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1 IL PROTESTANTESIMO PARAGONATO COL CATTOLICESIMO NELLE SUE RELAZIONI CON LA CIVILTÀ EUROPEA VOLUME SECONDO OPERA DEL SACERDOTE SPAGNOLO D. GIACOMO BALMES Tradotta in Italiano dal C. A. C e qui lievemente aggiornata all’italiano odierno dal forumista di totustuus.biz LucioF per il quale si chiede un’Ave Maria come ringraziamento CARMAGNOLA 1852. TIPOGRAFIA DI PIETRO BARBIE’ Si permette la stampa Torino 27 aprile 1852 FILIPPO RAVINA Vic. Gen.

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IL PROTESTANTESIMO PARAGONATO COL CATTOLICESIMO

NELLE SUE RELAZIONI CON LA CIVILTÀ EUROPEA

VOLUME SECONDO

OPERA DEL SACERDOTE SPAGNOLO D. GIACOMO BALMES

Tradotta in Italiano dal C. A. C e qui lievemente aggiornata all’italiano odierno dal forumista di totustuus.biz LucioF per il quale si chiede un’Ave Maria come

ringraziamento CARMAGNOLA 1852 . TIPOGRAFIA DI PIETRO BARBIE’

Si permette la stampa Torino 27 aprile 1852

FILIPPO RAVINA Vic. Gen.

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INDICE

CAPITOLO XXXVIII Istituzioni religiose. Atteggiamento del Protestantesimo riguardo agli Istituti religiosi. Importanza degli Istituti religiosi alla luce della filosofia e della storia. Sofisma di cui si fa uso per combatterli. Definizione degli Istituti religiosi. Comunità dei primi fedeli. Atteggiamento dei Papi nei confronti degli Istituti religiosi. Una necessità del cuore umano. La tristezza cristiana. Vantaggi derivanti dal riunirsi in comunità ai fini della pratica della vita perfetta. Il Voto. Sua relazione con la libertà. Vero concetto di libertà.

CAPITOLO XXXIX Visione storica degl’Istituti religiosi. L’impero romano, i barbari, i Cristiani. Stato della Chiesa all’epoca della conversione degli imperatori romani. Vita dei Padri del deserto (anacoreti). Influenza degli anacoreti nella filosofia e nei costumi. L’eroismo della penitenza risana la morale. Splendore delle più austere virtù nel clima più corrotto.

CAPITOLO XL Importanza dei monasteri d’Oriente. Perché la civiltà trionfò in Occidente e perì in Oriente. Influenza dei monasteri d’Oriente sulla civiltà araba.

CAPITOLO XLI Caratteristiche degli Istituti religiosi d’Occidente. San Benedetto. Lotta dei monaci contro la decadenza. Origine dei beni dei monaci. Importanza di tali possessi per instillare il rispetto per la proprietà. Osservazioni sulla vita campestre. La scienza e le lettere nei chiostri. Graziano.

CAPITOLO XLII Natura degli Ordini militari. Le Crociate. La fondazione degli Ordini militari è la continuazione delle Crociate.

CAPITOLO XLIII Caratteristiche dello spirito monastico nel tredicesimo secolo. Nuovi Istituti religiosi. Natura della civiltà europea, opposta a quella delle altre civiltà. Mescolanza di diversi elementi nel tredicesimo secolo. Società semi-barbara. Cristianesimo e barbarie. Formula per spiegare la storia di quell’epoca. Condizioni in cui si trovava l’Europa agli inizi del tredicesimo secolo. Le guerre diventano più popolari. Perché il rinnovamento delle idee cominciò prima in Spagna che nel resto d’Europa. Effervescenza del male durante il dodicesimo secolo. Tanchelmo. Eone. I Manichei. I Valdesi. Rinnovamento religioso agli inizi del tredicesimo secolo. Ordini mendicanti e loro influenza sulla democrazia. Loro caratteristiche. Loro rapporti con Roma.

CAPITOLO XLIV Ordini votati al riscatto degli schiavi. Gran numero di Cristiani ridotti in schiavitù. Opere meritorie dei detti Ordini. Ordine della Trinità. Ordine della Mercede. S. Giovanni di Matha. S. Pietro Armengol.

CAPITOLO XLV Influenza del Protestantesimo sullo sviluppo della civiltà dal sedicesimo secolo in poi. Motivi per cui nei secoli del Medioevo la civiltà trionfò sulla barbarie. Situazione

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dell’Europa agli inizi del sedicesimo secolo. Lo scisma di Lutero interruppe e indebolì la missione per civilizzare l’Europa. Osservazioni sull’influenza della Chiesa sui popoli barbari negli ultimi tre secoli. Si esamina se attualmente il Cristianesimo è meno idoneo a propagare la fede di quel che fosse nei primi secoli della Chiesa. Missioni cristiane dei primi tempi. Missione terribile di Lutero.

CAPITOLO XLVI I Gesuiti: loro importanza nella storia della civiltà europea. Motivi dell’odio manifestato contro di loro. Qualità distintive dei Gesuiti. Contraddizione del Signor Guizot su questo tema. Se sia vero, come dice il Signor Guizot, che i Gesuiti in Spagna sono stati la rovina del popolo. Fatti ed epoche. Accuse ingiuste contro la Compagnia di Gesù.

CAPITOLO XLVII Stato attuale degli Istituti religiosi. Quadro della società. Incapacità dell’industria e del commercio di colmare il cuore dell’uomo. Disposizione degli spiriti riguardo alla religione. Necessità degli studi religiosi per salvare le società attuali. All’ordine sociale manca un mezzo e un punto fisso. Il progresso delle nazioni europee è stato sviato. Non bastano i mezzi materiali per frenare le masse, ci vogliono mezzi morali. Gli Istituti religiosi possono armonizzarsi col futuro della società.

CAPITOLO XLVIII La religione e la libertà. Rousseau. I Protestanti. Diritto divino. Origine del potere. Diritto divino inteso erroneamente. San Giovanni Crisostomo. Patria potestà. Sue relazioni con l’origine dell’autorità civile.

CAPITOLO XLIX Dottrine dei teologi sull’origine della società. Orientamento dei teologi cattolici confrontato con quello dei moderni scrittori. San Tommaso. Bellarmino. Suarez. Sant’Alfonso Maria de’ Liguori. Padre Concina. Billuart. Il compendio salmaticense.

CAPITOLO L Diritto divino. Origine divina dell’autorità civile. Modo con cui Dio assegna questo potere. Rousseau. Patti. Diritto di vita e di morte. Diritto di guerra. Necessità che l’autorità derivi da Dio. Puffendorf. Hobbes.

CAPITOLO LI Conferimento indiretto o diretto dell’autorità civile. Sotto certi aspetti la differenza tra queste opinioni può essere importante, sotto altri no. Perché i teologi cattolici sostennero con forza il conferimento indiretto dell’autorità civile.

CAPITOLO LII Influenza delle dottrine sulla società. Adulazioni tributate al potere: suoi pericoli. Libertà con cui si parlava su questo tema in Spagna negli ultimi tre secoli. Mariana. Saavedra. Senza la religione e la sana morale, le più rigorose dottrine politiche non possono salvare la società. Scuole conservatrici moderne: perché sono impotenti. Seneca. Cicerone. Hobbes. Bellarmino.

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CAPITOLO LIII Facoltà dell’autorità civile. Calunnie dei nemici della Chiesa. La legge secondo la definizione di S. Tommaso. Ragione universale. Volontà universale. Il Venerabile Palafox. Hobbes. Grozio. Dottrine di alcuni Protestanti favorevoli al dispotismo. Come va difesa la Chiesa cattolica.

CAPITOLO LIV Sull’opposizione all’autorità civile. Confronto tra il Protestantesimo e il Cattolicesimo. La dignitosa, ma inutile timidezza di certi uomini. L’attitudine delle rivoluzioni. La forza di persuasione. Si ricorda il principio insegnato dal Cattolicesimo sull’obbligo di obbedire alle autorità legittime. Soluzione di questioni preliminari. Differenza delle due autorità. Differenza di opinioni tra il Cattolicesimo e il Protestantesimo sulla separazione delle due autorità. L’indipendenza dell’autorità spirituale è una garanzia di libertà per i popoli. Gli estremi si toccano. Dottrine di S. Tommaso sull’obbedienza.

CAPITOLO LV Governi fondati sulla sola situazione di fatto. Diritto di opposizione a questo tipo di governo. Napoleone e il popolo spagnolo. Falsità della teoria che stabilisce l’obbligo di obbedire ai governi fondati sulla sola situazione di fatto. Soluzione di alcune difficoltà. Fatto compiuto. Come deve intendersi il rispetto per il fatto compiuto.

CAPITOLO LVI Sull’opposizione all’autorità legittima. Dottrina del Concilio di Costanza sull’uccisione del tiranno. Riflessioni sull’inviolabilità dei re. Caso estremo. Dottrine di S. Tommaso d’Aquino, del Cardinale Bellarmino, di Suarez e di altri teologi. Errori dell’Abate de Lamennais. Si respinge la sua pretesa che la sua dottrina condannata dal Papa sia la stessa che quella di S. Tommaso. Confronto tra le dottrine di San Tommaso e quelle di de Lamennais. Una parola sull’autorità temporale dei Papi. Antiche dottrine sull’opposizione all’autorità. Ciò che dicevano i Consiglieri di Barcellona. Dottrina di alcuni teologi sul caso in cui il sommo Pontefice, come persona privata, cadesse in eresia. Si spiega perché la Chiesa è stata calunniata: ora come amica del dispotismo, ed ora dell’anarchia.

CAPITOLO LVII La Chiesa e le forme politiche. Il Protestantesimo e la libertà. Parole di Guizot. Vengono fissati i termini della questione. L’Europa alla fine del quindicesimo secolo. Rinnovamento sociale. Sue cause. I suoi effetti e il suo obiettivo. I tre elementi: monarchia, aristocrazia, democrazia.

CAPITOLO LVIII Monarchia. Sua idea. Sue applicazioni. Sua differenza dal dispotismo. Qual era al principio del sedicesimo secolo. Sue relazioni con la Chiesa.

