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I processi di socializzazione organizzativa nelle Banche di Credito Cooperativo

La Generazione Y e il mondo del lavoro

Executive Summary

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      Sommario  

  Introduzione ……………………………………………. 5

Il contesto sociale ………………………………………. 6

La Generazione ”Y” …………………………………….. 8

La socializzazione organizzativa ………………………… 11

La formazione come partecipazione……………………... 13

Le comunità di pratica …………………………………... 13

Comunità di pratica e “tecnologia 2.0” …………………. 15

Risultati della ricerca ……………………………………. 17

La ricerca ……………………………………….. 18

Le forme dell’apprendimento ……………………. 18

Il processo di induction …………………………. 24

Il campione …………………………….. 24

Strumenti di raccolta dei dati …………… 24

Interviste alle Direzioni del Personale …………… 25

Chi sono i newcomers delle BCC ………………... 28

Conclusioni ……………………………………... 31

Bibliografia ……………………………………………... 33

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Senza la disponibilità delle Direzioni e del personale delle Banche di Credito Cooperativo non si sarebbe potuta realizzare questa ricerca; a loro che hanno partecipato attivamente offrendo piena collaborazione durante le interviste e attraverso la compilazione dei questionari, va il nostro grazie più sincero.

Un particolare ringraziamento al Dipartimento di Studi del Lavoro e del Welfare dell’Università degli Studi di Milano ed in particolare ai professori:

Silvia Gilardi ([email protected]) Luca Solari ([email protected]) per il loro impegno e per il fattivo supporto nella realizzazione della ricerca.

Elena Isella ([email protected])

Luca Cicatelli ([email protected])

Edoardo Gironi ([email protected])

Il software utilizzato per la raccolta e la elaborazione dei risultati è stato realizzato da: Net-Age Software Engineering (Aosta) www.net-age.it

La stampa e la diffusione della ricerca sono a cura di:

© Studio Associato Ciupi

Via Alserio, 23 20159 Milano [email protected]

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Introduzione 

G uardando a quanto avvenuto nel passato, l’assunto che le nuove generazioni sono fonda-mentalmente diverse da quelle che le hanno

precedute è un fenomeno assai comune. Attualmente l’assunto è che i “giovani professionisti” appartenenti alla Generazione Y sono davvero molto diversi dalle ge-nerazioni che li hanno preceduti. Le organizzazioni stan-no intuendo che i metodi e gli strumenti di gestione fin qui utilizzati non forniscono i risultati sperati e si è ini-ziato a lavorare per cercare di comprendere quali siano le caratteristiche e i bisogni specifici di questa genera-zione per trovare una prospettiva che consenta di iden-tificare i processi di management più corretti per valo-rizzare le nuove e potenti competenze ed energie di cui gli “Yers” sono portatori.

Questa ricerca vuole analizzare, attraverso i risultati di un’indagine empirica, quali sono le politiche attuate dalle banche, in particolare quelle appartenenti al movi-mento del Credito Cooperativo, come queste politiche siano vissute e quali i risultati ottenuti dai neo-assunti nella loro fase di socializzazione o di induction, termine che definisce questa fase nella letteratura anglosassone. Parliamo dei giovani della Generazione Y, i neo-diplomati e neo-laureati, che si stanno affacciando ora nel mondo del lavoro e del loro rapporto con l’istituzione forse maggiormente conservativa: la Banca. La crisi economica che ha attanagliato negli ultimi anni il mondo acuendo, in modo particolarmente evidente nel nostro paese, gli squilibri sociali per l’accesso al mondo del lavoro, moltiplica i suoi effetti attraverso un profondo cambiamento della struttura del mercato del lavoro e con una crescente individualizzazione del rap-porto tra azienda e newcomer.

Zygmunt Bauman parla di “società liquida” sottolinean-do come la grande trasformazione sociale in atto sia pervasa della incertezza derivante dalla perdita dei pun-ti di riferimento conosciuti, costringendo l’individuo a un continuo adattamento a una “vita liquida”. Questa “fase di liquidità” attraversa aspetti importanti della nostra vita sociale, come ad esempio il lavoro, la comu-nità, l’individuo, il rapporto tra lo spazio e il tempo, e infine, ma non ultimo in ordine di importanza, l’idea di libertà e quella ad essa collegata di emancipazione delle persone. (Bauman, 2006)

Focalizzando la nostra attenzione sul mondo del lavoro e il rapporto che i newcomers hanno con le aziende, scopriamo come questo si è modificato da entrambi i la-ti del mercato. Aziende che non sono più in grado di of-frire lo stesso livello di certezze che hanno garantito alle

generazioni passate. giovani che appartengono a una generazione che presenta caratteristiche nuove da “nativi digitali” (Prensky, 2001) associate a un rapporto con i valori sociali modificato rispetto alle generazioni che l’hanno preceduta. Quali sono e come possono es-sere colmate le distanze tra queste entità che si trovano a fronteggiare cambiamenti tanto significativi quanto in costante e rapida successione? Quali reciproci contributi possono scambiarsi per aumentare la loro capacità di scoprire le nuove regole di una società “liquido-moderna”? Società questa dove gli individui non pos-sono concretizzare i propri risultati in beni duraturi: in un attimo, infatti, le attività si traducono in passività e le capacità in incapacità” (Bauman, 2006).

Non sono momenti più difficili di quanto non lo siano stati alcuni di quelli passati, ma certamente i nostri gior-ni sono dominati dall’incertezza complessiva dell’ambiente in cui operiamo, dove i cambiamenti so-ciali, politici e soprattutto tecnologici, impongono acce-lerazioni e cambi di ritmo difficilmente riscontrabili nelle epoche passate. Incertezza che si sposa con la comples-sità di affrontare situazioni completamente nuove con un numero elevatissimo di variabili e dove l’adattabilità, assumere la forma liquida in grado di adattarsi al pro-prio contenitore, per proseguire con la metafora di Bau-man, diviene una necessità per la sopravvivenza delle organizzazioni. In un mondo del lavoro attraversato da questa “transizione epocale”, sempre più caratterizzato dalla richiesta di flessibilità, l’elemento fondamentale per l’integrazione sembra essere diventato la capacità di acquisire competenze soprattutto strategiche, che fanno riferimento alla capacità di “apprendere ad apprende-re”, modificando il processo di apprendimento; tale modifica si declina in uno spostamento dell’apprendimento a un livello che va oltre i contenuti meramente cognitivi, e investe sia le modalità di porsi di fronte ai problemi per risolverli sia gli stili di comporta-mento, ovvero il modo d'essere in relazione degli indivi-dui. Per le nuove generazioni, dunque, non si tratta sempli-cemente di imparare lungo tutto il corso della vita, ma di farlo anche in base alle esigenze che il mondo del la-voro richiede e che il vivere sociale impone; esigenze e richieste che implicano competenze indispensabili come quelle di orientarsi nel tempo e nello spazio, di operare scelte consapevoli e responsabili, di progettare, comuni-care e cooperare adeguatamente di fronte al nuovo in maniera propositiva, di considerare le differenze come potenziali risorse e con come limiti. La ricerca, a seguito di una introduzione sul contesto so-ciale odierno e sulle difficoltà che i giovani incontrano nell’ingresso nel mondo del lavoro, presenta quali sono i soggetti interessati dal progetto con una descrizione

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delle peculiari caratteristiche di quelli che sono stati de-finiti “nativi digitali”; inoltre delineeremo le caratteristi-che di quella che sembra essere un’isola felice, costitui-ta da un insieme di aziende di credito che per valori e per tradizione, manifesta una cura e un’attenzione nei confronti dei collaboratori non comune.

Il contesto sociale 

I l contesto storico e sociale che stiamo vivendo è stato, come precedentemente ricordato, definito postmodernità. Il periodo postmoderno inizia nel

mondo occidentale a partire dal XX° secolo, anche se non vi sono date precise per cogliere l'origine certa di questo periodo. Esso si configura come un progressivo deteriorarsi delle pretese di fondare unitariamente qual-siasi principio e, quindi, si presenta come il progressivo affermarsi dell'idea di instabilità ovvero dell’idea che nulla può poggiare stabilmente su un senso definitivo. Viene posta in discussione la fiducia nei classici sistemi di pensiero che suggerivano una visione fondata della realtà: viene meno la forza della filosofia come annun-cio di un sapere scientifico e paradigmatico; viene meno la fiducia nelle leggi immutabili del mercato (l'economia classica); viene meno la fiducia nei sistemi politici con pretesa di fondamento universale (il marxismo); e viene meno la forza stessa della fede dogmatica. Incertezza e precarietà divengono una costante. Quasi, paradossalmente, tali fattori divengono una certezza su cui poter ricongiungere la propria realtà e le proprie a-spettative, in una confusione che diviene complessiva-mente più grande; in risposta all’ansia crescente che si genera in tale contesto, gli individui sono spinti a pro-teggersi, nell’umana ricerca della felicità, verso una pa-ce che può essere raggiunta solo attraverso la collettivi-tà, dove l’essere felici discende dal fondersi nella collet-tività, nell’immedesimarsi nei suoi valori (Legrenzi, 1998).

In questo contesto già di per sé particolarmente com-plesso, fatto di paure individuali rispetto al futuro e di incertezze a quest’ultimo connesse, nonché di paure collettive che, dagli attacchi terroristici

dell’11 settembre 2011, pervadono le nostre società, dove le guerre divengono esportatrici di democrazia e di pace, si è innestata dal 2008 una delle crisi economiche più devastanti degli ultimi 100 anni. In particolare il nostro Paese, che è entrato nella recessione economica in ritardo rispetto alle economie di altre nazioni occidentali, sta soffrendo in modo significativo gli effetti di una lenta uscita dalla crisi, come testimoniato dal recente Rapporto Annuale dell’Istat del 2011. Nel rapporto infatti si legge: “Per l’Italia la crisi ha messo in evidenza i nodi di fondo del mercato del lavoro, dalle forti disparità territo-riali alle

difficoltà di inserimento dei giovani, dalla sua segmentazione tra italiani e stranieri all’elevato numero di persone che rinunciano alla ricerca di un’occupazione. [….] Peraltro, il restringimento della base occupazionale ha interessato soprattutto le professioni più qualificate e il settore della trasformazione industriale, mentre è proseguita la crescita dell’occupazione nelle professioni non qualificate e nel terziario tradizionale. Nell’ultima parte del 2010 è poi tornato a crescere il lavoro atipico” (ISTAT, 2011, p. 105). Il rapporto evidenzia infatti quanto i giovani stiano soffrendo gli effetti della crisi economica subendo, dal 2008 al 2010, una riduzione in termine di occupati del 13,2 per cento nella fascia di età che va tra i 15 e 29 anni, evidenziando quanto in questa situazione sia questa fascia di età a pagare il prezzo più elevato alla flessibilità delle imprese (vedi Tavola 1‑1).

Tavola 1‑1 Occupati 2008 - 2010 Fonte: (ISTAT, 2011)

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Il tasso di occupazione specifico, sceso tra il 2004 e il 2008 dal 42,0 al 39,3 per cento, si è contratto tra il 2008 e il 2010 di circa cinque punti percentuali. In termini relativi, la flessione dell’occupazione giovanile è rimasta sia nel 2009 che nel 2010 di oltre cinque volte più elevata di quella complessiva. Nel 2010, era occupato circa un giovane ogni due al Nord; meno di tre ogni dieci nel Mezzogiorno.

Se si analizzano ulteriormente i dati forniti dall’ISTAT risulta evidente che alla importante contrazione dell’occupazione delle fasce giovanili si aggiunge una generalizzata diminuzione del numero degli occupati standard, con un incremento robusto, avvenuto secondo l’ISTAT nell’ultima parte dell’anno, della ripresa della domanda di lavoro nelle aree del lavoro parzialmente standard o atipico. Tra le nuove forme di flessibilità del lavoro e in particolare di lavoro “atipico”, oltre al lavoro a tempo determinato, è cresciuto in modo particolare quello che viene definito come lavoro autonomo economicamente dipendente. Si tratta di contratti e lavoratori definiti in modo giuridicamente differenti nei vari Paesi europei. Si tratta di un’evoluzione del lavoro indipendente che pone nuovi temi di riflessione sul ruolo sia del diritto del lavoro che delle politiche pubbliche (Negrelli, 2005, p. 67). Nel 2010 la ripresa della domanda di lavoro ha riguardato l’occupazione a orario ridotto e, in chiusura d’anno, quella a termine, determinando una polarizzazione negli andamenti delle figure presenti nel mercato del lavoro (vedi Tavola 1‑2 (ISTAT, 2011)). Il lavoro parzialmente standard, composto per circa i due terzi da liberi professionisti, partite IVA e lavoratori autonomi senza dipendenti, ha infatti visto una crescita sostanzialmente robusta, a dimostrazione di una complessiva variazione della prospettiva occupazionale soprattutto per gli insiders, ovvero quella componente dell’offerta di lavoro che è alla ricerca di una nuova occupazione o si trova nella condizione di dover rientrare nel mondo del lavoro dopo un licenziamento o, nel caso della componente femminile, dopo una maternità.

I nuovi lavoratori devono affrontare sfide del tutto nuove rispetto a quanto vissuto nel passato, anche non particolarmente remoto, sviluppando delle “metacompetenze” come adattabilità e identità (auto-consapevolezza) (Hall, 2005), metacompetenze che forniscono la capacità di imparare dalle proprie esperienze e di sviluppare le proprie competenze vivendo la propria carriera come una serie di “learning cycles”. Anche il rapporto tra azienda e lavoratore cambia notevolmente in termini di investimento reciproco, dove vengono rivisti i modi di essere persone nei contesti lavorativi (le rappresentazioni e gli atteggiamenti verso il lavoro, le motivazioni e le modalità di impegno e coinvolgimento personale), la costruzione del senso di appartenenza a una organizzazione di lavoro e la definizione dell’identità professionale, i tipi di apprendimento necessari per il lavoro e le stesse modalità di prestazione, la progettazione e la realizzazione dei percorsi di carriera. (Sarchielli & Fraccaroli, 2010). In questo contesto si subisce una spinta fortissima “a rivedere il come si diventa lavoratori capaci di esprimere la propria operosità e, nel contempo, di costruire se stessi e i propri percorsi di vita” (Sarchielli & Fraccaroli, 2010, p. 72). Si viene a modificare nei significati profondi il patto di reciprocità individuo-organizzazione. Il contratto psicologico derivante dalle reciproche aspettative tra il lavoratore e il datore di lavoro in tutte le sue componenti individuali e collettive (Solari, 2004), sposta il suo focus sugli aspetti transazionali più che su quelli relazionali (Argentero, Cortese, & Piccardo, 2008). Il rapporto di lavoro un tempo basato su stabilità di lungo periodo, sul quale si costruiva un contratto psicologico relazionale fondato sul riconoscimento e su precise identità sociali, sposta il suo orizzonte nel breve termine in una continua rinegoziazione in cui gli elementi di scambio divengono quasi esclusivamente di carattere economico (contratto psicologico transazionale) e che certamente non favoriscono né il senso di appartenenza né la costruzione di identità sociali definite e riconoscibili. Si tratta nei fatti di un profondo cambio di prospettiva che il lavoratore ha nei confronti dello sviluppo del sé in riferimento all’attività lavorativa. Una modifica di paradigma che impatta in termini di sviluppo personale nella costruzione di una propria storia

Anno TIPOLOGIA LAVORATIVA Variazioni

Valori Assoluti %

Standard 17.590 -297 -1.7 Dipendenti permanenti a tempo pieno 12.768 -285 -2.2 Autonomi a tempo pieno 4.822 -11 -0.2 Parzialmente standard 2.700 110 4.2 Dipendenti permanenti a tempo parziale 2.159 89 4.3 Autonomi a tempo parziale 540 21 4.0 Atipici 2.583 34 1.3 Dipendenti a tempo determinato 2.182 30 1.4 Collaboratori 400 5 1.1 TOTALE 22.872 -153 -0.7

 

Tavola 1-2 Occupati per tipologia di lavoro Fonte: (ISTAT, 2011)

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socio lavorativa coerente con le proprie attese personali (Sarchielli & Fraccaroli, 2010).

