Casa Bianca. Ese forse tutto sommato si può ancora pensareche la democrazia americana abbia in sé gli an-ticorpi per sopravvivere a quattro anni diTrump, o magari che Trump stesso non saràpoi così terribile come ha promesso in campa-gna elettorale, sulla Le Pen in un momento co-sì delicato per il futuro dell’Europa è davveroimpossibile farsi illusioni; eppure il candidatodi sinistra Melenchon ha scelto di non dare in-dicazioni di voto per il secondo turno e gliesponenti più in vista del Movimento CinqueStelle si sono affrettati a dichiarare la propriaequilontananza da Macron e Le Pen.Una posizione che può forse essere compati-bile con la mentalità cristiana (la vita cometestimonianza, in vista di un aldilà in cui re-gnerà la vera giustizia) ma che mi sembra in-compatibile con una visione laica, e anchecon la cultura ebraica, sempre attenta a cer-care di stabilire regole pratiche che sono an-che gerarchie di valori (con l’obbligo, peresempio, di trasgredire un precetto per salva-re una vita umana).Peraltro i fautori della logica del “né con…né con…” non sempre sono così duri e in-transigenti su quelli che dichiarano essere ipropri principi: ed ecco che chi non è dispo-sto a perdonare nulla a governi moderati dicasa propria, o a Paesi tutto sommato demo-cratici come gli Stati Uniti o Israele, improv-visamente diventa realistico e pragmaticoquando si tratta di chiudere un occhio su re-gimi dittatoriali, persecuzioni di minoranzeetniche o religiose, fondamentalismi e mas-sacri vari.Anche il 25 aprile (simbolicamente proprio il

giorno in cui abbiamo chiuso questo numero)risente di questi paradossi. Per un bel po’ dianni ci siamo dovuti preoccupare di chi vole-va proporre un’impossibile equivalenza tra ipartigiani e i “ragazzi di Salò”. Superata al-meno in parte questa moda, ci siamo trovatidi fronte ad un’altra insidia: forse anche percolpa del mancato riconoscimento dei valoridella Resistenza da parte della destra, la festadella Liberazione ha finito per essere mono-polizzata da una sinistra che in realtà parenon riconoscersi affatto nella scelta di chi al-lora mise da parte differenze ideologiche an-che molto marcate in nome della comune lot-ta contro il nazifascismo. Giustamente ciscandalizziamo quando vediamo non ricono-sciuto il ruolo della Brigata Ebraica nella li-berazione dell’Italia, ma chi ha mai visto sfi-lare ai cortei del 25 aprile bandiere inglesi oamericane? Non solo non le abbiamo mai vi-ste ma possiamo star certi che le bandiereamericane sarebbero fischiate anche più so-noramente di quelle della Brigata Ebraica. Eallora, se da un lato i fischi alla Brigata Ebrai-ca sono in parte il sintomo di un antisemiti-smo di fondo presente nella nostra società (el’antisemitismo è tendenzialmente una dellecose su cui i “duri e puri” sono maggiormen-te disposti a chiudere un occhio, forse perché,nella loro percezione, riflette l’autentico sen-tire del “popolo”), dall’altro dovremmo forseessere consapevoli del fatto che la questionedel 25 aprile non riguarda solo noi ebrei: sitratta di decidere se vogliamo ricordare chiallora decise che le differenze ideologichedovevano essere messe da parte in nome del-l’antifascismo e della democrazia o se voglia-mo invece raccontarci una storia diversa. An-che questa è una scelta di campo.

Anna Segre

lette

re(segue da pag. 1) La responsabilità...

BensoussanNello scorso numero avevamo pubblicatocon un breve commento la notizia delladenuncia presentata nei confronti diGeorges Bensoussan, storico della Shoah,accusato di razzismo antiislamico peraver citato in una trasmissione radiofoni-ca il sociologo algerino Smaïn Laacher,secondo cui “nelle famiglie arabe in Fran-ca l’antisemitismo viene trasmesso con illatte materno”, e della sconcertante deci-sione del Pubblico Ministero di rinviareBensoussan a giudizio anziché archiviarela denuncia.Il dibattimento avanti al Tribunale si èconcluso con l’assoluzione, e questa è unanotizia consolante, ma le organizzazioniche avevano sporto la denuncia non desi-stono, e hanno interposto appello control’assoluzione.Il caso, che ha sollecitato molti commen-ti, non è quindi ancora chiuso.

Vignetta di Davì

Amici,ho letto in questi giorni articoli vari sulla ri-correnza del 25 aprile da Mieli (Corriere) aPortelli (Manifesto); accusare i palestinesi ofilopalestinesi odierni di essere “eredi” poli-tico-culturali del Gran Mufti degli anni ’40 ègrottesco, come nelle dichiarazioni di RuthDureghello, Presidente della Comunità diRoma, ma è grottesco farsi usare strumental-mente (l’ANPI di Roma) dai palestinesi permanifestare il 25 aprile di fatto contro Israe-le occupante in una cerimonia dedicata allamemoria della Liberazione.La frattura fra ebrei e organismi rappresentati-vi dei partigiani si ripete ormai da tre anni.Frattura che ci costringe a scegliere a Roma frail corteo ANPI e il raduno a Via Balbo. È de-primente pensare che anni fa abbiamo parteci-pato con serenità più volte al corteo unitario daPorta S. Paolo issando striscioni e cartelli delGruppo Martin Buber - Ebrei per la pace.È nostro dovere, pur in circostanze difficili,non “autoghettizzarci”, non cedere alla tenta-

zione del vittimismo, del culto della solitudi-ne, del sentirci in quanto vittime, eredi dellevittime o portatori primi dei valori della me-moria delle persecuzioni, come isolati, disan-corati dal resto della società, quasi fossimogli unici a lottare contro il male dei totalitari-smi e dell’antisemitismo Per noi ebrei di si-nistra questa lacerazione fra valori di libertà,diritti umani, antifascismo da un lato e dife-sa del retaggio ebraico e delle ragioni diIsraele dall’altro è molto dolorosa. È pur-troppo il riflesso di una frattura che oggetti-vamente si è determinata fra il nostro essere“progressisti” sui temi generali-globali e di-fensori di Israele dall’altro. Una frattura cheeccita e gratifica la destra ebraico-israelianache guarda agli ebrei di sinistra come tradi-tori o ingenui visionari e la sinistra massima-lista e antisionista (BDS e simili) che guardaa noi come apologeti nascosti e complici diIsraele.

Giorgio Gomel

DEPRESSIONE DA 25 APRILE

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Come mai nel ’65 sei tornato in Israele perfare il militare?Quando ero arrivato in Italia nel ’59 avevo14 anni. (Mi hanno dato la cittadinanza ita-liana solo vent’anni dopo). Perché sono an-dato militare? Perché ero israeliano, e ogniisraeliano, finito il liceo, va nella Zavà. Perme era naturale. Dopo gli esami di maturitàsapevo dai quadri esposti che sarei stato pro-mosso, ma avevo talmente fretta di partireche non avevo aspettato la pagella. Avevopoi saputo che, grazie ai miei voti, mi eropiazzato primo in Piemonte.Cosa accade alla recluta nei primi giornidi ferma?Sono arrivato in Israele nell’agosto del ’65 emi hanno detto che mi avrebbero chiamatosotto le armi il 14 novembre. Nell’attesa hocercato un lavoro, e siccome era in periodopre-elettorale, sono stato assunto come atten-dente portaborse di Ben Gurion, Peres eDayan, che erano usciti dal Mapam e aveva-no appena formato un nuovo partito. Mi ram-marico solo di non essermi fatto fotografareinsieme a loro. Fosse stato oggi mi sarei fat-to un selfie… Il 14 novembre mi sono pre-sentato per l’arruolamento. Dopo averci datodivise e numeri di identificazione, hanno ini-ziato il cosiddetto shuk ha-‘avadim, il mer-cato degli schiavi. Chiamandoci per numero,in ordine sparso ma prefissato (avevano giàdeciso tutto), siamo stati assegnati alle diver-se brigate e caricati sui camion verso desti-nazioni ignote. Dopo un po’ di chilometri unmio compagno di viaggio sbotta: C…o! Sia-mo stati assegnati alla Brigata Golani! LaGolani, fanteria di assalto di stanza ai piedidel Golan, era nota come un inferno. Io nonne sapevo nulla. Pare che a volte ci siano sta-te reclute che appena saputa quella destina-zione si siano buttate giù dal camion… Lì so-no rimasto per tre anni. Quando mi ero ar-ruolato la ferma era di 30 mesi. L’hanno por-tata a 36 mentre ero sotto le armi…

TRE ANNI DI NAJA,QUALCHE ORA DI GUERRACinquant’anni dopo incontriamo un protagonista

1967

Effettivamente il mio amico Dov (orso in ebraico) col tempo deve essere diventato un po’ orsodavvero. Lo vado a stanare in Liguria, dopo quasi 50 anni, in una cascina fuori dal mondo, amezz’ora di strada sterrata dal paese più vicino. Far from the madding crowd, mi accoglie co-sì Dov. Tu sai l’inglese, vero? mi fa. Via dalla pazza folla, azzardo. L’hai letto il romanzo di Tho-mas Hardy? Mi chiede. Anni fa… mento, e mormoro: Bellissimo, anche se lo ricordo poco...Brizzolato, la sua autorità disarmante è rimasta immutata. Molto accogliente, Dov mi mostrala sua cascina ristrutturata con maestria da architetto ed il vasto, curatissimo giardino. Qui pri-ma erano tutti rovi, mi dice orgoglioso. Noto un piccolo rudere rimasto intatto. È il mio poligo-no, mi spiega, a volte mi esercito: sai, qui è facile che ti entrino in casa e ti freghino tutto.

Monumento ai Caduti del Golan Dov

Raccontami della tua vita nell’esercitoprima della guerra.Nella Brigata Golani si iniziava con tre mesidi tirocinio uguale per tutti in una base co-mune dell’esercito, poi altri tre mesi di tiro-cinio nella Golani, quindi ti assegnavano,previ esami, a corsi di specializzazione perdiventare sottufficiale o mortaista o cecchi-no, magazziniere, cuoco ecc. Io sono statomandato alla scuola sottufficiali, dove ilmazzo era triplo, e da dove sono uscito colgrado di caporale. La Brigata Golani era for-mata da tre reggimenti, e ogni reggimentoera suddiviso ecc… giù giù a scalare fino almio plotone, formato da un tenente, tre sottuf-ficiali tra cui c’ero io e 30 soldati. Avrei potu-to frequentare la scuola ufficiali, ma ho rinun-ciato perché ciò avrebbe comportato la fermaulteriore di un anno e io invece volevo farel’università. I nostri compiti erano di control-lo del confine, sortite, agguati eccetera.Erano tutte esercitazioni, non c’era laguerra… No, no, altro che esercitazioni! Erano azionibelliche, spedizioni vere e proprie anche al dilà del confine, con funzioni antiterrorismo,sia prima sia dopo la guerra. All’imbrunirenoi del plotone, caricati sul camion, veniva-mo disseminati a gruppi di tre ogni chilome-tro circa lungo il confine, e lì rimanevamo diguardia tutta la notte, sdraiati per terra dietroai fucili, con occhi e orecchie puntati, prontia sparare. Era il periodo dei terroristi, i fe-dayin, che si infiltravano dalla Giordania. Untrattore israeliano era saltato su una minapiazzata di notte, nonostante i controlli. Inseguito ad attentati, venivano disposte azionipunitive con sortite in villaggi al di là delconfine, per far saltare le case dei responsa-bili. Una volta abbiamo fatto un’azione not-turna insieme agli uomini rana, che, passati anuoto al di là del Giordano, hanno tirato conle corde i gommoni Zodiac sui quali eravamosaliti, dopo averli trasportati noi a spalle conuna marcia estenuante sulla sabbia. Al di làdel fiume abbiamo assaltato un villaggio dipoche case, dove il nostro capo per non farrumore ha tramortito un fedayn con il calciodel suo fucile… Dov sfoglia un album con le foto sbiadite delsuo periodo di naja. Ma sai che era un saccodi tempo che non le guardavo? Mi fa bene ri-

vederle, grazie a te. Ecco, questo era Uri, ilmigliore di tutti: generoso, coraggioso, intel-ligentissimo. È morto in guerra durante unassalto, buttandosi su un filo spinato e ordi-nando ai suoi di passare sopra di lui. I sirianil’hanno ucciso con un colpo alla testa. Il go-verno gli ha conferito una medaglia d’oro al-la memoria. Questo invece ero io sdraiato divedetta. Questo è il monumento ai caduti del-la Brigata Golani (vedi foto)… Com’è che hai saputo che era scoppiata laguerra?Noi eravamo già in preallarme. Tu sai che inIsraele le radio sono sempre accese. La miaradiolina era nella gavetta – il barachin – everso le sette il notiziario ha annunciato:Dalle prime ore della mattinata l’aviazione èentrata in azione in Siria ed in Egitto. La miaBrigata Golani nei primi quattro giorni diguerra (dal 5 all’8 giugno) era rimasta ferma.Le operazioni di terra contro la Siria sonodurate dal 9 all’11, dopo che Egitto e Gior-dania erano stati costretti a cessare il fuoco. Perché era importante per Israele conqui-stare l’altipiano del Golan?Perché da quelle alture i siriani avevano unavisione panoramica sugli insediamenti agri-coli ed i kibbutzim della pianura, e li bom-bardavano frequentissimamente, costringen-do la popolazione a ripararsi nei rifugi. Come si è svolta la battaglia nel Golan?Appena ricevuto l’ordine io, con i miei, hocaricato sui camion armi e munizioni che era-no custodite nelle gallerie. L’obiettivo era laconquista delle fortificazioni di Tel Facher.Le operazioni di terra a Tel Facher sono dura-te poche ore nella mattinata: polvere, fumo,urla, un fracasso infernale; in quel casino nonsai cosa succede, non hai paura, vai avanti intrance come un automa… La Brigata Golaniin quell’operazione ha perso 21 uomini.E dopo?Dal giugno ’67 a tutto l’inverno successivosiamo stati nel Golan a tenere i confini. Iocon il mio plotone in un bunker di sacchi disabbia con una stufetta, collegamenti via ra-dio per comunicazioni e approvvigionamen-ti, cannocchiali per controllare eventuali in-filtrazioni e una noia mortale. Sparato a unamucca avvicinatasi troppo al confine, doponevicata fatto pupazzo di neve… Lasciatoqualcuno di vedetta, visitato villaggio sirianoabbandonato, più nulla da rubare (ci avevanopensato altri prima di noi).Nella primavera del ’68 una sergente assisten-te sociale mi dice che ho diritto ad alcune age-volazioni non avendo io nessun parente inIsraele, e mi consiglia di fare domanda di ser-vizio civile. Ho ottenuto dopo qualche mese diessere trasferito al vicino kibbutz Dan, il piùsettentrionale di Israele, dove c’era un mioamico olandese che era nelle mie stesse con-dizioni. Lì ho fatto il contadino per due mesi,pur nei vincoli della vita militare ma in un am-biente sicuramente meno duro, dormendo incasa invece che in tenda, mangiando decente-mente invece che ranci schifosi, e soprattuttoin compagnia di una gran quantità di giovanivolontarie svedesi… La pacchia è durata finquando non sono stato richiamato dal coman-do, che mi ha spedito, in piena estate, a sud delMar Morto. Quarantacinque gradi all’ombra,zanzare lunghe così, come elicotteri…

Intervista di David Terracini

Dall’alto in basso:Portachiavi con il

simbolo della BrigataGolani, Mostrina perpartecipazione allaGuerra dei 6 Giorni,Premio esercitazioni di tiro al bersaglio,Memoria della

Marcia da Hulda aGerusalemme 1966,Sicura di granata, Decorazione siriana

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1967

sono uscite incontro al nemico per respinger-ne l’attacco”. E subito dopo: “Il GeneraleWeizmann, capo delle Operazioni al QuartierGenerale, a norma dell’articolo tale dellalegge tale dell’anno tale comunica quanto se-gue: numero uno: Roccia rossa; numero due:La luce del mattino; numero tre: ColpisciSion!, numero quattro...”. Parole d’ordine dirichiamo per le unità della Riserva israeliana:la guerra è cominciata. Come andrà a finire?Io avevo detto a Ibrahim: “Per te non c’è pro-blema: se vincono gli arabi, tu sei arabo; sevincono gli israeliani, tu sei israeliano. Perme, invece, c’è una sola soluzione possibi-le...”.

7 giugno 1967. Due notti nel rifugio antia-reo per me, che sento, nella valle qui accan-to, i colpi del cannone, come nelle canzonidella Prima Guerra Mondiale; e i proiettilidei nemici che cadevano sempre più vicini,200 metri, 50 metri... Sulle nostre teste, gliaerei si inseguono con vertiginosi volteggi, enoi dalle finestre stiamo a guardarli, un po’incoscienti, come al cinema. Vediamo letruppe israeliane avanzare verso sud, con-quistare la collina di Har Gilo dove stava labatteria dell’artiglieria giordana, e prosegui-re verso Betlemme e Hevron. La guerra èstata breve: il pomeriggio del terzo giorno èfinita, in pratica, quando la radio interrom-pendo una musichetta, annuncia: “Un porta-voce dell’esercito comunica: abiamo occu-pato la Città Vecchia! Il Monte del Tempio ènelle nostre mani!”. E ancora: “Sharm-e-Sheikh è nelle nostre mani! Ripeto: un por-tavoce dell’esercito comunica...”. Subito do-po la radio, per noi protagonista e amica, tra-smette “Yerushalaim shel zahav”, Gerusa-lemme tutta d’oro, la canzone che è diventa-ta un po’ l’inno di questi mesi. È militarisnotutto ciò? Che strano “militarismo” quelloespresso da una bella melodia. Certo era dif-ficile non commuoversi.

8 giugno 1967. Al lume di candela Kol Israel[la radio] trasmette il “Sogno di una notte dimezza estate”. Sembra un sogno e si risve-gliano le mie vene di poetastro. E capisco co-me il mio sionismo era incompleto fin’ora.Abbiamo preso la vecchia città. Cos’ha a chefare tutto questo con teorie economiche dieguaglianza sociale e con l’efficienza orga-nizzativa dello Stato d’Israele di fronte aipaesi arabi? Quello che volevamo era solo unMuro. Un muro di fronte al quale piangere,pregare. E ora l’abbiamo. Ora si comincia sulserio con lo Stato ebraico. Così gli uomini simuovono e fanno la storia. Il mio amicoIbrahim potrà andare alla Moschea di Omare vedere i suoi fratelli. La guerra genera lapace. Si chiamerà Milhémet Hanizahòn [Laguerra della vittoria], secondo le parole diMoshe Dayan. Dayan non è una figura sim-

dall’inglese all’ebraico. Oggi non siamo piùdue estranei, ma non siamo neppure duecompagnoni. Il sospetto che apparteniamo adue mondi differenti è esploso quandoIbrahim si è accorto finalmente che io nonero soltanto un ingenuo studente italiano, oal più un generico ebreo dell’Europa occi-dentale, ma un convinto “sionista”. Ibrahimpensa che “il Sionismo, in base a quello chesi sa, è un movimento a carattere imperialistache, finanziato da capitalisti ebrei della dia-spora, tende a usurpare i diritti del Popoloarabo in Palestina”. Per me invece, “in basea una precisa realtà, il Sionismo è un’asso-ciazione spirituale che tende a ricostituirel’unità del Popolo ebraico in Terra d’Israele,affrancandolo dalle condizioni di schiavitùmorale e materiale della diaspora, e ponen-dosi quindi sul piano di ogni altro movimen-to di liberazione nazionale”. Questa sera, forse perché la tensione sembradiminuita e la crisi potrebbe scemare, trovia-mo lo spirito di bere insieme: in camera cisono anche Mahmud, Yussuf, Mustafa, gliamici di Ibrahim. A mezzanotte, con un bic-chiere di tè brindiamo alla futura sorte di ReHussein: tutti pensiamo che il “piccolo re”sarà la chiave di volta della crisi del MedioOriente.

5 giugno 1967. Otto di mattina. A Gerusa-lemme e in tutta Israele suonano le sirened’allarme: è la guerra che comincia. MaIbrahim ed io siamo stanchi, ognuno dormebeatamente ed avrebbe continuato ancora alungo, se non ci fossero venuti a svegliaredegli amici, eccitatissimi. “È scoppiata laguerra!”. “Ma no, rispondo io, è solo unaesercitazione”. Ma il giornale radio confer-ma: battaglie vicino a Gaza. Intanto,Ibrahim, si è messo subito il vestito elegan-te. Forse vuole morire bello. Oppure vuoleche i suoi fratelli arabi, schierati sulle colli-ne due chilometri a sud e ben visibili dallanostra finestra, che la sera prima dalla lororadio avevano minacciato di morte i Sioni-sti, dunque me incluso, lo trovino in ordinee ben pettinato. In ogni modo, in quel mo-mento non so chi di noi sia più preoccupato.Ibrahim si rimette in pigiama e poi di nuovoil vestito bello: i suoi movimenti sono dive-nuti totalmente meccanici e irrazionali. Michiede se sia meglio tornare al suo paeselloo restare a Gerusalemme. Decide di tornarea casa. Qui a Gerusalemme, la radio annuncia: “Dal-le ore otto di stamane violenti combattimen-ti aerei e di truppe corazzate sono in corsonel deserto del Neghev, al confine con l’E-gitto. Un grande numero di aerei nemici èstato avvistato dalla nostra contraerea direttoverso il territorio israeliano. Nostre truppe

patica, ammetto però che è un capo. E tutti i“volontari”, quelli veri e quelli in cerca diun’esperienza, verranno? Riprenderà l’aliyà?Vogliamo creare un grande stato. Vogliamoportare la giustizia nel mondo, vogliamo es-sere un Popolo di Sacerdoti. In questi mo-menti non sono parole. Già si canta la vitto-ria degli Stretti di Tiran. È nata una nuovaleggenda. Una nuova pagina di storia ebrai-ca. Il nostro grande popolo continua.

