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ANNO X SETTEMBRE 2010 Numero 3 Euro 8,00 “Dialoghi” – Rivista trimestrale – Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2 - CNS/AC ROMA - ISSN 1593-5760 Ernest-Wolfgang Böckenförde Francesco Miano Vera Negri Zamagni Sergio Passeri Franco Pittau Domenico Simeone Giuseppe Tognon Pierpaolo Triani Ilaria Vellani D ialoghi D ialoghi D Cattolici nell’Italia di oggi. 46 a Settimana Sociale

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ANNO XSETTEMBRE 2010Numero 3Euro 8,00

“Dialoghi”–Rivistatrimestrale–PosteItaliane

S.p.A.-

SpedizioneinabbonamentopostaleD.L.353/2003(conv.inL.27/02/2004

n.46)art.1,com

ma2-CNS/ACROMA-ISSN1593-5760

Ernest-WolfgangBöckenförde

FrancescoMiano

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Cattolici nell’Italia di oggi.46a Settimana Sociale

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per un progetto culturale cristianamente ispirato

DialoghiAnno X, n. 3

Rivista trimestrale promossa dall’Azione Cattolica Italianain collaborazione con l’Istituto “Vittorio Bachelet” e con l’Istituto “Paolo VI”

DirettorePiergiorgio GRASSI

Direttore responsabilePaola BIGNARDI

Comitato di direzioneAndrea AGUTI, Luigi ALICI, Piermarco AROLDI, Mario BRUTTI, Luciano CAIMI, Giacomo CANOBBIO, Giuseppe DALLA

TORRE, Gian Candido DE MARTIN, Pina DE SIMONE, Roberto GATTI, Giovanni GRANDI, Pier Giorgio GRASSI, FrancescoMALGERI, Francesco MIANO, Marco OLIVETTI, mons. Domenico SIGALINI, Matteo TRUFFELLI, Ilaria VELLANI.

RedazioneAndrea DESSARDO, Antonio MARTINO.

PromozioneRosella GRANDE

Comitato scientificoPasquale ANDRIA, Renato BALDUZZI, mons. Giuseppe BETORI, Giandomenico BOFFI, Francesco BONINI, Paolo BUSTAFFA,Giorgio CAMPANINI, Francesco Paolo CASAVOLA, Lorenzo CASELLI, Carlo CIROTTO, Piero CODA, Francesco D’AGOSTINO,Attilio DANESE, Antonio DA RE, Cecilia DAU NOVELLI, Giulia Paola DI NICOLA, Franco GARELLI, mons. ClaudioGIULIODORI, mons. Francesco LAMBIASI, Gildo MANICARDI, Ferruccio MARZANO, Paolo NEPI, Lorenzo ORNAGHI, OrazioFrancesco PIAZZA, Antonio PIERETTI, Ernesto PREZIOSI, Paola RICCI SINDONI, Armando RIGOBELLO, Franco RIVA, IgnazioSANNA, Pierangelo SEQUERI, Angelo SERRA s.j., Marco VERGOTTINI, Carmelo VIGNA, Francesco VIOLA, Stefano ZAMAGNI,Sergio ZANINELLI.

EditriceFondazione Apostolicam ActuositatemSede legale: Via Conciliazione 1 – 00193 RomaUffici e redazione: Via Aurelia 481 – 00165 RomaTel. 06/66.13.21 – Fax 06/66.20.207E-mail: [email protected]

[email protected]

Progetto grafico e impaginazioneGiuliano D’Orsi

In copertinaAuguste MackeComposizione di colori (Omaggio a Johann Sebastian Bach), 1912Ludwigshafen, Wilhelm-Hack-Museum

Illustrazioni interneTratte dal volume C. Ripa Baroque and Rococo. Pictorial imagery.Dover publications, Inc., 1971

StampaMediagraf S.p.a. Stab. di Roma So.gra.ro.

Reg. Trib. di Roma iscr n. 133/2001 del 3/4/2001

Tiratura: 3.300 copie – Finito di stampare nel mese di settembre 2010

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SOMMARIOEditoriale

Editoria e democrazia. Una questione aperta 2Piergiorgio Grassi

Primo PianoCattolici nell’Italia di oggi.L’agenda di speranza dell’Azione Cattolica Italiana 6Francesco Miano

DossierCattolici nell’Italia di oggi. 46a Settimana Sociale (a cura di Ilaria Vellani)Il contributo dell’agire politico alla realizzazione della giustizia 16Ernst-Wolfgang Böckenförde

Tra virtù e burocrazie. Come si promuove l’imprenditorialità? 24Vera Negri Zamagni

La teoria dell’uovo. La famiglia di fronte alla sfida educativa 30Domenico Simeone

Scuola ed educazione. Direzioni per una difficile declinazione 36Pierpaolo Triani

Il futuro dell’università italiana. Tra storia e crisi della politica 42Giuseppe Tognon

L’immigrazione in Italia. Volti e scenari, sfide e speranze 48Franco Pittau

Eucaristia e città: un binomio possibile? 56Sergio Passeri

Eventi e IdeeRegnoUnito. Appunti su un Paese che cambia 64Arianna Giovannini

L’(incerto) oggetto giuridico dei referendum sull’acqua 71Francesca Dealessi e Andrea Giorgis

Il gioco, una vita. Se andiamo in profondità 77Mario Lusek

Cittadinanza senza confini. Educare alla partecipazione 82Lorenzo Caselli

Il Libro e i LibriCarlo Carretto. Il cammino e la profezia 90Carlo Finocchietti

Quelle “Settimane” che fanno la storia 95Andrea Dessardo

Sul “femminismo cristiano” del secondo Novecento 99Carla Mantelli

ProfiliGiuseppe Toniolo. Una santità per il sociale 102Domenico Sorrentino

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Si spera che la 46ª Settimana Sociale dei Cattolici Italiani a Reggio Ca-labria – cui Dialoghi dedica il nutrito Dossier di questo numero – si apradopo che si sia trovata soluzione positiva a un contenzioso che riguardamolto da vicino il cattolicesimo italiano ed ha rilevanti implicazioni sullasua presenza efficace nella vita del Paese. Com’è noto, nell’aprile scorso,con un decreto interministeriale, giunto improvviso, sono state sospese letariffe agevolate, previste dalla legge, per l’invio di libri e riviste in abbona-mento.

Il provvedimento che ha colpito, senza preavviso, le imprese editrici diquotidiani e periodici, ha interessato in particolare l’editoria cattolica e ilcomplesso dei settimanali cattolici (sono 187), costretti a pagare una tarif-fa più che raddoppiata. Di qui il drastico ridimensionamento dei loro pia-ni di sviluppo: con tagli di alcuni numeri, con la riduzione della foliazione,con il doloroso sfoltimento dell’organico. Per alcuni di essi si prospetta l’e-ventualità di interrompere le pubblicazioni. La situazione danneggia parti-colarmente il Meridione, dove sono sorte negli ultimi anni numerose testa-te che si sono rivelate essenziali per informare sugli avvenimenti significati-vi di regioni pesantemente condizionate dalla malavita organizzata e sonodivenute strumenti di vera e propria controinformazione, non manipolata.

I direttori dei settimanali del Triveneto hanno invitato a considerare lacosa con un’attenzione tutta particolare «perché il risparmio postale otte-nuto dal governo si potrebbe paradossalmente trasformare in un costo so-ciale ed economico per i posti di lavoro a rischio e per l’impoverimento del-l’offerta editoriale sui territori del Paese». Il fatto ha danneggiato pesante-mente anche il mondo dell’editoria dell’Azione Cattolica Italiana: in una

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Una questione apertaEditoria e democrazia.

Piergiorgio Grassi

EDITORIALE

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nota la più antica associazione del laicato italiano ha lamentato il fatto che«il decreto abbia riguardato in modo indiscriminato anche quella stampa (èil caso della stampa associativa) che non ha finalità economiche, ma unica-mente formative, sociali e culturali. Una dimensione di servizio alla perso-na colpita senza distinguo e con troppa leggerezza».

Di fronte alle obiezioni e alle proteste che si sono sollevate da tutte lecomponenti dell’associazionismo e dello schieramento politico (il quoti-diano Avvenire ha parlato, in un articolo di prima pagina, di vero e proprio«delitto mediatico, un modo semplice e devastante per mettere il bavaglio– vero e letale – alla stampa libera... arriva diritto alle radici e zac, taglia l’al-bero fino a renderlo instabile, pericolante e farlo cadere»), per iniziativadella Presidenza del Consiglio si sono aperti tavoli tecnici e si sono molti-plicati gli incontri con le rappresentanze delle varie realtà, nel silenzio peròdei grandi poli editoriali che non hanno mostrato sinora reazioni adeguate,forse perché possono utilizzare risorse alternative.

Al momento in cui Dialoghi va in tipografia, risulta che la Presidenzadel Consiglio ha autorizzato la firma dell’intesa siglata dalla Fieg (Federa-zione Italiana Editori Giornali) a fine luglio per ridurre gli aumenti. L’inte-sa prevede l’incremento al 38% sino al settembre 2011; a quella data scat-terà un ulteriore rincaro del 17%. Subito dopo dovrebbe essere emanatoun decreto legge necessario per rendere operativo il nuovo assetto tariffario.Non si tratta dunque di un ritorno alla situazione precedente, ma di una ri-duzione del danno, che sarà davvero irrimediabile per il mondo associativoe solidale se non entrerà in vigore un altro decreto che assegni ad esso uncontributo (trenta milioni di euro) promesso per compensare in parte l’au-mento del costo delle spedizioni.

I fatti sommariamente esposti meritano una chiosa ulteriore riguardoalla portata di questo intervento sui settimanali cattolici che rappresentanoin Italia una realtà di notevole rilievo con i loro circa cinque milioni di let-tori. Notava Luigi Ceccarini, ricercatore de La Polis, nella sua documenta-ta indagine dal titolo Le voci di Dio. Stampa e politica in Italia (EdizioniL’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2001): «Questi settimanali rappresen-tano un importante strumento della comunicazione periferica della Chie-sa, la quale si è alimentata tradizionalmente di un forte legame con la di-mensione locale della società». Si tratta di una componente della comuni-cazione periferica dei cattolici, «ma non per questo va intesa come margi-nale». L’aderenza alla realtà locale «rende questa presenza mediatica parti-colarmente interessante in ragione dello stretto contatto con la base delmondo cattolico organizzato. I direttori oltre ad essere uomini di Chiesa sisono rivelati comunicatori di notevole peso proprio in relazione all’infor-mazione (religiosa e sociale), sono degli opinion maker della Chiesa locale ecostituiscono delle voci importanti del territorio». Specchio delle specifi-

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cità del mondo locale al quale appartengono, i settimanali riflettono «gliorientamenti, le prospettive e soprattutto il pluralismo».

Preme qui sottolineare le conseguenze sulla qualità della democrazia nelnostro Paese. Il diritto di informare e di essere informati è sancito dall’art.21 della Costituzione, che riconosce la libertà di pensiero. Questa libertàtende ad assicurare il libero sviluppo della persona, garantendola da inde-bite pressioni e discriminazioni, e svolge una funzione sociale perché assi-cura alla comunità, nelle sue diverse articolazioni, il contributo di tutti allasoluzione dei problemi collettivi. Il libero dibattito nella sfera pubblica èdunque un principio fondamentale della nostra democrazia politica e com-porta il riconoscere che le visioni del mondo e le convinzioni legittime pos-sano essere professate e propagandate, ed è inoltre condizione basilare del-l’ordinamento democratico in quanto attività propria della società civileche stimola e controlla a tutti i livelli della sua presenza anche l’azione degliapparati dello Stato.

Su questa lunghezza d’onda si esprime il Compendio della Dottrina so-ciale della Chiesa al n. 414. «Non è pensabile – si osserva – alcuna parteci-pazione senza la conoscenza dei problemi della comunità politica, dei datidi fatto e delle varie proposte di soluzione. Occorre assumere un reale plu-ralismo in questo delicato settore della vita sociale, garantendo una molte-plicità di forme e strumenti nel campo dell’informazione e della comuni-cazione, agevolando condizioni di eguaglianza nel possesso e nell’uso di ta-li strumenti mediante leggi appropriate». Con esplicito riferimento poi al-l’enciclica Pacem in Terris di Giovanni XXIII, il Compendio prosegue affer-mando il diritto all’obiettività dell’informazione che è ostacolato ovunquesi affermi nel mondo il fenomeno delle concentrazioni editoriali e televisi-ve che generano «pericolosi effetti per l’intero sistema democratico quandoa tale fenomeno corrispondono legami sempre più diretti tra attività gover-nativa, poteri finanziari e l’informazione».

Non giova a nessuno mettere in discussione il pluralismo dell’informa-zione alla base della società, con scelte che di fatto lo limitano e lo indebo-liscono. La nostra fragile democrazia verrebbe mortificata in un momentodi difficile transizione. Nell’Agenda di speranza per il futuro del Paese talequestione si aggiunge pertanto alle altre dodici domande che costituisconol’intelaiatura del documento preparatorio alla grande assemblea di ReggioCalabria in vista di «un’opera di discernimento necessaria alla declinazioneoggi in Italia della nozione di bene comune».

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Cattolici nell’Italia di oggi. Un’agenda di speranza per il futurodel Paese. La 46ª Settimana Sociale dei Cattolici Italiani è ora-mai alle porte. In vista di questo importante appuntamento,vale la pena di ripercorrere le principali tappe svolte dall’AzioneCattolica nel corso dell’anno in preparazione alla SettimanaSociale e tratteggiare altresì le linee guida, i temi caldi, le preoc-cupazioni e le attese che l’associazione ha inteso e intenderàassumere e promuovere in sede di dibattito in occasione dell’ap-puntamento di Reggio Calabria.

Educazione, scuola e università, istituzioni e cittadinanzaresponsabile, legalità e convivenza civile, tutela della famiglia epromozione della dignità della vita, etica dell’economia emondo del lavoro, questione meridionale e federalismo solidale,immigrazione e integrazione, rinnovamento della politica eriforme istituzionali sono soltanto alcuni dei temi oggetto deglioltre sedici convegni regionali promossi dall’Azione Cattolica inpreparazione alla Settimana Sociale. A questi vanno aggiunte leiniziative del Settore giovani dell’Azione Cattolica in collabora-zione con la Fuci, l’impegno degli istituti culturali dell’associa-zione e, in particolare, dell’Istituto “Vittorio Bachelet” e deimovimenti dell’Azione Cattolica. Si è trattato di un impegnocostante, che ha visto coinvolta l’associazione dal Sud al Norddel Paese, nello sforzo di contribuire alla maturazione di unasensibilità più viva da parte dei credenti per la vita del nostroPaese. A monte di questo impegno, valorizzare una scelta di

FrancescoMianoèPresidente nazionale

dell’AzioneCattolica

Italiana. InsegnaFilosofia

della religione eBioetica

presso l’Università degli

Studi di Roma “Tor

Vergata”. Si occupadi

filosofia contemporaneae,

in particolare, di

problematiche

antropologiche, etiche e

politiche. Tra le sue

pubblicazioni:Etica e storia

nel pensiero di Karl

Jaspers, Loffredo,Napoli

1993;Dimensioni del

soggetto. Alterità,

relazionalità, trascendenza,

EditriceAVE,Roma2003;

Responsabilità,Guida

editore,Napoli 2009

(collanaparole-chiavedella

filosofia),Chi ama educa,

EditriceAVE,Roma2010.

L’agenda di speranzaCattolici nell’Italia di oggi.

dell’Azione Cattolica Italiana

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L’impegno dell’Azione Cattolica è provare a declinare in formanuova il bene comune quale bene possibile, nel tentativodifficile ma lungimirante di contestualizzarne natura ecaratteristiche nelle dinamiche di una società in repentinocambiamento. Centrale è il tema dell’educazione, che non èfrutto dell’improvvisazione né tantomeno di un agiresporadico. Educare significa essere presenti nella vitadell’altro costantemente, gratuitamente, amorevolmente.

Francesco Miano

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PRIMO PIANO

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metodo già sperimentata con successo dall’associazione, quella di lavorarein sinergia sui territori. A valle dello stesso, invece, guardare all’orizzontedella Settimana Sociale per contribuire, con spirito di umiltà ma anchesenso di corresponsabilità, ad arricchire quell’agenda di speranza che siintende predisporre per favorire un futuro migliore per il nostro Paese.

Così come nel documento preparatorio per la Settimana Sociale, il filorosso che tiene insieme i diversi temi evocati assume come fine e comeparadigma dell’intero ragionamento il perseguimento del bene comune.Ma attenzione: lo sforzo dell’associazione, in linea con l’intuizione cheemerge dalla lettura del documento, è quello di provare a declinare informa nuova, non scontata né retorica, il tema del bene comune, collo-candolo all’interno degli scenari, profondamente cambiati, dell’oggi. Unosforzo, questo, già al centro delle premure della riflessione associativa.Non è un caso, infatti, che negli scorsi anni l’Azione Cattolica promuove-va un’articolata riflessione che prendeva le mosse proprio dall’esigenza diripensare la categoria del bene comune, quale bene possibile, nel tentativodifficile ma lungimirante di contestualizzarne natura e caratteristiche nelledinamiche, sempre nuove, di una società in repentino cambiamento (cfr.Quaderni di Dialoghi). E già in quella circostanza si individuava nella glo-balizzazione – i cui limiti e le cui potenzialità sono circostanziate conapprezzabile e coraggiosa chiarezza nel documento – la necessità di opera-re un supplemento di ragionamento, valorizzando categorie nuove per undiscernimento capace di approdare a soluzioni efficaci sia sul piano teori-co che su quello pratico. «Le trasformazioni che la globalizzazione com-porta – non a caso si legge nel documento – in parte provocano e in partedevono affrontare gravi crisi; nello stesso tempo mettono in discussioneequilibri che, prima di rivelarsi inadeguati, avevano assolto positive fun-zioni» (n. 2). La capacità di saper (ri)pensare forme nuove di equilibrio –imposte, se ne deduce, proprio dalla rapidità dei cambiamenti in atto –insieme alla consapevolezza dei miglioramenti offerti dal progresso globa-le, in questo scenario consiglia non di rinunciare alle opportunità che laglobalizzazione ha prodotto – ciò sarebbe retorico e antistorico, ed avalle-rebbe il rischio di quel difetto di realismo richiamato nel documento – macertamente di sapere individuare strumenti utili a governare il cambia-mento e quindi a restituire a ciascuno, e soprattutto a chi vive situazionidi maggiore povertà, culturale innanzitutto, la capacità di saper riconosce-re e quindi il potere di saper neutralizzare i mali che potrebbe cagionareuna globalizzazione, a vari livelli intesa, priva di controllo. Il tema dellacrisi finanziaria, a questo proposito evocata nel documento, ben focalizzaquesto rischio, dando ragione alla tesi della necessità di una gestione cor-retta in particolare della globalizzazione delle istituzioni economiche.

In questo difficile contesto, caratterizzato da spinte e resistenze, da

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aridi interessi economici ma anche da sincere proiezioni improntate alprogresso nel nome del bene comune, ritorna alla ribalta, ineludibilmen-te, il tema dell’educazione. Se infatti rinunciare a capire significa accettareil rischio di poter essere travolti supinamente dal cambiamento, ciò com-porta, come fatale conseguenza, l’accettazione di non poterlo mai gover-nare. E questo per l’Azione Cattolica è un tema irrinunciabile: impararead educare e ad essere educati. «In un momento di emergenza educativa,c’è una particolare risorsa che va liberata. Si tratta di quelle persone adul-te che non vengono meno alla vocazione a crescere come persone e ad

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accompagnare nell’avventura i giovani e i piccoli [...]. L’emergenza educa-tiva si manifesta come grave crisi di bene comune» (n. 21). Non bisognadisperdere il patrimonio culturale sinora accumulato ma, allo stessotempo, va compiuto lo sforzo di aggiornarlo, valorizzarlo, saperlo declina-re in funzione delle esigenze nuove e talvolta di difficile comprensione chegli avvenimenti sottopongono alla nostra riflessione. Però sappiamo beneche educare non è frutto dell’improvvisazione né tantomeno di impegnosporadico. Educare significa essere presenti nella vita dell’altro costante-mente, gratuitamente, amorevolmente. Eppure educare abbisogna ditempo, competenze, sacrifici. È il frutto di un lungo lavoro di impegno epoi di trasmissione, di verifica, che merita sostegno a tutti i livelli. Nellefamiglie, nella scuola, nell’università: l’educazione deve ritornare ad esseresinonimo di cittadinanza. Ma questi auspici, oggi, in Italia, scontano lamiopia di certa politica sempre più lontana dalle esigenze di famiglienumerose; di un mondo dell’istruzione e della formazione sottoposto acontinui tagli; di riforme e progetti di riforma dell’università che si alter-nano di legislatura in legislatura in maniera schizofrenica, privando di undisegno coerente e sistematico l’intera architettura formativa; di unmondo, quello dell’associazionismo ecclesiale ma non solo, spesso pena-lizzato economicamente e “culturalmente” a causa di un mancato ricono-scimento pubblico del proprio ruolo.

Richiamando il tema dell’università non è possibile, inoltre, sottacerequello dell’ingresso nel mondo del lavoro. I due ambiti, infatti, devono –o meglio dovrebbero – essere posti in continua connessione, l’uno dovreb-be rappresentare il precipitato dell’altro. Ma è noto che in Italia non acca-de così. Assistiamo sempre più frequentemente a forme nuove di emigra-zione, soprattutto al Sud, di tanti giovani alla ricerca di migliori condizio-ni di vita, di maggiori opportunità professionali, di contesti capaci divalorizzare le proprie capacità, consentendo loro di esprimere al meglio lapropria personalità e di progettare un futuro che sembra essere loro sem-pre più negato. In Italia, infatti, sono proprio i giovani a pagare il costopiù alto della crisi. Le ragioni sono diverse e ciascuna meriterebbe unospecifico approfondimento. Non c’è dubbio, però, che, insieme al citatoproblema dell’inserimento nel mondo del lavoro, pesi come un macignosui giovani il debito pubblico accumulato nel corso degli anni, un assettoistituzionale transitorio e ancora incompiuto, che ha garantito e rafforza-to nel corso del tempo ingenti rendite di posizione e ne ha scaricato ilrispettivo costo sulle generazioni più giovani. «È per questo che le istituzio-ni politiche debbono completare il passaggio ad un modello più competitivo.Tale passaggio non solo rafforza il radicamento della Costituzione repubblica-na, ma ne è, per così dire, l’effetto» (n. 30).

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CattoliciDOSSIER

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Da più di cento anni le Settimane Sociali dei Cattolici ritmano la vitadella Chiesa italiana e non solo, costituendo uno spazio di confronto, diriflessione e di scelte attraverso cui i cattolici, nel corso degli anni, hannocercato di servire in modo evangelico il bene del Paese. Ad ottobre, aReggio Calabria si svolgerà la 46ª Settimana. Da qualche mese è disponi-bile il Documento Preparatorio curato dal Comitato organizzatore. Lascelta operata è stata quella di elaborare un’Agenda di speranza per il futu-ro del Paese, non dunque un tema definito – come ad esempio nelle ultimedue edizioni: la crisi della democrazia, il bene comune – ma una scelta di“problemi” su cui lavorare oggi. Per sottolineare le priorità poi sono statiscelti dei verbi, che suggeriscono grammaticalmente la volontà di perveni-re alla scelta di azioni, di qualche cosa che-si-fa: intraprendere, educare,includere, slegare, completare.

Il Dossier che si dispiega in queste pagine vuole essere un contributoall’elaborazione dell’agenda per il Paese. A partire dal DocumentoPreparatorio abbiamo, infatti, individuato alcune questioni specifiche eabbiamo chiesto ad alcuni esperti di provare ad indicare strade sostenibili– argomentabili e possibili –, capaci di tenere bene intrecciate insieme leresponsabilità della politica, quelle sociali e culturali.

L’apertura del Dossier è affidata ad un testo di Ernst-WolfgangBöckenförde, docente di Diritto pubblico in numerose università tede-sche e già giudice costituzionale, autorevole protagonista del dibattitointorno alla fondazione dello Stato di diritto, e del rapporto tra Stato ereligione. Attingendo ad un testo apparso in un suo volume pubblicatodalla Morcelliana nel 2007, abbiamo voluto proporre – prima ancora diaddentrarci nella riflessione intorno alle domande poste dal DocumentoPreparatorio – un articolo che aiutasse a costruire una cornice entro cuianche gli altri contributi acquistassero una efficacia ancora maggiore. Lastrutturale connessione tra bene comune e realizzazione della giustizia,che l’autore argomenta con chiarezza, ci sembra possa essere la chiave di

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lettura con cui poi procedere nell’analisi degli altri articoli del Dossier.L’articolo di Vera Negri Zamagni ci conduce, poi, al primo dei verbi pro-posti dal Documento Preparatorio: intraprendere. Attraverso una strin-gente analisi della situazione italiana e della tipicità del tessuto imprendi-toriale del nostro Paese, l’autrice individua tre soggetti a cui oggi spetta ilcompito di assumere scelte volte a favorire una nuova stagione imprendi-toriale: l’amministrazione pubblica, la finanza, la famiglia. Alla primacompete una regolamentazione efficace e leggera, alla seconda di isolare laspeculazione, alla terza di mettere un freno alla denatalità e di educare allalaboriosità e al coraggio. Il contributo di Domenico Simeone continuaproprio su quest’ultimo punto: il ruolo della famiglia di fronte alle sfidedell’educazione. In particolare all’autore interessa comprendere il ruolodei genitori nell’educazione alla progettazione del futuro, nella «responsa-bile progettazione dell’esistenza», nell’accompagnamento alle scelte e alle

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decisioni. Di fronte alle difficoltà che le famiglie incontrano, occorre pro-muovere processi di solidarietà nella società civile, perché se si vuole tute-lare il capitale sociale primario della famiglia, non è sufficiente vararequalche norma estemporanea di sostegno al nucleo familiare, ma si deveagire in modo pro-attivo a favore della famiglia, liberandola dalle stru-mentalizzazioni del mercato.

In questo contesto diventa chiara la necessità di riflettere anche su altridue spazi educativi e formativi: la scuola e l’università. Pierpaolo Triani eGiuseppe Tognon sottolineano entrambi come il carico di responsabilità acui la scuola e l’università in questi ultimi anni sono state chiamate sonoaumentate sempre più. A queste richieste però non è corrisposta unaristrutturazione adeguata dell’organizzazione scolastica e universitaria.Triani ricorda la necessità per la scuola di fare seriamente i conti con lapluralità, che è presente in molte forme, e richiama una serie di parolechiave, di principi di cui si deve tenere conto nel pensare la scuola oggi.Occorre essere consapevoli, continua, che tenerne conto non è né sempli-ce né senza “costi”. E questo aspetto apre uno snodo della riflessione peda-gogica: bisogna elaborare idee avendo presente la sostenibilità in meritoalle risorse. Per questo, secondo Triani, bisogna accrescere gli studi sul rap-porto tra progettazione pedagogica ed economia dell’istruzione e dell’edu-cazione: sarebbe un grande contributo per rispondere positivamente oggialla sfida educativa. Tognon ripercorre le vicissitudini anche legislativedelle riforme sull’università, e si addentra con competenza dentro lemaglie della riforma universitaria ora in discussione, mostrandone limiti epotenzialità, evidenziando gli snodi problematici della situazione univer-sitaria. La preoccupazione di fondo che ne emerge è che la «crisi spiritua-le» dell’università, che si unisce a quella organizzativa e finanziaria, toccaanche il rapporto tra libertà e conoscenza, che è il nodo di ogni democra-zia. Tognon avanza la necessità di una maggiore partecipazione alle vicen-de dell’università per difendere una modalità di relazione umana e profes-sionale che per dignità non ha eguali nella storia dell’Occidente. Auspica

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anche una riflessione più attenta anche sul contributo che le università diispirazione cristiana possono offrire alla vita del Paese.

Il contributo di Franco Pittau ci permette, poi, di affrontare uno deglielementi di novità del nostro Paese: l’immigrazione. L’interessante rico-struzione storica che l’autore propone mostra come l’immigrazione sia unfenomeno recente a cui la legislazione ha reagito solo molto recentemen-te, ma che costituisce oggi un elemento strutturale. Se a livello personalela presenza immigrata costituisce un invito a incontrare la diversità,restando aperti al cambiamento, a livello di scelte politiche è indispensa-bile avere chiaro che l’immigrazione è numerosa, stabile, destinata a cre-scere e non solo come realtà lavorativa.

Il Documento Preparatorio si conclude con un interessante accosta-mento tra Eucarestia e città. Con l’articolo di don Sergio Passeri, abbiamovoluto riprendere questa suggestione. Non si tratta di verificare la plausi-bilità di un binomio a un livello superficiale, sottolineando la naturasociale del sacramento e la reciproca valorizzazione delle forme umane diaggregazione, quanto piuttosto di scorgere la logica dell’Eucarestia – didono e di gratitudine – e di coglierne le implicazioni ermeneutiche, il dipiù di interpretazione della realtà che essa ci dà nella dinamica della vitacivile. La città è un dono, afferma l’autore, è lo spazio in cui si realizza ildinamismo dell’Eucarestia, la possibilità di relazioni rinnovate. Se i cri-stiani sono uomini e donne autenticamente eucaristici anche la città netrarrà certamente ogni bene.

L’agenda per il Paese si presenta dunque assai fitta. Molti ancora sareb-bero gli snodi su cui interrogarsi per il bene del Paese, ma per poter ragio-nare e scegliere come muoversi occorre anche individuare delle priorità. IlDocumento Preparatorio ne ha evidenziate alcune e a queste abbiamoprovato a contribuire. La sfida che la prossima Settimana Sociale hadavanti è quella di costruire strade possibili, sulle quali camminare assie-me a chi desidera il bene del Paese. Ed è una sfida che non è rimandabile.

(A cura di Ilaria Vellani)

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Ernst-WolfgangBöckenfördeè un filosofo e giurista

tedesco, membro della

Corte Costituzionale

Federale tedesca dal

1983 al 1996. È autore,

tra l’altro, di

Cristianesimo, libertà,

democrazia (a cura di

Michele Nicoletti),

Morcelliana, Brescia

2007; Stato,

costituzione,

democrazia, a cura di

Michele Nicoletti e Omar

Brino, Giuffrè, Milano

2006.

Il contributo dell’agirepolitico alla realizzazione

della giustizia

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La comunità politica, per quanto esista soltanto come unitàd’azione e d’ordine degli uomini, è al tempo stesso soggetto cheavanzaun’esigenzadigiustizia esoggettocheèsottopostoataleesigenza.Daciònederivache l’orientamentoalbenecomune, purpossedendo un valore proprio, è anche strutturalmenteconnesso alla giustizia. La realizzazione del bene comune èdunqueunpezzodellarealizzazionedellagiustizia.

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ual è la ragione di fondo per cui la realizzazione della giusti-zia viene rimandata all’agire politico e, viceversa, l’agire politiconon può sottrarsi al proprio coinvolgimento nella questionedella giustizia?

A questo riguardo non c’è bisogno di compiere riflessioni difilosofia sociale. Ci si può rifare, ed è ciò che vorrei fare io, alladottrina classica della giustizia, qual è stata fondata da Aristotelee quindi proseguita e sviluppata da Tommaso d’Aquino.

a) In entrambi gli autori la giustizia appare come virtù,come abito del comportamento che si riferisce agli altri1. La giu-stizia non è un criterio di misura su come l’uomo si comportaverso se stesso, nel senso dell’equilibrio tra le varie facoltà dell’a-nima2, ma è un criterio per il comportamento sociale, per l’agiredegli uomini nel loro rapporto reciproco.

In conformità alle relazioni sociali di fondo in cui gli uomi-ni vivono, il rapporto con gli altri si presenta in forma triplice: isingoli nel loro rapporto reciproco, il singolo in rapporto allacomunità sociale-politica, la comunità sociale-politica in rap-porto al singolo. Questi sono campi di relazione necessari, per-ché l’uomo vive sempre solo nella forma del nostro prossimo[Mitmensch], ovvero è per essenza animal sociale et politicum. Diconseguenza occorre distinguere tra tre tipi di giustizia: la iusti-tia commutativa, la iustitia distributiva e la iustitia legalis o gene-ralis. Comune a tutte tre le forme è la creazione di una egua-glianza, nel senso di adeguatezza (aequalitas)3. Questa egua-

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glianza si determina in base alla proprietà specifica di ciascun campo direlazione: nel rapporto reciproco tra i singoli ciò che conta è l’eguaglianzanello scambio di beni e prestazioni; nel rapporto dei singoli verso lacomunità sociale e politica è l’adeguatezza delle prestazioni dei suoi mem-bri alla e per la comunità; nel rapporto della comunità con i singoli, infi-ne, è importante che ci siano prestazioni eque della comunità verso i suoimembri, in particolare un’equa partecipazione ai beni e agli oneri.