Un ulteriore fenomeno che l’ultimo rapporto ISTAT (2011), presentato il 23 maggio 2011, indica è l’importante crescita nel 2010 (+6,8 %) dei giovani tra i 15 e i 29 anni definiti NEET (acronimo di Not in Education, Employment or Training) quei giovani che non studiano, non sono impiegati e non son impegnati in un progetto formativo. La quota di questi ragazzi ha raggiunto il 22,1 per cento nel 2010 non riguarda solo il Mezzogiorno. Infatti nel 2010 l’incremento più alto si è registrato nel Nord Est che ha registrato un incremento del 20,8 per cento tra i suoi giovani. Da tenere in considerazione il fenomeno che maggiormente preoccupa a livello sociale cioè l’incremento della quota degli inattivi, ovvero di quella componente della popolazione che non cerca lavoro e non è disponibile a lavorare, che ha registrato un incremento del 9,9 per cento. Dai dati raccolti e pubblicati dall’ISTAT nel 2010 il 65,5 per cento dei NEET è inattivo; di questi la metà si colloca nella cosiddetta “zona grigia”, mentre l’altra metà non cerca lavoro e non è disponibile a lavorare. Il rapporto ISTAT evidenzia inoltre un dato ulteriormente preoccupante, se ancora ce ne fosse bisogno, che è la persistenza prolungata nello stato di NEET con una forte ricaduta sulle tematiche di rischio di esclusione sociale. I giovani che, come fotografa l’ISTAT, stanno pagando il prezzo più elevato della scarsa crescita economica e delle storiche deficienze strutturali che il paese non riesce a colmare, si presentano nel mercato del lavoro con una serie di caratteristiche e di connotati nuovi, con potenziale e know-how, che deve essere valorizzato. Il prossimo capitolo presenta quali sono i tratti e le caratteristiche di questa nuova generazione di “nativi digitali”.

La Generazione “Y” 

A nche se esiste una scarsa convergenza nella letteratura sui confini dove datare l’appartenenza alle diverse generazioni che si sono succedute (Parry &

Urwin, 2011), la Generazione Y, anche definita come “next

generation” o “millenials”, rappresenta le persone nate tra il 1978 e il 1994 (Sheahan, 2009). Indipendentemente da dove si voglia collocare il punto di confine, ciò che caratterizza maggiormente questa generazione è la formazione, sia da un punto di vista del percorso di studi effettuato, molto spesso più esteso rispetto alle generazioni precedenti, sia per la contiguità con la tecnologia che li rende dei “nativi digitali”. La definizione “nativi digitali” nasce da Mark Prensky che nel 2001 descrive come questa singolarità derivi dall’ideazione e dalla rapida diffusione della tecnologia digitale negli ultimi decenni del XX secolo (Ferri, 2011). Prensky, nel suo articolo “Digital Natives, Digital Immigrants” (Prensky, 2001) definisce in modo assai efficace questo cambiamento avvenuto:

Today’s students have not just changed incrementally from those of the past, 

nor simply changed their slang, clothes, body adornments, or styles, as has happened between generations previously. A really big discontinuity has taken place. One might even call it a “singularity” – an 

event which changes things so fundamentally that there is absolutely no going back. This so‐called “singularity” is the arrival and rapid 

dissemination of digital technology in the last decades of the 20th century.  

I nativi digitali hanno trascorso tutta la loro vita circondati da e utilizzando computer, videogiochi, lettori di musica digitale, videocamere, telefoni cellulari, giocattoli e tutti quegli strumenti che sono stati creati dalla rivoluzione digitale (Prensky, 2001); (Ferri, 2011). Prensky si spinge a dire che diverse esperienze portano a strutture celebrali diverse. Se questo è vero, possiamo dire che anche i loro modelli di vedere e costruire il mondo sono diversi.

I giovani appartenenti alla Generazione Y sono i figli dei Baby Boomers, la generazione delle rivoluzioni che ha realizzato i grandi cambiamenti sociali e culturali come quelli derivanti dalle lotte studentesche del ’68 o delle proteste contro le guerre. I “boomers” hanno definito la rottura con il “mondo precedente” alla costante ricerca dell’individualità della collettività, della possibilità di scalata sociale, nella trasformazione che li ha portati dall’essere hippie al divenire

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yuppie, che li porta a vivere se stessi come qualcuno che sta evolvendo piuttosto che come persone che stanno invecchiando. I Baby Boomers sono la prima generazione cresciuta con la TV. I loro figli sono la prima generazione cresciuta con Internet e gli apparati digitali.

Sono cresciuti in un clima sociale profondamente diverso dai precedenti, anche grazie alla fine della contrapposizione tra USA e URSS; un momento storico caratterizzato da una profonda trasformazione della famiglia, con molti dei propri membri cresciuti con un solo genitore o in famiglie composte da genitori risposati con partner allo stesso modo divorziati e con figli a loro volta.

Neil Howe e William Strauss, autori di numerose pubblicazioni sui temi generazionali, hanno definito la millennials generation dove i propri membri sono nati tra il 1982 e il 2005. Nella visione di Howe e Strauss (Howe & Strauss, 2007) le generazioni coesistono all’interno di una società definendo una sorta di costellazione delle generazioni, dove ogni generazione è caratterizzata da eventi che marcano la loro esistenza e divengono significativi della loro esperienza. Per conoscere come evolveranno le generazioni con il passare del tempo, ovvero con l’accrescere della maturità dei singoli individui che le compongono, questi autori suggeriscono di guardare a ciò che è avvenuto per le generazioni passate nate in circostanze simili, raccogliendo queste caratteristiche in una tabella che rappresenta la “Generational Diagonal”. Ogni generazione è riconducibile a quattro archetipi denominati: Prophet, Nomad, Hero, Artist. Le generazioni riconducibili a ogni singolo archetipo condividono non solo una similitudine nella progressione dell’età, ma anche attitudini similari rispetto a famiglia, cultura e valori, propensione al rischio e coinvolgimento civile. I millennials sono riconducibili all’archetipo degli “Hero”, generazioni nate dopo un risveglio spirituale, durante un periodo caratterizzato da pragmatismo individuale, fiducia in se stessi e ampie manifestazioni di sciovinismo nazionale o etnico. Gli “Hero” crescono in modo estremamente protetto, divenendo coraggiosi e validi membri dei propri team, per evolvere nella fase della maturità come persone coraggiose ed energiche, ed emergere nell’età più avanzata come influenti anziani assaliti da un ulteriore risveglio spirituale. I millennials vengono delineati, secondo Howe e Strauss da alcuni tratti che li contraddistinguono:

I millennials hanno ricevuto durante la loro infanzia un livello elevatissimo di attenzioni e di cure da parte dei loro genitori, che non hanno mai smesso di supportarli, proteggerli e di ripetergli che erano in grado di fare qualsiasi cosa loro avessero voluto fare. I millennials sono per questo caratterizzati da una forte fiducia in se stessi, con una profonda visione positiva del futuro, certi che, anche se le cose dovessero andare male, possono sempre

e comunque contare sulla protezione psicologica, ma anche economica, dei genitori. Questa è la caratteristiche che li rende speciali.

Sono cresciuti in un ambiente protetto, non solo da parte dei genitori ma anche della società, che ha sviluppato una serie di regole e norme a loro salvaguardia, così come si sono diffusi una serie di strumenti volti alla loro tutela e, allo stesso tempo, anche al loro controllo continuo. Sono la generazione in cui è più ampio l’accesso all’istruzione superiore, ma anche la generazione più controllata.

Sono caratterizzati da positività e ottimismo a tal punto da divenire addirittura arroganti nel mostrare la loro forza e potenziale.

Sono fortemente orientati al gruppo, specie nelle forme di apprendimento, dove condividono le informazioni con gli altri membri del gruppo e tendono a cercare l’approvazione degli altri membri del gruppo dove si hanno forti legami.

Hanno una formazione superiore e si comportano in modo adeguato alle diverse situazioni. Sono abituati a raggiungere gli obiettivi e le attese che gli altri sviluppano nei loro confronti.

Sono abituati a studiare molto e a sentire la pressione delle attese che i genitori hanno su di loro; per questo risultano molto più stressati delle generazioni precedenti. Sono abili nel cogliere i vantaggi che derivano da tutte le opportunità che incontrano.

I millennials sono fieri e orgogliosi dei propri valori che manifestano chiaramente adeguando i propri comportamenti in base a questi.

I giovani appartenenti alla Generazione Y, indipendentemente da quando i diversi autori pongono il limite di nascita della stessa, sono caratterizzati dall’insieme di un profondo senso civico e di un nuovo e più efficace modello di comunicazione. Hanno una capacità incredibile di mobilitarsi volontariamente per combattere per la cause sociali attraverso i nuovi strumenti di comunicazione e, in particolar modo, i social networks. Ne sono una fantastica testimonianza i recenti movimenti nati spontaneamente nei Paesi del Nord Africa, che hanno generato vere e proprie sommosse popolari, ma anche con il movimento spagnolo degli “indignados”, aggregazione di giovani resa possibile dall’autoconvocazione degli stessi attraverso Internet, con strumenti di comunicazione come Facebook e Twitter in prima linea.

La comunicazione e l’utilizzo della tecnologia rappresentano l’elemento centrale, anche quando consideriamo gli aspetti legati alla formazione e all’ambiente lavorativo. L’uso degli strumenti di comunicazione è profondamente diverso tra in nativi digitali e gli immigrati digitali. Ne è una testimonianza la risultante di molte ricerche che hanno dimostrato come l’uso degli “strumenti di comunicazione tradizionali” come i

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telefoni in voce da parte dei preadolescenti e dei giovani è praticamente inesistente (Ferri, 2011). L’uso prevalente è quello di inviare SMS per rimanere in contatto con la rete dei pari e certamente oggi rappresenta lo strumento di comunicazione in mobilità più diffuso anche se, quando disponibile un collegamento WiFi efficace, Internet e il Web 2.0 costituiscono la vera piattaforma di comunicazione, intrattenimento, gioco e socialità che integra e permette di portare in tasca il proprio mondo: musica, immagini, film e amicizie. Questa modalità si associa alla capacità di operare in modalità assolutamente multitasking, dove il social network, in particolare Facebook ma anche altri strumenti come MSN e Skype, vengono utilizzati per mantenere attiva la comunicazione con le persone che si vedono di frequente (per il 91% degli utenti) (Ferri, 2011), colloquiando con più persone contemporaneamente e trattando argomenti diversi; il tutto spesso mentre si guarda un programma televisivo.

I giovani della generazione Y mostrano una elevata tendenza ad apprendere dall’esperienza, costruendo la loro esperienza non in modo lineare ma “per successive approssimazioni secondo una logica che è più vicina a quella abduttiva di Pierce, che non a quella induttiva di Galileo o a quella deduttiva di Aristotele che caratterizza lo stile di esperienza” (Ferri, 2011, p. 44) delle generazioni precedenti. La comunicazione con i pari, la cooperazione, l’utilizzo di diversi modi per accostarsi al problema dato e di molteplici

codici e piani di interpretazione per risolverlo li differenziano ulteriormente.

Dall'indagine svolta da Demos&Pi in associazione con COOP (www.demos.it) si rileva inoltre una significativa differenza generazionale nell'approccio agli strumenti di informazione. Gli utenti più anziani tendono ad essere fruitori "passivi", si affidano alla rigidità dei palinsesti della tv tradizionale e delle pagine stampate dei quotidiani cartacei. I nativi digitali, invece, valorizzano l'interattività e la flessibilità dei sistemi digitali di informazione. Sono fruitori "attivi", che costruiscono in modo individualizzato l'approccio ai new media. Questo elemento deve far riflettere in particolare sull’importanza che assume lo strumento di divulgazione dell’informazione nella costruzione della coscienza collettiva e dell’intelligenza collettiva. Il lavoro di gruppo diviene sempre più pervasivo nell’esperienza quotidiana e lo sharing dell’informazione ne è la sua componente essenziale. Ognuno è portatore di sapere e nessuno è il detentore unico del sapere. Questo è valido anche da un punto di vista organizzativo, oltre che ovviamente a livello delle infrastrutture e delle modalità di comunicazione in ambito lavorativo.