13 giugno 1967. Con due amici andiamonella Città Vecchia di Gerusalemme. Ci avvi-cinimo alla Porta di Mandelbaum dove si tro-vava il confine fra le due parti della città. C’èun enorme movimento di mezzi e di persone.C’è una grande esultanza. L’impressione ditutti è che la pace fra Israele e i paesi arabisia ormai una cosa conseguita. Assieme al-l’euforia per la liberazione della Città Vec-chia e del Muro del Pianto, si pensa che orache Israele ha dei territori occupati da resti-tuire, gli arabi per riaverli saranno disposti ariconoscere Israele e a fare la pace, e la vitain Israele e nel Medio Oriente finalmente sinormalizzerà.

15 giugno 1967. Impressioni del giorno do-po. Con i giornalisti italiani Luca Goldoni,Antonio Savignano e Fabio Isman ai qualifaccio da interprete ci muoviamo verso Ga-za. Sul bus, mentre si va, un tenente colon-nello dice in ebraico a un capitano che siedeal mio fianco: “Parla continuamemte con lui.Non perderlo di vista. Ha la macchina foto-grafica”. Poi sguardi d’assenso. Si saprà poiche io ero l’inviato di Ha-Tikwà, regolar-mente accreditato. Gaza è una città grande erelativamente nuova. All’entrata la ferroviaaggira la città sulla sinistra da nord a sud. Sivedono tank bruciati (un paio), qualche sara-cinesca sfondata, tracce di fuoco, vetri rotti.Poche cose. Molte case in costruzione. Ungrande cinema. Le strade sono quasi deserte.Poi, cessato il coprifuoco, si riempiono d’in-canto di arabi che passeggiano, fanno lecompere, si procurano la benzina. E in mez-zo a loro tanti soldati. I soldati di questo eser-cito di quasi straccioni che ha vinto la guer-ra. La polizia di Gaza: la scritta è trilingue,c’è ancora l’ebraico dal 1948. Il generale Go-ren, capo dei servizi logistici di Zahal, non ilrabbino, una cicatrice sulla fronte, spiega lasituazione. Si ode qualche detonazione intor-no. Mine disinnescate. C’è qualche resisten-za nella zona ma quasi tutti hanno consegna-to le armi. Intanto nella sede della poliziaegiziana si sono trovati i dossier. Ci sono tut-ti: c’è la sezione dei comunisti, quella delBaath, quella dei seguaci di Shuckeiri [il ca-po dell’OLP], e i delinquenti comuni. All’o-spedale dei Battisti i medici americani colnome che si somiglia (Doctor Moore, comeMoore; e Doctor Morr, m.o.r.r.) sembrano unpo’ filo-arabi. Così il capo dell’ufficio del-l’UNRWA, Alex E. Squadrilli, tipo di uomopolitico di quart’ordine di qualche stato se-condario dell’Unione, il quale crede nel tas-so di incremento naturale dei profughi: mor-talità 4 per mille, natalità 32 per mille. La di-stribuzione della farina, dell’olio e dei ceci faun po’ impressione. È il mio primo vero con-tatto con la fame, se si escludono i “trattori”dei carretti nell’isola di Madera. Ma qui c’èuna specie di catena di montaggio. Certo, èuna massa di derelitti. Ma forse non tanto.Per lo meno un pasto minimo quotidiano èassicurato. Si pensa alla malafede dei politi-ci. Un dirigente dei servizi di assistenza, dal-l’aspetto indiano, sta dicendo che “si spera.Questa volta i soldati hanno rubato di meno.Bisogna risolvere il problema dei rifugiatipalestinesi. Anche con il governo israelianoci potrà essere pace”. Ma il diritto dei rifu-giati di tornare... La moglie di Ted Lurie delJerusalem Post, deliziosa signora inglesesvanita, dice a un ufficiale: “È incredibile,

(segue da pag. 1) Diario dei 6 Giorni...

Tank israelianinel Desertodel Neghev (segue a pag. 5)

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5Nasser perché ha fatto la guerra senza esserepronto”.S: “Ma l’accordo Nasser-Hussein come èstato giudicato?”.I: “Con favore e speranza da tutti. Ma c’è sta-to un attacco improvviso di Israele, sei d’ac-cordo?”.S: “No. Penso che il primo colpo sia statosparato dagli egiziani; sia pure dopo un mo-vimento strategico israeliano”.I: “Io ho seguito informazioni obiettive: laBBC in arabo. Ebbene: Israele ha iniziato laguerra distruggendo 25 areoporti egiziani.Come potevano gli egiziani vincere senzal’aviazione? Come avrebbe iniziato l’Egittosenza aviazione?”.S: “L’Egitto ha mentito e ignorato notiziemolte volte di questi tempi”.I: “Nasser era pronto ma i soldati sono statipresi di sorpresa”.S: “Nasser ha dichiarato la guerra”.I: “Sì, è vero. C’è una contraddizione. Iopenso che gli Stretti di Tiran siano acque ter-ritoriali egiziane. Ma Nasser ha sbagliato nelfare la guerra, se non era pronto. Io e mio pa-dre lo abbiamo criticato. Ma ha ammesso ilsuo errore, alla televisione. Ha detto che laresponsabilità era solo sua. Si è dimesso. Io eil 99% degli arabi abbiamo pianto”.S: “Ma poi non si è dimesso”.I: “Perché il popolo lo ha rivoluto”.S: “Su 30.000.000 di egiziani ne saranno sfi-lati 100.000”.I: “Erano anche a Beirut, dappertutto. Tutto ilpopolo arabo vuole lui e solo lui. Ha volutodimostrare che ora gli arabi sono forti, piùche nel 1956”.S: “È una politica da bambini”.I: “È vero, è stato uno sbaglio, ma voi sieteoccidentali, non capite”.S: “È stata una guerra socialista quella diNasser?”.I: “Risulta ora che l’esercito egiziano fossein gran parte diretto dai quadri dell’epoca diFaruk. Sono stati sostituiti questi ufficiali so-lo dopo la sconfitta. Dunque la riforma so-cialista di Nasser non era stata spinta fino infondo. Si può sostenere che la guerra, in cuisono entrati fattori politici ma anche fattoripuramente militari, sia stata un’operazionedegli uomini dell’ancien regime”. S: “Allora la guerra è stata un’operazionereazionaria. Per cui cambiati gli uomini insenso socialista, dovrebbero cambiare anchele linee della politica militare. La logica e lacoerenza lo vorrebbero. Il socialismo nellasua manifestazione di ideologia internazio-nale ha una tradizione, non solo parolaia, dipacifismo. Pertanto una più spinta riformasocialista in Egitto dovrebbe portare alla pa-ce con Israele”.I: “Lo escludo. Più sono socialisti gli arabi,più sono estremisti contro Israele. Questo è ilsocialismo arabo, così come c’è quello cine-se e quello sovietico”.

Fine luglio 1967. Lascio la casa dello Stu-dente e con due amici vado a stare in un apar-tamentino affittato in centro. Mi accomiatoda Ibrahim, siamo alla conclusione. Nono-stante tutto, nonostante l’impossibilità dicompromesso, la nostra è stata un’utile espe-rienza. Ognuno dei due ha conosciuto un po-co il mondo dell’altro, pur senza accettarlo,e, inevitabilmente, dovrà tenerne conto nelleproprie prese di posizione future. Può darsiche lui, vedendo un sionista in carne ed ossa,abbia cessato di pensare ai sionisti nei termi-ni delle mostruose caricature della stampaegiziana e siriana. Può darsi che io, avendo-lo sentito raccontare le vicende della sua fa-miglia, abbia preso una coscienza più reali-stica del problema dei profughi palestinesi.Lui e io, insomma, potremmo essere, doma-ni, due cittadini un po’ migliori. Due cittadi-ni migliori in uno stato ebraico che si chiamaIsraele.

Sergio Della Pergola

certe pretese...”. L’autista dell’UNRWA sal’inglese. Dice che dovrà esserci pace. Luivuole tornare a Giaffa. La sua casa è a Giaf-fa. Ma, penso io, se fosse a Giaffa, farebbel’autista del l’UNRWA? Donne beduine, ve-stite di lilla e di nero accanto ai muri bianchidi calce. A 30 km. a nord c’è il nuovo portodi Ashdod. È vero, ci sono i capitali, gli in-vestimenti. Ma è anche una questione uma-na, o politica. O tutt’e due.A Atlit, a sud di Haifa, c’era un campo diimmigranti nel 1948. Nelle stesse ma’abaròt[baracche] ci sono ora migliaia di prigionie-ri egiziani. Aluni feriti anche orrendamente,con ustioni, sono curati da medici ebrei e in-fermieri egiziani. Gli ufficiali hanno una ca-sa a parte. I soldati prigionieri egiziani han-no un fisico strano. Nasser ne sembra il pro-totipo. Sembrano dei grossi cani cui manchiun briciolo d’intelligenza. Così come il loroesercito doveva essere una parodia di un ve-ro esercito. Con le armi russe che avevano.Alla conferenza stampa il generale Mahdi,uomo dell’artiglieria, dice del buon tratta-mento. È pronto a riferire al Cairo? “Saràmio dovere”. “L’attacco è stato israeliano”.“Tecnicamente”, dice il giornalista Savigna-no. “Tecnicamente” dice Mahdi. “La supe-riorità aerea è stata determinante. Io ho ri-cevuto ordini determinati e li ho eseguiti.Non posso giudicare i miei comandanti su-periori, né le decisioni di tipo politico”. Èstato in Russia nel 1961. Sa il russo. L’ad-destramento sovietico è buono ma forse ina-datto alle condizioni di questa guerra. Sal’ebraico? Sorride e dice “No”. Non l’haimparato in tre campagne, nel 1948, nel1956 e oggi. Non sarà per caso un finto ge-nerale messo lì a scopi turistici? Pare pro-prio di no. Arrivano i prigionieri. C’è ancheun gruppo di civili, ex-dipendenti dell’O-NU. Ma il loro contratto di lavoro scadevail 31 maggio. Ciò appare alquanto rilevantea un incredibile giornalista ebreo america-no, produttore di informazione. Arrivano iprigionieri a camionate. Facce grige, rapatia zero. Uno prega prostrato a terra. O lo ten-gono così perché lo hanno beccato a farequalche infrazione? Arriva un soldato gio-vanissimo con una gamba sfracellata. Io lofarei passare per primo al l’infermeria. Inve-ce dovrà fare una lunga coda. Usciamo alcampo. A Benyamina c’è un ottimo gelato. Ci sonomigliaia di immagini e di sensazioni che miricordo e che sono in grado di riprodurre nel-la fantasia. Forse però non è un vantaggio.La differenza fra me e un nazionalista araboè che i fatti possono indurmi a cambiare opi-nione. All’arabo no.

20 giugno 1967. Certo questa storia del dia-rio di un diario è un vecchio espediente let-terario. Però quante bugie! A parte la neces-sità di fissare alcune idee, non tutte peregri-ne, qui a volte si legge una consapevoledeformazione del vero. Per quanto io siacontrario alle commemorazioni, mi sono ri-letto le pagine che avevo scritto un anno fa.E ho tratto una strana e lontana impressione.Da un lato c’era un’aria di estate, di rilassa-mento piacevole, di bel tempo, di gite al la-go, di gelati serotini, di disimpegno, anchedi gioia di vivere. Dall’altro c’era un vagosenso di angoscia per gli esami ancora dadare, per la tesi da scrivere, per la necessitàdi chiudere ormai un capitolo troppo lungodella mia vita. Oggi mi pare che le prospet-tive siano ben diverse. Siamo perfino passa-ti attraverso una guerra, per quanto la suabrevità ne abbia fatto solo un episodio espli-cito in un processo di chiarificazione chestava andando avanti per conto suo. A di-stanza di un anno siamo in un mondo diver-so, meno rinfrescante e decadente, più vici-no alla Resistenza, come spirito e come pro-blematica. Ho l’impressione che però dovrò

verificare in pratica che fra me e la vecchiavita milanese ci sia ormai una profonda frat-tura. Quello che mi piacerebbe è che si ri-costituisse, qui, il club di amici che costitui-va un ambiente non privo di pregi a Milano.Qui, però senza i suoi difetti connaturati al-l’ambiente italiano. Le notizie di gruppi, dicoppie, di singoli che si accingono a venirequi sono positive. Ma tutti costoro dovreb-bero trovarsi un ruolo definitivo e produtti-vo in questo Stato. Non è facile. Di generi-ci liceali non c’è molto bisogno. C’è biso-gno semmai di pionieri agricoli che fondinonuove fattorie e ci rimangano. C’è bisognodi fisici e di chimici. Di capitalisti e di po-veri (tanti). C’è anche bisogno di buoni ar-chitetti. L’accento, comunque, va messosull’impegno preciso e non generico. Qui lasituazione è simile a quella del 1948. Si ri-comincia, signori e signore. Intanto è chiaroche se un giorno sarò di nuovo capace dimilitare in un partito politico, sarà in un pa-tito israeliano. Come si potrebbe farlo altro-ve? Con quale identificazione? Qui l’identi-ficazione degli interessi è immediata. Quel-la degli uomini verrà.

2 luglio 1967. Conversazioni con Ibrahim.Non ci siamo più visti per un mese. È ritor-nato, un po’ dimagrito, teso. Strette di mano.È più schivo, evita di mangiare con gli altrinella cucina comune, preferisce restare in ca-mera da solo. Quando abbiamo tentato unoscambio di vedute su ciò che era successo,abbiamo constatato di essere ancora più lon-tani di quanto non fossimo prima. Dice chedurante il viaggio verso casa il 5 giugno, po-liziotti e viaggiatori ebrei lo hanno infastidi-to con il loro sarcasmo (nel frattempo ebreivenivano massacrati in Libia e in Egitto: unadifferenza di misura). Ibrahim la guerra l’haseguita per radio, ascoltando i misurati bol-lettini di Kol Israel e le menzogne di RadioCairo (“Tel Aviv rasa al suolo, Haifa è infiamme”) e cominciando forse a nutrire qual-che dubbio sulla veridicità della propagandapropinata quotidianamente dagli amici diNasser. Di chi la colpa della guerra? S: “Di Nasser!”.I: “No, di Israele”. S: “Ma Nasser ha chiuso gli Stretti di Tirancontro ogni regola del diritto internazionale”. I: “Israele è il nemico: al nemico non si ap-plica il diritto internazionale”. S: “Allora Israele aveva ogni diritto di farsigiustizia con la forza”. I: “No, ciò è contro le risoluzioni dell’ONU”. E con discorsi di questa fatta e di tanta logi-ca, passiamo infinite ore e giungiamo a unatale tensione che lui mi toglie il saluto perqualche sera. Poi abbiamo parlato meno diguerra e più dei suoi problemi di ragazzo dicampagna che in città si è trovato bene e che,fatalmente, sarà costretto a tornare al ruoloscomodo di piccolo intellettuale di villaggio.E ci siamo capiti meglio. S: “Ma a casa tua come va?”.I: “Tutto bene, più di 300 ospiti. A casa ave-vano paura, ma poi ho visto che tutto qui ènormale. Molti si sono mossi per andare avedere Tel Aviv. Forse pensavano per davve-ro che fosse stata distrutta”.S: “Che ne pensi di quello che è successo?”.I: “Sapevo che me l’avresti chiesto al primomomento e mi ero già domandato che rispo-sta dare. Non ho idea perché non ne so abba-stanza. E preferisco non saperne abbastanzaper non avere idea (citazione di MoshéSneh). Ho già visitato i miei parenti nellaGadàh Maaravít [Cisgiordania]”.S: “Contento?”.I: “Contento? Scontento. Ho parlato, lì, contanti intellettuali. Non sono d’accordo fra diloro. C’è chi dice che Hussein è un cane.Non ha dato armi ai palestinesi per fare laguerra. Li ha mandati a morire. C’è chi diceche è meglio Israele che la Giordania. Io so-no rimasto sconvolto. In caso di alternativapreferirei un governo arabo. C’è chi incolpa

(segue da pag. 4)

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I RAGAZZI DEL ’67Intervista ai volontari

Ada Fubini di quei giorni ricorda l’angoscia ela preoccupazione:andammo a donare il san-gue in piazza Carlo Felice. Io ero in corri-spondenza con la mia amica Mariella Orto-na, che stava nel kibbutz Ein Hamifratz, vici-no ad Acco e che mi dava notizie sulla guer-ra. Avevo 21 anni. Io e Gianfranco (Accatti-no, futuro marito di Ada) abbiamo deciso didare una mano, sostenuti da Mariella chepensava fosse utile. Partiti a inizio agosto, cisiamo fermati circa un mese. L’accoglienzainiziale fu tiepida, erano diffidenti verso i vo-lontari, che erano circa una ventina: per lopiù venivano da Gran Bretagna, Belgio eFrancia, e si erano mostrati poco inclini allavoro. Per noi fu diverso, eravamo venuti surichiesta di Mariella, che non era ancoramembro del Kibbutz ma vi risiedeva da dueanni, e ci mostrammo più motivati sul lavoro.Ho raccolto frutta, in seguito ho lavorato inuno scatolificio. Gianfranco, che lavoravanell’allevamento ittico, dormiva in cameratacon altri due o tre, io in una casetta di legnocon una cameretta mia. Erano le “case stori-che” del kibbutz, poi abbandonate dai resi-denti. Sveglia alle quattro, lavoro fin versomezzogiorno; al pomeriggio piscina, mare,lezione d’ebraico, visite guidate. Il nostrokibbutz era del Mapai, socialista: ci hannoportato col camion in giro a visitare Israele,il Neghev, la frontiera col Libano, ma non neiterritori. Era tranquillo anche se eravamo vi-cini al confine col Libano. Era un kibbutzgrande, ben strutturato. Alcuni parlavanoitaliano, uno era interessato a un macchina-rio per la fabbrica di scatole: è venuto in Ita-lia, ha fatto finta di volerlo comprare poiquando è tornato nel kibbutz l’ha costruito. L’atmosfera era simpatica, gli abitanti veni-vano da paesi dell’est, parlavano yiddish. Innostro onore hanno cucinato spaghetti con-diti con zucchero e polvere di cioccolato. Ab-biamo fatto buon viso sorridendo e facendofinta di apprezzare. L’ultimo giorno abbiamoorganizzato uno spettacolo per ringraziare.Chiedo se ricordano che nei kibbutzim sipiangessero vittime della guerra e Gianfran-co Accattino ricorda che a Ein Hamifratz c’e-ra stato un morto, un ufficiale dell’aviazione. Riaffiorano altri ricordi: Erano stati bombar-dati i silos del mangime perché i siriani pen-savano che fossero le raffinerie di Haifa: fini-ta la guerra hanno mostrato a un ufficiale si-riano prigioniero che cosa avessero in realtàbombardato… Gli abitanti del kibbutz eranosoliti ironizzare sull’incapacità del nemico.Quando finivamo di lavorare con i pesci nonfacevamo la doccia ma ci lavavamo in uno

dei laghetti dove l’acqua era meno fangosa:conservare addosso l’odore del pesce era se-gno di virilità!Un giorno passarono due aerei a volo ra-dente (si vedevano i piloti!), chiedemmo aUri, il tutor, che aerei fossero. Risposta laco-nica “I nostri, altrimenti saremmo giàsott’acqua!”.

Ferruccio Nizza per un mese ha gestito laraccolta di medicine e vestiti in comunità,per poi partire ai primi di luglio con un viag-gio in nave organizzato dalla Sochnut (Agen-zia Ebraica). La mia tessera di volontariodella Sochnut ha la data del 5 luglio. Quelgiorno siamo andati prima a Milano, perraccogliere altri volontari, poi a Venezia: dalì in nave verso Atene e poi Haifa. Il viaggiofu deludente rispetto alle mie aspettative: ioero mosso da un ardore ideale e avevo l’im-pressione che i miei compagni vivessero l’e-sperienza come se fossero in crociera, Eranocirca 60 persone, per più di metà di loro erauna vacanza... Da Haifa ci portarono in una casa di riposoa Zfat (storica cittadina nel Nord di Israele).L’impressione fu che non sapessero esatta-mente come utilizzare i volontari.Il KKL (Keren Kayemeth LeIsrael, Associa-zione no profit fondata nel 1901, si occupadello sviluppo, della bonifica e del rimbo-schimento della Terra d’Israele) ci portavanei boschi bombardati a ripulire dai ramibruciati, poi a potare le piante. Dopo 5 o 6giorni così, mi sentivo fuori posto: al primoshabbat sono andato al kibbutz di GivatBrenner vicino a Rechovot, 30 km a sud diTel Aviv dove avevo dei conoscenti e dovec’erano altri volontari del Sudafrica. L’at-mosfera era diversa, migliore che nel gruppooriginario: lavoravi per sostituire i membriimpegnati sotto le armi. Sveglia all’alba, 3 o4 ore al lavoro nei frutteti, riposo nelle orepiù calde e lavoro verso sera. Abbiamo zap-pato dove c’erano le piantine di pero appenapiantate. Subito dopo ferragosto ho chiestodi tornare. Chiedo a Ferruccio se era stato in precedenzain Israele: Ero andato per turismo nel ’62:non ho notato particolari cambiamenti, la co-sa più eclatante è che nel 62 siamo arrivati fi-no al confine con la Giordania, per cui Geru-salemme era divisa in due. Invece nel ’67 ar-rivavi da un vicolo, sbucavi tra macerie di ca-se e ti trovavi davanti il Kotel! Un’emozionestraordinaria. In qualche modo la costruzionedella spianata come la possiamo vedere ora,ha tolto emozione, sembra di essere a teatro.Sia Ferruccio che Gianfranco hanno potutovisitare alcuni territori giordani appena occu-pati e raccontano i loro ricordi e le loro im-pressioni.

