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I NUOVI CRITICI LABORATORIO CULTURALE

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I NUOVI CRITICI

LABORATORIO CULTURALE

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I NUOVI CRITICI

LABORATORIO CULTURALE

La collana intende ospitare le opere di critici esordienti, non ac-cademici, che si esercitano quotidianamente nella lettura di opereletterarie e poetiche sia italiane che straniere, nell’analisi cinema-tografica di film noti e meno noti, nell’interpretazione delle opered’arte del presente e del passato, nell’attenta fruizione di opere tea-trali sia sperimentali che classiche. Una critica di chi legge, interpretae decifra giorno dopo giorno, con gli occhi ben aperti sul mondo.

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Diego Chiesi

La gotta nella letteratura

Prefazione diEnrica Salvaneschi

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Indice

7 Praefatio

11 Capitolo I

Introduzione

13 Capitolo II

La tradizione testuale lucianea

17 Capitolo III

La Ποδάγρα

39 Capitolo IV

L’ Ὠκύπους

43 Capitolo V

Spunti di analisi comparata

51 Capitolo VI

La Ποδάγρα fra le opere lucianee

61 Capitolo VII

Teatrabilità

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69 Capitolo VIII

Aristofane: la prima attestazione letteraria della gotta

73 Capitolo IX

La gotta nella medicina greca

83 Capitolo X

La gotta nella tradizione letteraria greca

91 Capitolo XI

La gotta nella medicina latina

101 Capitolo XII

La gotta nella tradizione letteraria latina

123 Capitolo XIII

La gotta nella tradizione letteraria italiana

145 Capitolo XIV

La gotta in Shakespeare

153 Capitolo XV

Robert Burton: gotta e melanconia

177 Capitolo XVI

La Joie de vivre e Little Lord Fauntleroy

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201 Capitolo XVII

Anomalie deambulatorie nei miti classici: proposte interpreta-

tive

225 Capitolo XVIII

Conclusione

233 Bibliografia essenziale

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Praefatio

La gotta, grecamente podagra, non ha finora assunto un ruolo de-

gno di nota nell’àmbito accattivante e inquietante della nosografia mi-

tica e letteraria. Mi si passi questa iunctura forse audace, ma efficace:

si pensi, per richiami di sicura eccellenza, al fegato di Prometeo, alla

follia di Ercale, alla gibbosità di Tersite, all’epilessia di Ió, giù giù fi-

no alla tisi della dumasiana dame aux camélias, Marie Duplessis ov-

vero Violetta ovvero Camille ovvero Margherita Gautier, al tifo del

turgeneviano Bazarov, all’emicrania del bulgakoviano Ponzio Pilato,

al mal di denti di Thomas Buddenbrook e alla sifilide di Adrian Le-

verkühn in Thomas Mann. Ma non addentriamoci nel voluttuoso elen-

co di questi morbi, nobili o nobilitati: diciamo piuttosto che la presen-

te monografia rivendica un ruolo non così illustre, ma suggestivamen-

te vitale e sinuoso a un’affezione patologica dall’apparenza non nobi-

le, forse perché ritenuta non mortale e, all’apparenza, così sconsola-

tamente priva di ricadute psichiche da restare esclusa dalle sprezzanti

perversioni dichiarate dall’uomo del sottosuolo dostoevskiano, “mala-

to e malvagio”. Ma è proprio vero tutto questo? Oppure anche gli aci-

di urici del gottoso possono adire un riscatto come male psichico e

fantastico, simile a (o parente minore, umile corollario di) quello che

da secoli inerisce agli umori della melanconia? Tale è l’argomento

della ricerca che qui si presenta e tale è, per così dire, il punto di pro-

mozione della sindrome podagrosa: la sua attinenza al mondo morbo-

so della patologia melanconica. Essa è già sottesa e sottintesa dal testo

archetipo per ogni ricerca sul tema: un’operetta cosiddetta minore in-

clusa nel corpus Lucianeum, strutturata a tragedia, di cui Ποδάγρα

(Podagra) è protagonista ed eponima. Nessun dato decisivo impedisce

di attribuire a Luciano medesimo questo ironico e irridente omaggio

alla tragedia classica, vista con l’occhio deformante e pur partecipe di

un formidabile e sottile genio creativo, che coglie gli sparsi spunti del-

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8 Praefatio

la tradizione tragica, tragicomica e satirica, anche latina, e ne affida la

continuazione ai secoli venturi, fino al Novecento gaddiano; ma intan-

to, secondo l’interpretazione avallata dai critici, un suo succedaneo

della tarda antichità sarebbe riuscito a far entrare nel corpus Lucia-

neum un emulo opuscoletto tragiciforme, l’ Ὠκύπους (Pie’ Veloce)

