I racconti di un Arabo
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Transcript of I racconti di un Arabo
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Stavo in ufficio da mio fratello quando mio
padre telefonò per dirmi che mio zio Abu Taher
stava in coma e che dovevo partire presto per
la Palestina.
Mio padre, come tutti gli altri della
famiglia, non poteva ritornare al proprio
paese dopo che fu cacciato fuori insieme ad
altri milioni di palestinesi a causa
dell’occupazione israeliana per la Palestina,
e l’unico della famiglia ad avere un
passaporto europeo ero io.
Mi ricordo bene la voce vibrante di mio padre
che quasi piangendo mi disse: domani all’alba
partirai per Safarin, tuo zio sta morendo.
Mia madre mi svegliò alle cinque del mattino,
mentre stavo facendo colazione il clacson
della macchina che mi doveva accompagnare
svegliò tutto il quartiere.
Stavo salendo in macchina quando mio padre si
avvicinò a me, mi abbracciò forte e con le
Il ritorno a casa
Naser Ghazal
2
parole impastate con le lacrime mi disse:
salutamelo tanto, bacialo anche per me e digli
che avrei voluto esserci anche io, però non ho
le ali per violare i confini.
La macchina cominciò ad allontanarsi lasciando
immobile mio padre davanti gli scalini di casa
nostra, mentre nel cuore cresceva un odio che
non si era mai valorizzato per l’ingiustizia
degli uomini che abitano questo mondo.
E’ giusto che la morte separi due fratelli
senza nemmeno potersi fare l’ultimo saluto?
Con le tante domande che mi facevo alle quali
trovavo e non trovavo risposte arrivammo dopo
due ore ai confini con Israele.
Dissi all’autista di aspettarmi perché avevo
paura che non mi facevano entrare, neanche
adirlo e dopo pochi minuti stavo di nuovo in
macchina perché quest’ingresso era solo per
gli Arabi, mentre per i non Arabi l’ingresso
per Israele é da Aqaba, quattro ore di
macchine dal punto dove stavamo.
Dissi all’autista di portarmi gentilmente là.
Con il caldo bruciante del deserto e la musica
d’Um Kalthum arrivammo ad Aqaba, da là fu
facile anche perché di turisti c’erano solo
quattro persone ed io. La procedura
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dell’interrogatorio, però, era una cosa
indispensabile per gli israeliani:
“Di dove sei?”
“Italiano d’origine Palestinese ”
“Dove vai?”
“A Safarin ”
“Cosa e’ Safarin?”
“E’ un piccolo villaggio in ...”
“In ..dove?”
“Non so se dopo questi negoziati di pace posso
chiamarla Palestina o in ogni caso devo dire
in Cis-Giordania?”
“Chiamala come vuoi, non importa il nome, cosa
vai a fare?”
“Ho tanti parenti ancora a Safarin ”
“Porti con te qualcosa d’illegale?”
“No, assolutamente ”
“Ok, prego ”
Entrai ma non seppi cosa fare, in pratica
cinque metri prima c’era la Giordania, passati
questi pochi metri mi trovai già in Israele,
non importava se adesso si chiama Israele e
prima si chiamava Palestina quello che
m’importava è come dovevo fare per uscire
fuori da quel deserto ed arrivare a Safarin.
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Dopo mezza ora d’attesa arrivò un taxi, salii
e senza dire una parola mi lasciò al centro
della prima città israeliana che é Elat.
Elat e’ una città moderna, nuova e molta bella
però non e’ una città del mio popolo.
Ebbi molta difficoltà a comunicare con la
gente che non e’ la mia gente, anzi e’ il mio
occupante da più di quarant’anni, ma tutto
questo non aveva importanza alcuna visto che a
pensarla in quella maniera c'ero solo io, le
forze mondiali o meglio le super potenze
(meglio chiamarle cosi se no qualcuno si
offende) la pensano diversamente!
Non vedevo l’ora di lasciare la bella città
delle costruzioni enormi, delle macchine
lussuose e della gente elegante, volevo
arrivare a Safarin dove le costruzioni sono
ancora di terra cotta, dove le macchine sono
meravigliosamente gli asini e dove la gente
indossa ancora il Kumbaz1 e la Kufia2.
Agli orecchi dei passanti Safarin sembrava una
parolaccia, nessuna mi sapeva dire come potevo
fare per arrivarci, povero villaggio mio non
ti conosce più nessuno o forse ti hanno
1 È 2 È un abito caratteristico lungo che indossano i contadini palestinesi
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cancellato dalla loro mappa. Pero neanche
questo importava che vuoi che sia cancellare
il nome di un villaggio in confronto della
cancellazione d’identità dei popoli interi!
Allora provai a chiedere di Nablus, almeno
questa e’ una gran città dove risiedono ancora
palestinesi sotto il dominio israeliano, anche
questa importava poco, se é sotto il dominio
Israeliano o un altro dominio, l’importante
era arrivare a Safarin, purtroppo i miei
tentativi erano tutti inutili, perché anche
Nablus l’hanno cambiato il nome.