A vent’anni la giovinezza esalta la spintaideale che fa maturare le decisioni. I “ragaz-zi” che nel 1967, sull’onda delle forti emo-zioni suscitate dalla “guerra lampo” tra Israe-le e i vicini stati arabi, hanno deciso di recar-si come volontari per aiutare il giovane statoebraico, rievocano con emozione i ricordidell’estate 1967.Ada Fubini, Nadia Yedid, Gianfranco Accat-tino e Ferruccio Nizza (solo alcuni dei nu-merosi giovani che decisero di partire) rac-contano l’atmosfera di quei giorni: la trepi-dazione per le sorti dello stato ebraico mi-nacciato su tre fronti, la partecipazione dellapopolazione che affluiva nei locali della Co-munità ebraica a portare solidarietà e aiutimateriali, come medicine e indumenti, l’ac-cavallarsi di notizie, quelle dei telegiornali equelle di parenti e amici che, avendo fattol’alià (“salita” in Israele), aggiornavano con-tinuamente sulla situazione. Certamente era impensabile un cÅontributo“militare”, ma si poteva essere di grande aiu-to andando a sostituire nei kibbutzim i gio-vani partiti per il fronte e lavorando al loroposto nei campi o in altre attività in cui po-tessero rendersi utili.I gruppi giovanili e la Sochnut (agenziaebraica) organizzavano il viaggio dei volon-tari, ma alcuni partirono di propria iniziativaavendo parenti e amici in kibbutzim che sierano resi disponibili all’accoglienza. Le fa-miglie non fecero opposizione, perché ormaila guerra era finita, si era già nel mese di lu-glio, e non vedevano particolari pericoli peri figli.Nadia Yedid, che allora aveva 19 anni, rac-conta così il suo viaggio, intrapreso con altrigiovani: Siamo partiti per Israele in nave.Grandissima l’emozione nel vedere Haifaavvicinarsi: ero veramente commossa. Appe-na sbarcata avevo la sensazione di essere inun luogo famigliare, sarà stata la luce inten-sa ed il caldo che mi ricordavano le mie ra-dici (Nadia era profuga dall’Egitto dal’56).Mi sarei messa a piangere se non fosse statoche mi vergognavo davanti agli altri..Siamo stati accolti in un centro da dove cihanno poi smistati ed io sono andata a NirDavid nel kibbutz di mio fratello. Ero allog-giata, unica italiana, con un gruppo di ra-gazze svizzere. All’arrivo c’era il responsa-bile dei volontari ad accoglierci e poco dopomi sono divertita a notare che ragazzi delkibbutz si avvicinavano discretamente pervedere le nuove arrivate.Sono rimasta in kibbutz per quasi tre mesi edè stata un’esperienza intensa ed arricchente.Abbiamo fatto diversi lavori, dal collaborareper sradicare le viti di una vecchia vigna al-la raccolta delle olive. Mi è piaciuto moltoanche lavorare nel hadar hochel (grande sa-la da pranzo comune) sia del kibbutz che delcentro scolastico che raccoglieva i ragazzi divari kibbutzim della zona. Ero molto interes-sata a capire i rapporti tra le persone di unacomunità qual era quella del kibbutz, la se-rietà e l’impegno nelle attività lavorative, ilforte controllo sociale sul rispetto delle re-gole ma anche la facilità con cui si creavanopettegolezzi e inimicizie.Piccolo aneddoto. Nel mese di agosto era ve-nuto a trovarmi Enrico Luzzati, mio futuromarito.Una sera avevamo passeggiato a lungo finoa tardi fino ad un laghetto che si trovava nonlontano. Non avevamo incontrato assoluta-mente nessuno ma il giorno dopo mio fratel-lo mi chiese che cosa ci facevamo a Sachne(il laghetto) a mezzanotte. Chiaramente ciavevano visto le persone che facevano laguardia e avevano sentito il bisogno di rac-contarlo a mio fratello...

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Ada Fubini, 2017-1967

(segue a pag. 7)

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7Ferruccio. Ho fatto giri organizzati nei terri-tori, sono andato a Hebron, ho visitato lagrotta dei Padri e Madri di Israele, Ramallah,Sebastia. Quando arrivavano i pullman, ibimbi si accalcavano gridando “Kullubelira– Tutto per una lira”. Volevano vendere qua-lunque cosa. Non si respirava una particolaretensione. I segni della guerra erano automez-zi e carri armati distrutti lungo la strada. Gianfranco Accattino: sono stato, oltre chenaturalmente a Gerusalemme, a Betlemme, aGerico e anche oltre. Ho visto da lontano lealture del Golan, con dei kibbutznikim di NirDavid che, mentre mi portavano verso Tibe-riade, me le indicavano dalla jeep dicendocon orgoglio “Adesso lassù ci siamo noi!”.In Cisgiordania ci sono andato con uno deivolontari di Ein Hamifratz, un inglese di no-me Jeremy. Abbiamo preso un taxi a Gerusa-lemme. L’occupazione di Gerusalemme ave-va messo in crisi i tassisti arabi, che viveva-no di viaggi ad Amman. Soluzione levantina:gli israeliani lasciavano girare i taxi perstradine secondarie aggirando Gerusalem-me fino a riprendere la strada di Amman. Iltassista era contento perché poteva alzare ilprezzo facendo credere che si stava prenden-do un rischio, gli israeliani erano contentiperché comunque controllavano la stradaprincipale.Siamo arrivati a Gerico. Visita alle mura, epoi, da totali incoscienti, ci siamo fatti por-tare al ponte Allenby. Il ponte era transen-

1967

nato e presidiato da un unico soldato israe-liano, un sefardi nordafricano che, in per-fetto francese di banlieue, ci ha apostrofaticosì, ridacchiando: “Teste di c…, lo sapeteche qui c’è stata una guerra? E allora leva-tevi dalle p…!”. Come peraltro previsto,l’abbiamo salutato e ce ne siamo tornati in-dietro.Quanto a Betlemme, non mi ricordo come econ chi ci sono arrivato. Sono solo certoche con me c’era un’ebrea londinese di for-me abbondanti da me soprannominataManzotin. Ci siamo presentati all’ingressodella chiesa della Natività. Una fila lun-ghissima di visitatori, perché sulla portadella chiesa c’era un pope barbuto e nero-vestito che controllava e giudicava i centi-metri quadrati di pelle nuda dei visitatori esoprattutto delle visitatrici. Manzotin avevaun paio di calzoncini dai quali fuoruscivaquasi tutta la sua abbondanza anteriore eposteriore. Io le dissi: “È inutile che ti faitutta questa coda per farti alla fine caccia-re dal pope, lascia perdere”. Lei sorride“Let me try...”. Arriviamo davanti al pope,io la copro, forse il pope si distrae, sta difatto che sgusciamo nel buio pesto della sa-la che introduce alla basilica. Manzotinsorride trionfante “Did you see?” e si av-via. In quel preciso istante si fa avanti unsoldato israeliano che senza parole, con unsolo gesto rivolto alle sue abbondanze, lacaccia indietro. Israele voleva dimostrareal mondo che si faceva carico, più di primae meglio della Giordania, del rispetto dei

luoghi sacri di Terra Santa.E così solo io ho potuto entrare e assistereallo spettacolo dei fedeli che si inginocchia-no a baciare una stella d’argento infissa nelpavimento a indicare il punto esatto in cuinacque Gesù, come sta scritto nei vangeli diMatteo e Luca.Mi interessa sapere se nei kibbutzim si af-frontava il tema del “dopo”, se c’erano giàdiscussioni sulle future decisioni politiche le-gate ad una situazione territoriale completa-mente modificata dalla guerra.Ferruccio: in kibbutz si discuteva e c’eranodivergenze di opinioni, chi pensava a un’oc-cupazione temporanea e chi all’annessione.Non erano ancora chiare le problematiche.Io mi rendevo conto che l’occupazioneavrebbe creato problemi e propendevo perun ritiro dai territori: non Gerusalemme, lacui divisione per me era ed è impensabile.Ada ricorda che ad Ein Hamifratz si parlavadel dopo, anche se era difficile comunicareperché molti non parlavano inglese. L’ideaera “la guerra è finita, poi si fanno i trattatie si restituisce tutto, in pochi mesi tutto si ri-solve”.Gianfranco: Uri, il mio “tutor” a Ein Hami-fratz, faceva parte del controspionaggio edera certo che in qualche mese la Cisgiorda-nia sarebbe diventata lo stato palestinese, le-gato a Israele in una bella “federatsia”. Cin-quant’anni dopo, resta una speranza utopi-stica…

Interviste di Bruna Laudi

(segue da pag. 6)

mente di cessare di esistere. Per Israele, pernoi, queste parole hanno un suono sinistro:in anni non lontani questa minaccia è stataformulata e poi metodicamente eseguita.”.Intervengono il prof. Alessandro Galante Gar-rone, colto per l’emozione da un lieve males-sere, il Rettore che porta l’adesione di tutto ilmondo universitario, il Sindaco, che tra l’altrodice: “Israele ha tutta la solidarietà degli uo-mini liberi. L’affermazione di Nasser – Sferre-remo il colpo dove e quando vorremo – è uncrimine e come tale deve essere considerata datutti”. E poi esprimono solidarietà i rappresen-tanti di tutti i partiti, dell’associazione mazzi-niana, di Giustizia e Libertà, di altre associa-zioni culturali, e delle associazioni studente-sche. Parla anche il rappresentante del PCI chepur allineandosi alle posizioni del partito (ri-cordo bene i mormorii di protesta da parte delpubblico, subito troncati dal Presidente dott.Sion Segre Amar) riafferma il diritto di Israelealla piena indipendenza nazionale.

*****Poi, nell’angoscia per quanto potrà succedere,ma anche con fierezza, ci si comincia a orga-nizzare.Le istituzioni ebraiche hanno costituito la“Campagna Unita di emergenza” facendo ap-pello a tutti gli ebrei: “Ognuno deve fare comese dal suo contributo dipendesse la sopravvi-venza di Israele”. Presso i locali della Comunità opera un grup-po di volontari, ragazzi del CGE e persone me-no giovani, a raccogliere offerte di denaro e dimedicinali, dichiarazioni di simpatia e disponi-bilità ad andare in Israele per il servizio di vo-lontariato civile. Particolarmente preziosieventuali medici e infermieri. A chi porta unaiuto si consegna, in segno di ringraziamento edi amicizia, un adesivo con la scritta “Io aiutoIsraele”. Molti espongono l’adesivo sul vetroposteriore dell’automobile: si è orgogliosi diaiutare Israele, di stare dalla parte di chi è mi-nacciato da nemici prepotenti, e di farlo sape-re. Alcuni si offrono di ospitare nella loro casabambini e vecchi, ma l’offerta è respinta: daIsraele nessuno vuole venire via. La Stampa intervista i cittadini che si presenta-no: chi ricorda persone care deportate, chi aiu-ta Israele perché è un piccolo paese minaccia-

to da 100 milioni di arabi, chi racconta di ave-re fatto un viaggio, visitato kibbutzim e vistorifiorire il deserto, chi per gratitudine al dottorSabin che ha realizzato il vaccino antipolio el’ha donato all’umanità, chi in memoria di An-na Frank; ci sono bambini che hanno aperto ilsalvadanaio per portare i loro risparmi, arriva-no partigiani che avevano vent’anni nel 1945 evorrebbero partire subito, nonostante l’età.Viene anche l’eroico parroco di Borgo SanDalmazzo, Don Raimondo Viale, che conse-gna un’offerta, chiede di poter vedere il tempioe dice “Pace”. Arrivano alla Comunità tantissi-me lettere, telegrammi, telefonate per esprime-re affettuosa solidarietà e condividere le preoc-cupazioni per cosa potrà succedere.I dirigenti della Croce Rossa e della Banca delSangue, e i rappresentanti della Città e dellaProvincia, della Camera del Lavoro e dell’U -nione Industriali costituiscono un Comitato diSoccorso per concordare un piano di solida-rietà. Si lancia una campagna per la raccolta di me-dicinali e materiale sanitario. In Piazza SanCarlo e in Piazza Carlo Felice stazionano leautoemoteche per raccogliere donazioni disangue, che vengono trasformate in plasma daitecnici della Banca del Sangue e trasferite inIsraele con aerei della Croce Rossa. Si mettono in coda a dare il sangue fino a 600persone al giorno, di ogni condizione sociale eopinione politica, c’è chi è venuto apposta dafuori Torino. Non possono essere accettati al-cuni minorenni, nonostante cerchino di bararesulla loro età; una signora anziana protesta:“Sono stata una partigiana combattente, pos-sibile che ora non possa donare il sangue peri feriti?”La Stampa pubblica la foto di Primo Levi, ste-so sul lettino dell’emoteca, in primo piano ilbraccio con il numero tatuato.Il 7 giugno da Fiumicino parte il primo gruppodi 162 volontari, di diverse nazionalità e fedireligiose, tra cui una ventina di italiani, per lamaggior parte studenti, per prestare serviziocivile, altre centinaia partiranno sulle navi del-la ZIM nei giorni successivi.Tramite un’intervista sulla Stampa, Rav Sierraringrazia tutti: “Aver riscontrato tanta com-prensione, tanto affettuoso slancio versoIsraele minacciato di distruzione ci riempiel’anima di riconoscenza e di gioia. Vuol dire

che gli italiani hanno capito che nella terrapromessa si sta costruendo qualcosa che deveessere salvaguardato da tutti quelli che hannoa cuore il progresso e la dignità dell’uomo”.

*****La sera del 13 giugno – sono passate solo duesettimane dalla serata di solidarietà nel Tempiogrande, e l’incubo fortunatamente si è dissolto– in occasione di Shavuòt la Comunità aprenuovamente il Bet Hakeneset alla cittadinanza,questa volta per una cerimonia di ringrazia-mento per la cessazione delle ostilità. Il tempioè affollato di cittadini a riconfermare ancorauna volta la solidarietà verso il popolo di Israe-le e la gioia per la vittoria. Il Presidente dott.Segre Amar esprime ai cittadini torinesi il rin-graziamento della Comunità.Commosso e profondo il discorso del RabbinoCapo Rav Sierra che riafferma con calore che“la vera gloria di Israele non è quella che siconquista con le armi, bensì quella che si rea-lizza mediante l’attuazione in questo mondodell’unità di Dio attraverso l’unità degli uomi-ni nel Bene, nella Giustizia e quindi nella veraPace”. Sui giornali ebraici iniziano a comparire pub-blicità di viaggi: ora più che mai visitate Israe-le, venite a festeggiare in Israele la Vittoria diIsraele, usate le linee aeree israeliane EL ALper Israele e per Teheran … Emerge anche qualche contrasto politico: nelprimo Consiglio Comunale dall’inizio dellaguerra i partiti non riescono a convergere su undocumento unitario; una dichiarazione di unconsigliere del PCI contro i dirigenti di Israeleprovoca vivaci polemiche. I volontari sono impegnati per tutta l’estate inlavori agricoli nei kibbutz o nelle foreste delKKL per la pulizia degli alberi bruciati e per lapotatura. Alcuni ne approfittano per incontrareparenti e amici che già vivono in Israele, tuttiricordano questa esperienza come una grandeoccasione, anche per la possibilità di conosce-re ragazzi israeliani e volontari provenienti datutto il mondo. Mi capita di rileggere oggi un articolo di Fer-dinando Vegas, autorevole studioso di politicainternazionale, pubblicato sulla Stampa del 10giugno 1967: il titolo, profetico, è “Più diffici-le della guerra è la conquista della pace”.

Beppe Segre

(segue da pag. 1) Torino 1967

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ele Sono passati cinquant’anni dalla guerra dei

sei giorni e tra israeliani e palestinesi qual-cosa è cambiato, ma molto poco. Nel 1967,dopo un mese di incertezze con mezzo pae-se mobilitato, l’apertura delle ostilità è statavista come uno sbocco naturale della situa-zione. A Ruchama erano stati richiamati piùdi cento uomini e i lavori agricoli, mietituracompresa, venivano svolti dai ragazzi delleultime classi del liceo. Per un mese il go-verno di Israele ha valutato le varie possibi-lità: Ben Gurion, ormai in pensione, avevachiamato Rabin per fargli sapere la sua vo-lontà di non entrare in guerra. Levi Eskol,allora primo ministro, esitava e alla radioinvitava la popolazione alla calma... balbet-tando. Ricordo che vecchi riservisti di Ru-chama la notte prima dell’inizio dei com-battimenti erano stati mandati a minare unazone al confine con Gaza, ma quando si so-no trovati davanti a un campo di barbabie-tole da zucchero hanno chiesto e ottenuto dinon posarvi mine!La guerra lampo ha sorpreso tutto il paese eforse il mondo intero. Gli eserciti arabi benpiù numerosi di quello di Israele hanno di-mostrato su tutti i fronti la mancanza dimezzi e i disastrosi comandi, anche se i sin-goli soldati si sono comportati in gran partecon eroismo.A cose finite Israele si è trovata dall’oggi aldomani a passare da un piccolo paese a unsemi-impero da Suez al Golan, compresa laregione palestinese. Ben Gurion per primoma anche Levi Eskol e altre personalità sisono pronunciate fermamente per offrire ilritiro sui vecchi confini in cambio della pa-ce. Nazionalisti israeliani e palestinesi perragioni diverse sono riusciti a imporre dinon farne niente.Gli israeliani in generale sono passati dallapaura dei giorni di attesa all’euforia: tuttivolevano conoscere i luoghi tanto nominatinel passato ma che era impossibile visitare:dal Muro del Pianto a Chevron, Gerico,Erodion e il Golan con il suo Chermon. Permesi tutta o quasi la popolazione si è messain marcia attraversando città e paesi arabisenza incontrare nessuna ostilità da partedella popolazione locale. Si sono persinoorganizzati autobus di linea per Gaza e altriposti della regione palestinese. Da Sderot

andavano al mercato a Gaza a comprareverdure fresche a bassi prezzi.Questa euforia è durata un paio di anni oforse un po’ di più, poi poco alla volta ilpaese si è trovato a cimentarsi con unarealtà politica nuova piena di problemi edifficoltà. Si sono creati governatorati mili-tari nei paesi occupati da una parte, mentrele fronde destrorse si sono riunite nel movi-mento “Israele Tutta” e negli anni ’70 è co-minciata la lotta per impiantare colonieebraiche nei territori occupati. Né Peres néRabin si sono resi conto in tempo dei peri-coli cui il paese andava incontro e non han-no pensato o voluto bloccare subito questevelleità dei cosiddetti “nuovi chalutzim”.Da parte palestinese il Movimento Fatah diArafat è uscito allo scoperto e sono iniziatigli atti di feroce terrorismo in Israele e ingenere nel mondo contro obbiettivi israelia-ni; ricordiamo per esempio la strage di no-stri atleti alle Olimpiadi di Monaco.Da allora sono passati tanti anni, e altreguerre e azioni militari, da quella del Kip-pur alle due guerre nel Libano nel 1982 enel 2006. È scoppiata la prima intifada, se-guita dalla seconda. In tutti questi anniIsraele ha avuto due soli capi di governoche, infischiandosene dei vari politici, com-presi quelli del loro partito, hanno saputoprendere decisioni storiche sul futuro delpaese: Begin con la firma della pace conl’Egitto e Rabin con Oslo e la firma dellapace con la Giordania. Sharon alla fine si èmesso sulla loro strada con il ritiro dei co-loni dalla zona di Gaza ma la malattia gli haimpedito di continuare. Begin, Rabin e Sha-ron si sono dimostrati come pilastri nellastoria di Israele non meno di Ben Gurion.Contro chi si opponeva loro va ricordatoche la pace con l’Egitto e la Giordania haassicurato su questi due confini anni e annidi tranquillità e speriamo che così continui,nonostante le predizioni pessimistiche ditanti nostri destrorsi nazionalisti.Purtroppo il problema palestinese resta sultavolo. Da una parte Rabin, prima di pagareil tutto con la vita, ha dato il via alla costi-tuzione dell’Autorità Palestinese, ha apertolegami economici con la popolazione loca-le, ha soppresso le leggi che condannavanoogni israeliano che osava avere rapporti con

SONO PASSATI 50 ANNI un palestinese. Dall’altra la colonizzazionesi è sparsa come una macchia d’olio nei ter-ritori occupati dove sembra che abitino og-gi circa 400.000 israeliani. Gerusalemmearaba è stata inserita nella Gerusalemmeebraica, ma la città oggi è più divisa che maitra ricchi e poveri: i servizi che il comunefornisce alla parte est in tutti i campi sonomiserevoli nonostante oggi abitino nellagrande Gerusalemme “unita” più arabi cheebrei. In questi dieci anni di governi Natanyahunon si è fatto nessun passo avanti. I palesti-nesi hanno rifiutato a suo tempo le trattativecon Olmert e questo è stato un errore tragi-co: oggi si trovano davanti a un governo ol-tranzista di estrema destra in cui per la pri-ma volta si parla di annessione di questa oquella parte della Cisgiordania e qualcheministro dichiara apertamente di voler sosti-tuire la formula di due stati per due popolicon quella di uno stato unico. In questo ul-timo caso si fanno ipotesi varie: da quella diautonomie municipali a quella di un apertoapartheid in cui i palestinesi avranno certidiritti, ma non quello di votare.È vero senza dubbio che in questi cinquan -t’anni le condizioni di vita dei palestinesieconomicamente sono migliorate, ma la po-polazione continua ad essere sottoposta a unregime militare con tutte le conseguenzeimmaginabili. Per non parlare della zona diGaza dove la disoccupazione rasenta il 60%e ci sono problemi gravissimi per mancanzadi elettricità e acqua potabile. Per evitare diperdere l’appoggio degli ultra nazionalisti econtinuare a tenere la sua poltrona, Bibi nonsgarra dalla sua politica di... non fare nien-te, di mantenere uno status quo che a pareredi tanti militari di oggi e di ieri è una bom-ba che prima o poi scoppierà.Le esplosioni di gioia dei nostri oltranzistiper l’elezione di Trump si sono presto raf-freddate. È vero che il Nicaragua ha ripresole relazioni diplomatiche con Israele ma tut-ta l’Europa (e anche la Cina) continua acondannare ogni nuova colonia. In questorigurgito di neofascismo nel mondo, non ciresta che sperare che prima o poi l’elettora-to nostro si renda conto dei pericoli cui si vaincontro. E speriamo che questo accada piùtardi che mai.