In ciò è contenuta un’importante affermazione di fondo: la comunitàpolitica – oggi, lo Stato –, per quanto esista soltanto come unità d’azionee d’ordine degli uomini che vi sono riuniti e non possa esistere indipen-dentemente da ciò, è al tempo stesso soggetto che avanza un’esigenza digiustizia e soggetto che è sottoposto a tale esigenza. In essa la totalità deisingoli si contrappone al singolo come un soggetto.

b) Rispetto all’agire politico la giustizia si presenta, nello stesso tempo,come giustizia del governare. Essa trova il suo riferimento primario nellaiustitia legalis o generalis, e solo secondariamente nella iustitia distributi-va4. La iustitia legalis o generalis si orienta verso ciò che spetta alla comu-nità politica e ciò che le serve; e questo non è il vantaggio di chi dominavolta per volta, ma è l’interesse generale*. Questo interesse generale non èuna somma dei singoli interessi individuali, ma neppure è separato dal-l’interesse dei singoli; è l’insieme delle condizioni che rendono possibileagli stessi singoli, e alla collettività nel suo complesso, di vivere in sicurez-za, libertà, benessere5. A ciò si aggiunge, secondariamente, la giusta edequa ripartizione dei beni disponibili, delle prestazioni e degli oneri esi-stenti, che vengono rispettivamente concessi o imposti ai singoli in quan-to membri della comunità politica.

Il contributo del governo alla realizzazione di questa giustizia varia inbase alla posizione e alla funzione che gli uomini hanno all’interno dellacomunità politica. Nei governanti, ovvero in coloro che detengono ilpotere della conduzione politica, tale contributo è creativo, ovvero si svol-ge architectonice, come disse già Tommaso d’Aquino6. Nei cittadini, chesono sottoposti a tale potere, invece, esso è di tipo realizzativo o adem-piente (ministrative).

Ciò ci conduce a sua volta a un risultato significativo: in democrazia,dove i cittadini sono al tempo stesso detentori del potere di conduzionepolitica, presi nel loro insieme, e sottoposti a quello stesso potere, comesingoli, la iustitia generalis avanza loro una doppia richiesta: in quantopartecipi dell’attività materiale del governo (tramite le scelte elettorali e lapartecipazione alla formazione della volontà politica), a essi spetta il com-pito di dare un contributo di configurazione nei confronti dell’interessegenerale, di compiere delle valutazioni, di porre delle priorità e, necessa-riamente, di prendere delle decisioni attraverso il voto; in quanto subordi-

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nati al potere politico direttivo, invece, essi hanno il dovere di essere citta-dini leali e di obbedire alle leggi.

Ma che cosa si ottiene dal fatto che il nesso dell’agire politico con lagiustizia consiste primariamente nel suo orientarsi al bene comune? Ilbene comune non è forse un concetto che può essere interpretato e svoltoin modi così diversi, che quello stesso orientamento normativo vincolan-te, a cui esso tende, finisce per ricadere nella pura arbitrarietà, anzi si limi-ta a occultarla? La politica non è forse necessariamente il regno della mol-teplicità degli scopi e dell’agire finalistico teso al successo? Ed essa nondeve forse restare tale?

La tesi secondo cui il bene comune sarebbe un concetto formale evuoto, è sì molto diffusa, ma è sbagliata. Già l’orientamento, implicito inquel concetto, all’interesse generale, al bene comune di tutti – non di unsingolo, di un gruppo o di una classe, e neppure la massima felicità delmaggior numero di persone7 –, si oppone a ogni forma di arbitrarietà. Intal senso il concetto di bene comune possiede in sé un valore positivo, ilquale ha comunque bisogno di una definizione più precisa. E non reggeneppure l’obiezione secondo cui il bene comune sarebbe un concettopuramente dinamico, orientato a qualunque finalità si presenti volta pervolta. Il bene comune ha certamente una componente dinamica, orienta-ta finalisticamente, ma possiede anche una componente statica, orientataai principi. Dobbiamo descrivere brevemente l’una e l’altra.

a) La componente statica, legata ai principi del bene comune, ha il suofondamento nella comunità politica in quanto comunità di uomini, ovve-ro di persone che agiscono in maniera responsabile. Ciòimplica un’istanza di riconoscimento del «soggetto in sestesso», ovvero indipendentemente dai vincoli e dalledipendenze in cui si trovano gli uomini8. L’«interessecomune di tutti» non può legittimare la neutralizzazione diquesto riconoscimento per una parte, affinché gli altri pos-sano realizzare ancor meglio il proprio interesse. I dirittifondamentali dell’uomo, che gli permettono di procederein posizione eretta, e l’esistenza di una sfera di libertà eproprietà, a prescindere da quanto questa sia estesa, sonoun fattore imprescindibile del bene comune; non sono affatto un sempli-ce materiale, da valutare in rapporto ad altri, o un mezzo in vista di deter-minati scopi. Gli altri obiettivi parziali del bene comune non possonoessere realizzati a loro spese, ma soltanto assieme a loro e per loro tramite.

Certo: anche il riconoscimento dell’uomo come «soggetto in se stesso»,anche i diritti fondamentali dell’uomo sono principi normativi. Essi hannobisogno di venir elaborati e modellati sulla base delle condizioni storiche esocio-culturali che si danno volta per volta. Ciò richiede forme di manife-

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Il bene comune hacertamente unacomponente dinamica,orientatafinalisticamente, mapossiede anche unacomponente statica,orientata ai principi.

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stazione e di realizzazione diverse. Ciò da cui non si può prescindere nonsono queste forme di manifestazione, che per parte loro sono condizionatee plasmate in termini socio-culturali, ma è il principio stesso.

Tutto questo può essere chiarito con un esempio: nessuna casa puòreggere se nel progettarla e nel costruirla non si rispettano le leggi dellastatica. Ma nessuna casa si lascia dedurre o costruire dalle leggi della stati-ca. A tal fine c’è bisogno di un’opera specifica, creativa, che certo dovràrecepire e contenere in sé la statica, ma che sarà anche condizionata, intermini più particolari, dal contesto in cui si colloca la costruzione, dallepossibilità tecniche, dagli scopi concreti e così via.

b) La componente dinamica del bene comune, ovvero quella orientatain termini finalistici, concerne la cura delle condizioni universali della vita(sicurezza esterna e interna, libertà, benessere, formazione e cultura). Essacontiene un buon numero di compiti strutturati in maniera finalistica,che comprendono la registrazione, la configurazione e nel caso anche latrasformazione dei dati di fatto politici, economici e socio-culturali. A ciòappartengono anche i compiti che vanno nell’interesse di tutti, come lacoltivazione agricola, l’apertura delle vie di traffico, le infrastrutture. Nelcomplesso si tratta di creare e sviluppare le condizioni contestuali dellacrescita della vita personale, economica, spirituale e culturale, e inoltre dicomporre i diversi interessi in gioco, che possono anche essere in conflittotra loro, di ripartire gli oneri, e infine di gettare un ponte sopra la diso-mogeneità nazionale o culturale esistente. In questo senso il bene comuneè, in effetti, il regno degli scopi – di scopi molteplici, e in parte contra-stanti – e della loro realizzazione.

Ma allora, dove sta il valore specifico del bene comune, e come puòessere il luogo della giustizia? Esso può essere concretizzato in questa dire-zione, senza girare a vuoto? Non c’è dubbio che il bene comune e la giu-stizia non possono essere raggiunti andando contro gli scopi primadescritti e la loro realizzazione, ma soltanto con loro e attraverso di loro.Tuttavia a questo riguardo sono possibili, e necessari, alcuni criteri diorientamento. Ne vogliamo sottolineare cinque:

(1) Un agire finalistico riferito al bene comune non significa sceglieregli scopi e realizzarli a proprio piacimento, bensì il prevalere di un riferi-mento oggettivo; significa orientarsi non sulla base di vantaggi individua-li o di gruppo, ma sulla base delle esigenze della generalità. Bene comunevuol dire, anche nel perseguire i fini che ci si pone, possibilità di vita pertutti, non solo di alcuni, di una classe o anche della maggioranza; vuoldire, soprattutto, assenza di partigianeria9.

(2) L’orientamento finalistico dell’agire non è dato in assoluto, isolata-mente o, per così dire, al di sopra dei principi; in esso devono rientrare ifattori statici del bene comune, quelli connessi a dei principi, anzi questi

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costituiscono la condizione di possibilità dell’agire e dell’orientamentofinalistico.

(3) Se si vuole che la correttezza sostanziale e l’adeguatezza finalisticasiano connesse al bene comune, esse non possono essere conseguite sem-plicemente per deduzione da assiomi o da una deliberazione pura dellavolontà; esse si danno come risultato di un processo argomentativo e sonopertanto legate al criterio dell’accessibilità alle argomentazioni e alla prio-rità dell’argomento migliore. Esse, inoltre, non possono essere intesecome puramente autonome e funzionali; ciò avrebbe come unica conse-guenza l’autonomizzarsi di una concretezza di tipo funzionale, limitata, el’assolutizzazione del suo scopo inespresso. Qui si apre un problema cen-trale per la teoria funzionale dei sistemi, se essa si lega a delle implicazioninormative – al di là quindi della descrizione e analisi dei modelli di com-portamento esistenti, che vengono controllati in maniera funzionale dascopi determinati e isolati l’uno dall’altro – e se essa viene proposta cometeoria di base del comportamento sociale – il che accade non di rado10.

(4) Negli ambiti oggettivi esterni alla scienza della natura e connessiinvece al comportamento sociale e alla convivenza umana, la correttezzasostanziale è improntata da idee guida di ordine e finalistiche. Sono que-ste a trasmettere all’argomentazione materiale e alla «conformità alla cosa»il loro orientamento finalistico e la formulazione dei problemi che le gui-dano. Pertanto – e ciò non è sempre riconosciuto – la correttezza sostan-ziale è fin dall’inizio, e necessariamente, intrecciata a un certo orienta-mento finalistico e di senso, benché questo possa venir determinato inmodi diversi11. Di conseguenza non si dà alcuna comparti-mentazione tra i principi etici da una parte e la cosiddettaautonomia degli ambiti materiali, dall’altra. Ciò che è ingioco, piuttosto, è l’efficacia dei principi, la loro concretiz-zazione nei diversi ambiti materiali o, inversamente, laconfigurazione di ciò che è «sostanzialmente corretto» daparte di quegli stessi principi.

Anche dal punto di vista economico non si può direche qualcosa sia «sostanzialmente giusto» perché porta aun incremento della produttività, se il metodo di produ-zione provoca conseguenze distruttive per l’ambiente onuoce alla salute dei lavoratori. Così facendo si ridurrebbe l’“economico”al “puramente economico”, isolandolo dagli orientamenti finalistici edalle condizioni contestuali della convivenza umana.

(5) L’agire diretto a uno scopo, infine, è calato all’interno di condizio-ni d’azione e preformazioni di tipo storico-politico. Esso non prevede lasituazione dell’ora zero, o del primo giorno della Creazione. Ciò che cosavuol dire? Che, di norma, gli obiettivi e gli scopi riferiti al bene comune

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Bene comune vuol dire,anche nel perseguire ifini che ci si pone,possibilità di vita pertutti, non solo di alcuni,di una classe o anchedella maggioranza; vuoldire, soprattutto,assenza di partigianeria.

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possono essere raggiunti non in una volta sola e in maniera completa, maper gradi, in maniera approssimativa. Prudenza vuole che si riconoscaquesto dato di fatto e che si agisca di conseguenza. E ciò vale anche per gliobiettivi e i principi «categorici», come ad esempio la realizzazione deidiritti fondamentali degli uomini12. In tal senso il bene comune è un opti-mum relativo e non una fissità astratta.

Da queste brevi indicazioni diventa chiaro che l’orientamento al benecomune, volendo entrare più nel merito di tale concetto, non rappresentauna formula vuota o un concetto di facciata con cui si vuol coprire lo svi-luppo del potere. Al contrario, esso possiede un valore suo proprio, ed èstrutturalmente connesso alla giustizia. La realizzazione del bene comuneè dunque un pezzo di realizzazione della giustizia.

(Traduzione di Corrado Bertani)

Note1Aristotele, Etica Nicomachea, libro V, capp. 6 e 3 (qui in riferimento alla iustitiauniversalis); Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae II, II, qu. 58, art. 1: «Estautem iustitia circa ea quae ad alterum sunt sicut circa propriam materiam». Cfr.anche ivi, Il. II, qu. 58, art. 2 co. Il testo di Ernst-Wolfgang Böckenförde è statopubblicato nel volume Cristianesimo, libertà e democrazia, a cura di M. Nicoletti,Morcelliana, Brescia 2007, pp. 250-256.2Così dice espressamente, e allontanandosi da Platone, Repubblica, 441e-442b,443d-e, Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II, II, qu. 58, art. 2 co.; cfr.anche Aristotele, Etica Nicomachea, libro V, cap. 15 (1138b).3Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, Il, II, qu. 57, artt. 1-2; qu. 58, art. 2.4Diversamente Josef Pieper, Über die Gerechtigkeit, Köse1, München 1960, pp.79 ss., che pone l’accento totalmente sulla iustitia distributiva, mentre non discu-te per nulla la iustitia legalis come forma di giustizia del governare. Cfr. invece

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Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, n. II, II, qu. 58, art. 6.*Si è deciso di rendere l’espressione allgemeines Wohl con «interesse generale», eWohl, senza altre specificazioni, con «interesse», mentre «bene comune» rende iltedesco Gemeinwohl. [N.d.T.].5La definizione che offro qui del bene comune si differenzia da quella data dalConcilio Vaticano II (cfr. Gaudium et spes, c. 26, 74; Dignitatis humanae e. 6) peril fatto che contiene non solo le condizioni di sviluppo dei singoli e dei gruppi,ma anche quelle dei singoli in quanto totalità, cioè come popolo. In tal modo, adifferenza che nella definizione del Concilio, non si esclude fin dall’inizio la pos-sibilità di una posizione di fini transpersonale e comunitaria, ma la si include,anche per respingere una forma di individualismo oggi molto diffusa. Questoindividualismo disconosce che il legame e i vincoli comunitari del singolo nonsono qualcosa di sussidiario o ausiliario, e che al contrario il singolo si costituisce,nella sua personalità, solo col concorso della comunità, cioè come membro di unatotalità che da essa viene plasmato.6Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II, II, qu. 58, art. 6.7La formula della «massima felicità per il maggior numero» non può essere accol-ta, in quanto essa implica che la massima felicità per la maggioranza possa essererealizzata a spese della felicità della minoranza. È una formula di valutazione uti-litaristica, che non considera ciò che spetta e ciò che si deve a ciascuno e ha per-tanto carattere universale.8Cfr. Immanuel Kant, Metaphysik der Sitten. Einleitung in Die Rechtslehre, B. PerKant questa posizione di soggetto, cioè «l’indipendenza dall’arbitrio costrittivo diqualcun altro (nella misura in cui essa può coesistere con la libertà degli altrisecondo leggi universali)», e dunque il fatto di essere padroni di se stessi (suiiuris), è il diritto (naturale) che spetta originariamente «a ogni uomo in forzadella sua umanità».9Qui diventa evidente che nella dottrina dello Stato del marxismo-leninismo l’o-rientamento al bene comune manca in partenza, in quanto essa postula espressa-mente la «partigianeria» dell’agire politico e statale, nell’interesse della classedominante.10Sull’idea di teoria dei sistemi si veda prima di tutto Niklas Luhmann, Soziologieals Theorie sozialer Systeme, in Id., Soziologische Aufklärung, Westdeutscher Verlag,Opladen 1975; riguardo al dibattito in merito alla teoria dei sistemi resta semprebasilare il volume di J. Habermas e N. Luhmann, Theorie der Gesellschaft oderSozialtechnologie, Suhrkamp, Frankfurt. a. M. 1971.11Su ciò, in maniera più approfondita, E.-W. Böckenförde, Religionsfreiheit. DieKirche in der modernen Welt (Schriften zu Staat, Gesellschaft, Kirche, vol. 3),Herder, Freiburg i.B. 1990, pp. 200-201.12Su ciò si vedano, ad esempio, le opinioni contenute in Ruth Pfau, Wohin dieLiebe führt, Herder, Freiburg i.B. 1998, frutto di un impegno decennale ed esem-plare a favore delle persone del Pakistan e dell’Afghanistan.

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Nell’agenda della 46ª Settimana Sociale la prima urgenzasegnalata per sbloccare la situazione di stallo in cui si trova l’e-conomia italiana è intraprendere. Ritengo che davvero sia un’in-dicazione cruciale, perché solo da un atteggiamento innovativocome quello che prevalse in Italia negli anni del miracolo eco-nomico possiamo aspettarci una svolta. Il paragone va però beninteso, perché ci troviamo in un contesto nazionale ed interna-zionale assai diverso. Negli anni Cinquanta del secolo scorsol’Italia era un Paese povero e l’obiettivo era quello di accrescerela produzione materiale sui modelli offerti dagli Stati Uniti.Oggi, invece, l’intero mondo avanzato è arrivato alla saturazio-ne dell’aumento puramente quantitativo del Pil e sta cercandonuove direzioni di marcia da imboccare. Intraprendere oggi èdunque più rischioso e incerto di una volta, perché non ci sonomodelli prefabbricati da imitare e quelli prevalenti stannomostrando i loro pesanti limiti. Si parla tanto di green economy,di qualità e genuinità dei prodotti e dei servizi, di commercioequo e solidale, che sono nuove direzioni valide, però insuffi-cienti. C’è poi il cosiddetto “nuovo welfare”, affidato spesso acooperative, fondazioni, associazioni, che rappresenta un altroimportante ambito di nuova intrapresa. Infine, c’è la new eco-nomy della conoscenza, i cui contorni sono tuttavia ancora labili.

A questo si aggiunga la necessità di rivedere il modello stan-dard di impresa considerato oggi da più parti insoddisfacente esuperato. Lavorare per un’impresa for profit che considera il

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VeraNegri Zamagniè docente di Storia

economica presso la

Facoltà di Economia

dell’Università di

Bologna. È stata

fondatrice e co-editor

della European Review of

Economic History, rivista

di storia economica

europea della Cambridge

University Press. È

visiting professor di

Storia economica

europea presso il

Bologna Center della

Johns Hopkins

University. Ha all’attivo

numerosi saggi e

curatele. Tra le ultime

pubblicazioni: L’industria

chimica italiana e l’Imi.

1951-1983, il Mulino,

Bologna 2010.

Tra virtù e burocrazie. Come sipromuove l’imprenditorialità?

Per promuovere l’imprenditorialità, si devemobilitare l’interasocietà: alle amministrazioni spetta di provvedere ad unaregolazione efficace, ma leggera; al sistema finanziario vachiesto di isolare l’attività speculativa, tornando al ruolo-principe di partner degli investimenti reali; le famiglie devonocontribuire educando alla laboriosità e all’intrapresa.

Vera Negri Zamagni

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dipendente un numero, agisce su uno scacchiere internazionale con deci-ne di migliaia di dipendenti, spostando le lavorazioni da una parte all’al-tra a seconda di pure convenienze di costo, al solo scopo di massimizzareil dividendo degli azionisti e di mantenere elevati i compensi dei manager,è una modalità di fare impresa sempre meno condivisa, che soffre la disaf-fezione dei lavoratori e la riprovazione sociale. Mettere in opera impor-tanti correttivi al modo di funzionamento delle imprese standard for pro-fit secondo i dettami della Responsabilità Sociale dell’Impresa (RSI) è certa-mente una strada desiderabile, una innovazione organizzativa di cui sisente il bisogno.

Per rimettere in moto le economie avanzate, la priorità è allora faretutto quanto è in nostro potere per cogliere le nuove opportunità e darespazio alla creatività, aumentando la propensione all’imprenditorialità,che sembra essersi affievolita nelle giovani generazioni. Non si può nonricordare a questo punto che l’Italia è il Paese al mondo che ha l’impren-ditorialità più diffusa, a causa della forte preferenza degli italiani a “met-tersi in proprio” e a lavorare in PMI (piccole-medie imprese). Molte diqueste imprese però, che sono state fondate proprio negli anni del boom,si sono bensì rafforzate e consolidate, ma presentano oggi un volto troppo“tradizionale” nella loro specializzazione settoriale, risultando rallentatenon perché non siano competitive, ma perché sono collocate in segmentidi domanda stagnante o addirittura in decrescita. Per fare un esempiobolognese: la grande azienda Ducati che produce i famosi motoveicoli haun livello tecnologico, produttivo ed organizzativo che non teme confron-ti a livello internazionale, ma è presente in un segmento di domanda cheda tempo ha cessato di crescere e può giocare solo sullo spostamento diqualche punto percentuale della domanda mondiale a suo favore, unobiettivo di straordinaria difficoltà, che anche quando conseguito non lepermette di crescere rapidamente. Occorre un forte rinnovamento, cheporti l’Italia ad entrare in segmenti produttivi nuovi, soprattutto nei set-tori dei servizi, che sono quelli che oggi hanno una domanda maggior-mente crescente nei nostri Paesi avanzati. Solo una nuova ondata di giova-ni imprenditori può battere strade interamente nuove. Proviamo allora adinterrogarci sulle azioni che si potrebbero/dovrebbero mettere in campoper raggiungere lo scopo di aumentare la capacità di intraprendere delnostro Paese.

Un primo gruppo di soggetti cui compete supportare l’imprenditoria-lità è quello che fa capo all’amministrazione pubblica. Sono tre le princi-pali azioni forti richieste a questi soggetti: 1) la semplificazione burocrati-ca nella costituzione di nuove imprese; 2) il contributo finanziario allaricerca; 3) una detassazione degli investimenti reali. Per quanto riguarda laprima questione, sedimentazioni storiche mai contrastate hanno reso

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l’Italia un Paese dove le pratiche per aprire un’impresa sono così lunghe ecomplicate da far perdere motivazioni e opportunità. Nelle classificheinternazionali relative a questo indicatore, l’Italia spunta un punteggiomolto basso, con parecchi Paesi in via di sviluppo che la sopravanzano.Sembra che finalmente il presente governo si sia accorto di questo graveproblema, la cui soluzione non comporta aumenti di spesa, bensì unosnellimento della burocrazia. Il motivo della farraginosità della nostraburocrazia sta in un assunto di sfiducia da parte degli organi pubblici neiconfronti della società civile. Si ritiene, cioè, che al cittadino si debbaimpedire di mal comportarsi attraverso l’imposizione di pesanti controlliex-ante, illudendosi così di mandare avanti solo i ben intenzionati. Non cisi avvede che in questo modo si scoraggia chi ha rette intenzioni, mentrechi vuole delinquere si attrezza a superare tutti i controlli. Molto megliopartire dall’assunto opposto, dando fiducia ai cittadini. Le sanzioni vannoriservate a chi delinque e non è opportuno imporre gravi controlli suchiunque per cercare di circoscrivere i pochi malfattori. È come dire chebisogna passare da un atteggiamento alla Cesare Beccaria, incentrato suicontrolli e sulle sanzioni, ad un atteggiamento alla Giacinto Dragonetti(suo contemporaneo), che invece si basa sulle virtù e sui premi.

Gli altri due interventi pubblici – sostegno alla ricerca e detassazionedegli investimenti – richiedono invece un po’ di spesa pubblica, ma laproduttività di tale spesa supererebbe di molto il costo dell’intervento esul medio periodo il fisco verrebbe a guadagnarci, per il gettito attivato dalmaggior giro d’affari delle imprese rafforzate nel loro capitale di cono-scenza e nel loro capitale fisico. Non si tratta, cioè, di una spesa pubblicaa fondo perduto, perché sarebbe in grado di ripagarsi e dovrebbe quindicorrettamente essere vista come un’anticipazione. Ancora, si potrebberoincentivare reti di imprese cui aggiudicare i contributi, in questo modofavorendo anche un’aggregazione delle imprese italiane che non può cheessere un’aggregazione a rete; le piccole imprese più innovative potrebberocosì più agevolmente acquisire quella dimensione media che sta dandotante soddisfazioni a livello internazionale, in nicchie produttive dove sipossono realizzare vere e proprie “multinazionali tascabili”1.

Un secondo soggetto che può molto contribuire all’aumento dell’im-prenditorialità è il sistema finanziario, recentemente caduto in grandi dif-ficoltà dovute alla sua “mutazione genetica”, che lo ha fatto transitare daun ruolo di servizio alle imprese al ruolo di distributore del rischio. Leinnovazioni finanziarie che hanno generato la crisi (futures, derivati, hedgefunds) non sono di alcuna utilità per aumentare la propensione all’im-prenditorialità, anzi producono l’effetto opposto. Quanti sono stati finoalla recente crisi i giovani brillanti laureati nelle facoltà di Economia chehanno intrapreso la carriera nel mondo della finanza, per le opportunità

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di remunerazione incomparabili con quelle dei settori realmente produtti-vi? Lo stipendio di un ingegnere impegnato in ricerca e sviluppo o di unmedico che si affanna a trovare nuove terapie è molte volte inferiore aquello di un analista finanziario o di un operatore di borsa che ha comeunico scopo quello di realizzare guadagni monetari spostando capitali dauna piazza ad un’altra o lavorando sui futures e sui derivati. Come possia-mo pensare che l’economia mondiale possa essere sostenibile a questecondizioni? Fino a tempi recenti, esistevano teorie che ritenevano conqualche fondamento che più finanza volesse dire più capitali per l’investi-mento, ma da quando si sono profilate le innovazioni finanziarie sopraricordate, i capitali si sono per lo più mossi per ottenere guadagni mone-tari di breve periodo per le banche, i loro manager e i detentori di fondi,di azioni ed obbligazioni, senza alcun interesse al lato reale dell’economia.Anzi, la disparità di rendimenti tra attività finanziarie e attività reali haspinto persino molte imprese produttive ad investire in titoli finanziariinvece che in impianti, con un pesante effetto di rallentamento dell’eco-nomia reale.

Occorre dunque far rientrare la finanza nei suoi ranghi. O meglio. Sec’è chi è interessato ad agire in campo finanziario come al casinò, si posso-no circoscrivere degli ambiti in cui ciò possa avvenire, senza coinvolgerel’intero sistema bancario e, soprattutto, senza oneri per tutti coloro chenon sono desiderosi di giocare al casinò, ma vogliono ottenere un’onestaremunerazione del proprio risparmio. Gli Stati Uniti si sono mossi condecisione verso una nuova regolamentazione del sistemafinanziario, capace di offrire più garanzie ai risparmiatori edi isolare le attività maggiormente rischiose, dando piùpoteri alla Federal Reserve di intervenire sulle banche cheminacciano la stabilità del sistema. L’Unione Europea si è(fino al momento di scrivere questa nota, luglio 2010)mossa invece con la consueta lentezza ed indecisione.Speriamo che l’esempio americano faccia scuola. Intanto,dalla parte dei cittadini sta la possibilità di privilegiarequelle banche del territorio che hanno mostrato di nonprestarsi alle “mutazioni genetiche” e sono ancora pronte afornire sostegno e consiglio agli imprenditori, in una partnership che eraquella tipica del rapporto banca-impresa di tipo europeo.

Un’ultima osservazione va fatta sulla borsa. Così com’è, la borsa èdiventata un luogo in cui non solo prevale la speculazione, ma ha sensoquotarsi solo per le grandi aziende. Questo e non altro è il motivo per cuil’Italia ha così poche società in borsa: le imprese italiane non sono abba-stanza grandi. Se si ritiene davvero che la borsa possa offrire un’opportu-nità in più di finanziamento, occorrerebbe studiare un modello di borsa

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Lo stipendio di uningegnere impegnato inricerca e sviluppo o di unmedico che si affanna atrovare nuove terapie èmolte volte inferiore aquello di un analistafinanziario o di unoperatore di borsa.

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adatto per le PMI e magari anche per le cooperative. È stato recentemen-te studiato un modello di borsa per le imprese non profit, da cui si potreb-bero ricavare idee per avviare borse meno speculative e più adatte adimprese piccole e medie.

Un terzo soggetto che può svolgere un ruolo assolutamente cruciale èla famiglia. Potrà sembrare un’affermazione poco significativa, ma è inve-ce la base di tutto. I ruoli che la famiglia deve svolgere sono due: innanzi-tutto, fare famiglia, ossia mettere al mondo dei figli. È ormai a tutti notoche il declino delle società occidentali è in larga misura dovuto all’invec-chiamento della popolazione: si sa che i vecchi nella grande maggioranzanon investono in attività reali, ma in attività finanziarie ed immobiliari.Quando poi investono in attività reali, quasi mai si dedicano a nuovi set-tori, ma continuano in quelli in cui si sono già affermati. La denatalità,inoltre, manda in crisi l’azienda familiare anche quando è florida, perchéil vecchio imprenditore senza discendenti deve vendere e quasi semprel’acquisto viene fatto da qualche multinazionale che cerca di incorporare imercati dell’azienda familiare, ma non il sistema produttivo, che pianpiano viene depauperato e poi chiuso. Proprio recentemente ho incontra-to un grande imprenditore bolognese della mortadella, che ormai ottanta-settenne mi diceva tristemente che aveva deciso di vendere la sua floridaazienda, che aveva fondato in gioventù e a cui aveva dedicato tutta la suavita, perché il suo unico nipote non era interessato a proseguire l’attività.Cercava un gruppo che gli desse affidamento di non chiudere gli impian-ti o delocalizzarli, per salvaguardare i suoi dipendenti, ma non era faciletrovarlo.

L’altro ruolo della famiglia è quello dell’educazione al rischio e allalaboriosità. Io ho una mia teoria sui bamboccioni, che non è legata tantoalla scarsità di offerte d’impiego, quanto alla carenza nei giovani di pro-pensione alla responsabilità, all’imprenditorialità e alla disciplina, una

carenza che si produce in famiglie dove i figli sono trattaticome «ospiti», serviti di tutto punto, come in un hotel. Iragazzi oggi non sanno «fare» niente, perché non li si educain famiglia ad assumersi responsabilità, a cimentarsi con ledifficoltà, ad «intraprendere». Al massimo «eseguono» dimala voglia, perché non coinvolti nel significato di ciò chefanno e non motivati al lavoro come dimensione di vita,come contributo alla creazione, che non si è data una voltaper tutte, ma continua nel lavoro di chi scopre, modifica,corregge, esalta, rappresenta. Una volta non era così, perché

era ovvio che i figli lavorassero in famiglia ad aiutare i genitori in tanteincombenze, spesso anche molto pesanti, e in questo modo imparavanonaturalmente la laboriosità e l’applicazione continua.

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Promuoverel’imprenditorialità è un

compito dell’interacomunità e non solo di

un suo segmento.La fiscalità può certo

aiutare, ma da sola nonpuò faremolto.

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Da quanto detto, ci rendiamo conto che promuovere l’imprenditoria-lità è un compito dell’intera comunità e non solo di un suo segmento. Lafiscalità può certo aiutare, ma da sola non può fare molto. A questo pro-posito, servano alcuni esempi storici. Il 25 ottobre 1968 venne approvatauna legge per il sostegno alla ricerca applicata, che fu amministratadall’IMI (Istituto Mobiliare Italiano, fondato nel 1931 da AlbertoBeneduce come istituto di diritto pubblico). Con tale legge si concesserocontributi pubblici per la ricerca a tutte le principali aziende italiane, alcu-ne delle quali, tuttavia (come Montedison o Olivetti), oggi non ci sonopiù o hanno interamente cambiato configurazione, perché il contributoalla ricerca ovviamente non basta a determinare la sostenibilità di un’a-zienda. Ancora, l’intenso sforzo pubblico di industrializzare ilMezzogiorno si è accoppiato all’incapacità di attivare un’imprenditorialocale, il che fa pensare che troppi incentivi, troppa spesa pubblica inassenza di altre condizioni necessarie spingano a comportamenti da rent-seeking piuttosto che a comportamenti imprenditoriali. È invece crucialeil ruolo dell’amministrazione pubblica in quanto regolatrice: facilitarel’impresa invece di ostacolarla, regolamentare meglio la finanza, offrire igiusti supporti alle famiglie perché svolgano il loro fondamentale ruolo diprocreazione ed educazione. Se questo compito venisse affrontato conentusiasmo e innovatività, potrebbe davvero produrre una svolta, creandotanti posti di lavoro aggiuntivi, soprattutto per i giovani.

Nota1Mi riferisco a quello che è stato denominato «quarto capitalismo», ossia appuntoil capitalismo di alcune imprese di distretto che sono state capaci di ingrandirsi asufficienza per riuscire ad investire all’estero.

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Domenico Simeoneè docente di Pedagogia

generale e sociale

presso la Facoltà di

Scienze della

Formazione

dell’Università di

Macerata, dov’è direttore

del Centro Studi

Pedagogici sulle relazioni

educative familiari. Dirige

la rivistaConsultori

Familiari Oggi. Tra le

ultime pubblicazioni: La

consulenza educativa.

Dimensione pedagogica

della relazione d’aiuto,

Vita e Pensiero, Milano

2002, e Educare in

famiglia. Indicazioni

pedagogiche per lo

sviluppo

dell’empowerment

familiare, La Scuola,

Brescia 2008.

La teoria dell’uovo. La famigliadi fronte alla sfida educativa

La famiglia è un bene per la comunità e come tale va aiutata edifesa. Per questo è necessario promuovere una nuova politicachevedalafamigliacoinvoltacomeprotagonistadell’educazioneallaresponsabileprogettazionedell’esistenzadei figli.

Domenico SimeoneL’attuale contesto sociale, contrassegnato da rapidi mutamen-ti, ha messo in discussione la struttura, le funzioni e il significa-to stesso della famiglia1. Le modificazioni dei comportamentinuziali e riproduttivi (il differimento e la diminuzione dellanuzialità, l’aumento della denatalità), la presenza di nuovesituazioni familiari originate dalle separazioni coniugali (fami-glie monoparentali, famiglie ricostruite), l’emergere di questio-ni poste da nuove realtà sociali e culturali (aumento delle fami-glie di anziani, prolungata permanenza dei giovani in famiglia,aumento delle famiglie immigrate) ridisegnano la morfologiafamiliare2, pongono nuovi interrogativi, aprono nuove prospet-tive educative.