Mi dissero alla fine, e dopo quattro ore di
girare, che l’unico modo era arrivare a
Gerusalemme e poi da là potevo trovare il modo
per arrivare a Safarin.
Il viaggio con il pullman fu comodo e piegò
quattro ore.
Arrivai a Gerusalemme Est (dove gli abitanti
sono tutti israeliani) anche qua non fu
emozionante per niente, era un’altra città
moderna e basta.
Fermai un taxi e gli dissi di portarmi a
Gerusalemme Ovest (dove sono i palestinesi),
per la mia fortuna questo parlava l’arabo,
quindi mi spiegò a lettera quello che dovevo
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fare per arrivare al villaggio dimenticato dal
tempo.
Quando il taxi si fermò ed i miei piedi
toccarono per la prima volta la terra più
amata, dai miei occhi scorreva un fiume di
lacrime.
Fu un’emozione terribile, unica,
indescrivibile ma bella. Non avevo mai visto
la mia Palestina, perché quando gli israeliani
con l’aiuto della potenza prima e della super
poi ci cacciarono fuori dal nostro villaggio
avevo gli occhi ancora chiusi.
Mia madre raccontò che quando ci cacciarono
via dal nostro villaggio, non portammo con noi
nulla se non quattro figli il più grande di
quindici anni e il più' piccolo stava ancora
nella culla e quest'ultimo ero proprio io,
quindi non ebbi mai la possibilità di
rivederla, ma questa volta grazie al mio
passaporto italiano mi fecero entrare.
Grazie Dio, grazie Italia, pensavo di morire
senza nemmeno vederla!
Asciugai le lacrime e recai al primo albergo
più vicino, il tempo di farmi la doccia che
stavo già per le strade di Gerusalemme
malgrado la tardi ora.
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La mattina dopo mi svegliai e subito a
prendere un taxi insieme ad altri quattro
passeggeri, spostarsi da una città all’altra
si faceva con questi taxi che chiamavano
macchine di servizio, arrivammo a Nablus dopo
quasi due ore. Presi un altro taxi sempre
insieme con altri passeggeri, e la cosa bella
che il tassista partiva solo quando stava al
completo, vale a dire cinque passeggeri, e
quando gli altri passeggeri non arrivavano mi
veniva di pagare per cinque persone cosi
partiva, però avevo il dubbio che poteva
essere un gesto offensivo.
Arrivammo dopo quasi quaranta minuti a
Tulkarem, e’ il capoluogo del mio villaggio.
Chiesi, allora, dai taxi che portano a Safarin
e mi affermarono che non c’erano. “Nel
piazzale dietro trovi alcune macchine ferme
forse qualcuno di loro ti può portare ” disse
uno di loro.
In quel piazzale trovai delle persone unite
dalla disperazione e dalla disoccupazione e
delle loro macchine fanno una specie di taxi.
Il taxi che accettò di portarmi era una pegeut
405 station wagon anni cinquanta, fu un
viaggio divertente e bellissimo. Sulle strade
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asfaltate (ed erano contate) andavamo a 30 km
l’ora, mentre su quelle non asfaltate (quasi
tutte) andavamo a 10 km l’ora ed ogni volta
che beccavamo una buca si apriva lo sportello
vicino a me, e con il disaggio dell’autista
che mi diceva, ogni talvolta, che si apriva:
guarda che non hai chiuso bene lo sportello.
Arrivammo finalmente a Safarin, e quando
l’autista mi chiese dove mi doveva lasciare,
Non sapevo che rispondere, che gli dicevo
lasciami in Oxford street o in Via Roma, ma se
non ci sono le strade come fanno ad averne i
nomi!
Cominciai a chiedergli se conosceva qualcuno
dei miei parenti e gli dicevo i loro nomi,
alla fine mi portò proprio a casa di mio zio
quello che stava in coma.
Quando la macchina cominciò ad attraversare i
vicoli del villaggio tutta la gente si
chiedeva che fosse questo straniero, non mi
conosceva nessuno e non conoscevo nessuno se
non un cugino che studiava in Italia anche
lui.
Mio zio stava proprio agli ultimi sospiri, mio
cugino mi presentò, e sdraiato a letto mi
abbracciò forte, sembrava la forza per
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aggrapparsi alla vita, le mie lacrime si
confondevano con le sue e quelle di mio padre,
solo allora capii quelle lacrime del mio papà.
Quando con la voce quasi inesistente provai a
dirgli che mio padre gli mandava tanti saluti
e abbracci e che malediceva il mondo che gli
ha impedito di vederlo, coprì con le mani quel
viso pieno di tante rughe, che sembravano
volere designare la mappa della Palestina che
il mondo cancellò ma non dal suo viso, e
scoppiò un pianto doloroso al punto che
cercavano di calmarlo piangevano anche loro,
soprattutto quando mi disse: non vedrò mai più
tuo padre, è vero?
