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I sabati della Misericordia IL MIO SALARIO È DIO (l’ingiustizia dei giusti) (Mt 20,1-16) SE VUOI ESSERE PERFETTO, VENDI QUELLO CHE POSSIEDI E AVRAI UN TESORO IN CIELO (Mt 19,16-22) 5° - 2016/17 Don Franco Mosconi Affi - Villa Elena, 18 febbraio 2017

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I sabati della Misericordia

IL MIO SALARIO È DIO

(l’ingiustizia dei giusti)

(Mt 20,1-16)

SE VUOI ESSERE PERFETTO, VENDI QUELLO

CHE POSSIEDI E AVRAI UN TESORO IN CIELO

(Mt 19,16-22)

5° - 2016/17 Don Franco Mosconi

Affi - Villa Elena, 18 febbraio 2017

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Don Franco Mosconi

Affi, 18 febbraio 2017

Iniziamo con un canto-preghiera composta da Santa Teresa di Lisieux:

Mio Gesù,

so che non comandi nulla d'impossibile;

conosci meglio di me la mia debolezza e la mia imperfezione,

sai pure che mai riuscirei ad amare le mie sorelle come le ami tu,

se non fossi ancora tu, mio divino Salvatore,

ad amarle in me.

È perché vuoi concedermi una simile grazia

che hai fatto un comandamento nuovo.

Ch'io lo ami, dunque, poiché mi dona la certezza

che la tua volontà è di amare in me

tutti coloro che mi comandi di amare.

Amen

Siamo sempre dentro i “SABATI DELLA MISERICORDIA” anche se oggi mediteremo

due testi di Matteo: il capitolo 20 e poi il capitolo 19 .

Iniziamo con il capitolo 20, un testo che ne richiama tanti altri.

Una frase stamattina mi é tornata in mente: “in principio non c’è il peccato, in

principio c’è la gioia”.

Spero che sia per tutti una mattinata ricca soprattutto della presenza del Signore

e della sua Parola; che ci riempia tutti della sua pace e della sua gioia.

Prima di leggere il testo una breve introduzione.

1. NOTE INTRODUTTIVE

È un testo abbastanza noto, ma vorrei sottolineare l’aspetto fondamentale: la

gratuità di Dio, che è ancora un modo di dire la Sua misericordia.

Dio è somma gratuità. Noi siamo figli di Dio e dovremmo imparare da Lui la

sua gratuità, per essere anche noi di somma gratuità. È la radice della cultura del

dono.

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Può essere anche uno dei brani che fa irritare. È come quel Salmo che dice:

«Invano vi alzate di buon mattino a lavorare, invano fate sforzi, il Signore ai suoi

amici dà i suoi doni mentre dormono» (Sal 127). Uno si domanda: “Allora cosa

bisogna fare?”. Vedremo come la ricompensa è data in modo strano, dove gli

ultimi sono i primi ad essere pagati.

Questo brano può richiamare molti altri testi, per esempio quello del “figlio

prodigo” che non incontra mai il fratello maggiore, ma che rivela chi è

veramente il Padre. È irritante perché il giusto resta fuori dal banchetto e il

peccatore è nella casa e fa festa col Padre.

Come mai il peccatore fa festa e banchetta, è nell’intimità con Dio, e il giusto

resta fuori?

È irritante a questo livello anche una parabola di Luca: il fattore infedele, che

imbroglia ed è chiamato “il fattore infedele”. In realtà è un fattore astuto, per

questo fa quegli imbrogli, però c’è una spiegazione anche al suo modo di fare.

Quindi lasciamoci prendere, illuminare su che cosa è la ricompensa che Dio ci

vuole donare. Il Vangelo è la buona notizia che Dio ci salva, non perché siamo

bravi, non perché facciamo chissà che cosa, ma perché Lui ci vuole bene, perché

Lui è buono e salva sostanzialmente chi ne ha bisogno, cioè il peccatore,

soprattutto il peccatore.

IL MIO SALARIO È DIO

(Mt 20,1-16)

[1] «Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all'alba per

prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. [2] Accordatosi con loro

per un denaro al giorno, li mandò nella sua vigna. [3] Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano sulla

piazza disoccupati [4] e disse loro: Andate anche voi nella mia vigna;

quello che è giusto ve lo darò. Ed essi andarono. [5] Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre e fece altrettanto. [6] Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano là e disse

loro: Perché ve ne state qui tutto il giorno oziosi? [7] Gli risposero: Perché

nessuno ci ha presi a giornata. Ed egli disse loro: Andate anche voi nella

mia vigna. [8] Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: Chiama gli

operai e dà loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi. [9] Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un

denaro. [10] Quando arrivarono i primi, pensavano che avrebbero ricevuto

di più. Ma anch'essi ricevettero un denaro per ciascuno. [11] Nel ritirarlo

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però, mormoravano contro il padrone dicendo: [12] Questi ultimi hanno

lavorato un'ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo

sopportato il peso della giornata e il caldo. [13] Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: Amico, io non ti faccio

torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? [14] Prendi il tuo e

vattene; ma io voglio dare anche a quest'ultimo quanto a te. [15] Non

posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso

perché io sono buono? [16] Così gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi».

Il brano ci presenta il modo di retribuire di Dio.

Una frase centrale di questo brano potrebbe essere: “Tu sei invidioso. Tu guardi

di malocchio”. In greco: “Il tuo occhio è cattivo perché io sono buono?”

La bontà di Dio può diventare per noi motivo di cattiveria, perché non è giusto

essere così; non è giusto che a chi lavora un’ora si dia il salario di un giorno!

E noi ce l’abbiamo con Dio, perché è buono con gli ultimi.

Questo richiama il fratello maggiore della parabola del “prodigo”. Il maggiore

si adira con il padre: perché accogliere il minore che ne ha combinate di tutti i

colori?

Richiama anche Giona, che si adira con Dio, che si incupisce perché Dio ha

perdonato Ninive e dice: “Meglio morire se tu sei fatto così! Questi andavano

distrutti e non perdonati!”.

È il dramma di chi si sente giusto.

Penso a un grande come San Paolo; lui che era irreprensibile, giustissimo

nell’osservanza della legge, ha capito a Damasco il senso della gratuità di Dio.

Infatti, se c’era uno che non meritava niente, uno che non andava perdonato

era proprio lui, che andava a Damasco per arrestare altri cristiani - «Persecutore

della Chiesa» dice lui .

Per lui Gesù era un acerrimo nemico. E nel quel momento in cui incontra il

Signore, che sia o meno caduto da cavallo, è caduto dalle sue sicurezze; si vede

gratuitamente graziato. Lui, che era irreprensibile, ha capito che tutto quello che

aveva fatto era una pura perdita, non un guadagno.

Quando lo descrive nella lettera ai Filippesi, dice: «Il mio Signore».

Qui possiamo vedere la legge e il vangelo, la legge e la grazia: è un esodo la

legge per entrare nel vangelo, nella grazia.

La retribuzione che Dio ci dà è se stesso. Lui è amore e grazia.

E i giusti si arrabbiano che Dio doni se stesso per amore e per grazia, vorrebbero

il salario del loro sudore, ma qualunque salario sarà sempre un po’ di sudore,

non sarà mai Dio. Dio non è mai oggetto di guadagno.

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La meritocrazia non esiste nel cristianesimo. L’unico che ha meritato è Gesù

Cristo; la salvezza è un dono gratuito suo.

Quindi Dio non è mai oggetto di guadagno o di perdita, e “i giusti” si

incattiviscono perché Dio è grazia, amore e perdono.

È difficile togliere questa mentalità, che invece è davvero liberante; bisogna

veramente passare dalla legge al vangelo. La nostra vita di fede è soltanto una

risposta di amore a chi per primo ci ha amato in sovrabbondanza.

Non si guadagna il paradiso con le penitenze, con i digiuni, con i nostri impegni,

con le nostre beneficenze; sono cose anche buone, ma non servono, altrimenti

a cosa è servita la morte di Cristo in croce?

Appunto perché è gratuito il dono del regno, la mia vita è questo continuo

ringraziamento. Con questo non voglio facilitare, perché tanto andremo tutti in

paradiso, ma appunto per questo, incominciamo ad innamorarci di questo

Cristo che ci ha regalato la vita eterna.

La nostra vita dura poco. Ma è un dono Suo gratuito, per amore, e se noi ci

innamoriamo tutti del Signore - e per innamorarsi del Signore occorre volersi

bene anche tra di noi, perché la cartina di tornasole dell’amore di Dio è l’amore

tra di noi: «Se tu non ami il fratello che vedi, come puoi amare Dio che non vedi?»

- cambierebbe la storia, cambierebbe il mondo, la società.

Quante volte nei nostri discorsi vogliamo cambiare la mentalità: quale Dio

abbiamo in mente? Mi sembra difficile scalzare la meritocrazia.

Ed è una parabola in qualche modo scandalosa, perché tocca un fatto anche

economico – difatti, nel testo che precede Pietro dice: «Noi abbiamo lasciato

tutto, che cosa avremo per ricompensa?» -

La grande ricchezza spirituale qui è data agli ultimi, a quelli che capiscono di

ricevere tutto per grazia e per amore: hanno lavorato solo un’ora e hanno

ricevuto il compenso di una giornata. Gli ultimi hanno capito che Dio è gratuità,

i primi no. I primi, quando si accorgeranno di essere “ultimi”, perché sono

invidiosi perché Dio è buono, potranno a loro volta ricevere ciò che Dio vuole

donare.

2. “IL REGNO DEI CIELI È SIMILE”

Entriamo nel contenuto del testo. È un testo molto ricco di dettagli.

Quante volte leggiamo che il Regno dei cieli non è come quello della terra, ma

è un’altra cosa: «I pubblicani e le prostitute vi precedono nel Regno dei cieli», non

perché è bene essere pubblicani e peccatori o prostitute, ma forse perché sono i

primi che riescono a capire l’essenza di Dio che è misericordia. Il giusto invece

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continua a vedere ostinatamente Dio in una prospettiva economica: “Io faccio

il bravo e tu mi devi”.

[1] «Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all'alba per

prendere a giornata lavoratori per la sua vigna.