Al di là delle divergenze sulla datazione, così come sul nome da attribuire a questa generazione di nativi digitali, certo è che questa generazione è cresciuta in un periodo dove precedenti paradigmi si sono modificati e, in modo

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particolare, per quanto riguarda il mondo del lavoro, dove il lavoro per la vita non è più una certezza e dove ci si deve confrontare ogni giorno nel villaggio globale. Sono la generazione di lavoratori che dovrà confrontarsi con un fenomeno nuovo denominato boundaryless career che sposta lo sviluppo della propria carriera lavorativa dall’acquisizione di abilità ed esperienze derivanti dall’appartenenza ad una singola organizzazione a uno sviluppo basato sull’acquisizione di competenze derivanti dal passaggio a più contesti organizzativi. Questo sviluppo richiede alti livelli di reciprocità e di interdipendenza tra individuo e organizzazione che determinano il bisogno di ricreare di volta in volta una nuova identità legata al lavoro e alla carriera (Argentero, Cortese, & Piccardo, 2008). E’ in questo scenario che si delinea il concetto enunciato da Hall di proteen career, definita come “a career that is self-determined, driven by personal values rather than organizational rewards, and serving the whole person, family, and ‘‘life purpose’’ (Hall, 2005, p. 2). Una definizione che può essere letta da almeno due differenti e contrastanti prospettive: la prima, quella suggerita da Hall, dove le persone e le organizzazioni possono concretamente avvantaggiarsi dalla presenza di persone che a ogni livello possiedono una potente bussola interiore, in grado di orientare le azioni individuali in modo eticamente corretto e coerentemente con i propri valori. Questo viene raggiunto, secondo Hall, attraverso persone capaci di guidare le proprie carriere attraverso l’acquisizione e lo sviluppo di competenze, relazioni e referenze in grado di rendere maggiormente spendibile il proprio curriculum nella ricerca di una nuova occupazione (Hall, 2005). Dall’altro lato questo rappresenta il mantenimento delle persone in una condizione di costante incertezza e, in Paesi come l’Italia, dove il mercato del lavoro si presenta particolarmente rigido e asimmetricamente sbilanciato a favore degli insiders, di perenne precarietà lavorativa. In questo scenario, non certo favorevole a chi con entusiasmo e con tanti talenti, preziosissimi per lo sviluppo delle “organizzazioni liquide”, esiste un settore che per i valori a cui si ispira, per le tradizioni e la cultura sul quale ha fondato fin dalle origini la propria condotta di operazione, il Credito Cooperativo sembra rappresentare quella che è stata definita da alcuni newcomers “un’isola felice”.

La socializzazione organizzativa 

L a socializzazione organizzativa è il processo attraverso il quale un individuo acquisisce le attitudini, i comportamenti, le conoscenze e le

capacità necessarie per poter partecipare efficacemente come membro attivo di un’organizzazione (Van Maanenen & Schein, 1979). E’ un processo interattivo, dove l’individuo cerca di rendere il suo ruolo il più adatto e accettabile

all’interno dell’organizzazione, e dove l’organizzazione cerca di influenzare i newcomers trasmettendo loro l’insieme delle attitudini, dei comportamenti considerati adeguati, delle credenze e dei miti che connotano l’organizzazione stessa. La socializzazione organizzativa viene intesa come il trasferimento di quegli schemi cognitivi e comportamentali che la generazione di membri dell’organizzazione trasmette a quella successiva (Van Maanenen & Schein, 1979). La socializzazione è un processo che viene riattivato di continuo, sia nel momento di introduzione del newcomer, sia nei momenti di passaggio da un contesto a un altro che vengono percepiti come psicologicamente rilevanti, in un continuo riconoscimento dell’individuo come neofita o veterano nell’organizzazione (Ashforth, Sluss, & Harrison, 2007).

Quando il newcomer entra all’interno di un’organizzazione, questo deve imparare un insieme di elementi che afferiscono alla sfera del saper fare (applicazioni informatiche, modulistica, conoscenze tecniche e linguaggio specifico) e del saper essere (come approcciare i clienti interni/esterni, con chi pranzare durante la pausa pranzo, quali sono i riti e le liturgie dell’organizzazione). Acquisire questi skills può avvenire in molti modi diversi, che possono essere estremamente formali, come specifici corsi di formazione in aula, o assolutamente informali e poco strutturati, come la partecipazione alla quotidiana vita organizzativa. La capacità di acquisire questi skills diventa un punto cruciale per il successo potenziale dell’individuo all’interno dell’organizzazione (Sprogøe & Rohde, 2009). La socializzazione appare come una forma di adattamento dell’individuo ai modelli di conduzione lavorativa presenti nell’organizzazione, adattamento che Chatman (1991) definisce come P-O fit (Person Organization Fit) ovvero la congruenza tra i valori dell’organizzazione e i valori dell’individuo. Si tratta in questo senso di una danza, come efficacemente suggeriscono Sprogøe & Rohde (2009), tra le generazioni di chi è già un membro attivo dell’organizzazione e di chi sta cercando di divenirlo. Una interazione di forze che, coordinandosi tra loro, creano un’immagine dinamica. Quanto più il newcomer è in grado di mantenere una consapevolezza circa le proprie motivazioni e aspettative, interpretando il ruolo in modo personale e agendo in modo coerente con i propri valori e la propria personalità, tanto più è probabile che essi riescano a controbilanciare le influenze socializzatrici e il possibile conformismo comportamentale richiesto dall’organizzazione (Sarchielli & Fraccaroli, 2010).

Sono molti gli studi effettuati nell’ambito della socializzazione organizzativa che, partendo dalla tipologia di socializzazione sviluppata da Van Maanenen & Schein (1979) dove gli autori sviluppano una fondamentale spiegazione teoretica di come le specifiche tattiche di socializzazione producono diversi orientamenti al ruolo

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(Gruman, Saks, & Zweig, 2006), hanno affrontato i diversi aspetti tra cui lo studio delle diverse fasi della socializzazione, comprendendo antecedenti e outcomes (Ashforth, Sluss, & Harrison, 2007), e i contenuti e i metodi di apprendimento dei newcomers (Ostroff & Kozlowski, 1992).

Il processo di socializzazione è un processo di apprendimento dove i newcomer procurano informazioni utili per acquisire quegli skills necessari a divenire un membro attivo del proprio gruppo. Anche in quest’ottica si sono raccolti molti lavori di studio, dove i ricercatori hanno focalizzato la loro attenzione sui contenuti formativi della socializzazione e su quali effetti questi hanno comportato. Ancorché rimane una ampia pluralità di approcci su questi temi, gli studi convergono nel definire che i processi di apprendimento del newcomer comprendono elementi come la comprensione del job e del ruolo, la relazione con il gruppo e la qualità delle relazioni interpersonali, così come la natura dell’organizzazione nel suo insieme. Generalizzando, i contenuti della socializzazione sono caratterizzati da tre elementi tra loro correlati: l’acquisizione della conoscenza, delle capacità e delle abilità; un generale adattamento che comprende la definizione chiara del proprio ruolo; il supporto ricevuto dalle varie fonti disponibili durante la fase di socializzazione tra cui in modo più significativo da parte dei colleghi e del supervisore. In particolare il processo di socializzazione diviene un processo di acculturazione organizzativa (Louis, 1990), che ha come scopo l’incremento dei livelli di adesione personale all’immagine dominante dell’organizzazione, e la capacità di assicurare adeguati livelli di conformità a principi, assunti, stili di condotta privilegiati e valorizzati formalmente dall’organizzazione (Sarchielli & Fraccaroli, 2010).

Spesso i newcomers non hanno l’intenzione o la consapevolezza per decidere di appartenere, con un coinvolgimento anche emotivo, all’organizzazione, rimanendo in una fase di ascolto nell’attesa di comprendere se le relazioni instaurate risultano coerenti con le proprie aspettative e potenzialità percepite. In questo senso il newcomer diviene elemento attivo del processo di socializzazione, uscendo dal vincolo prescrittivo dei primi studi iniziali sul tema della socializzazione, dove il processo si svolgeva in modo assolutamente lineare e unidirezionale: l’organizzazione fornisce le informazioni che devono essere fatte proprie dall’individuo. Ora, in un processo di crescita e di sviluppo interattivo, le azioni svolte dal newcomer divengono significative nell’ambito del suo sviluppo professionale. Azioni di information seeking, ricerca di feedback da parte di colleghi e superiori divengono modalità essenziali nella socializzazione. Non si tratta di acquisire modelli concettuali su base imitativa dei comportamenti consolidati, la socializzazione diviene un

processo di negoziazione dove forte è l’influenza tra il newcomer e il gruppo di lavoro in cui viene inserito (Traetta, Arnese, & Ligorio, 2010).

Si delineano in questo senso due diverse prospettive per il processo di socializzazione: la prospettiva dell’organizzazione rappresentata dal management, che tende a valorizzare le relazioni di scambio (promozioni/punizioni) per ottenere conformità e adesione e dove la socializzazione assume forme di influenza diretta; la dimensione del gruppo di lavoro, che agisce preferibilmente attraverso l’esempio nella gestione di regole e norme sociali condivise, nella sperimentazione diretta delle attività che competono al ruolo (Sarchielli & Fraccaroli, 2010). Il gruppo diviene quindi il centro gravitazionale principale per il newcomer per comprendere, attraverso gli scambi interpersonali, i dettagli del ruolo organizzativo assegnato, gli aspetti specifici del compito e di come ci si aspetta che vengano condotti , dove chi è motivato a diventare membro di una “comunità di pratiche” può vedere in azione abilità professionali dei colleghi più anziani, prendendo parte all’attività quotidiana e acquisendo attraverso il gruppo una comprensione globale della comunità di appartenenza. Questi fattori trasformano la comunità di pratica in un vero e proprio contesto di apprendimento (Traetta, Arnese, & Ligorio, 2010).

Il processo di socializzazione

organizzativa è inseribile all’interno di uno schema concettuale che considera come antecedenti le caratteristiche della persona e del contesto organizzativo e in interazione tra loro. Tali caratteristiche determinano i risultati del processo in termini di esiti prossimali e distali (Sarchielli & Fraccaroli, 2010). L’apprendimento ha quindi lo scopo di facilitare quegli outcomes prossimali come la definizione del contenuto di ruolo, l’acquisizione degli skills necessari, e il cambiamento personale, che si tramutano in outcomes di tipo distale come la soddisfazione lavorativa, il livello di performance, il commitment organizzativo, il grado e il senso dell’innovazione piuttosto che il livello di conformità. La presenza di due tipi di outcomes (prossimali e

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distali) lascia presupporre la presenza di una significativa importanza concettuale che il tempo assume nello sviluppo del processo che può essere più o meno lungo, così come può generare dei processi di sviluppo individuale continuativo (Ashforth, Sluss, & Harrison, 2007).

In sintesi, il processo d'inserimento dei neoassunti rap-presenta una fase critica del processo di socializzazione organizzativa, comporta intensi processi di adattamento e apprendimento riferiti al contenuto del lavoro, all'interpretazione del ruolo, alla verifica e ricerca di coerenza tra caratteristiche individuali, dell'organizza-zione e del job. Tali processi avvengono sia attraverso esperienze informali e destrutturate, sia con l'ausilio di azioni e percorsi pianificati dall'azienda. Gli studi sui processi d'inserimento sottolineano oggi la necessità di attualizzare le pratiche aziendali, attraverso nuove va-lutazioni che ne distinguano il contributo specifico e la rilevanza, alla luce delle esperienze dei soggetti e nel quadro dei mutamenti di scenario (sia sul versante della domanda sia su quello dell'offerta di lavoro). (Pontiggia & Isari, 2010)

La formazione  come partecipazione 

L ’ingresso nel mondo del lavoro per un giovane determina un cambiamento importante nelle sfera delle relazioni sociali, della percezione del Sé, della

conoscenza. Accedere ad un contesto nuovo e già strutturato come quello di un’organizzazione significa predisporsi a diverse forme di apprendimento legate solo in parte allo sviluppo di conoscenze e competenze; divenire un lavoratore membro di una determinata azienda implica infatti l’acquisizione della capacità di costruzione di un proprio ruolo all’interno del contesto lavorativo ove la propria partecipazione possa diventare riconoscibile dagli altri e contribuire al compimento delle attività (Depolo, 1998). La riuscita di tale processo è determinata dall’evoluzione di dinamiche d’interazione fra soggetto e organizzazione e i risultati finali di tale evoluzione non sono definibili in partenza e dipendono strettamente dalle caratteristiche peculiari tanto del contesto organizzativo, quanto degli individui in esso interagenti (Novara, Rozzi, Sarchielli, 1983).

Come un giovane newcomer, abituato a confrontarsi con le dinamiche dell’apprendimento in una dimensione prettamente individuale, di studente, può apprendere a divenire lavoratore, a divenire parte di un’organizzazione?

Uno dei principali obiettivi di questa analisi è quello di cogliere, analizzare e valorizzare, nel processo di socializzazione dei neoassunti in azienda, il ruolo dell’apprendimento attraverso pratica e partecipazione alle attività lavorative portate avanti dai membri interni

all’organizzazione.

Lo sviluppo dell’apprendimento di un newcomer è per lo più determinato da tre fattori: il carattere relazionale della conoscenza e dell’apprendimento, il carattere negoziato del senso, la natura interessata dell’attività dell’apprendere per coloro che vi sono implicati (Lave e Wenger, 2006).

Il processo di socializzazione del neofita e il suo apprendimento sono parte integrante dell’attività nel momento in cui essi legittimano la partecipazione e il coinvolgimento diretto di quest’ultimo ai processi portati avanti nell’azienda d’inserimento. A tal fine introdurremo il concetto di Comunità di Pratica (Wenger, 2006) come contesto emblematico di sviluppo della socializzazione dei neoassunti.

Per far sì che l’apprendimento diventi strumento di acquisizione di spazio di partecipazione da parte del newcomer occorre ridimensionare anche il ruolo dell’organizzazione nei processi d’inserimento rimettendo in discussione la validità delle pratiche formative da quest’ultima attivate. Insegnare o far imparare dunque? Estraneazione dal contesto lavorativo concreto, concezione dell’apprendimento come acquisizione di conoscente teoriche e predefinite, attenzione esclusiva al singolo individuo che apprende, sono alcuni dei limiti della formazione standardizzata riconosciuti da Zucchermaglio (1995) e riscontrati nell’analisi dei casi. L’alternativa proposta da Lave e Wenger (2006) ha permesso di portare l’apprendimento dentro la pratica con un’importante implicazione per l’organizzazione: accettare di esporsi al cambiamento del quale il newcomer può divenire il portatore, attraverso l’uso di strumenti e conoscenze costruite e codificate socialmente, di tale cambiamento.

Nel concreto dello studio del caso di due realtà bancarie italiane inserite nel sistema del Credito Cooperativo è stato possibile analizzare le forme di apprendimento e partecipazione sviluppate da 5 newcomers di età inferiore a 28 anni e a partire da ciò comparare i racconti di vissuti esperienziali provenienti da newcomers, seniors e Direttori del Personale. La ricostruzione seguente del contesto di svolgimento del processo di apprendimento e socializzazione in questi due specifici scenari ha fornito la dimostrazione empirica dell’importanza dell’analisi delle pratiche formative attuali in vista di un cambiamento migliorativo, a seguire vedremo come.