Per alleggerire un po’ l’atmosfera, mio cugino
mi portò fuori casa, e mi fece vedere in
mezz’ora tutto il villaggio:
Sono passati trent’anni da quando fummo
cacciati ma la nostra casa è rimasta in piedi
fedele per il nostro ritorno, i campi d’oliva,
di frutta anch’essi sono rimasti a difendere
il nostro villaggio dall’occupazione, tutti i
parenti rimasti là con il gran coraggio di
sopravvivere per conservare l’identità di un
popolo che il mondo cattivo vuole cancellare e
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per rimanere una spina nella gola degli
occupanti.
Passai una settimana nel mio stupendo
villaggio, che non lo cambierei per nessun
posto al mondo nemmeno per Roma o Parigi.
Queste due bellissime città sono ricche di
monumenti unici, di storia e civiltà a
differenza del mio villaggio che non ha niente
di tutto questo neanche la corrente e l’acqua
però lì ci sono nato e lì ci sono le mie
radici!
E poi giunse il momento della partenza,
salutai tutti con altre lacrime ancora e per
ultimo mio zio, cosa che non avrei voluto fare
mai, quando mi vide disse: pensi che vedrò tuo
padre?
Non avevo altre lacrime neanche la voce per
rispondere, scossi la testa come per
affermargli che l’avrà visto. Mi girai le
spalle senza aggiungere una parola lo lasciai
là sul suo letto senza nessuna speranza di
vita ma con l’unica speranza di vedere il
fratello.
Mentre il taxi che attraversava molto
lentamente i veicoli del mio amato villaggio,
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nella mia menta scorrevano solo le immagini di
mio padre e di mio zio e tante domande.
La Prima era cosa doveva raccontare a mio
padre?
La seconda era ritorneremo per sempre al
nostro villaggio che non dimenticheremo mai?
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’intercity delle 22.20 per Venezia Mestre
in partenza dal terzo binario ” rimbombò la
voce dall’altoparlante nella incasinatissima
stazione di Roma mettendo in agitazione la
gente incrodata per fare il biglietto. Per la
mia fortuna ero arrivato in anticipo e da
vanti a me c’erano rimaste solo due persone.
“Mi fa passare davanti a lei a fare il
biglietto se no perdo il treno ” disse una
ragazza rivolgendosi a me.
Senza aspettare la mia risposta la trovai
davanti: “Grazie mille, non conosco Roma bene
e mi sono persa in mezzo il traffico ”
aggiunse. Fece il suo biglietto e aspettò
finché non feci il mio e camminando verso il
terzo binario mi disse: “Allora anche lei sta
andando a Venezia, ci va per lavoro o per
altro?
“Per lavoro ” le risposi
Si fermò di fronte ad una cabina e disse:
possiamo salire qui che é vuota.
Volevo solo dormire, anche perché il viaggio
era lungo ed il sonno mi bruciava gli occhi,
era diventata un’abitudine dormire durante i
La Ragazza Del Treno
“L
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lunghi viaggi nonostante l’insicurezza sui
treni.
“Ti ringrazio veramente, se non fosse stato
per te sarei rimasta fino a domani mattina
alla stazione ” disse la ragazza tirando fuori
della sua borsa un libro.
“Non mi devi ringraziare, ho fatto quello che
mi sentivo di fare ” le risposi, pensando che
s’era infilata davanti a me senza il mio
consenso.
“Adesso mi sento decisamente sicura nella tua
compagnia sai cosa vuol dire per una ragazza
viaggiare di notte da sola?” aggiunse.
“Lo so, é dura, soprattutto in questi giorni,
comunque se vuoi dormire stai tranquilla, é
difficile che io mi addormenti ” le risposi.
Mi veniva da ridere ricordando quel maledetto
viaggio da Milano a Roma e coltempo non volevo
raccontarlo a lei per non impensierirla.
Quella volta avevo preso il treno da Milano
verso le due del mattino, avevo lavorato tutto
il giorno ed ero stanchissimo, però era
l’ultimo del mese, avevo preso lo stipendio e
non vedevo l’ora di vedere mia moglie e mia
figlia che abitavano ancora a Roma.
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Salì sul treno, cercai una cabina vuota, tolsi
le scarpe e dopo pochi secondi stavo già in
profondo sonno.
“Biglietto prego, biglietto prego ”.
Con tanta difficoltà aprì gli occhi, glilo
mostrai , e lui augurandomi un buon viaggio
spense la luce. La stanchezza era tanta e così
anche il sonno, pensando alle cinque ore
rimaste per il mio viaggio tornai a dormire.
“Svegliati, hei sveglia ”, questa volta la
voce era roca, pensavo che stessi sognando, ma
una mano mi scuoteva con una certa forza e la
voce roca arrivò di nuovo “svegliati, siamo a
Roma ”.