Ecco l’immagine usuale: persone facoltose che hanno una vigna grande, e

persone povere che hanno poco lavoro, stanno sulla piazza al mattino

aspettando che uno venga a ingaggiarle per il lavoro.

Il salario stabilito è un denaro:è ciò che serve per un giorno. Questo contratto

valeva per tutti.

Quindi, qui si vede che il Regno dei cieli è simile a un padrone che si comporta

così.

La vigna è il simbolo di Israele, del popolo di Dio. La vigna è una delle parti

migliori della terra: produce il frutto. E il frutto del popolo di Dio che cos’è?

È l’amore fraterno, dove si realizza l’amore del Padre.

Questo è il frutto : l’amore di Dio e dei fratelli.

C’è gente che è chiamata fin dall’alba a portare questo frutto.

Chi può essere chiamato all’alba? Possiamo pensare a Israele che è stato il primo,

è stato scelto gratuitamente; al battezzato, noi tutti, che forse fin da giovani

siamo stati educati con un certo zelo a fare del bene.

C’è una chiamata ogni tre ore.

Sono cinque le chiamate: all’alba, alle nove del mattino, a mezzogiorno, alle tre

del pomeriggio e alle cinque della sera, perché alle sei si smetteva di lavorare.

Quindi a tutte le ore si è chiamati.

Ci sono varie interpretazioni e i padri della Chiesa si sbizzarriscono un po’ a

commentare questo testo. Hanno visto in queste varie chiamate il fatto che noi

siamo chiamati ad ogni ora a produrre frutti: se non lo hai fatto prima, lo puoi

fare anche dopo. Non è che si dica: “Ormai è troppo tardi”. Non si deve dire:

“Ho vissuto così, ormai ho 60, 70 anni, è finita!”. No. A qualunque ora: che tu

abbia zero anni, che ne abbia 20 o 90, sei sempre chiamato a portare frutto,

perché questo è il tuo esistere, è il tuo essere figlio di Dio.

Essere figlio di Dio vuol dire amare Lui e amare i fratelli e amare anche te stesso.

Per queste cose non c’è età, ogni età è buona.

Altri Padri hanno visto in queste chiamate le varie epoche della storia della

salvezza.

La prima chiamata è quella che va da Adamo a Noè dopo il diluvio.

La seconda è da dopo il diluvio fino ad Abramo.

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La terza è da Abramo fino a Mosè.

La quarta è da Mosè fino a Gesù.

La quinta (l’ultima ora) è da Gesù, che se n’è andato, a Gesù che arriverà alla

fine del mondo e al suo ritorno darà la ricompensa: è il nostro tempo.

Questa è un’interpretazione. Noi potremmo anche dire che viviamo in

quest’ultima ora che è l’ultima ora della storia; però non possiamo dire che

finisce domani o dopodomani, i tempi li lasciamo al Signore.

[2] Accordatosi con loro per un denaro al giorno, li mandò nella sua vigna.

Con questi operai della prima ora fa un accordo, un patto, una promessa.

La promessa è ciò che ti concede di vivere. Un denaro serve per vivere a te e

alla tua famiglia per un giorno.

Quindi la promessa di Dio è la vita. E la vita che Lui ci promette è la vita eterna;

ci promette la pienezza della vita, non solo il salario di un giorno.

In concreto Dio, che ci promette, ha un Suo segreto da rivelare: Lui promette e

si compromette.

Il salario degno dell’uomo è Dio stesso. È Lui il nostro salario.

Solo Dio può essere il salario dell’uomo, che è fatto per amare in modo assoluto.

Quindi questo denaro è figura della realizzazione piena dell’uomo, è la

comunione con Dio. Dio dà se stesso in ogni dono.

[3] Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano sulla

piazza disoccupati [4] e disse loro: Andate anche voi nella mia vigna;

quello che è giusto ve lo darò (non dice quanto). Ed essi andarono.

I primi stanno già lavorando da tre ore e le prime ore sono forse quelle più

redditizie perché sei riposato e fa anche più fresco; dopo tre ore cominciano a

sentire un po’ il peso della fatica.

Comunque, il padrone esce a chiamare anche alle nove del mattino e vede altra

gente disoccupata. È un padrone che è contro la disoccupazione a tutti i costi.

Ogni uomo deve essere occupato, deve poter vivere, deve poter amare, deve

avere la pienezza della vita, che è l’unica occupazione degna dell’uomo.

E a questi cosa promette? Ai primi un denaro, a questi: «Quello che è giusto»

Che cosa è giusto per chi arriva tre ore dopo? Non dice che cosa è giusto.

Capiremo dopo qual è la giustizia di Dio.

Già Matteo ne aveva parlato nel Discorso della montagna: «Se la vostra giustizia

non è superiore a quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel Regno dei cieli»

La giustizia di Dio è eccessiva, è la giustizia del Regno.

Ma loro non lo sanno e si fidano del padrone. Quindi sono affidati a questa

giustizia e pensano: “Speriamo che ci vada bene, qualcosa ci darà”.

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[5] Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre e fece altrettanto.

C’è una prima chiamata, quella intera che affronta tutta la giornata.

Una seconda chiamata in cui si perdono le ore migliori di lavoro, il mattino

presto.

Una terza chiamata a mezzogiorno e una quarta chiamata alle tre del

pomeriggio per tre ore di lavoro. E anche con questi «fece altrettanto». Con i primi c’è un patto: «Vi darò un denaro».

Con gli altri: «Quello che è giusto» ma non dice cosa sia.

[6] Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano là e disse

loro: Perché ve ne state qui tutto il giorno oziosi? [7] Gli risposero: Perché

nessuno ci ha presi a giornata. Ed egli disse loro: Andate anche voi nella

mia vigna.

Questa è la prima parte della parabola, in cui si vede che gli uomini sono

chiamati a tutte le ore. Con questi ultimi, però, c’è un dettaglio in più; infatti,

dice loro: «Perché state qui tutto il giorno oziosi a fare niente?».

Direi che ci possono essere diverse interpretazioni. Qui io avverto una

preoccupazione del padrone; non li colpevolizza, ma si preoccupa.

E loro dicono: «Se la colpa è di qualcuno, è tua. Nessuno ci ha presi».

Certamente anche loro hanno alle spalle una famiglia da mantenere, e direi che

hanno avuto la pazienza di aspettare fino all’ultima ora. Mi pare interessante

sottolineare questo aspetto: non hanno colpa, nessuno li ha presi. Perché

nessuno li ha presi?

Forse perché nell’aspetto sembravano poco validi a fare quel lavoro, davano

l’impressione di non essere così pronti, così preparati, così bravi. D’altra parte

anche noi lasciamo ai margini le persone che valgono poco, le lasciamo perdere.

Con questi, invece, il padrone si preoccupa molto e va a vedere; quasi prende

su di lui la colpa perché nessuno li ha presi prima. E a questi non promette

niente, non pattuisce un bel niente e dice: «Andate anche voi nella mia vigna».

Forse non si aspettano nemmeno molto, ormai è al tramonto.

3. SIAMO TUTTI CHIAMATI A ESSERE OPERAI NELLA VIGNA DEL SIGNORE

Con questo si chiude la prima parte del brano, il cui significato comincia ad

essere evidente: siamo tutti chiamati ad essere operai nella vigna, a raccogliere

il frutto che è l’amore del Padre e l’amore dei fratelli.

Non ci sono altri frutti, perché Dio è amore: «Deus Caritas est».

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Quando San Giovanni dovrà dare una definizione di Dio, dice: «Dio è Amore».

Noi siamo figli di un Dio d’Amore: «Amerai il Signore e il prossimo tuo come te

stesso». E Gesù ci dirà nel comandamento nuovo: «Amerai gli altri come Io ti ho

amato» (fino alla morte).

Questo è il frutto e qui non c’è età che tenga.

Quindi si vede proprio la preoccupazione del Signore: chiamare tutti, nessuno

escluso. Chi si crede escluso, perché non è stato chiamato prima, sappia che di

lui si preoccupa molto di più.

Il padrone si sente quasi in colpa, come un padre si sente in colpa se a un figlio

non è riuscito a dare quel che voleva, non gli è riuscito molto bene.

Così anche Dio, per cui chiama anche questi, “gli scarti” .

4. IL MIO SALARIO È IL SIGNORE

E ora vediamo la retribuzione.

[8] Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: Chiama gli

operai e dà loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi.

È una scena molto ben costruita, c’è una specie di suspense: «Incominciando dagli

ultimi». Gli ultimi a entrare nella vigna sono i primi ad essere pagati.

Si fa presto a fare i conti con loro, forse darà qualcosina e li manderà via, per

cui anche gli altri stanno tranquilli…fino a quando non vedono quello che sta

per capitare.

[9] Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un

denaro.

Questa è la prima sorpresa piacevole: “Questi che hanno lavorato un’ora

soltanto, hanno ricevuto il salario intero; noi che abbiamo lavorato tutto il

giorno chissà cosa prenderemo!”. Così pensano i chiamati dell’alba, per cui

all’inizio sono contenti, credendo che il padrone è in vena di largheggiare!

Ma sotto vi è già un significato profondo: il Signore non può dare a nessuno

meno di un denaro, perché serve per vivere.

Cosa serve per vivere all’uomo? Serve l’amore del Padre, serve percepire

l’amore del Signore, sentirsi veramente suoi figli.

Dio che è amore, Dio che è vita, Dio non può dare meno di se stesso; dà tutto,

anche a chi arriva all’ultima ora; anzi, chi arriva all’ultima ora lo chiama per

primo. Perché? Perché forse questo ha penato tanto tutto il giorno; forse non

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ha lavorato, ma ha sofferto pensando a cosa avrebbe portato a casa da

mangiare, visto che ormai calava la sera. Ha penato tanto, ha rischiato. Gli altri

almeno dal mattino erano sicuri di avere a sera un salario. Questo che ha vissuto

nell’ansia undici ore, arrivato alla dodicesima ora, ha un respiro di sollievo.

Dio non può dare meno di tutto a tutti!

Però, questo discorso non è capito dai primi. Perché il padrone si comporta così?

[10] Quando arrivarono i primi, pensavano che avrebbero ricevuto di più.