La famiglia si trova, quindi, di fronte ad un contesto socialeframmentato e disorientante, senza il supporto di quegli schemiinterpretativi globali caratteristici del passato. Provvisorietà,reversibilità, attenzione al quotidiano, difficoltà ad assumereuna logica progettuale sono elementi che condizionano, oggi, lavita familiare. Nella società del mercato la dinamica frammen-tazione-complessità aumenta l’insicurezza dei genitori circa leloro capacità educative, la qual cosa si ripercuote in manieradiretta sulla vita familiare e comunitaria. In altre parole, si vivenella cultura del frammento che, se da un lato ha il merito diaver contribuito a mettere in crisi il dogmatismo delle grandiideologie, dall’altro rende difficile l’azione educativa. Questa,infatti, presenta caratteristiche diverse: vuole offrire ad ogni gio-

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vane gli strumenti per costruire un proprio progetto di vita, radicato nelpassato e aperto al futuro; intende aiutarlo ad elaborare un quadro di rife-rimento organico e coerente; trasmette il meglio delle conquiste della sto-ria in continuità con il passato; forma all’impegno per il bene comune. Lacomplessità e la parcellizzazione minano le potenzialità educative dellafamiglia, alla quale però è richiesto di essere sempre più forte per ridaresenso, ordine e futuro alla società. Alla famiglia è chiesto di prendersi curadei legami che costituiscono la fitta trama che sostiene la persona nel suoprocesso di crescita e che incrementano la qualità della vita di una comu-nità.

Nella società del mercato, invece, le relazioni sono sempre più stru-mentali e anonime. In questo contesto, «la capacità di decidere risulteràsempre piuttosto difficile se si insinua nei cervelli e nei cuori l’onnipoten-za e non il limite, la materialità dell’esistenza e non la trascendenza spiri-tuale, l’individualismo e non l’apertura all’altro [...], il privatismo o l’o-mologazione sociale invece che la compartecipazione e la corresponsabi-lità comunitaria»3. La riduzione degli spazi decisionali, la confusione nelcampo della valutazione, l’offuscamento delle mete che si intendono con-seguire o dei percorsi per raggiungerle costituiscono i segni di una crisidiffusa, che solo ad alcune condizioni può trasformarsi in opportunità.

I genitori che stanno abbandonando gli schemi rigidi del passato nonsanno ancora prefigurare il nuovo. Tale incertezza può dare vita a nuoviscenari per il futuro, a patto che offra l’opportunità per pensare e realizza-re nuove modalità di relazione per la coppia. La famiglia può essere cosìintesa come una sorta di laboratorio sociale in cui sperimentare nuovemodalità di relazione tra il maschile e il femminile e tra le generazioni. Sitratta di non avere paura del nuovo e di avviare una relazione centrata sulriconoscimento della differenza e della reciprocità.

Di fronte a tale crisi la famiglia può reagire con paura, ritirandosi nelproprio privato, oppure può offrire un credito di fiducia alla realtà socia-le, instaurando nuove relazioni e aprendo spazi di condivisione.

La paura inchioda l’essere umano all’hic et nunc, lo espropria del futu-ro, inibisce la sua capacità progettuale. Una comunità pervasa dalla paurae dal sospetto rischia di rimanere schiacciata sul presente o ripiegata sulpassato senza prospettive per il futuro. La logica reattiva sostituisce quellaprogettuale, il sospetto prende il posto della fiducia, l’atteggiamentodifensivo volto alla tutela di sé prevarica la disponibilità a promuovere lacrescita dell’altro, mentre i figli hanno bisogno di genitori che sappianoassumere un compito “generativo”, che sappiano “compromettersi” nellarelazione educativa, che sappiano aprire le porte al futuro perché sogni,desideri, progetti possano trovare dimora.

Ma come restituire un futuro credibile ad un mondo saccheggiato?

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Come ridare unità ad una comunità divisa? Come aiutare gli adulti arecuperare alcuni criteri guida in un contesto disorientato e disorientante?

Si tratta di affrontare la crisi ricostituendo il patto di fiducia tra gliadulti che condividono responsabilità educative, senza il quale non è pen-sabile né la società né tanto meno il suo compito educativo. «La società sidisintegrerebbe in assenza di fiducia tra gli uomini. Sono pochissimi i rap-porti che si fondano realmente su ciò che uno sa in modo verificabile del-l’altro, pochissimi durerebbero oltre un certo tempo se la fiducia non fossecosì forte o talora anche più forte di verifiche logiche e anche oculari»4.

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La fiducia è considerata da Niklas Luhamann come prerequisito mini-mo di ogni forma di interazione sociale5 e la condizione per lo sviluppodel “capitale sociale” inteso come bene comune relazionale che portabenefici a tutti gli individui che fanno parte della comunità. Si tratta,dunque, di rifondare il senso dei legami di interdipendenza, di ricompor-re la trama paidetica, di ricostruire la comunità. Per far questo è necessa-rio che gli adulti recuperino la propria responsabilità educativa, si faccia-no garanti di una promessa e di un debito nei confronti delle giovanigenerazioni. La responsabilità educativa corrisponde ad un atteggiamentodi disponibilità che muove dall’adulto, il quale si sente interpellato daibisogni del minore e si sente convocato nello spazio della relazione educa-tiva. Tale responsabilità si declina nella relazione educativa asimmetricache si stabilisce tra genitore e figlio.

Il riconoscimento di tale asimmetria relazionale e l’assunzione dellaresponsabilità educativa che ne deriva dovrebbe indurre i genitori a pro-muovere l’autorità come regola orientativa6 in grado di fornire ai figli i cri-teri per gestire il proprio progetto di vita con libertà e responsabilità, nellaconsapevolezza che l’incertezza esistenziale che qualifica la società con-temporanea aumenta le difficoltà dei giovani a compiere scelte rilevanti epercepite dai soggetti come “irreversibili”. È la dimensione del rischio,connaturata ad ogni scelta, a mettere in crisi giovani fragili ed insicuri; laricerca di una libertà senza vincoli ha come effetto paradossale quello diridurre la possibilità di compiere scelte autentiche.

Sono giovani per certi aspetti determinati e autonomi, ma tale deter-minazione e autonomia, che si manifesta quando si muovono sull’asse delpresente, segna il passo allorché sono chiamati a sintonizzarsi sulla lineadella continuità temporale, a progettare itinerari che non si esauriscononell’immediato. Di fronte alla necessità di compiere scelte, l’autonomiacede il passo all’insicurezza7. Per far fronte alle esigenze di una prospettivaprogettuale, i giovani hanno bisogno di orientamento, di qualcuno cheinsegni loro a mediare il desiderio.

I figli hanno bisogno di incontrare genitori autorevoli che sappianofavorire l’acquisizione di un equilibrio ottimale tra fermezza e autonomia.«In tal modo lo stile autorevole promuove lo sviluppo di competenze erafforza la capacità di contrastare una varietà di influenze negative, inclu-si lo stress e l’esposizione alle influenze dei coetanei»8.

Lo stile autorevole è ben rappresentato nella tradizione popolareAshanti (Ghana) da un oggetto che solitamente viene donato al capo vil-laggio nel momento del suo insediamento. Si tratta di una piccola scultu-ra in legno che rappresenta una mano che sorregge un uovo. L’uovo, sim-bolo di fecondità, contiene potenzialmente il germe della vita, è un ogget-to fragile e prezioso allo stesso tempo. Perché la vita possa trovare compi-

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mento l’uovo deve essere tenuto con cura, conciliando due diversi atteg-giamenti, entrambi importanti e soltanto apparentemente contrapposti.Da un lato la mano deve essere ferma e sicura, perché l’uovo non cada enello stesso tempo deve stringerlo con delicatezza per non romperlo.Fermezza e tenerezza sono due atteggiamenti che uniti in un unico gestopermettono alla vita di fiorire. Così il genitore autorevole deve trovareequilibri sempre nuovi tra fermezza e tenerezza, in funzione dei mutevolibisogni dei figli, al fine di promuoverne il processo di crescita.

Il problema, allora, non è tanto preparare le giovani generazioni a vive-re in una determinata società, quanto piuttosto fornire ad esse i punti diriferimento indispensabili per interpretare il tempo in cui viviamo e percomportarsi in maniera responsabile e giusta. Il ruolo fondamentale del-l’educazione è quello di coltivare nei singoli soggetti la libertà di pensieroe di giudizio, di modo che essi possano compiere scelte libere e responsa-bili.

Libertà e responsabilità procedono così di pari passo. «Non c’è vera-mente scelta se di diritto o di fatto non è possibile scegliere diversamente.Una scelta spontanea, inevitabile, in qualche modo predeterminata non èuna vera scelta. Ma la possibilità di una scelta autentica viene meno anchequando manchi la norma, perché senza di essa non c’è criterio di discri-minazione fra le diverse scelte possibili (che diventano allora indifferenti):è la norma che pone l’alternativa. La composizione delle due istanze è pro-

babilmente il punto più difficile dell’educazione: è il cuoredell’educazione dell’uomo come educazione alla libertà»9. Ilsoggetto, se opportunamente sostenuto da appropriate azio-ni educative, diventa il protagonista delle proprie scelte el’artefice del proprio progetto esistenziale.

Compito dei genitori è, quindi, favorire da parte dei figliuna «responsabile progettazione dell’esistenza» che, evitan-do i rischi della progettazione inautentica connotata daacriticità, incoerenza, unilateralità, assecondi la capacità dieffettuare scelte orientate al futuro, aperte al cambiamento e

volte alla piena realizzazione della persona nella sua globalità. Spetta algenitore la responsabilità di stabilire una relazione autentica, che sappiamotivare e coinvolgere i figli, in un clima di reciproca fiducia e di pienarealizzazione. È il genitore che può aiutare il figlio a vivere nella prospetti-va dell’«esistenza autentica» e contribuire così all’avvento di una comunitàdi uomini aperti al dialogo, in grado di attivare relazioni nuove.

La relazione asimmetrica tra genitori e figli chiede ai primi di metterea disposizione dei secondi la propria autorità perché si possa innescarequel processo di crescita che, mentre rafforza l’identità personale, getta lebasi per la costruzione di progetti di vita aperti alla relazione con l’altro.

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I figli hanno bisogno di genitori credibili che sappiano porsi al lorofianco, disposti a camminare con loro. Compagni di viaggio discreti e affi-dabili, che sappiano fuggire le tentazioni dell’autoritarismo e della sedu-zione per porre la propria autorevolezza al servizio di chi sta compiendo losforzo di crescere, nella consapevolezza che «abbiamo aperto loro le portedel futuro e loro le apriranno a noi; ce le aprono già ora. [...]Affronteranno le bufere dell’esistenza, le sue tempeste probabilmente, malo faranno con tanta maggiore sicurezza se saranno cresciuti in una casadalle mura e dal tetto solidi, dove avranno provato il gusto e il desiderio diedificare a loro volta»10.

Di fronte alle difficoltà che le famiglie incontrano, si tratta di pro-muovere processi di solidarietà nella società civile, nella consapevolezzache, se si vuole tutelare quel capitale sociale primario che è la famiglia,non è sufficiente varare qualche norma estemporanea di sostegno alnucleo familiare, ma si deve agire in modo pro-attivo a favore della fami-glia, liberandola dalle strumentalizzazioni del mercato. La famiglia puòessere un luogo di solidarietà nella quale le diverse generazioni hanno lapossibilità di accettarsi e di capirsi e dove l’incontro tra il maschile e ilfemminile costituisce il modello delle più ampie relazioni sociali e comu-nitarie. Al tempo stesso la famiglia è un bene per la comunità e come taleva aiutata e difesa, per questo è necessario promuovere una nuova politicafamiliare che veda la famiglia coinvolta come protagonista.

Note1V. Iori, Fondamenti pedagogici e trasformazioni familiari, La Scuola, Brescia2001, pp. 15-28.2L. Pati, La politica familiare nella prospettiva dell’educazione, La Scuola, Brescia1995, pp. 87-124.3C. Nanni, Educazione e pedagogia in una cultura che cambia, LAS, Roma 1988, p.134.4G. Simmel, Filosofia del denaro (trad. dall’inglese), Einaudi, Torino 1984, p. 263.5N. Luhmann, La fiducia (trad. dal tedesco), Il Mulino, Bologna 2002.6L. Pati, La funzione educativa del padre, Vita e Pensiero, Milano 1981, pp. 146-154.7P.C. Rivoltella, Giovani e percezione del tempo: il punto di vista dell’educazione, inG. Ardrizzo (a cura di), L’esilio del tempo, Meltemi, Roma 2003, pp. 51-73.8E. Cicognani, B. Zani, Genitori e adolescenti, Carocci, Roma 2003, p. 67.9C. Ciancio, «Libertà e scelta», in AA.VV., Relazione educativa ed educazione allascelta nella società dell’incertezza, La Scuola, Brescia 2008 pp. 11-24.10X. Lacroix, Di carne e di parola. Dare fondamento alla famiglia, Vita e Pensiero,Milano 2008, p. 153.

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Pierpaolo Trianiè docente di Didattica

generale presso la

Facoltà di Scienze della

Formazione dell’Università

Cattolica del Sacro

Cuore, sede di Piacenza

e Brescia, e direttore della

rivistaScuola e Didattica.

Ha pubblicato:

Socializzazione e lavoro di

gruppo, De Agostini,

Novara 1998; Il

dinamismo della

coscienza e la

formazione. Il contributo di

Bernard Lonergan ad una

“filosofia” della

formazione, Vita e

Pensiero, Milano 1998;

Sulle tracce del metodo,

EDUcatt, Milano 2002. È

inoltre autore di saggi e

articoli e curatore di

diversi volumi.

La scuola deve fare i conti con la pluralità: delle culture e deivalori, delle famiglie e delle figure intenzionalmente educative,dei saperi e dei contesti formativi, delle “intelligenze”, deibisogni percepiti e delle richieste sociali. La pluralità porta consé disorientamento, ma anche opportunità, atteggiamenti dichiusura,maanche aperturadi orizzonti.

TScuola ed educazione.

Direzioni per unadifficile declinazione

utti concordano, generalmente, sull’importanza della scuolaper il presente e il futuro della società. Come bene ha espressoLorenzo Caselli, nell’ultimo convegno di Scholè, «la scuola è fat-tore di sviluppo economico e sociale e, al tempo stesso, soggettopromotore di cittadinanza, garanzia di libertà»1. Maggiori diffe-renze, invece, si riscontrano in merito alle modalità organizzativepiù adatte che oggi il sistema scolastico dovrebbe assumere e allaportata della sua funzione educativa.

Un carico eccessivoChe la scuola debba coniugare la propria azione istruttiva

dentro un orizzonte educativo appare ormai un dato indiscutibi-le. «La scuola – ha recentemente ricordato Valerio Onida – è illuogo fondamentale della formazione dei fanciulli e dei giovani edunque dei cittadini (intesi nel senso ampio di cives, di membridella collettività) e dunque il luogo nel quale si costruiscono, siconsolidano e si trasmettono convinzioni collettive, valori ispira-tori della vita sociale, e in definitiva anche ciò che chiamiamo co-scienza civica e opinione pubblica; di qui il ruolo educativo dellascuola»2.

Il problema nasce in merito ai confini da dare a questo ruoloeducativo e all’ampiezza dei suoi oggetti. Negli ultimi decennisono andate crescendo, per una molteplicità di ragioni, le richie-ste verso il sistema scolastico. Alla scuola è stato chiesto di am-pliare i propri contenuti in rapporto allo sviluppo delle cono-

Pierpaolo Triani

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scenze umane e all’esigenza di sviluppare nuove competenze in rapporto al-le mutate condizioni socio-economiche. Su qualsiasi tema si sia ritenuto di“alfabetizzare” le nuove generazioni – la sensibilità ecologica, l’educazioneaffettiva, l’educazione stradale, l’educazione alimentare, le nuove forme dicomunicazione – la scuola è stata chiamata in causa attraverso l’arricchi-mento dei “programmi” e la richiesta di realizzazione di progetti specifici.

Ugualmente alle istituzioni scolastiche, anche se in modi diversi secon-do i vari gradi, è stato chiesto di affinare l’attenzione verso il benessere in-dividuale e verso la dimensione relazionale. All’idea della scuola come spa-zio in cui dare a tutti la stessa possibilità di crescere “nella scala sociale”, si èandata affiancando, giustamente, la prospettiva che essa sia anche ambien-te di tutela e promozione dei diritti di ogni singolo bambino e ragazzo.

Alla scuola è stato chiesto, perciò, di sapersi muovere su più dimensio-ni: istruttiva ed affettiva; selettiva e preventiva; di essere attenta ai contenu-ti ed insieme alla formazione delle persone nella loro integralità. Queste ri-chieste sono state sostenute lavorando sul livello dei valori e delle motiva-zioni, ma non intervenendo adeguatamente sulla struttura dell’organizza-zione scolastica, sulle forme del curricolo, sulle pratiche didattiche. Si èoperato con un “impianto” che ha mantenuto forti analogie con modellipensati in precedenza in rapporto ad altre esigenze. Questa contraddizioneè stata silente per molto tempo, ma ora va via via manifestandosi in tutta lasua serietà. Si è cercato in questi anni con passione, intelligenza e creativitàdi mantenere un equilibrio tra le diverse dimensioni, ma oggi questo sfor-zo, basato principalmente sulla volontà dei singoli, appare insufficiente. Sista diffondendo così una sensazione di “carico eccessivo”, di saturazione deicontenuti e dei compiti a cui la scuola dovrebbe rispondere.

Un impossibile ritorno all’indietroQuesto senso di troppo carico sta facendo crescere in buona parte degli

addetti ai lavori e dell’opinione pubblica, un approccio ai problemi dellascuola la cui caratteristica peculiare può essere sintetizzata nel concetto di«ritorno». È necessario ritornare alla serietà, alla selezione, al merito, all’au-torevolezza «di un tempo».

In sé questi temi sono assolutamente necessari, appartengono ad unnormale funzionamento della scuola. Precisato questo, occorre però riflet-tere sul fatto che una tale prospettiva, sebbene sia attualmente di grandesuccesso, presenta un duplice problema.

Il primo consiste nell’isolare gli aspetti che si intendono rinforzare, per-dendo di vista gli altri o ponendoli eccessivamente in secondo piano. Il se-condo consiste nel pensare che sia sufficiente ridare forza a questi aspettiper “ottenere risultati migliori”, lasciando inalterato tutto il resto.

La prospettiva del “ritorno” a ciò che funzionava un tempo può avere

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un qualche successo immediato, ma dovrà presto fare i conti con il fattoche i ragazzi, le famiglie, le domande sociali verso la scuola non sono iden-tiche a quaranta anni fa; che è, purtroppo, semplicistico attribuire i cam-biamenti attuati all’interno dalla scuola soltanto alle idee di qualche peda-gogista o alla cultura del ’68; che in realtà i passi che si è cercato di compie-re sono stati tentativi concreti, limitati e perfettibili, di rispondere ad istan-ze reali, ancora attive.

Non si tratta perciò di restaurare quanto di innovare la funzione educa-tiva della scuola, cercando di leggere il presente e cercando di accrescere lacapacità della scuola di muoversi su una pluralità di funzioni e dimensioni.

La necessità di fare i conti con l’attuale cultura educativaIl presente, per quanto riguarda la cultura educativa, è caratterizzato dal

rafforzarsi di alcuni macrofenomeni, a cui faccio solo un breve cenno, cheinvestono pienamente anche il sistema scolastico.

Innanzitutto la scuola deve fare i conti con la pluralità, che presenta unavarietà di forme: delle culture e dei valori di riferimento, delle famiglie edelle figure intenzionalmente educative, dei saperi e dei contesti formativi,delle “intelligenze”, dei bisogni percepiti e delle richieste sociali. La plura-

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lità porta con sé opportunità, ma anche disorientamento, apertura di oriz-zonti, ma anche atteggiamenti di chiusura.

Le scuole non possono far fronte a tutto, ma non possono neppurechiudere gli occhi di fronte ad un contesto segnato dalla pluralità. Ciò cheidealmente sarebbe opportuno è porre le scuole nella possibilità di compie-re scelte responsabili, ma in realtà oggi esse sono bloccate da rinvii continuiai livelli superiori, a ripensamenti, a modifiche incessanti del quadro di ri-ferimento. Sale forte, allora, la richiesta, illusoria, di tornare a norme sem-plici e chiare, valide per sempre.

In secondo luogo il sistema scolastico deve fare i conti con la centralitàculturale della categoria della soggettività individualistica, secondo la qualeil fine è il benessere e la realizzazione di sé. Tale centralità si declina in unamolteplicità di aspetti: positivi quando evidenziano la centralità della di-gnità personale, problematici quando diventano individualismo.

Nella scuola la soggettività si riscontra nell’importanza attribuita allostare bene a scuola e nella richiesta crescente di attenzione ai singoli, alle lo-ro caratteristiche e alla loro storia.

Assumere però seriamente la categoria della soggettività in termini edu-cativi significa per la scuola spostarsi dal livello, evidentemente fondamen-tale, dell’attenzione alle dinamiche del singolo al livello della cura dellaconsapevolezza di sé e della formazione della coscienza.

In terzo luogo la scuola deve fare i conti con il differenziarsi delle profes-sionalità educative. Anche nella scuola, accanto ai docenti, operano in mo-do sempre più frequente altre figure: psicologi, educatori, allenatori. Ilcontatto con altre professionalità sta generando nelle scuole processi vir-tuosi di collaborazione, ma anche atteggiamenti rischiosi di delega che ten-dono a leggere in modo restrittivo la funzione educativa dei docenti.

Alcuni principi e direzioni di lavoroL’incidenza che i fenomeni, semplicemente enunciati, stanno avendo

nelle scuole, può essere anche ignorata, ma un tale atteggiamento non aiu-ta il sistema scolastico a svolgere la propria funzione educativa. L’analisidelle realtà positive esistenti insegna che non è separando la dimensioneistruttiva, o la dimensione selettiva, dalle altre, che si ottengono risultatimigliori, ma solo cercando di tenere insieme diversi principi; il principiodella specificità culturale della scuola (come ambiente di incontro con sa-peri e culture di riferimento), il principio della finalità, prima in ordine ditempo, dell’apprendimento (la scuola non è pensata per insegnare, ma perfar apprendere); il principio della finalità, prima in ordine di valore, dellaformazione integrale della persona (l’apprendimento è strumento per losviluppo della persona nella sua interezza); il principio della progressiva re-sponsabilizzazione degli allievi (la scuola non è solo il luogo in cui si “rice-

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ve” e si ascolta, ma in cui si esercita una propria responsabilità e si rende ra-gione di ciò che si fa).

Nel contesto attuale una riflessione sulla scuola che isoli uno di questiprincipi per assumerlo come unica ragione del funzionamento del sistemascolastico, si presta facilmente a critiche di riduzionismo.

Nei fatti però l’armonizzazione di questi principi è molto difficile inquanto la struttura del sistema scolastico nel suo insieme non è adeguata aquesto scopo. Ne consegue un debole e frammentato esercizio della fun-zione educativa, a cui supplisce l’impegno e la competenza di molti docen-ti e dirigenti. La testimonianza educativa dei singoli è un fatto imprescin-dibile e ogni volta che si richiama a questo aspetto si tocca un punto di ri-levante importanza. La sfida educativa all’interno delle aule non si affrontasenza l’autorevolezza pedagogica e la significatività degli adulti.

Credo però risulti chiaro dalla breve riflessione svolta che occorre af-fiancare altre direzioni di lavoro che investono il “sistema”. Si possonoenunciare attraverso alcune parole chiave.

AutonomiaLa funzione educativa di una scuola non può essere esercitata attraverso

la mera applicazione di un modello unico per tutti; essa richiede una preci-sa assunzione di scelte di cui rendere ragione. L’autonomia scolastica però èun progetto ancora incompiuto e non sono pochi i segnali di indebolimen-to. Come ha notato Guasti: «La strategia adottata dalla scuola italiana rela-tiva all’ipotesi di autonomia dei singoli istituti appare debole e possibilesoltanto in alcuni casi, mentre il vero problema è la costituzione di un si-stema di formazione autonomo rispetto agli altri sistemi, in grado di orga-nizzare al proprio interno ciò che ritiene funzionale allo sviluppo degli spa-zi di autonomia adeguati alla realtà anche dei singoli istituti»3.

FlessibilitàUna scuola che intenda aiutare la crescita di ciascuno ha bisogno di

maggiori spazi di flessibilità in ordine ai curricoli, all’organizzazione delleclassi, agli orari, alla gestione del corpo docente. Un sistema rigido non puòche essere generalistico e perciò alla fine lasciare insoddisfatti molti.

Innovazione didatticaAttraverso la flessibilità si può dare forza anche all’innovazione didatti-

ca. Non si tratta naturalmente di ricercare il nuovo fine a se stesso, ma diconcepire l’attività di insegnamento come vera e propria ricerca per pro-muovere apprendimenti significativi nei ragazzi, sempre più descritti comedemotivati.

Formazione della professionalità docenteCome la qualità del sistema scolastico si gioca sulla cura costante della

pluralità delle sue funzioni, ugualmente occorre potenziare una formazio-ne dei docenti che sia pluridimensionale e permanente.

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Sintesi pedagogica dei dirigentiLa qualità educativa di una scuola è il frutto di una forte corresponsabi-

lità tra le diverse componenti. Perché però essa avvenga realmente occorreche i dirigenti svolgano un esercizio di sintesi pedagogica, verso cui oggi,forse, si volge poca attenzione.

Rapporto scuola-famigliaLe scuole e le famiglie si trovano oggi nella necessità di ricostruire un

patto esplicito di fiducia. Ciò chiede alla scuola di rivedere il proprio mododi organizzare le comunicazioni con le famiglie, prendendo sul serio la do-manda di «consulenza educativa» che spesso in modo poco chiaro, e nonraramente conflittuale, determinati genitori pongono.

ReteLe scuole non possono più pensarsi in modo isolato rispetto al territo-

rio. Basti pensare al numero di progetti e proposte che ogni anno arrivanoalla dirigenza di una scuola. È necessario pensarsi parte di un sistema for-mativo più ampio.

Queste parole chiave sono alcune delle possibili direzioni di lavoro attra-verso le quali passa la qualità della funzione educativa della scuola oggi. Nonsono semplici e soprattutto non sono senza “costi”. E questo aspetto apre unnodo crescente della riflessione pedagogica, che anche questo breve contri-buto sconta: elaborare idee senza tenere presente la sostenibilità in meritoalle risorse. Accrescere gli studi sul rapporto tra progettazione pedagogica edeconomia dell’istruzione e dell’educazione sarebbe certamente un grandecontributo per rispondere positivamente oggi alla sfida educativa.

Note1L. Caselli, Per un progetto di scuola. La prospettiva economico-sociale, in XLVIIIConvegno di Scholè, Per un progetto di scuola. Istituzioni, ordinamenti, cultura, LaScuola, Brescia 2010, p. 51.2V. Onida, Per un progetto di scuola. La prospettiva costituzionale, ibidem, p. 20.3L. Guasti, La scuola come bene comune. Fondamenti pedagogici, in in XLVII Con-vegno di Scholè, La scuola come bene comune: è ancora possibile?, La Scuola, Brescia2009, p. 111.

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L’università è un’istituzione molto antica, nata nel XII secolo,con una storia molto complessa. L’impegno profuso da papi,principi, sovrani e Stati per controllarla e regolarla è stato enor-me e non è stato solo il segno di una lotta costante tra poteri,ma piuttosto il segno della difficoltà di armonizzare poteridiversi, logiche umane alternative e, più in particolare, il segnodel nascere e dell’affermarsi in Occidente di un nuovo ceto,quello degli scienziati, che ha cambiato radicalmente la scenadel mondo.

La secolare storia delle libertà, personali e collettive, è statain un certo senso condizionata dalla storia dei saperi e dell’alfa-betizzazione. L’emancipazione dell’uomo dall’ignoranza non èalla base soltanto delle culture – perché la cultura è qualche cosache conserva comunque una sua autonomia rispetto alle singo-le forme che prende la scienza. Essa è alla base del diritto e inqualche modo anche della fede che non può basarsi né sullafiducia indiscriminata nella natura – che non ne sa più di noi eche non è “assolutamente buona” – né tanto meno sull’afferma-zione di una autorità estranea all’intelligenza dell’uomo. Il lentoprocesso di desacralizzazione del potere, compreso quello reli-gioso, non è avvenuto soltanto attraverso la lotta per le investi-ture, tra papato e imperi, ma grazie all’emergere di nuovi poterie di nuovi diritti che hanno condotto le società moderne a spe-rimentare sistemi religiosi, politici, giuridici, organizzativi edeconomici sempre più complessi. L’esplodere della scienza e

Giuseppe Tognonè docente di Storia

dell’educazione presso

l’università LUMSA di

Roma, dove coordina il

dottorato in Teorie, storia

e metodi

dell’educazione.

Recentemente ha

curato, con G. Capano,

La crisi del potere

accademico in Italia. Idee

per il governo delle

università, Arel - Il Mulino,

Bologna 2009, e, con S.

Biancu, L’Autorità, una

questione aperta,

Diabasis, Reggio Emilia

2010. È presidente della

Fondazione trentina

Alcide De Gasperi.

Il futuro dell’università italiana.Tra storia e crisi della politica

Nell’università non c’è troppa politica, ma anzi troppo poca:non solo per protestare, ma per difendere una modalità direlazione umana e professionale che, anche se difficile espesso spigolosa, per dignità e ricchezza non ha eguali nellastoria dell’Occidente.

Giuseppe Tognon

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della tecnica nell’età contemporanea non è stato che l’ultimo decisivo tas-sello di un processo di complicazione dell’agire sociale, dominato da logi-che mercantili, che ha radicalmente trasformato l’articolazione dei mestie-ri e dei saperi e in generale la concezione delle professioni. In sostanza, nelcorso del tempo l’università ha conservato intatte le caratteristiche difondo che ne hanno permesso la nascita e la durata: il carattere corporati-vo, la concentrazione urbana, il servizio alle Confessioni (carattere stru-mentale religioso) e alle Professioni (carattere strumentale economico),ma l’avvento della modernità ha conferito all’università una dimensionesupplementare, di sede di elaborazione dell’opinione pubblica e del sape-re tecnico, che ne ha modificato le condizioni di esercizio.

In tutti i Paesi industrializzati si è imposto un modello di universitàmolto orientato al mercato del lavoro e ai bisogni dell’economia che sem-bra aver dimenticato quali siano le reali possibilità delle università, a cui sichiede di assolvere ad una pluralità di missioni che non sono compatibilie che spesso sono il risultato delle incapacità di altri sottosistemi sociali (lascuola, l’impresa, l’amministrazione). Questo modello multimissione èmolto diverso dal modello novecentesco del multiversum accademico, diassecondare lo sviluppo tecnologico e la competitività dei sistemi produt-tivi con la sistemazione dei saperi all’interno di una classificazione garan-tita da poche università formate da strutture gerarchiche ben definite.Nell’Ottocento si scontava una concezione rigida della società: oggi pre-vale un’idea strumentale dell’università dove ricercatori e professori sonotrattati da impiegati, dove le differenze sociali di partenza pesano troppo,e dove gli studenti non sono trattati da cittadini adulti, responsabili delleloro scelte.

Tuttavia, anche coloro che giustamente hanno a cuore il problema del-l’uguaglianza e della giustizia, dovrebbero riflettere sul fatto che la crisidell’università non è soltanto un problema di numeri, ma è l’esito di unatrasformazione profonda del rapporto tra le libertà e i saperi che coinvol-ge la morale o comunque una visione dell’uomo. Quando ad esempio siparla di conflitto tra scienza ed etica, tra la potenza nichilista della tecnica,a cui la scienza e gli scienziati troppo disinvoltamente si sottometterebbe-ro, e invece il “cuore” dell’uomo, si afferma una realtà parziale, perché nonè più possibile parlare per assiomi, come se il conflitto avvenisse tra unasola scienza e un’unica morale certa; è necessario parlare al plurale, discienze ed etiche diverse, divise al loro interno, capaci di ricombinarsi informe inedite, tutte da studiare.

Nelle università, dunque, la vera sfida non è nella riduzione dei saperiad un ordinato nuovo albero della conoscenza – il grande mito dell’epocamoderna –, ma nella qualità e nella natura delle relazioni che i singoli stu-diosi, maestri ed allievi, intrattengono sia con i problemi che affrontano

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sia tra loro, comunitariamente, come persone consapevoli della missionedi servire nel modo corretto la dignità umana. Proprio dalla lectio Fede,ragione e università tenuta da Benedetto XVI il 12 settembre 2006 pressol’università di Ratisbona, ricaviamo con chiarezza un insegnamento sull’u-so sempre più necessario della ragione: anche su Dio «è necessario e ragio-nevole interrogarsi per mezzo della ragione» perché, più in generale, «nonagire anche secondo ragione è contrario alla natura di Dio». Ma c’è il pro-blema che ad ogni scoperta scientifica o ad ogni nuova domanda può cor-rispondere un allargamento del numero delle posizioni e delle discussioniche va ben al di là del singolo risultato sperimentale o della singola rispo-sta logica e che, come un sasso lanciato nell’acqua, espande i propri effettisecondo linee originali. Ogni scoperta cambia il tutto ed ogni resistenzaetica lo condiziona, in un movimento indefesso verso il cambiamento cheè tipico della specie umana.