che con la Podagra compone un dittico inquietante di inesorabile,

morboso destino. Questo destino riceve poi una garanzia decisiva, or-

mai in epoca pienamente barocca, da un altro libro epocale, The Ana-

tomy of Melancholy di Robert Burton (I edizione 1621): tradizionalis-

simo e originale, caotico all’apparenza ma in realtà dominato da una

lucida ragione empirica, il trattato burtoniano consta di citazioni da

autori classici e post–classici che, sotto la maschera del redivivo De-

mocritus ridens, imbrigliano sindromi somatiche e ossessioni fantasti-

che: in questo plesso la gotta riceve una vera e propria, esplicita pro-

mozione melanconica, che lasciamo al lettore di scoprire, sotto la gui-

da sapiente dell’autore.

L’autore: Diego Chiesi, giovane interprete qui alla sua opera se-

conda (dopo L’originalità classica della commedia alfieriana, Edizio-

ni dell’Orso, Alessandria 2012), affronta con falcata di autentico stu-

dioso un compito che crescit eundo, valicando cime poetiche, quali

Jacopone da Todi e William Shakespeare, visitando la narrativa zolia-

na e la fiaba sociale di Frances Hodgson Burnett, nonché discoprendo

accattivanti autori “minori”, quali il nostro secentista Francesco Ful-

vio Frugoni. I testi esaminati, provenienti dalle letterature greca, lati-

na, italiana, francese, inglese nell’intero arco della loro documentazio-

ne, sono sempre discussi in lingua originale (ma nondimeno accompa-

gnati da traduzione, al fine di renderne più agevole a chiunque la

comprensione) e presentati in un colloquio storico e metastorico che

mai dimentica i valori formali e deformanti di un’interazione continua

tra stile e tema, fra tradizione e sua decantazione nel presente, tra ra-

gione e passione, in un’acribìa esegetica sempre sorretta da nitore e-

spressivo.

Ringrazio il prof. Moreno Morani per averci esortato a questa solu-

zione editoriale: segno che i valori della scuola e della cultura non vo-

gliono e non possono cedere alla conformità dell’ignoranza, della fret-

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ta e del “pressappoco”, bestia fanatica che troppi ritengono trionfante.

Ma con Podagra, l’abbiamo capito, non ce la può fare.

Enrica Salvaneschi

Genova, maggio 2014

Nota dell’autore:

Mi permetto di ringraziare la prof. Salvaneschi, insostituibile e in-

stancabile aiuto nei miei due principali lavori, con la quale spero di

avere ulteriori occasioni di lavoro. Ad E. S., quasi Musa, sono debito-

re anche per l’idea del presente tema di ricerca e per il suggerimento

di testi fondamentali quali quello burtoniano o quello zoliano. Ringra-

zio parimenti il prof. Leonardo Paganelli, per la disponibilità e la sua

spontanea recensione al mio precedente lavoro; il prof. Walter Lapi-

ni, per la stima più volte dimostratami; il prof. Oscar Meo per il sug-

gerimento sul dipinto di Hogarth, riprodotto in copertina; gli amici

“scolophili” per gli inesauribili spunti; i miei genitori, senza i quali

non avrei fatto ciò che ho fatto.

D. C.

9 Prefatio

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Capitolo I

Introduzione

La gotta (denominata anche podagra perché colpisce soprattutto il

piede) è una malattia che accompagna l’evoluzione umana: si trova

presso ogni popolo e in ogni era e recenti ricerche mediche rilevano

come la percentuale mondiale dei gottosi sia in costante crescita. Il

presente studio intende essere una documentazione non medica, ma

letteraria, della malattia. Il punto di partenza è costituito da Luciano,

che, nel II secolo d. C., scrisse un’opera teatrale intitolata Ποδάγρα,

brillante contaminazione fra tragedia e commedia. Strettamente con-

nesso alla Ποδάγρα è l’ Ὠκύπους, tramandato come lucianeo ma

quasi certamente posteriore: non mancano in esso spunti comici, ma la

conclusione dell’opera è marcata da una tragica inesorabilità. I due te-

sti costituiscono tuttavia un dittico speculare, con gioco di echi e ri-

chiami che illustreremo. Attraverso un progressivo ampliamento del

discorso, condotto in prospettiva comparatistica, cercheremo di trac-

ciare una sommaria storia del tema della gotta in letteratura. Iniziere-

mo dalle opere lucianee, i parenti più stretti del nostro testo di avvio;