Mi svegliai intontito, cercavo di alzarmi ma
non avevo tanta forza, mi sentivo debole, e se
non era per la mano del poliziotto che mi
reggeva sarei caduto per terra.
“Dove hai il portafoglio ” mi chiese un
poliziotto.
Allungai la mano alla tasca, ma non lo trovai,
mentre le grida della gente riempiva il treno
e mi svegliava dalla anestesia.
Ci portarono in questura per fare la denuncia
e ci spiegarono che dei banditi erano saliti
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sul treno, avevano spruzzato un spray per
drogarci.
Malgrado questo brutto episodio non avevo mai
rinunciato a dormire sui treni, l’unica cosa é
che non portavo più soldi nel portafoglio.
“Un bellissimo libro, l’ho appena finito ”
disse riportandomi di nuovo nella realtà
lontano da quell’incubo. E senza aspettare il
mio commento aggiunse: “parla di una storia
d’amore tra una ragazza italiana ed un
immigrato arabo, lei lo ama alla follia anche
se lui non la ama perché intende sposarsi una
ragazza del suo paese ” .
“Dovrebbe essere una storia interessante anche
se credo che sia difficile che due culture
diverse possano convivere sotto lo stesso
tetto e soprattutto se non sono uniti da
grande comprensione ” risposi.
“Io sono convinta che quando c’é l’amore non
ci sono ostacoli ”replicò.
“Direi che il rispetto é la base di ogni
rapporto, non vedi ”? le chiesi.
Sembrava essere scottata dal mio parere e come
se l’argomento la toccasse in prima persona
allora disse: “sai anche se il ragazzo la
maltrattava e la trascurava e soprattutto era
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intenzionato a sposarsi con una ragazza del
suo paese, lei lo stesso non se era rassegnata
perché lo amava veramente e poi al cuore non
si comanda, no?
L’argomento si fece sempre più sensibile, lei
sempre più agitata. Allora cercai di attenuare
la tensione dell’atmosfera e le dissi: “si,
hai ragione al cuore non si comanda, però, non
possiamo assecondare sempre i nostri cuori,
bisogna usare anche la testa per avere un
certo equilibrio ”.
Gli occhi mi cominciavano a bruciare, il treno
continuava la sua corsa rompendo il silenzio
della notte, e mentre lei seguiva il filo di
fumo della sigaretta le chiesi: “insomma,
com’é andata a finire tra loro?
“Per capire certe cose bisogna viverle, in
ogni caso ti consiglio di leggere il libro ”
rispose rassegnandosi ad un profondo sonno.
Quando la voce si diffuse tramite gli
altoparlanti annunciando l’arrivo alla
stazione di Mestre, aprì gli occhi, ma la
ragazza che non avevo neanche saputo il nome
non c’era più, andò senza neanche salutarmi!
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Notte d’estate, notte di mondiale, pur di
seguire tutte le partite indiretta mi ero
addormentato sulla poltrona che insieme con un
tavolo, quattro sedie ed un televisore anni 70
b/n faceva parte del molto modesto arredamento
di un salotto adatto per una casa dove
vivevano quattro studenti palestinesi al loro
primo anno d’università.
Quella notte mi sentivo particolarmente
stanco, non so dire se a causa delle partite o
l’ansia dell’esame del giorno dopo. La cosa
certa che sono crollato su quella poltrona con
tutti i miei pensieri che erano rivolti a
Boccaccio, visto che l’esame del giorno dopo
era proprio la storia contemporanea.
Mentre mi stavo ripetendo l’anno della sua
nascita sentii bussare alla porta di casa in
modo molto violento, pensai per un istante che
L’ACHILE LAURO
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avessi sbagliato la sua data di nascita,
invece i colpi violenti sulla porta di legno
aumentarono sempre di più.
Mi alzai impaurito e andai verso la porta e
dissi: chi é?
- Polizia apri
Guardai dalla spia ma non vidi niente allora,
sempre più impaurito dissi:
- Fatemi vedere qualcosa che lo dimostra
I colpi sulla porta sono sempre più forte
- Apri subito
Non aprii, andai da uno degli amici che
abitavano con me e gli dissi: dicono che sono
poliziotti che faccio li devo aprire?
Con tutto il sonno del mondo negli occhi ed
incoscientemente mi disse: apri, altrimenti
che fai?
Nel momento in cui aprii la porta mi buttarono
per terra
- Non ti muovere se no sparo! Disse uno di
loro
Accucciato come un gatto impaurito non ebbi
nemmeno la forza di rispondere.
Mentre entrarono altri ed altri ancora e
svegliarono i miei amici ovviamente con le
mitre rivolti su di loro.
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In quel periodo ci fu il sequestro
dell’Achille Lauro, noi leggevamo sempre ogni
evento che riguardava i palestinesi o gli
arabi in generale, ed era ovvio se prendevi
qualsiasi giornale lo trovavi aperto
direttamente sulla cronaca estera.