Israel De Benedetti

Ruchama, aprile 2017

Qui sotto: Abraham Mintchine,fattoria franceseA destra:

nudo disteso

Abraham Mintchine (1898-1931)Mintchine, apprendista orafo a Kiev, ha iniziato a dipingere all’età di 16 anni. Fuggito a Berlino per salvarsi dai pogrom, nel 1925 espo-se opere in stile cubista e progettò scene e costumi per il teatro ebraico di Palestina. Si recò nel 1926 a Parigi, ove, sposato con un figlio,visse in grande povertà. Fu notato dal commerciante René Gimpel, che scrisse sul suo diario: “Ho comprato 35 sue tele, alcune sono piut-tosto disomogenee, ma ciò in qualche modo dimostra il suo talento… Si arrabattava per racimolare 100 soldi per campare; non vole-va mangiare, e anche morendo di fame avrebbe detto alla moglie: Mangia, Mintchine non ha fame. Ora (nel 1929) che ha raggiuntoun certo benessere la sua salute è peggiorata e continua a sacrificarsi per la moglie, dicendo: Mintchine non ha bisogno di nulla”. AParigi frequentò il gruppo di artisti ebrei emigrati dalla Russia e dalla Polonia già operanti in città, come Soutine, Kremegne, Kikoine ealtri. Del 1929 fu la sua prima personale. Trasferitosi in Provenza, morì a La Garde, vicino a Tolone.

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tiera. Sventolando la mano la mostrò conemozione, tra gli applausi di tutti coloro cheseguivano l’operazione dalle finestre dell’o-spedale e di Notre Dame.L’avvenimento era così sensazionale che ilsettimanale Life inviò un fotografo israelia-no, David Rubinger, ad immortalarlo. Nellafoto si vede Suor Teresa tutta contenta con lasua dentiera in mano, assieme all’ufficialefrancese dell’Onu con la bandiera bianca, el’ufficiale israeliano. Guardando attentamente la foto, però, è pos-sibile accorgersi di una piccola incongruen-za. Suor Teresa ha in mano la sua dentiera, econtemporaneamente nella sua bocca si vedeuna bella dentatura completa. Il segreto fu svelato alcuni anni fa, in un’in-tervista, dallo stesso David Rubinger: “Tere-sa rifiutò di farsi fotografare. Non riuscii aconvincerla. Lei voleva solo indietro i suoidenti, e che la lasciassero in pace. Io ero sta-to mandato lì per fotografare una suora conin mano una dentiera, e così chiesi ad un’al-tra suora, sua amica, di “posare” per me. Lespiegai che non avrebbe dovuto assoluta-mente sorridere, ma lei era così entusiastache non si trattenne. E così tradì il mio pic-colo segreto”.

Davide [email protected]

“spessore” delle linee di confine, senza poterstabilire a chi dovessero andare. Alla fine fudeciso di sgomberare gli abitanti dalle case edi dichiarare le zone contese come no man’sland. E fu proprio lì che finì la dentiera dellapovera Suor Teresa, dato che il muro orienta-le dell’ospedale St. Louis, che si trovava nel-la parte israeliana, era a pochi metri dalla noman’s land. Disperata, la religiosa vide ladentiera cadere tra i rovi e il filo spinato. Conle lacrime agli occhi si recò dal padre supe-riore dell’adiacente Monastero di Notre Da-me, chiedendogli aiuto. All’inizio il padre su-periore cercò di spiegare a Suor Teresa che sisarebbe dovuta rassegnare: nessuno potevaraggiungere il luogo dove era caduta la den-tiera, sia a causa del pericolo dei cecchinigiordani che per evitare ulteriori tensioni trale due parti. Ma la suora non voleva rinuncia-re e scongiurò il padre superiore di tentarel’impossibile. Alla fine grazie all’interventodi Uzi Narkis, che sarebbe diventato nel 1967il comandante delle forze israeliane nella zo-na di Gerusalemme, e di un ufficiale france-se, che era a capo della commissione dell’O-nu incaricata di implemen-tare l’armistizio, i giordaniaccettarono di permettere ilrecupero della dentiera.L’indomani mattina, tutti idegenti dell’ospedale StLouis assistettero trepidan-ti ad una scena surreale.Tre ufficiali, uno giordano,uno israeliano e uno del -l’Onu, assieme ad alcunesuore, tagliando il filo spi-nato si addentrarono nellano man’s land, diretti allazona sottostante la cameradi Suor Teresa. Per un po’frugarono tra i rovi, il filospinato e le pietre, cercan-do di calcolare la traiettoriadella dentiera. Dopo un po’di pantaloni strappati e dispine nelle mani, finalmen-te uno degli ufficiali trovò,dietro ad una pietra, la den-

In una bella giornata di sole del 1954, SuorTeresa, un’anziana religiosa dell’Ospedale S.Louis di Gerusalemme, decise di aprire la fi-nestra della sua stanza, per fare entrare unpo’ di tepore. All’improvviso, un prurito allagola la spinse ad affacciarsi alla finestra pertossire. Ma prima di poter fare qualcosa ladentiera le scivolò via dalla bocca e caddenel terreno sottostante. Se la cosa fosse successa oggi, la dentiera sa-rebbe caduta nella trafficata via dei Paracadu-tisti, che corre parallela alle mura nord dellacittà vecchia, non lontano dalle modernissimerotaie del tram, che da alcuni anni attraversala città da nord a sud. Ma, come dicevamo,era il 1954, e la dentiera finì nella no-man’sland, la terra di nessuno, tra Israele e la Gior-dania. La no man’s land era nata nel novem-bre del 1948, quando Moshe Dayan, alloracomandante delle forze israeliane a Gerusa-lemme, si incontrò con la sua contropartegiordana, Abdallah a-Tal. Seduti sul pavi-mento sconnesso di una casa abbandonata delquartiere Musrara a Gerusalemme, segnaro-no, su una cartina topografica in scala1:20000, le rispettive posizioni: quelle israe-liane in rosso e quelle giordane in verde. Persegnare i confini usarono dei pastelli a cera,cosicché le linee tracciate dai due generaliavevano uno spessore di circa 3-4 millimetri,che su una cartina in scala 1:20000 corri-spondono a 60-80 metri. Col passare del tem-po le linee tratteggiate a colori sulla cartina,per via del caldo, si “allargarono”, o si can-cellarono. A questo vanno aggiunti gli inevi-tabili “sbalzi” dei pennarelli, dovuti al pavi-mento sconnesso, durante la tracciatura deiconfini. I due comandanti non immaginavanoche la cartina topografica sarebbe diventata ildocumento vincolante dei confini tra i duepaesi nei 19 anni successivi (La cartina di-venne “ufficiale” il 3 aprile del 1949, alla fir-ma dell’armistizio tra i due paesi). Entrambicredevano che si trattasse di un accordo prov-visorio, per cui non dedicarono alla cosa trop-pa attenzione… La non chiarezza dei confinicausò negli anni successivi non pochi disac-cordi, conflitti e problemi tra le due parti. In-tere vie con case si vennero a trovare nello

Gerusalemme 1954

LA DENTIERA E LA FRONTIERA

za stessa dell’ebraicità che ci coinvolge. Popo-lo, etnia, religione, cultura o tradizione atavica.Non abbiamo ancora concluso la fase dellagrande alià dall’ex URSS. Trecentomila epiù ex-sovietici non sono considerati dall’ha-lachà ebrei tout court, pur essendo ben inse-riti nella società, pagando spesso il prezzopiù alto nella lotta incessante per la nostrasopravvivenza. Come accoglierli de iure nelKelal Israel? Esigendo, oltre la consapevo-lezza, l’appartenenza derivata da un soloascendente, o esigendo la pratica dell’osser-vanza delle mitzvot, con l’impegno di tra-smetterla alla lettera alla propria discenden-za? Oppure accettando conversioni “light”,come ambienti più ortodossi le chiamano,per esempio, i ghiurim nell’ambito dell’Eser-cito e da parte di certi Tribunali Rabbinici,non certo riformati o conservative?Leggo su HK due articoli in materia riguardan-ti l’Italia Ebraica. Il Dott. Edoardo Fuchs, cheelogio per i suoi scritti sul giornale Yarchontriestino, critica la lunghezza del processo delghiur e il carattere eccessivamente nozionisticodell’insegnamento impartito ai candidati senzaconsiderare la biografia dei singoli, la loro sto-ria personale, intrisa da elementi psicologici,esistenziali di ognuno. La Signora Fausta Fin-zi, che accompagna nel Beith Din Rabbinicoromano da anni i mitgaierim, è un esempio lo-

devole di un rapporto empatico che si traman-da ben oltre la cerimonia della conversione, co-me sappiamo da tante testimonianze. Si discute sul futuro della Comunità italiana.Non innalziamo ostacoli a chi per origini, an-che plurisecolari, o per convinzioni conqui-state, bussa alla nostra porta. Sono i nostrifratelli e le nostre sorelle che procederannocon noi lungo il Cammino di Israele.

Augurio

Decine di giovani ebrei di Italia hanno tenu-to un meeting di quattro giorni nei dintorni diFirenze.Da ex-fgeino sono riandato ai lontani giornigiovanili, ai sentimenti di allora, al caloredelle discussioni, alle dispute ideologiche, eai primi amori. I congresssi, i campeggi, Ha-Tikvà. Per una ferrea legge dell’esistenzasiamo portati alla nostalgia e nel medesimotempo a paragoni critici, quasi dimenticandoche dopo di noi sono passate due o tre gene-razioni. Il mondo è totalmente cambiato, nonè quello dei nostri tempi anche se certi pro-blemi persistono. Mi permetto, con caldasimpatia, di augurare all’UGEI di cimentarsicon coraggio con le sfide attuali, con cre-scente senso di matura responsabilità.

Reuven RavennaNissan 5777

Settimo Giorno

Cinquanta Anni! Rivivo in un susseguirsi diimmagini i momenti di quei mesi fatidici, daigiorni di trepidazione prebellica all’annunciodi Arrigo Levi (il combattente del ’48) dellarichiesta da parte egiziana del cessate il fuo-co. Dal ritorno temporaneo a Gerusalemmein un’atmosfera di entusiasmo generale, visi-tando i luoghi liberati, in primis il Kotel, He-vron e il Gush Etzion.A poco a poco alla eccezionalità è subentratal’attualità: i conflitti, le intifadot, le spaccatureinterne. Il settimo giorno che stiamo vivendo,paventando, al quotidiano, sviluppi previ -sti/imprevisti. Polemiche infinite riguardo allesoluzioni del conflitto con i palestinesi, in unPaese irriconoscibile, in positivo e in negativo,in un groviglio di problemi irrisolti.

Ghiurim (Conversioni)

Mai come oggi la demografia ebraica è fontedi reazioni preoccupate, di accesi dibattiti. Do-po più di mezzo secolo risentiamo le conse-guenze della Shoah, che ci ha privati di un ter-zo del nostro popolo. E se aggiungiamo la cre-scente assimilazione nella Diaspora, siamoportati ad un pessimismo avvilente. È l’essen-

BLOCKNOTES

La redazionedi Ha Keillahringrazia

calorosamentei lettori checi hannosostenutocon le lorogeneroseofferte

Grazie!

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nistero dell’Interno ha dovuto rimetterlo inlibertà”.Come riporta Ilan Lior su Haaretz del 21 apri-le, l’autorità israeliana per la popolazione el’immigrazione ha ristretto negli ultimi tremesi la possibilità pratica di presentare richie-sta d’asilo, nonostante Israele sia paese firma-tario della convenzione delle Nazioni Uniteche obbliga a consentire queste richieste. Chinon ha presentato la richiesta può essere arre-stato e deportato, anche se avrebbe i requisitiper ottenere l’asilo. Come è stata esercitata lastretta? La richiesta può essere presentataesclusivamente di persona agli uffici dell’au-torità, nel sud di Tel Aviv. Fino allo scorsoagosto, ci si poteva presentare la mattina,riempire i moduli e sottometterli, dopodichési era convocati per un colloquio. A seguitodel consistente aumento delle richieste, da al-tri paesi, in particolare Georgia e Ucraina,hanno cominciato a formarsi lunghe code: insettembre e ottobre alcuni richiedenti asilo te-mendo di non riuscire a entrare avevano pre-so a passare la notte sul marciapiedi di fronteagli uffici, per mettersi in fila. Da novembre,nuova procedura: bisognava presentarsi lamattina fra le 7 e le 8, ed ottenere un appun-tamento per una data successiva, quando po-ter sottomettere i moduli. Gli appuntamentivenivano distribuiti dalle guardie all’ingresso,come fogliettini con scritta a mano una data,senza le generalità del richiedente. A molti ve-nivano assegnate date lontane di mesi, ma conla rassicurazione che, in caso di fermo, ba-stasse presentare il fogliettino per evitare l’ar-resto. Ed ecco che da metà gennaio le guardiehanno smesso di distribuire fogliettini con gli“appuntamenti”: a chi era in coda è stato sem-plicemente detto di “tornare più tardi”. Se-condo l’autorità, in febbraio si era accumula-to un arretrato di oltre 22000 richieste d’asiloancora da esaminare, soprattutto di ucraini egeorgiani oltre ad eritrei e sudanesi, con1500-2000 nuove richieste al mese. È difficile dopo Pesach leggere queste cifresenza confrontarle con quelle riferite alla no-stra più remota nel tempo ma per altri versianaloga fuga attraverso il Sinai. Se per Mosèed i suoi il “tornare più tardi” aveva compor-tato un’attesa di quarant’anni, c’è da osserva-re che si trattava di circa 600.000 (Esodo12:37) o per la precisione 603.550 (Numeri1:45) uomini a piedi, oltre a Leviti, donne ebambini, in totale forse 2 milioni e mezzo dipersone. Le quali, sempre secondo la Torà,avevano sì avuto momenti difficili nel deser-to, ma francamente non paragonabili agli stu-

pri e alle violenze subiti da profughe e profu-ghi eritrei e sudanesi vittime della bande ditrafficanti beduini. E non solo erano molti dipiù dei migranti di questi anni, i nostri padrinon avevano neanche la minima intenzione difare pacificamente la fila davanti agli ufficidell’autorità per l’immigrazione: era statodetto loro più sbrigativamente di “non lascia-re anima viva nelle loro città, bensì distrug-gerli tutti completamente, hittei, amorrei, ca-nanei, perizei, hivvei e gebusei” (Deuterono-mio 20:16-17). E poi si dice che applicanocontro di noi due pesi e due misure. In questo quadro sconfortante ci può ridare unpo’ di fiducia l’attività delle ONG come laHotline, oppure ASSAF, http://assaf.org.il/en/,che lavorano fra mille ostacoli, frapposti inprimis dal governo, come quando l’agostoscorso il ministro della Difesa Avigdor Li-berman ha annunciato che ai soldati non sa-rebbe stato più consentito di fare volontaria-to con i bambini dei rifugiati, e da gruppi divigilantes di quartiere, come quelli guidati daSheffi Paz, che si batte perché gli africanivengano cacciati dal sud di Tel Aviv. Ma an-cora più incoraggiante della solidarietà diparte della società civile israeliana è la capa-cità dimostrata da gruppi di migranti di auto-organizzarsi, come le donne eritree del cen-tro per l’infanzia di via Lewinsky a Tel Aviv,di cui si può leggere su https://www.eritreanwomenscenter.org/Forse dovremmo ricordare anche le loroesperienze nella nostra haggadà.

Alessandro Treves

Trieste e Tel Aviv

Israele non riesce a disfarsi dei migranti che,diversi anni fa, sono entrati nel Negev dalSinai. Ha sigillato fin dal 2012 il confinecon una barriera elettrificata, interrompen-done il flusso, ed ha ordinato il rimpatrio diquelli che provenivano da paesi verso cuiera possibile ordinarlo, ma per circa 37000eritrei e 14000 sudanesi non è stato possibi-le, per l’assenza di relazioni diplomatichecon Eritrea e Sudan. Alcuni di loro sono sta-ti “persuasi” ad accettare l’espulsione o ladeportazione altrove, ma la maggior partesono ancora in Israele, concentrati nei quar-tieri a sud di Tel Aviv. Sopravvivono comepossono, lavorando in nero grazie alla nonrigida applicazione della norma che glielovieterebbe, fornendo così manodopera abassissimo costo e priva di qualsiasi diritto.Facilmente identificabili dal colore dellapelle (possono essere scambiati solo conebrei etiopi o con palestinesi dalla pelle scu-ra, categorie con le quali non è particolar-mente vantaggioso essere confusi) fornisco-no anche un conveniente capro espiatorioper chi cerca di sobillare la popolazione deiquartieri più poveri indicando negli africanii presunti responsabili di crimini e violenze.I leader della destra, per quanto di governo,non hanno esitato ad approfittare dell’occa-sione per incitare un elettorato socioecono-micamente debole e identitariamente confu-so. Già nel 2012 l’allora ministro dell’Inter-no Eli Yishai aveva definito la minaccia de-gli infiltrati dal Sinai “più grave di quellairaniana” e l’attuale ministra della CulturaMiri Regev dichiarato come ormai i sudane-si fossero “un cancro nel corpo della nazio-ne”. Da allora alle parole sono seguite a piùriprese le misure punitive, a volte per la ve-rità soprattutto sbandierate, altre volte smor-zate in parte dagli interventi correttivi dellaCorte Suprema, cui si rivolgono diverse as-sociazioni umanitarie, che fanno quello chepossono per aiutare i derelitti. Un esempio fra tanti la vicenda di A., un “in-filtrato” del Darfur di cui racconta il sitoweb della Hotline for Refugees and Mi-grants, http://hotline.org.il/en/: “A. è un pro-fugo dal Darfur, arrivato in Israele nel2012. A fine 2016 il ministero dell’Internol’ha convocato al campo di detenzione diHolot, nonostante che solo in ottobre lo stes-so ministero avesse dichiarato che nonavrebbe più mandato a Holot i rifugiati delDarfur. Probabilmente il ministero teme chequelli del Darfur, che attendono ormai daanni novità riguardo alla loro richiesta d’a-silo, siano i primi ad avere riconosciuto lostatus ufficiale di rifugiato. A. non si è pre-sentato a Holot. È stato catturato e rinchiu-so nella prigione di Saharonim per 60 gior-ni, perché venisse poi trasferito a Holot perun ulteriore anno di detenzione. [...] Quan-do A. ha chiesto il nostro aiuto per essere li-berato da Saharonim, ci siamo rivolti al tri-bunale perché chiedesse al ministero del-l’Interno di rivedere il suo caso, e accerta-tane la provenienza dal Darfur, ne dispones-se l’immediata liberazione. La risposta delministero è stata che ‘per quanto il rifugiatoin questione sia sudanese, non è chiaro chesia davvero del Darfur, e quindi il ministeronon ha deviato dalle procedure previste nel-l’emettere un ordine di arresto’. C’è da no-tare che il ministero trattiene il passaportodi A.; il passaporto indica il suo luogo di na-scita, e basterebbe consultare Google Mapsper sapere che si trova nel Darfur. Cionono-stante, il ministero ha deciso che l’indica-zione sul passaporto non è una ragione suf-ficiente per riesaminare il caso. C’è da chie-dersi quale prova sia necessario fornire per-ché il ministero la valuti come sufficiente,senza un’ingiunzione del tribunale. [...] Nelcaso di A., il giudice è intervenuto ed il mi-