Le comunità di pratica 

N el 1991 Lave e Wenger elaborano il concetto di comunità di pratica ribaltando l’assunto secondo il quale l’apprendimento si fonderebbe su una

relazione esclusiva fra esperto e novizio, alunno e

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insegnante. Il fondamento dell’apprendere risiede nella partecipazione sociale a una pratica che è l’insieme delle condotte degli attori sociali impegnati nelle più varie attività di relazione con il mondo. La pratica è sempre calata in un contesto sociale poiché è il mezzo attraverso il quale gli individui attribuiscono significato al mondo circostante e alle relazioni intraprese con esso e include l’interrelazione fra linguaggio, strumenti, documenti, immagini, simboli, ruoli, valori, relazioni formali e informali, convenzioni, regole, percezioni ecc.. Dato che la pratica si presenta come la base costitutiva e strutturante di una comunità sociale e la fonte principale della produzione condivisa di significato, essa coinvolge gli individui nella partecipazione attiva alla costruzione di senso e nella negoziazione di una prospettiva comune e condivisa. L’azione e la negoziazione di significato fanno sì che la pratica costituisca il luogo dell’apprendimento e si identifichi come lo spazio per la partecipazione degli attori implicati in un reticolo relazionale. Le comunità di pratica rappresentano questi reticoli nei quali la costante interrelazione e interdipendenza degli individui impegnati in pratiche condivise hanno permesso la sedimentazione di consuetudini relazionali, linguaggi, culture, saperi, comportamenti (Lipari, 2007)

Quando la pratica si rende elemento aggregante di una comunità si viene a creare una relazione fra i membri che compongono la comunità stessa fondata su tre dimensioni:

impegno reciproco dei partecipanti come prima fonte di coerenza nella comunità e condizione di possibilità per la convivenza di diversità e conservazione della comunità stessa

negoziazione di un’impresa comune, intesa come insieme di obiettivi da intraprendere, di ritmi da concordare, di responsabilità reciproche dei partecipanti.

creazione di un repertorio condiviso inteso come insieme di risorse originate dalla storia di impegno reciproco e sedimentazione di interpretazioni nella comunità e dalle caratteristiche e performance presenti. Tale repertorio include routine, parole,

strumenti, modi di operare, storie, gesti, simboli, azioni e concetti che la comunità ha prodotto o adottato nel corso della sua esistenza e che sono entrati a far parte della pratica. (Wenger, 2006a)

I novizi che si avvicinano a un contesto sociale definito da pratiche e identità strutturate, come quello della comunità di pratica operante in un ambiente di lavoro specifico, hanno bisogno per apprendere di iniziare a rapportarsi con le conoscenze e i saperi pratici del gruppo allo scopo di acquisirli ed essere riconosciuti come membri legittimi.

Questa teoria lega quindi individuo e contesto sociale analizzando sia lo sviluppo di identità degli individui impegnati nella pratica, sia la crescita e la trasformazione della comunità stessa. Il legame fra la produzione di identità e la formazione di comunità fa sì che l’apprendimento diventi espressione delle caratteristiche della comunità di pratica di cui gli individui sono membri. Per indagare la circolazione di conoscenze e competenze all’interno della comunità e della dinamica di apprendimento bisognerà analizzare:

Organizzazione dello spazio relazionale come luogo di attività. Grado di consapevolezza delle abilità in circolazione all’interno

della comunità. Caratteristiche delle modalità di accesso delle persone alle attività

in corso. Trasparenza tecnologica, delle relazione e delle attività. Coordinazione della partecipazione. Grado di legittimazione della partecipazione periferica/parziale. Legittimazione e coordinazione dei conflitti, degli interessi e delle

interpretazioni. Grado di motivazione dei partecipanti e relazione con i loro

cambiamenti di partecipazione e identità (Wenger, 2006a). La comunità, in quanto luogo di apprendimento, deve essere studiata in tutta la sua ricchezza di relazioni e non fermandosi banalmente alla relazione allievo/maestro.

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Comunità di pratica  e “tecnologia 2.0” 

S econdo Wenger (2004), le capacità delle “communities of practice” di trasferire la co-noscenza dal basso verso l’alto e di gestire

accuratamente i processi sono elementi di interesse per l’organizzazione. Il sapere sviluppato dalle comu-nità, diventa dominio dell’intera azienda solo se si verificano due eventualità.

1.sponsorship: l’organizzazione deve proporre come priorità la formazione e divulgazione della cono-scenza. Questa legittimazione dall’alto spinge la comunità ad iniziare il processo di knowledge sharing (Wenger, 2004).

2.riconoscimento: riguarda l’effettiva accettazione da parte dell’organizzazione del prodotto creato dalla community. Il riconoscimento non implica la conclusione di successo del processo infatti, nel caso il sapere non venga alimentato, la comunità perderebbe il senso di esistere. Il supporto è necessario ed inclu-de risorse, infrastrutture tecnologiche e la presen-za di un team di supporto pronto ad incentivare le attività e a rispondere prontamente alle richieste della comunità (Wenger, 2004).

Wenger (2004) ha presentato un modello di knowle-dge sharing, chiamato Doughnut Model (ovvero il “modello ciambella”), specifico per le comunità di pratica. Il nome è stato scelto dall’autore per eviden-ziare l’importanza della continuità e circolarità dello scambio d’informazioni tra i membri. Gli elementi del modello sono:

Traduzione della strategia in un insieme di do-mini per l’azione della comunità. In questa fase la comunità ha la necessità di comprendere le competenze e le qualità possedute dai singoli per poterle sfruttare. Conseguentemente, è im-portante investire del tempo e delle energie cognitive per indagare il bagaglio tecnico, so-ciale ed esperienziale del singolo e per svilup-parlo nella comunità.

Far crescere la comunità e collegarla a un do-minio comunitario. Dopo aver individuato gli attributi del singolo sarà necessario riconoscer-ne la priorità e l’importanza e poi inserirli nel dominio comune. Come sottolineato in prece-denza, è il gruppo a valutare la conoscenza singola e ne estrae ciò che viene ritenuto di valore. Wenger suggerisce di individuare un

leader che abbia la funzione di guidare le per-sone in questo momento cruciale.

Il contributo dei partecipanti allo sviluppo del-la pratica. Per continuare il processo è neces-sario condividere e implementare una strategia comune. Conseguentemente il coinvolgimento e la partecipazione di tutti i membri della co-munità sono necessari per poter individuare e poi implementare la strategia per sviluppare il sapere comune.

Tradurre l’apprendimento in attività rifinite nella pratica. In questo momento inizia il tra-sferimento del bagaglio personale e delle espe-rienze attuali a quello che è il prodotto comu-ne della comunità. La strategia condivisa crea-ta in precedenza sarà lo strumento per il rag-giungimento dell’obiettivo di questa fase.

Ampliare lo scopo dell’apprendimento oltre la fonte. Per far sì che avvenga il trasferimento dalla periferia (il singolo) al centro (la comuni-tà) è necessario che si sviluppi comunicazione e comprensione tra le parti. Le connessioni e lo sviluppo di network di conoscenza affidabile e accurata sono le chiavi per trasferire il sapere individuale implicito a una dimensione di grup-po esplicita.

Pensare alla conoscenza strategicamente. Il momento conclusivo vede la realizzazione e l’implementazione della conoscenza nel domi-nio. In particolare quello che era il sapere sin-golo e poco sviluppato sarà elevato a un nuovo dominio di conoscenza che potrebbe essere la base per la costruzione di un vantaggio compe-titivo. La conoscenza di gruppo avrà un valore superiore di quella periferica perché è il pro-dotto della scelta dei migliori contributi perife-rici.

In conclusione, analizzando questo modello, è possi-bile affermare come la conoscenza non sia nelle mani dell’organizzazione, ma sia il prodotto di chi mette in pratica la conoscenza stessa (Wenger, 2004).

Molte organizzazioni si affidano a social networks come strumenti per farsi conoscere e, a volte, per promuovere il knowledge sharing al loro interno (Bettiol & Sedita, 2011). Gli autori però hanno evi-denziato come questi strumenti non permettano di coordinare facilmente il gruppo di lavoro per quanto riguarda l’esecuzione di tasks ; in altre parole per raggiungere un obiettivo è necessario stabilire rela-zioni formali e regolate per lo svolgimento dei com-piti assegnati (Bettiol & Sedita, 2011). Al contrario le reti sociali facilitano le attività delle comunità di

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pratica e il processo di sensemaking facendo sì che le persone abbiano la possibilità di scambiare infor-mazioni inerenti alle proprie identità sociali (Bettiol & Sedita, 2011).

Il Computer Supported Cooperative work Il computer-supported cooperative work è uno dei modelli che presenta i criteri necessari per far sì che i media sociali permettano lo scambio di informazioni e la collaborazione intra gruppo. Il modello ha come obiettivi una facilitazione dell’integrazione del newcomer nel mondo aziendale, una più accurata condivisione delle informazioni, un supporto costante durante le attività e l’esplicitazione della cono-scenza tacita ritenuta rilevante dai membri dell’organizzazione. I criteri che devono essere rispettati per assicurare uno scambio d’informazioni rilevanti sono: la visibilità, la reputazione, la consapevolezza sociale, il sin-cronismo e la persistenza. Nello specifico per visibilità si intende la possibilità per ogni singola persona di poter di-sporre di uno strumento per esprimere liberamente le pro-prie idee ed esperienze; questo permette la partecipazione alla costruzione condivisa di significato. Un esempio di strumento che permette la visibilità è Wikipedia, all’interno

della quale ogni utente può partecipare alla costruzione di significato. Questo elemento è strettamente connesso alla percezione di equità di accesso che può modificare le a-spettative.

La reputazione digitale esprime il grado di importanza per-cepito dagli altri membri nella valutazione dell’individuo; può essere per esempio sotto forma di curriculum vitae nel quale sono registrate tutte le azioni del singolo con un rela-tivo giudizio. Le azioni dei membri creano il contesto, la conseguente consapevolezza e la motivazione nel parteci-pare e costruire un qualcosa di condiviso. Il sincronismo è legato alla tempistica domanda/risposta in cui avviene scambio delle informazioni; si crea infatti la possibilità di poter sfruttare degli strumenti che sono sincroni come le chat oppure asincroni come le email. Infine la persistenza è il grado in cui si continua a comunicare con gli altri membri della comunità.

L’implementazione di sistemi tecnologici permette una con-sultazione più rapida ed equa di qualsiasi tipo d’informazione. Secondo Foote, Matson, Weiss e Wenger (2002) implementare un sistema di decision making perife-rico permette maggiore efficienza (ad esempio minor costi) e migliora la canalizzazione delle informazioni.

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Risultati della ricerca

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La ricerca 

L a presente ricerca vuole indagare come, nello specifi-co ambito delle Banche di Credito Cooperativo, ven-gono gestite le fasi di socializzazione in azienda dei

nuovi assunti. Nello stesso modo l’attenzione viene rivolta a chi è stato recentemente assunto in azienda (meno di 1 an-no) per poter verificare quali risultati sono stati acquisiti dai newcomers in termini di socializzazione.

La ricerca si è svolta lungo due differenti filoni che ha coin-volto complessivamente 8 Banche di Credito Cooperativo del Nord Italia. Un primo filone si è concentrato sul processo di induction attraverso la raccolta delle informazioni rilevanti , sia sul lato dell’azienda sia dal punto di vista dei newco-mers.; il secondo filone si è invece concentrato sullo studio delle modalità di apprendimento riservate ai newcomers at-traverso un’analisi di tipo qualitativo.

Le forme dell’apprendimento  

L ’analisi empirica con approccio qualitativo ha coin-volto due istituti bancari italiani inseriti nel sistema del Credito Cooperativo; la scelta di dirigere

l’attenzione su due Bcc non ha origine casuale ma trae il suo senso dalla filosofia e cultura in base alla quale operano le Banche del Credito Cooperativo e Rurale caratterizzata da alcuni punti cardine:

Il primato e la centralità della persona l’impegno, l’approccio solidale e la cura della professiona-

lità. La promozione della partecipazione. La cooperazione fra i membri-lavoratori.

La formazione permanente.

L’impegno all’attenzione verso i propri dipendenti, l’importanza attribuita alla formazione e alla partecipazione attiva dei collaboratori, l’articolazione in piccole “comunità” bancarie autonome ma legate dalla condivisione di valori comuni, sono sembrati presupposti potenzialmente correlati a allo sviluppo di dinamiche d’apprendimento situato e par-tecipazione attiva dei neoinseriti. L’indagine condotta nel periodo compreso fra marzo e luglio 2011 presso le due Bcc è stata guidata da alcune domande di ricerca specifiche:

La ricerca si è proposta di analizzare il percorso di socializza-zione dei newcomers inseriti nelle due comunità descritte attraverso lo studio delle modalità di partecipazione e ap-prendimento. A tale scopo, prima dell’inizio dell’indagine su campo, sono state fissate alcune domande di ricerca aventi il

ruoli di guide per la raccolta e analisi dei dati.

Come le pratiche di inserimento adottate dalle due Bcc impattano sull’effettiva percezione del processo d’inserimento espressa dai newcomers?

Quali fattori organizzativi e di contesto facilitano l’apprendimento situato dei newcomers?

Quali elementi programmati per favorire l’apprendimento dei newcomers si sono mostrati come fattori effettivamen-te determinanti? Quali lo sono stati pur non essendo pre-visti?

Quale ruolo riveste la formazione istituzionalizzata?

Quale relazione esiste fra gli obiettivi aziendali in riferi-mento ai processi di apprendimento e partecipazione e i feedback dei newcomers?

Attraverso quali forme di partecipazione i newcomers si inseriscono nell’azienda?

Quale ruolo ha rivestito il rapporto senior-newcomer nel processo di apprendimento situato?

La filosofia del Credito Cooperativo ha avuto influenze in riferimento alle dinamiche di tali processi?

Quali aspetti impliciti dei processi di partecipazione e ap-prendimento potrebbero essere gestiti a livello organizza-tivo?

La risposta a queste domande ha permesso di portare alla luce i meccanismi peculiari del processo di inserimento dei neoassunti e il loro primo periodo di formazione individuan-do gli elementi di forza e criticità del loro processo d’apprendimento, acquisizione di partecipazione e socializza-zione.

L’approccio qualitativo sviluppato in questo lavoro ha adot-tato come unità di analisi gli individui e le loro esperienze riguardanti l’inserimento in azienda e l’apprendimento; la raccolta di testimonianze provenienti da individui collocati in diverse posizioni all’interno di un’azienda ha permesso di valutare i processi alla luce dei ricordi e delle interpretazioni di chi ne è protagonista, di chi vi prende parte o di chi ne è ideatore e supervisore.

Il racconto esperienziale ha permesso di comprendere come già dal primo giorno in azienda, all’inizio dello stage, sia iniziata la vera e propria fase di apprendimento dei newco-mers che ha permesso loro di acquisire le conoscenze e le abilità indispensabili per far fronte a una futura assunzione; la precarietà della condizione di stage ha fatto sì che l’apprendimento divenisse l’opportunità più significativa for-nita dal periodo di sei mesi attraverso la collocazione dei newcomers direttamente a contatto con i colleghi e con le pratiche lavorative.

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Al di là di come fosse terminato lo stage mi aspettavo di portare a casa qualcosa che mi servisse a crescere, a ma-turare perchè l'inserimento nell'ambito del lavoro è molto difficile e ti costruisce. Terminati i 6 mesi, nonostante l'assunzione, mi ero portata a casa un bagaglio grande, avevo imparato tanto perchè non ero mai entrata prima nel mondo delle banche

(newcomer di una Bcc).