****

L’università è un tesoro da curare, una opportunità di crescita straordi-naria, anche oggi, nella crisi che attraversiamo. Il Ddl Senato n. 1905, lacosiddetta riforma Gelmini dell’università italiana, è all’attenzione dellaCamera dei Deputati dove il confronto diventerà più duro e decisivo.Sempre che non finisca ancora una volta la legislatura: nella storia italianaesiste una sorta di “maledizione” intorno alle riforme scolastiche e dell’altaformazione che sono state più volte determinanti nell’affossare maggioran-ze e governi.

L’intero mondo accademico attende, più per rassegnazione che conconvinzione, l’approvazione di una legge che rimetta in moto la vita uni-versitaria, bloccatasi per insipienza politica e per troppa astuzia corporati-va da almeno un decennio, da quando cioè il primo Governo Prodi nel1997-1998 modificò radicalmente gli ordinamenti didattici, l’organizza-zione dei corsi di laurea, il reclutamento dei docenti, i meccanismi di auto-nomia degli atenei. Quella riforma, che richiedeva un attento monitorag-gio e in alcuni passaggi anche una coraggiosa autocritica, fu abbandonataal costume accademico che non ha fatto altro che adattarsi al costumepolitico, in piena decadenza. Ci troviamo ora alle prese con un tentativocentralistico che mortifica l’autonomia degli atenei e che su alcuni snodiprincipali non fa chiarezza: a) sull’idea di università che si vuole persegui-re; b) sulla fiducia nelle possibilità dei giovani universitari di cambiare ilcostume universitario anche per aumentare il numero dei laureati italianiche è circa la metà della media degli altri Paesi europei; c) sulla volontà dirafforzare la libertà degli atenei; d) sulla disponibilità a battersi per poterrecuperare risorse nuove; e) su quale strategia per far crescere la cultura del

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merito e l’apertura al confronto internazionale.Se si parte dall’ultimo punto, l’invocazione che oggi si fa delle virtù

taumaturgiche dell’ANVUR, l’Agenzia (presunta) indipendente per lavalutazione del sistema universitario, che dovrebbe avviare i primi passientro l’anno, la dice lunga sull’impasse in cui sono venuti a trovarsi ancheillustri opinionisti che invocano la meritocrazia dall’alto. Non ci sarà mainessuno strumento burocratico, per quanto autorevole, che possa sosti-tuirsi ai legami fiduciari e alla responsabilità individuale, che sono tipicidello spirito universitario e della libertà di ricerca. Valutazione, riconosci-mento dei meriti o sanzioni, non possono funzionare bene se non si offro-no prospettive concrete alla mobilità accademica e se non si pratica unapolitica di reclutamento fluente e di velocizzazione delle carriere.

Sarebbe stato preferibile adottare, anziché l’ennesima legge quadro,una serie di provvedimenti distinti, pochi, sul reclutamento e la valutazio-ne delle carriere e della qualità dei risultati. Invece, anche per l’ossessionearchitettonica di certo riformismo illuministico di sinistra – i cui effettisono tutti presenti anche nel Ddl Gelmini – il dibattito italiano si è sof-fermato eccessivamente su aspetti politici quali il governo delle universitào sui rapporti di forza tra professori. La proposta del PD del pensiona-mento forzato a 65 anni di tutti i professori è efficace come segnale, maanche illusoria, perché fondata sulla presunzione che un risparmio suglianziani si trasformi automaticamente in un reclutamento efficace di gio-vani, senza tener conto che, se è vero che l’università non potrà cambiarese non viene fortemente svecchiata, è altrettanto vero che un ricambio,vista la logica di cooptazione che necessariamente vige nel-l’accademia, non può avvenire senza il coinvolgimento deiprofessori attualmente nella condizione di determinare ilfuturo dei giovani. Meglio sarebbe stato proporre che adun progressivo prepensionamento di tutti i ruoli si accom-pagnasse una sempre più stringente verifica sulla produtti-vità dei professori ordinari, così da isolare quelli menomeritevoli e potenzialmente restii al cambiamento.

Il problema più spinoso è quello del finanziamentodegli atenei. Se non si cambia il meccanismo centrale difinanziamento, il rischio è che i risparmi imposti su molticapitoli di spesa finiscano nel calderone del debito degli atenei senza pro-durre i benefici attesi da coloro che erroneamente ritengono che per «que-sta» nostra università si spenda anche troppo. È forse giunto il momentodi superare con decisione il tabù delle tasse e dei contributi per l’univer-sità, che sono stati calmierati per decenni sulla base di una visione miopedegli sviluppi della domanda di istruzione universitaria. Le risorse investi-te per il diritto allo studio – principio sacrosanto e nobile – sono state, fin

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È forse giunto ilmomento di superarecon decisione il tabùdelle tasse e deicontributi perl’università, che sonostati calmierati perdecenni sulla basedi una visionemiope.

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dagli anni Sessanta, quando il principio si è affermato – meno di un deci-mo delle risorse spese in infrastrutture e nel personale docente e nondocente. Ciò ha comportato l’ingessamento dei bilanci universitari, affos-sati da spese obbligatorie o in conto capitale, mentre le risorse per il dirit-to allo studio – borse, sussidi, alloggi calmierati, assistenza, programmi direcupero e di orientamento, raccordo con la scuola superiore, mobilità…– sarebbero state le uniche spendibili di diritto – cioè sulla base di regolestabilite dagli articoli 33 e 34 della Costituzione – per merito e secondoprocedure concorsuali aperte. Sono per altro il capitolo di spesa dove nonè possibile discriminare tra istituzioni pubbliche statali e non statali. Ilrisultato è che la nostra cultura del merito è rimasta quella degli anniSessanta: è rimasta una cultura monca, viziata da piagnistei falsamentesolidaristici. E siccome la partita del merito non è una partita facile e nonpuò essere vinta senza il coinvolgimento di tutte le generazioni e di tuttele famiglie, sarebbe bene accettare di rendere più flessibile il costo per l’u-niversità e contemporaneamente aprire ad un serio conflitto di interessetra domanda e offerta di istruzione superiore, così da consentire che anchetra le università si apra un possibile mercato virtuoso per gli accessi. Leuniversità italiane, circa novanta, comprese le università telematiche sucui il governo dovrebbe aprire una seria indagine, non possono fare tuttele stesse cose: sarebbe bene differenziare l’offerta e favorire la mobilità stu-dentesca.

Ma forse il limite più radicale della riforma oggi in discussione inParlamento è proprio il fatto che essa non ha quei caratteri di “legge”sostanziale, di vincolo reale, nei confronti del mondo accademico che, seci fossero, sarebbero l’indice di una scelta chiara e forte come compete ad

uno Stato nazionale che, per quanto depotenziato, difendeil proprio patrimonio di storia, di valori e di conoscenze.Basta citare il comma 2 dell’art. 1, approvato al Senato, nelquale si afferma che ciascuna università potrà regolarsi «spe-rimentando anche modelli organizzativi e funzionali sullabase di specifici accordi di programma con il ministero»,che di fatto depotenzia tutto il farraginoso seguito normati-vo e che lascia intravedere una nuova stagione di neocon-trattualismo tra rettori e direttori ministeriali, che ci ripor-

terebbe alla crisi dell’università degli anni Sessanta e Settanta delNovecento, quando la politica italiana ha subìto il passaggio all’universitàdi massa credendo di poter affrontare la situazione attraverso una serie diprovvedimenti urgenti o di concessioni che miravano a soddisfare non ibisogni delle istituzioni, ma quelli del personale docente.

La riforma di cui si discute oggi, come tutte le riforme, ha sulla carta irequisiti per essere una riforma importante, ma proprio il fatto che venga

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La nostra cultura delmerito è rimasta quelladegli anni Sessanta: èrimasta una culturamonca, viziata da

piagnistei falsamentesolidaristici.

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presentata come una «riforma epocale» rivela a quale livello di crisi siagiunto il rapporto di fiducia tra le università e la politica. I tagli diTremonti e della Gelmini, che seguono i mancati promessi finanziamentidi Padoa Schioppa e di Mussi, hanno colpito gli atenei non soltanto nelcorpo, ma anche nello spirito, se ci è concessa l’immagine. Perché la crisinon è soltanto finanziaria o organizzativa, ma se si vuole «spirituale». Edoggi siamo ancora in pieno nella lunga storia di una civiltà fondata sull’e-ducare, che, per quanto riguarda l’università, sta conoscendo una fase tor-mentata di assestamento, i cui esiti, malgrado illusioni ricorrenti, nondipenderanno soltanto dai pur necessari assestamenti organizzativi e dariforme legislative, bensì dalla rinnovata consapevolezza da parte di mino-ranze attive – quali per numero sono comunque quelle dei professori uni-versitari – della necessità di tornare ad amare il proprio mestiere e didifendere, soprattutto in un regime democratico, una concezione nobiledel merito e della verità. Riflettere «sul futuro delle nostre scuole», perriprendere un’espressione celebre e molto abusata nel secolo scorso, quan-do l’Europa stava attraversando la fase “eroica” dei nazionalismi e degliStati moderni, è ancora molto importante, perché la posta in gioco non èpiù soltanto quella, tanto discussa a partire da una concezione tutta poli-tica della lotta tra ceti, del ruolo degli intellettuali – nell’università italia-na ridotti troppo spesso e purtroppo a ceto impiegatizio – ma quella delrapporto tra libertà e conoscenza, che è il nodo di ogni democrazia. Inquesto quadro occorrerebbe produrre finalmente una riflessione piùattenta sul contributo che le università cattoliche possono offrire al Paese,per affermare una più matura concezione del «servizio cristiano all’intelli-genza e alla ricerca della verità».

Nell’università non c’è troppa politica, ma anzi troppo poca: non soloper protestare, ma per difendere una modalità di relazione umana e pro-fessionale che, anche se difficile e spesso spigolosa, per dignità e ricchezzanon ha avuto eguali nella storia dell’Occidente.

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Franco Pittausi occupa di emigrazione

e immigrazione sin dagli

anni Settanta. Nel 1990

ha lanciato il Dossier

Statistico Immigrazione di

Caritas e Migrantes,

realtà con le quali tuttora

collabora. È autore, tra

l’altro, di Emigrazione

italiana in Svizzera.

Problemi del lavoro e

della sicurezza sociale,

Franco Angeli, Milano

1984, e L’altra Italia. Il

pianeta emigrazione (con

G. Ulivi), Edizioni

Messaggero, Padova

1986. Nel 1990

pubblica, con L. Di

Liegro, Il pianeta

immigrazione: dal

conflitto alla solidarietà,

Edizioni Dehoniane,

Roma.

L’immigrazione è considerata uno dei segni dei tempi piùsignificativi. Essa si è andata sempre più strutturando dentrola vita del nostro Paese, tanto che si può affermare che l’Italiaè oggi una societàmultietnica,multiculturale emultireligiosa,e le previsioni attestano che lo diventerà sempre di più.

«SL’immigrazione in Italia.

Volti e scenari,sfide e speranze

egno dei tempi» si dice, in ambito pastorale, di un fenome-no estremamente significativo, in grado di riassumere le caratte-ristiche di quanto sta avvenendo e anche di lasciar presagirequello che capiterà nel futuro. Una connotazione così significa-tiva può essere attribuita, ad esempio: alla globalizzazione;all’invecchiamento della popolazione nella maggior parte deiPaesi industrializzati e, di converso, alla crescita della popolazio-ne e alla preminenza dei giovani in quelli meno industrializzati;all’economia moderna, prodiga nella creazione di ricchezza manon di posti di lavoro; alla realtà, spesso solo virtuale, dell’infor-mazione; al consumismo individualistico e, contraddittoria-mente, alla rifioritura dello spirito religioso; a diversi altri feno-meni che sperimentiamo nella nostra vita quotidiana, rimanen-done in qualche modo segnati.

Una riflessionemetodologicaL’immigrazione deve essere considerata uno dei segni più

significativi. Da una parte, essa si presenta come un effettovistoso dei fattori più caratterizzanti del mondo di oggi: l’ine-guale ripartizione della ricchezza su scala mondiale, più accen-tuata e molto meno accettata rispetto al passato; l’estrema faci-lità dei mezzi moderni di trasporto anche tra le più lontaneparti del mondo; la complementarità tra le diverse aree territo-riali, le une più ricche di mezzi economici ma carenti di forzalavoro, e perciò operanti come una potenziale calamita dei flus-

Franco Pittau

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si in entrata, e le altre destinate per forza di cose a essere i luoghi di origi-ne della pressione migratoria; il timore di fronte alla diversità (etnica, cul-turale, religiosa) e, nello stesso tempo, la forza di attrazione del diverso intermini di confronto e di reciproco scambio in un contesto in cui tutto, apartire dalla produzione e dal commercio, diventa sempre più a dimensio-ne mondiale.

In misura ben più consistente rispetto alle migrazioni europee (e italia-ne, in particolare), che si svilupparono tra il XVIII e il XIX secolo e furo-no inizialmente sia di popolamento che di inserimento temporaneo(diventato per molti, con il tempo, stabile), quelle attuali sono l’espressio-ne di un mondo globalizzato e riguardano, o in entrata o in uscita, tutti iPaesi del mondo, tanto più che ai flussi economici si uniscono quelli poli-tici derivanti da guerre tribali, politiche, religiose, e anche quelli ambien-tali dovuti alla desertificazione e ad altre condizioni di invivibilità nei luo-ghi di nascita. Nel complesso si tratta di più di 200 milioni di persone, il3% della popolazione mondiale.

Se così stanno le cose, è sbagliato inquadrare il fenomeno migratoriocon categorie mentali di ristretta portata, mutuate dalle logiche politichenazionali, anziché considerarlo la risultanza di fattori strutturali che l’ap-partenenza partitica o culturale o religiosa devono aiutare a capire e non acontraffare. Caritas e Migrantes, due organismi pastorali della ConferenzaEpiscopale Italiana, spinti da questa convinzione, hanno dato vita a unrapporto annuale sull’immigrazione a partire dal 1991 quando, dopo lacosiddetta «legge Martelli» (n. 39/1990), la presenza straniera cominciavaa diventare, anche in Italia, un fenomeno di massa: infatti, dai 144milastranieri registrati nel 1970, in prevalenza comunitari, si era andati oltre ilmezzo milione di persone, per lo più provenienti da Paesi terzi. Venendoai nostri giorni, riscontriamo che nel 2010 le presenze straniere sono diecivolte tanto e tutto lascia intendere che il dinamismo della loro crescitacontinuerà a essere vivace.

Il Dossier Statistico Immigrazione, il rapporto annuale di Caritas eMigrantes, ha fatto forza sugli aspetti statistici per promuovere in questidue decenni un processo di corretta sensibilizzazione al fenomeno migrato-rio. Le statistiche sono la misura quantitativa di ciò che dei fenomeni socia-li appare all’esterno e, correttamente utilizzate, aiutano a pervenire a uninquadramento “oggettivo” della realtà. Ciò comporta, innanzi tutto, l’im-pegno per capire cosa sta avvenendo, dando per scontato che in processisociali di così immensa portata vi sono, oltre agli aspetti positivi, anchequelli problematici e che bisogna occuparsi tanto degli uni quanto deglialtri, sia per rafforzare e incrementare, sia per prevenire e contrastare.

Se la linea conoscitiva è così correttamente impostata, il termine «buo-nismo» – per quanto ricorrente – risulta fuori posto, quasi che la solida-

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rietà debba per forza scontrarsi con la realtà dei fatti e non, come ha pre-cisato Benedetto XVI nella sua omonima enciclica, che la carità debbaessere praticata nella verità. È questa la simbiosi che Caritas e Migranteshanno perseguito nel loro Dossier Statistico Immigrazione, un’opera collet-tiva che coinvolge annualmente più di un centinaio di autori per fare ilpunto sull’immigrazione, riuscendo a capirne la portata e la direzione.

Una riflessione storicaPer un quarto di secolo, nonostante l’articolo 10 della Costituzione

italiana imponga che la condizione del cittadino straniero sia regolatadalla legge, in Italia è mancata una specifica normativa e hanno continua-to a trovare applicazione le norme di pubblica sicurezza del 1931, com-pletate all’occorrenza da disposizioni amministrative.

Nei primi decenni dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’Italia rimane-va ancora un Paese di grande emigrazione e solo a partire dalla metà deglianni ’70, quando i rimpatri dei connazionali hanno cominciato a supera-re gli espatri, si è assistito ai primi flussi di lavoratori stranieri (special-mente in agricoltura e nel settore della collaborazione familiare) e dirichiedenti asilo e, di conseguenza, alle carenze dell’impianto normativonei loro riguardi.

Il 1986 è l’anno della prima legge sull’immigrazione, buona ma par-ziale, e della prima regolarizzazione. La presenza straniera comincia a esse-re socialmente percepita (450mila presenze). Tra i primi germi di contrad-dittorietà va incluso l’obbligo del ritorno nei Paesi di origine e del bigliet-

to prepagato, e il termine «extracomunitario», utilizzatosenza connotazioni malevole dal legislatore ma non da partedella popolazione, nel cui ambito si iniziano a riscontrareatteggiamenti e atti di discriminazione e di razzismo.

Il decennio successivo è stato caratterizzato dall’emer-genza, perché da una parte i decisori pubblici ritengono didover intervenire e, dall’altra, lo fanno senza una chiaravisione d’insieme, mancando ancora la consapevolezza delladimensione strutturale dell’immigrazione, per cui diverseimpostazioni normative si collocano più sul piano delle for-malità e della dialettica politica che su quello dell’efficaciapratica.

In un contesto europeo, soggiogato dalle politiche dichiusura già dopo la prima crisi petrolifera del 1973, la

legge n. 39 del 1990, naturalmente anch’essa con annessa regolarizzazioneper risolvere le pendenze del passato, completa sotto diversi aspetti la nor-mativa approvata cinque anni prima (basti pensare alle aperture riguar-danti i lavoratori autonomi e i richiedenti asilo), ma rivela ben presto i

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Manca laconsapevolezza della

dimensione strutturaledell’immigrazione,

per cui diverseimpostazioni normative

si collocano più sulpiano delle formalità edella dialettica politica

che su quellodell’efficacia pratica.

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suoi limiti nel gestire i nuovi flussi in provenienza dall’Est Europa dopo lacaduta del Muro di Berlino. Quindi, il decreto legge del governo Dini nel1995, anch’esso dettato da un interventismo non del tutto consapevole, sidistingue per l’ambigua composizione di alcune disposizioni ispirate all’a-pertura (copertura sanitaria, regolarizzazione) e altre a una inflessibile rigi-dità voluta dalla Lega Nord (ricongiungimenti familiari, espulsioni).

È del 1998, con il governo Prodi, la prima legge organica (Turco-Napolitano) che introduce l’impianto, tuttora vigente seppure con note-voli modifiche, imperniato su tre pilastri: programmazione dei flussi,accoglienza e integrazione, contrasto dei flussi irregolari. La legge del2002 (Bossi-Fini) interviene in maniera restrittiva su quell’impianto nor-mativo e dispone una ulteriore regolarizzazione (la più ampia della serie).

Durante il successivo governo di centrosinistra non è coronato da suc-cesso il tentativo dei ministri Amato e Ferrero di migliorare la legge, men-tre il successivo governo di centrodestra dell’on. Berlusconi attua, nel2009, il radicale intervento restrittivo del ministro dell’Interno Maroni,noto come «pacchetto sicurezza», unitamente all’ultima regolarizzazionelimitata agli addetti del settore familiare. Intanto, è diventata più consi-stente l’incidenza delle seconde generazioni, ma non fa passi in avanti laprospettiva di modificare la legge sulla cittadinanza.

Una riflessione statisticaDal punto di vista statistico le tappe più significative della presenza

straniera in Italia possono essere così riassunte: 1970 meno di 150.000;1987 oltre mezzo milione; 1997 oltre il milione; 2002 oltre il milione emezzo; 2004 oltre i due milioni; 2005 circa tre milioni; 2008 circa quat-tro milioni; 2010 oltre i 5 milioni.

Questa imponente evoluzione evidenzia quello che Caritas eMigrantes hanno definito il «processo di strutturalizzazione» del fenome-no, facendo riferimento all’insieme dei fattori che hanno reso l’immigra-zione un fenomeno stabile nella società italiana: numero rilevante di pre-senze, che in Europa colloca l’Italia subito a ridosso della Germania; ritmod’aumento sostenuto che non ha uguali nel mondo industrializzato senon in Spagna; provenienza iniziale da una molteplicità di Paesi, coltempo stemperata dall’assoluta prevalenza assunta dai romeni (un quintodel totale) e quindi dagli albanesi e dai marocchini; distribuzione su tuttoil territorio nazionale, seppure con una particolare accentuazione in diver-se regioni del Centro-Nord; normalizzazione dell’insediamento dal puntodi vista demografico a seguito della raggiunta equivalenza numerica trauomini e donne, della prevalenza dei coniugati sulle persone celibi e nubi-li e dell’elevata incidenza dei minori; persistente fabbisogno di forza lavo-ro aggiuntiva, nonostante i lavoratori immigrati siano ormai più di due

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milioni; aumentata tendenza alla stabilità che, rispetto al passato, fadell’Italia non un Paese di passaggio bensì di insediamento.

L’incidenza degli stranieri sulla popolazione residente (superiore al7%, ma in diversi contesti oltre il 10%, come a Milano e a Roma) si col-loca ormai al di sopra della media europea. Le acquisizioni di cittadinan-za, nonostante la rigidità della normativa, superano i 40mila casi l’anno.Le nuove nascite da entrambi i genitori stranieri già nel 2011 arriverannoa quota 100mila, livello raggiunto da diversi anni dai ricongiungimentifamiliari di coniugi e figli. Diversi settori lavorativi (quello dell’assistenzaalle famiglie, l’edilizia, l’agricoltura) sono fortemente “etnicizzati”, ma lapresenza di lavoratori immigrati diventa sempre più consistente anche inmolti altri comparti, che evidenziano l’apporto anche di figure professio-nalizzate, come gli infermieri (e in prospettiva anche i medici). Anchel’indagine Excelsior, che Unioncamere conduce in collaborazione con ilMinistero del Lavoro intervistando più di cento aziende, da alcuni anniattesta la crescente tendenza ad assunzioni di personale qualificato in pro-venienza dall’estero in professioni sia ad elevata specializzazione che inqualificazioni intermedie (addetti ad attività commerciali, operai specia-lizzati, conduttori di impianti e operai semiqualificati).

È risaputo che il Paese, dal punto di vista demografico, si distingue perla bassa natalità e l’invecchiamento. L’Istat, per il periodo 2007-2050, hadelineato tre scenari con un aumento annuo della popolazione immigratadi 150.000 persone nello scenario basso, 200.000 in quello medio e240.000 in quello alto (che sembra essere quello più realistico, se nonaddirittura al di sotto di quanto effettivamente sta avvenendo).

La popolazione in età lavorativa (15-64 anni) aumen-terà per l’apporto degli immigrati, ma solo per un periodolimitato (fino al 2017 nello scenario basso, al 2022 nelloscenario centrale e al 2027 nello scenario alto); invece, nelmedio e lungo termine si determinerà una consistenteriduzione della popolazione attiva in tutti gli scenari(rispetto ai 39 milioni del 2007, nel 2051 si arriva a 30,8milioni nello scenario basso, 33,4 milioni nello scenariomedio e 35,8 nello scenario alto – con riduzione dellapopolazione attiva dall’attuale 66% al 53,2%). Di conver-so, le persone con oltre 65 anni, che adesso sono circa 12milioni, supereranno i 22 milioni nel 2051, portando l’in-cidenza, attualmente pari a un quinto, a un terzo sullapopolazione totale. Sempre nello scenario alto, la popola-zione arriverebbe a 67,3 milioni alla fine del 2050, con un aumento nelcorso dell’intero periodo di 8,2 milioni: il saldo sarebbe solo di 2,5 milio-ni di unità nello scenario centrale e diventerebbe negativo, con la perdita

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L’incidenza deglistranieri sullapopolazione residente sicolloca ormai al di sopradella media europea.Le acquisizioni dicittadinanza,nonostante la rigiditàdella normativa,superanoi 40mila casi l’anno.

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di 3,5 milioni di residenti (e con effetti negativi sul rapporto tra le classi dietà), nello scenario basso.

I cittadini stranieri residenti aumenteranno, nei primi cinque anni, del10-11% in tutt’e tre gli scenari, poi l’aumento sarà più contenuto e nel2031 si arriverà a 9,1 milioni nello scenario alto, a 8,2 nello scenario cen-trale e a 7,3 nello scenario basso. Nel 2051 nello scenario alto gli stranierisaranno 12,4 milioni, nello scenario centrale 10,7 milioni e 9 milioni inquello basso, con incidenze tra il 16% e il 18%, contribuendo a ringiova-nire la struttura per età della popolazione complessiva.

I numeri attestano, quindi, che l’Italia è una realtà multietnica, multi-culturale e multireligiosa e le previsioni attestano che lo diventerà sempredi più. Sono questi i dati sui quali riflettere, tenendo conto che, per ragio-ni strutturali, il futuro dell’Italia non è pensabile senza immigrazione.

Riflessioni conclusive, a livello personale e di sistemaVolendo riassumere le fasi dell’esperienza migratoria in Italia, si può

dire che gli italiani inizialmente hanno mostrato una sostanziale indiffe-renza al fenomeno. Negli anni ’50, ’60 e ’70 del secolo scorso si pensavamaggiormente agli emigrati che lasciavano l’Italia e a quelli che rientrava-no: in quel periodo lo straniero per noi era più il turista che l’immigrato.Tra la metà degli anni ’70 e la fine degli anni ’90 l’atteggiamento è statoquello dell’emergenza. Dalla legge 40 del 1998 ad oggi possiamo parlaredi una fase di organicità contrastata, riassumibile nelle parole della famo-sa romanza: «vorrei e non vorrei».

Eppure, i dati sono convergenti nel presentare l’immigrazione, nellasituazione attuale e nel prossimo futuro, come un fenomeno duraturo e digrande portata. A fronte di questa dimensione strutturale non sembrano

sempre adeguate, e anzi a volte anche contrastanti, le lineedi intervento adottate, per giunta nel contesto di un dibat-tito dai toni troppi accesi. Caritas e Migrantes vent’anni fafecero la scelta di ricorrere ai dati statistici per invitare,tanto i cittadini che i loro politici, a riflettere con serenitàsul nuovo scenario, così come con autorevolezza e ripetuta-mente ha fatto la Conferenza Episcopale Italiana. Non è quiil caso di entrare nel merito dei singoli provvedimenti adot-tati ma, mantenendo la riflessione a livello culturale, si pos-sono auspicare cambiamenti personali e di sistema.

A livello personale la presenza immigrata costituisce uninvito a incontrare la diversità e ad entrare in dialogo conessa. Nel mondo globalizzato di oggi, la possibilità di rap-

portarsi a persone provenienti da tutte le parti del mondo costituisceun’opportunità di maturazione culturale, sociale e religiosa, senza snatura-

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La possibilità dirapportarsi a personeprovenienti da tutte le

parti del mondocostituisce

un’opportunità dimaturazione culturale,

sociale e religiosa, senzasnaturare ciò che siamo

e rinnegarele nostre tradizioni.

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re ciò che siamo e rinnegare le nostre tradizioni, ma restando comunqueaperti al cambiamento.

A livello di scelte politiche è indispensabile fare perno sul fatto chel’immigrazione è numerosa, stabile, destinata a crescere e non solo comerealtà lavorativa. La diversità di lingue, culture, religioni può trovare un’e-quilibrata composizione, nel rispetto delle norme da noi ritenute fonda-mentali ma anche nell’apertura ai nuovi venuti, interessati a inserirsi nelPaese che considerano la loro nuovo patria. Non si tratta di evitare di cau-telarsi nei confronti degli stranieri devianti bensì, prendendo una parteper il tutto, di criminalizzare un grande fenomeno sociale.

Secondo il magistero cattolico, che sulle migrazioni ha scritto pagineilluminate dall’esempio e dalle parole di Gesù Cristo, chi viene da altriPaesi, per quanto diverso, è un fratello da accogliere. Il discorso sull’im-migrazione si può chiudere con questa ferma condanna dell’ideologiadella contrapposizione.

La bibliografia di questo articolo ha come fonte principale ilDossier Statistico Immigrazione Caritas/Migrantes, annate 1990-2010.

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Sono passati ormai alcuni decenni da quando il noto teologofrancese Henri de Lubac, sulla base di accurati studi, mostròcon evidenza gli aspetti sociali del dogma1. Contro la tendenzaindividualizzante, nella quale lo stesso sacramento eucaristicorischiava di risolversi, si aprì così una prospettiva ricca di fecon-di risvolti per la vita cristiana. All’interno di questo orizzonte sipossono rileggere alcuni passaggi della Deus caritas est diBenedetto XVI – a cui fa riferimento il documento preparatorioper la 46ª Settimana Sociale – circa il rapporto tra Eucaristia esocietà2. Nella sua prima enciclica il papa non solo afferma conchiarezza che «la “mistica” del sacramento ha un carattere socia-le» (14a), ma che «fede, culto ed ethos si compenetrano a vicen-da come un’unica realtà che si configura nell’incontro con l’aga-pe di Dio» (14b). Perché vi sia un ethos è necessaria una comu-nità umana che sappia riconoscere il valore imprescindibile delbene. È in questo contesto che si inserisce un possibile discorsocirca il rapporto tra l’Eucaristia e la città. Non si tratta di unbinomio scontato. La città appare qui una cifra simbolica dellaconvivenza umana più che una ben definita località geografica.Si tratta dunque di far intersecare i due aspetti in questione –Eucaristia e città – per mostrarne la correlazione senza compro-metterne le rispettive realtà. La natura sociale del sacramentonon può certo ridursi ad una superficiale valorizzazione dell’ag-gregazione umana. Se intercorre un rapporto tra Eucaristia ecittà questo andrà individuato a partire, per un verso, dalla

Sergio Passeriè sacerdote e docente di

Teologia morale presso

l’Istituto teologico del

Seminario di Brescia e

presso l’Istituto superiore

di Scienze religiose

dell’Università Cattolica.

Ha pubblicato la

monografia

Responsabilità. Un

percorso tra la

provocazione di Hans

Jonas e la vocazione alla

responsabilità, Università

Gregoriana, Roma 2005;

e con M. Busca i volumi:

Dammi da bere. Come,

quando, con che cosa

pregare?; Svegliati mio

cuore. Pregare da soli?;

Vieni alla mensa. Perché

e chi pregare?, Edizioni

Paoline, Roma 2008.

Eucaristia e città:un binomio possibile?

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Il legame profondo tra Eucaristia e città non si comprendesemplicemente nella ostensione della prima nello spazio dellaseconda, ma nella riscoperta della logica del dono intrinsecaal dinamismo eucaristico. Il beneficio alla città consisterànella presenza di persone eucaristiche, capaci di essereespressione della comunione ricevuta in dono.

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natura propria della città e, per l’altro, dal rapporto costitutivo del cristia-no con l’Eucaristia. Esse possono sembrare realtà tanto lontane da scorag-giare qualunque tentativo di impresa; eppure tra città ed Eucaristia c’è unarelazione profonda, senza appariscenza o ostentazione. Si può parlare diuna comunicazione in virtù delle energie sacramentali, cosicché, se i cri-stiani saranno uomini e donne eucaristiche, la città ne trarrà pace e bene3.Questa intima correlazione può divenire visibile, a nostro avviso, solomostrando la natura della città – quale cifra della dimensione sociale del-l’uomo – e la natura dell’Eucaristia – quale espressione della logica deldono che le è propria.

La città dell’uomoL’uomo si è compreso fin dall’antichità nello spazio geografico della

città. L’esperienza nomadica è stata generalmente transitoria e quando,per qualche popolo, è divenuta costitutiva, essa ha assunto la fisionomiadi un pungolo, un richiamo a non idolatrare la stanzialità. Se la voce deiprofeti si è alzata prevalentemente nei luoghi cittadini, non è certo perdecretare la condanna definitiva della città, quanto per mostrare la tragi-cità in cui l’ha gettata l’uomo autoreferenziale. Il luogo del peccato è ilcuore della persona, non certo la città o il deserto.

La città è sorta, come ben si sa, per proteggere l’uomo; essa rappresen-ta uno dei primi tributi alla «necessità», come ci ricorda Hans Jonas4. Finda subito, ha assunto la forma della dimora, in grado di rendere ospitaleun mondo diversamente ostile. La città, tuttavia, ha superato ben presto lafisionomia della roccaforte per divenire il luogo per eccellenza dellacostruzione e della manifestazione dell’umano; «il luogo più fecondo perl’espressione e l’esaltazione dell’ethos, proprio perché costruire una cittàsignifica fare un’opera architettonica etica, che riguarda cioè il rapportotra gli uomini – chiamati a divenire “concittadini” – con lo spazio, chedeve essere al loro servizio»5.