ENTRATI DALL’EGITTO

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Netanyahue Ben Gurion

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mosfera etnocentrica e da iniziative legislativeche vogliono santificare l’egemonia della reli-gione ebraica nella versione ortodossa.Certo non nuova la reazione dei sionisti delcentro sinistra che hanno paura di essere indi-viduati con critiche troppo chiare, anche se nonradicali, alla tendenza nazionalistica, conside-rata da loro irreversibile: senza riverirla, credo-no di non tornare mai più al governo, neppureinsieme alla destra. Neppure nuove per lo più lereazioni isteriche della destra che non si è an-cora convinta di essere al potere da 40 anniquasi senza interruzione e vede come una mi-naccia anche pallide espressioni d’opposizione. Nuova invece, e credo interessante anche pervoi lettori ebrei in Italia, la reazione di intel-lettuali integralisti del tipo dello Steve Bannonamericano: Dror Idar, per esempio, su IsraelHayom (quotidiano pro-Netanyahu, fondato emantenuto dal magnate dei casinò SheldonAdelson, gran tifoso di Trump) del 14 aprileha presentato la tesi che la paura attuale della“sinistra” liberale sionista di fronte ai gruppinazional-religiosi è segno che la vecchia élitenon si è ancora liberata dal complesso edipicodi rivolta contro il “padre”, da lui interpretato,secondo Jung, come Dio, che avrebbe caratte-rizzato il sionismo laico herzeliano fino a do-po Ben Gurion. Secondo Idar, ecco invece chele nuove élite e il popolo che le sostiene rico-noscono i veri fondamenti religiosi del sioni-smo, alla base di più sano rapporto riconcilia-to col “Padre”, rinnovando il patto biblico e lafedeltà alle promesse territoriali e ai comanda-menti religiosi (non per nulla ci sono già quel-li che si preparano a ripristinare i sacrifici, conprove generali in vivo). Cioè mentre nel sioni-smo delle origini, pur laico e politico, poteva-no identificarsi anche rabbini come Reines,Leib Maimon, Kook il padre, Meir, Herzog eUziel, e poi Buber, Leibovitz e tanti altri – in-vece secondo Idar il sionismo attuale non hapiù posto per chi non è maturato abbastanzaper riconciliarsi con Dio e accettare l’interpre-tazione integralista dell’ebraismo, nella ver-sione nazionalista e ortodossa. Secondo luicioè non sono l’occupazione e le colonie che

dividono le vecchie élite sioniste dall’attualeidentità nazionale israeliana: questa non puònon essere legata a quel Dio particolare degliebrei, che, dice lui, è stato tanto a lungo re-presso dal sionismo laico delle origini.Ha certo ragione Idar a individuare nella guer-ra dei sei giorni nel 1967, attraverso la sborniaeuforica per la grande vittoria inattesa e il con-tatto imperiale coi territori biblici, il momentoin cui il messianismo (che prima era contenu-to, anche dai rabbini più ortodossi) si è impo-sto rapidamente al sionismo politico. È certovero anche che il sionismo socialista ashkena-zita ha avuto grave torto a discriminare gli im-migranti dai paesi arabi e a non rispettare la lo-ro identità comunitaria, basata su religiositàtradizionale, con rabbini e intellettuali a suotempo molto più moderati di quelli europei.Oggi se ne ripete lo sbaglio col disprezzo delrabbinato ufficiale verso i Kes, capi religiosi eculturali degli ebrei venuti dall’Etiopia.Ecco, ora le nuove generazioni degli ebrei d’o-rigine dai paesi arabi sono facili prede dellademagogia del Likud, e dell’etnocentrismoquasi palesemente razzista della Casa Ebraica(quasi ho scritto Pound!), anche se quasi tuttigli esponenti politici principali dei due partitidi destra sono ashkenaziti. Ecco perché anchelo Shas, partito ortodosso degli ebrei orientali,ha abbandonato la moderazione iniziale deldefunto rabbino Yosef suo fondatore e forseanche di alcuni suoi dirigenti, tra cui Deryistesso: l’elettorato degli ebrei orientali, forsecome dice Idar, è più maturo psicologicamen-te delle sue stesse élite, è più conciliato col Pa-dre Eterno e viene così rapito dagli slogan ul-tra nazionalisti e anti-arabi della destra.Invece due sionisti “classici”, Shlomo Avinerie Dimitri Shomski sono dunque ancora, secon-do Idar, nella fase edipica repressiva, quandoaccusano anche loro i messianici-nazionalistidi mettere in pericolo le basi esistenziali stessedel progetto sionista, attaccati fanaticamentecome sono all’interpretazione oppressiva edegemonica dell’autodeterminazione ebraica.Negando i diritti nazionali dei palestinesi si ne-ga la base stessa del diritto universale all’auto-determinazione dei popoli, cioè anche quellaebraica; ma per integralisti come Idar è più sa-no psicologicamente fidarsi in Dio.

Rimmon Lavi

Gerusalemme, 19 aprile 2017

In questi giorni di feste è scoppiato nuovamen-te in Israele uno scandalo periodico attorno auna posizione che esce dal consensus di quan-to è considerato legittimo, anche se conflittua-le, all’interno del buon pensiero sionista. Nonparlo quindi di posizioni di estremisti sinistroi-di come me, “amanti degli arabi”, come siamodefiniti tutti coloro che osano ormai mettere indiscussione la natura stessa dello stato d’Israe-le, anche prima dell’esacerbazione dovuta a 50anni di occupazione del popolo palestinese e dicolonizzazione ebraica dei territori occupatinel 1967. Forse senza questa sbornia e le suetragiche conseguenze, sarebbe stato possibileun più sano sviluppo nazionale indipendente ofederativo per i due popoli, dopo l’inevitabilefase nazionalistica (più o meno grave) di for-mazione della nuova identità nazionale. Noi inIsraele ne viviamo adesso aspetti che fannopaura a chi conosca un po’ la storia delle nuo-ve nazioni. E i palestinesi che hanno imparatomolto dal sionismo, ne sono già immersi ancheprima dell’autodeterminazione. No, dunque: è stato un giornalista benpensante,Yosi Klein, che ha pubblicato un articolo sulquotidiano liberale Haaretz in cui ha osato ac-cusare i nazional-religiosi, che hanno come e -sponente principale il partito Habait Hayehudì,“La Casa Ebraica”, ex-Mizrahi, di essere piùpericolosi per l’avvenire dello Stato d’Israele diHezbollah, partito sciita libanese, oggi princi-pale nemico armato alle nostre frontiere. Non ècerto stata nuova la sua critica al messianesimoche impronta dal 1967 le azioni dei nazional-religiosi e ha dato loro influenza ben superioreal loro peso demografico ed elettorale sulla po-litica dei vari governi di “sinistra”, di centro odi destra che si sono susseguiti da allora, e suquasi tutti i partiti israeliani, religiosi o laici.Neppure nuova la sua analisi del pericolo che larealtà coloniale, che essi vogliono oggi renderedefinitiva e legalizzata con annessione territo-riale (ma senza pieni ed eguali diritti civili aipalestinesi), porta per il futuro d’Israele, sia sulpiano internazionale, sia su quello morale, siainfine e soprattutto su quello del regime demo-cratico interno, incrinato sempre di più dall’at-

PERIODICA DISPUTATRA SIONISTI

preveggenti è il compito che ci attende. La dicotomia fra i valori morali dell’ebrai-smo e il sostegno acritico e indifferenziato aIsraele si è fatta più acuta. Essa è eclatantenel dibattito fra gli ebrei americani dopo lavittoria di Trump, uno dei temi dominantinella conferenza di Jstreet che per nei duegiorni successivi ha impegnato 3000 perso-ne, di cui oltre 1000 giovani, come ho riferi-to in altra parte del giornale. Le attività inquadrate nella campagna SISOsono iniziate con il Seder di Pesach dell’11aprile, celebrato in sinagoghe, comunità, as-sociazioni nel mondo, sulla base di testi pre-parati da Amos Oz, Leon Wieseltier, MichaelWalzer, Avraham Burg, Eli Barnavi, Noa, ravMichael Melchior e altri pensatori e attivistiper la pace, imperniati sul tema della libera-zione del popolo ebraico, incompatibile conun regime di oppressione di un altro popolo,e del simbolismo del Giubileo biblico che or-dina di “santificare il cinquantesimo anno eproclamare la libertà nella terra per tutti isuoi abitanti” (Levitico 25.10). È seguita la cerimonia del Ricordo delle vitti-me (Yom Ha-Zicharon) del 30 aprile secondouna variante celebrata da alcuni anni a TelAviv da Combatants for peace e Parents’ Cir-cle, due Ong israelo-palestinesi, che organiz-zano nel giorno ufficiale del Ricordo una ceri-monia comune di ricordo di vittime di guerra,violenza e terrorismo delle due parti. Si sonotrasmessi via live streaming i discorsi comme-morativi in modo che in comunità, centri gio-

vanili, sinagoghe, fosse possibile un momentodi raccoglimento simbolico in parallelo.Fra le attività educative circa l’occupazione ei suoi costi, si stanno svolgendo anche in Ita-lia proiezioni di film: i Coloni di Shmuel Do-tan, sulla formazione, l’ideologia e i guastidel movimento degli insediamenti e i Distur-batori della pace, promosso da Combatantsfor Peace, sulle loro storie vissute di militarie terroristi-guerriglieri votatisi alla riconci-liazione e alla pace.Infine, Peace Now e molti altri movimenti eOng contrari all’occupazione promuovonouna manifestazione a piazza Rabin a TelAviv, la sera del 3 giugno. Parteciperannoebrei della Diaspora aderenti a Jstreet, JcallEuropa – fra cui diversi italiani – e altri mo-vimenti. Nei giorni successivi ci uniremo an-che a una Marcia della pace, organizzata daMachsom watch – una Ong israeliana che vi-gila sul comportamento dei militari nei postidi blocco e punti di confine fra Israele e laCisgiordania – che si snoderà lungo la Lineaverde, il confine di Israele pre-1967. La cam-pagna culminerà con un evento pubblico l’11giugno, che simboleggia il giorno successivoalla fine della Guerra dei sei giorni del giu-gno 1967 e l’inizio di un’occupazione di 50anni. Nei paesi della Diaspora si terrannoquella sera veglie davanti alle Ambasciate diIsraele con consegna di petizioni firmate, insostegno ai temi della manifestazione.

Giorgio Gomel

La campagna SISOprocede: le azioni prossimeIl movimento SISO promosso nei mesi scor-si da un appello di 500 israeliani agli ebreidel mondo si è irrobustito e organizzato conl’a desione e il sostegno di molti ebrei in piùpaesi della Diaspora. Condenso le indicazio-ni scaturite da un incontro svoltosi alla finedi febbraio a Washington, che ha riunitoisraeliani ed ebrei d’Europa, Nord America eAmerica Latina per definire soprattutto unpiano d’azione fino a giugno.Circa 30 movimenti e organizzazioni hannoaderito in Israele all’appello di SISO perun’a zione comune di opposizione ai 50 annidel l’occupazione israeliana dei territori pale-stinesi. Una minoranza in Israele, come noto,ma forse una “maggioranza silenziosa” diebrei del mondo sostiene questa battaglia.Come fare emergere questo “silenzio”, spes-so motivato da sentimenti diversi – paura diesporsi, apprensione rispetto all’essere de-nunciati come utopisti, visionari o traditori,conformismo, scetticismo circa la nostra stes-sa capacità di influire sugli eventi, rassegna-zione alla mutazione tribale e sciovinista diIsraele vissuta come ineluttabile – e spingeregli ebrei della Diaspora ad un’azione coesa ecomune con quella minoranza di israeliani

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Abraham Mintchine,ritratto

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12 talmente valori “ebraici”, spesso pervertiti inchiave integralista, mentre la sinistra invocaquelli della democrazia liberale. Ciò rimandaalla questione spinosa e irrisolta della natura diIsraele come Stato ebraico e democratico, co-me assicurare che Israele sia “lo Stato degliebrei” ma anche una democrazia per tutti i suoicittadini, inclusi gli arabi e gli immigrati dapaesi sottosviluppati che soffrono di disparitàacute nell’istruzione, nell’allocazione dellaterra per abitazioni, nel mercato del lavoro.Su Israele, i palestinesi, le prospettive di pace,il dibattito ha oscillato fra la diplomazia e i mo-vimenti della società civile. Domina il pessimi-smo circa la prima perché il governo al poterein Israele, sotto l’influenza della destra annes-sionista e contraria alla soluzione “a due stati”,non propone altro che la difesa dello status quo,la continuazione dell’occupazione e uno statobinazionale dove i palestinesi saranno privi didiritti e ed ebrei ed arabi saranno attanagliati inuna perenne guerra interetnica; perché i palesti-nesi sono deboli, divisi fra Fatah e Hamas,osteggiati dai paesi arabi e incapaci di decide-re; perché manca un mediatore capace di forza-re le parti al compromesso, siano gli Stati Uni-ti nell’era trumpiana, l’Europa in crisi di “disu-nione”, la Russia protettrice del regime sirianoo gli stati arabi potenziali alleati di Israele con-tro l’ISIS e la minaccia iraniana ma esitanti,malgrado l’offerta di pace della Lega araba adIsraele, nel dare ai palestinesi il sostegno eco-nomico e politico necessario per dare robustez-za ad un accordo con Israele. Lo ha ribadito conrealismo amaro Martin Indyck, che fu il nego-ziatore principale a fianco di Kerry nella lungamediazione fra Israele e ANP del 2013-14.Uno spunto importante è venuto in una sessio-ne dedicata ai temi di sicurezza, in cui Com-manders for Israel’s security – che raggruppaex alti ufficiali dell’esercito e dell’intelligence– ha esposto un piano di sicurezza per una so-luzione del conflitto fondata sui due stati. Israe-

le dovrebbe ultimare la costruzione della “bar-riera di sicurezza”, impegnarsi a non costruirenuovi insediamenti al di là di questa, accettarein linea di principio l’offerta di pace della Legaaraba, fissare un orizzonte per il suo ritiro uni-laterale dal resto della Cisgiordania, conservan-do una presenza militare lungo la valle delGiordano per qualche tempo, per essere poirimpiazzata da una forza multinazionale1.Più ottimismo invece nella società civile, cir-ca l’impegno soprattutto delle ONG ad agiredal basso per sostenere forme di convivenzafra i due popoli con l’auspicio che questo pos-sa ridurre la barriera di diffidenza ed ostilità etradursi nel medio periodo in iniziativa politi-ca. Per questo è necessario che l’opposizionein Israele affronti più apertamente temi socia-li (istruzione, disuguaglianza) e non solo laquestione della pace e della guerra, per forma-re un fronte che includa le classi diseredate, imizrachim, gli ultraortodossi, sensibili a que-sti temi ma portati a votare per i partiti delladestra. Fra i palestinesi, alla ricerca di una lea-dership moderna e moderata, in assenza dal2006 di elezioni per il Presidente e il Parla-mento, con un corpo politico diviso in tretronconi – la Cisgiordania, Gerusalemme est eGaza – e, infine, con una sovranità di fatto li-mitata persino nelle zone A e B della Cisgior-dania, mentre nella zona C Israele esercita ilpieno controllo, gli insediamenti si estendonoe l’attività edilizia ed economica dei palesti-nesi è soffocata, molti spingono ad un’azionenon violenta e diffusa di resistenza. Fallite lastrada della trattativa e quella della violenzaterroristica, una leadership alternativa potràformarsi, più tecnocratica – come fu con Sa-lam Fayyad, Primo ministro di Abu Mazenpoi dimessosi – e meno dipendente dall’OLP.

Giorgio Gomel

1 Security first, www.en.cis.org.il

JstreetNegli ultimi giorni di febbraio Jstreet ha riuni-to a Washington nel suo incontro quasi annua-le oltre 3000 partecipanti, un record nei suoiotto anni di esistenza, di cui oltre 1000 stu-denti. Un impegno politico e organizzativoche riflette in parte la reazione veemente al-l’elezione di Trump alla presidenza, il rigettodella xenofobia che ha inquinato la campagnaelettorale, la difesa dei diritti degli immigratie del pluralismo religioso e culturale così ra-dicata nell’ethos degli ebrei americani e l’ap-prensione circa gli atti antisemiti che hannosegnato questi primi mesi del 2017.La forza di Jstreet sta nei numeri e nella vita-lità di un movimento formatosi in antitesi congli organismi ossificati dell’ebraismo ufficialeper lo più pedissequi nel sostegno acritico aigoverni di Israele, vilipeso dagli uni e dagli al-tri come “nemico” di Israele e che invece hasaputo affermarsi e legittimarsi come parteimportante dell’opinione pubblica ebraica infavore di Israele e della pace nella raccolta difondi, nell’azione di lobbying al Congresso,sui media e nelle università. Lo dimostrano inquella sede gli interventi di Sanders, candida-to alle primarie del partito democratico, Kai-ne, candidato vicepresidente con la Clinton,Pelosi, leader della fazione democratica alCongresso, Albright, segretario di stato neglianni clintoniani. Interventi in cui hanno risuo-nato con forza la tradizione di voto ebraico peril partito democratico – il 70 per cento anchenelle elezioni del novembre scorso – e il pre-valere fra gli ebrei americani di un un’opinio-ne progressista su questioni come l’immigra-zione, la giustizia sociale, la separazione frastato e chiesa, i diritti civili delle minoranze.Un rapporto quasi idillico consolidatosi fra gliebrei americani e il loro paese dagli anni ’50del secolo scorso, segnato dalla loro integra-zione nella società americana, dal successo incampo economico, socio-culturale, accademi-co, dal loro impegno nella battaglia contro lediscriminazioni di cui soffrono le altre mino-ranze, rischia di frantumarsi in un’Americachiusa in un nazionalismo aggressivo e retri-vo. In questo senso anche in seno al mondoebraico dissensi e divisioni si fanno più acuti.Mentre alcuni organismi ufficiali (AIPAC,Conference of Presidents), alcuni ebrei vicinialla corte di Trump (Kushner, Miller, l’amba-sciatore designato in Israele Friedman) e Ne-tanyahu difendono l’amministrazione Trump,filoisraeliana ma con componenti antisemite,Jstreet e altri movimenti “liberal”, ma ancheun’organizzazione moderata come la Anti-de-famation League, lo criticano fortemente ecombattono l’ondata di intolleranza verso altrisoggetti deboli o emarginati. Esemplare a que-sto proposito è stata la forte reazione contro ildivieto di ingresso imposto agli immigrati dapaesi musulmani.Anche il rapporto fra ebrei americani e Israelesi farà più complesso e percorso da fratture. Inuna sessione sul tema Dahlia Scheindlin, diMitvim – un think tank israeliano dedito a te-mi di politica estera – e Noa Sattath, donnarabbino e direttrice dell’Israel religious actioncenter del movimento riformato, hanno sotto-lineato la distanza crescente fra le opinioniprevalenti fra gli ebrei americani e quelli israe-liani in materia di democrazia, diritti umani,difesa delle minoranze, pluralismo religioso.Anche in base a indagini condotte dal Pew Re-search Center, mentre per i primi quei valorisono primari, per i secondi sono meno impor-tanti; fra gli israeliani invocare i diritti umaniimplica spesso per riflesso condizionato difen-dere i palestinesi, il “nemico” ingrato e irridu-cibile. In parte è una condizione oggettiva adissociare America o diaspora e Israele su que-sto fronte: nella diaspora gli ebrei sono una mi-noranza e in quanto tale la tutela della demo-crazia e delle identità specie di minoranza so-no per essi una necessità esistenziale; in Israe-le invece gli ebrei sono maggioritari in uno sta-to “ebraico” retto da un governo “ebraico”. Ladestra nazional-religiosa invoca e usa strumen-

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tori

no

lente e scorrette che il Presidente della Co-munità, Dario Disegni, ha sentito il dovere diinviare poi una lettera alla Sindaca ChiaraAppendino per esprimere il suo sconcerto,tanto più grave in quanto alla presentazionepartecipavano ufficialmente i più autorevolirappresentanti della Città, quali il Presidentedel Consiglio Comunale Fabio Versaci su de-lega della Sindaca stessa ed il Vicesindacoprof. Guido Montanari.