La percezione dei newcomers del periodo di inserimento co-me di una fase di pratica e apprendimento è il risultato di una politica aziendale che mira alla creazione di un contesto lavorativo dotato di piena trasferibilità delle conoscenze e di sistemi di monitoraggio della crescita dei newcomers (Senge, 1990) «ho sempre avuto piena libertà, è logico che come stagista non potevo mettermi a guardare o fare cose che non erano di mia competenza, però per il lavoro che mi veniva dato potevo usufruire pienamente di quello che serviva per farlo al meglio» (newcomer di una Bcc).

La situazione d’ingresso creata nelle Bcc studiate ha fatto sì che i newcomers percepissero come ele-menti di facilitazione dell’apprendimento:

la vicinanza con i dipendenti della ban-ca, e grazie al rapporto di sussistenza esistente fra stagisti è stato consentito e agevolato l’atto del “chiedere” quale mezzo di scoperta di nuove conoscenze. «La prima cosa che ci hanno detto è che non esistono domande stupide ma esistono solo risposte stupide, è una buona partenza perché mi ha fatto sentire libera di fare doman-de» (newcomer di una Bcc).

Il contatto diretto con le pratiche lavo-rative e l’opportunità di verifica delle capacità acquisite; infatti attraverso l’adempimento a mansioni è stato possibile per i newcomers percepire la propria crescita e moti-varsi a perseguirla.

Senza entrare nei dettagli contenuti nel report di fine lavoro è però importante individuare alcuni spunti di riflessione generalizzabili e sfruttabili come focus da cui partire per un lavoro di ridefinizione dei processi formativi all’interno di un’azienda.

Il Bilancio Sociale 2010 di una delle due Bcc cita nella terza pagina un proverbio indiano che dice: “Abbiamo la terra non in eredità dai genitori, ma in affitto dai figli”, questo prover-

bio ricorda l’immagine costruita dai due Direttori del Perso-nale durante le interviste per far comprendere la filosofia della loro banca e del Credito Cooperativo in generale. Entra-re a far parte del Credito Cooperativo significa entrare in un sistema storicamente consolidato nel quale la base della permanenza e rigenerazione negli anni è la condivisione fra i componenti dei valori su cui esso è stato fondato. La Carta dei Valori di questa organizzazione pervade il modus operan-di e i metodi del pensiero, come li definisce Resnick (1995), che incorporano la sua storia culturale e sociale; essi emer-gono infatti con maggior evidenza durante le interviste fatte ai Direttori del Personale e ai senior che in risposta a più interrogativi hanno sottolineato l’importanza di trasmettere ai giovani la mentalità del Credito Cooperativo basata sulla disponibilità fra colleghi e verso i clienti e sull’umiltà nel lavoro. Insegnare non solo un lavoro ma una «filosofia di vita», come ha ricordato il Direttore del Personale di una delle due Bcc, implica che i nuovi arrivati debbano poterne fare esperienza attraverso chi ne è portatore. Il sentirsi parte di una comunità «differente» al’interno del settore bancario ha influenzato notevolmente le politiche d’inserimento delle

due Bcc in alcuni aspetti fondamentali:

forte partecipazione dei responsabili del Dipartimento del Personale e dei Direttori Ge-nerali nella selezione dei potenziali candidati all’inserimento. avvicinamento dei newcomers alle pratiche

lavorative e ai colleghi fin dai primi giorni in azienda. dipendenza del processo di apprendimento dal rapporto senior-newcomer. obiettivi fissati dall’ufficio personale per la fase

d’inserimento inerenti tanto gli aspetti com-portamentali quanto valoriali e rela-zionali; inoltre è lasciata a margine

nel primo periodo una valutazione in termini di performances.

In modo conforme al percorso tracciato da Sarchielli (1983) a proposito della socializza-zione organizzativa, i newcomers delle Bcc si sono scontrati fin da subito con la neces-sità di ridefinire i propri habiti mentali per

far spazio a una diversa forma mentis plasmata sulla dimensione relazionale

piuttosto che su quella individuale. A pro-posito di quest’ultima considerazione è emer-

so come la frequentazione dell’università sia stata rilevata come un limite all’apertura

dei giovani verso la decostruzione dei propri modelli mentali a favore di una ricostruzione fondata sull’assunzione di un nuovo ruolo in

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azienda (Novara, Rozzi, Sarchielli, 1983); tale limite è stato riconosciuto attraverso la mancanza di umiltà, umiltà già evidenziata come requisito fondamentale da parte dei manager per entrare nell’azienda. L’umiltà in questo fran-gente è vista come disponibilità a essere guidati in un am-biente nuovo all’apprendimento sia delle conoscenze neces-sarie alla partecipazione all’attività, sia dei comportamenti coerenti con l’etica della comunità. In un contesto di forma-zione istituzionalizzata diviene più difficile cogliere le carat-teristiche individuali che possono ostacolare l’apprendimento, fra queste l’incapacità a considerarsi igno-ranti, nel senso socratico del termine. Le pratiche aziendali messe in atto dalle due Bcc per formare nel primo periodo i newcomers permettono di monitorare passaggio per passag-gio la relazione fra attività sociale e cognizione individuale, rapporto che è in continua evoluzione durante il processo di apprendimento del singolo (Zucchermaglio, 1996). Ciò è sta-to loro possibile grazie a un parziale allentamento dall’istituzionalizzazione delle pratiche d’inserimento e a un graduale avvicinamento alla formazione mirata e personaliz-zata al singolo newcomer; nelle Bcc infatti l’organizzazione delle risorse finalizzate all’ingresso e all’apprendimento dei newcomers segue in linea di principio lo stesso iter tutti gli anni, ma non assume mai la valenza di un insieme di proce-dure ripetute e standardizzate. Nei due istituti bancari si so-no consolidate nel tempo delle pratiche mostratesi efficaci rispetto agli obiettivi cercati e per tale ragione vengono ripe-tute; l’iterazione riguarda però le modalità di approccio alle fasi di inserimento più che i contenuti ad esso inerenti dato che al centro dell’attenzione, anche nella fase di progettazio-ne dei percorsi d’ingresso, rimane l’individuo e il rapporto del singolo con l’ambiente di lavoro. Di fronte agli interrogativi riguardanti gli obiettivi delle pratiche di inserimento, i Diret-tori del Personale hanno indirizzato le loro risposte verso le aspettative riguardanti i lati caratteriali dei newcomers, ri-guardanti l’assunzione di valori e comportamenti, più che abilità pratiche; questo orientamento è risultato vincente nel suo presupposto. Sicuramente la necessità che i newcomers rivestano fin dagli inizi ruoli nei quali entrano quotidiana-mente a contatto con la clientela e hanno la responsabilità della gestione di procedure delicate e di diverse quantità di denaro, induce l’organizzazione a riporre su di essi obiettivi non misurabili in termini di performaces. Come si insegna a relazionarsi correttamente con il cliente? a mantenere un atteggiamento responsabile? a chiedere prima di commette-re errori? a cooperare con i colleghi? «Attraverso la pratica» hanno risposto gli intervistati, che lavorano in organizzazioni che portano avanti la cultura dell’azione (Leont’ev in Zuc-chermaglio, 1996). L’efficacia dell’affiancamento a un tutor per ciascun newco-mer è dimostrata dall’alto grado di soddisfazione mostrato dai newcomers stessi durante le interviste; essi hanno sotto-lineato di aver avuto la possibilità di imparare gradualmente

sia verificando il livello di apprendimento costantemente attraverso l’applicazione pratica, sia sanando dubbi e incom-prensioni nell’immediato. La presenza di un membro interno in qualità di tutor ha fatto sì che i newcomers venissero a contatto non solo con la conoscenza organizzativa e con le procedure tecniche ma anche con il bagaglio esperienziale che i colleghi più esperti hanno accumulato; il racconto delle “storie”, come sottolineato da Orr (1995) crea il terreno per lo scambio fra competenze ed esperienze nel quale emerge l’aspetto di condivisione di vissuti. Quando un cassiere rac-conta un vissuto per farne un esempio per il newcomer non condivide con lui solo la conoscenza del fatto specifico, ma accomuna la sua realtà a quella del neofita permettendo a quest’ultimo di crearsi un frame di una situazione possibile. L’atto di mettere in comune ha consentito che tutti i newco-mers intervistati manifestassero la sensazione di piena liber-tà di condivisione delle proprie esperienze, tanto con i tutor quanto con gli altri colleghi.

ogni cosa era spiegata, io sono sempre stata seguita. Mi veniva affidato un lavoro e prima che mi venisse affidato mi veniva spiegato il perché, il come , a cosa serve, cosa comporta, quali sono le conseguenze e quando lo facevo non ero mai sola, facevo tante domande, chiedevo a cosa serviva e se andava bene come lo facevo. (newcomer di una Bcc).

La graduale scoperta e comprensione dei significati attribuiti al lavoro ha aperto ai newcomers la possibilità dell’interpretazione e dello scambio di idee con i colleghi al fine di sentire proprio il modo di svolgere un’attività e di con-tribuirne alla definizione del senso (Lave e Wenger, 2006). La percezione di autonomia e di partecipazione attiva alla vita lavorativa aziendale è vissuta dai neoassunti grazie alla li-bertà di “capire” lavorando; ciò li ha motivati a chiedersi i perché degli errori, i perché del “come fare”, i perché dei limiti del proprio raggio d’azione e a vivere il processo di scoperta e di miglioramento come un percorso di graduale ingresso nell’organizzazione.

Ho sempre detto quello che stavo imparando, quello che ancora no e quello che mi sarebbe piaciuto imparare. Sono chiacchierate in orario di lavoro non organizzate anche con la Direttrice.[…] Sono fortunata perché anche con gli altri colleghi è come se fossi sullo stesso piano.[…] Essere chiamati per sentire il tuo parere secondo me signi-fica che hanno una considerazione di te che lavori nell’azienda, mi hanno preso in considerazione nonostan-te i due mesi che sono qui, hanno preso in considerazione ciò che penso. (newcomer 2 di Brendola).

Un ulteriore fattore di facilitazione dell’apprendimento dei newcomers deriva quindi implicitamente dal contesto in cui essi sono inseriti: le dimensioni ridotte delle realtà lavorative dei due istituti bancari e l’approccio familiare con il quale

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sono stati inseriti i giovani, ha fatto sì che essi potessero gestirsi il proprio processo di apprendimento valutando a chi rivolgere i propri quesiti, a quali attività extra partecipare, quali informazioni richiedere e in quali momenti confrontarsi e far presente le proprie opinioni coi colleghi e coi superiori. Tale ambientazione favorevole non è necessariamente possi-bile solo in contesti aziendali ridotti ma può essere positiva-mente ridisegnata con l’articolazione dei membri partecipi in comunità di pratica. La mancanza di una strutturazione programmata e stabilita delle pratiche d’inserimento lascia sì ampio spazio decisiona-le e d’interpretazione al singolo e aumenta la possibilità di applicare cambiamenti, ma porta con sé alcuni svantaggi; il considerare l’apprendimento situato come una pratica d’inserimento consolidata determina che questa venga considerata come garanzia di successo, ma tale successo è legato alla replicazione di un metodo, di un orienta-mento, non alla replicazione di contenuti. Un metodo è una forma che in questo caso si “riempie” di contenuti differenti, dove con il termine contenuti si intendono tutti gli elementi che interagiscono nel processo di apprendimento non solo le conoscenze trasmesse. La replicazione del metodo non dà quindi alcuna garanzia sui contenuti e sulle dinamiche di sviluppo del processo di crescita del newcomer. La maggior parte dei newcomers intervi-stati hanno collocato i possibili ostacoli al loro apprendimento nel rapporto con il proprio tutor o con alcuni colleghi. Essere un membro esperto nell’organizzazione non significa avere capacità di insegna-mento e trasmissione dell’esperienza, poiché capire quali sono gli aspetti più importanti da trasmettere, saper espor-re con chiarezza, saper argomentare e giustificare certe azioni o scelte, saper correggere in modo costruttivo non sono doti intrinseche a ciascun individuo, se pur competen-te che sia. A tale aspetto si aggiunge il fatto che non tutti i metodi di insegnamento sono funzionali a ogni persona indiscriminatamente e può accadere, come è stato verifica-to, che un newcomer si veda costretto a supportare l’insegnamento del tutor chiedendo a una collega le ragio-ni di certe procedure. Un'altra minaccia alla riuscita del processo di apprendi-mento situato è arrecata dalla possibilità d’insorgenza d’invidie, incomprensioni e antipatie fra senior e neoassun-to ai quali ancora una volta l’ambiente a più ampio respiro delle comunità di pratica potrebbe sopperire.

Chi affianca il nuovo ha anche il suo lavoro da fare; deve

fare il suo e guardare l’altro, è un atto di volontà pesante, è faticoso, se tu fai vedere che apprezzi e che dimostri buona volontà anche il collega che sta facendo fatica lo fa volentieri ma se tu fai il lavativo vien da dire allora stai lì, guarda internet, poi quando c’hai bisogno non ti do una mano. Arrangiati, a volte è in queste cose che si vede l’atteggiamento di questi ragazzi che entrano; la buona volontà di apprendere nel più breve tempo possibili e il numero più alto di cose dimostra la voglia che hanno di inserirsi nel nuovo ambiente di lavoro. Da parte dei colle-ghi poi c’è la buona volontà e la pazienza ma ci deve essere soprattutto da chi deve imparare (senior di una Bcc).

L’equilibrio fra recettività del neoinserito e capacità di inse-gnamento del tutor si fonda su due caratteristiche alla base dei due ruoli, ovvero l’umiltà e la disponibilità; se entrambe gli individui percepiscono la necessità di far fruttare nel più breve tempo possibile il loro rapporto al fine di rendersi nuo-vamente “autonomi”, allora l’equilibrio fra le parti si regge su una reciproca responsabilità verso il lavoro.

I ragazzi che entrano pensano di sapere già tutto, questo non è un fatto positivo, che ci sia un po’ di presunzione sta benissimo, però non sanno niente in realtà. La laurea è fondamentale ma bisogna capire che il mondo dello studio e quello del lavoro sono due cose completamente diverse. La realtà non è come nei libri, però le nozioni studiate sono fondamentali come base e insieme a uno spirito di apprendimento snello e veloce e un po’ di umiltà imparano in fretta (senior di una Bcc).