La città, dunque, non è solo un lembo di territorio occupato da edificialternati a spazi per la circolazione e per i servizi; essa è, come descrivemagistralmente Calvino, «un insieme di tante cose: di memorie, di desi-deri, di segni d’un linguaggio; le città sono luoghi di scambio, come spie-gano tutti i libri di storia dell’economia, ma questi scambi non sono sol-tanto scambi di merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi»6. Lacittà va letta positivamente nel suo complesso, non tanto perché rappre-senta una «società perfetta», come sosteneva Aristotele, ma per il fatto cheimplica una serie di possibilità che permettono all’uomo di vivere la pro-pria umanità. La fuga urbis rappresenta, dunque, una contraddizione perla vita cristiana. Non si tratta di trovare spazi isolati nei quali rifuggire ilcaos cittadino, ma condizioni nelle quali vivere appieno un umanesimo

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integrale. Il centro e l’anima della città è la persona. Risuona attuale ilsogno di La Pira, secondo il quale la città deve assolvere a cinque funzio-ni: offrire «un tempio per pregare, una casa per amare, un’officina perlavorare e produrre, una scuola per studiare, un ospedale per guarire»7. Lacittà dell’uomo costituisce un’occasione prima che una tentazione e il cri-stiano sa che è chiamato a guardare alle cose del cielo restando fedele allaterra. Ne abbiamo un esempio luminoso nella lettera A Diogneto dove siafferma che i cristiani vivono nelle città da leali. Lo stesso Agostino nellasua monumentale opera mostra come la città di Dio costituisca sempreuna tensione. L’uomo vive nelle due città: Abele, la città di Dio e Caino lacittà terrena, ma Caino viene prima di Abele, quindi l’uomo vede prima lacittà terrena; non può, pertanto, abdicare alle cose del mondo.

Per secoli questa cittadella costruita dall’uomo, ben separata dal restodelle cose e affidata alla sua tutela, ha rappresentato l’ambito specificodella sua responsabilità. Oggi, tuttavia, questa immagine di città deve farei conti con una novità radicale: l’avvento dell’era tecnologica. È abbastan-za evidente che la civiltà della tecnica ha spezzato questi confini, dando aiparametri etici nuove dimensioni. Le ristrette frontiere della città, chegarantivano la sufficienza delle «antiche norme dell’etica del “prossimo”»(Jonas), cedono il posto ad uno sconfinamento sia in ordine allo spazioche in ordine al tempo. Il raggio di estensione della responsabilità ora nonè più delimitato dall’enclave cittadina, ma si estende a ciò che sta al difuori. La città diventa, pertanto, metafora del mondo intero di fronte alquale l’uomo è chiamato ad esprimere il proprio senso di responsabilità.

A partire da queste brevi considerazioni sulla “città” dell’uomo possia-mo ora chiederci in che modo si configura il legame tra Eucaristia esocietà?

Il carattere sociale dell’Eucaristia«L’unione con Cristo è al tempo stesso unione con tutti gli altri ai quali

Egli si dona. Io non posso avere Cristo solo per me; posso appartenerglisoltanto in unione con tutti quelli che sono diventati o diventeranno suoi.[…] Amore per Dio e amore per il prossimo sono ora veramente uniti»(Deus caritas est, 14). Il carattere sociale dell’Eucaristia non va certamentetravisato; resta il fatto, tuttavia, che se una celebrazione eucaristica nonconducesse ad incontrare gli uomini lì dove essi vivono, lavorano e soffro-no, per portare loro l’amore di Dio, non manifesterebbe la verità che rac-chiude8.

Lo stretto legame tra lex orandi, lex credendi e lex vivendi, cioè tra cele-brazione eucaristica e vita cristiana, appare indiscutibile. Esiste quindi unacircolarità tra Eucaristia, vita cristiana e ethos ecclesiale. È chiaro, però,che la dimensione ecclesiale non si identifica con la società umana in

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quanto tale. Questo fatto ci permette di fare alcune considerazioni inizia-li, che non andranno tuttavia a scapito del bene che l’Eucaristia è per lacittà intera. L’Eucaristia è la ricapitolazione sacramentale di tutto il miste-ro della salvezza che il Padre compie attraverso il Figlio e nello Spirito.Solo nella fede i cristiani possono accedere a questo mistero. Questa pre-messa ha condotto giustamente diversi autori a ritenere che «l’Eucaristiadeve essere celebrata nella comunità dei cristiani rigorosamente stabilita,perché solo i cristiani comprendono quello che è acclamato – “misterodella fede” –, e non può quindi essere rivolta alla città secolarizzata e plu-ralista di oggi»9.

Allo stesso tempo è evidente che il frutto dell’Eucaristia non va intesosolo come un effetto individuale, ma va concepito anzitutto come effettoecclesiologico-sociale. I padri della Chiesa hanno più volte mostrato larilevanza ecclesiale del sacramento eucaristico. La comunione con il corpodi Cristo permette e genera una vita nuova secondo la carità chel’Eucaristia significa. È in questo contesto che prenderà corpo la concezio-ne patristica dell’assimilazione inversa. Non è il pane divinizzato ad essereassimilato da noi, come avviene con il pane comune, quanto piuttosto ilcontrario. È un nutrimento spirituale destinato a trasformare la vita di chise ne nutre, come ci ricorda il famoso passo delle Confessioni: «Mangerai,ma non tu trasformerai me in te, ma io trasformerò te in me»10. Tuttavia,come nota de Lubac, il corpo in cui il cristiano è trasformato è il corpomistico di Cristo – cioè la Chiesa11.

Il fatto che l’Eucaristia stia a fondamento della Chiesa ha delle conse-guenze costitutive, ovviamente, anche per l’etica cristiana. I Padri vedonoraffigurata nell’Eucaristia l’immagine dell’unità ecclesiale. La Chiesa simostra nella sua unità esattamente nella comunità eucaristica. La rilevan-za che tutto questo ha nel modo di comprendere le relazioni è evidente: ilsacramento dell’altare si estende e si riverbera nel sacramen-to del fratello. Si tratta di accudire Cristo in gestazione neinostri fratelli. Ma in che modo questo può avere rilevanzaper la città in quanto tale?

Per comprendere tale importanza ed evidenziarne lerilevanze sociali è necessario riprendere la logica intrinsecaall’Eucaristia. Di che logica si tratta? Su più versanti c’èuna comune intesa nel ritenere che il concetto di donoesprima il senso profondo di questa logica12. La categoriadel dono, tuttavia, non va concepita secondo un’analogia debole o super-ficiale, che la porrebbe alla stregua di un semplice “regalo”, ma secondoquella che potremmo definire un’analogia forte. «L’Eucaristia ci attira nel-l’atto oblativo di Gesù. Noi non riceviamo soltanto in modo statico ilLogos incarnato, ma veniamo coinvolti nella dinamica della sua donazio-

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Il frutto dell’Eucaristianon va inteso solo comeun effetto individuale,ma va concepitoanzitutto come effettoecclesiologico-sociale.

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ne» (Deus caritas est, 13). Si entra in questo movimento del dono soloquando se ne riconosce e se ne fa propria la logica. Ciò equivale a dire, nelnostro caso, solo se lo si accoglie nella fede.

Con una suggestiva immagine Luciano Monari afferma: «Se qualcunomi offre un regalo e io semplicemente lo intasco […] senza un sentimen-to di riconoscenza, senza una parola di ringraziamento, non si verificanessun evento di dono»13. La realtà in causa – l’Eucaristia – si manifestacome dono solo a chi si decide per il dono. Non si tratta, tuttavia, di unadecisione cieca. La logica del dono precede sempre ogni decisione, anchequella della fede. «Ogni volta che si porta a coscienza la vita, affermaBonandi, viene a coscienza anche il fatto [...] di vivere di questo dono: ecosì viene alla coscienza (morale) il dovere di vivere in gratitudine»14. Ilfatto di venire al mondo incorporati nel dono costituisce, pertanto, losfondo imprescindibile di ogni decisione per il dono.

Decidersi per il dono, quindi, è il primo passo. Questo ingresso neldinamismo della donazione, che permetterà al sacramento di manifestarela sua potenzialità santificatrice, fin da ora risignifica il presente stesso delcristiano. «Ogni istante del presente – afferma Marion – deve venirciincontro come un dono: il giorno, l’ora, l’istante ci vengono concessi nellacarità [...]. Se il cristiano definisce il proprio pane “pane quotidiano”, lo fainnanzitutto perché riceve il quotidiano stesso come pane, un cibo che,per quante riserve possa ammassare, dovrà sempre ricevere, ogni giorno,come un dono»15.

Mi decido per il dono perché mi ricevo in dono e, al tempo stesso, solonel momento in cui mi decido per il dono posso dire con verità che tutto èdono. In questo modo, la virtù della gratitudine – virtù eucaristica pereccellenza – viene ripensata «in senso fondamentale e totale: in essa l’uomo

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esiste ed agisce, è costituito come agente in quanto gratificato e grato»16. Ilprimo ritorno a beneficio della città lo si ha in questo modo. Il dinamismoeucaristico permette di guardare alla città con uno sguardo grato.

Il sacramento eucaristico, inoltre, offre alcuni criteri ermeneutici attra-verso i quali comprendere la valenza radicale del gesto d’amore in essosignificato. Cominciamo con l’evidenza che il «modo di essere» di Gesù,nell’Eucaristia, è quello del dono. Perché ci sia veramente dono, tuttavia,non basta la sola intenzione, ma è necessaria anche la realtà. Tutti noi per-cepiamo l’illusorietà del donare quando tra il donatore e il destinatarionon compare concretamente il dono. Per questo è necessario che anche lanostra riflessione si lasci guidare dalla priorità della presenza. Il Cristonell’Eucaristia non dona qualcosa, ma se stesso. Da qui la valenza eticadella presenza reale. Dio ci convoca nel dinamismo della donazione perchéfa realmente dono di sé, non solo intenzionalmente. La «presenza eucari-stica» nella città è il segno che il dinamismo della donazione non è privodel suo centro, non è una tensione inutile. A tale riguardo si comprendel’auspicio di La Pira quando sogna nella città la presenza di un tempio incui pregare.

Il racconto dell’ultima cena ci aiuta, inoltre, a cogliere l’intentio relati-va al senso che Gesù stesso vuole dare al gesto che sta per compiere: si trat-ta di un atto d’amore che si dona con la misura del «sino alla fine». La logi-ca della proesistenza di Gesù diventa il primo criterio per un’etica cristiana.In essa si riassume il significato della vita intera di Gesù,fino alla morte e risurrezione, così da rendere questo movi-mento di donazione e di comunione, presentenell’Eucaristia, chiave interpretativa dell’agire cristiano.L’essere-per-gli-altri di Gesù diventa l’imprescindibileparametro da cui partire. L’Eucaristia non isola e nonallontana dall’altro, ma genera una responsabilità costituti-va che attinge la sua ragione dalla disposizione fondamen-tale di Gesù. Preceduti da un dono che ci sorprende, lanostra libertà è liberata per il dono.

La vita eucaristicaL’ingresso nella dinamica della donazione eucaristica

determina una novità di vita per il cristiano. Quali sono,pertanto, le ripercussioni sociali per la persona che si ricomprende eucari-sticamente? La dimensione relazionale – quindi sociale – si riqualifica allaluce di quei criteri che, nella fede, l’Eucaristia dischiude. «Da qui prendeforma – afferma Benedetto XVI – la natura intrinsecamente eucaristicadella vita cristiana. In quanto coinvolge la realtà umana del credente nellasua concretezza quotidiana, l’Eucaristia rende possibile, giorno dopo gior-

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L’Eucaristia non isola enon allontana dall’altro,ma genera unaresponsabilitàcostitutiva che attinge lasua ragione dalladisposizionefondamentale di Gesù.Preceduti da un donoche ci sorprende, lanostra libertà è liberataper il dono.

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no, la progressiva trasfigurazione dell’uomo chiamato per grazia ad esseread immagine del Figlio di Dio. Non c’è nulla di autenticamente umanoche non trovi nel sacramento dell’Eucaristia la forma adeguata per esserevissuto in pienezza. Qui emerge tutto il valore antropologico della novitàradicale portata da Cristo con l’Eucaristia: il culto a Dio nell’esistenzaumana non è relegabile ad un momento particolare e privato, ma pernatura sua tende a pervadere ogni aspetto della realtà dell’individuo»(Sacramentum Caritatis, 71). Questo aspetto ha certamente una ripercus-sione sulla città stessa ed è qui che si può comprendere il modo in cui essaè raggiunta dal bene eucaristico.

Da quanto detto, emergono due dati rilevanti sul versante ecclesia-le/sociale. Il primo elemento è rappresentato dalla valenza critica che que-sta unione con Cristo implica. L’ermeneutica eucaristica, divenuta ora cri-terio etico per il cristiano, impedisce ogni forma di soggezione o di ade-guamento acritico e rassegnato all’ethos sociale vigente o prevalente. SeBabilonia e Gerusalemme convivono, resta comunque il compito del cri-stiano di non accondiscendere ingenuamente alla prima. Il credente nonpuò appiattirsi sulle convinzioni di una cultura superficiale ed autocentra-ta. Si tratta di una tensione positiva o meglio “di crescita”, senza la qualenon risulterebbe possibile nessun avanzamento nel bene.

Il secondo aspetto rilevante, invece, è rappresentato dal fatto che lapartecipazione all’Eucaristia fonda una nuova logica interna alle relazionidiscepolari. La fraternità che ne emerge non nasce da una necessità socia-le, ma dall’essere «rivolti verso un comune dono»17. L’essere-per-gli-altri diCristo non può che far emergere la necessità dell’essere gli-uni-per-gli-altri dei credenti verso «le moltitudini». Debitori del medesimo dono, icredenti vivono la carità e la fraternità all’interno del movimento di ritor-no nel quale la dinamica della donazione li ha inseriti. Inoltre essa pone ilcriterio normativo per un’etica eucaristica, che corrisponde esattamentealla misura del dono di Cristo. «Ogni cristiano – afferma Enzo Bianchi –deve essere un sito eucaristico nella ricezione della vita di Cristo e nell’of-ferta della propria. [...] Ecco perché il cristiano veramente eucaristico ino-cula diastasi di riconciliazione, di comunione, di vita nella polis in cuidimora, diventa portatore della buona notizia, dell’evangelo per gli uomi-ni»18. Il simbolismo della fractio panis, infine, evidenzia come non vi siacomunione senza lo spezzare il dono della propria vita per gli altri.

ConclusioniIl legame tra Eucaristia e città diviene esplicito alla luce della logica del

dono. La vita eucaristica è vissuta nella città. Essa porta al proprio internola comunità dei fedeli che riconosce, innanzitutto, il dono che la città è.Essa è il dato culturale attraverso il quale il dono si manifesta e di cui

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necessita. Allo stesso tempo, la città rappresenta lo spazio in cui vivere ildinamismo eucaristico, cioè quella novità relazionale che dall’Eucaristia ègenerata. L’Eucaristia, pur essendo celebrata nella comunità dei credenti,non dà origine ad un movimento chiuso. «Mangiando il corpo-donato,afferma Tillard – la comunità è chiamata a diventare, nella potenza cheesso le comunica, anch’essa corpo-ecclesiale-donato»19. La comunità cheformiamo è chiamata, in definitiva, ad additare al di là di se stessa, in dire-zione di ciò che non esiste ancora. Ciò che ancora non si vede, laGerusalemme celeste, diventa un segno credibile se chi, lasciandosi pla-smare dall’Eucaristia, rifiuta di costruire una città sulla violenza e control’uomo. In questo modo, città ed Eucaristia si intrecciano fino a svelare illoro profondo legame.

Note1Cfr. H. De Lubac, Cattolicismo. Aspetti sociali del dogma, Jaca Book, Milano1992.2Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane Sociali dei Cattolici Italiani,Un’agenda di speranza. Eucaristia e città (V cap.).3Cfr. E. Bianchi, Cristiani nella società, Rizzoli, Milano 2003, p. 157.4Cfr. H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica,Einaudi, Torino 1993.5E. Bianchi, Cristiani nella società, p. 140.6I. Calvino, Le città invisibili, Mondadori, Milano 1993, IX.7G. Frosini, Babele o Gerusalemme? Teologia delle realtà terrene I. La città, EDB,Bologna 2007, p. 131.8Cfr. Benedetto XVI, Discorso d’inaugurazione del Convegno della diocesi di Roma,da Avvenire del 17 giugno 2010.9E. Bianchi, Cristiani nella società, p. 149.10Agostino, Confessioni, VII 10, 16.11Cfr. H. de Lubac, Cattolicismo, pp. 56-66.12Cfr. L. Melina - J. Noriega - J. Pérez-Soba, Camminare nella luce dell’amore. Ifondamenti della morale cristiana, Cantagalli, Siena 2008, pp. 481- 517.13L. Monari, “Un solo pane, un solo corpo”. L’eucaristia nella vita della comunità cri-stiana. Lettera pastorale per l’anno 2009-2010, Brescia 2009, p. 18.14A. Bonandi, “Eucaristia: Sacramento e Virtù”, in L’intelletto cristiano, Glossa,Milano 2004, p. 538.15J.-L. Marion, Dio senza essere, Glossa, Milano 2008, p. 215.16A. Bonandi, Eucaristia: Sacramento e Virtù, cit., p. 522.17A. Bonandi, Eucaristia: Sacramento e Virtù, cit., p. 535.18E. Bianchi, Cristiani nella società, p. 155.19J.M. Tillard, Eucaristia e fraternità, O.R., Milano 1969, p. 42 [corsivo nostro].

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Regno Unito.Appunti su un Paese che cambia

Un’analisi dei risultati delle recenti elezioni britanniche, chepone particolare attenzione al modo in cui essi riflettono lefratture territoriali e le incongruenze politiche cheattraversano il RegnoUnito negli anni Duemila.

Arianna Giovannini

Il Regno Unito è spesso definito come «il Paese della tradizione»[Bogdanor, 2001] – ovvero un modello caratterizzato dalla supre-mazia del Parlamento di Westminster e da un sistema politicoessenzialmente bipolare e stabile. Il partito Laburista (Labour) e

quello Conservatore (Tory) sono i due principali competitori sullascena politica, seguiti dai Liberal Democratici (LibDem). I Labour rap-presentano l’area di (centro)sinistra, i Tory quella di centro-destra,mentre i LibDem nascono dalla fusione tra Liberali e Social-democra-tici del 1988.

A dispetto del proprio innato attaccamento alla tradizione, il Paesearriva alla soglia delle elezioni del 6 maggio 2010 con un forte deside-rio di cambiamento – dettato dalla crisi finanziaria apertasi nel 2008,dalla presenza di governi devoluti che si stanno radicando, e dalla cre-scente disaffezione dei cittadini nei confronti della classe politica diLondra. Per queste ragioni, la stagione elettorale si apre in un clima digrande attesa – ma si conclude all’insegna dell’incertezza.

Il Parlamento «appeso»La gestazione politica che porta

alla formazione del primo governodi coalizione nel Regno Unito dal1974, riflette, nei suoi tempi lunghie nei suoi toni alterni, l’umore di unPaese in fase di mutamento. Gli

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Arianna Giovanniniè dottoranda presso l’Institute of

Northern Studies, Leeds Metropolitan

University (UK) ed insegna Teoria

Politica e Scienze Sociali allo Sheffield

International College, University of

Sheffield (UK).

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elettori britannici sembrano prendere le distanze dai parametri tradi-zionali (le classi sociali, ad esempio) nello scegliere le proprie coordina-te di voto, producendo un risultato «atipico», caratterizzato in più zonedal ritorno in scena del territorio.

Come commentato dal sindaco (conservatore) di Londra Johnsonall’indomani del voto, «in queste elezioni l’elettorato ha punito inmaniera indiscriminata sia Tory che Labour e LibDem». Di fatto, il 6maggio nessun partito ottiene i 326 seggi necessari a formare una mag-gioranza autonoma e lo spettro del Parlamento «appeso»1 si materializ-za, aprendo la strada ad un governo di coalizione tra Tory e LibDem.In questo modo, il modello Westminster, prototipo del sistema mag-gioritario e sinonimo di bipolarismo e stabilità politica, subisce unforte colpo dall’interno. Il Regno Unito non è avvezzo (e non ama) lecoalizioni, ma si adatta di fronte all’evidenza di un voto scomposto,frammentato.

I conservatori di Cameron «vincono» ottenendo solo 307 seggi (conun modesto 36,1%, +3,8% rispetto al 2005) e si trovano «costretti» aformare una coalizione con i LibDem. I Laburisti, al governo dal 1997,escono dalla competizione elettorale perdendo il 6,2%. Sintomo di unpartito logorato dalle proprie lotte intestine e da una leadership (quelladi Gordon Brown) che non fa breccia sull’elettorato. Con il 29% deivoti, i Labour conquistano 258 seggi – uno dei peggiori risultati mairegistrati nella storia del partito. Inoltre, nemmeno i LibDem di NickClegg ottengono risultati particolarmente positivi. Sebbene a qualchesettimana dal voto i sondaggi2 dessero il partito in forte ascesa (con pic-chi del 33% al termine del primo dibattito televisivo tra i leader), la

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Tab.1 - I risultati delle elezioni politiche nel Regno Unito(*)Regno Unito Inghilterra Scozia Galles

Partiti Seggi Voti(%) +/- (%) Seggi Voti(%) +/- (%) Seggi Voti(%) +/- (%) Seggi Voti(%) +/- (%)

Conservatori 307 36.1 +3.8 298 39.6 +3.9 1 16.7 +0.9 8 26.1 +4.7

Laburisti 258 29.0 -6.2 191 28.1 -7.4 41 42.0 +2.5 26 36.2 -6.5

LibDem 57 23.0 +1 43 24.2 +1.3 11 18.9 -3.7 3 20.1 +1.7

Altri 28 11.9 - 1(a) 1.0(a) -0.1 6(b) 19.9(b) +2.3 3(c) 11.3(c) -1.3

7.1(d) 2.5(d) 6.3(d)

Totale 650 100 533 100 59 100 40 100

(*)Il caso dell’Irlanda del Nord (18 seggi) non viene qui discusso, poiché essa vota secondo un diverso sistema partitico.(a)Verdi; (b)SNP; (c)Plaid Cymru; (d)Altri.

Affluenza alle urne: 65%

Fonte Dati: BBC Elections

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E... «Clegg-mania» non si concretizza nell’urna. I LibDem si riassestano sul

23% (+1% dal 2005) rivelando la natura effimera della propria recentepopolarità.

La personalizzazione della campagna elettoraleLe intense settimane di campagna elettorale si risolvono dunque in

modo contraddittorio, senza nessun vero vincitore. Questo dato si tra-duce in «uno schiacciante atto d’accusa, che punta il dito contro lamancanza di vision»3 mostrata da Tory, Labour e LibDem – accomuna-ti, nelle loro strategie e campagne, da una forte enfasi sui leader e dal-l’assenza di un progetto politico chiaro e convincente.

Sul versante conservatore, Cameron non riesce né a tradurre la pro-pria retorica in concretezza politica né a liberarsi completamente dellapesante eredità lasciata al partito da Margaret Thatcher. L’idea di «rin-novamento e progresso» racchiusa nello slogan «Big Society»4 alla fine sisgonfia, e non persuade del tutto l’elettorato.

D’altro canto, Brown risente paradossalmente del peso della pro-pria esperienza (e della propria età5): i suoi cauti messaggi, volti adammonire gli elettori nei confronti dei potenziali rischi legati all’ecces-so di cambiamento politico in un momento di grave crisi economica, eil suo tono sempre dimesso e distaccato non riescono ad attecchire.Brown dimostra di «voler essere un uomo per il popolo, ma fallisce nel-l’impresa di dimostrarsi un uomo del popolo»6.

Clegg, infine, tenta di dare voce al cambiamento promettendoriforme radicali dello Stato, puntando sull’innovazione a tutto campo,dal sistema elettorale all’ecologia. Il suo carisma e la sua innata telege-nicità lo sostengono nelle settimane di campagna elettorale – ma nonsono sufficienti a fare la differenza.

Emerge dunque come la scelta di intraprendere un confronto elet-torale con campagne di chiara ispirazione americana7 (improntatemolto più sull’immagine dei leader che sui contenuti delle politiche)abbia essenzialmente fallito nel cogliere l’umore dell’elettorato. Nelsegreto dell’urna, gli elettori dimostrano di avere molto più a cuore leproblematiche del proprio collegio piuttosto che l’appeal dei diversileader – soprattutto in un momento in cui la fiducia nella classe politi-ca di Londra è ai minimi storici.

La questione territoriale: il voto «diviso» tra centro eperiferia

L’idea che gli elettori britannici abbiano votato al centro guardandoalla dimensione locale si riflette nella distribuzione dei consensi sul ter-ritorio. Uno sguardo ai risultati disaggregati per nazioni mostra un

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Regno estremamente dis-Unito in termini di affiliazione partitica, met-tendo in luce quella che Hassan [2010] definisce «la politica delle quat-tro nazioni». Va ricordato che il Regno Unito è uno stato multinazio-nale, in cui tre delle quattro nazioni componenti posseggono dal 19998

un proprio governo devoluto, ma continuano a votare alle elezioni diWestminster. L’analisi dei risultati indica con chiarezza le scelte nonallineate di queste realtà.

In Scozia si registra un aumento nella distanza (o meglio frattura)col centro [Jeffery, 2010]. Di fatto, i Tory continuano a perdere a Norddel Vallo di Adriano. Il partito risultato «vincitore» a Westminster siposiziona solo al quarto posto, confermando una tendenza iniziatanegli anni ’80 ed aggiudicandosi un solo seggio, come nel 2005, con il16,7%. I Labour, invece, continuano a vincere sul fronte scozzese, otte-nendo un incremento del +2,5%, pari ad un risultato netto di 41 seggi(42%). Il Partito Nazionalista Scozzese riconferma i suoi 6 seggi con il19,9%, mentre i LibDem registrano un risultato molto peggiore rispet-to al resto del Regno Unito: 18,9% (-3,7% dal 2005).

Per contro, in Galles (nazione tradizionalmente «rossa») i Tory sem-brano essere riusciti a liberarsi, almeno in parte, del retaggio thatche-riano, portando i propri seggi da 3 ad 8 (26,1%). I Labour riscuotonoinvece un’imbarazzante sconfitta, raggiungendo solo il 32,6% (-6,5%rispetto al 2005) – la percentuale più bassa mai ottenuta nel Paese. ILibDem perdono un seggio, fermandosi a 3 (20,1%), così come inazionalisti gallesi (Plaid Cymru) che scendono all’11,3%.

Infine, va notato come in un Regno Unito post-devolution il grandeescluso dal processo, l’Inghilterra, sia la cartina tornasole di un Paese«diviso» [Hazel, 2006]. Se da un lato il voto della nazione inglese risul-ta nettamente a favore dei Tory (39,6% contro il 28,1% dei Labour e il24,2% dei LibDem), la distribuzione regionale rivela invece una seriedi trend contraddittori, che sottolineano la presenza di distinte appar-tenenze territoriali e partitiche, spesso trascurate. Il Sud-Est si riconfer-ma vera patria dei Tory, con picchi del 49,9%. Mentre il Norddell’Inghilterra continua a votare Labour. Nella regione del Nord-Est,ad esempio, il partito ottiene più voti che in Scozia (43,6%). ILibDem, invece, registrano una forte ascesa soprattutto nella regionedel Sud-Ovest, in cui raggiungono il 34,7% dei consensi.

L’analisi del voto mostra dunque un Paese attraversato da profondefratture territoriali (nazionali e regionali), sulla scia delle quali stannoprendendo forma modelli divergenti di affiliazione politica. In sostan-za, gli equilibri di Westminster sembrano essere stati definiti per buonaparte dalle preferenze elettorali di una sola area del Paese – quella piùpopolosa (e prospera): il Sud-Est dell’Inghilterra [Steed, 1986]. Il defi-

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cit democratico implicito in questa geografia elettorale distorta rischiadi far emergere spinose questioni territoriali che potrebbero intralciareil percorso della neonata coalizione di governo.

Lo scenario post-elettoraleA due mesi dalle elezioni, lo scenario politico del Regno Unito è

ancora in fase di assestamento. Da un lato, i Labour faticano a metabo-lizzare la sconfitta elettorale e a trovare una nuova leadership dopo ledimissioni di Brown. Dall’altro, l’inconsueta coalizione Tory-LibDem

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(figlia delle necessità dettate dagli eventi più che di concrete affinitàpolitiche) non ha perso tempo nel mostrare il proprio carattere: ridu-cendo le distanze dal conservatorismo di stampo thatcheriano prese daCameron in campagna elettorale ed evidenziando le incoerenze deipropri equilibri interni. In questo senso, la programmazione del bilan-cio e la riforma elettorale saranno il primo banco di prova per la coali-zione.

Nel tentativo di far fronte alla crisi che attanaglia il Paese, il gover-no ha da subito iniziato ad «operare con un bisturi affilato su uno Statogiudicato sovradimensionato»9 annunciando nel budget per il prossimoanno tagli alla spesa pubblica per 113 miliardi di sterline, che colpiran-no soprattutto welfare e pubblico impiego. L’ago della bilancia dellacoalizione sembra dunque pendere nettamente a destra, privilegiandomisure economiche di stampo conservatore (e neoliberista).L’immagine dei LibDem esce senz’altro scalfita da questo scenario dare-take degli anni ’80, soprattutto nella sua componente progressista.Inoltre, mentre scriviamo, Nick Clegg ha da poco proposto l’indizionedi un referendum atto a sostituire il sistema elettorale del First-Past-the-Post con il più blando Alternative Vote System10, accantonando l’idea delproporzionale (cavallo di battaglia LibDem in campagna elettorale).Un compromesso non da poco, volto a bilanciare le tendenze modera-te dei Tory e quelle riformiste dei LibDem – a riformare nel solco dellatradizione. Fortemente osteggiata dall’ala tradizionalista dei Tory eavversata da buona parte dei deputati laburisti, la riforma elettoralegiocherà un ruolo chiave nel decidere le sorti della coalizioneCameron-Clegg.

ConclusioniL’analisi qui sviluppata ci parla di un Regno Unito in fase di cam-

biamento, sotto molti punti di vista. Da un lato, le difformità di votoregistrate nelle diverse nazioni sottolineano la necessità di indirizzare efornire risposte alle disparità (e alle fratture) implicite nel modellodevolutivo asimmetrico britannico – in termini non solo politici, maanche economici e sociali, quanto più in una situazione di crisi comequella attuale. Inoltre, l’idea stessa di mutamento è racchiusa nell’atipi-ca coalizione al governo, in cui la tradizione (cuore pulsante dei Tory) eil nuovo (incarnato dal leader LibDem Clegg) cercano di trovare unritmo negli accordi, procedendo principalmente a compromessi.

All’indomani del voto il Regno Unito si presenta quindi come unPaese politicamente «diviso», guidato da una coalizione dal caratteredeciso, che deve però ancora dimostrare compattezza e progettualità.Sullo sfondo rimane il partito Laburista – atomizzato, ed intento a

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mesi a venire gli sviluppi di questa antica democrazia, modello di rife-rimento per l’Europa e per il mondo occidentale.

Riferimenti BibliograficiV. Bogdanor, Devolution in the UK, Oxford, Oxford University Press, 2001.G. Hassan, UK Election: Facts and figures on the fragmentation of the UK, in «OpenDemocracy» – reperibile al sito: http://www.opendemocracy.net/ourkingdom,2010.R. Hazel, The English Question, Manchester, Manchester University Press,2006.C. Jeffery, An Outbreak of Consensus; Scottish Politics After Devolution, in«Political Insights», 2010, Vol. 1, No.1, pp. 32-37.M. Steed, The Core-Periphery Dimension of British Politics, in «PoliticalGeography Quarterly», 1986, Vol. 5, No.4, pp. S91-S103.

Note1Dall’inglese hung Parliament: un Parlamento senza maggioranza assoluta.2Si veda: http://ukpollingreport.co.uk/blog/voting-intention3Fonte: http://www.politics.co.uk/comment/elections4Lo slogan allude alla creazione di una società fondata sulle relazioni di quar-tiere, sul mutuo supporto, sulla «devoluzione all’individuo» – come panaceadella «Broken Society» ereditata dai Labour.5Brown (59 anni) è considerato un leader «vecchio», soprattutto paragonato aCameron (44) e Clegg (43).6Fonte: http://www.politics.co.uk/comment/elections7Per la prima volta nella storia politica britannica, ad esempio, si sono tenuticonfronti diretti televisivi tra i leader.8Un Parlamento in Scozia e Irlanda del Nord ed un’Assemblea Nazionale inGalles. L’Inghilterra, invece, con l’eccezione di Londra, non gode di alcunaforma di devolution politica.9The Guardian, 26 giugno 2010.10Sia il FirstPastThePost che il Voto Alternativo sono sistemi maggioritari basa-ti su collegi uninominali. In termini pratici, il FPTP garantisce stabilità favo-rendo il partito del candidato che ottiene il maggior numero di voti e penaliz-zando tutti gli altri competitori. Il VA può portare invece a risultati inaspetta-ti: si possono esprimere più preferenze in modo ordinale e vince il candidatoche riesce ad ottenere il 50% dei voti.

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Lo scorso 31 marzo 2010 sono stati depositati presso l’Ufficiodella Corte di Cassazione tre quesiti referendari aventi rispet-tivamente ad oggetto l’art. 23 bis della l. n.133/2008 (cosìcome modificato dalla l. n. 166/2009); l’art. 150 del d.lgs n.

152/2006; e l’art. 154 del d.lgs. n. 152/2006 limitatamente a quellaparte del primo comma che dispone che la tariffa sia determinatatenendo altresì conto «della remunerazione del capitale investito».