CAPITOLO LIX Aristocrazia. La nobiltà e il clero. Loro differenze. La nobiltà e la monarchia. Loro differenze. Classe intermedia fra il trono e il popolo. Cause della decadenza della nobiltà.

CAPITOLO LX Democrazia. Idea di Democrazia. Dottrine dominanti. L’insegnamento del Cristianesimo annullò le dottrine di Aristotele. Caste. Un passo del Sig. Guizot. Riflessioni. Influenza del

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celibato del clero per prevenire la successione ereditaria. Che sarebbe successo senza il celibato. Il Cattolicesimo e il popolo. Sviluppo delle classi industriali in Europa. Lega anseatica. Stabilimento degli uffizi di Parigi. Sviluppo industriale in Italia ed in Spagna. Il Calvinismo e l’elemento democratico. Il Protestantesimo e i democratici del sedicesimo secolo.

CAPITOLO LXI Valore delle forme politiche. Il Cattolicesimo e la libertà. Necessità della monarchia. Carattere della monarchia europea. Differenza tra l’Europa e l’Asia. Un passo del conte de Maistre. Istituzioni per limitare il potere. La libertà politica non deve nulla al Protestantesimo. Influenza dei Concili. L’aristocrazia del talento promossa dalla Chiesa.

CAPITOLO LXII Rafforzamento della monarchia in Europa. Suo predominio sulle istituzioni libere. Perché la parola libertà per molti è parola di scandalo. Il Protestantesimo contribuì a distruggere le istituzioni popolari.

CAPITOLO LXIII Due democrazie. Loro andamento parallelo nella storia d’Europa. Loro caratteristiche. Loro cause ed effetti. Perché l’assolutismo divenne necessario in Europa. Fatti storici. Francia, Inghilterra, Svezia, Danimarca, Germania.

CAPITOLO LXIV Contesa tra i tre elementi: monarchia, aristocrazia e democrazia. Motivi per cui prevalse la monarchia. Conseguenze negative dell’aver ridotta l’influenza politica del clero. Vantaggi che questa influenza avrebbe potuto portare alle istituzioni popolari. Relazioni del clero con tutti i poteri e con tutte le classi.

CAPITOLO LXV Confronto tra le dottrine politiche della scuola del diciottesimo secolo, quelle dei moderni studiosi di diritto pubblico, e quelle dominanti in Europa prima che comparisse il Protestantesimo. Il Protestantesimo impedì l’omogeneità della civiltà europea. Testimonianze storiche.

CAPITOLO LXVI Il Cattolicesimo e la politica in Spagna. Si definiscono i termini della questione. Cinque cause della rovina delle istituzioni popolari in Spagna. Differenza tra la libertà antica e quella moderna. Le Comunità di Castiglia. Politica dei re. Ferdinando il Cattolico e Cisneros. Carlo V. Filippo II.

CAPITOLO LXVII Libertà politica e intolleranza religiosa. Sviluppo europeo sotto l’influenza esclusiva del Cattolicesimo. Quadro dell’Europa dal secolo undicesimo fino al sedicesimo. Condizioni del problema sociale alla fine del secolo quindicesimo. Potere temporale dei Papi: suo carattere, origine ed effetti.

CAPITOLO LXVIII È falso che l’unità nella fede e la libertà politica siano in opposizione. L’empietà si lega, secondo le sue convenienze, alla libertà o al dispotismo. Rivoluzioni moderne. Differenza

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tra la rivoluzione negli Stati Uniti d’America e quella francese. Cattivi effetti della rivoluzione francese. La libertà è impossibile senza la moralità. Importante passo di S. Agostino sulle forme di governo.

CAPITOLO LXIX Il Cattolicesimo nei suoi rapporti con lo sviluppo dell’intelletto. Si esamina l’influenza del principio di sottomissione all’autorità. Si ricerca quali ne siano gli effetti riguardo a tutte le scienze. Confronto tra gli antichi e i moderni. Dio. L’uomo. La società. La natura.

CAPITOLO LXX Esame storico dell’influenza del Cattolicesimo nello sviluppo dell’intelletto umano. Si confuta l’opinione del Sig. Guizot. Giovanni Eriugena. Roscellino ed Abelardo. Sant’Anselmo.

CAPITOLO LXXI La religione e l’intelletto in Europa. Differenza dello sviluppo intellettuale tra i popoli antichi e gli Europei. Motivi del rapido sviluppo dell’intelletto in Europa. Motivi dello spirito di sottigliezza. Beneficio procurato all’intelletto dalla Chiesa con l’opporsi ai cavilli dei novatori. Confronto tra Roscellino e S. Anselmo. Riflessioni su S. Bernardo. San Tommaso d’Aquino. Utilità della sua dittatura scolastica. Grandi benefici procurati dall’opera di S. Tommaso allo spirito umano.

CAPITOLO LXXII Progresso dell’intelletto umano dall’undicesimo secolo fino ad oggi. Sue diverse fasi. Il Protestantesimo ed il Cattolicesimo nei confronti dell’erudizione, della critica, delle lingue dotte, della fondazione delle università, del progresso della letteratura e delle arti, della mistica, dell’alta filosofia, della metafisica e della morale, della filosofia religiosa, della filosofia della storia.

CAPITOLO LXXIII Epilogo dell’opera e dichiarazione dell’autore con cui la sottopone al giudizio della Chiesa romana.

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CAPITOLO XXXVIII Istituti religiosi. Atteggiamento del Protestantesimo riguardo agli Istituti religiosi. Importanza degli Istituti religiosi alla luce della filosofia e della storia. Sofisma di cui si fa uso per combatterli. Definizione degli Istituti religiosi. Comunità dei primi fedeli. Atteggiamento dei Papi nei confronti degli Istituti religiosi. Una necessità del cuore umano. La tristezza cristiana. Vantaggi derivanti dal riunirsi in comunità ai fini della pratica della vita perfetta. Il Voto religioso. Sua relazione con la libertà. Vero concetto di libertà.

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Un altro tema sul quale il Protestantesimo e il Cattolicesimo sono in totale disaccordo è quello degli Istituti religiosi. Il Protestantesimo li detesta, il Cattolicesimo li ama; quello li distrugge, questo li fonda e li sostiene. Uno dei primi atti del Protestantesimo, ovunque vi s’installi, è di combatterli con le dottrine e con i fatti, e di fare in modo che siano subito distrutti: si direbbe che la pretesa riforma non può vedere questi santi Istituti senza irritarsi perché le rammentano continuamente l’ignominiosa apostasia del suo fondatore. I voti religiosi, particolarmente quello di castità, sono stati l’oggetto delle più feroci invettive da parte dei Protestanti; ma bisogna tener presente che quanto dicono adesso, e che viene ripetuto da ben tre secoli, non è che un’eco della prima voce che si alzò in Germania. E sapete cos’era questa voce? Era il grido di un frate senza pudore che penetrava nel santuario e ne strappava una vittima. Tutto l’apparato della scienza per combattere un dogma sacrosanto non basterà a nascondere un’origine così impura. Attraverso l’esaltazione del falso profeta traspare il fuoco impudico che gli divorava il cuore. Osserviamo di sfuggita che la stessa cosa accadde per il celibato del clero: i Protestanti fin dall’inizio non lo sopportarono e lo condannarono senza farne mistero, combattendolo quindi con un certo sfoggio di dottrina; ma in fondo a tutte queste prediche che si trova? Il grido di un sacerdote che, dimentico dei propri doveri, si agita contro i rimorsi della coscienza, e tenta di nascondere la vergogna cercando di attenuare l’orrore dello scandalo con l’ostentazione di una scienza menzognera.

Se i Cattolici avessero tenuto la stessa condotta riguardo al celibato del clero non c’è dubbio che sarebbero state utilizzate tutte le armi del ridicolo per coprirla di disprezzo e per marchiarla, come avrebbe meritato, con l’impronta dell’ignominia; ma avendolo fatto colui che dichiarò una guerra mortale al Cattolicesimo, ecco che certi filosofi non disprezzarono le perorazioni di quel frate che ardì per primo disputare contro il celibato, profanare i suoi voti e consumare un sacrilegio. Gli altri perturbatori di quel secolo imitarono l’esempio di un sì degno maestro, e tutti domandarono e pretesero dalla Scrittura e dalla filosofia un velo per coprire la loro miseria. Fu castigo ben meritato, che l’accecamento dell’intelletto derivasse dal pervertimento del cuore, e che la spudoratezza sollecitasse ed ottenesse la compagnia dell’errore.

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L’intelletto non si mostra mai tanto vile come quando, per scusare un errore, se ne rende complice: in tal caso non erra, ma si prostituisce.

Quest’odio contro gli Istituti religiosi, dal Protestantesimo è passato in eredità alla filosofia. Quindi tutte le rivoluzioni promosse e dirette dai Protestanti e dai filosofi si sono distinte per la loro intolleranza contro gl’Istituti stessi e per la crudeltà contro i suoi membri: quello che non fece la legge, lo consumò il pugnale e la fiaccola incendiaria; e quanto si poté salvare dalla catastrofe fu abbandonato al lento supplizio della miseria e della fame.

Su questo fatto, come in molti altri, appare in modo chiarissimo che la filosofia atea è figlia della riforma. Non vi è cosa più certa; per convincersene basta fare un raffronto tra la posizione dell’una e quella dell’altra riguardo alla distruzione degli Istituti religiosi: la stessa adulazione ai sovrani, la stessa esagerazione dei diritti del potere civile, le stesse perorazioni contro i pretesi mali arrecati alla società, le stesse calunnie. Non c’è che da cambiare i nomi e le date, con questa importante particolarità: che la differenza che doveva pur derivare dalla maggior tolleranza e dalla soavità dei costumi della nostra epoca, si è fatta appena sentire.