Quando loro hanno trovato questi giornali e
tutti sullo stesso argomento; “L’Achille
Lauro”, pensavano di aver trovato i
responsabili ossia l’indizio che gli portasse
ai responsabili di quell’operazione che in
ogni modo io condanno.
Avevano cercato tutta casa, l’avevano messa
sotto sopra e alla fine non trovando niente
che ci possa condannare ci portarono via con
loro.
Abitavamo dentro una palazzina dove c’era un
cortile largo per le macchine degli abitanti,
e quando siamo scesi da casa due di loro mi
presero a parte dove era parcheggiata una
macchina BMV e mi dissero di aprirla, e io gli
risposi che non era mia, a quel punto uno di
loro mi disse: si, ma tu sai come fare per
aprirla. Gli risposi che non so niente di
niente, poi mi chiese se ero io il capo
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gruppo, e gli risposi che non esisteva nessun
gruppo.
Alla fine ci portarono alla questura centrale,
ogni uno di noi dentro una macchina di
polizia, a dire la verità in quel momento mi
ero sentito un vero terrorista ma non avevo
minimamente paura.
Arrivammo alla questura e ci fu un piccolo
interrogatorio: chi vi paga? A quale gruppo
terroristico appartenete? Dove nascondete le
arme?
E non trovando risposte che potessero
soddisfare i loro dubbi e condannassero noi,
ci portarono nelle celle buie e brutte
ovviamente ogn’uno dentro una cella e non
tutti insieme come avremo tanto preferito per
essere la prima esperienza!
Quando sentii le sbarre a chiudere dietro a me
allora mi resi conto che avevo molta paura,
uno perché, appunto, era la mia prima e unica
volta dentro una cella, due perché era troppo
buia, tanto é vero che quando i mostri della
mia cella mi saltarono a dosso chiedendomi una
sigarette non ebbi il modo di vederli ma solo
di sentire le loro voci.
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I miei compagni di cella, scoprii dopo essermi
abituato al buio, che erano quattro, qualcuno
fu arrestato per motivi di droga, altro per
armi, ecc. ed il piccolo io, lo studente
universitario arrestato per motivi
sconosciuti, anzi per motivi d’identità,
motivi di nazionalità pericolosa e per essere
nato nell’amata Palestina!
In un secondo solo avevo programmato un piano
e cioè di far impaurire loro per non far
capire a loro la mia fottuta paura, allora nei
due metri di cella arrivai al muro e gli diedi
un cazzotto, ritornai all’altro muro gli diedi
un altro cazzotto e quando uno di loro mi
chiese il perché mi avevano portato lì, gli
risposi subito di non capire il suo dialetto
essendomi palestinese e credo che in quel
momento mi sono sentito molto orgoglioso di
essere palestinese perché ha funzionato per
fargli paura.
Passai tutto il tempo sveglio, loro erano
abituati a dormire su quel cimento armato
avvolti con una schifosa coperta.
All’improvviso sentii il rumore del cancello
della cella ad aprirsi, mi svegliai dal sonno
tutto impaurito mi alzai, guardai l’orologio,
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andai a lavarmi il viso e mi resi conto di
aver dormito male su quella poltrona. Fece
colazione e mi recai all’università per fare
il mio primo esame in ogni caso fu bocciato
non so dirvi se era l’incubo o perché non ci
ero proprio andato a fare l’esame!
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L’idraulico
La mattina dopo sarebbe venuto l’idraulico per
sistemare le ultime cose nella sua nuova
abitazione. Era il primo giorno dentro una
casa indipendente, tutta sua "Finalmente posso
fare ciò che voglio senza chiedere permesso a
nessuno” si diceva.
Con tutta la felicità della nuova casa era
caduto in un profondo sonno con un sorriso
vittorioso e un pensiero rivolto
all’idraulico.
Fu lo squillo del telefono a rompergli i primi
secondi di un felice sonno:
- Pronto
- Ciao Marco, sono la mamma, ti ricordi che
domani mattina deve venire l’idraulico?
- Si mamma ricordo bene, mi vuoi lasciare in
pace a godere la mia casa!
- Si amore di mamma,buonanotte.
Ritornò a dormire pero’ il telefono squillò di
nuovo:
- Si sono Marco e tu chi sei?
- Scusami se ti ho svegliato, sono Marta
- No, non preoccuparti
- Volevo invitarti a colazione, che dici?
- Ok, una buon’idea. Ci vediamo fra un’ora
Marta.
E’ stato solo il tempo di mettere la cornetta
a posto ed ecco un’altra voce femminile che
gli disturba il sonno e gli rallegra l’animo:
- Chi e’?
- Ciao Marco, sono Elena, come va?
- Buongiorno Elena, che bella sorpresa!
- Volevo sapere se possiamo pranzare insieme,
oppure hai altri impegni?