In una Bcc si tenta di marginare questi rischi impliciti nei rapporti di dipendenza fra newcomer e colleghi esperti attra-

Sviluppo della partecipazione periferica legittima

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verso l’attribuzione formale del ruolo di tutor a un membro che viene così investito di una carica potenzialmente ritirabi-le; ai newcomers viene inoltre lasciato ampio spazio per dare feedback sul loro processo di inserimento, sia rivolgendosi al Direttore del Personale che al responsabile di settore senza che occorra definire momenti istituzionali. I newcomers han-no mostrato di godere di questa libertà di espressione delle proprie opinioni e valutazioni in termini di sentimento d’appartenenza alla comunità di lavoro; «essere interpellati per sentire il tuo parere significa che hanno considerazione di te in quanto persona che lavora in azienda» e ancora «ho sentito tanta responsabilità, è importante sentirsi responsabile perché ti fa sentire utile e ti motiva» sono alcune delle espressioni utilizzate dai newcomers che sottolineano la loro partecipa-zione alla negoziazione dei significati delle pratiche aziendali e allo sviluppo delle attività; queste due dimensioni dell’esperienza permettono ai newcomers di costruire la loro identità di membro, identità che si stratifica in base alla som-ma delle esperienze vissute e all’evoluzione del ruolo assun-to (Wenger, 2006).

A conferma del valore aggiunto dell’apprendimento situato e della formazione su campo rispetto alla formazione in aula sono state le parole usate dai newcomers per descrivere i corsi seguiti; questi ultimi si articolavano in lezioni frontali tenute da professionisti esterni e strutturate in modo simile alle lezioni universitarie con l’aggiunta di una più marcata possibilità di interazione attraverso giochi di ruolo e momen-ti di scambio di opinioni. Uno dei newcomer sottolinea a proposito:

sono corsi interessanti ma un po’ difficili da mettere in pratica. Cerco di portarmi le informazioni dietro, sia con gli

amici, che a casa che sul lavoro, potrebbero essere decisa-mente utili a fare la differenza fra andare avanti e tornare indietro. Per capire quanto nella sua percezione ha influito la formazione istituzionale sul suo apprendimento generale del lavoro nella filiale di Binasco gli è stata chiesta una definizione in percentuale: Il mestiere l’ho imparato qua, quindi quasi zero. Tutti discorsi molto interessanti ma il lavoro l’ho imparato e lo imparo qua

(newcomer di una Bcc).

Se la formazione istituzionalizzata, portata avanti nella Bcc come supporto all’apprendimento situato dei newcomers, è risultata difficilmente trasferibile nella realtà lavorativa con-creta, ciò non implica che non possa esistere un supporto istituzionale al processo di apprendimento dei newcomers come vedremo più avanti Alla luce delle interviste raccolte e analizzate è stato quindi utile e opportuno delineare quali elementi sono stati vissuti come facilitatori dell’apprendimento e dell’integrazione e quali come ostacoli dai newcomers stessi e riassunti nella seguente tabella.

Se si confrontano le risposte date dai newcomers alla do-manda riferita alla loro percezione di integrazione nell’azienda con l’interpretazione dei fatti appena discussi, emerge che essi legano in larga parte il concetto di “essere membro” non solo con il grado di accettazione da parte dei colleghi, ma anche con la loro capacità di acquisizione di autonomia e con le dinamiche legate all’apprendimento. I newcomers manifestano una percezione di parziale periferi-cità nella quale essi si collocano a causa della poca esperien-za e delle competenze che devono acquisire anche grazie ai colleghi; l’impressione raccolta dall’intervistatore è però par-

FACILITATORI PERCEPITI PER L’INTEGRAZIONE OSTACOLATORI PERCEPITI PER L’INTEGRAZIONE

Sicurezza manifestata dai colleghi sulla propria permanenza in azienda

Forma contrattuale a tempo determinato

Possibilità di dimostrare di aver imparato Difficoltà di alcuni colleghi a condividere il proprio lavoro

Relazione con il cliente e carico delle responsabilità connesse Disparità nelle competenze e conoscenze fra newcomers che membri dell’azienda

Condivisione di momenti informali: pausa pranzo, spesa dopo orario di lavoro, pausa caffè, cene, serate.

Invidie e gelosie legate alle paure dei colleghi più anziani di esse-re “scavalcati” nella carriera dai newcomers

Ambiente piccolo Percezione che al fine del compimento delle proprie mansioni quotidiane la presenza del newcomer sia vissuta dagli altri dipen-denti come un impedimento o un elemento ritardante per il pro-prio lavoro.

Disponibilità da parte dei colleghi Timidezza

Attribuzione di responsabilità Dopo i primi mesi una mancata disponibilità dei colleghi nel pro-porsi per mostrare e spiegare procedure nuove

Richiesta da parte di tutti i colleghi anche a livelli manageriali di “dare del tu”

Possibilità di relazionarsi con tutte le figure all’interno dell’azienda

Tabella – facilitazioni e ostacoli percepiti dai newcomers per la loro integrazione

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zialmente discordante infatti è emerso che l’ambiente d’inserimento dei newcomers ha fatto sì che essi intera-gissero di routines con la maggior parte dei dipendenti della filiale, a qualsiasi livello essi si trovino, e che essi si fossero integrati nella rete di continui scambi, passaggi di informazioni e opinioni che caratterizza l’ambiente della loro banca. Tale modalità di comunicazione interna è ri-sultata essenziale ai fini del raggiungimento di un buon livello d’apprendimento e integrazione e ha permesso ai newcomers di sentirsi coinvolti nelle relazioni e di matu-rare la capacità di contribuire alla rinegoziazione del si-gnificato delle pratiche in atto nelle loro aziende (Lave e Wenger, 2006). Alla luce dell’individuazione degli elementi favorevoli e di quelli sfavorevoli al processo di socia-lizzazione dei neoinseriti l’analisi condotta ha puntato alla stesura di alcune proposte di riflessione da sfruttare come punti di partenza nella pro-gettazione di piani for-mativi strutturati. Si possono a tal pro-posito avanzare alme-no quattro ipotesi di prov-vedimenti migliorativi e-mergenti in parte dalle dichiarazioni raccolte dagli intervistati: programmare un periodo di for-

mazione in aula per i newcomers previ-sta per i primi giorni in azienda al fine di garantire loro la trasmissione di conoscenze teoriche e tecniche rela-tive alla procedure che andranno ad osservare e svol-gere durante l’affiancamento al tutor.

Definire la figura di tutor in forma più complessa stabi-lendo: dei riconoscimenti per la carriera,

una retribuzione aggiuntiva, un monte ore individuale alla settimana ricono-

sciuto necessario a recuperare il lavoro arretrato;

un sistema per obiettivi che lo aiuti a strutturare il suo insegnamento.

Prevedere una formazione per i tutor al fine di renderli consapevoli delle caratteristiche di un buon metodo di trasmissione delle conoscenze e delle esperienze e per guidarli nella pratica dell’insegnamento contestualiz-zato la specifica realtà in cui operano.

Rendere l’attività d’apprendimento situato una parteci-pazione periferica legittima a una comunità di pratica (Lave e Wenger, 2006); l’organizzazione può facilitare la creazione di comunità di pratica attraverso: la creazione di spazi comuni reali e virtuali dove

colleghi di uno stesso settore o di reparti differenti possano relazionarsi in modo informale e creare una rete di comunicazione grazie alla quale trovare interessi condivisi.

la progettazione di incontri-dibattito tematici spe-cifici per ciascuna posizione in azienda.

la creazione di compiti congiunti fra più colleghi o fra senior e newcomer, la stipulazione di obiettivi

comuni di settore, la creazione di team di pro-getto temporanei.

il coinvolgimento dei dipendenti in labora-tori interattivi e role-playing game.

L’istituzionalizzazione dei processi formativi e di so-cializzazione deve essere al servizio della pratica speci-fica di un determinato contesto (Wenger, 2006a) affinchè risulti efficace in termini d’apprendimento

e partecipazione; sono le pratiche che incrementano la

produzione ed è il felice compimento delle attività a portare risultati per l’azienda. La formazione istituzionalizzata può alli-nearsi a questo presupposto rendendosi il

collante fra le singole realtà individuali di apprendimento situato che si evolvono parallelamente in uno stesso ambiente di lavoro. L’allineamento fra istitu-zionalizzazione e pratiche è possibile solamente se esso diviene l’esito di una continua negoziazione fra le carat-teristiche di entrambi i poli in modo tale che l’organizzazione possa attraverso progettazione individu-are e supportare le leve per l’apprendimento e la socializ-zazione presenti nelle pratiche locali. Nonostante il con-testo bancario collochi il lavoro in una dimensione per lo più individuale, gli esempi di applicazione concreta di organizzazione in comunità di pratica, per esempio i Tech Clubs in DaimlerChrysler (Snyder e Wenger, 1999), mo-strano quanto un’azienda possa sfruttare il sostrato di relazioni informali come luogo d’innovazione, fattore di motivazione al lavoro e stimolo per la partecipazione dei neofiti impegnandosi a supportarlo con pratiche istituzio-nali di riconoscimento e agevolazione.

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Il processo di induction 

L a ricerca ha coinvolto 8 Banche di Credito Cooperati-vo del Nord Italia ed è stata strutturata in modo da raccogliere le informazioni rilevanti per l’azienda

attraverso una intervista strutturata con Direzione Generale e Direzione del Personale e attraverso un questionario som-ministrato online per i newcomers.

Il campione 

La ricerca è stata svolta nel corso del mese di maggio 2011 attraverso la realizzazione di 8 interviste rivolte ai responsa-bili del personale delle aziende che hanno aderito alla ricerca e attraverso la somministrazione di un questionario on-line cui sono stati invitate 72 persone di cui 55 pienamente ri-spondenti al target definito. Il target di riferimento ha consi-derato 2 dimensioni che devono risultare compresenti: i re-quisiti di età (nati dopo il 1.1.1980) e di anzianità aziendale (in azienda successivamente al 1.1.2010). Hanno completato il questionario 21 newcomers con fino a 6 mesi (58.33 per cento); 11 fino a 1 anno; 4 con più di un anno di anzianità.

I dati sono stati elaborati dall’analisi di 36 questionari validi su 55 potenziali rispondenti completamente in linea con il target indicato.

Hanno risposto al questionario un totale di 28 maschi e 8 femmine con una suddivisione tra i generi pari al 77,8 per cento per i maschi e al 22,2 per cento per le femmine. Ha aderito al programma di ricerca rispondendo al questionario l’80 per cento dei maschi contro il 40 per cento delle femmi-ne.

Le banche cha hanno aderito alla ricerca sono state reclutate nella Lombardia e nel Veneto, regioni che vedono una signi-ficativa presenza del Credito Cooperativo e che rappresenta-no due strutture economico sociali differenti sia per localiz-zazione geografica (le banche lombarde gravitano tutte nei dintorni di Milano, quelle venete hanno una localizzazione più periferica rispetto alle grandi città) sia da un punto di vista socio/culturale. Dal punto di vista dimensionale le a-ziende coinvolte hanno una dimensione che varia tra i 124 addetti con 10 filiali sul territorio, alle 34 filiali con 275 ad-detti.

Strumenti di raccolta dei dati  

La ricerca si è articolata in due fasi distinte; una facendo ricorso a un metodo di ricerca qualitativo, è stata attuata attraverso una serie di interviste, e una a carattere tipicamente quantitativo, dove i dati sono stati raccolti attraverso un questionario auto-somministrato on-line.

L’intervista 

Le domande di ricerca oggetto delle interviste sono state raccolte in 4 macro aree tematiche:

Quali sono i processi prevalenti di selezione e assunzione Quali strategie di socializzazione vengono utilizzate dalle

BCC Quali risultati ci si attende dalla fase di socializzazione e

come questi vengono misurati Quali sono le attese dell’azienda rispetto alle performance

professionali del newcomer e come vengono misurati i risultati.

Sono così state analizzate le politiche e le prassi legate alla sele-zione e gli strumenti di recruitment e di selezione prevalente-mente utilizzati; lo svolgimento dell’analisi dei requisiti e di pia-nificazione degli inserimenti nell’organizzazione; la tipologia di contratto prevalente offerto ai newcomers. Accanto a questo si è indagato come si svolge il processo di inserimento del neoas-sunto in azienda; quali le tattiche prevalenti utilizzate secondo la suddivisione indicata da Jones (1986). Si sono poi raccolte le indicazioni in merito a come i risultati della socializzazione ven-gono misurati e su come viene gestito una risposta non coeren-te con le attese rispetto alla socializzazione dei newcomer. Il processo di induction rappresenta un investimento per l’azienda; per questo motivo si è indagato come viene percepito il risultato dell’investimento, quali risposte offrono i newcomers e come il processo di introduzione si è modificato nel tempo.

Il questionario 

La ricerca ha raccolto un totale di 36 questionari validi su un totale di 55 persone rientranti nel target dell’indagine con una redemption pari al 65.45 percento. Il questionario è stato somministrato on-line con modalità di auto compilazione. I partecipanti sono stati preventivamente messi al corrente della finalità della ricerca e di come i dati sarebbero stati trat-tati da parte del responsabile dell’ufficio delle Risorse Umane.

La prima sezione ha utilizzato uno strumento di largo utilizzo nella letterature per la misurazione delle pratiche di socializ-zazione denominato Newcomer Socialization Questionnaire (Haueter, Macan, & Winter, 2003). La misura delle risposte è stata ottenuta, coerentemente con il modello originale, me-diante una scala Likert a 7 punti (per niente d’accordo – pie-namente d’accordo) per tutte le scale sopra descritte.

La seconda sezione del questionario è stata inserita per stu-diare le tattiche di socializzazione attraverso l’uso degli i-tems contenuti nella scala di Jones (1986). Anche in questo caso il questionario è stato tradotto dalla sua forma originale e adattato linguisticamente per essere il più rispondente pos-sibile al contesto lavorativo di una Banca di Credito Coopera-tivo. La misura delle risposte è stata raccolta, come indicato

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dalla stesso Jones, su di una scala Likert a 7 punti (per nien-te d’accordo – pienamente d’accordo) dove per taluni item Jones ha definito una scala di valori inversa.

Interviste alle Direzioni del Personale 

L ’analisi dei dati raccolti e qui presentati, è stata effettuata a valle dell’intervista rico-struendo le caratteristiche dell’azienda dalla

narrazione raccolta. Le dimensioni sulle quali le aziende sono state comparate sono: le caratteristi-che dimensionali (addetti; filiali; newcomers in-seriti nella ricerca); le politiche della selezione (pianificazione degli inserimenti; processo di recruitment e di selezione; caratteri-stiche principali ricercate nel can-didato); modalità di inserimento (strutturazione del processo di inserimento; tattiche di socializzazione utilizza-te; tipologia di contrat-to di inserimento in azienda).

Dalle interviste si evidenzia una sostanziale convergenza delle diverse aziende sia nelle mo-dalità di ricerca e selezione dei candidati sia per quello che ri-guarda, sia pure con talune differenze, le pratiche di inserimento.