Ed è poi vero che gli Istituti religiosi siano cosa tanto spregevole come si è voluto far intendere? È vero che non meritino neanche di richiamare l’attenzione, e che tutte le questioni che li riguardano rimangano completamente risolte col solo proferire enfaticamente la parola fanatismo? L’uomo che riflette, il vero filosofo, non trova proprio nulla in essi che sia degno delle sue ricerche? Non è così facile credere che queste istituzioni, che hanno alle spalle una grande storia, possano essere ridotte alla nullità assoluta; queste istituzioni che nella loro vitalità che conservano ancora oggi, fanno pronosticare piuttosto un grande avvenire! Non è facile credere che simili istituzioni non siano sommamente degne di richiamare l’attenzione, e che la loro analisi sia priva di un vivo interesse e di un solido profitto. Nel vederle presenti in tutte le epoche della storia ecclesiastica, nell’incontrare dappertutto le loro memorie e i loro monumenti, nel vederle operanti anche nelle regioni dell’Asia, nei deserti dell’Africa e nelle città e nei recessi dell’America, nell’osservare che dopo così dure avversità si conservano ancora più o meno prospere in molti paesi d’Europa, germogliando nuovamente in quei terreni dove sembrava fossero state estirpate fin dalle radici, è naturale che si risvegli nell’animo una viva curiosità di esaminare un tale fenomeno, e d’investigare quale sia l’origine, lo spirito e il carattere di istituzioni così singolari; perché già prima d’introdursi nella questione si percepisce subito che qui deve esserci qualche ricca miniera di cognizioni preziose per la conoscenza della religione, della società e dell’uomo.

Chi ha letto le vite degli antichi padri del deserto senza esserne commosso, senza sentirsi compreso da profonda ammirazione e senza sentirsi nascere nella mente pensieri profondi e sublimi; chi ha posato senza alcuna emozione il piede sulle rovine di un’antica abbazia, senza richiamare fuori della tomba i

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cenobiti che qui vissero e qui morirono; chi percorre con indifferenza i corridoi e le stanze dei conventi semidistrutti, senza che gli si affollino alla mente gravi ricordi; chi è capace di fissare lo sguardo su queste scene senza commuoversi e senza che gli si risvegli nell’anima il desiderio di meditare, o almeno la curiosità di esaminare, può chiudere il libro della storia, può abbandonare ogni studio su tutto ciò che c’è di bello e di sublime. Per lui non vi sono più fenomeni storici, né bellezza o sublimità: egli ha l’intelletto nelle tenebre e il cuore nella polvere.

Al fine di nascondere l’intima unione che lega gl’Istituti religiosi con la religione è stato detto che questa può sussistere senza quelli. Verità inconfutabile, ma astratta e del tutto inutile perché, fine a se stessa e avulsa dalla concretezza dei fatti, non può portare alcun contributo alla scienza né servire da guida sui sentieri della realtà; verità insidiosa, che non tende ad altro che a cambiare completamente i termini della questione, e a far credere che quando si parla di Istituti religiosi la religione non c’entri per nulla.

Ecco un sofisma banale del quale si fa tuttavia un uso esagerato, non soltanto nel caso di cui stiamo parlando, ma anche in molti altri. Questo sofisma consiste nel rispondere a tutte le difficoltà con una proposizione perfettamente vera in se stessa, ma che non ha nulla a che fare con quello di cui si sta parlando. Con questo sotterfugio l’attenzione di chi ascolta viene stornata su un altro fatto, e presentando una verità tangibile in sé si fa deviare il discorso dall’oggetto principale finendo col fornire come spiegazione quello che non è altro che un puro diversivo. Se per esempio si parla del mantenimento del culto e del clero, si dice: «Il temporale non è lo spirituale». Si vogliono calunniare sistematicamente i ministri della religione? Si dice: «Altra cosa è la religione e altra cosa sono i ministri». Si vuole descrivere la condotta di Roma per molti secoli come una serie non interrotta d’ingiustizie, di corruzione e di attentati? A tutte le osservazioni che si possono fare, si risponde col premettere «che il primato del Sommo Pontefice non ha nulla a che far né con i vizi dei Papi, né con l’ambizione della corte romana». Verità certamente giustissime, e che in alcuni casi servono molto, ma che gli scrittori in malafede usano astutamente affinché il lettore non comprenda quale sia il loro bersaglio: ad imitazione di quei ciarlatani che fanno in modo di far volgere da una parte gli sguardi dell’ingenua folla intanto che eseguono le loro manovre dall’altra.

Benché una cosa non sia necessaria per l’esistenza di un’altra, non ne consegue però che non abbia origine da quest’altra, che non sia ravvivata dallo spirito di quest’altra, e che non esista tra le due un sistema di relazioni intime e delicate. L’albero può esistere senza i fiori e i frutti; ed è certo che anche se questi cadono il robusto tronco non muore; ma finché l’albero fruttifero esiste, cesserà forse di mostrare il suo vigore e la sua bellezza per il fatto di presentare alla vista l’incanto dei suoi fiori e al palato il sapore dei suoi frutti? Le onde cristalline del fiume possono continuare il loro corso

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senza i verdi tappeti che ne abbelliscono le sponde; ma finché si mantiene quella fonte perenne che distribuisce le acque, e finché per le vene del terreno limitrofo si può infiltrare il benefico liquido vitale, potranno mai le beate sponde rimanere aride, sterili, senza colore e senza bellezza?

Applichiamo ora queste immagini all’oggetto che c’interessa. È certo che la religione può sussistere senza le comunità religiose, e che la rovina di queste non porta necessariamente alla scomparsa di quella; e si è anche visto diverse volte che un paese, dove queste istituzioni erano state abbattute, ha tuttavia conservato per lungo tempo la religione cattolica; ma è altrettanto certo, però, che vi è una legame necessario tra le comunità religiose e la religione, perché questa le ha fatte nascere, le ravviva col suo spirito, le alimenta con la sua sostanza; e perciò ovunque la religione getti le radici si vedono spuntare immediatamente le comunità religiose; e quando sono state bandite da un paese, se la religione vi rimane non tardano a spuntare di nuovo. Lasciando da parte gli esempi di altri paesi, questo fenomeno si è verificato in Francia in modo sorprendente, poiché è già aumentato notevolmente il numero dei conventi, sia maschili che femminili, che si vedono eretti nuovamente sul suolo francese. Chi avrebbe mai detto ai componenti dell’Assemblea Costituente, della Legislativa e della Convenzione, che non sarebbe trascorso mezzo secolo senza che gl’Istituti religiosi rinascessero e prosperassero in Francia ad onta di tutti i tentativi che furono fatti perché se ne perdesse perfino il ricordo? «Non è possibile – avrebbero detto costoro, – se dovesse succedere questo, sarà perché la rivoluzione che stiamo facendo non sarà riuscita a trionfare; sarà perché l’Europa ci avrà sconfitti imponendoci di nuovo le catene del dispotismo: solo in questo caso potrà succedere che si vedano in Francia, a Parigi, in questa capitale del mondo civile, nuove fondazioni d’Istituti religiosi, vestigia di superstizione e di fanatismo trasmessi fino a noi dalle idee e dai costumi di tempi che passarono per non tornare mai più». Insensati! La vostra rivoluzione trionfò, l’Europa fu da voi sconfitta; gli antichi princìpi della monarchia francese furono cancellati dalla legislazione, dalle istituzioni e dai costumi; il genio della guerra passò trionfante per tutta l’Europa spargendo le vostre dottrine e coprendone l’orrore con lo splendore della gloria. I vostri princìpi, tutti i vostri ricordi trionfarono di nuovo in un’epoca recente e tuttora si mantengono forti e rigogliosi, identificati in alcune persone che si vantano di essere eredi di ciò che essi chiamano la gloriosa rivoluzione del 1789. Eppure, nonostante tanti trionfi, nonostante la vostra rivoluzione non abbia mai restituito nulla se non quanto era necessario per consolidare ancor più le proprie conquiste; nonostante tutto ciò, gli Istituti religiosi sono tornati a rinascere, si estendono, si propagano da ogni parte, ed occupano un posto ragguardevole nella storia dell’epoca presente. Per impedire questo rinascimento sarebbe stato necessario estirpare la religione, non bastava perseguitarla; la fede era rimasta come un seme prezioso coperto di pietre e di spine; la Provvidenza fece discendere un raggio

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di quell’astro divino che frantuma le pietre e feconda il nulla; e l’albero tornò ad innalzarsi in tutta la sua bellezza a dispetto delle rovine che ne impedivano la crescita e lo sviluppo; e i suoi rami sono subito spuntati, ricoperti di tanti leggiadri fiori: quegli Istituti che voi credevate di aver annientato per sempre.

Ciò che abbiamo ricordato è un chiaro esempio della verità che stiamo dimostrando sullo stretto legame esistente tra la religione e gli Istituti religiosi; e la storia della Chiesa sta lì a confermare questa verità. D’altronde è sufficiente conoscere la religione e la natura di tali Istituti per esserne convinti, anche senza l’esperienza e la storia.

I tanti pregiudizi esistenti su questa materia rendono necessarie alcune osservazioni, le quali, andando alla radice delle cose, mostrano quanto siano irrazionali i nostri avversari. Che cosa sono gli Istituti religiosi? Considerati in linea generale, e prescindendo dunque dalle differenze, trasformazioni e mutamenti dovuti ai diversi tempi e luoghi in cui furono eretti e ad altre circostanze, potremo rispondere che «l’Istituto religioso è una comunità di Cristiani che vivono insieme sotto certe regole al fine di mettere in pratica i consigli evangelici». In questa definizione sono compresi anche quelli che non sono legati da alcun voto, perché abbiamo detto che stiamo parlando dell’Istituto religioso in senso generale, lasciando qui da parte ciò che dicono i teologi e i canonisti sulle condizioni indispensabili per costituire o perfezionare l’essenza dell’istituzione. Oltre a ciò è opportuno considerare che non è conveniente escludere dalla gloriosa categoria degli Istituti religiosi quelle Case che ne comprendono tutti i requisiti fuorché quelli del voto. La religione cattolica è tanto feconda che produce il bene per le vie più disparate e sotto le più diverse forme. Nel complesso degli Istituti religiosi ci ha mostrato ciò che può fare dell’uomo legandolo con un voto per tutta la vita ad una santa abnegazione della propria volontà; ma ha voluto anche farci conoscere che lasciandolo libero, essa ha mezzi sufficientemente forti per trattenerlo con dolcissimi vincoli, e farlo ugualmente perseverare per tutta la sua vita come se si fosse obbligato con voto perpetuo. A questa categoria appartiene la Congregazione dell’Oratorio di S. Filippo Neri, uno delle maggiori glorie della Chiesa cattolica.