- No affatto, nessun impegno,una ottima idea,
ci vediamo alle due.
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“ Sembra che la casa nuova mi porti fortuna e
tante donne” si diceva,e neanche il tempo di
pensarlo che sentì bussare alla porta.
- Chi e’?
Apri, sono Marta, visto che hai fatto tardi al
nostro appuntamento ho pensato di passare
direttamente a portarti la colazione e così
tifaccio gli auguri per la casa nuova.
- Sei gentilissima, vieni dentro.
- Ti vedo imbarazzato Marco o mi sbaglio?
- No, assolutamente
- Meriti tutto il mio amore, vieni vicino a me
che ti coccolo un po’.
Lei si avvicinò e mentre stava per baciarla i
colpi sulla porta aumentarono per svegliarlo
impaurito dal suo profondo sonno.
- Chi é?
- Apri sono l’idraulico!
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I ricordi di un pollo
Caro mio fratello professore, La Makluba é quel timballo di riso con pollo e melanzane rovesciato sul grande piatto d’alluminio, decorato con pinoli e mandorle tostate, senza l’aggiunta del prezzemolo, che a te fratello, non piaceva. Era il piatto tipico palestinese più amato dai nostri stomachi. Caro mio fratello professore, Ho scelto te per le mie parole perché nessuno meglio di te può ricordare quei giorni, ed a nessuno più di te piaceva mangiare la Makluba i cui ingredienti variavano secondo la tua presenza. Quando il silenzio regnava dentro casa ciò significava che avresti pranzato con noi e la Makluba si presentava con il riso, il pollo, le melanzane, niente prezzemolo, niente cavolfiore e con le tante mani che si allungavano per prendere il riso con buone maniere e tanta educazione. Caro mio fratello professore, Ti confido che le nostre buone maniere e l’educazione alle quali tu severamente ci tenevi, venivano a mancare quando ritardavi per il pranzo. Passavamo tutto il tempo a giocare fuori nel cortile e non a studiare come ti dicevamo, finché non ci giungevano gli odori della Makluba quasi contemporaneamente alla voce di nostro padre che, per elogiare l’arte culinaria di nostra madre, le cantava le serenate d’amore. Allora capivamo che la Makluba ci stava aspettando, così ci affrettavamo avidamente ad occupare posti attorno al delizioso piatto.
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Sotto gli occhi orgogliosi e felici dei nostri genitori cominciava la battaglia della Makluba; si alzavano nove mani e, con la velocità di un falco lanciato per afferrare la sua preda, così le nostre mani raggiungevano il piatto di Makluba nel tentativo di catturare il pezzo di pollo preferito. Tutto questo, ovviamente, dopo che nostra madre aveva liberato dalla nostra fame il petto di pollo e lo aveva nascosto per te, mentre la battaglia diventava rovente. Qualche fratello gridava addolorato per una spinta o per un pizzicotto, un altro rubava il pezzo di pollo all’altro, mentre si alzava la voce di nostro padre che c’invitava alla calma assicurandoci che il cibo era sufficiente per tutti. I nostri genitori non partecipavano con noi, ma aspettando il tuo arrivo, si limitavano a guardarci con tanti sorrisi che forse per loro avevano un certo significato! Poi arrivavi tu e la battaglia della Makluba cessava, con tanta calma prendevi posto e con la stessa cominciavi a mangiare in compagnia dei nostri genitori, e così cominciava un’altra battaglia tra te e loro; quando tu cercavi di dividere con loro la tua parte del pollo e i tuoi tentativi fallivano di fronte all’insistenza di nostro padre che ti diceva: che Dio ti benedica figlio mio, tu sai bene che io non mangio del pollo se non il collo e le ali. Invece con la sua voce fine nostra madre ti diceva: che Dio ti protegga figlio mio, tu sai bene che non ho i denti buoni per mangiare il pollo, mettimi solo due chicchi di riso! La vostra battaglia cessava con la tua rassegnazione di fronte alla loro insistenza e con il tuo rifiuto di mangiare da solo tutto il petto del pollo, perciò, ti alzavi
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lasciando più della metà sopra il piatto del riso. Caro mio fratello professore, Ti confesso che io rimanevo indifferente a quelle loro parole soprattutto perché il mio pezzo di pollo l’avevo ingordamente mangiato, Però non rimanevo altrettanto indifferente quando vedevo che quello che lasciavi del tuo pezzo di pollo era più di quello che mangiavi e nello stesso tempo non trovavo nessuna spiegazione! Caro mio fratello professore, La situazione dei palestinesi, come dicevi, era molto difficile e la povertà dominava tutte le loro case, forse per questo che tu lasciavi il tuo pezzo di pollo, con la speranza che uno dei nostri genitori lo mangiasse? Forse per questo nostro padre ci diceva che gli piaceva solo il collo e le ali del pollo? Forse per lo stesso motivo nostra madre ci diceva che non aveva i denti buoni per mangiare il pollo? Caro mio fratello professore, La situazione difficile e la povertà, della quale mi parlavi, adesso è cambiata, almeno possiamo mangiare quanto ne vogliamo di pollo! Caro mio fratello professore, Che gusto ha, però, mangiare il pollo se non c’é più nostra madre! Caro mio fratello professore, Scusami se non provavo le cose che provavi tu! E solo perché non le capivo!