Ma anch'essi ricevettero un denaro per ciascuno.

È vero che a volte leggiamo negli Oremus: «Saremo retribuiti secondo le nostre

opere»; però, possiamo anche essere retribuiti “secondo grazia”.

Nessuna nostra opera produce Dio; Dio ci dona se stesso per grazia e questo lo

vuole dare a tutti.

E per chi ha lavorato fin dal mattino qual è il premio maggiore?

Qui c’è un mistero da capire: quelli che vogliono di più da Dio non hanno capito

che Dio dà se stesso a tutti e rischiano di disprezzare ciò che ricevono.

Vuol dire, in qualche modo, disprezzare Dio stesso, cioè vogliono ridurre Dio a

un prodotto del loro lavoro.

Sottolineiamo questo aspetto: non posso ridurre Dio a un prodotto delle mie

buone azioni. Questi, invece, vogliono comprare Dio con il loro lavoro.

È un po’ come l’episodio della prostituta e del fariseo: il fariseo vuol comprare

il paradiso con la sua osservanza.

Vanno contro Dio questi che si credono giusti. Non hanno capito che il lavorare

dal mattino è la grande ricompensa, è la grande opera: essere con il Signore fin

dal mattino.

La mia retribuzione consiste nell’essere con Lui fin dal mattino, lavorare con Lui.

È l’essere con Lui la vera retribuzione.

È l’essere come Lui la vera retribuzione.

La mia grazia è essere arrivato per primo e lo ringrazio. Tutto è dono.

L’altro, che è arrivato dopo, lo ringrazia, perché è un puro dono.

Solo chi arriva ultimo capisce meglio che Dio è gratuità, è somma gratuità.

Accennavo prima all’episodio della prostituta e del fariseo: a un certo momento,

quando Gesù racconta la parabola dei due debitori dei 50 e dei 500 denari, tutti

e due vengono condonati, e la domanda che fa Gesù è: «Chi amerà di più?».

Il fariseo era perfetto, osservantissimo, ma cosa amava? Amava la sua bella

immagine, non amava il Signore. La prostituta avrà pure sbagliato, ma ha capito

ed è lì che fa quel gesto di amore come la sposa: bacia i piedi di Gesù, li bagna

con le sue lacrime, che sono lacrime di gioia, non di pentimento.

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Torniamo a sottolineare: il problema è chi ama di più, che è la sostanza della

nostra vita di fede. Dovremmo gareggiare nell’ amare di più.

Chi ama di più è colui al quale è stato perdonato di più, non quello che è più

bravo, che ha minor debito nei riguardi di Dio; forse, colui che ha un debito

maggiore amerà di più. Chi ama di più capisce meglio la grazia.

Il giusto, o chi si crede tale, non è colui che merita, è l’altro che non merita, ma

che amerà di più.

È questo il prodigio di Dio, che fa anche del nostro male, del nostro peccato, un

luogo di maggiore amore, dove si sperimenta la grazia, il senso che la bellezza,

la bontà, la gratuità, l’essenza di Dio si sperimenta lì, nel fallimento.

È paradossale, ma è così.

Questa parabola che stiamo leggendo oggi è un Vangelo in luce, perché noi

viviamo tutti di questa gratuità, di questa grazia.

È questo il dono che Dio vuol fare a tutti, mentre i primi pensano di ricevere

più degli ultimi.

5. LA MIA GIUSTIZIA È LUI

Cosa pensano i primi? “Noi abbiamo lavorato…”,

- ma non per ricevere Dio, per entrare in comunione, per essere come Lui -

“…abbiamo lavorato per altri fini, per essere ricchi noi, come se la nostra

ricchezza e la nostra giustizia valesse più di Dio, del suo amore gratuito”.

Paolo, che prima aveva fatto della sua osservanza la suprema giustizia, poi l’ha

ritenuta “spazzatura di fronte alla conoscenza dell’amore di Dio». Questa è la

teologia pura di Paolo.

I primi si servono di Dio per raggiungere le proprie bravure.

Quante volte strumentalizziamo anche Dio per la carriera (quante volte il Papa

si scaglia contro il carrierismo!), per la propria giustificazione, per la propria

giustizia. Quante persone sono fuori dalla grazia, sono lontane da Dio, perché

Dio è grazia, Dio è dono, Dio è perdono.

I primi pretendono più grazia, come se la grazia fosse oggetto di merito. E che

grazia maggiore può avere Dio di quella di dare tutto se stesso gratuitamente?

Chi fa così, non ha capito una cosa: non ama il fratello, perché altrimenti sarebbe

contento che il fratello ha un dono; non ama il Padre che ama tutti i fratelli. È

fuori da questa economia della salvezza, di un Dio che agisce così.

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Anche il fratello maggiore della famosa parabola del prodigo si lamenta con il

padre: «Io ho sempre lavorato». (Ecco come tutto si collega!e Matteo non ha la

parabola della misericordia, ma in questi testi si collega con Luca).

Mette in evidenza la sua fatica, il suo lavoro, ma era un lavoro servile nei

confronti del padre. Il Padre dice: «Ma tu sei stato fin dall’inizio con me».

Questo fraintendimento lo si nota anche qui. Questi che hanno lavorato nella

vigna del padrone, hanno sentito la fatica, mettono in evidenza la fatica, il

lavoro, il caldo sopportato durante la giornata e chiedono lo stipendio.

Tutto un altro discorso, invece, è quello dell’essere assieme, che è già una

ricompensa nel discorso di Gesù.

Si può pensare anche a Giona.

Quando si dice che a Ninive uomini e animali si vestirono di sacco e anche le

bestie digiunavano e Dio ha perdonato, Giona ne è indispettito: «Sapevo che sei

un Dio clemente, longanime, di grande amore, che ti lasci impietosire» (e siamo

ancora nell’Antico Testamento).

«Sapevo che eri così (lo sta quasi insultando), per questo mi sono affrettato ad

andare da un’altra parte, invece di andare a Ninive. Meglio per me morire che

vivere, se tu sei così!».

E Dio che gli dice: «Ma ti sembra giusto?».

E Giona: «Sì, è giusto!». Voleva che Ninive precipitasse nel baratro.

Segue la storiella del ricino: Dio fa crescere questa pianticella per fare un po’ di

ombra al povero Giona. Poi, a un certo momento la pianticella si secca e Giona

si lamenta: «Meglio per me morire che vivere!».

Così i lavoratori della prima ora si lamentano.

[11] Nel ritirarlo però, mormoravano contro il padrone dicendo: [12] Questi

ultimi hanno lavorato un'ora soltanto e li hai trattati come noi, che

abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo.

A volte viene da dire: qual è il mestiere del giusto? Brontolare! Brontola sempre

contro tutti.

Il giusto, o chi si crede tale, ha sempre un po’ di rancore, è sempre rancoroso.

Proviamo ad esaminare i sentimenti che dettano la nostra giustizia nei confronti

degli altri, che non sono così bravi come noi. Ci sentiamo molto a posto e

diciamo: “Quanto sono bravo!” e l’altro ci serve da piedistallo.

Però, quando si sperimenta la fatica di essere bravo, si ha anche un po’ di

rancore dentro contro l’altro fratello.

Così il figlio maggiore nella parabola del prodigo: “Il minore ha speso tutto in

divertimenti ed io qui a lavorare!”. Si sente un rancore contro il fratello minore.

Il rancore è il sentimento tipico di chi si crede giusto.

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Difatti, quando abbiamo un rancore anche noi? Quando ci sentiamo giusti e

subiamo un torto ingiusto, siamo rancorosi.

[13] Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: Amico, io non ti faccio

torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro?

(ill padrone ha ragione: gli aveva promesso un denaro e gliel’ha dato.

Il contratto era quello!). [14] Prendi il tuo e vattene (è un’espressione molto forte, direi quasi

offensiva); ma io voglio dare anche a quest'ultimo quanto a te. [15] Non

posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure il tuo occhio è

invidioso e cattivo perché io sono buono?

Qui c’è la svolta definitiva di questa parabola, che Gesù ha raccontato.

Lo stare lontano dalle Scritture è veramente un disastro, è un grande guaio.

La risposta è l’apice della parabola:

Amico, io non ti faccio torto. Do anche a te tutto, non hai capito?

Tu vuoi un salario, non vuoi Me, la vita, la vita che sono Io.

Io sono solo uno strumento per raggiungere i tuoi fini. Vattene!

Ti ho dato quello che ti spetta, quello che era stato concertato.

Ti ho dato me stesso e tu non mi vuoi.

È il rifiuto di Dio, di Dio che è grazia, che è amore.

Tu mi rifiuti perché io faccio grazie e amo anche gli altri, come amo anche te.

Non hai capito che sei figlio tu come è figlio l’altro?

Per questo non posso non amarvi tutti e due.

Tu vuoi proprio andare via perché Io sono buono?

Mi rifiuti come padre, come amore, come Dio?

Il rifiuto di Dio per sé lo fa chi si ritiene giusto. Questo ci mette tutti in guardia.

È un atteggiamento pericoloso che pone in pericolo costante.

La frase finale di questa parabola è veramente forte: «Prendi il tuo e vattene!».

È pesante questa espressione per uno che ha lavorato tutto il giorno: «Prendi e

vattene!».

Quando Gesù dice al giovane ricco di disfarsi dei suoi beni e di darli ai poveri,

si riferisce non solo ai beni materiali, ma anche a quel bene profondo che forse

è la sua giustizia, la sua bravura, la sua auto-giustificazione.

La mia giustizia è Lui; è Lui che mi ama gratuitamente; è Lui la mia salvezza, la

mia grazia; è il suo amore, è la comunione con Lui il mio vero salario.

Qualunque cosa facciamo nella vita, dall’umile lavoro a quello più eccellente,

quello che conta è la comunione con Lui. È Lui che mi interessa.

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Bisogna capire veramente il cristianesimo: la nostra fede ci rivela che Dio è un

Padre e noi siamo tutti suoi figli in Gesù.

Quando questo capirò, lo capirò come quelli che arrivano all’ultima ora, per

grazia. Siamo tutti figli e fratelli. E se io divento cattivo perché Lui è buono con

mio fratello, vuol dire che odio il fratello e odio anche il Padre e sono fuori

dalla grazia di Dio.