So bene che nell’essenza di un Istituto religioso, come s’intende normalmente, è previsto il voto; ma si tenga presente che qui la mia intenzione è di difendere dai Protestanti questo genere di comunità; e ben si sa che chi vi appartiene, o s’impegni col voto, o si astenga dall’emetterlo, non per questo viene escluso dall’anatema generale di coloro che guardano in modo accigliato qualunque forma di comunità religiosa. Quando si è trattato di bandirle abbiamo visto comprese nella proscrizione quelle con l’obbligo dei voti allo stesso modo che quelle che non avevano quest’obbligo; per cui, se stiamo trattando della loro difesa, è logico che si parli sia delle une che delle altre. Del resto non mancherò di parlare del voto in se stesso, e di presentare le osservazioni che lo giustificano anche al tribunale dalla filosofia.

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Non credo che sia necessario dimostrare che il fine di queste comunità, quello cioè di mettere in pratica i consigli evangelici, sia conforme allo spirito dello stesso Vangelo; perché questo fine, con questo o con quel nome, sotto questa o quella forma, è perfino qualcosa di più della semplice osservanza dei precetti, in quanto vi è sempre contenuta l’idea della perfezione: o nella vita attiva, o nella contemplativa. L’osservanza dei santi comandamenti è indispensabile per tutti i Cristiani che intendono conseguire la vita eterna; gl’Istituti religiosi si propongono di camminare per un sentiero più difficile che porta verso la perfezione. Là vanno a riunirsi a quegli uomini che, avendo udito dalla bocca del divino Maestro le parole: «Se vuoi essere perfetto va, vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri», non si ritirano malinconici come quel giovane del Vangelo, ma si accingono con coraggio all’impresa di lasciare tutto e seguire Gesù Cristo.

Ci resta ora da stabilire se per il raggiungimento di una così santa meta il mezzo più adatto sia quello di congregarsi. Mi sarebbe facile, per dimostrarlo, citare quei molti testi della Sacra Scrittura che indicano chiaramente quale sia il vero spirito della religione cristiana su questo tema, e la volontà espressa del divino Maestro; ma siccome l’orientamento del nostro secolo e la delicatezza della materia ci suggeriscono di evitare per quanto possibile qualunque accenno di disputa teologica, rimuoverò la questione da questo terreno e mi limiterò a considerarla sotto altri aspetti puramente storici e filosofici. Voglio dire che, senza accumulare citazioni e testi, dimostrerò che gli Istituti religiosi sono del tutto conformi allo spirito della religione cristiana, spirito di cui purtroppo i Protestanti erano privi quando li condannarono e li abolirono. Proverò inoltre che quei filosofi, che pur senza ammettere la verità della religione ne riconoscono tuttavia l’utilità e la bellezza, non possono condannare gl’Istituti che sono i frutti naturali della religione stessa.

Agli albori del Cristianesimo, quando i cuori serbavano ancora con tutto il vigore e in tutta la loro purezza le scintille provenienti dalle lingue di fuoco del cenacolo; quando erano ancora recenti le parole e gli esempi del divino Fondatore, ed era ancora così grande il numero dei discepoli che avevano avuto l’ineffabile privilegio di vederLo e udirLo nella Sua vita terrena, vediamo che i fedeli si riunivano sotto la guida degli stessi Apostoli e mettevano in comune i loro beni formando una sola famiglia con un cuore solo e un’anima sola, che aveva il Padre nei cieli.

Non starò qui a discutere sull’estensione che ebbe allora questo fenomeno, sulle circostanze che lo accompagnarono e sulla maggiore o minore somiglianza che si può rilevare tra esso e gl’Istituti religiosi: per me basta che esista, e che possa riportarlo qui per mostrare qual è il vero spirito di religione ai fini della scelta dei mezzi più appropriati al conseguimento della perfezione evangelica. Ricorderò comunque che Cassiano, nel raccontare come nacquero gl’Istituti religiosi, individua la loro origine nella stessa situazione della prima comunità cristiana che ho richiamato e che è descritto negli Atti degli

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Apostoli. Secondo Cassiano questo stile di vita non fu mai del tutto interrotto, per cui vi furono sempre alcuni fervorosi Cristiani che continuarono a seguirlo, formando così la catena che unisce l’esistenza dei monaci con le comunità primitive. Dopo aver descritto il sistema di vita dei primi Cristiani, e delle trasformazioni che sopravvennero, lo stesso autore continua così: «Quelli che conservavano il fervore apostolico con la memoria della perfezione primitiva si allontanarono dalle città separandosi dagli altri (i quali ritenevano lecito un tenore di vita meno severo) e incominciarono a scegliere luoghi solitari e nascosti dove poter praticare in modo particolare ciò che gli Apostoli avevano stabilito in generale per tutta la Chiesa: e così cominciò a formarsi la regola di quelli che si erano separati dall’influsso nocivo del mondo. Con l’andar del tempo questi devoti, siccome vivevano separati dagli altri fedeli, e si astenevano dal matrimonio e perfino dall’avere rapporti col mondo e con le loro stesse famiglie, furono chiamati monaci a motivo del loro particolare modo di vivere solitario». (Collat. 18. cap. 5).

Subentrò ben presto l’epoca delle persecuzioni, la quale tranne alcune sospensioni, che erano come delle pause di riposo, durò fino alla conversione di Costantino. In questo periodo non mancò mai chi continuasse il sistema di vita dei primi tempi, come dimostra chiaramente Cassiano nel passo che abbiamo riportato, con i necessari cambiamenti dovuti alle avversità che affliggevano la Chiesa. È chiaro che in quei tempi non c’era bisogno di cercare i Cristiani nelle comunità: chi desiderava conoscerli li vedeva confessare Gesù Cristo con imperturbabile serenità sullo strumento di tortura e in mezzo agli altri tormenti: nei circhi dove si lasciavano sbranare dalle fiere, o sui patiboli dove presentavano docilmente il collo alla scure del carnefice. Ma in questo stesso periodo delle persecuzioni cosa accadeva? Che i Cristiani, di cui il mondo non era degno, perseguitati nelle città come bestie feroci andavano errando per i luoghi disabitati e cercavano riparo nel deserto. Gli eremi d’Oriente, i deserti e le rupi dell’Arabia, i luoghi più inaccessibili della Tebaide servirono da asilo a quei gruppi di profughi che si rifugiavano nelle tane delle fiere, nei sepolcri abbandonati, nelle cisterne a secco e nelle più profonde caverne, non chiedendo altro che un asilo per meditare e pregare. E cosa ne venne? Che quei deserti dove i Cristiani andavano errando come granelli di sabbia trasportati dalla tempesta, ben presto si popolarono come per incanto di innumerevoli comunità religiose. E quale ne fu la causa? Qui si meditava, si pregava, si leggeva il Vangelo e appena il seme fecondo cadeva in terra, ovunque la preziosa pianta germogliava. Stupefacenti disegni della divina Provvidenza! Il Cristianesimo, perseguitato nelle città, feconda e abbellisce i deserti. Il prezioso grano, per svilupparsi, non necessita né dell’umore della terra, né del tepore di un clima mite. Anche quando la tempesta è portata per l’aria sulle ali dell’uragano, esso nulla perde di vigore e di vita: scagliato sulla roccia non muore: la furia degli elementi nulla può contro l’opera di quel Dio che cavalca gli aquiloni; e non è sterile la roccia,

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quando è fecondata da Colui che fece scaturire da una rupe fonti di acqua purissima al tocco misterioso della verga del suo profeta.

Avendo Costantino, dopo la vittoria su Massenzio, concesso alla Chiesa il diritto di vivere in pace, i preziosi germi racchiusi nel Cristianesimo poterono svilupparsi ovunque; e da allora non si è mai vista, neanche per breve tempo, la Chiesa senza comunità religiose. Libro di storia alla mano, possiamo sfidare i suoi nemici a mostrarci l’epoca o il periodo, per quanto breve, in cui tali comunità siano mancate del tutto: sotto una forma o l’altra, in questo o in quel paese hanno sempre continuato ad esistere nel modo che si è detto fin dai primi secoli del Cristianesimo.

Questo fatto è certo, è continuo nel tempo e si trova in tutte le pagine della storia ecclesiastica, ed occupa un ruolo fondamentale in tutti i grandi avvenimenti della storia della Chiesa. E si è riprodotto tanto in Occidente quanto in Oriente, in epoche moderne come nelle antiche, nei periodi di prosperità come in quelli sventura, sia quando questi Istituti furono oggetto di grande stima, che quando lo furono di persecuzione, di calunnia e di scherni. Quale prova più evidente dell’esistenza di relazioni intime fra questi Istituti e la religione? Quale indizio più chiaro che quelli sono di questa il frutto spontaneo? Tanto nell’ordine fisico che in quello morale si considera come prova della dipendenza di due fenomeni il costante apparire dell’uno dopo l’altro. Se i fenomeni sono tali che ammettono la relazione di causa ed effetto, e se nell’essenza di uno si trovano i princìpi che hanno prodotto l’altro, il primo vien detto causa, ed effetto il secondo. Ovunque si stabilisca la religione di Gesù Cristo si presentano subito sotto una forma o l’altra le comunità religiose; dunque queste sono un effetto spontaneo di quella. Io non so cosa potranno mai controbattere i nostri avversari ad una prova così decisiva!

