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Eppur si muove …..
maschere per ridere d’angoscia
Alunni: Ticali Andrea, Di Liberto Federica, Giangrasso Federico, Spagnolo Samuele, Espinoza
Gutierrez Maite Classe: II B
Introduzione
Abbiamo scelto questo tema per vari motivi, alcuni dei quali banali, altri più profondi e legati alla
lettura delle opere dell’autore. Tra i primi si può sicuramente annoverare il fatto che frequentiamo
un liceo che prevede tra le sue offerte didattiche anche dei corsi di Storia del cinema e Storia del
teatro. Un motivo più profondo, invece, è legato al nostro confronto con l’autore, che ci ha spinto ad
accostare alle figure di Pirandello alcuni personaggi del cinema muto, quali Charlie Chaplin con
Ciaula e Mattia Pascal, mentre Buster Keaton e le sue maschere di pietra ci hanno ricordato la
figura letteraria di Serafino Gubbio operatore. Da qui si è sviluppato in noi l’interesse verso il
Cinema muto e verso quelle pellicole che sembrano tanto distanti dal nostro cinema, ormai sempre
più ricco di effetti speciali e sempre più “vero” grazie ai vari 3D o 4D. Quelle figure mute e
gesticolanti hanno attratto il nostro interesse e ci hanno strappato qualche risata ed anche qualche
lacrima.
Da questa constatazione è nata l’idea di un accostamento tra il cinema muto ed il teatro di
Pirandello, tra l’altro contemporaneo all’età aurea del Muto. Tutta l’arte di Pirandello nasce, infatti,
dal suo concetto di umorismo, cioè dalla riflessione sull’assurdità della vita e sulla crudeltà dei
meccanismi sociali che riducono l’uomo ad una macchietta apparentemente ridicola, ma a ben
pensare tragica. Il riso che può scaturire dalla lettura di alcuni passi del nostro autore o
dall’immaginazione di situazioni surreali, come quelle di Ciaula, di Mattia Pascal, di Vitangelo
Moscarda o di molti altri protagonisti delle opere pirandelliane, è sempre venato d’amarezza, come
quello che accompagna spesso le gag di Chaplin, sempre solo alla fine, alle prese con povertà,
incomprensione o con un lavoro alienante e ripetitivo.
Movimento, vita, maschere: i capisaldi del pensiero pirandelliano
Per Pirandello la realtà tutta è vita, un perpetuo
movimento vitale, continua trasformazione da
uno stato all’altro; tutto ciò che si stacca da questa
trasformazione assume forma distinta e
individuale che comincia, secondo Pirandello, a
morire. Questo avviene nell’identità dell'uomo,
quando tendiamo ad assumere ruoli che la società
stessa ci impone. Non solo noi stessi, però, ci fissiamo in una forma, anche gli altri, con cui
condividiamo una società, vedendoci secondo la loro prospettiva, ci danno determinate forme. Noi
crediamo di essere uno quando per gli altri siamo tanti individui diversi, a seconda della visione di
chi ci guarda. Ciascuna di queste forme è una maschera che noi stessi e il contesto sociale ci
imponiamo. Sotto questa maschera non c’è un volto unico, non c’è nessuno, ma un volto in
continua trasformazione, per cui un momento prima siamo una persona e un momento dopo
un’altra. Tutto ciò è sentito come una trappola, da cui l'individuo cerca di uscire, lottando invano
per liberarsi. Luigi Pirandello dedicò gran parte della sua ricerca letteraria alla questione
dell’identità umana più profonda del personaggio; il tessuto della sua ricerca teorica, sia letteraria,
ma anche della sua visione dell’uomo, viene sviluppato in un’opera considerata fondamentale per la
cultura letteraria del Novecento. Si tratta del saggio L’Umorismo, pubblicato nel 1908.
Attraverso novelle, romanzi e opere teatrali, lo scrittore siciliano offre al lettore la possibilità di
vedere dentro i suoi personaggi, di osservare la loro “realtà” scomposta come un quadro cubista;
nelle sue opere l’autore ci presenta un individuo estraneo a se stesso, uno che gli altri possono
vedere e conoscere, ciascuno a suo modo. I personaggi pirandelliani vanno esuli alla ricerca di
un’identità più autentica, spontanea, più corrispondente a quell’io ideale che tutti abbiamo dentro.