Al di là delle dichiarazioni dei promotori e del dibattito che si èaperto sulle modalità di gestione del servizio idrico, dire con precisionequale sia l’effetto giuridico dei tre quesiti non è facile, né del resto èfacile prevedere se tali quesiti saranno dichiarati ammissibili dallaCorte costituzionale.

Per meglio cercare di comprendere il senso dell’iniziativa referenda-ria e, al tempo stesso, le difficoltà giuridiche di cui si è detto, può esse-re utile ripercorrere, seppur sinteticamente, l’evoluzione normativadegli ultimi anni in tema di gestione dei servizi pubblici locali e, speci-ficamente, del servizio idrico.

Nel 1990 l’art. 22 della l. n.142 prevedeva che la gestione deiservizi pubblici di rilevanza econo-mica e imprenditoriale potesseavvenire, sulla base di una sceltadiscrezionale degli enti, in econo-mia, in concessione a terzi (con

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Francesca Dealessi e Andrea Giorgis

L’(incerto) oggetto

I quesiti referendari non esauriscono il dibattito sullaproprietà e sulla gestione della risorsa acqua. Ed è pressochéimpossibiledefiniresesiapiùfondatalasfiducia (deipromotori)nella capacità regolativa dei soggetti pubblici, oppure lasfiducia (del legislatore) nella capacità di questi ultimi digestire con efficienza un servizio senza lo stimolo dellaconcorrenza.

Francesca Dealessiè avvocato amministrativista, esperta

nel settore dei servizi pubblici locali.

Andrea Giorgisè docente di Diritto costituzionale

presso la Facoltà di Giurisprudenza

dell’Università di Torino.

giuridico deireferendum sull’acqua

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gara), oppure ancora (con affidamento diretto, senza gara) a mezzo diazienda speciale (ex municipalizzata) o di società per azioni a prevalen-te capitale pubblico locale: il modello più diffuso era quello dell’azien-da speciale, in continuità con l’assetto preesistente e con il processo dipubblicizzazione della gestione dei servizi locali avviato all’inizio delsecolo attraverso le aziende municipalizzate.

L’art. 12 della l. 23 dicembre 1992 n. 498 e il d.p.r. 16.9.1996 n.533 aggiunsero il modello della società mista senza vincolo di proprietàmaggioritaria pubblica e con il socio privato selezionato mediante gara;l’art. 17, comma 58, della l. 127/97, aggiunse inoltre il riferimento allaforma giuridica della società a responsabilità limitata (s.r.l.).

Nel 1994 venne approvata la prima specifica legge dedicata al servi-zio idrico integrato: l’art. 9 di tale legge (l. n. 36 del 5 gennaio 1994,c.d. legge Galli), quanto alle forme di gestione del servizio idrico, rin-viava alla legge n. 142/90; nel contempo, l’art. 13 introduceva il prin-cipio della tariffa e quindi del corrispettivo, precisando che la tariffadovesse essere determinata tenendo conto, tra l’altro, dell’adeguatezzadella remunerazione del capitale investito. Si trattò di una innovazionesignificativa che, a differenza di altre, verrà confermata nelle successivediscipline: le risorse necessarie per lo svolgimento del servizio nondovevano più essere reperite dall’insieme dei cittadini contributiva-mente capaci (attraverso la fiscalità generale), ma dai soli fruitori delservizio. L’obiettivo dell’innovazione era quello di contenere sia i con-sumi (di una risorsa scarsa che era - ed è - opportuno non sprecare), siai costi di gestione del servizio medesimo.

Nel 2000 venne quindi approvato il nuovo Testo unico degli entilocali (d. lgs. n. 267/2000), il quale all’art. 113, per quanto concerne imodelli di gestione, riprendeva i contenuti dell’art. 22 l. n. 142/90,mentre per quanto riguarda le modalità di finanziamento ribadiva ilprincipio del corrispettivo, e all’art. 117 prevedeva che la tariffa fossecalcolata, tra l’altro, secondo il criterio della adeguatezza della remune-razione del capitale investito, coerente con le prevalenti condizioni dimercato.

Nel 2001 si ebbe una svolta importante in ordine alla natura giuri-dica e alle modalità di scelta dei soggetti gestori e al rapporto tra pub-blico e privato: il legislatore (con l’art. 35, commi 8-9, della l. 28dicembre 2001 n. 448) prescrisse agli enti locali di trasformare, entro il31 dicembre 2002, le aziende speciali che gestivano i servizi di cuiall’art. 113 t.u. n. 267/2000 in società di capitali e, qualora detenesse-ro la maggioranza del capitale delle società per la gestione di servizipubblici locali e fossero proprietarie anche delle reti e infrastrutture,prescrisse di scorporare, entro un anno, tali reti e infrastrutture, e di

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conferirle a società a capitale pubblico incedibile. Nel contempo, attra-verso lo stesso art. 35, modificò l’art. 113 del TUEL e previde che l’e-rogazione del servizio, da svolgere in regime di concorrenza, avvenissecon conferimento a società di capitali individuate attraverso l’espleta-mento di gare con procedure ad evidenza pubblica.

Nel 2003 il legislatore fece marcia indietro: il d.l. n. 269/03 (con-vertito nella l. n. 326/03) modificò infatti nuovamente l’art. 113 deld.lgs. n. 267/2000 e reintrodusse al comma 5 tre possibili modelliorganizzativi: società di capitali selezionate con gara (lett. a); societàmiste con il socio privato selezionato attraverso gara conforme allenorme interne e comunitarie in materia di concorrenza (lett. b); societàa totale capitale pubblico che svolgono la parte più importante dellaloro attività a favore degli enti pubblici soci e sulle quali questi ultimiesercitano un controllo «analogo» a quello esercitato sui propri servizi(c.d. società «in house» secondo la definizione di origine comunitaria)per affidamento diretto (lett. c).

La retromarcia non durò molti anni. Nel 2006 il legislatoreapprovò il Codice dell’ambiente (d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152), ilquale (tra l’altro) abrogò espressamente la c.d. legge Galli e all’art.150 dettò una disciplina specifica delle modalità di gestione del ser-vizio idrico integrato: l’art. 150, nel richiamare i modelli di gestionedell’art. 113, comma 5, d.lgs. n. 267/2000, introdusse infatti la gra-duazione fra la modalità principale, la gara - lett.a), e quelle di cuialle lett. b) e c).

Infine, con l’art. 23 bis (d.l. 25.6.2008 n. 112, inserito dalla legge diconversione 6.8.2008 n. 133 e modificato dall’art. 15 d.l. 25.9.2009 n.135, convertito con modificazioni in legge 20.11.2009 n. 166) il legi-slatore ha previsto che gli enti locali possano scegliere, per la gestione ditutti i servizi pubblici a rilevanza economica, compreso quindi il servi-zio idrico, (essenzialmente) tra due soli modelli: quello degli operatorieconomici individuati con gara e quello delle società miste costituitecon gara c.d. «a doppio oggetto» (la selezione del socio e l’attribuzionead esso di compiti operativi); l’in house è disciplinato dal comma 3 solopiù come ipotesi eccezionale (in presenza di particolari esigenze territo-riali e sociali e previo parere dell’Autorità garante della concorrenza e delmercato). Con l’art. 23 bis (nel testo modificato nel 2009) il legislatoreha inoltre previsto la scadenza al 31.12.2011 (anche) degli affidamentidiretti alle società in house, salvo radicali trasformazioni di queste ultime(con ingresso di soci privati) o il sussistere di circostanze eccezionali. Lanorma merita di essere evidenziata perché determinerà il superamentodi tutte quelle gestioni pubbliche che, grazie a regimi transitori mai bendefiniti (art. 35 l. 448/2001) o comunque salvaguardanti (art. 113,

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comma 15 bis, t.u. 267/00), hanno continuato ad operare in virtù diaffidamenti diretti, senza aver partecipato ad alcuna gara.

Per quanto riguarda il primo quesito, avente ad oggetto l’intero art.23 bis – al di là del presunto carattere «comunitariamente necessario»della disciplina in oggetto, che potrebbe indurre la Corte a considerareinammissibile un pronunciamento popolare – si potrebbe sostenereche se l’art. 23 bis venisse abrogato, tutti i servizi pubblici a rilevanzaeconomica tornerebbero a essere disciplinati dalle disposizioni di cuiall’art. 150 del d.lgs. n. 152/2006 e, quindi, dalle disposizioni di cuiall’art. 113 del Testo Unico degli Enti Locali (d.lgs. n. 267/2000): isoggetti aggiudicatari sarebbero perciò nuovamente liberi di sceglieretra modello privato, modello misto e modello in house (seppur con ilimiti di gerarchia stabiliti dall’art. 150 e quelli esplicitati dalla giuri-sprudenza comunitaria e amministrativa), mentre le aziende specialirimarrebbero comunque sottoposte all’obbligo di trasformarsi in s.p.a.disposto dall’art. 35, comma 8 della legge n. 448/2001.

L’ipotesi trae la propria plausibilità dal carattere speciale dell’art.150 d.lgs. n. 152/2006 e dal carattere generale della disciplina a cuiesso espressamente rinvia; tuttavia - come riconoscono gli stessi propo-nenti – non si può del tutto escludere lo scenario del «vuoto legislati-vo», muovendo dal diverso presupposto che l’art. 150 del d.lgs. n.152/2006 e l’art. 113 TUEL siano stati abrogati e non sia possibile laloro reviviscenza. In tal caso, ad avviso dei proponenti, il «vuoto nor-mativo» sarebbe colmabile dalla disciplina di cui all’art. 114 TUEL equindi il servizio idrico sarebbe gestibile attraverso un’azienda speciale.Per dare seguito a questo scenario occorrerebbe però considerare abro-gato anche l’art. 35, comma 8, della legge n. 448/2001 che ha dispostol’obbligo per le aziende speciali di trasformarsi in s.p.a.: ma nessuno deitre quesiti parrebbe ricomprendere (direttamente o indirettamente)tale disposizione.

Ancora più incerte, dal punto di vista giuridico, sono le conseguen-ze normative dell’accoglimento del secondo quesito, avente ad oggettol’art. 150 del d.lgs. n. 152/2006.

Tale referendum, occorre subito dire, assume un significato giuridi-co rilevante solo se il precedente quesito viene accolto, ovvero se l’art.23 bis viene abrogato e se si ammette la reviviscenza della normativa daquest’ultimo a sua volta abrogata. L’art. 150 del Codice dell’Ambienteè, infatti, una disposizione (di carattere speciale) che fu abrogata(implicitamente) dall’art. 23 bis e che, per essere sottoposta a referen-dum, occorre ipotizzare che sia tornata ad esplicare i suoi effetti.

Senza entrare nel merito dei possibili problemi di ammissibilità –connessi soprattutto al fatto che si tratta di una disciplina abrogata e

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che il quesito di per sé, autonomamente considerato, pone agli elettoriuna questione puramente ipotetica, priva di rilievo giuridico – qualorail quesito venisse accolto e l’art. 150 abrogato – successivamente e/ounitamente all’art. 23 bis – si potrebbero ipotizzare più scenari: a)quello, argomentato dai proponenti, della contestuale (ed implicita)abrogazione, per il servizio idrico integrato, anche dell’art. 113 delTUEL (in quanto espressamente richiamato dall’art. 150) e quindidella possibile applicazione dell’art. 114 d.lgs. 267/2000, che signifi-cherebbe il ritorno alla gestione tramite aziende speciali; b) quello del-l’applicazione dell’art. 113 TUEL, in quanto norma generale per lagestione di tutti i servizi a rilevanza economica; c) quello del vuotolegislativo. Per dare seguito al primo scenario, tuttavia, come si è sotto-lineato più sopra, occorrerebbe considerare abrogato anche l’art. 35,comma 8, della legge n. 448/2001.

Altrettanto incerto è l’effetto giuridico dell’accoglimento del terzoquesito. Abrogando l’inciso, contenuto nell’art. 154, primo comma,del d.lgs. n. 152/2006, che prevede che la tariffa sia determinata tenen-do altresì conto «dell’adeguatezza della remunerazione del capitaleinvestito» non è affatto detto che venga meno il meccanismo del corri-spettivo e della tariffa e che il servizio idrico integrato torni ad esserefinanziato attraverso la fiscalità generale. Innanzitutto perché l’art.154, pur senza l’inciso in esame, continuerebbe a prescrivere il princi-pio del corrispettivo; inoltre, perché è quantomeno dubbio che inassenza dell’esplicitazione relativa alla «remunerazione del capitaleinvestito» non sarebbe più possibile ipotizzare la presenza di un gestoreprivato.

Senza dubbio più chiaro è, invece, il significo politico (soggettivo)dell’iniziativa referendaria: come si legge in tutti i documenti esplicati-vi dei quesiti, l’intento dei promotori è quello di escludere la possibilitàche il servizio idrico integrato sia gestito da un soggetto (sostanzial-mente, o anche solo formalmente) privato. Ad avviso dei promotorioccorre cioè abrogare la distinzione, introdotta dal legislatore nel 2001,tra proprietà (del bene e delle reti, che può essere solo pubblica) egestione (del servizio, che può essere svolta da un soggetto del tutto oin parte privato, attraverso forme comunque di diritto privato), edoccorre ripristinare una gestione integralmente ed esclusivamente pub-blica, sottraendo così il bene acqua da qualsiasi influenza delle logichedel mercato e del profitto.

All’origine di questa proposta vi è una radicale sfiducia nella capa-cità del soggetto pubblico di disciplinare e, quindi, di controllare l’a-zione di gestori privati (che, essendo mossi dalla ricerca del profitto,tenderebbero a far lievitare i costi per gli utenti, cercando di risparmia-

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ICO... re sugli investimenti e sul lavoro): tra il gestore del servizio e il proprie-

tario formale del bene – si sostiene - vi è una tale asimmetria di infor-mazioni da rendere pressoché irrilevante qualsiasi potere di controllo edi indirizzo del soggetto pubblico.

All’origine del processo avviato dal legislatore di separazione traproprietà (del bene) e gestione (del servizio), vi è l’opposta convinzionesecondo la quale l’introduzione di dinamiche concorrenziali e l’ingres-so di privati nella gestione dei servizi pubblici non comporti di per sé laprivatizzazione (di fatto) dei beni, né sia incompatibile con la garanziadel fondamentale diritto di ogni essere umano di poter disporre di unaquantità adeguata di tali beni: ma possa contribuire a migliorare l’effi-cacia e l’efficienza della gestione.

Definire in astratto se sia più fondata la sfiducia (dei promotori)nella capacità regolativa dei soggetti pubblici, oppure la sfiducia (dellegislatore) nella capacità di questi ultimi di gestire con efficienza unservizio (se non vi è lo stimolo della concorrenza), è pressoché impossi-bile: e in ogni caso una seria disamina dei vantaggi e dei limiti deidiversi modelli di gestione richiederebbe ben altro spazio e, soprattut-to, approfondimenti di carattere economico. Tuttavia, ci sembraopportuno richiamare l’attenzione sull’importanza degli aspetti fattua-li del contesto nonché sull’importanza delle modalità e dei limiti concui si possono attuare le diverse opzioni: la durata dell’affidamento delservizio, le condizioni del contratto, il carattere più o meno strutturatoe autonomo degli organismi di controllo e di raccolta delle informazio-ni, la dimensione del bacino degli utenti, il meccanismo di definizionedei prezzi più o meno capace di riflettere il diverso valore d’uso (del-l’acqua per la piscina o per la neve artificiale da quella, ad esempio, perl’alimentazione o per l’igiene), la presenza o l’assenza di una rete ade-guata e di finanziamenti pubblici sufficienti, la presenza o l’assenza diuna precedente gestione pubblica “virtuosa” - per fare solo alcuni esem-pi – sono infatti profili che influenzano le stesse caratteristiche struttu-rali e operative di ciascun possibile modello di gestione.

Ma di questi aspetti, per così dire collaterali, ma (talvolta) decisivi, iquesiti non parrebbero occuparsi.

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«Regolarmente ogni quattro anni il campionato mon-diale di calcio si dimostra un evento che affascina cen-tinaia di milioni di persone. Nessun altro avvenimen-to sulla Terra può avere un effetto altrettanto vasto, il

che dimostra che questa manifestazione sportiva tocca qualche elemen-to primordiale dell’umanità e viene da chiedersi su che cosa si fonditutto questo potere di un gioco»1.

Ha sorpreso e non poco che papa Benedetto XVI abbia scritto dicalcio. Era il 1985 quando il cardinal Joseph Ratzinger rifletteva e com-mentava il “potere” del gioco del calcio. I campionati del mondo nellaprima edizione africana, in una terra segnata da forti contraddizioni edove enormi sacche di povertà, di sottosviluppo, minano il processo dipacificazione razziale e offuscano lo sguardo verso il futuro, hannoofferto l’occasione per rilanciare anche una domanda provocatoriaposta nello stesso testo: «In che cosa risiede il fascino di un gioco cheassume la stessa importanza del pane?»2. È forse una forma di «evasionedalla serietà schiavizzante della vita quotidiana e della necessità di gua-dagnarsi il pane, per vivere la liberaserietà di ciò che non è obbligato-rio e perciò bello»3?

Il Sudafrica è stato per unbreve periodo il palcoscenico diuno spettacolo unico, un palco-scenico planetario aperto su

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Il gioco, una vita.

Lo sport non può essere riferito solo alla conquista dellasupremazia di un atleta sull’altro, di una nazione sull’altra, marappresentaunasfidaacuisimbolicamentesiamochiamati tutti.La sfida di una cultura sportiva che recupera il suo specificovocabolario valoriale: fatica, sacrificio, perfezionamento,metodo,preparazione, tenacia, allenamento,ricercadelmeglio.

Mario Lusekè sacerdote e direttore dell’Ufficio

Nazionale della Conferenza Episcopale

Italiana per la Pastorale del Tempo

libero, del Turismo e dello Sport.

Se andiamo in profondità

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un’immensa platea globalizzata. Su quel palcoscenico si sono con-centrati gli sguardi del mondo: alcuni si sono fermati solo in super-ficie, altri sono andati in profondità, sono andati oltre l’evento, oltreil calcio, oltre le vittorie e, per noi, le sconfitte: su quel palcosceniconon c’era solo uno sport ma un continente. L’Africa, forse come nonmai, aveva puntati i riflettori del mondo. Quei riflettori non si sonospenti sui drammi del continente, sulle violenze, sulle lotte, sullalotta grande per la sopravvivenza. Sappiamo, infatti, che gli eventisportivi internazionali (Olimpiadi, Campionati del mondo equant’altro) sono un’occasione di cambiamento, un’occasione perrilanciare quella sfida che spesso si opacizza e scompare, di mettereal centro l’uomo e la sua dignità. Lo sport si considera un laborato-rio di riscatto, di promozione, di valori e di pace. Ma quegli stessiriflettori hanno evidenziato accanto alle sue potenzialità anche le sueambiguità: la pervasiva invadenza economica e commerciale sullosport, che di fatto trasforma quel piacere in una macchina economi-co-finanziaria globalizzata.

Queste ambiguità reclamano una nuova cultura dello sport chesuperi ormai quella visione consolidata che abbina la parola “sport” adue sole altre parole: “mercato” e “spettacolo”. Si dice che lo sport rap-presenti il modello di società in cui viviamo e si adegui ai criteri propridelle culture vincenti. «Vedete come gioca una generazione oggi e forsevi troverete il codice della sua cultura» affermava McLuhan. La culturavincente oggi spesso considera l’uomo o “peso” o “zavorra” o “esubero”o “merce”. E la vita dell’uomo “vale” in funzione di tale visione: vienerespinto o accolto in base al suo “valore” (di merce). La componenteeconomica è diventata dominante soprattutto nel calcio ed è legata allasua spettacolarizzazione. Calcio-mercato-spettacolo sono un sistema arischio etico. Le “pazzie” del calciomercato non provocano più datempo forme di resistenza etica. E forse questa dimensione mercantileè all’origine del calo di passione, tensione, sfida, estro, capacità atleti-che di tanti nostri “campioni”.

Ci si accorge di questo nel momento della sconfitta: la ricerca delcolpevole fa rimuovere le cause. Chi fa sport sa che all’origine di unasconfitta sul campo ci sono altre sconfitte, altre “partite” perse, nonultima quella di applicare troppo “mercato” allo sport che porta ineso-rabilmente alla svalutazione, “cosificazione”, alterazione del valoreuomo. Ed è proprio sulla trasformazione antropologica che lo sport vivela sua sfida, che si evidenzia e si fa visibile nella figura dell’atleta. Il pro-tagonista è lui: per il ruolo che assume nella società mediatica, per lasua prestanza fisica ed estetica, per la sua rilevanza commerciale, per il

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ruolo di opinion leader a cui assurge e quindi al ruolo di trainare con-sensi, attrattiva, coinvolgimento del grande pubblico.

E l’atleta va “costruito” più che “allenato”. E per la sua “costruzione”diventano determinanti l’apporto della farmacologia, della scienzanutrizionale, per cui accanto all’espandersi della dominanza economicadiventa ossessivo l’imperversare in tanti sport del doping4. Anche ildoping interroga sulla concezione della persona umana, sulla visionedella vita e rivela la cultura che tocca i principi dell’essere e dell’esistereumano. Non è solo un problema medico-sanitario. Il doping prima diessere un abuso farmacologico è una grave lesione dell’unità della perso-na e non ha alcuna giustificazione: né umana, né sportiva. L’uso diffusodel doping insinua la convinzione che la vicenda sportiva e agonistica èpriva di qualità, di spessore, di senso etico. Questi due elementi ci dico-no quale scenario si apre. Uno scenario che nello sport tocca snodi cru-ciali non solo della visione generale dell’uomo, della sua identità comepersona umana, ma anche del futuro dello stesso sport. Tutto rischia didiventare mito. E al mito si concede tutto, nel bene e nel male: guadagnimiliardari, l’inganno del doping, la furbizia di chi trucca i bilanci, lescommesse clandestine, la violenza che fa capolino nelle curve.

Il tifo estremo di alcune curve non ha origine da forme esasperate dirivalità sportiva, ma nasce, cresce, si sviluppa e poi si trasforma in vere“cosche” del tifo, solo per la volontà di mettere le mani sul business-cal-cio. Gli affari legati al settore degli stadi e degli spazi sportivi offronoun panorama desolante di un tifo che in molti casi ha cessato di essereentusiasmo, passione, aggregazione, socialità, festa. Spesso al mondodel tifo si è costretti ad applicare norme rigorose di pubblica sicurezza:trasferte vietate, tessera del tifoso, biglietti nominali5.

Eppure la Chiesa, nonostante le tante ambiguità, ha sempre guarda-to con simpatia al mondo dello sport. La sua azione da sempre, infatti,è stata rivolta all’uomo nella sua piena verità e dimensione: e non di unuomo astratto, ma dell’uomo concreto. Ha cercato di far vivere la paro-la del Vangelo ed inserire la vita nuova dello Spirito in ogni manifesta-zione umana, quindi anche nel campo dello sport6. Ha compreso chelo sport è una manifestazione tipica del nostro tempo. È lo specchio incui si riflettono i tratti caratteristici e le contraddizioni della nostramodernità: l’esaltazione della corporeità e dell’immagine; il carico delladisciplina come “ascesi laica”; il traumatico rapporto lavoro-tempolibero; la tensione per un continuo progresso; come già evidenziato, lalogica di mercato e modello aziendalistico; l’esaltazione delle doti indi-viduali. L’agire pastorale della Chiesa, il magistero, il vissuto ecclesialehanno fatto sì che «lo sport fosse di casa nella Chiesa»: con il gioco e losport essa si è inserita tra i ragazzi e i giovani in modo semplice ed effi-

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IN... cace non per sfornare “campioni” ma «l’uomo nella completezza della

sua persona che deve diventare un modello per milioni di giovani, iquali hanno bisogno di leader e non di “miti”»7.

L’interesse pastorale non è stato mai interessato, rivolto cioè a “cat-turare” o “battezzare” lo sport e tantomeno ha significato “invasioni dicampi” non propri, ma ha avuto l’obiettivo di dare un’anima, quasi uncondurre lo sport alla sua piena verità e di aiutare gli uomini che lovivono nel loro cammino di salvezza, nella prospettiva di un umanesi-mo cristiano8. La Chiesa non si è limitata «a richiamare alcuni principietici da applicare allo sport come ad un settore a sé stante, ma di ritro-vare e vivere la verità cristiana sull’uomo e sulla società, che illumina evalorizza anche l’esperienza del gioco, del divertimento e dello sport»9.«L’esperienza conferma che il limitarsi a tracciare e applicare le “regoledel gioco” senza riferirsi ai valori spirituali e all’etica, in nome di unapretesa “autonomia” dello sport, impoverisce grandemente la praticasportiva, snervandone la forte potenzialità formativa e sociale»10.

Il rapporto-proposta La sfida educativa dei nostri vescovi evidenziacome «dalla nascita dello sport moderno ad oggi, milioni di ragazzi ita-liani sono cresciuti e sono diventati adulti e bravi cittadini praticandolo sport. Alcuni di loro sono diventati anche dei grandi campioni. Cosìfacendo, tutto lo sport – e in modo particolare il calcio – ha svolto inItalia una vera opera educativa che ha affiancato per diverse generazio-ni la famiglia, la scuola, la parrocchia nella costruzione della comunitàdi persone. Se volessimo sintetizzare il ruolo più vero dello sport,diremmo che esso consiste nell’educare alla vita attraverso una competi-zione virtuosa»11. La Chiesa si è impegnata e si impegna non solo neisuoi spazi tradizionali, gli oratori, a riconciliare lo sport, compreso ilcalcio - lo sport più amato, seguito e praticato del mondo - con lo sportdi base, ludico, ancora impregnato di valori e di virtù: può essere unastrategia per dire che sia nel professionismo che nel dilettantismo, alivelli bassi o alti, tra uno sport e l’altro, al centro resta sempre la perso-na-atleta. Resta l’uomo. E che una rigenerazione dello sport passa attra-verso l’eliminazione di ogni forma di manipolazione sull’uomo che fasport: la finzione, il sensazionale, l’apparenza.

Anche l’agonismo, esperienza naturalissima nello sport, rischia diesser sacrificato sull’altare della bramosia di continui successi e dell’esa-sperata affermazione di sé: per questo ha bisogno di essere ricondottonel suo alveo naturale. Lo sport, soprattutto quando diventa eventoplanetario, non può essere riferito solo alla conquista della supremaziadi un atleta sull’altro, di una nazione sull’altra, di un popolo su un altropopolo, tantomeno alla negazione dei diritti dei più deboli e dei menotutelati, ma rappresenta una sfida a cui simbolicamente siamo chiama-

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ti tutti e non solo gli atleti. La sfida di una cultura sportiva che recupe-ra il suo specifico vocabolario valoriale: fatica, sacrificio, perfeziona-mento, metodo, preparazione, tenacia, allenamento, ricerca del meglio,dell’eccellenza, rivisitazione dello stesso gesto atletico sia tecnico che distile. Perché «questo mondo fittizio non potrebbe esistere» senza il suospecifico agire virtuoso ed educativo, «senza l’aspetto positivo che è allabase del gioco: l’esercitazione alla vita e il superamento della vita indirezione del paradiso perduto. In entrambi i casi si tratta di cercareuna disciplina della libertà; di esercitare con se stessi l’affiatamento, larivalità e l’intesa nell’obbedienza alla regola. Forse, riflettendo su questecose, potremmo nuovamente imparare dal gioco a vivere, perché inesso è evidente qualcosa di fondamentale: l’uomo non vive di solopane, il mondo del pane è solo il preludio della vera umanità, della veralibertà. La libertà però si nutre della regola, della disciplina, che inse-gna l’affiatamento e la rivalità leale, l’indipendenza del successo esterio-re e dell’arbitrio, e diviene, appunto, così, veramente libera. Il gioco,una vita. Se andiamo in profondità, il fenomeno di un mondo appas-sionato di calcio può darci di più che un po’ di divertimento»12.

Note1Joseph Ratzinger, «Suchen was droben ist» in Humanitas, UniversitàCattolica del Cile, 1985.2Ibidem.3Ibidem.4Carlo Mazza, «Lo sport in evoluzione tra etica e affari», Settimana, 27 giugno2004.5P. Berizzi, Curva padrona, da La Repubblica, 5 maggio 2010.6CEI, Sport e vita cristiana, Nota Pastorale, Roma, maggio 1995.7Giovanni Paolo II, Discorso per l’inaugurazione dello Stadio Olimpico, 31 mag-gio 1990.8CEI, Sport e vita cristiana, Nota Pastorale, Roma, maggio 1995.9Ibidem, n. 11.10Ibidem, n. 11.11CEI - Comitato per il Progetto Culturale, La sfida educativa, Laterza, Roma-Bari 2009.12Joseph Ratzinger, op. cit.

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Cittadinanza senza confini.Educare alla

partecipazione

Il nostro impegno sul fronte della cittadinanza deve esserequello di lavorare per favorire momenti di incontro tra leculture, facendomaturareun codice genetico-sociale centratosulla correlazione tra la dignità indivisibile della persona e ilvalore del mondo nel quale ci troviamo. In definitiva, abbiamobisognodi un codice della prossimità globale.

Lorenzo Caselli

La cittadinanza non è semplicemente uno status, un qualcosa dicodificato o da codificare, è piuttosto un ideale a cui tendere, unprogetto esplicito di convivenza. Significa cioè vivere insieme“con” gli altri e “per” gli altri. Non si può non essere d’accordo

con questa affermazione. Ma chi sono gli altri, con i quali e per i qualivivere? E dove, in quale ambito tutto ciò deve manifestarsi?

La cittadinanza come progettoNon è facile rispondere. Viviamo in contesti ove sempre più si accostano,

si confrontano, si scontrano, si ignorano lemolte dimensioni dellamultietni-cità, le differenziate opzioni politiche ereligiose, i molteplici stili di vita, idiversi orientamenti etici che connota-no il nostro tempo. E allora? Il concet-to di cittadinanza fa indubbiamenteproblema: da un lato rischia di dissol-versi, dall’altro di rinchiudersi in sestesso e di essere usato come strumentodi difesa o di offesa. La cittadinanza sicaratterizza oggi per molte contraddi-zioni e ambiguità.Ne richiamo alcune.

Prima contraddizione. Con unacerta enfasi si afferma: «Siamo cittadi-ni del mondo!». Purtuttavia il partico-

Lorenzo Caselliè docente di Economia e gestione delle

imprese presso la Facoltà di Economia

dell’Università degli Studi di Genova.

Dirige la rivista “Impresa Progetto” ed è

membro del comitato scientifico e del

consiglio direttivo di Econometica

(Consorzio interuniversitario per lo

studio dell’etica economica). Tra le sue

pubblicazioni: Globalizzazione e bene

comune. Le ragioni dell’etica e della

partecipazione, Edizioni Lavoro, Roma

2007.

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lare continua a condizionarci, a essere fortemente incidente nella nostra vitaquotidiana. C’è il pericolo di una circolarità viziosa. Il globale azzera le radi-ci, le identità, le appartenenze, omologa e annacqua. Il particolare diventauna sommatoria di separatezze tra loro incomunicanti. LaCaritas inVeritate(n.53) sottolinea che la globalizzazione ci rende tutti più vicini ma che lavicinanza non basta: deve trasformarsi in comunione, in fraternità. È agevo-le constatare che la strada che abbiamo dinanzi è ancora molto lunga!

La seconda contraddizione riguarda i surrogati della cittadinanza.Questi stanno nell’esercizio di un soggettivismo radicale ovvero nell’esal-tazione individualistica della propria libertà, una libertà che sempre più sirealizza e si annulla nel consumismo, nell’interiorizzazione acritica diquanto proposto da persuasori più o meno occulti.

La terza contraddizione attiene il cortocircuito che viene a crearsi tra idiritti e i doveri. I diritti di cittadinanza vengono proclamati in manierasolenne, rituale, ma restano sulla carta. Manca infatti la correlativa attiva-zione dei doveri (a livello pubblico e privato; individuale e collettivo) cherendono possibili e agibili i diritti di cittadinanza, che nei fatti rischianofiniscono per essere calpestati.

Tutto ciò mi sembra chiaramente leggibile nel nostro Paese, che sulfronte della cittadinanza presenta non poche criticità. Basta fare riferi-mento: a) all’indebolirsi dei legami sociali per cui risulta sempre più diffi-cile fare comunità, perseguire il bene comune. L’egoismo corporativoprende sovente il sopravvento e conseguentemente la fiducia reciprocaviene meno. Non ci si fida più; b) al riproporsi con durezza della questio-ne sociale, dovuta al progressivo deterioramento delle condizioni di vitadelle persone. Sotto la spinta della crisi l’area della povertà si allarga,aumenta il numero delle famiglie che non arrivano alla fine del mese; c)alla crisi dei tradizionali strumenti della rappresentanza politica, ma percerti aspetti anche sociali. Si attenua il senso di appartenenza: si registraun affievolimento della partecipazione attiva dei cittadini, degli spazi didemocrazia diretta. L’indifferenza, il corto orizzonte rischiano di diventa-re l’unico autentico collante di una società sempre più liquida. Baumanosserva a questo riguardo: «Il passaggio dal sociale al privato è avvenutomediante una incessante liquefazione delle strutture forti, lo smantella-mento dell’agorà quale naturale spazio della cittadinanza... Nel mondoindividualizzato e privatizzato la solitudine dell’individuo è tale che eglipuò fare riferimento solo a se stesso e alle proprie capacità di difesa edeventualmente di miglioramento esclusivamente personali».