Considerata la cosa sotto questo aspetto si comprenderà molto facilmente il motivo della protezione e del favore che gl’Istituti religiosi hanno sempre trovato presso il Sommo Pontefice. Questi agisce conformemente allo spirito che anima la Chiesa di cui egli è in terra il capo supremo. E non fu certamente il Papa a disporre che uno dei mezzi più convenienti a condurre gli uomini alla perfezione fosse quello di riunirsi sotto certe regole in comunità, secondo gl’insegnamenti del divino Maestro. L’Eterno aveva stabilito così negli arcani della sua infinita sapienza, e la condotta dei Papi non può essere contraria ai disegni dell’Altissimo. Si è detto che vi furono di mezzo motivi d’interesse, e che la politica dei Papi ne ebbe un grande vantaggio per sostenersi e ingrandirsi. Ma erano dunque sordidi strumenti di una politica astuta anche le comunità di fedeli dei primi tempi, e i monasteri nelle solitudini dell’Oriente, e tanti altri Istituti che non hanno avuto altro scopo che la santificazione di coloro che vi risiedevano, o la consolazione e il sollievo di qualche grande male fra quelli che affliggono l’umanità? Un fatto così universale, così grande, così benefico non si spiega con i motivi d’interesse o di meschini

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disegni: l’origine è più sublime e più nobile; e chi non la trova nel cielo, dovrà cercarla almeno in qualcosa di più eccelso di qualunque progetto umano o della politica di un sovrano; dovrà cercarla in idee elevate e in sentimenti sublimi che, se non arrivano al cielo, abbracciano almeno una vasta parte della terra; dovrà cercarla in qualcuno di quelle idee che presiedono ai destini dell’umanità.

Alcuni potrebbero pensare che i Papi, intervenendo negli ultimi secoli con la loro autorità in tutte le istituzioni, e facendo dipendere dalla loro approvazione le regole a cui dovevano assoggettarsi i diversi Istituti, perseguissero degli scopi personali; ma lo sviluppo avuto nel tempo dalla disciplina ecclesiastica su questo particolare ci mostra che la maggior parte degli interventi dei Papi, lungi dall’essere causati da motivi personali, derivò piuttosto dalla necessità d’impedire che uno zelo inopportuno non moltiplicasse eccessivamente gli Ordini religiosi e che non vi si introducessero abusi. Nei secoli dodicesimo e tredicesimo la vocazione ad erigere nuovi Istituti fu tale che senza la vigilanza dell’autorità ecclesiastica ne sarebbero derivati i più gravi inconvenienti. E per questo vediamo che il Sommo Pontefice Innocenzo III, per porvi riparo, ordinò opportunamente nel Concilio Laterano che se qualcuno voleva fondare una nuova Casa religiosa, scegliesse una delle regole o istituzioni già approvate. Ma proseguiamo il nostro cammino.

Quando viene negata l’autenticità della religione cristiana, e vengono messi in ridicolo i consigli evangelici, ben si capisce come si possa anche negare ciò che ha di divino lo spirito delle comunità religiose. Ma una volta che abbiano ammessa l’autenticità della religione, non si riesce a comprendere come possano, uomini che si gloriano di professarla, essere contrari agli Istituti religiosi considerati in se stessi. Chi ammette il principio può negare la conseguenza? Chi ama la causa perché mai rigetta l’effetto? Costoro simulano da ipocriti una religione che non hanno, oppure professano una religione che non comprendono.

Anche se non avessimo altra prova dello spirito antievangelico che guidò i promotori della pretesa riforma, dovrebbe bastarci l’odio che nutrivano contro un’istituzione che così evidentemente trae la sua origine dallo stesso Vangelo. Ma come: entusiasti com’erano della lettura della Bibbia senza note e senza commenti al punto da trovarla tanto chiara in tutte le sue parti, non seppero vedere o intendere il senso così facile ed ovvio di quei passi dove si raccomanda l’abnegazione di se stessi, la rinuncia a tutti i beni, la privazione di tutti i piaceri? I testi sono così chiari da non dare adito ad altre interpretazioni; né, per essere compresi, richiedono lo studio approfondito delle scienze sacre o delle lingue; e tuttavia non furono intesi, o per dir meglio non furono ascoltati! L’intelletto li capiva benissimo, ma la passione li rigettava.

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Quanto ai filosofi che considerano spregevoli e inutili gli Istituti religiosi, se non addirittura dannosi, è evidente che hanno meditato ben poco sullo spirito umano e sui sentimenti più delicati e profondi rinchiusi nel segreto dei nostri cuori. Se la vista di tante comunità di uomini o di donne che vivono in comunità allo scopo di santificare se stessi o il prossimo o di consacrarsi al soccorso dei bisognosi o di consolare gl’infelici non riesce a parlare al loro cuore, è il caso di dire che la loro anima è ormai inaridita dall’abitudine allo scetticismo. Rinunziare per sempre a tutti i piaceri della vita, seppellirsi in una solitaria dimora per far di sé nell’austerità e nella penitenza un olocausto all’Altissimo, indubbiamente fa orrore a questi filosofi che non hanno mai contemplato il mondo se non attraverso i loro grossolani pregiudizi. Ma l’umanità pensa in un altro modo; l’umanità si sente attratta da queste stesse cose che i filosofi scettici trovano così vuote, prive d’interesse e degne di disprezzo.

Meravigliosi segreti del nostro cuore! Smaniosi di piaceri, e immersi nella follia di danze e divertimenti, proviamo in noi stessi una profonda commozione alla vista dell’austerità dei costumi e del raccoglimento dell’anima. La solitudine, la stessa tristezza hanno per noi un incanto ineffabile. Da dove mai avrà origine quell’entusiasmo che commuove un intero popolo, lo solleva e lo trascina quasi per incanto dietro le orme di un uomo di cui si legge in fronte il raccoglimento dell’anima e nei suoi lineamenti l’austerità della vita, e nelle vesti e nei modi manifesta il distacco da tutte le cose terrene e l’oblio del mondo? Quest’immagine la troviamo nella storia della vera religione; ma anche delle false. Perché un mezzo così potente per attirare la stima e il rispetto fu conosciuto anche dalla falsità; infatti la sregolatezza e la corruzione, bramose di far fortuna nel mondo, hanno sentito più d’una volta l’imperiosa necessità di coprirsi col manto dell’austerità e della purezza.

Quello stesso sentimento che a prima vista sembra quanto di più ostile e ripugnante al nostro cuore, quell’ombra di tristezza diffusa sul raccoglimento e la solitudine della vita religiosa, è proprio quello che più ci incanta e ci alletta. La vita religiosa è solitaria e mesta? Dunque sarà bella, e la sua bellezza sarà sublime, e questa sublimità sarà la più adatta a commuovere profondamente il nostro cuore e a procurarci indelebili sensazioni. In realtà nella nostra anima è impresso il carattere dell’esule: solo le cose tristi le fanno una viva impressione; ed anche quelle che sono normalmente accompagnate da rumorosa allegria hanno bisogno d’ingegnosi contrasti per comunicarle un’ombra di tristezza. Perché la bellezza non manchi delle più seducenti attrattive conviene che le sgorghi dagli occhi una lacrima di angoscia, che le guizzi in fronte un pensiero di amarezza e un ricordo di dolore le copra di pallore le gote. Perché le avventure di un eroe suscitino in noi un vivo interesse egli deve avere per compagna la disgrazia, per consolazione il pianto e per ricompensa dei suoi meriti l’ingratitudine e la sventura. Vogliamo che

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un quadro della natura o dell’arte richiami con forza la nostra attenzione, s’impadronisca delle nostre facoltà e ci rapisca l’anima? È necessario che ci passi per la mente il vago ricordo della nullità dell’uomo, la tetra immagine della morte; ci devono nascere in cuore sentimenti di serena malinconia; abbiamo bisogno di vedere il colore rossastro che distingue qualche monumento in rovina, la croce solitaria che ci segnala il soggiorno dei morti, le muscose pareti che ci indicano ciò che resta dell’antica dimora di un grande, il quale passò per alcuni istanti sulla terra… e disparve.

L’allegria non ci soddisfa il cuore, e non ce lo riempie: lo distrae e lo inebria per qualche momento, ma l’uomo non vi trova la sua felicità. Perché l’allegria di questo mondo è frivola e la frivolezza non può piacere al pellegrino, il quale lontano dalla sua patria cammina penosamente per una valle di lacrime. Questa è la ragione per cui, mentre la tristezza e il pianto sono accettati, diremo meglio, premurosamente cercati ogni volta che si voglia produrre nell’anima impressioni profonde, al contrario si sfugge e si respinge inesorabilmente l’allegria e perfino il più lieve sorriso. L’oratoria, la poesia, la scultura, la pittura, la musica hanno seguito costantemente la stessa regola, o per meglio dire sono state dominate dal medesimo istinto. Era certamente uno dalla mente sublime e dal cuore ardente colui che disse che l’anima è cristiana per natura, poiché riuscì a racchiudere in così poche parole le relazioni ineffabili che uniscono il dogma, la morale e i consigli evangelici di questa religione divina, con quanto c’è di più intimo, più delicato e nobile nel nostro cuore.

E allora, conoscete voi la tristezza cristiana? Conoscete questo sentimento austero e sublime che è impresso sul volto del fedele come un ricordo doloroso sul viso di un illustre esule; che tempera i piaceri della vita con l’immagine del sepolcro e illumina l’oscurità della tomba con i raggi della speranza; questa tristezza tanto semplice e consolatrice, tanto grande e severa, che fa disprezzare lo splendore e le grandezze del mondo come un’illusione passeggera? Questa tristezza, portata alla perfezione, ravvivata e fecondata dalla grazia e sottoposta ad una santa regola, è quella che presiede alla fondazione degli Istituti religiosi, e che sempre li accompagna finché conservano il fervore iniziale che ricevettero da uomini guidati dalla luce divina e animati dallo Spirito di Dio. Questa santa tristezza, che porta con sè il distacco da tutte le cose terrene, è quella che la Chiesa fa in modo d’infondere in questi uomini, e di sostenere, quando circonda di ombre ispiratrici le loro silenziose dimore.