Per arrivare al proprio intento: alcuni di loro, come Vitangelo Moscarda, protagonista di Uno,
nessuno e centomila, riflettono molto sulla loro condizione e scelgono di percorrere la strada
maestra della follia; altri, come Mattia Pascal, protagonista de Il fu Mattia Pascal, fuggono via di
casa, lasciandosi tutto alle spalle, estirpando le proprie radici e trascorrendo la vita da spettatore
esterno; sia nel primo che nel secondo caso troviamo due passeggeri del perpetuo treno della vita.
Alla base di tutta l'opera pirandelliana si può osservare un rifiuto delle forme della vita sociale, dei
ruoli che essa impone, la società per Pirandello è un'enorme
pupazzata. Un’ulteriore trappola per Pirandello è la famiglia:
l’individuo assume nella vita la maschera di figlio, padre,
madre, senza essere veramente mai se stesso. Altra trappola è la
condizione sociale, da cui Pirandello non dà una via d'uscita.
Perciò la sua critica resta puramente negativa; l’autore non
propone nessuna alternativa se non strapparsi la maschera ed
essere veramente noi stessi, con le conseguenze che ne derivano, quali l’apparente follia e
l’isolamento, oppure tirarsi fuori dal gioco crudele della vita e stare a guardare come un forestiere.
E’ proprio il concetto di movimento, come essenza della vita, a costituire la base del complesso
rapporto dell’opera di Pirandello con la nascente industria del Cinema. Teatro e Cinema sono infatti
due forme d’arte basate sull’azione e sul movimento. L’etimologia stessa lo rivela: la parola teatro
deriva dal greco θεάομαι o , che alludono all’atto del guardare e dell’azione, mentre
l’etimologia di cinema è da collegarsi alla parola greca κίνεσις , cioè movimento.
La visione del pensiero: le potenzialità del cinema
Sono ormai di largo uso alcune categorie filosofiche entro le quali si interpreta il pensiero di
Pirandello. La più importante di queste è la Fenomenologia, corrente filosofica che abbraccia
questioni di percezione, di sguardo, della natura delle immagini, della rappresentazione del reale e
della collocazione del soggetto di fronte ai fenomeni del mondo. Dall’importanza attribuita alla
visione come mezzo di conoscenza partono le riflessioni del poeta sul cinema e l'impatto del cinema
che è una tecnica meccanica di rappresentazione sull’opera dell’autore di Girgenti. Lo scrittore
coglie le possibilità estetiche nuove di questa forma d'arte moderna, ma ne sospetta subito i pericoli
nei confronti del teatro. Il cinema, arte la cui esistenza dipende dalla macchina da presa, divora la
realtà e rischia di divorare anche l'artista.
In un'intervista apparsa in "Les Nouvelles Litteraires," a Parigi (1-15 novembre 1924), Pirandello
afferma: "Io credo che il cinema, più facilmente, più completamente di qualsiasi altro mezzo
d'espressione artistica possa darci la visione del pensiero". Luigi Pirandello, tra gli ultimi narratori
del fantastico, è forse tra i primi autori del diciannovesimo secolo a scrivere seriamente
sull’industria cinematografica. Già nel 1903 aveva ideato il romanzo Si gira, che ha per soggetto il
cinema, il suo ambiente fatuo e le sue istanze tecnologiche. Il cinema rappresenta una novità
espressiva e la sua caratteristica è di dare ciò che Pirandello chiama "la visione del pensiero".
Pirandello, già padre del teatro rivoluzionario moderno, mostra immediatamente grande curiosità
per le forme innovative della cinematografia, anche se, in un primo momento, è costretto a questa
forma di arte da necessità finanziaria.