seguiremo quindi tale fil rouge lungo le letterature greca e latina, sen-

za dimenticare i grandi medici dell’antichità. Già a questo punto, e-

mergerà come le attestazioni letterarie non siano semplici citazioni ac-

comunate da un lemma: similari sono i campi semantici e gli orizzonti

concettuali nei quali la malattia è inserita. Non sarà pertanto fuori luo-

go parlare di un “tema” della podagra, intendendo un insieme di loci

ove l’oggetto compare secondo coerenti linee di sviluppo e di signifi-

cato. E sarà parimenti evidente come le differenti attestazioni siano

sovente inter–dipendenti: gli autori cronologicamente più recenti si ri-

fanno a chi li ha preceduti, declinando il nostro tema in maniera con-

sapevole. Si istituisce così, sul motivo della podagra, un dialogo inter–

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12 Capitolo I

letterario che è alla base del comparativismo. Continueremo quindi il

percorso attraverso la tradizione letteraria italiana, negli esempi ritenu-

ti più emblematici (conoscere è sempre sintetizzare). Concluso questo

percorso lineare, introdurremo l’analisi di alcune opere straniere rite-

nute significative: in particolare, The Anatomy of Melancholy, scritta

nella prima metà del Seicento dall’inglese Robert Burton, che testi-

monia un’importante ripresa della Ποδάγρα lucianea e contribuisce

ad ampliare il discorso al tema della melanconia, inaspettatamente

connessa con la podagra. Ci volgeremo poi alla mitologia classica, fil-

trata attraverso la lente del piede malato, a chiedersi se esso possa co-

stituire un’unità di senso. Comun denominatore al nostro percorso sarà

il registro comico: la podagra (e, più genericamente, la deformazione

o malattia al piede) è sovente trattata in chiave comica ed è funzionale

a produrre riso. Guarderemo, pertanto, con occhio attento al problema

del comico; e insistendo sul legame tra piede e comicità, motivato sia

su base letteraria, sia su base mitologica, termineremo le nostre argo-

mentazioni. Emergerà alla lettura come Luciano sia uno snodo fonda-

mentale nella storia del tema, cosa che giustifica sia l’averlo scelto

come punto di partenza, sia l’ampio spazio che gli verrà dedicato: in

qualche modo, Luciano, autore della Weltliteratur, e la classicità con

lui “dettano le linee”, fornendo al motivo contesti, contenuti e stili con

cui le epoche successive dovranno confrontarsi.

Occorre ancora una puntualizzazione. Nonostante la gotta sia una

malattia ai piedi o comunque alle articolazioni, il nome si estende pro-

gressivamente anche ad altre malattie: ad esempio, in italiano la gotta

caduca (o gotta di cuore) è l’epilessia; nella Miscellanea Tironiana, la

voce gutta podagrica vel arderitica significa genericamente “artrite” 1, e in questa accezione si ritrova in varie lingue romanze, dal porto-

ghese al rumeno; altrove essa indica la paralisi. Noi, tuttavia, ci occu-

peremo qui della gotta nel suo senso proprio, come malattia (dolorosa

ma non mortale) alle articolazioni di mani e piedi.

1 Già in greco ποδάγρα καὶ ἰσχιάς e in latino podagra vel arthritis, pur non essendo si-

nonimi, formano sovente dittologia.

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Capitolo II

La tradizione testuale lucianea

Prima di iniziare la trattazione del nostro tema, riteniamo opportu-

no fornire un quadro succinto ma chiaro della storia del testo lucianeo.

I più recenti contributi a tal proposito, elencati in ordine cronologico,

sono i seguenti: la prefazione all’ottima edizione critica della Oxford

curata da M. D. Macleod (1970–1987); l’introduzione all’edizione

dello Juppiter Tragoedus fatta da J. Coenen nel 1977, ove Coenen ri-

flette sullo stemma proposto da Macleod e lo modifica in parte; la pre-

fazione all’edizione Les Belles Lettres curata da J. Bompaire nel 1993,

che fonde gli stemmi di Macleod e Coenen; e, infine, l’italiana UTET,

di carattere più divulgativo, edita a cura di Vincenzo Longo tra il 1976

e il 1993.