Che in mezzo al furore e alle agitazioni delle opposte fazioni la mano sacrilega di un fanatico, aizzata di soppiatto dalla malvagità, immerga in un petto innocente il pugnale fratricida o getti su di una pacifica dimora la torcia incendiaria, si può ben capire; perché disgraziatamente la storia dell’uomo presenta innumerevoli esempi di delitti e di fanatismo. Ma che si vada ad attaccare l’essenza stessa dell’istituzione; che la si voglia rinchiudere nei

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ristretti limiti della meschinità e ottusità di spirito spogliandola dei nobili titoli che onorano la sua origine e degli splendori che arricchiscono la sua storia, questo non lo può permettere né l’intelletto né il cuore. Questa filosofia menzognera che corrompe e inaridisce tutto ciò che tocca si è spinta in tale insensata impresa: ma quand’anche la religione e la ragione non si prendessero cura di sbugiardarla, protesterebbero sicuramente contro di essa sia le lettere che le belle arti, le quali si nutrono delle antiche memorie e trovano la sorgente delle loro meraviglie nei pensieri elevati, nei grandi e severi scenari, nei sentimenti profondi e malinconici; e che infine si compiacciono di elevare la mente dell’uomo alle più sublimi altezze, di guidare la sua fantasia per nuovi e inviolati sentieri, di colmare il cuore d’un misterioso incanto.

No, mille volte no! Finché durerà sulla terra la religione dell’Uomo-Dio, che non aveva dove posare il capo, e che stanco dal viaggio si sedeva come un oscuro viandante a riposare presso il margine di un pozzo; dell’Uomo-Dio la cui venuta fu annunciata ai popoli da una voce misteriosa che grida nel deserto, la voce di un uomo vestito di peli di cammello con una cintura di pelle intorno ai fianchi, che si nutriva di locuste e di miele selvatico; finché, dunque, esisterà questa religione divina, per noi saranno sempre santi e degni del più alto rispetto quegli Istituti che hanno per scopo principale e naturale quello di mettere in pratica quanto il Verbo divino insegnava agli uomini con lezioni tanto eloquenti e sublimi. Le epoche subentreranno ad altre epoche, le vicende ad altre vicende, i disordini ad altri disordini; l’istituzione modificherà le sue forme, soffrirà trasformazioni e cambiamenti, ne risentirà poco o molto della debolezza dell’uomo, dell’azione corrosiva dei secoli e dell’impatto demolitore degli avvenimenti: ma essa continuerà a vivere, e non perirà. Se una società la rigetta, andrà a cercare asilo presso un’altra; cacciata dalla città, andrà a fissare la sua dimora nei boschi; e se anche qui sarà perseguitata, passerà a rifugiarsi tra gli orrori del deserto. Vi sarà sempre qualche cuore magnanimo che risponderà alla chiamata della sublime religione, la quale reggendo nella sua mano un’insegna di dolore e insieme di amore, la Croce, l’insegna gloriosa dei tormenti e della morte del Figlio di Dio, si volge agli uomini e dice: «Vegliate e pregate, perché non entriate in tentazione; unitevi insieme per pregare, ché il Signore sarà in mezzo a voi; ogni carne è erba, la vita è un sogno; sopra di voi c’è un mare di luce e di felicità, e ai vostri piedi un abisso; la vostra vita sulla terra è un pellegrinaggio, un esilio». E chinandosi sul capo dell’uomo mortale gli pone sulla fronte il cenere misterioso, dicendogli: «Sei polvere, e in polvere ritornerai!».

Se ci dovessero chiedere perché mai i fedeli non possano esercitare la perfezione evangelica vivendo ognuno nella propria famiglia senza bisogno di riunirsi in comunità, noi risponderemo che non intendiamo negare la possibilità di tale esercizio anche in mezzo ai trambusti del mondo; e

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riconosciamo con vero piacere che un gran numero di Cristiani lo ha fatto in ogni tempo e lo fa tuttora, anche nel nostro. Questo però non toglie che il mezzo più sicuro e più pratico sia quello della vita in comune con altri che perseguono lo stesso scopo separandosi da tutte le cose del mondo. Prescindiamo per un momento da ogni aspetto religioso, ma sapete voi quale ascendente hanno sull’anima i continui esempi di quelli con cui viviamo? Sapete con quanta facilità il nostro spirito si scoraggia quando ci troviamo soli in qualche situazione scabrosa? Sapete che anche nelle maggiori sventure è una consolazione vedere che altri partecipano al nostro dolore? Su questo particolare come in tanti altri la religione va d’accordo con la sana filosofia: ambedue c’insegnano il senso profondo che in sé racchiudono quelle parole della Sacra Scrittura: Vae soli! Guai a chi è solo!

Prima di terminare questo capitolo voglio dire due parole sul voto, condizione generalmente prevista per entrare in un Istituto religioso. Chissà che questa condizione non sia una dei principali motivi della forte antipatia del Protestantesimo nei confronti di questi Istituti? Il voto rende decisi e fermi, e il principio fondamentale del Protestantesimo non ammette né stabilità, né fermezza. Molteplice e anarchico per costituzione, il Protestantesimo respinge l’unità e distrugge la gerarchia; dissolvente per natura, non permette allo spirito di rimanere stabile in una fede e di sottoporsi a una regola. La stessa virtù è per esso qualcosa di vago, che non ha una determinata sede, che si nutre di pure illusioni, che non sopporta di sottostare a una norma invariabile e costante. La santa necessità di operare bene e di procedere nel cammino della perfezione, al Protestantesimo deve risultare incomprensibile e ripugnante in massimo grado; deve sembrargli contraria alla libertà, come se l’uomo che si lega con un voto perdesse il libero arbitrio, come se la ratifica che un proponimento acquisisce quando è accompagnato dalla promessa fatta a Dio diminuisse in qualche modo il merito di chi mostra la necessaria fermezza per mantenere ciò che ha deciso di promettere.

Coloro che condannano questa necessità che l’uomo impone a se stesso e reclamano invece il diritto alla libertà, secondo me dimenticano che questo impegno di farsi schiavo del bene, di legare il proprio avvenire, a parte il sublime distacco che suppone, è l’esercizio più grande che l’uomo possa fare della propria libertà. Con un solo atto egli decide di tutta la sua vita; e quando va adempiendo i doveri che derivano da tale atto, adempie ugualmente la propria volontà. Mi si dice però, che «l’uomo è tanto incostante…». Ma è proprio per prevenire gli effetti di questa incostanza che si lega col voto, e misurando con un’occhiata i futuri eventi se ne rende superiore e anticipatamente già li domina. «Ma allora il bene – mi si replicherà forse, – si fa per obbligo, cioè per una specie di necessità…». Certamente! Non sapete che la necessità di far bene è una necessità beata, che in qualche modo rende l’uomo simile a Dio? E non sapete che l’infinita Bontà è incapace di far male, e la Santità infinita non può far nulla che non sia santo? E non ricordate quella

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meravigliosa dottrina dei teologi che individua il motivo per cui l’essere creato ha la possibilità di peccare nel fatto essenziale che l’uomo è stato creato dal nulla? Quando l’uomo si sforza per quanto è possibile di far bene, quando rende schiava in questo modo la sua volontà, allora col suo nobile agire assomiglia un po’di più a Dio e si avvicina allo stato dei beati, i quali non hanno la trista libertà di far male, ma hanno bensì la fortunata necessità di amare il Sommo Bene.

Il significato di libertà pare condannato ad essere male interpretato in tutte le sue applicazioni da quando se ne impadronirono i Protestanti e i falsi filosofi. In campo religioso, in quello morale, nel sociale, nel politico, è avvolto in tali tenebre che ci fanno ben capire quanta fatica sia stata fatta per oscurarlo e falsificarlo. Cicerone diede una definizione stupenda della libertà quando disse che consisteva nell’essere schiavo della legge. Si può dire ugualmente che la libertà dell’intelletto consiste nell’essere schiavo della verità, e quella della volontà nell’essere schiava della virtù. Invertite quest’ordine ed otterrete il risultato di distruggere la libertà. Abrogate la legge: regnerà la forza. Eliminate la verità: dominerà l’errore. Annullate la virtù: comanderà il vizio. Sottraete il mondo alla legge eterna, a quella legge che comprende l’uomo e la società e che è estesa a tutti i campi ed è la Ragione divina applicata alle creature ragionevoli, cercate al di fuori di questa immensa realtà una libertà immaginaria, e nulla resterà nella società se non il dominio della forza bruta; e nulla resterà nell’uomo fuorché l’imperio delle passioni. E sia nell’uomo che nella società la tirannia, e di conseguenza la schiavitù. Torna all’indice

CAPITOLO XXXIX Visione storica degl’Istituti religiosi. L’impero romano, i barbari, i Cristiani. Stato della Chiesa all’epoca della conversione degli imperatori romani. Vita dei Padri del deserto (anacoreti). Influenza degli anacoreti nella filosofia e nei costumi. L’eroismo della penitenza risana la morale. Splendore delle più austere virtù nel clima più corrotto.

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Abbiamo esaminato gl’Istituti religiosi in generale, considerandoli nei rapporti che hanno con la religione e con lo spirito umano; passiamo adesso a dare un’occhiata agli aspetti principali della loro storia. Dai quali, a parer mio, verrà fuori una verità molto importante: che la nascita e il diffondersi di questi Istituti sotto varie forme fu l’espressione delle gravi necessità sociali di quei tempi, e del desiderio di venire incontro a queste necessità. Essi furono quindi un mezzo potente di cui si è servita la Provvidenza per procurare non soltanto il bene spirituale della sua Chiesa, ma anche la salvezza e il rinnovamento della società. È chiaro che non potrò entrare nei singoli casi passando in rivista i numerosi Istituti che furono fondati; e sarebbe anche del tutto inutile

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per il fine che mi sono imposto. Mi limiterò dunque a scorrere le principali fasi dell’istituzione e a presentare su ciascuna di queste fasi qualche osservazione, come il viandante che non potendo trattenersi molto tempo in un paese si accontenta di contemplarlo per breve tempo dai punti più elevati. Comincio dagli anacoreti d’Oriente.