Si gira, più tardi trasformato in Quaderni di Serafino Gubbio operatore, è forse il primo
romanzo della letteratura a descrivere il mondo del cinema dall'interno. Cinema e letteratura sono
messi a confronto in quest’opera. Particolarmente notevole è la struttura del testo che precorre le
scoperte del "nouveau roman". Anche qui il drammaturgo siciliano mira a porre in conflitto la vita e
l'arte, la vita e le forme, e la vendetta di quella su queste. Serafino Gubbio, protagonista del
racconto, sta girando un film intitolato "La donna e la tigre". Una falsa caccia alla tigre, con falsi
cacciatori e con una falsa belva. Le circostanze, intanto, portano sulla scena una vera tigre che non è
uccisa. Anzi sarà la belva a sbranare l'attore cacciatore. Serafino, operatore per mestiere più che per
vocazione, diventa testimone di una realtà nuova e inattesa che prorompe sulla scena e sovrasta la
finzione. Per Pirandello l'azione cinematografica deve essere vera e credibile. La tecnica narrativa
mette a fuoco il rapporto tra uomo e macchina. Siamo in un universo tecnologico moderno e
Pirandello ne indovina le complicazioni esistenziali. Egli coglie gli aspetti ironici di questa
innovazione tecnologico-rivoluzionaria. La metafora della macchina da presa si rivela tanto più
efficace in quanto Serafino riesce ad identificarsi con essa e la fa funzionare prestandole gli occhi e
girando la manovella. Infatti Serafino è diviso tra due poli negativi: l'immobilità di uno sguardo
impassibile e la cecità di un movimento assurdo, la cui velocità si conforma a quella dell'azione che
si svolge davanti alla cinepresa. Di conseguenza, il corpo-macchina consuma la vita e l'anima dal di
fuori e la restituisce poi all'uomo in una ripetizione frammentaria. Serafino Gubbio, girando la
manovella della macchina da presa, trasformando, cioè, il mondo in finzione cinematografica si
raffigura come un esecutore che uccide e spoglia gli attori della loro realtà, trasforma la "vita" in
"forma". Anche la soggettività di Serafino Gubbio si dissolve: "Io ero fuori di tutto, assente da me
stesso e dalla vita..." Con questa metafora il discorso dell’autore si rivela come critica dell'apparato
di ripresa ed il cinema è visto come un fatto commerciale.
Ben presto, però, l'esperienza di Pirandello come spettatore cinematografico e come visitatore
contribuisce a cambiare la sua idea verso il cinema. Egli, infatti, si orienta verso questa espressione
d'arte che condensa il suo pensiero sul carattere effimero dell'oggettivo e del soggettivo, già trattato
in alcune opere precedenti e sviluppato poi nel suo teatro.
Sono solo parole: lo sguardo unica porta per la verità
Alla base dell’amore di Pirandello per le due forme d’arte, cinema e teatro, oltre al fatto che si
basano sul movimento e sono quindi metafore della vita stessa, sta la consapevolezza che le parole
da sole siano insufficienti ad esprimere la realtà, oltre che menzognere ed ingannatrici.
Solo gli occhi non ingannano e possono trasmettere la verità. Enorme è l’importanza che l’autore dà
allo sguardo, così come emerge dall’opera che meglio si adatta al nostro tema: i Quaderni di
Serafino Gubbio operatore.
Nel romanzo il protagonista Serafino Gubbio, un cineoperatore della Kosmograph con il nomignolo
di Si gira, quotidianamente annota in un diario tutti gli avvenimenti che riguardano quelli che
lavorano nel suo ambiente e soprattutto la storia di un'attrice russa, grande seduttrice di uomini,
Varia Nestoroff. Ella viene paragonata ad una tigre. È una donna che fa del male agli uomini, ma
non ne prova piacere. Inizialmente viene ospitato in un ospizio di mendicità a Roma che il suo
amico Simone Pau chiama albergo. In questo ospizio conosce un violinista che si è ridotto ad
accompagnare un pianoforte automatico e che infine non suona neanche più, ma beve solo. Serafino
si sente totalmente alienato dal suo lavoro, tant'è che poi afferma: "Finii d'esser Gubbio e diventai
una mano". Nella scena finale del romanzo Serafino riprende meccanicamente con la
sua cinepresa una scena terribile: Aldo Nuti sta girando una scena in cui deve uccidere una tigre;
tuttavia, invece di rivolgere l'arma verso l'animale, egli uccide la Nestoroff. Rimane però ucciso a
sua volta, sbranato dalla stessa tigre. Serafino, che sta filmando la scena, diviene muto per lo shock
e rinuncia ad ogni forma di sentimento e di comunicazione.