Il processo di ricerca e selezione dei candidati nasce con la piani-ficazione delle risorse che, in modo assolutamente trasversale, vede sorgere la necessità di nuovo personale da inserire per tre principali ragioni: la gestione del turnover, la sostituzione di per-sonale e, in modo più significativo dal punto di vista numerico, l’apertura di nuove filiali. La gestione del turnover in particolare, nelle organizzazioni intervistate, è data principalmente, se non esclusivamente, dall’uscita di addetti dal mondo del lavoro per pensionamento, in quanto l’uscita dall’azienda per altre ragioni è dichiarata da tutti gli intervistati a livello assolutamente residua-le. Elemento di maggior rilievo numerico, che impatta nell’incremento dell’organico complessivo, è l’apertura delle nuove filiali e tutte quelle posizioni che si vengono a creare per rispondere alle richieste di nuove figure professionali imposte dalla normativa.

Nelle Banche di Credito Cooperativo il reclutamento avviene attraverso l’analisi dei curricula spontaneamente inviati dai po-tenziali candidati. Due aziende utilizzano lo strumento della par-tecipazione agli “Open-day” universitari per poter entrare in contatto con candidati potenziali che, vengono invitati a compi-lare le apposite sezioni dei siti aziendali per la raccolta

delle candidature.

Lo screening vede due orientamenti: uno che indirizza la ricerca al solo perso-

nale laureato, l’altro che prende in conside-razione anche candidati provenienti dagli istituti tecnico commerciali. In tutte le ban-che viene segnalata una “naturale” predi-sposizione alla selezione di candidati che abbiano svolto studi universitari.

I neodiplomati non vengono normal-mente presi in considerazione per la selezione perché l’esperienza ci insegna che non sono pronti ad affrontare il cliente. Per queste ragioni abbiamo deciso di alzare il tiro verso i laureati che si di-mostrano più idonei e sicuri ad affrontare il pubblico. Responsabile del personale BCC 6

Nella ricerca viene posta anche una certa attenzione alle aspira-zioni presunte o dichiarate da parte dei candidati specialmente per quel che riguarda i laureati che possono sentire le loro

aspettative frustrate con un im-patto diretto sulla motivazione dove, tendenzialmente i diploma-ti risultano essere meno problematici su questo punto.

Prendiamo in considerazione entrambi i curricula (ndr diplomati e laureati) perché ci siamo accorti che i laureati hanno delle attese molto alte e con tempi molto brevi, […] mentre l’approccio al mondo del lavoro dei diplomati è più orientato al lavoro, allo spirito di sacrificio. Tenden-zialmente crea meno problemi sia nell’inserimento che nel prosieguo della carriera.

Responsabile del personale BCC 3

Noi di laureati all’interno di questa azienda ne abbiamo fin troppi, in quanto la nostra ricerca è per laureati con un curriculum di studi brillante, e queste persone hanno, giustamente, un certo tipo di aspettative e queste vengo-no frustrate. I ragazzi si rendono conto che questa non è una azienda a dimensione nazionale che possa dare sboc-chi a tutti, per cui sanno che dovranno “mettere in canti-na” alcune delle loro aspirazioni. Bisogna dire che il lavo-ro di front office che viene svolto in banca può essere svolto in modo soddisfacente anche da un ragioniere bra-vo se adeguatamente formato. E’ chiaro che devi investire su di loro e che entreranno in azienda ad un’età inferiore rispetto a quelli laureati. Responsabile del personale BCC 7

Meno attenzione viene invece data all’indirizzo di studi e della votazione finale della laurea.

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Dal punto di vista del voto di laurea non lo consideriamo un elemento determinante. Anche per la facoltà di prove-nienza stiamo iniziando a cambiare atteggiamento, la provenienza dalle classiche facoltà che sono più vicine dal punto di vista dei contenuti a questo tipo di attività, non è più garanzia dell’adeguatezza della persona a svolgere questa attività. Vice Direttore Generale BCC 4

La selezione avviene, nella grande maggioranza dei casi, seguendo un processo standardizzato e utilizzando strumenti come test della personalità tipo BFQ o test dei colori di Lu-scher, oltre alla realizzazione di assessment center che ven-gono condotti da personale qualificato esterno all’azienda. Nella selezione l’attenzione maggiore viene rivolta verso il possesso e la padronanza delle competenze relazionali più che di un solido curriculum di studi a testimonianza della padronanza degli aspetti tecnici. Viene data una sempre maggiore importanza agli skills sociali, come la capacità di lavorare in gruppo e di sviluppare creatività e relazioni socia-li con soggetti interni ed esterni al proprio gruppo o ciò che Gorz ha definito come “produzione di sé” del lavoratore (Negrelli, 2005, p. 107). Altre caratteristiche della persona che vengono considerate fondamentali sono la propensione all’apprendimento così come la curiosità e la voglia di cre-scere. Ciò che viene ricercato è quindi più il saper essere e il saper divenire rispetto al saper fare, che viene considerato elemento facilmente trasferibile attraverso i corsi di forma-zione e, soprattutto tramite l’affiancamento alle persone esperte.

Nella fase di selezione viene segnalata in tutte le interviste quanto le candidate femmine emergano nel confronto con i loro colleghi maschi, sia da un punto di vista della prepara-zione, con punteggi di laurea o di diploma più elevati, sia per maturità complessiva.

La maggior parte dei curricula che riceviamo sono di ra-gazze così come se poniamo l’attenzione alle votazioni o, più in generale al livello di preparazione complessiva, risultano certamente avvantaggiate le ragazze. Anche in fase di selezione e nelle attività di gruppo emergono prin-cipalmente le ragazze. Responsabile del personale BCC 6

La differenza più grande in fase di colloquio le fanciulle, anche neo diplomate risultano più mature, emergono rispetto ai loro colleghi maschi, infatti mediamente passa-no alla fase successiva di selezione le ragazze tra i neo diplomati mentre per i ragazzi andiamo su neo laureati. Responsabile del personale BCC 5

Per quanto riguarda i contratti di assunzione che vengono proposti si tratta principalmente di contratti di inserimento a 18 mesi, mentre c’è una presa di distanza dai contratti di apprendistato per la loro complessità burocratica e per la penalizzazione che comportano nei confronti dei newcomers

dal punto di vista retributivo e di inquadramento contrattua-le.

Abbiamo usato pochissimo i contratti di apprendistato in quanto diventano pesanti da gestire e, a fronte di un ri-sparmio contributivo non così determinante, prevede un ingresso della persona con un inquadramento molto basso e con un contratto della durata di 4 anni e queste persone dopo 8 mesi facevano lo steso lavoro di chi con un altro contratto aveva due livelli contrattuali più alti e con sti-pendi diversi. Diviene quindi un problema di etica e di equità all’interno dell’organizzazione. Responsabile del Personale BCC 7

In alcuni casi le persone selezionate dall’azienda vengono assunte con contratti di somministrazione per valutarne le effettive capacità di integrazione. Dopo un certo periodo e verificata l’idoneità del candidato, viene offerto un contratto a tempo determinato.

Ciò che viene sottolineato da tutti i responsabili del persona-le intervistati è il tasso di conversione dei contratti a tempo determinato in tempo indeterminato che è praticamente u-guale al 100 per cento. Infatti sono solamente casi particola-ri e numericamente estremamente limitati quelli dove il rap-porto si conclude alla scadenza del primo contratto a tempo.

Per la banca, soprattutto una banca di credito cooperati-vo, è importante far crescere le persone. La nostra politica è infatti di assumere il più possibile dei neo e di farli cre-scere all’interno dell’organizzazione. I primi 3 anni sono di completo investimento della banca nei confronti delle persone. Sarebbe una politica suicida quella di non valo-rizzare gli sforzi fatti. Responsabile del personale BCC 1

La nostra azienda è attenta nell’utilizzo di tutti quegli strumenti contrattuali che aiutano nella riduzione dell’incertezza occupazionale dei nuovi arrivati. Negli ultimi tre anni abbiamo confermato tutti i contratti a tem-po determinato alla loro scadenza trasformandoli in con-tratti a tempo indeterminato. Responsabile del personale BCC 4

L’inserimento dei newcomers ha come punto iniziale la vita di filiale e in particolare la cassa come primo elemento di socializzazione. Le modalità, i tempi e il livello di formalizza-zione che viene utilizzato assumono caratteristiche diverse in funzione delle differenti organizzazioni. La prima giornata di lavoro, di norma, viene trascorsa con il responsabile del per-sonale che presenta l’azienda in quelle che sono le norme e l’organizzazione delle attività della banca avendo modo di conoscere la dislocazione degli uffici di sede. Già dal secon-do giorno il newcomer viene avviato presso la rete commer-ciale dove avrà inizio un periodo di formazione in affianca-mento a un collega più anziano.

L’inserimento dei nuovi dipendenti è nella rete commer-

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ciale, dove il passaggio fondamentale è provare l’attività di front office che è quella che dà la prima infarinatura generale su quali sono le attività tipiche della banca oltre a mettere alla prova per i costante rapporto con il cliente.

Responsabile del personale BCC 6

La prima formazione avviene quindi per affiancamento e ha come obiettivo principale l’apprendimento dell’operatività della cassa e della gestione del cliente. Nella maggioranza dei casi analizzati in questa ricerca, l’istruttore è un collega più anziano senza una specifica preparazione nella formazio-ne e senza una funzione riconosciuta di tutor del newcomer. Compito dell’istruttore è illustrare quali sono le operazioni da svolgere e quali sono le modalità operative da tenere. La funzione formale di tutor è in capo al responsabile di filiale il quale ha normalmente veramente poco tempo da dedicare alla nuova risorsa. Tra le diverse realtà incontrate solo un’azienda ha consolidato una prassi che, anche senza una dichiarazione formale, ha identificato in una per-sona il formatore di tutte le persone che entrano in azienda.

Anche se non è pienamente dichiarata la funzio-ne di tutor, abbiamo un operatore esperto che negli ultimi anni ha formato tutti i neoassunti. Questo giovane signore, si occupa dell’addestramento in modo da dare una formazione omogenea a tutti gli operatori di tutte conoscenze di carattere operativo e di carattere normativo. Responsabile del personale BCC 8

L’affiancamento ha un tempo di circa due/tre setti-mane anche se il newcomer inizia già dopo qual-che giorno ad operare in modo diretto con la clientela, sempre con l’aiuto del collega esperto che normalmente è nella postazione adiacente e quindi in grado di aiutarlo in caso di necessità.

Il neoassunto viene affiancato ad un collega esperto che fornisce tutte le indicazioni necessarie. Una volto che la persona viene ritenuta in grado di operare in modo auto-nomo, viene acquisita l’autonomia formale che compren-de l’indennità di cassa che rappresenta il passaggio for-male che sancisce l’assunzione di responsabilità della persona nella gestione autonoma del contante. Questo percorso occupa normalmente tra i tre e i cinque giorni. Responsabile del personale BCC 2

Il newcomer nel periodo del suo inserimento ha inoltre modo di partecipare a sessioni formative in aula, in particolar mo-do sulle tematiche obbligatorie come l’antiriciclaggio, antira-pina ecc., che lo vede affiancato alle persone di altre filiali e con diversi gradi di anzianità aziendale. In taluni casi questa formazione può essere organizzata anche in pool con altre banche, incontrando di conseguenza in aula colleghi di altre aziende. Alcune aziende organizzano corsi di formazione di

approfondimento degli aspetti tecnici tipici di una banca (tipicamente relative ad impieghi e investimenti) che vengo-no organizzati con docenti interni della banca e svolti in ora-rio serale coinvolgendo principalmente i neoassunti.

Scarsa, se non addirittura assente, risulta invece la formazio-ne sugli skills sociali e sugli elementi più legati alle tecniche di gestione del cliente e della sua soddisfazione. In un solo caso i newcomers sono stati coinvolti in un percorso di for-mazione, insieme ad altri colleghi.

L’affiancamento è la modalità di formazione, nella nostra esperienza, più efficace, dove la formazione d’aula, oltre a dare un infarinatura di introduzione della banca e dei prodotti vendibili allo sportello, ha poter come scopo quel-lo di correggere piccole imperfezioni nel trasferimento delle informazioni avvenuto durante l’affiancamento. Sia-mo convinti che il miglior metodo per imparare è mettere le mani sulle attività.

Responsabile del personale BCC 6

La valutazione dei risultati dell’inserimento in azienda avviene per

tutte le aziende intervistate attraverso la valutazioni delle prestazioni del neoassun-

to effettuato dal responsabile di filiale pres-so la quale sta svolgendo le sue attività. La

valutazione tiene conto principalmente di quelle che sono le capacità espresse dal ne-

wcomer e da quanto egli risponda alle sollecita-zioni che via via gli vengono offerte. La valutazio-

ne viene raccolta dall’ufficio del personale attraver-so diversi strumenti più o meno formali e ha come scopo quello di mettere “sotto osservazione” lo svi-luppo formativo del newcomer. Alcune aziende si dimostrano più attente ai risultati di inserimento aziendale, monitorando da vicino i candidati sia at-

traverso colloqui individuali, sia attraverso interviste con i responsabili di filiale ravvicinati nel tempo.

Per i primi diciotto mesi cerco di andare presso le filiali e incontrare per un colloquio il neoassunto ogni semestre per fornire al ragazzo un feedback di quella che è la no-stra impressione e chiedendo a lui qual è la sua impressio-ne. Responsabile del personale BCC 7

Sotto questo aspetto diventa evidentemente fondamentale la partecipazione attiva del neoassunto soprattutto nella ricer-ca di feedback. Su questo punto si sono raccolti molti dubbi sulla capacità dei giovani di ricercare questi feedback, i quali sono evidentemente attesi ma poco richiesti.

In tutte le realtà incontrate è stata rilevata una tendenza a non definire in modo chiaro e specifico quelli che sono i po-tenziali percorsi di carriera per i newcomers. Ad una generica apertura verso tutte le opzioni disponibili di fronte al giovane

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che entra in banca, non vi sono delle precise indicazioni che vengono fornite al newcomer che lo possano aiutare nel comprendere quali sono le tempistiche e le modalità normal-mente utilizzate per il progresso professionale e di carriera all’interno della banca. Questo è spesso, come dichiarato dagli intervistati un potenziale punto di frustrazione soprat-tutto per il personale maggiormente qualificato e preparato. In questo tema si inserisce il tema della sovra istruzione, che determina la necessità per l’ufficio del personale di gestire situazioni di difficoltà individuale legate alla sfera della co-struzione di sé del personale nel corso del suo sviluppo di carriera.

Chi sono i newcomers  delle BCC 

D ai dati raccolti dalle diverse BCC che hanno accet-tato di partecipare attivamente alla ricerca, emerge una popolazione di giovani composta principal-

mente da maschi, rappresentanti il 63,6 percento delle per-sone invitate e rispondenti al target. Il 70 percento del cam-pione ha un’istruzione universitaria e gran parte di loro è assunto con un contratto di lavoro a tempo determinato (80,55% ). Solo l’11,11 percento dei rispondenti risulta as-sunto con un contratto a tempo indeterminato.