Se nella vita materiale c’è l’attaccamento spesso alle ricchezze, nella vita

spirituale ci può essere un attaccamento ancor più profondo alla ricchezza

spirituale, alla nostra onorabilità, alla nostra bravura, invece che alla gratuità

nell’amore, che Dio mi accorda e che accorda anche all’altro; cosa davvero

bellissima.

«Non posso fare delle mie cose…». Oh! Lui è il Signore!

Dio non può fare diversamente, Dio è necessitato a fare così, a essere buono e

a darsi a tutti. La sua aspirazione, la sua volontà e anche il suo disegno, che poi

realizza, è essere tutto in tutti: «Alla fine dei tempi Dio sarà tutto in tutti», scrive

Paolo. Non è un donarsi in alcuni di più e in altri meno; no, Lui si dà tutto a

tutti; nel paradiso non ci sono gli scalini.

6. “COSÌ GLI ULTIMI SARANNO I PRIMI E I PRIMI GLI ULTIMI”

[16] Così gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi.

Cominciamo a capire il significato di questa espressione!

Che gli ultimi siano i primi è chiaro, perché se hanno ottenuto anche loro un

denaro, è per pura grazia. Così hanno capito la gratuità di Dio. Capiscono che

Dio è grazia, è gratuità. Non se l’aspettavano e sono i primi a capire che Dio è

grazia.

E i primi, che si lamentano, saranno gli ultimi; e, quando saranno ultimi, anche

loro potranno capire che Dio è grazia, è gratuità.

D’altra parte gli ultimi arrivati non porteranno mai nel Regno le meschinerie, le

vanità, le ambizioni dei primi.

7. CONCLUSIONI

Tiriamo alcune conclusioni che ci fanno pensare.

14

a) Con la sua parabola Gesù distrugge per sempre il modo farisaico di

rapportarsi a Dio.

L’amore del Signore non si compra, non si conquista, non può essere

valutato in base alle mie opere buone.

L’amore del Signore si riceve gratuitamente: «sono gli affamati che Dio

ricolma di beni, mentre rimanda a mani vuote i ricchi» (Magnificat).

Dio non si stanca mai di uscire incontro all’uomo, anche quando questi

manca a tutti gli appuntamenti; non paga secondo i meriti: nessuno di

noi può sentirsi in credito con Dio.

La religione dei meriti nasce dalla convinzione che entrare nella vigna

del Signore equivale ad accollarsi una fatica immane, quella di osservare

i comandamenti, i precetti.

A volte ci si chiede come è possibile che chi pratica scrupolosamente la

legge di Dio sia beneficato come chi l’ha trascurata. Perché?

I beati sono i primi giunti per primi nella vigna del Signore, perché,

anche se hanno faticato, hanno goduto fin dal mattino della presenza

del Signore.

Gli operai della prima ora rappresentano coloro che hanno trascorso

tutti i giorni nell’intimità con Dio, nell’ascolto della sua parola.

Con questa parabola Matteo, l’evangelista, si rivolge ai cristiani

imbevuti della mentalità farisaica (Matteo scrive ai cristiani che vengono

dal mondo ebraico). Vuole anche mettere in guardia i discepoli dal

pericolo della competizione all’interno della comunità.

Queste cose non valgono solo per i tempi di Gesù, ma le leggiamo per

noi oggi. Quanti contenuti valgono anche per l’oggi!

Nessuno può pensare di essere superiore agli altri; nessuno può ritenersi

un veterano perché si è convertito per primo.

Nella Sua vigna ci si impegna gratuitamente, non si lavora per

conquistare un posto migliore in paradiso, non si fa del bene al fratello

per ottenere un premio, quasi a strumentalizzare un fratello; sarebbe il

peggiore degli egoismi, servirsi del povero, del bisognoso per

accumulare meriti. Che senso avrebbe?

b) A questo punto veramente ogni persona agli occhi di Dio ha un grande

valore; anzi, i più deboli sono quelli che maggiormente gli stanno a

cuore.

Quando Gesù accettava di avere accanto a sé pubblicani, peccatori,

prostitute, non teneva conto delle loro carenze morali; erano gli ultimi

15

che diventavano i primi per la loro disponibilità a credere alla gratuità

di Dio, a credere all’amore del Signore.

Guai a coltivare un certo orgoglio spirituale di chi si crede migliore e

più meritevole! L’orgoglio spirituale è sempre ostinatamente presente

anche nelle nostre Chiese.

I virtuosi devono ricordare che non è per i loro meriti che entrano nel

Regno dei cieli; è l’amore che salva tutti, sia gli ultimi diventati primi,

sia quelli che hanno fama di essere primi.

Quante volte leggiamo nei brani del Vangelo - nel testo del cieco di

Gerico, di Zaccheo, sempre a Gerico- che i fedelissimi impediscono agli

ultimi di andare al Signore.

E quando Gesù decide di andare a casa di Zaccheo: «È andato ad

alloggiare da un peccatore»…i fedelissimi, i cosiddetti giusti, mormorano

sempre.

Se c’è un peccato grave, un peccato che peraltro non viene mai

confessato, ben più grave di quelli che solitamente vengono confessati,

è il non capire questo amore, il non sintonizzarsi, il non accordarsi con

questo amore, con questa gratuità di Dio.

Il peccato grave è l’occhio cattivo: «Tu sei invidioso».

«Il tuo occhio è diventato cattivo perché io sono buono?».

L’occhio cattivo impedisce di gioire con chi riceve qualcosa di

immeritato, di gioire con chi gioisce.

Colui che stima che tutto si debba meritare, non sopporta la bontà del

Signore, lo indispone, gli guasta la vita.

Come sarebbe bello se il nostro occhio, forse cattivo, diventasse buono,

per gioire della bontà di Dio!

Non avremmo il sentimento di vivere meglio, se ci mettessimo a vivere

guardando solamente alla bontà di Dio, non più soltanto ai nostri

calcoli?

Come sarebbe bella una Chiesa che fosse la “casa della grazia”, capace

di accogliere tutti e di privilegiare coloro che da ogni punto di vista

sono i più deboli!

c) La parabola dice che Dio è diverso da come noi lo pensiamo.

Dio non è riducibile ai nostri schemi.

Quante volte lo diciamo: «I Suoi pensieri non sono i nostri pensieri»; (Is

55).

16

La gratuità di Dio non rinnega la sua giustizia, ma imprevedibilmente la

supera. La gratuità di Dio supera anche la sua giustizia, per cui non

aspettarsi niente come dovuto, significa passare da una meraviglia

all’altra. Che bello vivere così!

Invece,se ci si aspetta una paga precisa, si sperimenta l’insoddisfazione.

È una legge anche psicologica: chi pretende, non è mai appagato.

Come i lavoratori della prima ora che mormoravano.

Il pretendere la generosità del padrone offende la sua giustizia.

Dio non si lega a questa logica. La salvezza che Egli dona non può essere

barattata con niente.

Se ci pensiamo bene, ciò che nel nostro cammino di vita ci dà tanta

speranza non è il pensiero che Dio è giusto, ma il pensiero che Dio è

misericordioso, che Dio è gratuito.

Poter dire: “Mi fido di Te, perché Tu non hai mai deluso nessuno”, forse

è la preghiera più sana che possiamo fare, perché tutta la vita viene a

noi come dono gratuito.

Nel darsi gratuitamente, l’amore trova la propria motivazione, la

propria ricompensa. Si ama per amare e amando si vive, si è gratificati

dalla vita.

Finché non si giunge a questa identificazione tra amore e vita attraverso

la gratuità, c’è sempre la tentazione di vivere di rivendicazione.

L’amore inizia solo là dove non si attende più nessuna ricompensa in

cambio, non perché si è rinunciato alla ricompensa, ma solo perché

questo desiderio di ricompensa è già pienamente appagato nel modo

in cui veramente si ama.

È amando gratuitamente che ci si realizza, che si è felici, che si è contenti,

perché così fa Dio che è somma gratuità.

d) Già accennavamo ad Isaia: «I Suoi pensieri non sono i nostri pensieri».

Potremmo anche obiettare: “Che ne facciamo noi di un pensiero di Dio

che facciamo fatica a capire?”

E così l’affermare che Dio ha una giustizia diversa dalla nostra, per cui

chi non lavora affatto merita un salario uguale a quello di chi lavora

molto, questo fatto ci sconcerta.

Ecco perché il vangelo diventa anche un annuncio di fratellanza, di

misericordia, di uguaglianza. Gli ultimi sono come i primi, perché la

salvezza è un dono di Dio. Non è l’arbitrio che viene trattato; viene

17

abbattuto l’intento discriminatorio che si annida sempre nei gruppi

umani, soprattutto nei gruppi religiosi.

Nessuno di noi osi mettersi al posto del pensiero di Dio.

Nessuno di noi osi mettere il sigillo della sapienza di Dio su quelle cose

che noi costruiamo.

Dio è diverso; il pensiero di Dio è sempre diverso.

Ricordarsi che il pensiero di Dio è altro, equivale a restituire all’uomo il

pensiero dell’uomo, è compiere un atto di riabilitazione dell’uomo.

Nessun uomo osi dire: “Ve lo dico in nome di Dio”.

Quante volte lo sentiamo dire: “Ve lo dico in nome di Dio!”.

Chi può fare queste affermazioni?

Dio non ha segretari, nessuno è segretario di Dio.

Dio ha parlato nel Figlio, ha parlato in Gesù.

La parola di Gesù è affidata alle nostre coscienze, alle nostre esperienze,

alla nostra riflessione di comunità di persone singole, e ci trasmette il

pensiero di Dio.

Lo vediamo casualmente nel vangelo della Messa di quest’oggi: nella

Trasfigurazione di Gesù è il Padre che dice: «Ascoltate Lui! Ascoltatelo!».

Lui, si potrebbe dire “il suo segretario”, Gesù.

E Gesù ha appena detto nel capitolo precedente che deve andare a

Gerusalemme, dove sarà messo fuori, sarà ucciso e risorgerà il terzo

giorno. Gli apostoli sono sbalorditi.