La tematica dello sguardo, aspetto significativo ne i Quaderni di Serafino Gubbio operatore
nasconde dietro i fatti il concetto dell’oltre, che solo gli occhi del personaggio umorista riescono a
comprendere. L’autore definisce gli occhi di Serafino Gubbio come “occhi intenti e silenziosi”,
facendoci soffermare sulla designazione “intenti”, cioè su gli occhi di chi si concentra molto ad
osservare: funzione principale è la comunicazione, i veri sentimenti non vengono trasmessi
attraverso il discorso. Le parole sono, secondo Pirandello, soltanto un inganno, perché invece gli
occhi non sanno mentire. Essi rappresentano la finestra della nostra anima e attraverso questi
possiamo capire quello che si trova nel più profondo, come ha detto Serafino “quel ch’egli dice con
i suoi occhi non possono dunque andar d'accordo”. Proprio con questo punto possiamo intendere
perché Serafino ha definito i suoi occhi “intenti e silenziosi”. Silenzioso è lo scambio dei messaggi
tra gli occhi di Serafino e gli altri personaggi, un discorso in cui le parole non servono, in cui tutto
viene detto soltanto tramite lo sguardo. Un altro mezzo che viene sviluppato nei quaderni è
l’occhio vitreo della macchina da presa. L’occhio artificiale che impone uno sguardo freddo e
vorace, che porta al concetto dell’oltre, un al di là, la parte non visibile degli uomini e delle cose.
L’oltre è un mondo in cui non esistono le forme che imprigionano l'uomo: possiamo intenderlo
come un centro di passioni, ossessioni, desideri, paure. L’oltre è tutto quello che l'uomo vorrebbe
non si sapesse di lui. Pirandello con questo concetto vuole rappresentare qualcosa di non visibile,
metafisico, come una parte dell’io che l'uomo non riesce a controllare, una parte dell’anima
dell’uomo slegata dalla società in cui vive. Nell’opera possiamo trovare il tema di come si presenta
l’oltre alla vista di chi si mette davanti alla camera da presa. È l’occhio dell’operatore, della
macchinetta da presa che fa trasportare la sfera dell’oltre, è la proiezione dell’attitudine dell’autore
verso la società; da ciò possiamo comprendere il pessimismo e la visione negativa che il poeta ha
nei confronti della società. Pirandello fa entrare nell’oltre pochi dei suoi personaggi. Serafino è un
uomo-macchina che si identificherà completamente con la macchina da presa, egli rimarrà sempre
imprigionato nella condizione di un “nessuno” dietro la macchina da presa. “C’è un oltre in tutto.
Voi non volete o non sapete vederlo, ma appena quest’oltre balena negli occhi di un ozioso come
me, che si metta a osservarvi, ecco, vi smarrite, vi turbate o irritate”.
Charlie Chaplin e Mattia Pascal
Charlie Chaplin
rimane senza dubbio l’autore più conosciuto e più amato di questo genere. La sua fama era
internazionale ormai nel 1919, quando si unì alla United Artist, con cui
Chaplin produrrà tutti i suoi lungometraggi. Il personaggio più
emblematico di Chaplin, Charlot, è riuscito così bene, da oscurare il
Chaplin come regista; egli infatti era l’uomo-cinema: scriveva,
dirigeva, interpretava, montava, produceva i suoi film e ne scriveva le
musiche. Lo stile della sua regia è il tratto meno cinematografico di
tutti. Ad esempio egli colloca la cinepresa in modo da riprendere la
scena come se gli attori agissero in un palcoscenico teatrale, la
cinepresa non si sposta per seguire i personaggi: numerose sono infatti
le scene nelle quali Charlot “sfugge” ad essa. Un altro punto affine al
mondo del teatro è che Chaplin mette l’attore al centro del suo cinema, non dando importanza né
alla regia e né al montaggio. Solo dalla preparazione del set emerge quanto Chaplin fosse
meticoloso e quanto cercasse la perfezione cinematografica che si concretizza con la somiglianza
alla realtà.