Il 47% di loro ha una precedente esperienza di lavoro con un contrattato di assunzione e il 25% viene da una precedente esperienza di stage all’interno della stessa azienda (8%) o in altra organizzazione (18%).

Il 55% dei rispondenti dichiara che l’attuale occupazione è in linea con il lavoro ideale immaginato (44% abbastanza d’accordo; 11% completamente d’accordo).

I giovani intervistati si dichiarano soddisfatti del loro lavoro per il 67.35% e per il 78% dichiarano che non sono interes-sati a cambiare azienda anche avendone le possibilità.

Per i giovani newcomers delle BCC l’azienda ideale ha delle caratteristiche ben delineate: non è di grandi dimensioni; ha carattere locale ma tecnologicamente avanzata; ha profonde radici nella tradizione e caratterizzata da una conduzione prudente; stabile e professionale ha una governance precisa e definita nei ruoli. Ma ciò che emerge con maggiore forza e nettezza è la ricerca di un’azienda in grado di coinvolgere le persone e libera dagli individualismi.

Gli stessi dati confrontati con una ricerca precedentemente svolta (Boldizzoni & Sala, 2009) che ha coinvolto un ampio numero di studenti universitari ha riportato risultati diversi, in particolare per quanto riguarda le dimensioni dell’azienda dove, nella ricerca condotta nel 2009 dall’ISTUD, l’82,7 per cento dei rispondenti aveva dichiarato una preferenza per

M F M % su Totale

F % su Totale

Invitati target 35 20 63,6% 36,4% Rispondenti 28 8 77,8% 22,2% Rispondenti % su totale 80,00% 40,00%

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una influenza globale con una dimensione da grande azien-da, mentre i risultati qui raccolti danno un’indicazione più rivolta a una dimensione locale e orientata verso la media dimensione. Questo è compatibile con il tipo di aziende og-getto della ricerca (e il loro forte carattere localistico) oltre a

confermare il dato complessivo di soddisfazione registrato.

Altro elemento di interesse specifico deriva dagli orienta-menti espressi dai newcomers verso il mondo del lavoro e raccolti attraverso le preferenze assegnate tra una serie di possibili caratteristiche, si evidenzia, in linea con le prece-denti ricerche effettuate, quanto gli attributi più ricercati sono la possibilità di carriera e la retribuzione, dove alla sicu-rezza del posto viene anteposto nelle preferenze anche il buon rapporto con i colleghi. A risultati essenzialmente simili sono infatti giunte le ricerche effettuate dall’ISTUD nel 2009 (Boldizzoni & Sala, 2009) e il rapporto OXYGENZ realizzato dalla JohnsonControl su un campione di giovani a livello in-ternazionale (JohnsonControl).

E’ stato inoltre chiesto quale orienta-mento gli stessi newcomers hanno verso il futuro chiedendo loro di stilare una classifica tra possibili ipo-tetiche opzioni di lavoro futuro.

I risultati emersi indicano la presenza di una polarizzazione delle preferen-ze che si concentrano sulla possibilità di un avvio di un’attività imprendito-riale. Il 30,56 per cento dei rispon-denti colloca l’attività imprenditoriale al primo posto nelle preferenze, men-tre per la stessa percentuale è collo-cabile come ultima scelta tra le di-sponibili. Più netta la presa di distan-

za dal lavoro nel settore pubblico e, in disaccordo con prece-denti ricerche, il relativamente scarso interesse per l’impiego in una multinazionale, che raccoglie solo l’11,11 per cento delle preferenze collocandosi al quinto posto.

Ultimo valore indagato dal questionario l’intenzione, aven-done la possibilità, di lasciare l’azienda. A questa domanda che prevedeva la sola risposta Sì/No han-no risposto No 77,78 per cento degli intervistati. La manifestazione di rimanere all’interno dell’organizzazione è positivamente correlata con il grado di soddisfazio-ne dichiarato, ma soprattutto incide il grado di corrispondenza tra lavoro attuale e lavoro ideale.

La socializzazione 

I risultati derivanti dalla sezione del questionario dedicata al Newcomers Socialization Questionnaire mostra-

no complessivamente un buon livello di socializzazione da parte dei partecipanti, con un risultato aggregato pari al 65,28 percento per la socializzazione organizzativa, all’66,16 % per la socializzazione al task che sale all’74,07 % per la socializzazione al gruppo.

In particolare, come ben evidenziano i grafici riportati, i valo-ri per tutte e tre le dimensioni si collocano ampiamente nella parte positiva della scala, con una classe modale per tutte le dimensioni nell’area “dell’abbastanza vero”. Va nello stesso tempo evidenziata una maggiore dispersione dei risultati nell’area della socializzazione al task, che denota una mag-gior soggettività individuale.

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L’introduzione di una nuova persona nell’organizzazione può esse-re scomposta in tre grandi processi organizzativi che coordinano le diverse modalità di relazione tra persona e organizzazione, in-fluenzandone gli esiti di accettazione e adattamento (Sarchielli & Fraccaroli, 2010).

Il primo dei processi è definito di allocazione, e si riferisce in buona sostanza alla fase di reclutamento e selezione del personale. In questo processo l’organizzazione sceglie le persone che dovranno essere introdotte, identificando per loro una posizione che sia la più corrispondente possibile alle aspettative reciproche. In questo processo vengono a delinearsi gli obiettivi della socializzazione, in altre parole la capacità di misurare gli outcomes nello svolgimento del ruolo assegnato, il tipo di contratto psicologico. In particolare i termini del contratto psicologico sono formati da una combinazio-ne di influenze organizzative e individuali che hanno lo scopo di indirizzare le attività e i comportamenti dell’individuo all’interno dell’organizzazione. Il grado di bilanciamento tra le reciproche “obbligazioni” ha un importante impatto su entrambi i contraenti influenzando sia il livello di proattività del newcomer sia il succes-so delle tattiche di socializzazione utilizzate dall’organizzazione (Payne, Culbertson, Boswell, & Barger, 2008). E’ in questa fase che si verificano reciprocamente i gap tra le caratteristi-che dell’individuo e le caratteristiche richieste dal job e dall’organizzazione nel suo insieme, identificando gli adju-stment necessari per il successo dei pro-cessi di P-J fit (Person-Job Fit) e P-O fit (Person-Organization Fit) (Saks, Ugger-slev, & Fassina, 2007).

Il secondo processo definito di integra-zione sociale, afferisce alle condizioni di facilitazione dell’inserimento nei gruppi sociali, gli strumenti e le tecniche con cui promuovere una partecipazione attiva. Questa fase ha come punto significativo

la costruzione di una personale mappa mentale con la quale elaborare un’interpretazione del contesto in cui si opera nella costante attribuzione di senso alla realtà vissuta. Il processo di sensemaking comporta una riorganiz-zazione e un cambiamento degli sche-mi cognitivi della persona, ovvero delle strutture di conoscenze organizzate che le persone utilizzano per interpretare persone e situazioni. In particolare, mentre imparano a conoscere e inter-pretare il proprio ruolo, i colleghi e l’organizzazione, i newcomers interpre-tano sempre più accuratamente gli eventi intorno a sé, sviluppando una mappa cognitiva del contesto che li

aiuta a ridurre l’incertezza. Il modo in cui danno senso e significa-to a questa esperienza è cruciale per sviluppare atteggiamenti e comportamenti che permettano di essere efficaci nel nuovo am-biente sociale. (Pontiggia & Isari, 2010).

Il terzo è il processo di produzione e riguarda specificamente le modalità e le condizioni di apprendimento, affinamento delle com-petenze generali e specifiche per corrispondere alle richieste del job e dei ruoli assegnati o personalmente rivisitati, funzionali al conseguimento dei risultati positivi attesi (Sarchielli & Fraccaroli, 2010).

Questi processi non seguono un processo lineare di tipo incremen-tale ma interagisco tra loro componendo una strategia di socializ-zazione organizzativa. La meta-analisi svolta da Saks, Uggerslev, & Fassina (2007) ha infatti rilevato come le tattiche di socializza-zione siano il più importante predittore per l’adeguamento del newcomer nella costante interazione con l’organizzazione e i suoi membri anziani.

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D ai dati rilevati dai questionari, risulta un buon livello di socializzazione complessivo sia per quanto riguarda la socializzazione organizzativa, quella al task svolto e, in

modo ancora più significativo, per quello che riguarda la socializza-zione dei rispondenti al gruppo. I rispondenti hanno un livello di istruzione superiore che delinea una prevalenza nella selezione verso chi ha svolto degli studi universitari, con circa il 70 per cento del campione, così come il contratto di as-sunzione utilizzato (80,56% del campione) è a tempo determinato e solo per una quota dell’11 per cento è a tempo indeterminato; tutti newcomers provengono da precedenti esperienze lavorative svolte presso altre organizzazioni. Gli stessi rispondenti dichiarano una buo-na corrispondenza tra l’attuale occupazione e quello che immagina-vano come lavoro ideale. Anche i dati più specificamente relativi alle caratteristiche che maggiormente afferiscono alla generazione Y risultano in linea con le ricerche precedenti svolte anche con campio-ni di utenti internazionali. Si confermano perciò le caratteristiche più significative legate al contenuto del lavoro come l’importanza attri-buita alla possibilità di carriera offerta dall’occupazione e il suo livello retributivo. Solo in sub-ordine troviamo la sicurezza del posto. Ciò assume una rilevanza in quanto nelle ricerche precedenti il target dell’indagine era principalmente focalizzato sulla popolazione ancora alla ricerca di un lavoro (Boldizzoni & Sala, 2009), mentre in questo caso stiamo parlando di persone che, ancorché con una dose d’incertezza, hanno una buona confidenza sulla possibilità di trasfor-mare il loro “contratto flessibile” in un “tempo indeterminato” alla scadenza dello stesso. Questo è un elemento di cui tener conto nella gestione e nella comunicazione con i newcomers, specialmente per quanto riguarda i percorsi di carriera e i diversi obiettivi che si devono porre nella costruzione del loro percorso professionale all’interno dell’organizzazione, considerando i due elementi (carriera e retribu-zione) connessi tra loro. Si evidenza una contraddizione infatti tra quelle che sono le preferenze espresse e quelle che sono le risposte fornite attraverso i questionari, dove la conoscenza della propria evoluzione professionale all’interno dell’organizzazione è derivata più da una conoscenza indotta dei passaggi (esperienze dei colleghi) che da una chiara consapevolezza degli obiettivi da raggiungere e del posizionamento attuale rispetto a questi. Altro elemento che risalta è la scarsa presenza nel target della componente femminile, che è poco più di un terzo delle persone invitate, e in contrasto con quanto dichiarato dalle aziende, che riscontrano “una marcia in più” delle donne, che sembra non rispecchiarsi nel numero dei newcomers. Ancora più significativa la partecipazione delle donne al questionario, dove risulta che solo il 40 per cento delle invitate ha risposto alla sollecitazione rispondendo al questionario, manifestando tra l’altro un grado di soddisfazione complessivamente inferiore rispetto ai colleghi maschi. Questo dato si ritiene debba far riflettere soprattutto in quanto, anche al di fuori delle interviste, viene sottolineato da diversi interlocutori quanto “la banca sia donna”, per le caratteristi-che che sono maggiormente evidenziate e associate dagli intervistati al genere come la maggiore disponibilità alle relazioni interpersonali o la migliore preparazione e la complessiva maturità, tutte doti fon-

damentali che non si riflettono in termini numerici nel campione di persone oggetto della ricerca. Le donne sono meglio ma, almeno a leggere i dati, i selezionati sono uomini. Altro elemento rilevante dalle interviste è l’attenzione che viene po-sta nei confronti di quelli che sono definiti soft skills, ovvero l’insieme delle competenze legate alla relazione o come oramai spesso viene definita, la dimensione del saper essere. Anche in questo caso pare emergere un’incongruenza: viene posto un focus particolare su que-ste competenze ma non si riscontra alcun programma di sviluppo delle stesse (solo una banca ha introdotto i newcomers all’interno di un percorso di sviluppo degli soft skills) quasi come se queste non fossero delle competenze che si possono sviluppare ma come se fossero doti ascritte nell’individuo e quindi non diversamente acquisi-bili. In questo senso emerge anche un ulteriore punto di attenzione sulle modalità di inserimento che vengono affidate a personale con una certa esperienza nella stessa posizione, ma senza nessuna speci-fica formazione o investitura del ruolo di tutor, lasciando alle caratte-ristiche individuali il compito di sviluppare sia le abilità tecniche lega-te al compito, sia quelli che sono i comportamenti adeguati e quelli attesi nello svolgimento del ruolo. Forse una maggiore attenzione alla formazione dei tutor potrebbe portare a risultati complessiva-mente migliori, non tanto in termini di socializzazione, ma in termini di performance successive del newcomer. Tale riflessione deriva principalmente dall’indagine qualitativa che ha permesso di far emer-gere un forte disagio da parte dei membri esperti, da anni dipendenti negli istituti bancari scelti, nel gestire un ruolo di tutor a loro non chiaro, non delineato da linee guida, non equilibrato con il consueto carico di lavoro quotidiano e non riconosciuto secondo le loro aspet-tative. Il deficit derivante da una supposta disorganizzazione nella definizione della figura del tutor ha conseguito feedback in parte negativi anche da parte dei newcomers che hanno frequentemente notato malumori da parte dei colleghi ai quali erano affiancati, non sempre piena disponibilità di tempo e una parziale incapacità a ri-spondere a tutte le loro esigenze formative.

La valutazione di quest’ultimi dati spinge alla necessità di una rifles-sione di più ampio respiro sul ruolo del tutor nel processo di socializ-zazione aziendale e su quali provvedimenti migliorativi possano esse-re adottati per rendere più efficace un metodo di formazione iniziale considerato insostituibile dalla maggior parte degli intervistati. A nostro avviso la riconsiderazione del rapporto tutor-newcomer e del potenziale di questa relazione esprimibile nel contesto più allargato della comunità di pratica può essere un inizio per la ristrutturazione e il miglioramento del processo di socializzazione stesso. Si tratta, in questo caso, di rivedere le pratiche di inserimento e di formazione rendendole più vicine alle esigenze sia delle persone (siano queste tutor o newcomer), sia delle aziende, dove la necessità di ottenere risultati tangibili dai nuovi assunti ha un orizzonte sempre più breve. Si tratta quindi di spostare il focus dell’attività di induction sul newco-mer attraverso programmi di coinvolgimento attivo nella pratica lavorativa e sulla costruzione delle aspettative, affinché possano essere coerenti con la propria realtà lavorativa.

Conclusioni 

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