Un altro episodio sgradevole, dunque, dopoalcuni altri incidenti emersi nel rapporto trala nuova Amministrazione della Città, uscitadal le urne nel giugno dello scorso anno e laComunità Ebraica.Alcune prese di posizione di questa nuovaAm ministrazione sono state ineleganti, de-precabili, non in linea con la sincera e com-mossa memoria tributata dai rappresentantidelle istituzioni agli eroi della Resistenza edalle vittime della Shoà a cui eravamo abitua-ti noi torinesi.L’8 settembre, per la cerimonia al CimiteroMonumentale nell’anniversario dell’armisti-zio, la Sindaca delegava l’Assessore alloSport, Roberto Finardi, che ricordava, tra lealtre vittime della guerra, anche i componen-ti della Decima Mas, giustificandosi conconsiderazioni quali “Anche chi ha deciso diaderire alla Decima Mas è morto. E si trattadi italiani. E i morti sono tutti uguali". Di-menticava il giovane Assessore allo Sportche, se a tutti i morti dobbiamo rispetto, nontutti gli uomini si comportarono in modouguale. Ci furono le camicie nere, che colla-borarono con i nazisti ad arrestare e deporta-re gli ebrei, e ci furono i partigiani, che com-batterono per riportare in Italia la democraziae la libertà. Il 27 gennaio in Consiglio Comunale, era chia-mato ad introdurre la cerimonia per la Gior-nata della Memoria il giovane Presidente delConsiglio Comunale, Fabio Versaci, che pro-nunciò un discorso improvvisato, non confa-cente alla solennità del momento, in cui l’e-lemento che più aveva colpito il Presidenterisultava essere il freddo patito ad Auschwitzin occasione di un viaggio della Memoria.Sei milioni di persone ammazzate meritava-no un maggior rispetto.Ed ora questa ulteriore deprecabile occasione.Alla lettera del Presidente, la Sindaca ha im-mediatamente risposto, con una lettera lungae articolata, spiegando che i rappresentantidella Città erano lì a portare il saluto dellaMunicipalità alla presentazione del progetto,che la Città non collabora più in via diretta

con la gemellata Municipalità di Gaza daquando l’area è entrata sotto il controllo di-retto di Hamas, mentre le iniziative realizzatenella Città di Gaza possono al massimo bene-ficiare di patrocinio generalmente accordatoad iniziative umanitarie come nel caso in que-stione. Ma soprattutto la Sindaca “si dissocia fer-mamente dalle opinioni di chi paragona lacrisi umanitaria di Gaza ai campi di ster-minio nazisti o di chi definisce in termini dipulizia etnica talune politiche dello Stato diIsraele nei confronti della popolazione pa-lestinese”. E la lettera termina con un invito alla Comu-nità Ebraica a partecipare alla casa comunerappresentata dal Palazzo di Città “sia attra-verso la partecipazione politica che peraltroha già dato a Torino illustri rappresentanti,sia attraverso singole iniziative, progetti oattività culturali che l’Amministrazione Civi-ca sarebbe sempre lieta di poter ascoltare,accogliere, condividere e patrocinare”.E il giorno dopo la Sindaca partecipava allamanifestazione organizzata dalla Comunitàin memoria di Emanuele Artom, pronuncian-do, in Piazzetta Primo Levi, di fronte ai ra-gazzi delle scuole, un discorso bello, convin-to e commosso, di ricordo del partigianoebreo trucidato, e di riflessione sul suo inse-gnamento volto all’impegno e alla responsa-bilità individuale.Tutto a posto dunque? Lo scambio di lettereè stato utile – mi sembra – per l’affermazio-ne di alcuni punti fondamentali, e c’è da au-spicare che per il futuro il rapporto conl’Amministrazione della Città di Torino pro-segua su questa strada.Alle affermazioni dei BDS, bisogna rispon-dere che non sono accettabili le menzogne.che hanno il solo scopo di trasmettere l’odio.“Su tre cose si regge il mondo: verità, giusti-zia, pace” insegnano i nostri Maestri. Tutte etre sono indispensabili. Se non c’è la verità,è impossibile procedere verso la pace. È in-sopportabile sentire falsità come l’afferma-zione che sono stati gli ebrei e non i paesiarabi a rifiutare la spartizione del territorio inuno stato ebraico ed in uno stato palestinese.È insopportabile sentire allusioni a “puliziaetnica” e “lager” per suggerire subdolamen-te l’infamia di Israele che si comporta come inazisti. Ognuno di noi, ognuno per la rispetti-va responsabilità deve fare quanto gli è pos-sibile per bloccare la diffusione di calunnieingiuriose, inveritiere ed in totale e strumen-tale contrasto con la verità dei fatti storici. Con chi diffonde menzogne e odio non cipuò essere nessun dialogo, nessun compro-messo.

Beppe Segre

L’invito si riferiva alla presentazione pressouna prestigiosa sala del Palazzo Municipaledi Torino di un progetto umanitario per la Pa-lestina, da realizzarsi nella Striscia di Gaza,elaborato dall'associazione di volontariato“Oltre il Mare”, e già patrocinato dal Comu-ne di Torino.In realtà del progetto vero e proprio si è par-lato poco e velocemente: si è descritto unvillaggio dove i bambini sono incapaci disorridere, si è ragionato molto sulla bellez-za del titolo, che è “Recuperare il sorriso ela dignità del vivere”, si è dichiarato chenon si chiedono finanziamenti in quanto ilprogetto è già interamente finanziato dallaFondazione “Vittorio Arrigoni” ma che sa-rebbe auspicabile lo sviluppo di iniziativesimilari, per costituire un grande progettounitario, e solo nelle ultime due slides si èandato più nel concreto, accennando ad unminiparco polifunzionale, ed alla distribu-zione di un albero e di un po’ di verde adogni bambino per educarlo alla sacralitàdella terra.Chi non ha dignità è chi opprime tutti i di-ritti, cioè lo Stato di Israele. La causa di tut-te le sofferenze dei bambini palestinesi – siè detto – è Israele, e di fatto l’incontro si ètrasformato in una deprecabile occasioneper false e ingiuriose affermazioni formula-te da esponenti del movimento BDS (Boy-cott, Divestment and Sanctions, campagnaglobale di  boicottaggio, disinvestimento esanzioni contro Israele). Abbiamo sentitoparlare di “pulizia etnica”, di Striscia di Ga-za assediata dal lato del mare ad opera del-la marina militare, da parte del cielo grazieall’uso di droni, e dalla parte della terra, conuna barriera percorsa da corrente elettrica,“come in un lager”. Abbiamo sentito dibambini palestinesi occupati nella raccoltadi cardi selvatici ed uccisi per essersi avvi-cinati alla barriera, di limiti posti alla pescatali da impedire il lavoro dei pescatori, dicentrali elettriche e di impianti di desaliniz-zazione dell’acqua marina distrutti dall’e-sercito israeliano.Abbiamo imparato che la Risoluzione 181del l’Assemblea Generale dell’ONU per laspartizione della Palestina mandataria in dueStati, uno ebraico ed uno palestinese, di fattonon è stata accettata da Israele che pretendedi aver diritto a tutto il territorio per promes-sa divina anche se il leader sionista, Herzl,era notoriamente ateo: ma non erano i paesiarabi che avevano rifiutato il piano di sparti-zione formulato dall’ONU?Le dichiarazioni espresse erano talmente vio-

LA SINDACA SI DISSOCIA

Sotto a sinistra:Abraham Mintchine, natura mortacon cesto di frutta.A destra:Louise Manteau

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stor

iaIl succo dei miei numerosi articoli di questiultimi anni, alcuni dei quali sono stati pubbli-catati dalla stampa ebraica torinese e fiorenti-na, ruota intorno ad un nocciolo di fondo –posto anche come domanda agli ebrei diaspo-rici – che raccoglie tutte le mie argomentazio-ni, le condensa e le tiene unite; esso si sforzadi cercare una risposta a questa domanda: lecomunità ebraiche (se al proprio interno sonoda ritenersi un “gruppo”) hanno acquistato,nei confronti propri, il senso della storia inconseguenza delle tragiche vicende che lehanno attraversate durante il XX secolo (il co-siddetto “secolo breve” per noi ebrei è stato“lungo” e, ancora oggi, tenta di percuoterci)? Ebbene la mia risposta a questo quesito è ne-gativa: avverto la mancanza di questo senso,nonostante – drammatico paradosso – la ric-chezza della nostra tradizione, proveniente dalnostro lunghissimo passato, che ci ha permes-so di sopravvivere; ma questo sopravviverenon è ancora un vivere; e questo capì storica-mente il sionismo, nel suo percorso intellettua-le e politico, dalla fine del secolo XIX, a un se-colo dal periodo della nostra emancipazione(anche se allora non del tutto realizzata). Ebbene a me sembra che storicamente, anco-ra oggi, molti ebrei diasporici non abbiano ca-pito ciò che la Shoah avrebbe dovuto inse-gnare loro: cioè che le modalità provenientidalla nostra tradizione memoriale che aveva-no permesso la nostra sopravvivenza non po-tevano più raggiungere quei risultati che ave-vano conseguito nel lontano passato e cheinedite modalità si sarebbero dovute generareper realizzare non solo modi di sopravviven-za, ma anche – e soprattutto – di vita. Questocapì il movimento sionista e questa è stata lasua storica funzione per noi ebrei, funzionecioè di invertire i rapporti fra memoria e sto-ria: non più ricordare memorialmente la sto-ria, ma storicizzare la nostra memoria: nonpiù ricchi di memoria, ma poveri di storia,ma, all’inverso, ricchi di storia, ricordando sìmemorialmente, ma non, esclusivamente, at-traverso la sola memoria.Inoltre il sionismo delle origini compreseun’altra cosa: che solo la soluzione territoria-le nella terra avìta poteva risolvere il conflit-to, irrisolvibile di per sé nella condizione dia-sporica, fra l’esperienza religiosa e quella sto-rica, individuale e collettiva; e gravido diconseguenze tragiche per il destino degli

ebrei europei fu il non avvertire che la sortecollettiva sarebbe stata ben diversa da quellache si poteva presentare individualmente eche l’emancipazione non fu riconosciuta agliebrei collettivamente, ma soltanto individual-mente; e questa fu la nostra – storicamentereale – emancipazione: un’illusione.Ebbene anche oggi questo conflitto fra collet-tività e individualità, fra esperienza religiosa estorica, all’interno del dibattito culturaleebraico diasporico contemporaneo non è an-cora stato pienamente risolto.Tutto qui il senso del mio dire. Concludo, su questo versante, che la nostracondizione è ancora inadeguata perché nellapercezione che abbiamo di noi stessi non riu-sciamo a generare un cambiamento significa-tivo che faccia vedere noi stessi in modo altroda come ci vedevamo, all’interno, e da come,all’esterno, ci vedevano.Oggi ci troviamo di fronte ad una figurazioneaggiuntiva dell’antisemitismo: a quella vec-chia, tradizionale, è seguita una “nuova”:quella antisionista.E noi, in realtà, non ci rendiamo conto che suquesta nuova figurazione antisionista incideun concetto, che non era così pesante e pre-sente in quello, pur terribile, novecentesco:mi riferisco ad un concetto, quello economi-co, presente e crescente dagli ’70-’80 del se-colo passato, che controlla sempre più diret-tamente (senza, cioè, mediazioni politiche),la vita politica degli Stati, particolarmentequelli dell’area finanziariamente ed indu-strialmente più avanzata: quella del mondooccidentale, al quale noi ebrei – non so conquante storiche legittimità – crediamo di ap-partenere.Dobbiamo riconoscere che il mondo occi-dentale è, politicamente, oggi democratica-mente, malato, molto malato.Infatti l’antisemitismo è proprio più diffuso epotenzialmente aggressivo, questa volta, neidue Stati di più lunga tradizione democratica– Gran Bretagna e USA – e non in quei Pae-si europei, come nel passato, “in ritardo” nelloro percorso democratico – quali la Germa-nia, la Russia zarista, poi staliniana e l’Ita-lia – facili prede di esperienze autoritarie etotalitarie. Non ci si rende conto che una democrazia di-pendente da un’economia divenuta semprepiù globalizzata ed imperiale è malata e losta divenendo sempre più cronicamente, unademocrazia che porta solo sulla sua bandiera,ma non nella sua politica reale quei valori –quali giustizia sociale e libertà – per noi ebreielementi decisivi, nel passato, di sopravvi-venza. Eppure è in quei Paesi che oggi il vec-chio e nuovo antisemitismo sta sinistramenterisorgendo.E noi, qui in Italia, ma, ovunque in Europa,ci balocchiamo, quasi fosse un gioco perbambini, ricorrendo, come ancora di aiuto esostegno, alla nostra cultura, come se essapotesse essere valida difesa collettiva alle in-sidie antisemite; non rendendoci pienamenteconto di quanto il concetto più vasto e gene-rale di cultura umanistica sia in grave crisinel mondo occidentale e che le modalità eco-nomiche neoliberiste dell’operare interna-zionale agiscono nella direzione di un’omo-logazione culturale elisiva di ogni diversità edifferenziazione, pur a parole, ma solo a pa-role, riconosciuta e valorizzata. Come ricor-riamo, sempre sul piano strettamente cultu-rale, con insipiente fiducia a fantasiosi dialo-ghi interreligiosi piuttosto che, semmai, adialoghi religiosi più urgenti, intrareligiosi,perché ogni religione monoteistica è indebo-lita dai propri interni fondamentalismi. Ma èquesto modo di operare che, storicamente,

ALCUNE CONSIDERAZIONISUL MOMENTO ATTUALE

dobbiamo apprendere dalla Shoah?Dobbiamo anche fare delle considerazionisullo Stato di Israele.Se è vero che Israele è lo Stato più democra-tico del Medio-Oriente, è anche vero che èdemocratico, sempre più, come sono demo-cratici gli Stati occidentali dell’Europa e del -l’America, per me in profonda crisi politica.Per anni ho seguito la regola di distinguerel’esistenza dello Stato ebraico, da difenderecomunque, dal governo che lo guida: la pri-ma, duratura; il secondo, da difendere, macon maggiore vigilanza critica, perché, buo-no o cattivo che sia, è, come ogni governo,effimero. Ma oggi, quasi ininterrottamente dal 1977,dal primo governo del Likud, governi di de-stra alleati coi partiti religiosi e nazionalisti,alcuni sempre più oltranzisti, incidono trop-po a lungo, col loro modo di fare politica, an-che sull’esistenza di Israele come Stato. Nonè ancora chiaro quale sarà la politica diTrump nello scacchiere mediorientale:avver-to però che Netanyahu conta molto sulla suaamicizia personale con Trump il che non si-gnifica riconoscere ancora una reale conti-nuità, seguita per decenni dagli USA, nellapolitica estera americana. Ebbene per me resta sempre più difficile farequella distinzione, tra Stato e Governo, chefinora era stato il mio orientamento; difficil-mente potrei accettare, poi, che nella la poli-tica israeliana crescesse il peso dei desideratadei partiti maggiormente fondamentalisti. In-somma le cose dovranno mutare anche inIsraele e una diversa opposizione dovrà na-scere nel Paese. E noi, piccole diaspore, dob-biamo sì proseguire nel fare una politica gio-vanile che spinga all’aliah (cosa che già stia-mo facendo), ma essere sempre più attenti an-che all’operare politico del governo israelia-no, non sempre vedendolo a senso unico. Nonè più possibile che le diaspore minori debba-no sempre allinearsi sull’agire dei governiisraeliani. E questo perché, proprio per il nuo-vo tipo di antisemitismo, la nostra condizionediasporica dipenderà sempre di più dalla vitapolitica israeliana; se è sempre vera l’affer-mazione sionista israeliana che la presenzapolitica degli ebrei è legittima soltanto inIsraele, è anche vero, e sempre più urgente,che Israele riconosca che la diaspora è anco-ra indispensabile per la sua politica e quindi ipareri di questa devono avere un peso diver-so da quello ritenuto nei decenni passati; e, inparticolare, le diaspore europee, ora che quel-la americana si trova in condizioni di diffi-coltà non previste dalle situazioni precedenti. Noi ebrei diasporici, europei in sintesi, do-vremo operare, superando divergenze politi-che ideologiche e ridicole divisioni fra laicied osservanti per far risanare in Europa, negliUSA e in Israele, una politica democratica:compito difficile, ma non impossibile; altri-menti alle porte ci attende una terza guerramondiale, come conseguenza della tossica di-pendenza della politica dall’economia senzaregole; ma questa guerra sarebbe veramentel’ultima; le decisioni che prenderanno i go-verni saranno di enorme responsabilità, ma ledifficoltà potranno essere superabili solo se igoverni si troveranno in maggiore salute. Questo risanamento è, prioritariamente, in-dispensabile ed urgente.

Alfredo Caro

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la durata dell’epoca fascista.Per questo motivo, fu istituito in tempo debitoun comitato di “patronesse”, signore di fami-glie abbienti dell’ebraismo romano – in molticasi, erano le mogli dei consiglieri –, che pro-muovessero la raccolta di offerte e donazioni.Quasi contemporaneamente, emerse la preoc-cupazione di ottenere visibilità sulla stampaebraica, una grande intuizione per l’epoca, perportare avanti con successo la missione. L’Istituto in sé attribuì grande importanza al -l’istruzione e all’educazione ebraica, oltre cheal benessere reale e quotidiano dei bambini.Includeva tra le altre priorità la qualità e la di-versificazione della loro nutrizione. In generale, dai verbali e merge una gestioneattenta e di ampie vedute, per quel periodo:non da ultima, la preoccupazione che al fiancodella presa a carico dei maschietti, l’accudi-mento degli orfani dovesse includere le bam-bine al più presto. L’attenzione a proteggere ibambini, a non lasciare nessuno indietro, com-portava lo sforzo di coordinamento tra istitutidi diverse città, univocamente impegnati a fa-vore dell’educazione ebraica dei giovani “or-fani e non”: includeva bambini nati in dram-matiche realtà del dopoguerra, da nuclei fami-liari per i quali l’orfanotrofio fu un punto di ri-ferimento e d’aiuto. Vi sono le testimonianze di due ospiti in par-ticolare che passarono da Torino a Roma du-rante la seconda guerra mondiale e nel se-condo dopoguerra. Tra questi, è menzionatoFranco Cesana per il suo breve passaggio alPitigliani, “una delle più giovani vittime tra ipartigiani italiani”. E Corinna Varon che ar-rivò a Roma per la sua richiesta di ricon-giungimento con un fratello. Analogamente,ci furono passaggi da Roma a Torino, comenel caso di Angelo Spizzichino, romano d’o-rigine, collocato a Torino, per poi essere riav-vicinato alla famiglia d’origine a Roma. Fusoprannominato “il torinese”.I verbali riportano pochissimi accenni alla se-conda guerra mondiale e a quanto accadevafuori dall’Istituto, nonostante la storia del Pi-tigliani corresse in parallelo alla storia nazio-nale, a quella della città di Roma e alla storiadell’ebraismo italiano – con l’accoglienza deiprofughi dalla Francia nel 1943 e dalla Libianel 1967. Cavalcò quasi l’intero secolo, dallasua fondazione fino al 1972, con l’arrivo diRoberto Spizzichino alla presidenza. Merita riflessione che questa storia fu co-

munque il riflesso della complessa storia diquesto paese, con le sue istituzioni ancora incostruzione, a trent’anni appena dalla con-quista di Roma diventata capitale d’Italia.L’ebraismo italiano compie in questi annipassi importanti per perfezionare la propriaemancipazione, iniziata parallelamente al Ri-sorgimento italiano.

Daniela Vaturi

[email protected]

Una storia documentata, quella del CentroEbraico Italiano “Il Pitigliani”, che raccogliefatti e testimonianze attraverso un centinaiod’interviste, per rilevare eventi, aneddoti, rac-conti di persone e di famiglie. Collettivamen-te costituiscono la memoria di una comunità.Questa a sua volta si fonde nella trama piùampia della storia nazionale. Non può che su-scitare curiosità e interesse la lettura del libroche riporta in modo accurato e vivace quasiun secolo di storia, nato da un progetto diAmbra Tedeschi, curato da Micaela Procac-cia, con la collaborazione di Noemi AngelinaProcaccia e Sandra Terracina.L’assistenza agli orfani è stata tenuta in grandeconsiderazione dalle comunità ebraiche italia-ne nei primi anni del secolo. In quest’e poca,infatti, il problema degli orfani, con la primaguerra mondiale, si espande a livello europeo,come è documentato dalla stampa ebraica. In mancanza di un vero coordinamento gene-rale tra le comunità italiane, ne Il VessilloIsraelitico se ne discute, attribuendo grandeimportanza a un’adeguata integrazione dei ra-gazzi, in un paese recentemente unificato epieno di diversità, per abitudini, climi, diffe-renze di linguaggio tra una regione e l’altra. L’apertura dell’Orfanotrofio Israelitico Ita-liano a Roma – quasi in concomitanza conquello di via Orto Botanico a Torino – in unasede nuova, ampia e salubre, sollevò dibatti-ti e scambi sull’opportunità che ve ne fosse-ro più di uno sul territorio del paese. Tuttaviala centralità “nazionale” dell’Istituto di Ro-ma, insieme a quello di Torino – rispetto aquelli di Firenze e Livorno – va affermando-si proprio in questi anni. L’Orfanotrofio Israelitico Italiano, sorto pervolontà dei signori Giorgio Levi e della mo-glie Xenia Poliakoff Levi nel 1902, prenderàil nome dei signori Giuseppe e Violante Piti-gliani solo nel 1930, una volta diventato uf-ficialmente ente morale, dal 1917. L’autofinanziamento e la sostenibilità del -l’Istituto sin dall’inizio, voluta dai suoi fon-datori Levi-Poliakoff, giocò decisamente asuo favore. L’Istituto si dimostrerà rapidamente efficaceda un punto di vista pragmatico e della sussi-stenza. Raccolse sin dall’inizio numerosi do-natori, per una comunità non proprio ricca, inprevisione di chiedere aiuti al governo, comespettava agli enti morali. Gli stessi sussidi con-cessi inizialmente, furono poi negati, per tutta

LA STORIA DEL PITIGLIANICENTRO EBRAICO ITALIANO“Una storia nel secolo breve”

Saggio ginnico1936-37

“Alcuni libri vanno assaggiati, altridivorati e alcuni, rari, masticati

e digeriti” Francis Bacon

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La libreria ideale dove incontrarsi, leggere,degustare le nostre specialità sempre circondatidal calore dei libri

da martedì a sabato 10:00 - 22:00domenica 10:00 - 19:30 / lunedì chiuso

Vasto assortimento di libri di narrativa e saggisticacon possibilità di ordinare titoli anche via e-mail([email protected])

Per essere informati sulle nostre attività potete passare a trovarcioppure lasciare la vostra e-mail sul sito www.bardotto.com

Angelina Procaccia, Sandra Terracina,Ambra Tedeschi, Una storia nel secolobreve, L’orfanotrofio israelitico italianoGiuseppe e Violante Pitigliani (Roma1902-1972), Con DVD video. A cura diM. Procaccia, Giuntina, 2017, pp. 748

Precisazione e scuse

L’articolo di Fausta Carli Finzi intitolato …Percorso a tappe pubbli-cato sul numero scorso di Ha Keillah era stato espressamente richiestoda noi, perché la testimonianza di una maestra che accompagna le per-sone verso le conversioni costituisce un utile completamento del qua-dro prospettato dal l’articolo di Edoardo Fuchs pubblicato a fianco. Ciòera stato precisato nel cappello redazionale che precedeva l’interventodi Fuchs perché, così come evidenziato anche dall’impaginazione edalla scelta dei titoli, avevamo trattato i due articoli come un discorsounitario, dando per scontato che sarebbero stati letti insieme. Se inve-ce da questa scelta redazionale non è risultato sufficientemente chiaroche la testimonianza era stata richiesta da noi, e che quindi ovviamen-te la consideriamo utile e preziosa, ce ne scusiamo con i lettori e conFausta Carli Finzi, che ringraziamo ancora per la sua disponibilità acondividere con noi la sua esperienza.