Il Monello, del 1921, fu il suo primo lungometraggio, nonché uno dei film più riusciti. Chaplin vi
interpreta il suo personaggio di sempre, stavolta alle prese con un trovatello che ha raccolto neonato
per strada e di cui è divenuto un affettuoso padre adottivo. Nei titoli di testa leggiamo: “A picture
with a smile and perhaps, a tear”, una frase che ben sintetizza la poetica chapliniana, che trova
nell'unione tra il comico e il drammatico il suo tratto più distintivo. Nel film, Chaplin è un povero
vetraio che vive di espedienti, il monello, interpretato da Jackie Coogan, è un bambino di cinque
anni che lo aiuta nel suo lavoro scagliando sassi contro i vetri delle finestre. Alle risate, che
scaturiscono dalle numerose ed esilaranti gag, si accostano aspre lacrime di commozione suscitate
dal grande amore tra i due protagonisti. Un amore anarchico e spontaneo, oltre tutte quelle regole
che severi poliziotti e impettite dame di carità tentano di ristabilire.
Il paragone con Pirandello
Dal finale è possibile fare il paragone tra il vetraio-Chaplin e la figura di Mattia Pascal: entrambi
alla fine delle loro vicende devono lasciare qualcosa di caro e ritornano ad essere vagabondi della
vita. Mattia, ritornato a casa, lascerà per sempre l’amata Romilda al suo nuovo marito; questo
allontanamento è soprattutto per il bene della neonata, arrivata con il secondo matrimonio della
Pescatore. Charlot invece lascerà il fanciullo alla vera madre, ormai attrice acclamata, che ritroverà
il figlio che era stata costretta ad abbandonare. L'ultima scena del film ci mostra il vetraio che entra
insieme al bimbo nella villa della sua vera madre, ma la porta che si richiude ci impedisce di vedere
il resto. La fine che si lascia ipotizzare non può che essere quella intravista nella sequenza del sogno
con l'angelo, Chaplin rimane da solo. Ritorna cioè ad essere vagabondo della vita, cercando tuttavia
di essere accettato. Chaplin curò personalmente ogni fase della lavorazione de Il monello, dalla
sceneggiatura al montaggio finale, applicandovi con una meticolosità perfino superiore agli
standard per i quali era già noto. Il suo stile raggiunge qui la sua perfezione e più completa maturità.
La maschera comica e tragica di Buster Keaton
A portare Chaplin al debutto cinematografico era stato Mark Senett, lo stesso produttore che scoprì
altri talenti eccezionali, come “Fatty” Roscoe Arbuckle e Buster
Keaton. In particolare Sennet trovò in questi due una coppia comica
tutta incentrata sul contrasto fisico tra il grasso, eccessivo e ingenuo
Fatty, e il piccolo e serio Buster. Questa coppia girerà insieme una
quindicina di eccellenti cortometraggi. Quando Arbuckle venne
coinvolto uno scandalo di carattere sessuale, Buster Keaton comincerà
la sua carriera da solista, passando a veri e propri film, in cui il suo
personaggio non abbandonò mai la sua espressione serissima, anche
quando il mondo gli crolla addosso, tanto che venne soprannominato per questo Great Stone Face.
Keaton fu un regista più complesso di Chaplin, che spingeva la sua comicità ai limite del surreale, e
dai surrealisti fu sempre molto amato, poiché nelle sue interpretazioni giocava costantemente sui
contrasti vero e falso, sogno e realtà.
Joseph Francis Keaton nasce nel 1895 da genitori attori di teatro. Il periodo d'oro della sua opera è
racchiuso tutto nell'arco degli anni '20, in una ventina fra cortometraggi e mediometraggi, tra cui
grandi riflessioni sul cinema come "Il cameraman" e "Sherlock jr". Già all’età di quattro anni
esordisce in teatro, crescendo con una scuola burlesque, nella quale il corpo ha la sua centralità. Si
tratta però di un tipo di teatro particolare: tempi brevi, connessioni di gag, acrobazie,
improvvisazione e solo secondariamente la mimica.