Come per dire: “Ascoltatelo, quello che ha detto ieri è vero. Ascoltatelo,

è vero!”. È lui, Gesù, che ci trasmette il pensiero del Padre.

È l’uomo un po’ fanatico che identifica il pensiero di Dio con il proprio

pensiero, e questo è fatto nefasto.

Io penso con gioia a questa giustizia di Dio.

Quella giustizia coinciderà con la nostra? Niente affatto.

Ci abbraccia tutti la giustizia che consolerà soprattutto i peccatori, i

pubblicani, come disse il Signore.

Questa giustizia divina non ha qui sulla terra i suoi tribunali.

È verso quel mondo che siamo tutti incamminati.

Vorrei chiudere con una preghiera, che troviamo la domenica in cui si legge

questo testo, che è un po’ la sintesi dei contenuti di questo brano.

18

O Padre, giusto e grande,

che nel dare all’ultimo operaio come al primo,

dimostri che le tue vie distano dalle nostre vie

quanto il cielo e la terra,

apri il nostro cuore all’intelligenza

delle parole del tuo Figlio

perché comprendiamo l’impagabile onore

di lavorare nella tua vigna fin dal mattino.

Amen.

SE VUOI ESSERE PERFETTO VENDI QUELLO

CHE POSSIEDI E AVRAI UN TESORO IN CIELO

(Mt 19,16-22)

Riprendiamo con una preghiera di un padre della Chiesa, Efrem il Siro:

Signore della mia vita,

allontana da me lo spirito dell’ozio, della tristezza,

dell’amore per il dominio e le parole vane.

Accorda al tuo servo lo spirito di temperanza,

di umiltà, di perseveranza,

e la carità che non verrà mai meno.

Si, mio Signore e mio Re,

concedimi di vedere i miei peccati

e di non giudicare il fratello.

Perché Tu sei benedetto

nei secoli dei secoli.

Amen

19

In questa seconda parte siamo al capitolo 19 di Matteo, che di per sé riguarda il

possesso.

Subito prima c’è un piccolo passo che parla dei bambini, il famoso capitolo 18,

che è il capitolo della comunità: «il regno di Dio appartiene ai bambini e a quelli

che sono come loro». E siccome troviamo che il regno di Dio è essenzialmente

dono, ci vuole capacità di accoglienza, di lasciarsi amare, come l’animo del

bambino, che da questo punto di vista è la creatura più accogliente.

Vediamo il testo:

Mt 19,16-22 [16] Ed ecco un tale gli si avvicinò e gli disse: «Maestro, che cosa devo

fare di buono per ottenere la vita eterna?». [17] Egli rispose: «Perché mi interroghi su ciò che è buono? Uno solo è

buono. Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti». [18] Ed egli chiese: «Quali?». Gesù rispose: «Non uccidere, non

commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, [19] onora il padre e la madre, ama il prossimo tuo come te stesso». [20] Il giovane gli disse: «Ho sempre osservato tutte queste cose; che mi

manca ancora?». [21] Gli disse Gesù: «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che

possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi». [22] Udito questo, il giovane se ne andò triste; poiché aveva molte

ricchezze.

Talvolta si prendono queste risposte di Gesù, come se la prima riguardasse i

comuni cristiani chiamati ad osservare i Comandamenti, e la seconda la

vocazione dei religiosi, la vocazione ai consigli evangelici; in realtà non è questo

l’intento del Vangelo.

La prima risposta di Gesù è interlocutoria, non si impegna, dà la risposta che

avrebbe dato qualsiasi maestro ebraico.

La sua vera risposta è la seconda, quella che esprime la presenza e le esigenze

del regno: «Cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?».

Anzitutto apprezziamo quest’uomo: gli interessa ottenere la vita eterna, il che

non è molto corrente, perché a molti interessa uno stipendio più elevato, fare

carriera. A lui interessa ottenere la vita eterna. In fondo è una persona che ha

un desiderio sano, buono, che dovremmo fare anche nostro.

C’è, però, un altro aspetto tipicamente giudaico in questa sua domanda: «Cosa

devo fare».….Cosa debbo fare è proprio tipico di Matteo.

Cosa debbo fare: per quell’uomo si tratta di fare qualcosa, di compiere delle

opere per raggiungere una meta alta. Questo è un atteggiamento tipico degli

20

ebrei. Si ritrova spesso nelle discussioni con Gesù: gli ebrei mettono un forte

accento sulle opere da fare. Nel capitolo 25 di Matteo, il giudizio finale è: «Avevo

fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete…». Ora, la vita eterna non è tanto una conquista dell’uomo, quanto un dono di

Dio. Il primo atteggiamento, perciò, deve essere quello del bambino che riceve.

Certo occorrono anche le opere, sono importanti, ma alla radice deve esserci

l’atteggiamento di fede. Nella fede quello che fa tutto è il Signore; noi ci

lasciamo amare, ci lasciamo perdonare, prima ancora delle opere; quindi quello

che ci chiede innanzitutto è una grande disponibilità.

Quest’uomo ragiona con la mentalità da persona adulta, dell’uomo ricco; mette

davanti a sé un traguardo alto, la vita eterna, ed è sicuro di poterla raggiungere:

“Se mi dici cosa c’è da fare, io sono disposto a fare. So che per niente non si ottiene niente, se voglio qualcosa di importante, come la vita eterna, la debbo pagare”. Cioè è un uomo che fa già delle cose buone, che ha una vita onesta,

ma vuole un’indicazione di qualche opera in più: un’elemosina, un’opera di

misericordia, un atto di culto in più; chiede semplicemente la strada, che poi

dovrà percorrere.

E Gesù risponde: «Perché mi interroghi su ciò che è buono? Uno solo è buono. Se

vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti».

Sembra che la domanda: «Cosa devo fare di buono?» non piaccia molto a Gesù.

Non è una domanda del tutto corretta.

Per Gesù la bontà non è prima di tutto una cosa da fare, ma è Dio, l’unico

buono da accettare, da accogliere. La bontà è una persona da accogliere, non

una legge o un’opera.

Se la vita si ottenesse attraverso una legge, ci sarebbe sempre una misura in

quello che ci viene chiesto. Una legge chiede sempre qualcosa. Per esempio: le

tasse si pagano in una determinata percentuale sul guadagno: è una misura. Ma

se si tratta di vivere un rapporto personale di amicizia e di amore con Dio, a

Dio bisogna dare tutto, non solo alcune cose; con Dio bisogna giocare tutto.

Se Dio è Dio, merita tutto, non gli basta il 20 per cento e neppure il 90.

La legge fondamentale dell’Antico Testamento dice: «Ascolta, Israele: il Signore

è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore,

con tutta l'anima e con tutte le forze» (Dt 6,4-5).

Siamo nel Deuteronomio, e già si insiste sulla totalità.

Il Signore dice che non deve rimanere fuori niente dal rapporto con Dio, niente

di quello che pensi, niente di quello che desideri, niente di quello che fai,

“Amerai con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze”.

21

Allora si capisce la domanda di Gesù: «Perché mi interroghi su ciò che è buono?

Perché vuoi una legge? Uno solo è buono. È il rapporto con Dio che devi vivere

ed è in questo rapporto che devi impegnare tutto te stesso. Quindi, se vuoi

entrare nella vita, osserva i comandamenti». È la prima risposta che Gesù dà.

Entrare nella vita per un ebreo ricordava il pellegrinaggio al tempio in

Gerusalemme: il tempio è la casa di Dio, dove Dio abita. Per un ebreo, dunque,

andare al tempio è entrare nella vita, poiché Dio è la vita.

Nel Salmo diciamo: «Quanto è preziosa la tua grazia, o Dio!

Si rifugiano gli uomini all'ombra delle tue ali,

si saziano dell'abbondanza della tua casa

e li disseti al torrente delle tue delizie.

È in te la sorgente della vita,

alla tua luce vediamo la luce». (Sal 36)

È preziosa la grazia di Dio. Gli uomini si rifugiano all’ombra delle Sue ali, che

concretamente sono il tempio di Gerusalemme, dove Dio siede sui Cherubini, e

quindi protegge il pellegrino che vi si rifugia.

Chi è al tempio ha il diritto di asilo; chi vi entra è protetto da Dio.

Nel tempio, inoltre, i pellegrini si saziano dell’abbondanza della casa di Dio, si

dissetano, si illuminano, perché ricevono da Dio l’abbondanza della vita.

Per entrare nel tempio, però, ci sono delle condizioni: bisogna innanzi tutto che

uno sia onesto: «Chi entrerà nel tempio del Signore? Chi ha mani innocenti e

cuore puro…». Alla porta del tempio di Gerusalemme si faceva una liturgia

d’ingresso, simile alla liturgia penitenziale all’inizio della nostra Messa, quando

si chiede perdono prima di cominciare la celebrazione dell’Eucarestia.

E alla porta del tempio i pellegrini ponevano la domanda: «Chi salirà il monte

del Signore, chi potrà stare nel suo luogo santo?»

E i sacerdoti rispondevano: «Chi ha mani innocenti e cuore puro, chi non

pronuncia menzogna, chi non giura a danno del suo prossimo…» (Sal 24).

C’era una serie di condizioni morali che permettevano l’ingresso al tempio:

dopo aver fatto l’esame di coscienza, bisognava essere in armonia con Dio e

aver messo in pratica i comandamenti.

Si capisce allora la risposta di Gesù: «Osserva i comandamenti». Ma l’altro vuol

sapere quali, e Gesù gli dice: «Non uccidere, non commettere adulterio, non

rubare…ecc.», fanno parte dei dieci Comandamenti, la Torah, data da Mosè.

E poi: «Ama il prossimo tuo come te stesso», che è una legge preziosa dell’Antico

Testamento, presente nel Levitico, e che per Gesù ha un’importanza

fondamentale.

Quindi le condizioni di chiamata di Gesù riguardano tutte le opere per gli altri,

per il prossimo: per entrare in comunione con Dio bisogna amare i fratelli.

22

Qui c’è già quel che si diceva anche stamani: in fondo l’amore ai fratelli è la

cartina di tornasole del tuo amore a Dio.