La cittadinanza come viaggio oltre i limiti e le incompiutezzeIn un certo senso potremmo parlare, e qui faccio un riferimento al

Convegno di studi delle Acli tenutosi a Perugia nel settembre scorso, di

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cittadinanza incompiuta e aggiungo limitata. Incompiuta e limitata conriferimento ai soggetti: gli immigrati, gli anziani soli, i bambini sono cit-tadini? Incompiuta e limitata con riferimento agli ambiti: si è cittadininell’impresa? Nella comunicazione? Nelle periferie? I garantiti chiudonola porta e i disperati bussano e chiedono di entrare.

L’esclusione è oggi il grande dramma, la grande paura. E l’esclusione èpiù grave delle tradizionali forme di sfruttamento proprie della societàindustriale. Nello sfruttamento c’è pur sempre un rapporto sociale di tipopositivo. E storicamente su questo rapporto di tipo oppositivo sono nati ilmovimento operaio, le organizzazioni sindacali, le forme di lotta. Questorapporto tende a scomparire nell’area dell’esclusione: qui abbiamo soltan-to degli individui dispersi, invisibili, senza espressione propria, senzamezzi di appoggio. Non possono prendere parola, non hanno posto nelloscambio sociale. Vien fatto di pensare al paese di Cacania ove: «Di frontealla legge tutti i cittadini erano uguali, ma non tutti erano cittadini» (R.Musil, L’uomo senza qualità).

Ma sono proprio i limiti, le incompiutezze, le contraddizioni, le soffe-renze degli esclusi che devono spingerci ad andare avanti sulla strada dellacittadinanza. Ogni ferita alla cittadinanza di chi ci sta accanto, è una feri-ta alla nostra stessa cittadinanza. «L’alternativa è fra fondamentalismo edinvito a un viaggio in cui non sapremo mai in anticipo chi incontreremonel corso del viaggio stesso» (A. Heller).

La cittadinanza come viaggio, dunque. Un viaggio che non ha unameta ultimativa, un punto certo di arrivo. La cittadinanza non si puòridurre a qualcosa di definitivamente acquisito. È piuttosto una realtà daridefinire e riguadagnare continuamente in un contesto che sta cambian-do in profondità, diventando sempre più complesso.

Il sapere scientifico tecnologico, la comunicazione, la rete che avvolgeil mondo, ma anche la paura di processi incommensurabili e incontrolla-bili in termini di rischio, quasi per assurdo, unificano in comunità degliuomini. L’interdipendenza a scala globale e locale diventa pertanto unacategoria morale e politica di fondamentale importanza. In essa sta ilpunto di forza del quale ha bisogno la leva della razionalità sia per capo-volgere situazioni di ingiustizia ed esclusione che non possono più essereaccettate a livello della coscienza comune sia per cogliere e valorizzaretutte le potenzialità insite nei processi di globalizzazione, se questi sonoguidati da carità e verità.

Solo nell’ottica di carità e verità è possibile parlare di cittadinanza glo-bale ovvero – come recita il titolo della relazione – di cittadinanza senzaconfini. Trattasi di una cittadinanza che si consegue attraverso la faticosa emai definitiva realizzazione di livelli successivi di solidarietà e di partecipa-zione: dalla città alla regione, allo stato, alle grandi aree continentali fino

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ad un universale, nel quale l’altro non è un avversario ma un partner di undisegno condiviso.

Cittadinanza e democrazia sono strettamente connessi nella prospettivadel viaggio cui ho fatto dianzi cenno. La cittadinanza e la democrazia nonpossono che essere generalizzabili, altrimenti sono destinate ad entrare incontraddizione con loro stesse. Diceva André Gorz in anni ormai lontani:«Non si può aprire gli occhi alla gente (ai giovani) e poi porvi dei limiti!».

Gli ingredienti della cittadinanza.I mondi vitali e la democratizzazione del potere

Vediamo di riannodare in maniera sistematica i fili del ragionamento.Richiamo l’affermazione di partenza. La cittadinanza non è soltanto unostatus bensì un progetto di convivenza, un vivere insieme con gli altri eper gli altri. In sintesi è un rapporto costruttivo tra il singolo (persona) e lacollettività. Identità, dialogo, bene comune sono gli elementi costitutivi,fondativi di questo rapporto. Sono tra loro strettamente connessi nelsenso che «si appartiene e ci si apre agli altri, si scopre la diversità e l’ugua-glianza, si promuovono i diritti e si assumono i doveri, si partecipa allavita comune» (A. Santerini).

L’identità è la sintesi dinamica tra il sé e l’esterno. È un patrimonio chesi sviluppa con la vita, attraverso il confronto con gli altri. La globalizza-zione non annulla l’identità, ma impone di viverla in una dimensione piùampia, capace di misurarsi con la pluralità delle appartenenze, superandola paura di chi ci sta vicino.

Identità e dialogo si alimentano reciprocamente. I diversi sistemi cul-turali non sono necessariamente delle gabbie, ma occasioni per scambiareesperienze di vita, per costruire assieme nuove sintesi di significato (Ilmeticciato di cui parla sovente il card. Scola).

Le identità possono dunque convivere, mettersi in discussione, impa-rare reciprocamente. L’esperienza dell’altro può aiutarmi a scoprire, adarricchire la mia stessa identità. Il bene diventa dunque relazione e in que-st’ottica il bene comune – come è detto in maniera efficacissima nellaGaudium et Spes – si concretizza nell’insieme delle condizioni che permet-tono tanto ai gruppi quanto ai singoli – nessuno escluso – di raggiungerela propria perfezione in maniera piena e spedita. Il bene comune è quindiun bene di tutti e di ciascuno, affinché tutti siano veramente responsabilidi tutto.

La responsabilità è il motore della cittadinanza. La responsabilitàimplica un atteggiamento attivo e la solidarietà va costruita. La responsa-bilità tiene aperta la questione dei confini nel senso che i confini li stabi-liamo noi. La responsabilità pone l’accento sul soggetto, sull’altro, inun’ottica di progettualità. Le coordinate del ragionamento diventano per-

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tanto molteplici. Un discorso sulla cittadinanza, sulla sua concretizzazio-ne, la sua storicizzazione, si caratterizza per molti snodi. Il primo snodo fariferimento a un insieme di valori condivisi, nei quali ci si può riconosce-re pur provenendo da punti e da visioni differenti. La Carta dei dirittidell’Unione europea parla di dignità umana, di libertà, di uguaglianza, disolidarietà.

Ma non basta che i valori vengano semplicemente dichiarati. Entranoin campo, come secondo snodo, le pratiche di vita, le esperienze concretein cui i processi di cittadinanza prendono corpo. Il terzo snodo riguarda leregole, le routines della cittadinanza. Il suo svolgimento non può esserecasuale o estemporaneo, presuppone un minimo di ordine spaziale e tem-porale adeguatamente strumentato. La Carta europea della cittadinanzaattiva fa riferimento a procedure di intervento, ad attività di prevenzione,di consultazione, di accesso, di valutazione, di interdizione.

Ci sono, ovviamente – quarto snodo – le istituzioni nelle quali si strut-tura e si organizza la vita associata. C’è bisogno di un sistema di infra-strutture al servizio della cittadinanza per conferire ad essa la necessariastabilità e visibilità.

Il quinto snodo chiama in causa i “mondi vitali”, intesi come luoghidella creatività sociale nella reciprocità. I mondi vitali, come ci ricordaMauro Magatti, si collocano tra la persona e il mercato, tra la persona e ilsistema socio assistenziale, tra la persona e il mondo dei media, tra la per-sona e la politica. Sono i mondi vitali che possono portare dentro le sfereistituzionali il senso dell’umano, le domande vere della gente, la volontà dipartecipazione, di cambiamento, di allargamento delle frontiere della cit-tadinanza. Dobbiamo creare condizioni perché questa salutare contami-nazione possa venire anche perché attraverso di essa passa la democratiz-zazione del potere.

La democratizzazione del potere costituisce l’ultimo snodo del nostroragionamento.Trattasi a ben vedere di un passaggio fondamentale, necessa-rio per evitare che la parola partecipazione assuma contorni incerti ed ambi-gui. Vi sono alcuni interrogativi ineludibili. Chi partecipa? Come? In vistadi quali obiettivi? Con quali risorse? Con quali possibilità di incidere real-mente? La discriminante è evidentemente politica.

I soggetti e gli ambiti per una nuova cittadinanzaSu quali soggetti far leva per costruire una nuova cittadinanza, per

andare avanti lungo la strada del bene comune? Faccio ancora un rapidoriferimento al già citato Convegno delle Acli, laddove si individuano neigiovani, nelle donne, negli immigrati i “soggetti imprevisti” della cittadi-nanza moderna.

I giovani e le donne. Di fronte alla pesantezza della crisi di oggi, torna-

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no a ricordarci il futuro, a rappresentare modi di vivere, di consumare e diaggregarsi che disegnano la possibilità di grandi cambiamenti condivisi, dirapporti umani più autentici.

Gli immigrati. Max Frish ci dice: volevamo delle braccia, sono arriva-te delle persone! La loro presenza ci spinge a superare i limiti del nostromodello di cittadinanza, a promuovere una circolarità virtuosa tra integra-zione e rispetto delle differenze, tra processi di inclusione e riconoscimen-to delle identità e quindi a costruire una città, icona di quella famigliaumana che non tollera separatezze e discriminazioni .

A partire dall’emblematicità da questi tre soggetti, in quali ambiti pos-siamo costruire cittadinanza? In collegamento con il Documento prepara-torio della 46ª Settimana Sociale ne indico alcuni che in questo momentomi sembrano cruciali con riferimento al nostro Paese. Il lavoro - che siperde, che non si trova, che è precario, aleatorio - è una fondamentalechiave di accesso alla cittadinanza. Il lavoro a rischio genera una perdita orazionamento della libertà. Lo diceva addirittura Von Hayek nel 1960. Isoggetti che hanno perso il lavoro o che temono di perderlo soffrono sottoil profilo socio-psicologico. Una sofferenza che non si ricollega soltantoalla perdita di reddito, ma a una perdita di status, di capacità di fare, diapprendere. Il sussidio di disoccupazione non può sostituire il reddito dalavoro. La disoccupazione determina un indebolimento dei valori sociali,la diffusione di pratiche di cinismo. Le zone ad alta disoccupazione strut-turale sono sovente zone ad alta criminalità. Ma non basta un lavoro pur-chessia; occorre un lavoro da cittadini, un lavoro decente, capace da unlato di valorizzare le risorse, le potenzialità di ciascuno e dall’altro creare lecondizioni per un affidabile progetto di vita.

Altro ambito: la scuola, la formazione. Non sono soltanto un impor-tante fattore di competitività del sistema paese, come sottolineaConfindustria. Bensì sono un fondamentale diritto di cittadinanza egaranzia di libertà. Ogni ragazzo perso (la dispersione scolastica si aggirasul 20%) rappresenta una sconfitta per la scuola e per l’intera comunità.Del pari non si possono ridurre o chiudere le strade davanti ai giovani conscelte precocemente irreversibili. C’è un altro aspetto che merita di essereevidenziato: nelle scuole si torna a studiare l’educazione civica ( cittadi-nanza e costituzione). È un fatto importante, ma l’educazione civica nonè semplicemente una materia che si aggiunge alle altre. Deve invece infor-mare di sé tutti i momenti della vita della scuola. Non si tratta tanto diimparare delle nozioni quanto di fare propri dei valori, assumendo com-portamenti coerenti in un’ottica dove merito e solidarietà si potenzianoreciprocamente.

Il terzo ambito riguarda le famiglie. Devono essere viste e intese comesoggetti sociali, capaci di attivare relazioni costitutive e significative per

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l’intera società. Parole come equità, benessere, solidarietà, partecipazione,se declinate a prescindere dalle famiglie, comprese le famiglie degli immi-grati, rischiano di esaurirsi in mere affermazione di principio. Qualitàdella vita familiare e qualità della vita sociale sono connesse, interdipen-denti ( interdipendenza tra il lavoro e la casa, tra il mercato e la casa, tra ilpubblico e il privato). Occorre pertanto preoccuparsi delle condizionipolitiche, istituzionali, economiche, fiscali, sindacali affinché questa inter-dipendenza possa manifestarsi. Ancora una sottolineatura. La famigliapuò essere scuola di solidarietà e quindi di democrazia e di cittadinanza.La realizzazione dei progetti di vita personali e famigliari, lungi dall’esserefatti privati, presuppone la progressiva conquista di spazi di libertà,responsabilità, partecipazione nelle diverse dimensioni della vita associata.

L’ultimo ambito è rappresentato dai sistemi di welfare come fondamen-to e misura della qualità di vita per tutti. C’è una domanda di vita buonache deve essere promossa, che dev’essere sostenuta e nel contempo, in un’ot-tica di sussidiarietà, occorre garantire e assicurare la pluralità dei soggetti diofferta dei servizi, specie di quelli radicati nei mondi vitali di cui ho prece-dentemente parlato. Vita buona e cittadinanza sono interconnesse. Occorrepassare da un welfare che assiste a un welfare che abilita; dal risarcimentodelle carenze alla promozione delle facoltà; dallo status quo compassionevo-le alla presa di parola per cambiare. Obiettivo delle politiche di welfare deveessere quello di contrastare attivamente – come ci ricordaMarta Nussbaum– tutti i meccanismi che limitano le capacità e dunque la libertà degli indi-vidui di diventare persone.

La cittadinanza come virtù in un mondo senza confiniMi avvio ad una rapidissima conclusione, richiamando ancora una

volta il leit motiv del mio intervento. La cittadinanza non è soltanto unostatus, ma piuttosto un progetto di convivenza con gli altri e per gli altri.Non basta enunciare regole e principi, occorre sperimentarli. La convi-venza non è soltanto frutto di pratiche cognitive (certamente utili) maesperienza di vita, fatta di sentimenti, di affettività, di fantasia, di rapportiinterpersonali, di amicizia. Non è sufficiente comprendere il bene: occor-re anche volerlo.

In questa prospettiva l’educazione alla cittadinanza responsabile, allapartecipazione costituisce un passaggio fondamentale. Valori condivisi,procedure, sono delle condizioni necessarie ma non sufficienti. Occorrepiuttosto puntare sulla formazione di persone robuste sul piano della sen-sibilità etica, capaci di vivere costruttivamente e con amore il rapportocon l’altro, disposte a fare ciò che è giusto e buono e ad evitare ciò che èsbagliato. Politeia e paideia sono tra di loro strettamente connesse (G.Chiosso).

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Böckenförde afferma che la sopravvivenza delle democrazie occidenta-li è legata alla disponibilità di “energie vitali” da ricercare non tanto nelleistituzioni quanto nei comportamenti virtuosi dei cittadini. Con altreparole, la stabilità di una società non dipende soltanto dal buon funziona-mento degli assetti giuridico-legislativi e di governo, ma anche dalle virtùciviche dei cittadini, dalla loro costituzione morale, dalla loro strutturamotivazionale.

Höffe vede nelle virtù civiche gli elementi costitutivi della “integritàdemocratica”. Virtù civiche così esemplificate: il coraggio civile, il senso diappartenenza, la capacità di esercitare la giustizia e di agire su se stessi intermini di temperanza, prudenza, controllo delle proprie emozioni.Aggiungo un’ultima citazione, che traggo da una recentissima dichiarazio-ne della Conferenza dei Vescovi di Inghilterra e Galles sul bene comune.«L’azione virtuosa scaturisce dal sentimento della propria dignità e diquella degli altri e dal rispetto di se stessi come cittadini. Al posto dellevirtù abbiamo visto un aumento delle regole. Una società che è tenutainsieme solo dall’osservanza delle regole è intrinsecamente fragile, espostaad altri abusi cui si cercherà di far fronte con un ulteriore aumento delleregole stesse».

È su questi ideali che occorre formare le giovani generazioni, ideali chedanno sostanza e sostenibilità alla cittadinanza. Una cittadinanza riflessiva(occorre conoscere, sapere), una cittadinanza vissuta (occorre saper esse-re), una cittadinanza attiva (occorre saper fare, assumersi le proprieresponsabilità) (M. Santerini).

La sfida che abbiamo di fronte è dunque quella di una cittadinanzasenza confini. Nella dialettica tra un globale omologante e un locale che sirichiude in se stesso occorre scoprire l’universale. E l’universale non pre-suppone una concezione statica dell’uomo, un’idea di uomo chiusa, iden-tica a se stesso. L’universale è un gesto in direzione dell’altro cui nonimpongo la mia idea di uomo o i miei valori. Cerco piuttosto di rispon-dere con amore ai suoi bisogni.

Il cristiano è spinto dalla sua fede verso questo universale. Ogni uomo èimmagine del Creatore e di Cristo stesso. L’umanità voluta dal Creatore(agapica e trinitaria) è plurale. Il nostro impegno sul fronte della cittadinan-za è quello di lavorare per favorire momenti di incontro tra le culture, facen-do maturare un codice genetico-sociale centrato sulla correlazione tra ladignità indivisibile della persona e il valore del mondo nel quale ci troviamo.In definitiva, abbiamo bisogno di un codice della prossimità globale.

(Intervento al Seminario “Il cammino verso la Settimana Sociale e la formazio-ne alla cittadinanza responsabile”, promosso dall’Istituto Vittorio Bachelet, aRoma lo scorso 18 giugno 2010).

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Carlo Carretto.Il cammino e la profezia

A cent’anni dalla nascita, la ricca biografia dell’“innamoratodi Dio” continua ad attrarre e a ispirare libri. Oltre a ungrande carisma, la capacità di analizzare nel profondo letensioni contrapposte degli uomini di oggi, di fare sintesi trail fare e l’essere, tra l’impegnonelmondo e la spiritualità.

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Perché tra i tanti protagonisti che affollano il Pantheon nobiledell’Azione Cattolica, Carlo Carretto si distingue per la sua perma-

nente vitalità? Perché Carretto continua a essere letto, ad attrarre leattenzioni degli editori, a ispirare libri, fino a diventare un caso editoria-le (tre biografie uscite in poche settimane)?

Una prima ragione è certamente il suo carisma. Se interrogate i diri-genti della GIAC di un tempo o i vecchi impiegati di via dellaConciliazione o i suoi fedeli amici ascolterete un’aneddotica infinitasulla qualità dei rapporti umani che egli riusciva a instaurare, sullo stiledi un’amicizia coltivata con incontri, ricordi e lettere, sulla sua famosaoratoria catalizzante e coinvolgente. Ma Carretto ha influenzato un’areadi cattolicesimo internazionale benpiù vasta dei pur larghi confini asso-ciativi dell’AC italiana. Se girate lelibrerie specializzate di Parigi, diMonaco o di New York, scoprireteche i suoi essential writings si fannoleggere anche da lettori che nullasanno di storia italiana e di retrosce-na ecclesiali e associativi. Il duplicecarisma della parola e della scrittura,raro anche tra i personaggi di mag-giore spicco, è dunque una ragionedel suo permanente appeal.

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Carlo Finocchiettiè direttore del Cimea (Centro

d’informazione sulla mobilità e il

riconoscimento dei titoli accademici),

antenna italiana della rete Naric

dell’Unione europea. I suoi interessi di

ricerca comprendono l’educazione

comparata, la cooperazione

accademica e la mobilità internazionale,

la formazione transnazionale,

l’orientamento universitario e i rapporti

tra università e industria.

Carlo Finocchietti

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L’altra ragione è la sua capacità di analizzare nel profondo le tensionicontrapposte degli uomini di oggi, la sua capacità di fare sintesi tra ilfare e l’essere, tra l’impegno nel mondo e la spiritualità, con la credibilitàche scaturisce da tutta la sua biografia. Tanti uomini d’azione sono oggiaffascinati dai chiostri e dalla suggestione del deserto ed evocano l’uto-pia di una vita alternativa. Ma queste forme di vita spirituale sono l’uni-ca proposta compatibile col Vangelo e la perfezione del credente?Dovremo diventare tutti asceti e mistici? Facciamo nostra la domandache fu posta a Carlo Carretto: «Fratel Carlo, io non posso andare laggiù,nel deserto. Che cosa devo fare? Devo trovare il mio Dio qui nella babe-le della mia città. Quale strada devo percorrere?». La risposta di Carrettoè liberatoria ed esigente: «Ti dirò subito una cosa che è molto importanteper chi, come te, è molto occupato e dice che non ha tempo per pregare.Considera la realtà in cui vivi, l’impegno, il lavoro, le relazioni, le adunan-ze, le camminate, le spese da fare, il giornale da leggere, i figli da ascoltare,come un tutt’uno da cui non puoi staccarti, a cui devi pensare. Dirò di più,un tutt’uno attraverso il quale Dio ti parla e ti conduce. Non è fuggendo chetu troverai Dio più facilmente, ma è cambiando il tuo cuore che tu vedrai lecose diversamente. Il deserto nella città è solo possibile a questo patto: vederele cose con occhio nuovo, toccarle con uno spirito nuovo, amarle con uncuore nuovo. Teilhard de Chardin direbbe: abbracciarle con cuore casto. Èallora che non occorre più fuggire, alienarsi, chiudersi tra sogno e realtà,spaccarsi tra ciò che penso e ciò che faccio, andare a pregare e poi distrugger-si nell’azione, fare i pendolari tra Marta e Maria, restare perennemente nelcaos, avere il cuore diviso, non sapere dove sbattere la testa».

Il libro di Paolo Trionfini (vicepresidente nazionale per il Settore adul-ti dell’Azione Cattolica e direttore dell’Istituto per la storia dell’AzioneCattolica e del movimento cattolico in Italia «Paolo VI») verrà letto conparticolare emozione da chi – giovane o anziano – condivide la passioneassociativa per l’Azione Cattolica. L’accurata ricostruzione biografica del«cammino di un innamorato di Dio» è completata dalla raccolta di trentaarticoli scritti da Carretto sulla stampa associativa tra il 1947 e il 1952. Ineffetti dalla storia di tutta la sua vita si coglie con chiarezza come il riferi-mento all’Azione Cattolica sia sempre rimasto essenziale per Carretto.L’aver percorso anche altre strade – annota nella presentazione del libroFranco Miano, presidente nazionale dell’AC di oggi – non ha significatoper Carretto rinnegare il proprio passato; e a rafforzare questa convinzio-ne ricorda un’affermazione di Carlo: «Se dovessi ricominciare da capo, fareil’Azione Cattolica. Quegli anni hanno messo le basi della mia vita cristiana.L’Azione Cattolica, l’idea di un prete che non deve essere solo, l’idea dei laiciche non devono essere soli, quindi l’idea della comunità cristiana, che è stataripresa dal Concilio Vaticano II, era già di quel tempo».

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Trionfini ricostruisce con molta efficacia, grazie a un’attenta letturadegli archivi e della stampa associativa, la personalità del “giovane”Carretto, la sua evoluzione dalla fase “trionfante” a quella più intro-spettiva e pensosa. Scorrono episodi famosi: la convocazione dei“baschi verdi” a Roma per l’80° della GIAC, la costruzione dellaDomus Pacis, la fondazione del Bureau international de la jeunessecatholique, la pubblicazione di Famiglia, piccola Chiesa, i cinquecento-mila iscritti raggiunti dalla GIAC del 1951, la nascita delle opere comeil Centro turistico giovanile, i ripetuti appuntamenti elettorali, le cam-pagne annuali, l’Anno santo del 1950, il congresso mondiale dell’apo-stolato dei laici. Trionfini rilegge la storia di quegli anni attraversol’ampia antologia degli scritti di Carretto, preziosi per comprendere ilfascino della sua personalità, la semplicità e l’efficacia del suo argomen-tare. Il ricordo dell’adunata in piazza San Pietro («Non c’era il peccato ditrionfalismo, non facevamo l’incontro per dimostrare di essere forti.Eravamo come bambini felici di essere in tanti e di dire grazie a Dio. Lopotrei giurare») e, appena un anno dopo, le preoccupazioni per il futu-ro della GIAC («L’Azione Cattolica soffre di senilità. C’è per lei il perico-lo di anchilosamento dovuto ad una sua sistemazione eccessivamente giuri-dica. Se continuasse così, l’apostolato si rifugerebbe in altre opere più gio-vani e meno dotate di statuti ma più capaci di captare nella semplicità del-l’intuizione il messaggio dello spirito. È però un peccato che sia così perchéall’AC ho davvero voluto bene come si vuol bene ad un’innamorata»); lacampagna nazionale dedicata alla vita interiore per lottare contro le«quattro insidie» (comunismo, massoneria, protestantesimo, neofasci-smo) e la spinta verso l’apostolato dei laici («I cattolici hanno compiutomolta strada, ma oggi la loro macchina organizzativa gira a vuoto. Perchénon è più questione di formule, o di tecnica organizzativa. C’è una solaconsiderazione da fare: bisogna riprendersi sul piano interiore»); la sceltaeducativa e formativa («Ricordatevi che siamo delle minoranze, anche seci troviamo in primo piano. E allora è inutile pensare di voler diventaremaggioranza di colpo; bisogna che io creda che ciò che conta è quel collo-quio, quella adunanza, quella piccola sezione aspiranti, quella piccolaadunanza di gruppo, quello studente. È un lavoro silenzioso sulle anime; èil primato del rapporto educativo») fino alla conclusione dell’esperienzanazionale nella GIAC, e quel titolo su Gioventù del novembre 1952«Arrivederci sui campi dell’apostolato» («Ritornano alla mente le ore chesono state le più belle nella nostra vita, le piazze gremite di giovani osan-nanti al Papa, i nostri canti, le battaglie comuni. Ritornano alla mente leangosce vissute davanti ai pericoli che travolgevano i giovani, le ansie del-l’apostolato, i viaggi di propaganda, le notti in treno, la preghiera in comu-ne. Tutto era concentrato lì, concentrato in quella GIAC che per noi era

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vocazione, era Chiesa, era apostolato, era ricerca di santità, era tutto. Nonè facile lasciare la GIAC!»).

Il libro di Gianni Di Santo contiene pagine di grande efficacia sul“successo” di Carretto nel dopo-Concilio. È proprio negli anni del rin-novamento conciliare che Carretto avrebbe saputo dare una rispostaefficace all’incessante cambiamento che stava scuotendo la coscienzareligiosa dell’uomo occidentale e tracciare, per quanto incomplete, viedi salvezza. Carretto – visto da Di Santo - è azione e contemplazione,insieme: «Prima l’apostolato nella GIAC, la Gioventù di AzioneCattolica, la Chiesa potente delle piazze e degli uffici di curia. Poi lascelta del deserto, la contemplazione pura. Infine, Spello. Il gomitolodell’alleluja che si dipana tra la storia degli uomini e lega in un abbrac-cio fraterno lo sguardo di un Dio sorridente. Le tre fasi della vita diCarlo Carretto. Tutte unite da un solo e unico destino».

Credo che la maggiore originalità del libro di Gianni Di Santo siaanche l’aver individuato in Spello, la Spello di Carretto, un tòpos dellaspiritualità contemporanea, un luogo simbolo dell’esistenza cristiana,un laboratorio di riconciliazione per anime dilaniate. Carretto è il pro-feta che trasforma Spello, un pezzetto di terra umbra, in una fornace dinuovo umanesimo e cristianesimo, un ponte di dialogo con un mondoche chiede pace, libertà, tolleranza e incontri tra le fedi. Il mistero delsuccesso, anche mediatico, di Spello – afferma Di Santo – è tutto qui:una fede semplice, una preghiera abbarbicata alle attese dell’uomo dioggi, una capacità di parlar chiaro alla Chiesa così come a un nostrocaro amico, una profezia orante e danzante che sa fare i conti con losguardo misericordioso e sorridente di Dio. Spello ha dato per moltianni la possibilità di ritrovarsi in solitudine con Dio, ma anche in com-pagnia con l’Altro. L’ospitalità, la bellezza di essere accolti da una comu-nità che non insegna ma condivide è un’esperienza che non muore.Speranza concreta, questa, se è vero che San Girolamo di Spello, dopoaver accolto per anni la comunità di Carretto, e aver superato i danni delterremoto dell’Umbria, è stato affidato all’Azione Cattolica per diventa-re luogo permanente di accoglienza e spiritualità per gruppi.

In otto rapidi capitoli Gianni Di Santo racconta la vita di Carretto,dall’incontro dei trecentomila baschi verdi della GIAC nel 1948 aPiazza San Pietro alla sua decennale esperienza nel deserto del Sahara einfine al rientro in Italia alla nascita della fraternità di Spello. Fanno dacontrappunto le testimonianze e i ricordi raccolti tra gli amici, primo fratutti Gian Carlo Sibilia, priore dei Piccoli Fratelli di Jesus Caritasdell’Abbazia di Sassovivo vicino Foligno. Il racconto delle tappe piùnote della vita di Carretto si completa con la ricostruzione delle vicendea noi più vicine nel tempo. Come, ad esempio, le sue prese di posizione

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sul referendum abrogativo del divorzio del 1974 e la Lettera a Pietro del1986 in difesa dell’Azione Cattolica e del suo presidente nazionaleAlberto Monticone. La lettura dell’epistolario privato di Carretto arricchi-sce questa biografia di particolari inediti e originali e anche i due ineditidel 1966, registrati dal magnetofono, consentono di apprezzare il suo stilecomunicativo. La ricchezza delle voci raccolte da Di Santo diventa sinfo-nia nel racconto della morte di Carretto, avvenuta il 4 ottobre del 1988, edella partecipazione alle sue esequie celebrate nel campo sportivo diSpello.

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I libriP. Trionfini, Carlo Carretto. Il cammino di un «innamorato di Dio»,con un’antologia di scritti sulla stampa dell’Azione Cattolica, EditriceAVE, Roma 2010.G. Di Santo, Carlo Carretto. Il profeta di Spello, Edizioni San Paolo,Milano 2010.

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Quelle “Settimane”che fanno la storia

La storia delle Settimane sociali è anche storia d’Italia;rispecchia l’impegnodella cattolicità per losviluppomorale edeconomico del Paese. Lo stesso stallo di anni passati, così comeil più recente disorientamento, sono il riflesso del più vastocontestonazionale cui i cattolici nonpossonosottrarsi.

«Lo studio della storia delle Settimane sociali presenta [...] una certautilità anche per il presente e per le scelte che si dovranno operare.

Ci offre infatti un’interessante rassegna di nodi problematici che rimetto-no al centro il nesso tra questione laicale e forme aggregative del movi-mento cattolico, il significato formativo della dottrina sociale per il po-polo di Dio, la necessità di una fede con contenuti e ragioni, le responsa-bilità e le modalità dei laici nell’impegno sociale e politico» (p. 139). È inquest’ottica, dunque, che Ernesto Preziosi invita a leggere Tra storia e fu-turo. Cento anni di Settimane sociali dei cattolici italiani, l’ultimo agile vo-lume che ha scritto per la collana «Il seme e l’aratro» dell’Editrice Ave,stavolta in collaborazione con la Libreria Editrice Vaticana. Un’opera cheben s’inserisce nello spirito che anima l’intera collana, quello di proporrea un pubblico vasto – ma con rigore storiografico e un imponente appa-rato critico – alcune brevi “guide” al-la storia del movimento cattolico,che siano in grado di illuminare eorientare le scelte presenti del laicato.Libri che oggi tornano più utili chemai.

L’oggi della Chiesa presenta in-fatti un mondo cattolico piuttostodiviso al suo interno e un laicato an-che per questo spesso incapace diprendere l’iniziativa o di far valere il

Andrea Dessardogiornalista, laureato in Scienze Politiche

ed internazionali, è il segretario di

redazione di Dialoghi e vicepresidente

per il Settore giovani dell’Azione

Cattolica della diocesi di Trieste. Ha

pubblicato con le Edizioni Meudon del

Centro Studi “Jacques Maritain” Cinque

racconti e Come la spuma del mare

(2009) e Stazioni intermedie (2010).

Andrea Dessardo

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peso della sua esperienza in temi dei quali, secondo il magistero, dovrebbeessere il principale attore. In questo scenario Preziosi pone anche una do-manda sul ruolo dell’Azione Cattolica1, domanda che può essere estesa,senza troppe forzature, anche al di là dell’organizzazione delle Settimanesociali, giunte quest’anno, con quella in programma a Reggio Calabria dal14 al 17 ottobre, alla loro quarantaseiesima edizione. Una tradizione sullaquale si era già riflettuto in occasione del centenario nel 2007, e che può es-sere valutata secondo almeno due prospettive: in positivo perché di certo intutti questi anni è stata prodotta una quantità (e qualità) notevole di con-tributi al dibattito, sia all’interno della Chiesa sia con il Paese, nell’obietti-vo di avvicinare ed edificare la realizzazione del bene comune; l’altra rifles-sione va invece fatta in negativo, attorno al lungo silenzio tra gli anni Set-tanta e Novanta, durante i quali, oltre a mutare in profondità molte strut-ture della società italiana, fu lo stesso mondo cattolico a conoscere cambia-menti radicali e talora sofferti nel rapporto con la gerarchia, per il fiorire dinuove esperienze d’aggregazione dei laici, fino all’evoluzione di nuove for-me d’impegno anche in campo politico. Sono evidentemente domandeche non si possono eludere nemmeno oggi che assistiamo ad un ritorno diattriti e distinguo, che rischiano di essere di scandalo. Al di là di queste con-siderazioni, la storia delle Settimane sociali è inevitabilmente anche storiad’Italia, che rispecchia l’impegno della cattolicità per lo sviluppomorale edeconomico del Paese; anche lo stallo degli anni passati e il più recente diso-rientamento sono il riflesso del più vasto contesto nazionale, cui i cattolicinon possono sottrarsi. La stessa ripresa delle Settimane negli anni Novantanon è estranea a questo processo: ad esso volle anzi essere una parziale ri-sposta, sebbene l’occasione venne offerta dal centenario della Rerum nova-rum, alla fine di un dibattito discusso nell’ultimo scorcio degli anni Ottan-ta. Dopo le settimane del 1991 a Roma e del 1993 a Torino, la prima a te-nersi dopo la fine della Prima Repubblica fu quella di Napoli nel 1999: iltema fu inevitabilmente quello della “società civile”; il Documento prepa-ratorio metteva in guardia non tanto dalla transizione, quanto dal rischio edalla tentazione di adagiarvisi e di protrarla indefinitamente.