Da qui Keaton si abitua più che a recitare, a inventare se stesso e a diventare in scena e, fuori scena,
l'autore di se stesso. Nei suoi numeri comici riesce a far ridere il pubblico quanto più resta
indifferente e quanto più resta stupito dell'ilarità del pubblico, che, al contrario dell’umorista, vede
superficialmente la sua triste condizione, marcata da due assurdi contrasti: il primo tra il suo volto
di pietra davanti alle estreme situazioni, contro le quali non può opporsi o evadere, poiché esse non
sono altro che la realtà in cui egli si muove; il secondo è quello tra la gelida espressione immobile
di lui e il riso degli spettatori che, guardandolo proiettato e non dal vivo, non riescono a penetrare
nel suo animo. Il cinema di Keaton si basa sull’essere costretti a
straordinarie geometrie per sopravvivere. Egli scopre che
questa sopravvivenza tuttavia non può derivare solo dalle
proprie abilità: la sua vita, come quella dei personaggi di
Pirandello, sembra condizionata dalla pura casualità, per il fatto
che tutte le sventure e disastri naturali che accadono a Keaton
non discendono dalla sua volontà o dalla sua logica, ma dietro al caso si nasconde l’ingranaggio e
basta un gesto sbagliato a reintrodurre il caos dove era appena arrivato l'ordine. Al tempo stesso in
cui cerca di cadere in piedi, il suo mondo viene continuamente sconvolto e tutto ciò che accade a
Keaton sembra casuale, poiché si manifesta in forme che non discendono dalla sua volontà e dalla
sua logica: questa incongruità rispetto alla logica dominante è ciò che rende radicale l'idea del
mondo di Keaton (per questo il volto è impassibile e un po’ spaesato). Sta qui l'amara impotenza del
non poter controllare gli avvenimenti e il meccanismo alieno che li regola. L'ingranaggio, una volta
messo in moto, avanza incessante; questa progressione dell'instabilità raggiunge il suo culmine con
un evento macroscopico (inseguimenti di massa, esplosioni diffuse, cicloni) che sfocia quasi sempre
nel lieto fine (vittoria, conquista della donna ecc…). Ma il lieto fine in Keaton contiene sempre i
germi della sua negazione (il successo non basta o è per altri, la donna diventerà subito madre,
l'happy end sarà consolatorio e apparente).
È possibile mettere a confronto Keaton con un suo contemporaneo, Charlie Chaplin. Il tratto più
distintivo di Chaplin sta nel suo dialogo con la storia: l’attore regista infatti rappresenta
comicamente e al tempo stesso denuncia i disagi e i cambiamenti della società con l’avvento della
rivoluzione industriale e, con uno sguardo che fa presa sul pathos, ammicca alle furberie dei poveri.
Questa suo adattamento ai continui cambiamenti gli ha permesso di lavorare bene anche col sonoro,
garantendogli sempre il successo. Il suo personaggio, Charlot, è molto ingenuo e si potrebbe
associare al personaggio pirandelliano Ciaula. Keaton è invece il risultato dell’inadattabilità al
progresso sociale, sebbene il personaggio keatonianio ci appaia poco psicologico, dietro la
maschera pietrificata del suo volto si cela qualcosa di inimmaginabile: egli viene sconvolto da tutte
le vicende che lo vedono protagonista, per lui queste sono un continuo incubo dal quale non può
svegliarsi.
….ancora Pirandello
La sua situazione d’animo è affine a quella di molti personaggi pirandelliani, in particolare
possiamo individuare alcuni dei suoi tratti peculiari in Serafino Gubbio poiché entrambi rimangono
impassibili e profondamente turbati davanti a situazioni al di fuori del comune: per Keaton la sua
realtà catastrofica, per Serafino la finzione delle case cinematografiche e la scena della tigre. Il
cinema di Keaton, che possiamo definire comunque comico, è dominato dal pericolo e dalla
sopraffazione, dal caos e dalla sconfitta che si maschera da vittoria inconcludente.
In tal modo la risoluzione del contrasto nasconde con il comico l'incongruità tragica dell'impotenza.
Questo risvolto è già nel viso di pietra, nello sguardo angosciato dai misteri della vita.
E' il mondo esterno a diventare il soggetto su cui agisce l'oggetto Keaton.