Il giovane disse: «Ho sempre osservato tutte queste cose; che mi manca ancora?».

È come dire: “Ho sempre saputo queste cose, che mi avrebbe potuto dire

qualunque maestro di Israele, ma io volevo sapere di più. Sono convinto (si

rivolge a Gesù) che tu sia un Maestro nuovo, che tu abbia qualcosa da

insegnarmi di diverso, un tuo segreto per entrare in comunione con Dio”.

In modo molto significativo quest’uomo non si accontenta delle parole di Gesù,

che, per ora, non ha detto niente di nuovo; lui vuole qualcosa di nuovo.

A questo punto Matteo nota che era “un giovane”, cioè uno che ha davanti la

vita; vive l’età dei progetti, delle speranze, delle scelte generose, delle scelte

impegnative, coraggiose, anche radicali.

E’ un po’ come il Qoèlet: «La giovinezza e i capelli neri sono un soffio. Ricordati

del tuo creatore nei giorni della tua giovinezza, prima che vengano i giorni tristi e

giungano gli anni di cui dovrai dire: “Non ci provo alcun gusto”» (Qo 11-12).

Finché uno è giovane, deve fare delle scelte autentiche che daranno sapore e

significato alla sua vita.

Il giovane del Vangelo è così, non si accontenta di sentirsi ricordare i

comandamenti, cosa che già sapeva; in fondo ha ragione.

Il Vangelo non gli dà torto. E’ un giovane effettivamente impegnato con i

comandamenti; è un bravo ebreo, ma sente che gli manca qualcosa; è convinto

che Gesù possa dare un sapore più pieno alla sua vita. Non gli piace la

mediocrità: vuole il segreto di Gesù.

Qual è il segreto di Gesù? (anche noi siamo qui per ascoltare queste cose che

sono state scritte per noi, oggi): «Se vuoi essere perfetto, completo, va’, vendi

quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi».

Questa parola “perfetto” era già apparsa nel capitolo del Discorso della

montagna, il capitolo 5 di Matteo: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro

celeste» (Mt 5,48). Si tratta di diventare effettivamente discepolo: il discepolo fa

parte della famiglia.

«Se vuoi essere perfetto» vuol dire “Se vuoi essere senza difetti”?

Non vuol dire nemmeno “essere senza difetti”, perché avremo sempre difetti

finché vivremo sulla terra.

Ma: “Se vuoi davvero impegnarti del tutto per il regno di Dio, se vuoi davvero

compromettere la tua vita, metterla tutta nella prospettiva del regno di Dio,

va’, vendi quello che hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e

seguimi”

23

Il gesto che viene chiesto da Gesù è di per sé un gesto paradossale e, dal punto

di vista immediato, può rendere una persona ridicola: il “dar via tutto” non è

molto apprezzato nel mondo. Verrà il momento in cui magari sarà considerato

santo: pensiamo a S. Francesco che si spoglia di tutto; dopo sarà apprezzato, ma

nel momento anche lui sembrava un burlone, un pazzo. Il suo modo di

comportarsi non era considerato ragionevole.

Tuttavia “il giocare tutto per Dio” è un gesto fondamentale: è impegnare tutto

sul regno di Dio, sulla sua volontà, con una garanzia: «Avrai un tesoro nel cielo».

E chi crede a queste cose?

«Avrai un tesoro nel cielo» …Già al capitolo 6 Matteo diceva che il Signore ci

insegnava: «Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine

consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel

cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non

rubano» (Mt 6,19-20).

Per questo motivo Gesù insiste col giovane: “Il tuo tesoro lo possiedi; ora devi

rischiare, devi obbedire a Dio, affidarti totalmente a Lui”.

Già obbedisce a Dio e lo ama perché osserva i comandamenti: “Sei un bravo

ebreo, ma poni la sicurezza nel tuo patrimonio; hai i soldi, sei ricco, hai servitù

a casa. Però, tutte queste cose ti fanno amare Dio con riserva; tieni ancora

qualcosa per te. Cioè, Dio non è ancora tutto per te, non è ancora tutto per la

tua vita”.

Mi viene in mente quel testo del Vangelo di Marco: «E sedutosi di fronte al

tesoro, osservava come la folla gettava monete nel tesoro. E tanti ricchi ne

gettavano molte. Ma venuta una povera vedova vi gettò due spiccioli, cioè un

quattrino. Allora, chiamati a sé i discepoli, disse loro: “In verità vi dico: questa

vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Poiché tutti hanno dato del loro

superfluo, essa invece, nella sua povertà, vi ha messo tutto quello che aveva, tutto

quanto aveva per vivere”» (Mc 12,41-44).

Certo è una cosa bella fare l’elemosina, come questi ricchi che gettano molte

monete d’oro, ma la vita religiosa più autentica è quella della vedova, che ha

gettato due spiccioli, un quattrino: tutto quello che aveva. Non le è rimasta

nessuna sicurezza, se non l’Amore di Dio e la sua provvidenza. Ha giocato tutto.

È proprio quanto Gesù chiede a questo giovane: «Vendi quello che hai, dallo ai

poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi».

La sequela «Vieni e seguimi» è lo scopo e il fondamento di tutte le altre scelte.

Gesù chiede al giovane il dono grande di gettare tutto.

Ma Gesù gli fa un dono grandissimo: gli regala Se stesso.

Con l’invito: «Vieni e seguimi», Gesù s’impegna a camminare davanti a lui, a non

lasciarlo solo, a insegnargli la via, non solo perché gli dirà quel che deve fare,

ma perché in un certo modo Gesù compromette se stesso nei suoi confronti;

24

chiede a lui di impegnarsi, ma Gesù stesso si impegna, come chi apre la marcia

e percorre la strada per primo.

Quando il Signore chiama Abramo, cosa gli dice? «Vattene dal tuo paese, dalla

tua patria e dalla casa di tuo padre, va verso il paese che ti indicherò» (Gen 12,1).

Notate questa differenza importante: nella Genesi, il verbo della vocazione di

Abramo è: “Parti, va”. Per il discepolo, per noi, invece, il verbo è: “Seguimi”,

che è molto più consolante per tanti aspetti. Abramo deve partire e non sa dove

va; il discepolo pure deve partire, ma dietro a Gesù seguendo le sue orme.

In Gesù Dio si è fatto presente in mezzo a noi, e per noi, allora. vivere è seguire

concretamente il Signore.

A quel giovane, certo, viene chiesto molto, ma gli viene dato anche moltissimo:

viene data la presenza/assenza di Dio nella sua vita, il dono della “libertà dalle

cose”.

È molto importante sottolineare questo discorso della libertà: ci viene dato il

dono della libertà dalle cose, dalla schiavitù delle cose, il dono della comunione

con Cristo, dell’ingresso nel regno dei cieli, della vittoria sulla vita.

Gli viene dato proprio ciò che aveva chiesto: «Che cosa devo fare per ottenere

la vita eterna?». È questa la domanda che aveva fatto.

Ma «Udito questo, il giovane se ne andò triste; poiché aveva molte ricchezze».

Anzitutto qui c’è il paradosso della parola di Dio che rende triste l’uomo.

Strano, perché la parola di Dio è una buona notizia. Perché rende triste?

La Parola di Dio è un Vangelo, è una bella notizia, è fatta per suscitare la gioia!

San Paolo dice nella lettera ai Romani: «Tutto ciò che è stato scritto, è stato scritto

per noi, per la nostra istruzione, perché in virtù della perseveranza e della

consolazione che ci vengono dalle Scritture teniamo viva la nostra speranza» (Rm

15,4). Cioè, le Scritture ci danno perseveranza, consolazione, speranza, ci danno

dunque la gioia.

Il giovane, invece, «Udito questo - dopo aver ascoltato la parola di Dio - se ne

andò triste». Cosa voglio dire? La Parola di Dio ha messo a nudo la sua

condizione interiore di schiavo delle sue ricchezze… «se ne andò triste; perché

aveva molte ricchezze» dice il Vangelo. Potremmo dire che è vero anche il

contrario: non il giovane aveva le ricchezze, ma le ricchezze possedevano lui.

Gli era stata fatta la proposta di seguire Gesù per avere la vita eterna; egli ha

chiesto parere, probabilmente alle sue ricchezze, e queste hanno protestato.

Egli ha rifiutato quanto gli era offerto; ha perso l’appuntamento con la gioia e

con la vita, cioè si è reso manifesto quell’attaccamento che forse lui stesso non

sapeva nemmeno di avere, perché non si rendeva conto di essere schiavo dei

suoi beni.

25

Ed è quello che capita molte volte anche a noi. L’incontro con il Signore diventa

scomodo, non perché il Signore mette addosso dei pesi, ma perché davanti a

Lui siamo costretti a vederci come siamo.

Di fronte agli altri non ci sentiamo molto in colpa; gli altri sono un po’ come

noi, forse un po’ anche peggio; davanti al Signore, però, siamo costretti a vedere

tutte le schiavitù che ci impediscono di camminare dove e come il Signore ci

chiede.

Di per sé il brano finisce qui, ma la vita di quest’uomo non è finita.

Una volta il Card. Martini, commentando questo testo, immagina di seguire

questo giovane quando torna a casa:

“Avrà pensato: «Perché non sono stato capace di dire di sì al Signore? Sono stato

un po’ un vigliacco!». Allora cerca di compensare questo suo rifiuto con qualche

opera buona, qualche elemosina, con una maggiore bontà con i suoi servi, ma

non è ancora soddisfatto. Come va a finire non lo sappiamo, ma non è detto

che rimanga sempre nella tristezza”.

Credo che il Signore ci dà sempre tante occasioni per renderci conto delle nostre

schiavitù e, se ci rendiamo conto, siamo a un passo dalla liberazione, che consiste

nel metterci davanti al Signore, confessare il nostro limite.

C’è una nuova possibilità di rientrare nella corsa; cioè ciascuno può ricercare le

occasioni che il Signore gli dà, trovare il proprio cammino di conversione e, di

conseguenza, riconsegnare la propria vita al Signore.

Vorrei farvi una breve attualizzazione di questo testo che colpisce sempre.