La tradizione del testo di Luciano è complessa, come ben si può

immaginare. In realtà, la fortuna letteraria non arrise a Luciano nei

primi secoli successivi alla sua morte: fu solo sporadicamente citato,

ad esempio da Lattanzio e da Isidoro, e poi da alcuni dotti dell’Asia

Minore e della Siria, regione patria dello scrittore. Il nome di Luciano

ricompare con la Rinascita bizantina, dal IX secolo in avanti: in parti-

colare, il patriarca Fozio dichiara di aver letto il Phalaris, i Dialogi

Mortuorum e Meretricii e molti altri scritti di vario argomento (Bibl.,

cod. 128, 96a). In termini filologici, la scarsa fortuna nei secoli

dell’Alto Medioevo significa che non vi fu proliferazione di codici e

che la tradizione del testo subì poche corruttele tra il II sec. d.C. (seco-

lo in cui visse Luciano e in cui si producono gli originali) e il IX; dal

IX–X secolo in poi, invece, varie copie furono prodotte, con le inevi-

tabili conseguenze che ciò comporta. La tradizione del testo è biparti-

ta, ciò essendo dovuto alla notevole mole del corpus lucianeo. Quindi,

una parte della tradizione si rifà all’iparchetipo perduto γ, editio

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14 Capitolo II

maior, che trasmetteva la totalità delle opere del Samosatense; un’altra

parte della tradizione si rifà invece all’iparchetipo perduto β, editio

minor, che rappresenta una selezione del corpus e ne trasmette un po’

meno della metà. Alcune opere, quindi, avranno tradizione semplice,

essendo tramandate solo dai manoscritti della famiglia γ; altre, pre-

senti in entrambi i rami, avranno duplice trasmissione. Il più antico

manoscritto di cui abbiamo testimonianza è quello che leggeva Fozio:

è senz’altro perduto e potrebbe essere lo stesso γ od ω, da γ derivato;

sicuramente appartiene alla famiglia di γ, poiché i Dialoghi Mortuo-

rum e Meretricii non rientrano fra le opere tràdite da β. È poi logico

supporre un archetipo da cui gli iparchetipi γ e β discendono. La cro-

nologia degli iparchetipi è dunque alta, intorno al IX secolo. Dal per-

duto γ discende Γ, il codice Vaticano 90, redatto all’inizio del X seco-

lo, di alta affidabilità, che riporta i testi nell’ordine tradizionale, dall’1

all’86. Proprio l’ordine in cui vengono riportati i testi (chiamato col

termine greco ἀκωλουθία) è stato considerato un criterio di attendi-

bilità e di derivazione; come indica la numerazione, è stato supposto

che l’ordine di Γ sia quello “corretto”, ossia originariamente presente

in γ, innovato dagli altri manoscritti. Recentemente, invece, Coenen

ha avanzato l’ipotesi che l’ἀκωλουθία di γ non sia quella presente in

Γ, ma quella di cui si ha traccia in Ω e V.

Altro manoscritto fondamentale ed autorevole, redatto da Areta nel

914, è l’Arleiano 5694, cosiddetto E. Questo manoscritto si pone a

metà fra le due famiglie di tradizione e dimostra come contaminazioni

e contatti fra queste siano avvenuti fin dagli albori della storia del te-

sto lucianeo. E è posseduto solo in parte: una pars prior E(1)

, da cui

deriva il codice B(1)

(inizio XI sec.), è perduta e discende da β; una

pars posterior E(2)

, da cui deriva B(2)

(inizio XI sec.), è posseduta e di-

scende dalla famiglia di γ. Non v’è comunque ancora totale accordo

su E, tanto che Bompaire, nel suo intervento conclusivo, continua a

definirla “véritable crux codicologique” 1.

Nella famiglia di β, altro codice di capitale importanza è U, ovvero

il Vaticano 1324 (sec. X–XI), posseduto solo in parte. Pur non essen-

1 J. BOMPAIRE, Oeuvres / Lucien, Les Belles Lettres, Parigi 1993, Introduzione, p. LXIV.