Charlot e Ciaula
Dopo aver parlato del pensiero di questi personaggi del cinema, è evidente che non sono pochi gli
aspetti che accomunano il cinema muto alla poetica di Pirandello, alla psicologia dei suoi
personaggi, nonché al mondo in cui essi “vagano”. A nostro parere il punto di contatto più evidente
è la mancata importanza data alle parole che troviamo in questa fase aurea della Settima arte: gli
attori non hanno bisogno di parole per rappresentare scene cruente e drammatiche, comiche e
romantiche. Nello stesso tempo, però gli attori che troviamo nelle opere dello scrittore siciliano
sembrano non rispecchiare il pensiero del loro creatore. Egli stesso con questa sua citazione tratta
dal celebre romanzo Il fu Mattia Pascal: “E come possiamo intenderci se nelle parole che io dico
metto il senso e il valore delle cose che sono dentro me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente, le
assume col senso e il valore che hanno per sé del mondo che egli ha dentro?” racchiude in sé tutto
il concetto espresso prima. Le celeberrime pellicole di Charlie Chaplin, quali, La Febbre dell’oro,
Il Monello e Tempi Moderni presentano scene affini ai racconti del nostro autore.
Tutti, certamente, ricorderemo quella famosa sequenza de La Febbre dell’oro, in cui il nostro
Charlot insieme al suo commensale, prepara all’ora di pranzo un’insolita pietanza: una scarpa.
Seguendo il bon-ton la serve in maniera impeccabile: La estrae con il mestolo dal pentolone
presentandola al compagno con tanto di brodo. A tavola poi
separa la suola della scarpa, colma di chiodi, dal cuoio.
Essendo più grosso di Charlot, a Giacomone spetta la parte
per così dire più sostanziosa, il cuoio, dunque, il povero
protagonista non può altro che mangiare la soletta,
pulendola dai chiodi che sembrano essere le parti rimanenti
di un crostaceo. Questo pasto non si ferma qui; i lacci
saranno i suoi spaghetti.
Nell’intera scena è presente un velo umoristico che troviamo anche in questo passo
dell’emblematica novella Ciaula scopre la luna, dove il protagonista che dà il nome all’opera, si
accinge ad alzarsi da terra e a vestirsi con la stessa tragicomicità già vista in precedenza: “Rivestirsi
per Ciàula significava togliersi prima di tutto la camicia, o quella che un tempo era stata forse una
camicia: l’unico indumento che, per modo di dire, lo coprisse durante il lavoro. Toltasi la camicia,
indossava sul torace nudo, in cui si potevano contare a una a una tutte le costole, un panciotto
bello largo e lungo, avuto in elemosina, che doveva essere stato un tempo elegantissimo e
sopraffino (ora il luridume vi aveva fatto una tal roccia, che a posarlo per terra stava ritto).Con
somma cura Ciàula ne affibbiava i sei bottoni, tre dei quali ciondolavano, e poi se lo mirava
addosso, passandoci sopra le mani, perché veramente ancora lo stimava superiore a’ suoi meriti:
una galanteria. Le gambe nude, misere e sbilenche, durante quell’ammirazione, gli si
accapponavano, illividite dal freddo… poi infilava i calzoni, che avevano più d’una finestra aperta
sulle natiche e sui ginocchi; s’avvolgeva in un cappottello d’albagio tutto rappezzato, e, scalzo,
imitando meravigliosamente a ogni passo il verso della cornacchia –cràh! cràh! – (per cui lo
avevano soprannominato Ciàula), s’avviava al paese”.
Pirandello descrive gli atti e gli stessi indumenti del suo “attore” nei minimi dettagli. Il
protagonista della novella, dopo essersi tolto la camicia, copre il suo petto nudo con un vecchio
panciotto, poi si avvolgeva un cappotto di stracci. Il velo umoristico sta nel modo così venusto e
vanitoso con cui si veste. Questi aspetti conferiscono alla scena un carattere comico che si bilancia
con l’aspetto drammatico evidente nella ricca descrizione delle misere membra del personaggio. Sia
nella sequenza de La febbre dell’oro che nel passo citato di Ciaula scopre la luna dobbiamo
abbandonare gli occhi dell’apparenza e smettere di ridere, per guardare con gli occhi dell’umorista
che è in noi lasciando scorrere lacrime di compassione per i nostri due amici.
Oltre al concetto di Umorismo, in Chaplin e in
Keaton troviamo anche il rifiuto per il progresso
tecnologico che caratterizza la poetica di Pirandello.