Il colosso dell’impero romano era prossimo ad un catastrofico crollo. Lo spirito che lo animava andava spegnendosi di momento in momento, e non c’era alcuna speranza che un minimo soffio di vita potesse rinvigorirgli l’anima. Il sangue circolava ancora nelle sue vene seppur lentamente, ma il male era incurabile perché i sintomi di disfacimento si manifestavano già ovunque. E questo accadeva precisamente nel momento critico e terribile in cui doveva prepararsi alla lotta e resistere al forte urto che stava per affrettarne la fine: sulla frontiera dell’impero apparvero infatti i barbari come branchi di belve attirate dalle esalazioni di un cadavere. Questa era la situazione estremamente critica in cui si trovava la società alla vigilia della spaventosa catastrofe. Tutto il mondo conosciuto era in procinto di soggiacere ad un cambiamento totale; il domani non avrebbe assomigliato all’oggi. L’albero doveva essere divelto, ma le radici erano molto profonde, e perciò non poteva essere sradicato senza sconvolgere la superficie dello sconfinato terreno dove era piantato. Venendo a confronto la più raffinata cultura con la ferocia della barbarie, la molle effeminatezza dei popoli del Sud con l’energia dei robusti figli delle selve, l’esito della lotta non poteva essere incerto. Leggi, abiti, costumi, testimonianze, arti, scienze, tutta la civiltà e la cultura accumulate col trascorrere di molti secoli, tutto era in grave pericolo, tutto lasciava presagire una prossima rovina ed era segno che Dio aveva fissato il momento di por fine al potere e alla stessa esistenza dei dominatori del mondo. I barbari non erano altro che uno strumento della Provvidenza: la mano che aveva ferito a morte la Signora del mondo, la Regina delle nazioni, era quella Mano formidabile che tocca le montagne e le fa fumare riducendole in cenere; che tocca le rocce e le squaglia come metallo fuso; che manda sulle nazioni un alito di fuoco che le divora come paglia.

Il mondo doveva restare per un po’ in preda al caos; ma da questo caos sarebbe sorta la luce? L’umanità si sarebbe fusa come l’oro nel crogiuolo per uscirne poi più brillante e più pura? Si sarebbero modificate le idee su Dio e sull’uomo? Si sarebbero diffuse regole di una morale più santa e più sublime? Il cuore umano avrebbe ricevute ispirazioni severe ed elevate per sollevarsi dal fango della corruzione in cui giaceva e per vivere in un’atmosfera più alta e più degna di un essere immortale? Sì! La Provvidenza aveva decretato così, e l’infinita Sapienza si accingeva a guidare gli avvenimenti per certe vie incomprensibili all’uomo.

Il Cristianesimo si era già diffuso su tutta la faccia della terra e le sue sante dottrine, fecondate dalla grazia divina, portavano il mondo ad una meravigliosa rinascita; ma l’umanità doveva ricevere dalle mani divine

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un’ulteriore spinta e lo spirito dell’uomo un nuovo impulso finché, con rinnovato vigore, s’innalzasse di slancio ad un’altezza talmente elevata che non potesse mai più ricadere. La storia ci mostra gli ostacoli che si opposero all’affermarsi del Cristianesimo e al suo successivo sviluppo: fu necessario che Dio prendesse le armi e imbracciasse lo scudo, secondo la vigorosa espressione del profeta, e che a forza di stupendi prodigi spezzasse la resistenza delle passioni, distruggesse ogni scienza che insorgeva contro la Sua scienza, respingesse tutte le potenze che Gli si ponessero di fronte e soffocasse l’orgoglio e l’ostinazione dell’Inferno. Passati i tre secoli di persecuzione, quando la vittoria si andava già delineando ovunque in favore della vera religione; quando i templi delle false divinità rimanevano sempre più deserti e gl’idoli che ancora non erano stati rovesciati al suolo già barcollavano sui loro piedestalli; quando l’insegna del Calvario ondeggiava nel labaro dei Cesari e le legioni dell’impero s’inchinavano devotamente davanti alla Croce; fu allora che il Cristianesimo con delle istituzioni permanenti, quelle sublimi istituzioni che esso solo concepisce e solo suscita, iniziò ad applicare concretamente quegli eccelsi ammaestramenti che tre secoli prima la Palestina attonita udì dalle labbra di un Uomo il quale, senza che alcuno lo avesse istruito, pronunciava e insegnava delle Verità che mai si erano affacciate alla mente del più illustre mortale.

Le virtù dei Cristiani erano già uscite dall’oscurità delle catacombe ed ora dovevano risplendere alla luce del sole e nella nuova epoca di pace come risplendevano prima nell’oscurità delle carceri e nell’orrore dei patiboli. Il Cristianesimo era divenuto Signore dell’impero come del focolare domestico, e i discepoli, cresciuti di numero oltre ogni aspettativa, non vivevano più in comunità di beni. Quindi è chiaro che una continenza assoluta e un completo abbandono delle cose terrene non poteva più essere, generalmente, la forma di vita abituale delle famiglie cristiane. Il mondo doveva progredire e la vita del genere umano non doveva terminare allora; e perciò non tutti i Cristiani dovevano osservare quel sublime consiglio per il quale gli uomini conducono sulla terra la vita degli angeli. Molti si contentarono di osservare i comandamenti per conseguire la vita eterna, senza aspirare a quella perfezione sublime che porta con sé la rinuncia di tutte le cose terrene e la perfetta abnegazione di se stessi. D’altra parte, però, il Fondatore della religione cristiana non voleva che i Suoi divini consigli cessassero di avere discepoli in mezzo all’indifferenza e alla dissipatezza del mondo.

Egli non li aveva dati invano questi consigli; oltre a ciò la loro pratica, per quanto ristretta ad un numero esiguo, portava ovunque un’influenza benefica che facilitava ed assicurava l’osservanza dei precetti. La forza dell’esempio può tanto, sul cuore dell’uomo, che molte volte basta da sola a trionfare sulle opposizioni più tenaci ed ostinate. Nel nostro cuore vi è qualcosa che l’induce ad affezionarsi a tutto ciò che ha sotto gli occhi, sia nel bene che nel male, e sembra che uno stimolo segreto sproni l’uomo quando vede che altri, in uno o

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nell’altro caso, gli passano avanti. Per questo motivo fondare Istituti religiosi era di grandissima utilità, perché con le loro virtù e con l’austerità della vita che vi si conduceva essi fossero di esempio alla totalità dei fedeli, oltre che un eloquente rimprovero al pervertimento causato dalle passioni.

La Provvidenza voleva raggiungere questo fine con mezzi singolari e straordinari: lo Spirito di Dio soffiò sulla terra e subito apparvero uomini che dovevano dare inizio a questa grande opera. Negli orribili deserti della Tebaide, nelle infuocate solitudini dell’Arabia, della Palestina e della Siria, si presentano alcuni uomini coperti di rozzo e ruvido sacco: un mantello di pelle di capra sulle spalle e un grezzo cappuccio sul capo comprendono tutto il lusso con cui essi confondono l’orgoglio e la vanità degli uomini di mondo. Tenendo esposto il loro corpo ai più cocenti raggi del sole e ai rigori del freddo più intenso, estenuati per di più da lunghi digiuni, appaiono come spettri ambulanti usciti dalla polvere dei sepolcri. L’erba dei campi costituisce il loro unico alimento e l’acqua l’unica bevanda. Col semplice lavoro delle mani si procurano gli scarsi mezzi di cui hanno bisogno per sovvenire alle loro strette necessità. Soggetti alla direzione di un venerabile vecchio, che non ha altri titoli per governare che una lunga vita condotta nella sua cella e l’essere invecchiato in mezzo a privazioni ed austerità inaudite, osservano costantemente il più profondo silenzio; schiudono le loro labbra solo per articolare parole di preghiera e non fanno sentire la loro voce se non per intonare inni di lode al Signore. Per loro il mondo non esiste: le relazioni di amicizia, i dolci legami di famiglia e di parentela, tutto è cancellato da uno spirito di perfezione portato ad un’altezza superiore a tutte le considerazioni terrene. La cura dei loro patrimoni non li preoccupa affatto nella solitudine: prima di ritirarsi nel deserto li abbandonarono senza alcuna riserva all’erede più prossimo, oppure vendettero i loro beni e distribuirono ai poveri il denaro ricavato. Le Sacre Scritture sono il cibo della loro anima: imparano a memoria le parole di quel libro divino e vi meditano sopra continuamente, supplicando umilmente il Signore che conceda loro la grazia di comprenderne il vero senso. Nelle loro taciturne adunanze si ode solo la voce di qualche venerabile solitario, che con la più candida semplicità ed affettuosa fermezza spiega il senso del sacro Testo; ma sempre in modo che gli uditori possano ricavarne qualche giovamento per purificare vieppiù le loro anime.

Il numero di questi cenobiti era tanto immenso che non si potrebbe nemmeno credere se molti testimoni degni della massima fede non ce lo riferissero. E riguardo alla santità, allo spirito di penitenza, al tenore di vita di perfezione che abbiamo descritto, non ce ne lascia alcun dubbio la testimonianza di Rufino, di Palladio, di S. Girolamo, di S. Giovanni Crisostomo, di S. Agostino e di tutti gli uomini illustri che si distinsero in quei tempi. Il fatto è singolare, straordinario, prodigioso, ma nessuno ha potuto mai negarne la verità storica: ne fu testimone il mondo intero, il quale da tutte le

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parti accorreva al deserto per avere luce ai suoi dubbi, rimedi ai suoi mali e il perdono dei suoi peccati.

Sarebbe facile per me portare numerosissime e autorevoli testimonianze a conferma di quanto ho affermato: mi accontenterò di una sola che basti per tutte, ed è quella di S. Agostino. Ecco come il Santo Dottore descrive la vita di quegli uomini straordinari: «Questi Padri, non solo di costumi illibatissimi, ma versatissimi nella dottrina divina ed eminenti in ogni cosa, provvedono a coloro che chiamano figli senza alcuna superbia, grazie alla loro grande autorità nel comandare e alla pari volontà dei figli nell’obbedire. Sul far della sera, mentre sono ancora digiuni, escono ciascuno dalla sua cella e si riuniscono per ascoltare il loro padre e sotto ciascun padre si radunano non meno di tremila uomini: anche di più ne vivono sotto uno solo. Lo ascoltano con un’attenzione incredibile, in assoluto silenzio, e manifestano i sentimenti suscitati nel loro animo dal discorso di colui che parla ora con gemiti, ora con lacrime, ora con gioia moderata e sommessa». (S. Agostino, I costumi della Chiesa cattolica e i costumi dei Manichei, libro I, 31).