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La Storia Di Roberta
“Ti racconto una storia Shaden, così ti
addormenti. E’ la storia di una ragazza che tu
conosci”.
“Chi è questa ragazza papà?”
“Ti ricordi Roberta?”
“ Quella che mi faceva i tatuaggi quando ero
piccola?”
“Si, é proprio lei Shaden…”
“ Ebé che ha fatto?”
“Ora ti racconto tutto, intanto dici alla
mamma di farci una tazza di té alla menta e
poi vieni a metterti vicino a me”. Lei obbidi.
Nel frattempo mi ero sistemato il mio angolo
notturno; il materasso e i cuscini sul
tappeto, il posacenere e le sigarette, un
libro che avevo iniziato a leggere, quaderno e
penna per prendere qualche appunto.
Amavo molto sdraiarmi per terra, ora a leggere
un libro, ora a guardare la televisione oppure
a giocare con la mia piccola Shaden, passavo
le ore in quell’angolo. Era l’unico modo per
sentirmi vicino alla mia terra, alle mie
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tradizioni e alla mia gente.
Mi ricordo bene, vent’anni fa, il giorno in
cui ero arrivato in Italia, avevo tagliato
ogni legame con il mio vecchio mondo, e più
anni passavano più mi trovavo lontano dal mio
passato, dalle mie tradizioni e dalla mia
religione ma soprattutto mi trovavo con una
nuova identità.
“E’ pronto questo té Shaden?”
“Si, quasi pronto papà, un attimo e te lo
porto”.
Qualche anno prima che nascesse Shaden
quest’angolo non esisteva, al posto del té
alla menta c’era l’immancabile birra doppio
malto ed una confusione mentale; non sapevo se
ero ancora musulmano o altro, se ero ancora
orientale o ormai occidentale, se mi dovevo
comportare in una maniera o un’altra ecc..!
Finché non arrivò lei e la mia vita fu
travolta da un’ondata di coscienza; solo
allora capì che non avevo mai negato la mia
identità o le mie origini ma le avevo
semplicemente sepolti, ed era giunto il
momento di tirarli fuori. Era un dovere far
capire a Shaden le sue origini e la sua
religione in maniera che lei potesse scegliere
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quando crescerà.
“Papà, non ti sei mica addormentato? Guarda
che mi hai promesso di raccontarmi la storia
di Roberta”
“Versami una tazza di té che ti racconto
tutto”
Shaden versò il tè ed io cominciai:
“Non so Shaden se tu sai che Roberta conviveva
con un uomo da quasi quattro anni. All’inizio
era tutto bello ed era molto felice, però
negli ultimi tempi le cose erano cambiate; non
si parlavano più e sovente litigavano per dei
motivi molto banali e com.. ”
“Quali sono questi motivi, papà?”
“Per esempio l’ultima volta che sono stato a
casa loro avevano litigato a causa della
cipolla”
“Cosa c’entra la cipolla? Mi chiese con un
tenero sorriso
“Hai ragione Shaden, sembra buffo ma è la
verità, lui le sgridò: sono quattro anni che
stiamo insieme e tu metti ancora la cipolla
nel sugo!
E lei con una voce ancora più violenta gli
rispose: ma tu mi devi dire il ragù senza
cipolla che ragù è?
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“Ti ricordi quando siamo andati al teatro, io
ero venuto con te anche se non mi piaceva,
l’avevo fatto solo per farti felice”. Lui
replicò
“E con questo?” commentò lei
“Con questo voglio dire che tu non dovevi
mettere la cippola” rispose lui convinto.
Shaden scoppiò a ridere, io presì una
sigaretta, la accese e versai un altro po’ di
té.
“Tu ridi Shaden ma è così quando manca il
dialogo in un qualsiasi rapporto - una figlia
con i genitori, un amico con un altro oppure
un marito con la moglie- sarà molto facile che
questo rapporto si rompa, hai capito papi?”
“Vuoi dire che il motivo era perché non
avevano più dialogo?”
“Si, esattamente così, i loro problemi non li
avevano mai risolti radicalmente ma si sono
abituati a convivere con essi finché era
arrivato il momento che nessuno di loro due
poteva sopportare l’altro.
Infatti, un giorno lei tornò a casa distrutta
dal lavoro e trovò una bella sorpresa, un
biglietto scritto da lui: addio Roby, é tutto
finito, ti auguro tanta fortuna.”
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“Quindi l’ha lasciata?
“Si, si n’andato senza neanche aver parlato
con lei per risolvere i problemi, ammesso che
dei problemi seri ci fossero stati”.