Nel 2004, a Bologna, centro della riflessione fu la democrazia, tre annipiù tardi si celebrò a Pistoia, nella città in cui s’era tenuta la prima, l’edizio-ne del centenario. Assai significativo fu il messaggio lanciato dal presidentedel comitato promotore mons. Arrigo Miglio; nelle sue parole v’era unagiusta preoccupazione per la quasi irrilevante presenza cattolica nella poli-tica e nelle istituzioni, motivata in buona misura da quelle divisioni nellaChiesa – cui già s’accennava – che contrappongono i fratelli secondo cate-gorie che dovrebbero essere estranee al lessico ecclesiale, ma che trovano ri-verberi anche in diversi atteggiamenti e impostazioni ecclesiologiche.Mons. Miglio aveva invitato a «superare ogni residuo di perniciosa divisio-

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IL LIBRO&I LIBRIne tra coloro che sono impegnati nella difesa della giustizia, della pace,della salvaguardia del creato e quanti sono altrettanto intensamente impe-gnati nella difesa della vita umana e della famiglia così come il Creatorel’ha pensata e voluta». Aveva tuttavia anche offerto alcune indicazioni dimetodo che vale la pena riprendere: «Essere cattolici sempre più protago-nisti nella vita del Paese, non al margine ma dentro ai problemi, non perdominare ma per servire l’uomo, non imponendo, come alcuni continua-no a dire, ma argomentando, illuminati dal Vangelo e dall’insegnamentosociale della Chiesa, fondato sulla sacralità della persona umana».

La prima edizione era stata indetta dall’Unione popolare in un’Italia,quella del 1907, assai diversa da quella che oggi conosciamo: era ancora invigore il non expedit, i cattolici ancora esitavano ad accettare lo Stato uni-tario, non era scoppiata la Grande Guerra che avrebbe visto morire perl’unità della patria tanti giovani cristiani. Eppure, in quel clima, i cattolicigià stavano ponendo le basi per una loro piena partecipazione alla vita del-lo Stato; anzi, furono proprio loro tra i primi a teorizzare e concretizzare ilsuperamento dello Stato liberale borghese con il coinvolgimento nel di-battito delle masse. Secondo il parere di Pio X, la nuova istituzione era «at-ta ad infondere nelle masse, sotto forma sanamente ed opportunamentemoderna, quei cristiani principi, che soli corrispondono agli odierni biso-gni sociali». In queste parole Preziosi nota che da subito le Settimane nonsi limitarono ad ospitare incontri tra accademici, ma riconobbero l’esigen-za di un’azione popolare per un più autentico confronto con la modernitàda parte di clero e laicato. Pur formalmente lontani dalla politica, i catto-lici sapevano già avanzare proposte in tutti i campi della vita associata: do-po la Prima Guerra fu fatto finalmente il grande passo e nacquero l’unadopo l’altra tutte le grandi realtà del cattolicesimo culturale e socio-politi-co: l’Università del Sacro Cuore, il Partito Popolare, la CIL. Fu una sta-gione breve, colpita sul nascere dal fascismo, ma decisiva.

Durante il Ventennio le Settimane sociali si concentrarono prevalente-mente su argomenti religiosi, atteggiamento sostenuto anche dall’AzioneCattolica dopo la crisi del 1931; ma fu un silenzio che la Chiesa sepperompere almeno già dalla Mit brennender Sorge del 1938, per poi alzare lavoce, per bocca di Pio XII, col radiomessaggio del Natale 1942. Subito aridosso della guerra, nel settembre 1945, i cattolici celebrarono la loro di-ciannovesima Settimana sociale interrogandosi su «Costituzione e costi-tuente»: oramai avevano completato il loro processo di avvicinamento al-lo Stato, e anzi l’avrebbero guidato per i successivi cinquant’anni, dalla ri-costruzione alla secolarizzazione. Gli appuntamenti delle Settimane socia-li affiancarono l’azione politica del partito cattolico ma ad essa evitaronodi sovrapporsi, e proprio per questo diventarono un momento centralenella vita del laicato impegnato, quale luogo condiviso della riflessione re-

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ligiosa. Le Settimane hanno accompagnato il progressivo sviluppo delnostro Paese invitando a riflettere su temi centrali come il lavoro (1946),la vita rurale (1947), la sicurezza sociale (1949), l’organizzazione profes-sionale (1951) e così via fino al 1970, celebrato il Concilio e attraversatoil Sessantotto.

La Settimana di Reggio Calabria dovrebbe aiutare a superare questafase interlocutoria, questa lunga transizione nella quale anche i cattolicievidentemente, nonostante gli avvertimenti, si sono impantanati. Il librodi Preziosi dovrebbe stimolare qualche riflessione a tal proposito.

Nota1«Si pone l’esigenza di chiarificare il soggetto proponente e non meramente or-ganizzativo, e quindi il ruolo del laicato e del laicato associato circa la prepara-zione, lo svolgimento e la “diffusione-attivazione” delle Settimane. Sulla titola-rità delle Settimane si è avuta infatti un’evoluzione nel corso dei decenni: l’at-tuale realtà consiste in una presa in carico diretta da parte della CEI», Ernesto Pre-ziosi, Tra storia e futuro. Cento anni di Settimane sociali dei cattolici italiani, Edi-trice AVE -Libreria Editrice Vaticana, Roma 2010, p. 135.

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Il libroErnesto Preziosi, Tra storia e futuro. Cento anni di Settimane sociali deicattolici italiani, Editrice AVE - Libreria EditriceVaticana, Roma 2010.

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Il testo che qui presentiamo raccoglie una quindicina tra articoli esaggi, la voce «Donna» curata dall’autrice per l’Enciclopedia di pastora-

le, e due interviste apparse rispettivamente su Catechesi e Il Sabato, stesie pubblicati da Gianna Campanini Agostinucci (1931-1990) fra il 1966e il 1990, raccolti e riproposti a cura di Giorgio Campanini.

Questo insieme di testi fa il punto su una serie di problemi che anco-ra oggi, ad oltre venti anni di distanza, conservano intatta la loro novitàe la loro capacità di stimolo alla ricerca intellettuale. Negli scritti quiraccolti, infatti, vi è un forte impegno di denunzia circa le ombre chegravano ancora oggi sulla figura femminile: le discriminazioni nelmondo del lavoro, il soffitto di cristallo che impedisce la progressione dicarriera, la reificazione del corpo femminile. Vi è anche un’idea chiaradella radicalità della cosiddetta «questione femminile» (espressione,questa, forse un po’ datata: ma la sostanza dei problemi non è cambia-ta): le donne che pensano se stesse, che cambiano il proprio modo diessere, che acquistano libertà e responsabilità impongono un ripensa-mento complessivo di tutta la società. Se cambiano le donne, cambianole famiglie, cambia la società ed anche gli uomini sono chiamati a unripensamento e ad una maggiore responsabilità. Per questo, l’emergeredel pensiero e della libertà delledonne ha fatto spesso paura.

Collegata a tutto ciò è la valuta-zione critica, ma sostanzialmentepositiva, del femminismo; un fem-minismo analizzato come fenomeno

Sul “femminismo cristiano”del secondo Novecento

Una raccolta di testi di Gianna Campanini Agostinucci che fa ilpunto su una serie di problemi che ancora oggi sono di stimoloalla ricerca intellettuale. Un forte impegno di denunzia circa leombre che gravano ancora oggi sulla figura femminile: lediscriminazioni nelmondo del lavoro, il soffitto di cristallo cheimpedisce la progressione di carriera, la reificazione del corpofemminile.

Carla Mantelliè insegnante presso le scuole medie

superiori ed è consigliere comunale di

Parma.

Carla Mantelli

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... complesso, non riducibile ad una sua parte, e che ha avuto il merito di«dare corpo e peso» alla presenza delle donne, riuscendo – anche con lasua «aggressività» – ad «aprire brecce impensate e ad attirare attenzioninormalmente distratte da tutt’altri problemi» (op. cit., p. 68).

Tanto è importante il femminismo che viene esaltato il «femmini-smo cristiano», che ebbe una stagione vivace agli inizi del Novecento edi cui l’autrice rileva una necessità forte anche nel mondo a lei contem-poraneo. «Femminismo cristiano»: in quante riviste e giornali cattolici,oggi, troviamo questa espressione? Ma non troviamo più nemmeno laparola «femminismo», ormai ritenuta inutile ed obsoleta (almeno così sivuole far credere).

Il massimo del coraggio l’autrice lo esprime quando parla dellaChiesa. Lei, donna cattolica, profondamente inserita nella comunità cri-stiana, voce autorevole del cattolicesimo italiano, non ha mai temuto diaffermare che «l’anima più profonda del femminismo [...] è un’animadalle radici cristiane. Ciò rende anche più dolorosa la quasi totale incom-prensione del fenomeno femminista [...] da parte della comunità cristia-na nei suoi vari livelli. Né in essa affermazioni finalmente liberatorie delConcilio» (e nemmeno le parole in qualche modo risarcitorie dellaMulieris dignitatem, come affermerà in un altro passo) «hanno portato asignificative inversioni di tendenza sul piano pastorale» (pp. 136-137).

L’autrice non ha nemmeno timore a parlare del sacramento dell’ordi-ne, riservato agli uomini. L’accesso a tale sacramento da parte delle donnenon è da lei ritenuto necessario per una piena partecipazione alla vitaecclesiale; ma ciò non le impedisce di affermare che «la non ammissionedelle donne al sacerdozio ministeriale, nonostante tutte le argomentazioniaddotte e sulle quali si impone comunque un adeguato approfondimentoanche sotto il profilo teologico e della storia della Chiesa, resta un puntointerrogativo sulla via della condivisione» (p. 176).

Altro tema caro a Gianna Agostinucci Campanini: la maternità e ilsuo valore sociale, un valore vissuto e pensato durante tutta la sua vita,un valore grandissimo e nello stesso tempo una esperienza che non puòe non deve esaurire l’identità e la vita delle donne. Interessante, a questoriguardo, la lettura che l’autrice fa della richiesta di legalizzazione dell’a-borto da parte dei movimenti neo-femministi: è riduttivo – osserva –leggere questa richiesta come un rifiuto della maternità; vi è invece, die-tro, l’aspirazione alla maternità come scelta libera e priva di rischi diemarginazione. È dunque a partire dalla comprensione di questa giustaaspirazione alla «libertà di scegliere la maternità» che possiamo preveni-re e combattere la scelta terribile dell’aborto.

Il tema della maternità richiama quello della famiglia, che è forse iltema centrale della riflessione di Gianna Campanini Agostinucci. Una

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famiglia basata sul matrimonio, che è paradigma di un giusto rapportouomo-donna anche a livello sociale; una famiglia che va costruita a par-tire dalla differenza maschile-femminile, che però non va mai radicaliz-zata e soprattutto immobilizzata, privata del dinamismo tipico dellapersona umana che la manifesta. Una famiglia nella quale la coppiagenitoriale condivide la responsabilità educativa e che non è solo unfatto privato, ma prima esperienza di socialità. Anche qui il senso criticodell’autrice, la sua viva propensione a restare agganciata alla realtà, leimpedisce di mitizzare l’esperienza della famiglia e le fa osservare piùvolte che la famiglia è stata spesso anche la prigione delle donne, luogodi oppressione e addirittura di violenza. Esaltare il valore della famiglia,allora, equivale a impegnarsi sia sul piano culturale che su quello prati-co, affinché la famiglia sia effettivamente ciò che è chiamata ad essere:luogo di amore, di libertà, di responsabilità, di condivisione. È anche inquesto modo che si esercita quel «genio femminile» evocato daGiovanni Paolo II nella Mulieris dignitatem. Il «genio femminile» nonevoca una migliore qualità morale delle donne, bensì la loro vocazione a«ricostruire una umanità integrale, connotata sia al maschile che al fem-minile, a promuovere un’esperienza umana né monca né scissa, in tuttigli ambiti dell’esistenza» (p. 235).

La riflessione condotta in queste pagine ora opportunamente ripro-poste, rivela una profonda comunione di vita e di pensiero con il mari-to Giorgio (curatore del volume) ma soprattutto l’intreccio con il pen-siero di altre donne con le quali ha condiviso un pezzo importante distrada: Vilma Preti e tutto il gruppo di «Progetto Donna», ed ancoraPaola Gaiotti De Biase, Giulia Paola Di Nicola e tante altre... Questolibro è un omaggio anche a loro.

Il libroG. Agostinucci Campanini, Donna tra storia e profezia – Percorsi diriflessione sul femminile (1966-1990), a cura di Giorgio Campanini,Editrice AVE, Roma 2010.

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Una vita spesa a dimostrare l’intrinseca relazione tra ledinamiche “economiche” e la condizione umana nel suocomplesso, non esclusa la dimensione etica. Un economista, ilpadre delle Settimane Sociali, che ancora oggi con la suatestimonianza è in grado di indicare la strada per una nuovastagione di laici cristiani impegnati in politica, nellacostruzione del bene comune.

Il nome del Toniolo fu giustamente posto in evidenza in occasione del-la Settimana Sociale svoltasi a Pistoia e Pisa nel 2007. Era il centenario

delle Settimane, e non si poteva dimenticare che alla loro origine v’eraappunto il professore pisano, leader del cattolicesimo sociale italiano ne-gli anni a cavallo tra ’800 e ’900. È auspicabile che il riferimento a questogrande testimone non venga attenuato nel prosieguo delle Settimane.Egli ha certo molto da dire anche per quella prevista a Reggio Calabriadal 14 al 17 ottobre 2010, che si riaggancia alla precedente, riprendendoil tema del bene comune, nel tentativo di declinarlo in un’agenda chemetta a fuoco urgenze e priorità. Un’agenda di speranza, come è statodetto. Ma nessuna agenda è efficace,se mancano gli “agenti”, o se essi nonsono all’altezza della posta in gioco.Per una nuova stagione di laici cri-stiani impegnati in politica, è digrande importanza poter contar sutestimoni in grado di orientare l’im-pegno e suscitare entusiasmo con l’e-sempio della loro vita. Il cattolicesi-mo italiano certo non ne manca. Traessi è figura di spicco Giuseppe To-niolo, candidato agli onori degli alta-ri. Egli non esitò a porre l’impegnosociale sotto il segno della santità.

Giuseppe Toniolo.Una santità per il sociale

Domenico Sorrentinoè vescovo di Assisi – Nocera Umbra –

Gualdo Tadino. È stato professore di

Teologia alla Pontificia Facoltà Teologica

dell’Italia Meridionale, vescovo di

Pompei, segretario della

Congregazione del Culto Divino.

È postulatore della causa di

beatificazione del venerabile Giuseppe

Toniolo, sul quale ha scritto diversi

saggi. Ricordiamo qui il volume:

L’economista di Dio,

Editrice Ave, Roma 2001

Domenico Sorrentino

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Una volta ebbe a scrivere: «Noi credenti sentiamo, nel fondo dell’anima[...] che chi definitivamente recherà a salvamento la società presente nonsarà un diplomatico, un dotto, un eroe, ma un santo, anzi una società disanti» (Indirizzi e concetti sociali all’esordire del secolo XX, Pisa 1900).

Nella storia del movimento cattolico a Toniolo si deve, in massimaparte, la «virata sociale» dei cattolici italiani. Non che l’impegno sociale,all’arrivo del professore pisano, fosse assente: esso anzi era ufficialmentepromosso dalla “seconda sezione” dell’Opera dei Congressi. Fondando lasua Unione Cattolica per gli Studi Sociali, con una propria autonomia,pur coordinata all’Opera dei Congressi, il Toniolo metteva le premesse diun impegno sociale con un più forte accento propositivo e programmati-co, meno condizionato dalla psicologia della protesta intransigente, cheportava i cattolici a difendere le loro ragioni astenendosi dalla partecipa-zione politica (il non expedit). Era il 1889. Di lì a due anni sarebbe venutala Rerum Novarum, di cui il professore fu instancabile apostolo. Da allorale sue iniziative furono incalzanti. Del 1892 è la fondazione della Rivistainternazionale di Scienze Sociali. Del gennaio 1894 il «programma di Mi-lano», piattaforma operativa dei cattolici di fronte al socialismo. Negli an-ni successivi il professore si dedicherà ad elaborare l’idea cristiana della de-mocrazia, facendosi ispiratore di quel movimento democratico-cristianosposato dai “giovani” che trovarono inMurri il loro organizzatore entusia-sta quanto problematico. Come ricordavamo, tra le benemerenze del To-niolo ci fu la promozione, nel 1907, delle «Settimane Sociali».

Ma chi era Toniolo? Sarebbe difficile comprenderlo senza le sue origi-ni venete – nacque aTreviso il 7 marzo 1845 – e il suo percorso culturale espirituale tra il Collegio di Santa Caterina a Venezia e l’Università di Pa-dova, dove frequentò la Facoltà di Giurisprudenza e intraprese, come do-cente di Economia, la sua carriera universitaria, sviluppata poi nei lunghidecenni pisani. La sua prolusione del 1873 è rimasta famosa per il tonoprogrammatico, che si approfondirà in tutta la sua vita di studioso. Il tito-lo suona: Dell’elemento etico quale fattore intrinseco delle leggi economiche.In tale formulazione, il punto decisivo è l’aggettivo «intrinseco». Nonmancavano, infatti, economisti dell’area liberale, che si mostravano atten-ti al rapporto tra etica ed economia.Ma l’etica era chiamata in gioco comeun orizzonte normativo «estrinseco», che non entrava nelle dinamicheproprie dell’homo oeconomicus. Toniolo sposò una concezione delle leggieconomiche, che le situava nel contesto globale dell’esistenza umana, mo-strando l’intrinseca relazione tra le dinamiche «economiche» e la condi-zione umana nel suo complesso, non esclusa la dimensione etica.

Forte di questa convinzione, egli si impegnò a portare sul terreno eco-nomico le istanze e i principi della dottrina sociale. Nei confronti delmondo socialista, Toniolo comprese che non aveva senso una pura con-

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danna: occorreva piuttosto una credibile alternativa programmatica.Fece di questo il leit motiv della sua vita. Per lui era chiaro che una tale

alternativa non poteva svilupparsi esclusivamente sul versante economico.Di qui l’interesse che mostrò verso l’impegno culturale tout court con laSocietà Cattolica Italiana per gli Studi Scientifici, inaugurata a Como nel1899. Padre Agostino Gemelli la considererà il germe della futura Univer-sità Cattolica. Era in effetti un’associazione aperta a tutte le principalibranche del sapere, dalla filosofia, alla sociologia, alla storia, alle scienze,alle lettere. Secondo il disegno del promotore, avrebbe dovuto far conver-gere gli sforzi degli studiosi cattolici italiani per testimoniare l’incontro trafede e ragione, tra Vangelo e cultura, secondo quanto aveva auspicato ilConcilio Vaticano I. Toniolo, da parte sua, sviluppò questo orientamentosul terreno dell’economia e della sociologia. Così lo vediamo sostenere,nel suo Trattato di economia sociale, una sorta di «esemplarismo» sociolo-gico esercitato dal concetto di «corpo» applicato da san Paolo alla Chiesa:«Concetto mistico bensì, ma che prelude ad un rinnovamento organicodella sociale convivenza: per cui da quel dì la storia ci fa assistere ad unprocedimento più nuovo ancora, il quale spezzando, omeglio dissolvendoquel mostruoso panteismo politico, perviene a distinguere in prima la fa-miglia, integrazione dell’individualità, da ogni altra specie di consociazio-ne umana, come un germe che precede e nutre ogni altro; e più tardi tut-to l’essere sociale da quello politico, vale a dire la società dallo Stato» (Trat-tato di economia sociale, Città del Vaticano 1949, II, pp. 72-73).

Lo Stato, in questa concezione organica della società, non ne esce di-minuito, ma semmai rafforzato, purché compreso al di là di tutte le prete-se autoritarie, e dentro una concezione «sussidiaria» del rapporto Stato-so-cietà. Esso deve fare un passo indietro, di fronte all’iniziativa sociale dalbasso. Al tempo stesso, è suo dovere intervenire, in funzione del bene co-mune, soprattutto a vantaggio dei più deboli. La democrazia cristiana,nella concezione tonioliana, si qualifica proprio per il fatto che gli «ultimi»sono messi al primo posto: «Oh! Veramente da quel dì, in cui si vide Gesùpiegare le ginocchia dinanzi a dodici pescatori e ad essi riluttanti lavare ipiedi, prescrivendo che per lo innanzi essi pure facessero altrettanto, daquel dì solenne il mondo assistette allo spettacolo nuovo e commovente ditutta intera la gerarchia sociale che a grado a grado fra le resistenze di unanatura orgogliosa si ripiega all’ingiù a servire le moltitudini ignare, pove-re, sofferenti. Ecco la democrazia cristiana!» (Democrazia cristiana. Con-cetti e indirizzi, I, Città del Vaticano 1949, p. 48). Su questa base egli cosìdefinisce la «democrazia cristiana»: «Ordinamento civile nel quale tutte leforze sociali, giuridiche ed economiche, nella pienezza del loro sviluppogerarchico, cooperano proporzionalmente al bene comune, rifluendo nel-l’ultimo risultato a prevalente vantaggio delle classi inferiori» (ivi, p. 26).

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Quanto resta del Toniolo? Indubbiamente anche nel suo pensiero cisono aspetti datati. Ma molto rimane attuale, e va sottratto al rischio diun ingeneroso oblio e riscoperto con maggior convinzione dalla culturacattolica. Occorre tornare alle sue opere, oggi difficili da trovare. Lodevo-le l’iniziativa del prof.Molesti che ne sta curando pubblicazioni antologi-che. In ogni caso, resta la sua vita santa, che l’auspicata e speriamo nonlontana beatificazione potrà ulteriormente evidenziare a sostegno dellatestimonianza cristiana nel nostro tempo.

***

DAGLI SCRITTI DELTONIOLO.«PROGRAMMADIMILANO» (1894). I CATTOLICI DI FRONTE AL SOCIALISMO.

Ciò che gli uomini più illuminati e retti previdero oggi si avvera sottoi nostri sguardi attoniti e sgomenti. Il movimento socialista si accomunaall’universale, anche a nazioni meno predisposte a tali convulsioni comel’Italia nostra, anche a classi meno pronte ad accedervi come le popola-zioni rurali. [...] Perciò l’Unione cattolica per gli studi sociali in Italia, laquale si tiene in intima relazione con tutte le società volte all’operositàpratica sociale in nome del cattolicesimo, avrebbe creduto di fallire gra-vemente al proprio ufficio, se non si fosse affrettata a porgere una paroladi indirizzo e di incitamento alla nuova e più vigorosa operosità, la qualevoglia prendere ispirazione dalla coscienza della gravità dell’odierno mo-mento e soprattutto dai supremi principi di scienza cristiana. […]

I. Qual giudizio si deve portare del socialismo odierno in Italia? Affer-miamo di distinguere le cause dagli intenti finali. Pel primo rispetto essoè l’espressione di un malessere reale, diffuso, diuturno, il quale alla suavolta è l’ultimo prodotto di una serie prolungata di violazioni dell’ordinesociale cristiano fondato sulla giustizia e sulla carità. In tal caso la causadel popolo sofferente è la causa stessa dei cattolici, e le irrequietudini pre-senti di esso sono una prova di più della ragionevolezza delle loro anticheproteste.

I fini di questa medesima agitazione, in quanto si confondono colprogramma del socialismo, essendo pure riprovevoli, attestano tuttaviache non vi ha posto ormai che alla rivoluzione socialistica od al restaurosociale cristiano.

II. E qual programma i cattolici possono contrapporvi? Invano unaproposta di parziali lenimenti e correttivi potrebbe essere adeguata allagravità del malanno.

Il dissesto dei volghi campagnoli non rimane isolato, ma si connettecon altrettante manifestazioni morbose che affettano gli ordini e le popo-

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lazioni industriose, corrompono e dissolvono tutti i congegni e le virtùdel ceto mercantile. Né i teorici del socialismo, alla lor volta, mettono in-nanzi singole modificazioni dell’assetto attuale, bensì un piano radicale ecompiuto di riforme.

I cattolici veramente hanno argomento e virtù per attingere daglieterni principi del cristianesimo e dalle tradizioni storiche della civiltà daesso figliata, norme e pratici istituti che rispondano ai bisogni ed ai recla-mi del presente, preparando un migliore e durevole avvenire. A tal uopo:

1. Urge proclamare che la legge del dovere cristiano deve imperare so-vrana sopra tutte le classi senza distinzione; e che tal legge nei rispetti eco-nomici si traduce nella legge del lavoro, da cui non rimane assolto alcunose non per sostituirvi altre forme di attività più elevata e proficua all’uni-versale. E precisamente questa legge comune del lavoro, ossia di una atti-vità utile e meritoria, dev’essere quella che appresti colleganza e stabilitàai rapporti fra le classi oggidì scisse e fra loro in conflitto.

2. Nella proprietà in genere, e in ispecie in quella fondiaria, al caratte-re essenzialmente individuale privato di essa devono aggiungersi caratte-ri ed ordinamenti che ne esplichino ad un tempo la funzione sociale col-lettiva. E cosi è necessario: - restaurare la coscienza del dovere etico-cri-stiano, per cui l’uso della proprietà privata, soddisfatti i bisogni relatividella classe possidente, deve volgersi a beneficio comune e in ispecie deipoveri e nullatenenti; - salvare le ultime reliquie e ricomporre possibil-mente i patrimoni collettivi degli enti morali giuridici, delle opere pie,delle corporazioni religiose, della Chiesa, che furono ritenuti semprequasi il tesoro riservato del popolo, cui possono aggiungersi i beni e leproprietà collettive dei comuni, delle province, dello Stato, che debbonoconservarsi e fruttare a beneficio pubblico o cedersi per la coltivazione aiproletari; - favorire la diffusione della piccola proprietà preservandola daipericoli del frazionamento e dagli oneri ipotecari, che precipitosamentela disperdono, e ciò mediante unamodificazione del regime successorio ecoll’esonero di un minimum di proprietà da ogni espropriazione coattivaper crediti privati o fiscali; - in quanto alle medie e grandi proprietà, farpartecipare il lavoratore il più possibile alla permanenza e alla progressivaproduttività del possesso fondiario, mediante la diffusione della coloniaparziaria (mezzadria) o mediante il piccolo affitto a lungo termine e condiritto di indennità per le migliorie; - o finalmente mediante l’enfiteusida introdursi nei latifondi incolti, anco coattivamente, per ministero dilegge a titolo di pubblica utilità; - tutto ciò guarentito mediante l’esone-ro dalle imposte della parte di reddito strettamente necessaria alla vita.

3. Nella proprietà industriale e nelle sue imprese urge ricongiungeredirettamente il capitalista sovventore all’imprenditore-industriale e poil’imprenditore agli operai. E pertanto: - trasformare il capitalista che pre-

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sta all’industriale, in un socio d’industria che con lui condivida tutti i ri-schi dell’impresa a somiglianza di una accomandita, restringendo così ilgremio dei semplici capitalisti mutuanti. Similmente restringere la classeprecaria e misera del semplice salariato; e perciò, ammesso primamente ilsalario giusto, cioè corrispondente al prodotto del lavoro, concedere al-l’operaio una parte di cotesta rimunerazione, piuttosto che in forma fis-sa, sotto la forma di partecipazione agli utili; e ulteriormente elevare l’o-peraio stesso alla compartecipazione al capitale dell’impresa mediantel’impiego dei risparmi in azioni nominative dell’impresa medesima.

4. Nel giro complesso e vertiginoso della vita commerciale è d’uopopremunirsi contro il monopolio del credito a profitto di pochi speculato-ri e colla comune servitù. E perciò urge: - riprodurre nelle forme ammo-dernate la repressione legale delle usure - sottoporre le borse ad una leggesevera sopra le sue operazioni e della dispensazione del credito mediantele banche di emissione fare una funzione sociale non affidata ad una so-cietà di speculatori, bensì a un istituto autonomo con patrimonio imper-sonale da amministrarsi con intenti di pubblica utilità.

III. Con quale spirito, con quali mezzi, con quali fini ultimi, propu-gneremo questo programma concreto?

I cattolici lo propugnano primamente e massimamente come un’ope-ra di giustizia e poi di carità sociale. I cattolici si guarderanno bene dalmenomare la funzione della carità nel civile consorzio, che essi soltantoconoscono quanto sia necessaria, integrante, feconda nella vita socialespecialmente in momenti di esasperati conflitti sociali. Ma l’ordine deidoveri, il sentimento della propria dignità educato dal cristianesimo e vi-vacissimo oggidì fra i tristi esperimenti delle plebi, importano che non sidia a titolo di accondiscendente e forse calcolata liberalità ciò che è dovu-to per rigorosa giustizia. Questo è un aspetto caratteristico e decisivo del-l’odiernomomento storico. Perciò stesso, senza esagerare le funzioni civi-li-economiche dei poteri pubblici in condizioni normali della società,quasi socialismo di Stato, i cattolici richiedono che l’azione delle leggi ci-vili si dispieghi in via eccezionale e transitoria, con intensità proporzio-nata ai bisogni di un organismo sociale in dissolvimento ed al pericolo diuna immane conflagrazione. Troppo all’odierno disordine ha da lungamano contribuito lo Stato stesso con leggi e provvedimenti o colpevol-mente difettivi o consciamente pervertitori, perché da esso non debbasireclamare una grande restitutio in integrum del diritto sociale.

Ma la guarentigia più solida del ristauro, essi ripongono nella ricosti-tuzione di unioni professionali (o corporazioni) nelle popolazioni civichecome nelle campagnole, dove in distinti gremi trovino solidarietà di inte-ressi e di affezioni i grandi ed i piccoli per tutto ciò che tocca i fini comu-ni del viver civile, e dove in particolare rinvengano tutela e decoro le clas-

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si lavoratrici. Unioni professionali che pertanto non hanno uno scopoeconomico solamente, ma mirano nel loro risultato alla composizioneorganica della società oggi polverizzata da un diffuso e guasto individua-lismo.

Che se le classi superiori dei proprietari e capitalisti ripugnino ad en-trare in sodalizi misti colle classi inferiori (ciò che compone l’ideale dellaorganizzazione dai cattolici propugnata), in tal caso questi accettano chei lavoratori si stringano in unioni professionali esclusivamente operaie eprocedano per la via di una legale resistenza alla rivendicazione dei propridiritti, senza però di regola chiudere l’adito all’accoglienza nel loro senodelle classi, ora riluttanti ed avverse, nell’avvenire. In altre parole: sposan-do la causa dei lavoratori noi non perderemo mai di vista l’intera societàed il suo assetto normale.

La presidenza dell’Unione Cattolica per gli Studi SocialiProf. G. Toniolo dell’Università di PisaConte S. Medolago Albani di Bergamo

Marchese L. Bottini di LuccaConte C. Sardi di Lucca

Prof. L. Olivi dell’Università di Modena.

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Finito di stampare nel mese di settembre 2010 a cura della Mediagraf S.p.a. Stab. di Roma So.gra.ro.

UN CONTRIBUTO DELL’AZIONE CATTOLICA• al cammino di evangelizzazione della comunità cristiana• al dialogo nella città degli uomini• a una elaborazione culturale aperta e rigorosa

IN OGNI NUMEROEDITORIALE: un invito alla lettura, alla luce degli eventi

PRIMO PIANO: interventi autorevoli su questioni di attualità culturale e sociale

UN PERCORSO TEMATICO ANNUALE: articoli, servizi, interviste a testimoni significativi, forum

EVENTI & IDEE : interpretazioni, aggiornamenti, discussioni;la letteratura e il cinema, il costume e la politica, la Chiesa e la società...

IL LIBRO & I LIBRI: suggerimenti e itinerari critici di lettura

PROFILI: un testimone scomodo da non dimenticare

DOSSIER IN PROGRAMMAZIONE:

n. 4 - A centocinquant’anni dall’Unità d’Italia

Indirizzo internet:http://www.dialoghi.azionecattolica.it/(interamente consultabili i numeri del 2001, 2002, 2003, 2004 e 2005)E-mail: [email protected]

ABBONAMENTO ANNUALE (4 numeri): 26,00 EURO

L’abbonamento può essere effettuato attraverso il bollettino di conto corrente postale n. 78136116intestato a Fondazione Apostolicam Actuositatem Riviste – Via Aurelia, 481 – 00165 Roma.

Dialoghiper un progetto culturale cristianamente ispirato