Tempi moderni si distingue, più di ogni altro film di
Chaplin, per la sua feroce satira sociale. "L'umanità
in marcia verso il progresso", leggiamo nei titoli di
testa e un branco di pecore bianche sfila sullo schermo. Potremmo, senza ombra di dubbio,
riconoscere lo stesso Chaplin in quell'unica pecora nera presente nel gregge. Se il mondo della
finanza e dell'economia vedeva nell'introduzione dei sistemi automatici e della catena di montaggio
un simbolo del progresso industriale, per Chaplin, la macchina è anche un mostro fonte di
alienazione. Concetto magistralmente espresso nella scena in cui il povero operaio viene inghiottito
da suoi ingranaggi. Se Tempi moderni è il primo film in cui udiamo la voce di Chaplin è anche
l'ultimo film in cui lo vedremo vestire i panni del vagabondo. Con questo film Chaplin fa uscire
definitivamente di scena il personaggio che lo aveva reso celebre. Nel finale del film lo vedremo
ancora allontanarsi sulla strada che si perde verso l'orizzonte stavolta, però, non più da solo.
Conclusioni
Il nostro percorso attraverso le opere dell’autore di Girgenti ed alcune tra le pellicole più famose del
cinema degli Anni Venti ha avuto lo scopo di dimostrare come la poetica di Pirandello ed il suo
pensiero, per quanto si traducessero in un linguaggio teatrale rivoluzionario, in realtà interpretavano
la condizione di disagio esistenziale dell’uomo moderno, creatore delle macchine e della tecnologia,
ma anche vittima dell’alienazione che la nascente industria, anche nel campo dello spettacolo,
determinava.
Bersaglio polemico sono il progresso e la società di massa, basata sul consumismo e sull’apparenza,
che impone ruoli e che mortifica le diversità in nome dell’omologazione. La critica di Pirandello,
come di Chaplin e Keaton, avviene in maniera quasi occulta, ma feroce, attraverso una risata che,
dopo un po’, fa riflettere ed a volte provoca una lacrima o lascia l’amaro in bocca.
La critica è tanto più efficace quanto più non viene esposta con sofisticati sillogismi, ma affidata
allo sguardo dello spettatore. Da qui è nata la nostra idea di un paragone tra Pirandello ed il Muto,
una forma di cinema in cui i gesti e le espressioni del volto sono carichi di significati e le parole,
ridotte a semplici didascalie, non servono per suscitare una risata o strappare una lacrima.
I personaggi pirandelliani parlano, viceversa, molto, tanto da essere accostati a filosofi sulla scena,
ma il continuo ed ossessivo discutere non serve loro a raggiungere la verità. Anzi proprio le parole
sono accusate di essere un ostacolo al raggiungimento di una verità condivisa, perché esse sono
riempite da significati soggettivi e spesso accentuano la solitudine dell’uomo.
Lo sguardo è invece la porta attraverso cui il personaggio pirandelliano ha la sua epifania: un
panorama, il fischio di un treno, la visione della luna, un viaggio attivano un percorso inarrestabile
di conoscenza interiore.
La critica alla tecnologia, di cui Pirandello riconosceva le potenzialità, viene effettuata, sia dal Muto
che dal nostro autore, proprio attraverso la tecnologia stessa, che massifica l’uomo e lo riduce a
macchine, tanto da non far staccare Serafino dalla cinepresa neppure davanti al reale svolgimento di
un massacro. The show must go on!
Il messaggio che più ci ha colpito è comunque quello che bisogna rimanere se stessi in un momento
storico in cui la società ci impone di mutare i ruoli più velocemente di quanto non lo faccia un
attore a cinema o a teatro.
BIBLIOGRAFIA
Luigi Pirandello, Novelle per un anno, Mondadori.
Luigi Pirandello, Tutti i romanzi, Mondadori
Luigi Pirandello, Maschere nude, Mondadori
Baldi, Giusso,Razzetti, Zaccaria,Il piacere dei testi, Paravia
R.Luperini, Introduzione a Pirandello, Laterza
Carlo Ferruzzi, Due sguardi dal cosmo, Marsilio
Ilaria Paluzzi, Perdersi in una lontananza infinita, Letteratura e libri, 14 ottobre 2015
Giovanni Reale, Pirandello e il mistero dell’oltre, da Valori dimenticati dell’Occidente, Bompiani,
pp.217-222
Masarykova UniverzitaVBrne, Pirandello ed i Quaderni di Serafino Gubbio operatore