HK

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occhi di un bambino divertito e curioso, viag-gio che finisce tragicamente nel nulla; un in-contro severo e allusivo prima del padre e poidel figlio nel dopo guerra con un grande diret-tore d’orchestra compromesso col nazismo; lasepoltura, di una vecchia zia, nel cimiteroebraico di Torino, che è una grottesca, allegraavventura, si direbbe del tutto realistica, chenon potrà non divertire la nostra Keillah per ilritratto di un rabbino intransigente guardianodelle regole e un dolcissimo Isacco, evangeli-co interprete dell’ebraismo; un 25 aprile 1945prematuro per una lettura distorta del codiceche ordina l’insurrezione, con conseguenzeesilaranti; un comizio fascista dove Zarganiviene salvato dall’intervento provvidenzialedella polizia. Ma lascio al lettore il piaceredella scoperta di un libro tutto autobiografico,ma tutto trasbordante la biografia.Ed è sovente l’occhio di un bambino dalla me-moria prodigiosa e infallibile a guardare ilmondo, nonostante tutto favoloso, in cui luivive da paria, con la presenza di un padre im-portante, sognatore, impetuoso, generoso, in-fantile, sprovveduto e di una madre saggia.Ma uno dei temi che percorre tutto il libro èquello della memoria ebraica e del suo rap-porto con la storia. Un grande storico france-se, P. Vidal Naquet, scriveva che la memoriaè da molto tempo uno dei tratti fondamentalidel rapporto degli ebrei col mondo, mentreper F. Rosenzweig una categoria fondamenta-le per comprendere il giudaismo è il suo ri-fiuto della dimensione storica. L’ossessionedella memoria è stata una costante dell’ebrai-smo; diceva J.H Yerushalmi che la parolazakhor ricorre nella Bibbia non meno di 160volte. Si leggono le pagine di destra della sto-ria cioè quelle già chiuse. Gli ultimi difenso-ri del ghetto di Varsavia seppellirono le loromemorie perché fossero ritrovate. Ora con la nascita dello Stato d’Israele siamoentrati necessariamente nella storia e fior distorici sono nati in quello stato, ma qui siamoancora in una narrazione diasporica, e mi pa-re che In bilico sta ancora dentro quel solcodella memoria ebraica che si presenta comeun pensiero che elabora il punto di vista diuna minoranza dove è preminente la parte sultutto, il soggetto rispetto al dato, il personalesull’impersonale, dove la storia è tradotta inmemoria e l’evento in strutture mentali e dicomportamento.Così Zargani appartiene ad una letteratura cheè una forma di pensiero con un suo compitoconoscitivo, in cui si traduce lo spirito deltempo e il senso di un’epoca. Ora scrivere con questa prospettiva non èmerito da poco.

Emilio Jona

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libri

ché oggi non ci sono più dei colpevoli e degliinnocenti, in quanto tutti sono stati cancellatidal tempo, e l’infamia si è trasferita dentro al-le irresponsabili generazioni future.Io non so se quel pianto sia realmente acca-duto o stia nell’immaginario di Zargani o del-la vecchia signora, ma esso appare nel rac-conto come la sua perfetta conclusione, unaconclusione che apre a tante letture sulla na-tura della Shoah: sulla distinzione tra bene emale, su come il male possa albergare simul-taneamente e contraddittoriamente nella stes-sa persona, e anche in quella innocente; comeil senso di colpa possa esistere, slegato da unacolpa propria ed essere incorporato nei cro-mosomi e nei caratteri genetici di un’altra ge-nerazione ed è questa sopravvivenza a indi-carci l’eternità di Auschwitz.Partecipe alla profondità del racconto la leg-gerezza della scrittura, nel senso che gli attri-buisce Calvino nelle sue celebri lezioni ame-ricane; c’è in questo racconto una sottrazionedi peso nell’uso della parola, anche quandoessa ha di fronte l’opacità del mondo e la suaspietata energia. Per dare un senso a questaleggerezza anche nel trattare vicende gravi,collettive e individuali, Calvino citava Per-seo che vince e uccide Medusa guardandolanello specchio e padroneggia il suo volto tre-mendo tenendola nascosta e tirandola fuoriper rendere di sasso i nemici.Questo rifiuto di una visione diretta non è unrifiuto della realtà, ma l’uso di un percorsotangenziale per rappresentarla. La leggerezzaappare qui come una reazione all’ineluttabilepesantezza del vivere una storia come quelladella Shoah, e non è una fuga da questa col-pa ma una sua evocazione insieme fulminea,lieve eppur profonda.Gli altri racconti stanno ai margini e sugli esi-ti della condizione particolare dell’essereebreo in bilico per la sua storia e la catastrofenovecentesca che lo ha investito, ma vivonosempre in quest’aura ironica, lieve e parados-sale che evita il peso della materia che cischiaccia: un viaggio a Lugano dell’intera fa-miglia nell’oscuro autunno 1939 alla ricercadi un lavoro del padre, già prima viola dal -l’orchestra della radio di Torino, visto con gli

In bilicoAldo Zargani è legato per noi a un libro indi-menticabile, Per violino solo. La mia infanzianell’aldiqua, un libro struggente, nutrito diumorismo raro nelle nostre lettere, tragico edelizioso, che ha avuto un successo che ha va-licato le frontiere del nostro paese.In Bilico (noi gli ebrei e anche gli altri), Mar-silio 2017, sta in parte nei suoi immediati din-torni e in parte si allontana perché lascia l’in-fanzia e ci introduce nelle storie da adulto del-l’autore. Per entrare in questo suo mondo nul-la di meglio che partire dal suo microcosmo,un brevissimo racconto che s’intitola “Berli-nesi”, che quindi pubblichiamo.La prima parola che mi viene per definire isentimenti che mi ha suscitato è commozione,una commozione che apre a un grumo dioscurità e insieme a lampi di comprensionenon razionale. Tutto è raccontato per bene inun ottimo italiano narrativo, sino a quello fi-nale folgorante (probabile stravolta remini-scenza deamicisiana), che apre sul passato inuna sorta di ossimoro che oppone l’infamia alpianto, ma insieme lo genera. Ma come pos-sono essere infami quattro innocenti? E comeun infame può piangere la sua infamia?La parola infamia raduna etimologicamenteun coacervo di attributi negativi: turpitudine,malvagità, scelleratezza, indegnità, perversità,corruzione, che ben connotano nazismo eShoah, perché sono essi che stanno al fondodel racconto.Ma a quel fondo si arriva parlando d’altrodiscorsivamente, leggermente, tangenzial-mente.C’è una vecchia signora berlinese che dal1945 non usa più deliberatamente la sua lin-gua ed è una presenza enigmatica, per la fa-migliola tedesca berlinese; di essa sappiamosolo che parla fitto e allegro ed è curiosa perquell’essere solitario e silenzioso che certa-mente conosce la lingua tedesca.La vecchia signora è dolorante per questa ap-partenenza che rifiuta, e sarà severa con i suoiconnazionali, ma l’infamia che attribuirà loronon potrà non riguardarla personalmente per-

Aldo Zargani, In Bilico (noi gli ebrei eanche gli altri), Marsilio, 2017, pp. 192,€ 16

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BerlinesiVive in tre stanze della vecchia Milano un’an tica signora, alta, diafana e bella, profilo dicammeo e figura sottile. È tedesca di Berlino, ma dal 1945 si rifiuta, come mite vendetta, diparlare la sua lingua natale, pur conservando in questi lunghissimi anni una spiccata caden-za berlinese. È inflessibile, non racconta mai le sue esperienze e non vuole neppure sentirparlare della sua maledetta Germania. Un giorno mi fece questo strano racconto:“Mi trovavo in villeggiatura al mare, credo che fosse all’isola del Giglio, oh! Che bellissi-mo posto! E prendevo i pasti di fronte a un’immensa specchiera con la cornice dorata che ri-fletteva, inclinata, la grande sala piena di sole e signori allegri e spensierati. Ach! Purtroppoanche turisti tedeschi, Quattro di loro, credo padre, madre e due figlie grandicelle, quasi si-gnorine, forse graziose, ma non so, sedevano proprio accanto al mio tavolo solitario.Parlavano fitto fitto e allegri nel loro dialetto berlinese che tu, per fortuna, non conosceraimai, ogni tanto guardavano me sola al tavolo perché, mistero delle lingue e della psicheumana, capivano che capivo. E io invece ero muta e paralizzata come una sfinge, atteggia-mento che non mi è difficile, come sai bene anche tu …Più passavano i giorni più mi osservavano incuriositi: uno diceva una battuta nella loro or-ribile parlata e poi subito tutti e quattro, coltello e forchetta in mano e boccone mezzo in boc-ca, mezzo no, guardavano me. E io gli facevo Hammurabi. Di pietra.Siamo andati così “splendidamente” fino al decimo giorno, quando loro dovevano ripartireper la loro maledetta città, e in quel momento – era cena mi ricordo, le tende che volavanoper la dolce brezza del mare – si sono alzati tutti e quattro d’improvviso e sono venuti da-vanti me: alla fine è successo! Dovevo aspettarmelo!Non chiedermi di raccontare il mio atteggiamento in quell’incidente, perché non ho paroleper lo spavento e ho ancora il batticuore.Sono venuti al mio tavolo con due passi, perché tanti ne bastavano, mi hanno circondata, eil capo di quella famigliola (famigliola, hai visto come mi migliora l’italiano?) mi ha dettosorridendo – sorridevano tutti e quattro sai? – in dialetto berlinese “Ma infine ce lo confes-si, signora, ce lo confessi, ci dica chi è. Le ragazze affermano che lei è la principessa Ana-stasia. Ci dica: hanno ragione loro?”Senza alzare il mio sguardo dal piatto ho risposto nel loro insopportabile dialetto: “Non so-no principessa, non sono Anastasia, sono di Berlino come voi, ma anche di Terezin, Au-schwitz e Bergen-Belsen. Prego tornate al vostro tavolo”.E quando per forza ho alzato gli occhi e li ho visti tutti seduti, mi sono accorta di una cosatremenda: lo sai cosa facevano quelli là? Neppure puoi immaginare. Quegli infami piange-vano”.

Aldo Zargani, In bilico, pagg. 43-44

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Vignetta di Davì

antica ascendenza iberica; ebrei livornesi an-che essi di origine iberica, cittadini italiani.Gli ebrei frequentavano le scuole italiana efrancese, e – cosa singolare – anche dopo leleggi razziali Boccara ha potuto completarele elementari nella scuola italiana.Interessanti, e amare, le considerazioni suirapporti tra gli ebrei di cittadinanza italiana ei francesi (ebrei e non): essi erano considera-ti dei traditori per la “pugnalata alle spalle”con la dichiarazione di guerra alla Francia,già occupata dalle truppe tedesche, nel giu-gno 1940, e ciò senza considerare da partefrancese che gli ebrei in Italia fossero perse-guitati, e non potessero quindi essere corre-sponsabili del governo fascista. Elia Boccara racconta le vicissitudini degliebrei tunisini in generale e della sua famigliain particolare durante il conflitto, con l’occu-pazione italo tedesca, con il provvidenziale e

Elia Boccara racconta i primi trent’anni dellasua vita (circa tra il 1930 e il 1960), anni se-gnati dal suo essere nato (e vissuto fino ai 18anni) a Tunisi da una famiglia livornese di ori-gine portoghese, che aveva mantenuto orgo-gliosamente la cittadinanza italiana. Boccara laprende da lontano, e ci intrattiene nei primi ca-pitoli con la storia delle famiglie, tutte di origi-ne iberica, che per vie di matrimoni si sono in-trecciate con la sua: dalle nonne Valensi e Cat-tan, risalendo e discendendo per le genealogie,ai Moreno, ai Cardoso, agli Errera; ad un certopunto l’autore, venendoci in aiuto, scrive: “Illettore si sentirà disorientato da questo dedalodi parentele: mi si creda sulla parola!”.A Tunisi la popolazione ebraica era moltovaria: ebrei tunisini da tempo immemorabile,indigeni contrapposti agli indigeni musulma-ni; ebrei tunisini naturalizzati francesi; ebreifrancesi immigrati da Francia o Algeria di

UN EBREO LIVORNESE A TUNISI

Elia Boccara, Un ebreo livornese a Tu-nisi – Affetti trovati e perduti tra Tuni-si, Italia e Israele, Ed. Giuntina, 2016,€ 15

RassegnaMoseh Zacuto – a cura di Michela An-dreatta – L’Inferno allestito. Poema di unrabbino del Seicento sull’oltretomba dei mal-vagi – Ed. Bompiani – 2016 (pp. 221 – € 20)Testo ebraico vocalizzato a fronte per una per-fetta fruizione di quest’opera singolare, strut-turalmente affine all’Inferno dantesco, in unconnubio stilistico e contenutistico tra ebrai-smo e cristianesimo, tra cabbalà e umanesimo.Poema in versi destinato alla lettura individua-le o forse anche a quella pubblica e alla rap-presentazione teatrale. Parafrasando nel titoloil Shulhan Aruk (Mensa apparecchiata), que-sto Tofeth Aruk presenta lo scenario che atten-de le anime dei peccatori e il racconto di unmorto risvegliatosi dalla Ghehenna viene inte-grato dalla requisitoria di un demone: severomonito agli umani affinché non cedano alledebolezze del peccato. Metaforico viaggionelle bolge a fini didascalici e religiosi, conl’invito ad ammettere le proprie colpe nell’ac-cettazione della punizione quale manifestazio-ne della volontà divina. (s)Sabine Mayr, Joachim Innerhofer – Quan-do la patria uccide. Storie ritrovate di fami-glie ebraiche in Alto Adige – a cura di Mu-seo Ebraico di Merano – Ed. Raetia – 2017(pp. 543 – € 24,90) Corposo saggio di ricercastorica in ambito regionale altoatesino nellatraduzione italiana dall’originale tedesco. L’o-biettivo è quello di rendere noto il destino acui 150 persone, da sudditi onesti operosi e in-dustriosi, sono diventate vittime perseguitate,espropriate, cacciate e sterminate. (s)Fatina Sed – Biografia di una vita in più –a cura di Anna Segre e Fabiana Disegni –Ed. Lit. – 2017 (pp. 92 – € 13,50) L’indici-bile trova finalmente le parole nel sempliceracconto, destinato alle figlie, in cui FatinaSed fornisce una ulteriore tessera al mosaicodell’orrore. Le ricadute sulla seconda e terzagenerazione si abbattono su vittime inconsceche, fino ad ora, non sono state calcolate nelcomputo generale della Shoah ma che glipsicoterapeuti si trovano sempre più spessodi fronte. (s)Silvano Petrosino – Emmanuel Levinas –Ed. Feltrinelli – 2017 (pp. 119 – € 12) Ana-lisi del pensiero del filosofo lituano, ebreo,francese, sviluppata appunto per chiarire l’i-dentità e la qualità /entità del rapporto tra lesue molteplici anime e la chiave della sua ri-flessione filosofica. Fatto conoscere dal corre-ligionario Derrida, Levinas afferma tra l’altro:“la Bibbia … non è un libro che ci conduceverso il mistero di Dio, ma verso i compiti del-l’uomo. Il monoteismo è umanesimo…”aprendo così la strada a profonde perplessità ea riflessioni su etica e conoscenza. (s)Renato Assin – Il Nilo non finisce nel mare– Ed. Alter Ego – 2016 (pp. 202 – € 14) Ti-

tolo significativo ad indicare il rovesciamen-to della situazione geo-politica mediorienta-le allo scoppio della Guerra dei Sei Giorni,quando Israele accerchiato anticipò l’attaccoe distrusse al suolo la temibile aviazione egi-ziana. Attorno al fatto storico si intreccianovite e accadimenti schematicamente roman-zati in una struttura semplice quanto inecce-pibile. Di grande interesse lo spaccato di vi-ta degli ebrei in Egitto prima dell’avvento eall’avvento di Nasser. (s)Emanuel Bergmann – L’incantesimo – Ed.La nave di Teseo – 2017 (pp. 381 – € 18) Lafascinazione per la magia accomuna due per-sonaggi provenienti da mondi lontani tra lorofino a farli incontrare. L’ebraismo dell’Europaorientale, con la sua terribile storia, trasferitonegli USA sembra assumere connotazioni di-verse, ma non poi troppo. Un’idea originaleper trattare un argomento di cui sembra si siagià detto tutto… Un romanzo di formazioneper il figlio del rabbino, il punto su magia/illu-sionismo/mentalismo non così avulsi da nu-merologia e cabala, il rapporto tra un adole-scente spaesato e un vecchio… molteplici so-no le trame e scorrevole il racconto. (s)Aharon Appelfeld – Il partigiano Edmond –Ed. Ugo Guanda – 2017 (pp. 332 – € 19)Nuovo romanzo come i precedenti parzial-mente autobiografico. Vi si narra di un grup-po di combattenti ebrei nelle foreste polaccheimpegnati a sopravvivere, a soccorrere gliscampati e a sferrare attacchi di disturbo ainazisti. Ma sopra ogni altra cosa Appenfeldinsiste sul recupero dell’umanità, cancellatadalla barbarie e sull’identità ebraica in perso-ne che vi si riconobbero solamente a frontedella bieca contabilità demografica dello ster-minio. Atei, agnostici, sionisti talmudisti, ca-balisti, ortodossi, comunisti o semplicementeassimilati si ritrovano nella speranza della co- (segue a pag. 18)

tempestivo arrivo degli alleati, e con il com-portamento vessatorio tenuto dopo la libera-zione nei confronti degli italiani, ebrei e nonebrei, dai francesi: esclusione dalle cariche edai posti di lavoro, spoliazione dei beni,chiusura delle scuole italiane. Nei capitoli successivi la cronaca si separadalla Storia: il libro prosegue con i ricordidel Lycée Carnot a Tunisi, degli studi uni-versitari in Italia, del lavoro, degli amici, deicompagni di studio, dei professori, di incontridi viaggio, del forzato ritorno a Tunisi e delrientro definitivo in Italia.

Paola De Benedetti

mune salvezza in terra d’Israele. (s)Eric H. Cline – Gerusalemme assediata.Dall’antica Canaan allo Stato d’Israele –Ed. Bollati Boringhieri – 2017 (pp. 421 – €26) “Città della pace” “Città santa” “Città d’o-ro, d’argento e di luce” molti sono gli appella-tivi di questa città da sempre contesa per mo-tivazioni spirituali e simboliche… non certostrategiche. In questo corposo saggio il passa-to si interseca con il presente in una visionequasi atemporale del luogo in cui, attraverso imillenni, “il passato continua a ripetersi ”. (s)Maurizio Molinari, Amedeo Osti Guerraz-zi – Duello nel ghetto. La sfida di un ebreocontro le bande nazifasciste nella Roma oc-cupata – Ed. Rizzoli – 2017 (pp. 265 – € 20)Nel microcosmo di varia umanità racchiusanel ghetto si staglia la figura del Moretto. Ilcoraggio di un individuo che non concepiscela resa e, ricorrendo a qualsiasi mezzo, ingag-gia una rischiosissima resistenza con il nemi-co. Impresa epica, oggetto di ricostruzione ac-curata quanto di una narrazione scorrevole egodibile, nel mettere in luce situazioni e com-portamenti non ancora conosciuti. (s)Amos Oz – Tocca l’acqua, tocca il vento –Ed. Feltrinelli – 2017 (pp. 197 – € 16) Unastoria sostanzialmente d’amore offre spuntoper tornare sugli sconvolgimenti prodottidalla seconda guerra mondiale, nella fatti-specie sugli ebrei fortunosamente sopravvis-suti. La necessità di fuggire dall’Europa stra-volta porta ad est, verso la Russia sovietica,e a sud verso la Palestina, non ancora statoebraico ma approdo fisico e ideologico permolti. Lo stile di questo particolare romanzoalterna elementi di realismo magico a delica-te pagine di poesia naturalistica. (s)Elena Lappin – In che lingua sogno? – Ed.