Io chiamo questo Vangelo “il Vangelo delle grandi domande”:

“Signore cosa devo fare per essere vivo, cosa devo fare per vivere veramente?

Signore che cosa mi manca ancora?”

Ecco che questo tale, senza nome, ricco, corre incontro al Signore. Direi che il

suo nome è stato rubato, soffocato dal denaro. È così perché il denaro è

senz’anima, crea l’uomo a sua immagine e somiglianza, senza nome, senz’anima.

Quest’uomo senza nome sta per correre un grande rischio: interroga Gesù per

sapere la verità su se stesso, e poi, abbiamo visto, non è in grado di sopportarla.

È un grande rischio, ma è anche una grande fortuna che qualcuno ci riveli a noi

stessi, ci dica chi siamo veramente.

Quest’uomo vuol sapere se sta vivendo o se sta morendo:

“Maestro buono è vita o morte la mia?”

“Maestro buono cosa devo fare per vivere?”.

È una domanda eterna, domanda di tutti:“Cosa devo fare per vivere

veramente?”.

26

Direi che la domanda non è retorica: “Cosa devo fare per vivere in pienezza?”

Questo lo domandano centinaia di volte i salmi: «Signore, fa che io viva».

Gesù risponde elencando alcuni comandamenti, quelli che riguardano i rapporti

corretti col prossimo; anzi, ne aggiunge uno: «Non frodare».

L’uomo ascolta e risponde: «Ma io queste cose le ho sempre fatte».

Eppure... Gesù lo guarda negli occhi, vede che è vero, è sincero; lo ama per

quell’eppure…, per quella insoddisfazione.

Da dove viene l’inquietudine di quest’uomo onesto e corretto?

Un giusto dovrebbe sentirsi in pace, invece ha nell’anima qualcosa che non va.

Chi osserva veramente i comandamenti non si sente mai a posto. Osservarli è

un primo passo, la via del cammino che dovrebbe portarci ad essere come

Cristo.

Con una battuta si può dire: “Osserva i comandamenti e sarai un buon ebreo,

ma non ancora un cristiano”.

Ecco allora la seconda grande domanda: «Signore che cosa mi manca?».

Gesù Cristo diventa «Il Maestro» che insegna cosa manca alla tua vita; ti insegna

ad essere insoddisfatto delle cose; ti accende un’inquietudine dentro. Noi

viviamo di ciò che desideriamo e non di ciò che possediamo.

«Signore che cosa mi manca?». È un’inquietudine divina; è un tarlo che rode il

silenzio dell’anima, l’apparente e falsa pace; è un tarlo direi luminoso.

Noi tutti proviamo almeno due tipi di insoddisfazione e di inquietudine: la

prima insoddisfazione ci viene da ciò che abbiamo fatto, o magari da errori

commessi; la seconda inquietudine ci viene da ciò che non abbiamo fatto, non

abbiamo osato, l’audacia che ci è mancata.

Questa è l’inquietudine dell’uomo ricco del Vangelo: desiderio di orizzonti più

larghi, digiuni più coraggiosi, ideali più accettabili, mete più alte.

Noi tutti viviamo due vite: una fatta dei gesti di attività quotidiane, e un’altra

densa di richiami da “oltre”, vita come realtà più alta, quasi direi come sogno.

La felicità vera è solo nella vita interiore.

Ma questo non capisce l’uomo ricco del Vangelo, che «Se ne va triste», privo del

coraggio di essere felice.

«Se ne va triste», perché non seguirà più la vita come appello, ma solo la vita

come esistenza quotidiana, ostaggio delle cose, sequestrato dalle cose.

La felicità è per noi, quando riusciamo a far coincidere la vita come appello e la

vita come quotidiano; quando incarniamo l’appello di gesti quotidiani assoluti,

è davvero vicina la felicità.

«Se ne andò triste» …questa nota di tristezza, compagnia di tanti cristiani.

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Si può essere onesti e infelici; si può essere praticanti e infelici come quest’uomo,

come il fratello bravo della parabola del figlio prodigo.

Praticante - che non è da confondere con credente - può come il ricco del

Vangelo osservare tutti i precetti e non avere la gioia, perché uomo del dovere.

Quante volte abbiamo detto: usciamo da una fede-dovere ed entriamo in una

fede-amore!

L’uomo ricco del Vangelo osserva tutti i precetti e non ha la gioia; è l’uomo del

dovere, che cerca un premio, teme una punizione; è l’uomo del calcolo, non

vive un abbandono fiducioso.

Credente, invece, è l’uomo sedotto dallo sguardo di Gesù.

Per tre volte nel testo si dice che Gesù lo guardò con amore, con

preoccupazione, con l’incoraggiamento.

Il credente è sedotto dal progetto di uomo e del mondo di Gesù; è sedotto dallo

sguardo del Crocifisso, ma, soprattutto, credere è un’avventura che nasce da un

incontro.

Incontri Dio e Dio entra in te. Questo è l’amore.

Allora non si tratta più di osservare dei comandi, ma di vivere come vive Dio,

fare come fa Dio; come diceva Paolo: «Non sono più io che vivo…». Per questo i

beni e le ricchezze non danno la felicità, non danno la Vita con la “V“ maiuscola.

Dio non capitalizza, Dio non è cosa tra le cose.

«Una cosa sola ti manca: vendi quello che hai, dallo ai poveri; poi vieni e seguimi»

È spaventato l’uomo ricco, e spaventati sono anche i discepoli, e forse lo siamo

un po’ anche noi.

“Una cosa sola ti manca: passare dalle cose alle persone, anteporre le persone

alle cose”. Gesù lo dice: “Le persone sono i poveri, cioè tutti; sono io: seguimi”;

Gesù dice: “Tutto ciò che hai, tutto ciò che sei, deve diventare strumento di

comunione”. Le cose non esistono per il possesso, ma per la comunione.

Gesù non propone la povertà, ma la comunione, perché così fa Dio.

Tutte le cose devono diventare strumento o sacramento d’incontro.

Noi tutti siamo ricchi di qualche cosa: chi ha denaro, chi ha cultura, chi ha

tempo, chi ha intelligenza, chi ha salute, chi ha gioia: fare di queste ricchezze

sacramento di comunione; oppure saremo costretti ad andarcene tristi, incontro

a giorni spenti, perché noi siamo ricchi solo di ciò che doniamo agli altri.

Avremo il centuplo, se entriamo in questa logica di Dio - così viene vissuta e

trasmessa da un grande: Francesco d’Assisi! - logica in cui tutto è sacramento di

comunione.

Quanto più ti liberi dal potere delle cose, tanto più ricevi quel centuplo che è

dato dalla capacità di stupore, di godimento, dalla capacità di relazioni umane,

intessute soltanto di amicizie e di affetto di cento fratelli.

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«Quanto è difficile - Gesù ripete più volte - che un ricco entri nel Regno!»

Ecco allora una delle parole più belle di Gesù: «Tutto è possibile presso Dio. Egli

è capace di far passare un cammello per la cruna di un ago».

Dio ha la passione dell’impossibile. Questa è la salvezza: abbandono fiducioso

a questo Dio con la passione dell’impossibile.

«Signore, cosa avremo in cambio?».

«Avrai in cambio una vita centuplicata, moltiplicata».

Seguire Gesù non è un discorso di sacrifici, ma di moltiplicazione di vita, cioè un

lasciare tutto per avere tutto.

Il Vangelo non è rinuncia, è moltiplicazione: lasciare tutto, ma per avere tutto.

Probabilmente molte di queste cose facciamo fatica a capirle.

Una volta si diceva: osserva i comandamenti, per i semplici credenti praticanti;

mentre il dar via tutto era per i perfetti, per i religiosi che fanno i voti.

Non è vero niente.

Voglio chiudere con questa statistica appena fatta, che fa un po’ rabbrividire,

nella vita religiosa. Le cifre possono essere un po’ gonfiate, però rivelano anche

una grande mancanza di discernimento di una proposta veramente seria. Ecco

la statistica che ho letto in questi giorni:

* I Gesuiti, che nel 1965, dopo il Concilio, erano 36.000,

sono oggi meno della metà: 16.700.

* I Benedettini erano 12.070, ora sono 6.970.

* I frati minori Francescani erano 27.000, ora sono 13.600.

* I Salesiani erano 22.000, ora sono 15.000.

* Le Salesiane erano 18.000, ora sono 13.000.

* Le figlie della Carità, le Vincenziane, erano 45.000,

ora sono 16.000, il 64% in meno.

Dò queste cifre, perché? Cosa vuol dire? La sequela rimane la stessa: il testo che

abbiamo letto oggi è quello di duemila anni fa, che certamente hanno letto

anche questi nostri fratelli. Adesso c’è un’altra statistica che dice, per esempio,

che le dispense dei voti sono oltre tremila l’anno (dati che vengono da Roma).

Cosa vuol dire questo? Può essere mancato un sano discernimento, una proposta

concreta, seria.

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Il sostare sulla parola di Dio veramente è una gioia, non è un sacrificio, se no

ribaltiamo le cose, Occorre accogliere la gratuità di Dio!

Se uno non entra in questa mentalità, certo che tutto diventa duro…risuona:

lasciare, lasciare; invece, non è un lasciare, ma è un moltiplicare le cose!

Vi ho voluto leggere queste statistiche perché mi hanno un po’ toccato.

E’ un invito a pregare, perché anche la vita consacrata probabilmente toccherà

il fondo. Non bisogna spaventarsi di queste cose, del numero, mai! perché qua

e là stanno già nascendo altre realtà…..lo Spirito Santo è come il vento, quindi

sa Lui moltiplicare, inventare le cose.

Celebrazione Eucaristica

Sabato, 18 febbraio 2017

Eb 11, 1-7

Fratelli, la fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede. Per

questa fede i nostri antenati sono stati approvati da Dio.

Per fede, noi sappiamo che i mondi furono formati dalla parola di Dio, sicché

dall’invisibile ha preso origine il mondo visibile.

Per fede, Abele offrì a Dio un sacrificio migliore di quello di Caino e in base ad essa

fu dichiarato giusto, avendo Dio attestato di gradire i suoi doni; per essa, benché

morto, parla ancora.