“ papà, non è meglio così, almeno non litigano
più, no?
“Si, anche io la penso come te Shaden visto
che non hanno mai voluto parlarne”
“Invece Roberta che dice?
“Ho sentito che lei ha sofferto molto la sua
lontananza e che ha capito di essersi
innamorata solo dopo che lui si n’era andato.
Ma secondo me lei non era innamorata ma
semplicemente si era abituata a lui, quindi le
manca la sua presenza, la vita che ha condotto
per tanti anni con lui, la routine.
Dal giorno in cui lui s’era andato che lei non
andava più a lavoro, aveva pensato mote volte
di uccidersi: “Se avessi il coraggio mi sarei
tolta la vita” disse una volta a Sandra la sua
amica del cuore e dei dolori. Poi aveva
pensato di andare lontano, molto lontano
magari in qualche isola dove non vive nessuno
ma anche quest’idea fu scartata pensando alla
paura di stare sola avvolta dalle tenebre
della notte.
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In realtà lei cercava un’alternativa qualsiasi
per uscire dalla sua solitudine. Non aveva mai
pensato a quello che era successo o perché era
successo. Lei in fondo non era triste perché
il suo uomo l’ha lasciata, ma per il fatto che
sta sola a vivere nel vuoto.
“Volete vivere notte di mille e una notte,
volete conoscere le emozioni di un amore
platonico?Le nostre ballerine di danza del
ventre saranno in vostra compagnia per la
serata inaugurale del Falafel, il primo locale
arabo a Mestre…Non mancate”
Saltò dal divano con il giornale in mano,
lesse l’annuncio ad alta voce come per
convincersi dell’idea, chiamò subito Sandra,
le disse dell’inaugurazione di questo nuovo
locale e della sua intenzione di andarci.
Davanti l’insistenza dell’amica sofferente,
Sandra non ebbe il coraggio o il modo di dire
no alla proposta di passare la serata al
Falafel.
“Ci vediamo sotto casa mia alle otto in punto”
disse Roberta all’amica convinta che in quel
locale avrebbe trovato l’amore perduto.
Le attese di Roberta non erano tanto lontane
da quello che ha trovato; locale bello e
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accogliente, personale simpatico e gentile ed
una notte da mille e una notte, era così
stupita e coinvolta dalla bravura delle
ballerine che in fin di serata ballò anche
lei.
“Come ti è sembrato il locale Sandra?
Sandra è una ragazza timida, molto equilibrata
e difficilmente sbilanciata ma soprattutto
amava stare sola a differenza dell’amica.
“E’ un bel locale, abbiamo passato una serata
diversa, ci ha fatto bene, soprattutto a te
Roby, No?
“Si, credo che tu abbia proprio ragione, ma
poi hai visto come mi guardava quel ragazzo
che ci ha servito il té! Mi ha chiesto anche
il numero di telefono”.
“Vai con cautela Roby che ancora lo devi
conoscere”.
“Guarda che è diverso dagli altri, è molto
colto, mi ha già stregato con il suo modo di
parlare del suo mondo e della sua cultura”,
replicò Roberta
“Stai attenta a quello che fai, non farti del
male e pensa solo a stare bene”. Con queste
parole Sandra salutò Roberta augurandole una
buona notte e tanta fortuna.
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Un giorno telefonai a Roberta per sapere come
stava, era passato tanto tempo senza sentire
le sue notizie, dalla sua voce traballante
capì che aveva superato quella crisi, m’invitò
a casa sua a prendere un caffè ed io accettai
volentieri l’invito.
“Questo è Musa, il mio principe d’oriente ”
disse presentandomi il ragazzo che quando
arrivai a casa sua era abbracciata a lui.
Era seduto vicino a lei sul divano, parlava
piano e con buone maniere ed aveva veramente
l’area del sultano o del principe, non certo
per il suo modo di parlare ma per il fatto che
non si muoveva, lei gli faceva tutto, gli
sbucciava la frutta e gli la imboccava, gli
accendeva la sigaretta e gli la metteva in
bocca…ecc.
“Mi ha fatto piacere rivederti Roby, spero che
adesso stai bene!” le disse mentre la stavo
salutando sui gradini della porta.
“Si, sto molto bene, questa volta ho trovato
l’uomo che fa per me, che mi ama, sono proprio
innamorata” commentò lei con un sorriso timido
“Roby, invece io credo che tu stia abituando
di nuovo alla presenza di un altro uomo nella
tua vita e non che ti stia innamorando ”, le
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dissi mentre salivo in macchina alzando la
mano per augurarle la buona notte.
“E’ rimasto del té Shaden?
Guardai a Shaden e la trovai addormentata con
un sorriso che le riempiva il viso, pensai che
forse s’era addormentata quando le raccontai
della cipolla, le diedi un bacio, spinse la
luce e mi addormentai vicino a lei.