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libri

Einaudi – 2017 (pp. 299 – € 20) Questionepuramente linguistica oppure profondamenteidentitaria? Il patrimonio culturale accumula-to nel corso di una vita trascorsa in vari paesiha prodotto una personalità così cosmopolitae poliglotta da renderla quasi a rischio dismarrimento identitario. Un mémoir per ritro-varsi e per redigere, con passione tipicamen-te ebraica, la genealogia familiare altrimentiframmentata e dispersa. (s)Stella Bolaffi Benuzzi – Ridammi la vita. DaiSalmi di Davide a una visione etica contem-poranea – Ed. Salomone Belforte&C – 2017(pp. 241 – € 20) Psicanalista freudiana “fiori-ta nell’inverno dei suoi ottant’anni”, StellaBolaffi, figlia del comandante partigiano Giu-lio (Laghi) e nipote del fondatore dell’omoni-ma ditta filatelica, interpreta, in chiave moder-na, un testo antico quanto attuale. Il suo ap-proccio, forte di studi ebraici e di prolungate esignificative esperienze professionali, si avva-le anche degli illuminanti colloqui con il car-dinale Martini e con il rabbino Laras. (s)Walter Benjamin, Gershom Sholem – Lin-guaggio – a cura di Tamara Tagliacozzo –Ed. Mimesis – 2016 (pp. 119 – € 20) Studio-sa del pensiero di Benjamin, specie in materiadi messianesimo, musica e riflessione teologi-co-politica, T. Tagliacozzo dedica la presenteraccolta ad approfondire l’analisi delle teorieelaborate dai due pensatori in materia di lin-guaggio (come comunicazione), cabbalà, nu-merologia e dell’arduo problema della tradu-zione in tedesco dallo yiddish. (s)Massimo Giuliani – La filosofia ebraica –ed. La Scuola – 2017 (pp. 295 – € 17,50)“Ciò che sta tra Gerusalemme e Atene è filo-sofia ebraica”. In un sintetico ma illuminanteexcursus storico-cronologico si analizza qualisiano stati gli apporti offerti in ogni epoca daipensatori ebrei al cammino dell’uomo nella ri-cerca della verità e dell’assoluto. (s) Eshkol Nevo – Tre piani – Ed. Neri Pozza –2017 (pp. 255 – € 17) Storie di condominiodiverse dallo stereotipo corrente di meschineripicche e litigiosità: i residenti nella palazzinaborghese hanno incontri casuali e ciascuno èportatore di un suo mondo complesso e dolen-te. Un romanzo oppure tre racconti? Variaumanità la cui narrazione è strutturata su basedialogica in cui però l’interlocutore è assente ela “confessione” viene raccolta dal lettore. (s)Marco Belpoliti – La prova. Un viaggionel l’Est Europa sulle tracce di Primo Levi –Ed. Guanda – 2017 (pp. 214 – € 14) Untaccuino di viaggio che si snoda lungo il per-corso seguito da Primo Levi nel viaggio dirimpatrio attraverso la Bielorussia, l’Ucrai-na, la Romania, l’Ungheria e l’Austria de-scritto nel suo libro La tregua, con lo scopoprecipuo di trarne un film. Il libro, arricchitodi disegni e fotografie, ha tutti i pregi e i di-fetti dei taccuini di viaggio e piacerà moltoagli amanti del genere. (e)Edith Bruck – La rondine sul termosifone –Ed. La nave di Teseo – 2017 (pp. 140 – €16) La storia dolorosa di una donna – già tan-to provata dalla vita con la deportazione neicampi nazisti – e di una scrittrice che raccon-ta il calvario del suo accompagnare alla finedella vita il marito, un acclamato poeta e re-

gista, “il mio travaglio con il parto di un vec-chio bambino di cui sono diventata madre,moglie sorella, infermiera, medico, prigionie-ra, memoria, con la pazienza di Giobbe a fa-re la fatica di Sisifo”. Lettura tormentosa maintensa e coinvolgente. (e)Massimiliano Boni –Il museo delle penulti-me cose – Ed. 66THA2ND – 2017 (pp. 373 –€ 18) “Un’opera di fantasia” – dice l’autore –“ma, per scriverlo, ho costantemente pensato atutti gli uomini, le donne i bambini che sonostati davvero ingoiati dalla Shoah”. In effetti èun romanzo “quasi giallo” che affronta in ma-niera originale il problema della lotta per con-servare la memoria della Shoah nel momentoin cui ne scompaiono gli ultimi testimoni, si-tuato in un futuro (il 2030) in un’Italia ancorapercorsa da un’inquietante deriva antisemiti-ca. Una lettura che consente di superare il con-venzionalismo che ormai spesso insidia ilgiorno della memoria istituzionalizzato. (e)Telma Eligon Roz (a cura di) – Il mare diGerusalemme. 18 scrittori israeliani raccon-tano – Ed. Stampa Alternativa Banda Aper-ta – 2017 (pp. 293 – € 18) Ofra Eligon, gior-nalista e scrittrice israeliana, nata a Varsavia,immigrata in Israele nel 1933, morta nel 2012,ha lasciato 1500 racconti brevi. Per onorarnela memoria, la figlia Thelma Eligon-Roz le haintitolato un corso di scrittura e pubblica rac-colte di racconti brevi, come questa antologiache propone, in una varietà di stili e di possi-bilità letterarie, 18 scrittori israeliani il più no-to dei quali in Italia è Eshkol Nevo. I raccontibrevi, come le poesie, normalmente non attira-no il grande pubblico ed è un peccato: “Nellasua forma migliore, il racconto breve invita illettore a tuffarsi senza preamboli e cerimoniein una pozza di acque limpide e profonde e anuotare velocemente verso un varco di narra-tiva uniforme, compatta e conchiusa. La vocedel l’aedo di un racconto breve deve ammaliar-ci con forza e convincerci a crederle. Subito.

Presto. Ora. Il racconto breve consente al let-tore di navigare verso terre lontane senzaprovviste per i tempi lunghi. Ci mettiamo instrada, ci allontaniamo molto ma arriviamo infretta. Anche alla fine della lettura, la formulaserrata del racconto breve rimane saldamenteancorata al cuore del lettore e tende a risve-gliarsi improvvisamente nel lampeggiare di unattimo. Come un sogno dimenticato. E, si sa,che anche il sogno è un breve racconto”. Pro-vate per credere. (e)Filip David – Pellegrini del cielo e della ter-ra – Ed. Lit – 2016 (pp. 154 – € 17,50) L’au-tore, di famiglia ebraica, sfuggito alla perse-cuzione nazista, è uno degli scrittori più notidella letteratura serba contemporanea. Hascritto sia racconti brevi sia romanzi (di cuiquesto è il primo). È un romanzo con struttu-ra ad anello (in cui la situazione iniziale coin-cide con quella finale), il racconto di un viag-gio ricco di avventure in cui è fondamentalel’elemento fantasy, e nel quale compaiono di-versi narratori “di secondo grado”, diversi daquello principale, portatori di storie che arric-chiscono il tessuto narrativo complessivo. Leavventure narrate contengono, tuttavia, mes-saggi che il lettore ha il compito di individua-re e interpretare; messaggi che si rifanno a unpessimismo esistenziale che ha le sue radiciprofonde nel ricordo della Shoah e legato al-la consapevolezza che il male è onnipresentee intrinseco alla natura umana. (e)Frédéric Encel – Israele in 100 mappe. Lesfide di una democrazia in guerra – Ed. Leg– 2016 (pp. 189 – € 20) Un atlante geopoli-tico di Israele, dall’epoca biblica al sionismofino allo Stato di Israele. Un concentrato digeografia, storia, demografia, sociologia, po-litica, economia, strategia, sicurezza, diplo-mazia, arricchito da una splendida cartogra-fia, da importanti documenti allegati (la Di-

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19chiarazione Balfour, la Proclamazione delloStato di Israele, l’elenco dei capi di Statomaggiore e grandi generali) e completato daglossario, cronologia e indicazione delle fon-ti. I commenti dell’autore sono sintetici eprecisi e consentono una analisi dei temichiave della realtà israeliana. (e)Cristian Virgil Bulai – La salvezza donata.Il Sacramentum e la Mitzvà – Ed. Salomo-ne Belforte & C – 2017 (pp. 162 – € 18)L’editore inaugura una nuova collana dedica-ta al Dialogo Ebraico-Cristiano con questolibro di un sacerdote cattolico rumeno che,per illustrare la somiglianza delle due fedi,parte dalla comparazione del Bar Mitzvà conla Cresima (o Confermazione: sacramentoche conferma nel cresimando la definitivaappartenenza al corpo mistico della Chiesaimpri-mendogli il carattere indelebile di cristianoattraverso l’imposizione delle mani del sa-cerdote e l’unzione con l’olio santo). L’auto-re, nel primo capitolo, esamina il contesto diognuna delle due fedi andando alla fonte del-le due tradizioni, Mosè e Cristo; nel secondo,prende in esame la teologia sacramentaledella Chiesa e, in particolare, della Cresima;nel terzo, analizza il ruolo dei precetti ebrai-ci e, in particolare, il rito del Bar Mitzvà; nelquarto, prende in considerazione il paragonedei concetti di intenzionalità e unione conDio tra la teologia cristiana e l’insegnamentoebraico. Nelle conclusioni, individua la ca-ratterizzazione dell’Ebraismo nella realtà na-turale all’interno dello storia e quella dellaChiesa nella continuazione della naturalitàstorica attraverso la redenzione che proponeil senso della Resurrezione come recuperodello stato di condivisione con Dio. (e)Giuseppe Fresolone e Marcello Naimoli (acura di) – Giovanni Palatucci e gli ebrei in-ternati a Campagna. Memorie, rappresenta-zioni e nuove ricerche – Ed. EDUP – 2017(pp. 237 – €15) Giovanni Palatucci, ultimoquestore di Fiume, deportato e morto a Da-chau, è stato nominato nel 1990 “Giusto del-le nazioni” ma, nel 2013, il Centro Studi “Pri-mo Levi” di New York ne contesta la figura,

descrivendolo anzi come “un volenterosoesecutore della legislazione razziale”. Il libroè una raccolta di saggi e testimonianze a con-ferma delle ragioni per cui gli è stata conferi-ta la nomina grazie alla sua opera intesa a sal-vare ebrei anche grazie all’internamento nel-la Comunità di Campagna, luogo sicuro oveoperava un suo zio Vescovo. (e)Imre Toth – Il lungo cammino da me a me.Interviste di Péter Vàrdy – Ed. Quodlibet –2016 (pp. 282 – € 19) L’autobiografia (limita-ta ai periodi della infanzia e giovinezza), diImre Toth, ebreo ungherese, sommo filosofodella matematica – nonché autore, alla fine de-gli anni ’90, del saggio “Etre juif – Après l’Ho-locauste” in cui si interroga su che cosa sia l’i-dentità ebraica oggi – quale emerge da una se-rie di interviste del suo amico Péter Vardy. Lanarrazione che risulta dall’insieme di questeinterviste non è tanto “la documentazione inprima persona degli avvenimenti che caratte-rizzarono la messa in atto della persecuzioneantiebraica in un determinato luogo e tempo,né la trasfigurazione letteraria di un vissuto,non una manifestazione sulla disfatta dell’u-mano attraverso la ripresa a distanza di tempodi fatti inenarrabili, neppure il tentativo di ri-trovare il paesaggio effettivo di una patriasconvolta dalla dismisura del l’accaduto… mauna narrazione tesa a restituire il vissuto di unmondo destinato in breve alla distruzione co-me pure di quello emerso dalla catastrofe”. (e)Tania Crasniaski – I figli dei nazisti – Ed.Bompiani – 2017 (pp. 263 – € 18) GudrunHimmler, Edda Goring, Wolf Rudiger Hess,Niklas Frank Martin Adolf Bormann Jr., i pic-coli Hoss, i piccoli Speer, Rolf Mengele: sonoi nomi dei figli tra i più importanti gerarchi delTerzo Reich. L’autrice, dopo un’attenta ricercad’archivio, quasi mai però condotta con inter-viste dirette, ha cercato di ricostruirne la storia,soffermandosi “dapprima sulla carriera dei pa-dri nei ranghi del nazionalsocialismo, sul mo-do in cui il figlio è stato impregnato dagli idea-li dell’epoca negli anni della sua infanzia e sulruolo giocato dalla madre nella sua educazio-ne”. Ognuno ha affrontato il peso del cognomeche portava in modo diverso: alcuni rinnegan-dolo, altri cancellandolo, altri non mutandol’atteggiamento dei genitori; qualcuno si è

convertito al cattolicesimo o, addirittura, all’e-braismo. Libro curioso: non sempre è vero chele colpe dei padri non ricadano sui figli. (e)Ilaria Briata (a cura di) – Due trattati rabbi-nici di galateo – Ed. Paideia – 2017 (pp. 187)Nel volume sono riportati due manuali rabbi-nici di savoir vivre, cioè un complesso di am-monimenti e istruzioni per condursi come sideve nella vita quotidiana e nella vita sociale.Partendo dall’accezione di “Derek eres” =buone maniere, i due trattati – tradizionalmen-te tramandati all’interno del Talmud babilone-se come parte dei trattati minori– si intitolano,l’uno, “Derek eres rabah” e, l’altro “Derekeres zuta”, cioè, rispettivamente Trattato mag-giore e Trattato minore delle buone maniere.Nel primo si ritrovano essenzialmente esorta-zioni sapienziali incentrate su motivi moraleg-gianti (umiltà, timor di Dio, studio della To-rah); nel secondo, più variegato, una commi-stione di prescrizioni pratiche, interventi nar-rativi e spunti di esegesi scritturale. Al di làdella lunga e sapiente introduzione sulla storiadei testi e della loro redazione, sulla loro col-locazione nella formazione del galateo euro-peo, sulla loro specificità ebraica e rabbinica,sulle questioni redazionali dei testi (gioia pergli studiosi!), la lettura dei precetti (molti deiquali sono o sarebbero validi e importanti an-che oggi), inframmezzata da aneddoti descrit-tivi, è piacevole e curiosa per tutti. (e)Tilar J. Mazzeo – La ragazza dei fiori di ve-tro – Ed. Piemme – 2017 (pp. 331 – €18,50) L’autrice, specializzata in storia, hascritto questa biografia di Irena Sendler (de-nominata “La Schindler al femminile”) chenel 1965 è stata nominata fra i “Giusti dellenazioni”, per aver salvato, insieme con altrisuoi aiutanti, dalla deportazione più di due-mila bambini ebrei del Ghetto di Varsavia. Illibro ha forma narrativa ma l’autrice si è ba-sata su documentazione e testimonianze cherendono certe le vicende narrate. Lo stileasciutto e il racconto avvincente, rendonopiacevole e interessante la lettura. (e)Baba Schwartz – I 3000 di Auschwitz. Unastoria vera – Ed. Newton Compton – 2017(pp. 224 – € 9,90) Le memorie, raccontate informa narrativa ma accompagnate da fotogra-fie e da documentazione, di una ebrea soprav-vissuta alla deportazione operata dai nazisti ditutti gli abitanti della piccola città ungherese diNyìrbàtor nel 1944. Nella prima parte è de-scritta la vita serena dell’autrice nel suo villag-gio ed essa fa contrasto con la seconda parteche racconta, invece, le traversie della depor-tazione e della prigionia mentre, in qualchemodo, si raccorda con il lieto fine della vicen-da umana della protagonista. (e)Paolo De Benedetti, Massimo Giuliani –Saper attendere. Il messia come speranza –Ed. Morcelliana – 2017 (pp. 84 – € 10)Questo libretto contiene l’ultimo scritto, pa-lesemente incompleto, scritto e pubblicato daPaolo De Benedetti, morto l’11 dicembre2016, intitolato Il Messia come speranza.L’altro scritto che completa il volume si inti-tola Saper attendere. Sulla responsabilità diprogettare il futuro senza l’ansia di portare acompimento ma oltre la falsa pace dell’iner-zia, composto da vari capitoletti, abbastanzaslegati fra loro, che affrontano alcuni aspettilegati al messianesimo (l’attesa, la noia, lasperanza, il progetto) nella tradizione ebraicae in quella cristiana. (e)Piero Stefani – “Gli uni e gli altri”. La Chie-sa, Israele e le genti. Una ricerca teologica –Ed. Dehoniane Bologna – 2017 (pp. 298 – €26,50) Un compendioso libro sul dialogoebraico-cristiano. L’autore, riconoscendo che,in materia, molto resta ancora da fare, osser-va che ciò è, in gran parte, dovuto al fatto che“per un cristiano è spesso difficile capire chegli ebrei non costituiscono solo una parallelacomunità di tipo religioso, una specie di chie-sa senza Gesù ma sono un’entità etnico-reli-giosa-culturale con una sua pro pria storia, le-

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gata a una terra precisa”. Il dialogo cercato è,dunque, difficile perché asimmetrico: “dal la-to cristiano vi è un irrisolto bisogno di avan-zare questioni teologiche mentre da parteebraica prevalgono temi legati alla difesa deivalori comuni, all’istanza di lottare controogni manifestazione di antisemitismo quantodi antisionismo, al sostegno da riservarsi alloStato d’Israele, al rispetto integrale dell’iden-tità ebraica e quindi alla totale rinuncia a ogniforma, più o meno larvata, di proselitismo”. Iltitolo del libro deriva da un passo della Lette-ra agli Efesini: “Egli è venuto ad annunciarepace a voi che eravate lontani / e pace a colo-ro che erano vicini. Per mezzo di lui, infatti,possiamo presentarci / gli uni e gli altri / alPadre di un solo Spirito” così che, concludel’autore, “Nella riflessione su questa duplicitàdi origine ricondotta all’unità di un solo spiri-to si trova il cuore della presente ricerca teo-logica”. (e)Bernhard Casper – Levinas pensatore della

crisi dell’umanità – Ed. Morcelliana – 2017(pp. 55 – € 6,50) Una chicca per filosofi e stu-diosi di filosofia: il breve commento di un fi-losofo ai testi postumi di Emmanuel LévinasCarnets de captivité et autres inédits. Difficilelettura per tutti gli altri. (e)Sayed Kashua – Ultimi dispacci di vita pale-stinese in Israele – Ed. Neri Pozza – 2017(pp. 315 – € 20) L’autore, scrittore e giornali-sta arabo israeliano, ha scritto per anni una ru-brica settimanale sul quotidiano Ha’aretz de-scrivendo con ironia e assoluta irriverenza sestesso, la sua famiglia, la loro vita quotidianacon pezzi che hanno avuto grande successo edai quali trapelano i problemi incontrati dagliarabi in Israele e le difficoltà di conciliare ledue realtà. In questo libro ha raccolto i pezziche vanno dal 2006 al 2014, anno in cui è emi-grato con la famiglia a Chicago. Come in tut-te le raccolte di questo tipo, alcuni pezzi sonodavvero esilaranti, altri meno anche per il rife-rimento a una realtà di cui il lettori hanno unaconoscenza diseguale. (e)Dan Stone – La liberazione dei campi. La fi-

ne della Shoah e le sue eredità – Ed. Einau-di – 2017 (pp. 271 – € 30) Il libro illuminaun aspetto poco conosciuto della Shoah e, piùin generale, del lunghissimo processo politicoe organizzativo che portò a compimento losmantellamento dei campi di concentramentoe gli spostamenti che i sopravvissuti dovette-ro affrontare: “Liberazione non significò finedella Shoah. I sopravvissuti al lager e quelliche si erano salvati nascondendosi o esilian-dosi dovettero affrontare anni di ulteriorisforzi per trovare un luogo da chiamare patriae ricostruire le proprie vite, ammesso che cisiano infine riusciti”. L’autore non si soffer-ma soltanto sugli aspetti individuali e psico-logici ma anche, e soprattutto, sugli enormiproblemi che dovettero essere affrontati perun ritorno a una quasi-normalità e sulle con-seguenze anche di lungo periodo della geopo-litica della liberazione. (e)

A cura diEnrico Bosco (e)

e Silvana Momigliano Mustari (s)

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PROPRIETÀ: Gruppo di StudiEbraici, associazione - pressoil Centro Sociale della Co-munità Ebraica di Torino,Piazzetta Primo Levi, 12 -10125 Torino

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(segue da pag. 19)

Minima moralia

PIO

Pio bove un corno. Pio per costrizione,Pio contro voglia, pio contro natura,Pio per arcadia, pio per eufemismo.Ci vuole un bel coraggio a dirmi pioE a dedicarmi persino un sonetto.Pio sarà Lei, professore,Dotto in greco e latino, Premio Nobel, cheBatte alle chiuse imposte con ramoscelli di fioriIn mancanza di meglioMentre io m’inchino al giogo, pensi quanto contento. Fosse stato presente quando m’han reso pioLe sarebbe passata la voglia di fare versiE a mezzogiorno di mangiare il lesso.O pensa che io non veda, qui sul prato,Il mio fratello intero, erto, collerico,Che con un solo colpo delle reniInsemina la mia sorella vacca?Oy gevalt! Inaudita violenzaLa violenza di farmi nonviolento.

Primo Levi, Ad Ora incerta

In alto,Abraham Mintchine,ritratto dell’artistacome Arlecchino,

dettaglioQui a destra,suonatore

con cocorita