Per fede, Enoch fu portato via, in modo da non vedere la morte; e non lo si trovò più,

perché Dio lo aveva portato via. Infatti, prima di essere portato altrove, egli fu

dichiarato persona gradita a Dio. Senza la fede è impossibile essergli graditi; chi

infatti si avvicina a Dio, deve credere che egli esiste e che ricompensa coloro che lo

cercano.

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Per fede, Noè, avvertito di cose che ancora non si vedevano, preso da sacro timore,

costruì un’arca per la salvezza della sua famiglia; e per questa fede condannò il mondo

e ricevette in eredità la giustizia secondo la fede.

Mc 9, 2-13

In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto

monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero

splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche.

E apparve loro Elìa con Mosè e conversavano con Gesù.

Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo

tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elìa». Non sapeva infatti che cosa dire,

perché erano spaventati.

Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il

Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro

più nessuno, se non Gesù solo, con loro.

Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano

visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro

la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.

E lo interrogavano: «Perché gli scribi dicono che prima deve venire Elìa?». Egli rispose

loro: «Sì, prima viene Elìa e ristabilisce ogni cosa; ma, come sta scritto del Figlio

dell’uomo? Che deve soffrire molto ed essere disprezzato. Io però vi dico che Elìa è già

venuto e gli hanno fatto quello che hanno voluto, come sta scritto di lui».

O m e l i a

Analizziamo brevemente la versione di Marco di questo testo che è sempre affascinante. Non è immediatamente chiaro e facile da cogliere, perché trasmesso con un linguaggio e con immagini simboliche che chiedono una spiegazione. La scena è ambientata in un luogo appartato su un monte alto, dove Gesù ha condotto tre dei suoi discepoli, gli stessi che saranno testimoni della sua agonia nel Getsemani. Marco sottolinea il fatto che erano loro soli. Gesù si comporta qui come i rabbini, che, quando volevano rivelare un segreto o trasmettere un insegnamento particolare di grande importanza, erano soliti ritirarsi con i discepoli in un luogo isolato, lontano da orecchie indiscrete, per evitare di essere uditi da coloro che non erano in grado di capire o che avrebbero potuto fraintendere. Anche sul Sinai la parola di Dio non era stata rivelata direttamente a tutto il popolo. Mosè era salito verso Dio, una prima volta da solo, poi ha preso con sé tre personaggi ragguardevoli: Aronne, Nadab e Abiu.

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Il luogo della manifestazione del Signore era sempre un luogo accessibile a tutti; ma, per avvicinarsi, erano necessarie disposizioni particolari, direi una grande santità. Nella Bibbia sono collocate sul monte le manifestazioni del Signore e i grandi incontri dell’uomo con Dio. Pensiamo a Mosè, ad Elia. Gli stessi personaggi, che compaiono nella Trasfigurazione, hanno ricevuto la loro rivelazione sul monte. Più che un luogo materiale, il monte indica il momento in cui l’intimità con Dio raggiunge il culmine, ed è lì che si avverte, si rivela. Si tratta di quell’esperienza sublime che i mistici chiamano l’unione dell’anima con Dio, quella in cui la persona, dissolvendosi quasi nel suo Signore, si sente identificare con i suoi pensieri, i suoi sentimenti, le sue parole, le sue azioni. Questo in fondo vuol dire il monte. Gesù lascia la pianura, dove gli uomini seguono i principi che spesso sono in contrasto con quelli di Dio, e conduce in alto alcuni discepoli, cioè li vuole allontanare dai ragionamenti, dalle convinzioni normali degli uomini, per introdurli nei pensieri più reconditi del Padre, nei suoi imperscrutabili disegni sul Messia. Luca è ancora più esplicito: quando riferisce il tema del dialogo di Gesù con Mosè ed Elia, afferma che questi, apparsi nella loro gloria, parlavano con Gesù del dono della vita che Egli stava per fare; praticamente parlavano dell’esodo che sarebbe avvenuto a Gerusalemme. Le vesti bianche manifestano esteriormente l’identità di Gesù. Il colore bianco era il simbolo del mondo di Dio, era il segno della festa, della gioia. Si diceva che nel regno di Dio gli eletti avrebbero indossato vesti candide, che mandano scintille, come raggi di sole. Basta leggere l’Apocalisse: «In cielo gli eletti

appaiono al veggente avvolti in vesti bianche».

Poi Mosè ed Elia sono i due celebri personaggi della storia della salvezza. Il primo è il mediatore di cui Dio si è servito per liberare il suo popolo dall’Egitto, per dargli la Torah, la legge. È introdotto nella scena della Trasfigurazione per testimoniare che Gesù ormai è il profeta da lui annunciato; quando prima di morire Mosè dirà: «Verrà uno che mi sostituirà, più grande di me. A lui darete

ascolto». Non a caso: «Ascoltatelo!» è l’invito ad ascoltarlo che si trova alla fine del racconto; è proprio una conferma. Elia, a sua volta, è il primo dei profeti, è colui che era stato rapito in cielo, che si pensava sarebbe tornato prima della venuta del Messia. Il volto splendente, le vesti luminose sono tutti motivi che ricorrono spesso nella Bibbia: il Signore nel Salm6 104 è «Rivestito di maestà e di splendore».

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Questo per capire perché Marco si esprime in questi termini: ha alle spalle tutta una storia, tutta una cultura biblica. Identico è il senso della nube luminosa, che avvolge tutti con la sua ombra. Nell’Esodo si parla di una nube luminosa, che proteggeva il popolo di Israele nel deserto, segno della presenza di Dio che accompagnava il popolo lungo il cammino. Servendosi di queste immagini, Marco afferma che Pietro, Giacomo e Giovanni, in un momento particolarmente significativo della loro vita, sono stati introdotti nel mondo di Dio; hanno goduto di una illuminazione, che ha fatto loro comprendere la vera identità del Maestro, la meta del suo cammino. Poi c’è la «Voce dal cielo». È un’espressione anche questa letteraria impiegata frequentemente dai rabbini quando volevano presentare il pensiero di Dio. L’argomento trattato nel capitolo precedente riguardava l’identità di Gesù, quando Gesù ha detto: «Chi dice la gente che io sia?», e Pietro: «Tu sei il Cristo».

Pietro aveva manifestato la sua convinzione: Gesù è l’atteso Messia. La voce dal cielo ora dichiara il parere di Dio: Gesù è il prediletto, è Lui il servo fedele nel quale il Padre si compiace: «Ascoltatelo!».

Cioè: “Quello che ha detto è vero. Quello che ha detto finora, che deve andare a Gerusalemme dove sarà ucciso, purtroppo, è vero”. Ma già al Battesimo si era sentita la voce: «Questo è il Figlio mio prediletto».

Ora c’è questa aggiunta, questa osservazione o esortazione: «Ascoltatelo!», “Ascoltate Lui! Anche quando sembra proporre cammini troppo impegnativi” . “Ascoltate Lui! Anche quando sembra indicare strade anguste, impervie, scelte paradossali, a volte umanamente assurde”. Nella Bibbia il verbo “ascoltare” non significa soltanto ascoltare, vuol dire anche “obbedire” non solo udire, ma anche obbedire. E la raccomandazione che il Padre fa a Pietro, Giacomo e Giovanni – e, attraverso loro, a tutti noi - è di mettere in pratica ciò che Gesù insegna; è l’invito a puntare la vita sulla proposta delle beatitudini. E chi sono Mosè ed Elia? Torniamo a dire: il primo è colui che ha dato la legge al suo popolo; l’altro è il primo dei grandi profeti. Tutti i libri santi di Israele hanno lo scopo di condurre a dialogare con Gesù, orientano a Lui. Nel giorno di Pasqua, per far capire ai discepoli il significato della sua morte e resurrezione, spiega ai discepoli di Emmaus: E cominciando

da Mosè e tutti i profeti, spiegò loro ciò che riguardava e si riferiva a Lui in tutte

le Scritture».

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Poi ci sono le tre tende. La nostra esperienza spirituale ci può aiutare a capire: dopo aver dialogato a lungo con Dio, non torniamo volentieri alla vita di ogni giorno. Anche Pietro dice: «Fermiamoci qui, facciamo tre tende». I tre hanno gustato l’atmosfera del paradiso, una profonda comunione con Dio e non vogliono più lasciare quel monte, non vogliono scendere giù. Non si può passare, purtroppo, tutta la vita in quel clima: dopo aver scoperto nella preghiera il cammino da percorrere, è necessario mettersi al seguito di Gesù, che sale a Gerusalemme per donare la vita. Riassumiamo il significato della scena. Tutto l’Antico Testamento, Mosè ed Elia, riceve senso da Gesù. Ma Pietro non capisce il significato di quanto sta accadendo. Benché a parole proclami che Gesù è il Cristo, rimane profondamente convinto che Egli sia solo un grande personaggio a livello di Mosè, Elia. Per questo suggerisce che vengano costruite tre capanne. Interviene Dio per correggere questa falsa lettura di Pietro: Gesù non è solo un grande legislatore come Mosè ed Elia, è il Figlio prediletto del Padre. Israele aveva ascoltato la voce del Signore, trasmessa da Mosè ed Elia; ora questa voce - dichiara il Padre - giunge agli uomini, unicamente attraverso Cristo: è Lui e solo Lui che i discepoli devono ascoltare. Per questo viene notato, che quando i tre alzano gli occhi, non vedono altri che Gesù. Vedono Gesù solo. Mosè ed Elia sono scomparsi, hanno già compiuto la loro missione: hanno presentato al mondo il Messia, il vero profeta, il nuovo legislatore. Si è realizzato in modo sorprendente la promessa fatta da Mosè al popolo prima di morire: «Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un

profeta pari a me. A lui darete ascolto».

Cerchiamo di mettere in pratica ciò che la Parola ci ha offerto in modo abbastanza radicale.

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Trasposizione da audio-registrazione non rivista dall’autore

Nota: La trasposizione è alla lettera, gli errori di composizione, le ripetizioni

sono dovuti alla differenza tra la lingua parlata e la lingua

scritta. La punteggiatura è posizionata ad orecchio e a libera

interpretazione del testo da parte di chi trascrive.