Ci si chiederà: «Ma a che servivano questi uomini se non a santificare se stessi? Che vantaggio ne veniva alla società? Che influenza esercitavano sulle idee, e quale cambiamento produssero nei costumi? Ammettiamo pure che la pianta fosse bella e profumata: ma a che pro, se era sterile?».

È un grave errore pensare che da tante migliaia di cenobiti non derivasse una grande influenza. In primo luogo, e per ciò che riguarda le idee, bisogna dire che in Oriente i monasteri si formarono sotto gli occhi, per così dire, delle scuole filosofiche. L’Egitto fu il paese dove fiorirono maggiormente i cenobiti, e tutti sanno quale prestigio avessero a quel tempo le scuole di Alessandria. Per tutta la costa del Mediterraneo, nella fascia di territorio che cominciando dalla Libia arrivava fino al Mar Nero, gli spiriti erano in uno straordinario fermento. Il Cristianesimo e il Giudaismo, le dottrine dell’Oriente e dell’Occidente, tutto vi si trovava accumulato ed unito. Quello che restava delle antiche scuole di Grecia era lì, insieme a tutto il patrimonio acquisito con l’andar del tempo e a ciò che lasciarono i più famosi popoli della terra che avevano attraversato quel paese. Nuovi e giganteschi avvenimenti erano venuti a spargere un’immensa luce sul carattere e sull’importanza delle idee; gli animi avevano ricevuto una scossa tale che non si accontentavano più delle tranquille lezioni degli antichi maestri. I più eminenti personaggi dei primi tempi del Cristianesimo provengono da quei paesi e nelle loro opere si scorge la grandezza e la penetrazione alle quali lo spirito umano era giunto in quell’epoca. È possibile allora che un fenomeno tanto straordinario come quello che abbiamo riferito, che un susseguirsi di eremi e di celle sparsi per tutta una zona dove erano attive tutte le scuole filosofiche non esercitasse sugli animi una forte influenza? Le idee dei cenobiti passavano continuamente dall’eremo alla città; perché nonostante tutto il loro impegno per evitare il

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contatto col mondo, il mondo li cercava, li andava a trovare e ne riceveva continuamente l’influsso.

Nell’osservare come le genti andavano in cerca dei Padri di più eminente santità per ottenerne un rimedio alle proprie pene e una consolazione per le proprie sventure; nel vedere come quegli uomini venerandi spargevano con certezza evangelica le sublimi lezioni apprese durante lunghi anni di meditazione e di preghiera nel silenzio della solitudine, è impossibile non concepire quanto tali rapporti dovessero contribuire a correggere ed elevare le idee sulla religione e la morale, e a modificare e purificare i costumi.

Non bisogna dimenticare che l’intelletto dell’uomo era, per così dire, divenuto materialista a motivo della corruzione e materialità introdotte dalla religione pagana. Il culto della natura e delle forme sensibili aveva gettate radici così profonde che per portare gli animi a concepire cose superiori alla materia era necessaria una scossa forte e straordinaria, era indispensabile annientare, per così dire, la materia per presentare all’uomo soltanto lo spirito. La vita degli anacoreti era per sé molto adattata a produrre questo effetto; nel leggere la preziosissima storia di questi uomini pare che ci si trovi fuori di questo mondo: la carne è scomparsa, e non rimane più che lo spirito. E tanta è la forza con cui l’hanno assoggettata, e tanto hanno insistito sulla vanità delle cose terrene, che effettivamente si potrebbe dire che la realtà stessa sia un’illusione, e che il mondo fisico si dilegui per cedere il posto al mondo intellettuale e morale; e rotti tutti i vincoli terreni l’uomo è messo in comunicazione intima col cielo. I miracoli si moltiplicano prodigiosamente in quelle vite, le apparizioni sono continue, le celle degli anacoreti sono un’arena dove non entrano più i mezzi terrestri. Qui gli angeli buoni lottano contro gli angeli ribelli, il cielo combatte con l’inferno, e Dio con Satana; la terra non esiste se non per servire da campo di battaglia; il corpo non esiste se non per essere un olocausto sull’altare della virtù al cospetto del demonio, che lotta furiosamente per tentare di farne lo schiavo del vizio.

Dov’era più quel culto idolatra che la Grecia rendeva alle forme sensibili, e quell’adorazione che essa tributava alla natura quando divinizzava tutto ciò che c’è di voluttuoso e di bello, tutto ciò che eccitava i sensi, la fantasia e il cuore? Quale profondissimo cambiamento! Questi stessi sensi ora venivano sottoposti alle più terribili privazioni, la più dolorosa circoncisione ora veniva applicata al cuore, e l’uomo che poco prima non sollevava la mente da terra, ora la teneva costantemente rivolta al cielo.

Non è possibile farsi un’idea di ciò che stiamo descrivendo se non si leggono le vite di quegli anacoreti; non si può concepire tutto l’effetto che ne derivò senza essersi immersi per ore nella lettura di quelle pagine, dove a mala pena si trova qualche minima cosa che segua il corso ordinario. Non basta immaginare una vita pura ed austera, visioni, miracoli: bisogna mettere tutto ciò insieme ed elevarlo, portandolo al più alto grado di singolarità nella via di perfezione.

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Se non si vuole vedere in fatti così straordinari l’azione della grazia; se non si vuole riconoscere in questo fermento religioso alcun effetto soprannaturale; se si vuole addirittura affermare temerariamente che la mortificazione della carne e l’innalzamento dello spirito furono portati ad un eccesso riprovevole; non si potrà però negare che una simile reazione era sommamente opportuna per spiritualizzare le idee, risvegliare le forze intellettuali e morali dell’uomo, e farlo rientrare in se stesso per acquisire la conoscenza di quella vita interiore, intima, morale, alla quale fino a quel momento egli non aveva mai pensato. La fronte che prima si abbassava fino alla polvere ora si alzava verso la Divinità; una visione più nobile di quello dei piaceri materiali si apriva all’anima; e l’immoralità bestiale, derivante dallo scandaloso esempio delle false divinità del paganesimo, si rivelava offensiva per l’alta dignità della natura umana.

Sotto l’aspetto morale l’effetto fu immenso. Fino allora l’uomo non aveva neanche immaginato di poter resistere all’impeto delle passioni: nella fredda moralità di alcuni filosofi si trovavano, è vero, alcune massime di condotta per opporsi alla sfrenatezza delle passioni pericolose; ma questa morale non era che nei libri, il mondo non la considerava praticabile; e se alcuni tentarono di praticarla lo fecero in modo tale che, invece di portarle credito, la resero ancora più disprezzabile. Che importa infatti abbandonare le ricchezze e mostrarsi distaccati da tutte le cose del mondo, come ostentavano alcuni filosofi, se nello stesso tempo ci si mostrava così vani e pieni di sé da offrire tutti i sacrifici a nessun’altra divinità che al proprio orgoglio? Questo si chiama abbattere tutti gli idoli per metter se stessi sull’altare, e qui regnare senza altre divinità rivali. Questo non significa controllare le passioni e tenerle soggette alla ragione, ma piuttosto creare una passione mostruosa, che si eleva su tutte le altre e le divora. L’umiltà, pietra fondamentale su cui i cenobiti erigevano l’edificio delle proprie virtù, li collocava d’un balzo in una posizione infinitamente superiore a quella di quegli antichi filosofi che si davano ad una vita più o meno severa. In questo modo l’uomo imparava a fuggire il vizio e a praticare la virtù, non per il vano piacere di essere visto e ammirato, ma per motivi superiori fondati sulla relazione dell’uomo con Dio, e sui destini di un eterno futuro.

Da allora in poi l’uomo seppe che non era impossibile trionfare sul male nell’ostinata lotta che sperimenta continuamente dentro di sé, ricevendone l’esempio da tante migliaia di persone di ambo i sessi che osservavano una regola di vita così pura ed austera. L’umanità doveva riprendere lena e acquistare l’intima persuasione che per l’uomo il sentiero della virtù non era impraticabile.

Questa generosa fiducia ispirata all’uomo da tanti esempi così sublimi, non veniva per niente svigorita dal dogma cristiano che esorta a non attribuire alle proprie forze le azioni che portano a procurarsi la vita eterna, e che insegna la necessità di un aiuto divino per non smarrirsi nei sentieri della perdizione.

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Questo dogma, che d’altronde va tanto d’accordo con l’esperienza quotidiana sulla fragilità umana, è tanto lontano dall’abbattere le forze dello spirito e da scoraggiare l’uomo, che, al contrario, lo incoraggia sempre più a perseverare impavido in mezzo a tutti gli ostacoli. Quando l’uomo si crede solo, quando non si sente sostenuto dalla potente mano della Provvidenza, cammina vacillando come un bambino che fa i primi passi; gli manca la fiducia in se stesso e nelle proprie forze, e vedendo troppo distante l’oggetto verso il quale procede, l’impresa gli appare troppo ardua e finisce col venir meno. Il dogma della grazia, tal quale lo spiega il Cattolicesimo, non è quella dottrina fatalista che getta nella disperazione e che gela i cuori tra i Protestanti, come se ne lamentava Grozio; è invece una dottrina che pur lasciando all’uomo il libero arbitrio, la completa libertà di decisione, gl’insegna la necessità di un aiuto superiore, aiuto che verrà sparso in abbondanza su di lui dalla bontà infinita di un Dio che venne al mondo per riscattarlo, e che versò per lui tutto il Suo sangue in mezzo ai tormenti e all’ignominia esalando l’ultimo respiro in cima al Calvario.

Sembra anche che la Provvidenza volle scegliere un clima particolare, dove l’umanità potesse fare una prova delle sue forze ravvivate e sostenute dalla grazia. Nel clima più pestifero, data la corruzione del cuore, dove la rilassatezza del corpo conduce come conseguenza a quella dello spirito, dove l’aria stessa che si respira è stimolo alla voluttà, fu proprio qui che fu esercitata la maggiore energia dello spirito, dove fu praticata la più grande austerità, dove i piaceri dei sensi furono estirpati col più risoluto rigore e la massima durezza. I cenobiti fissavano la loro dimora in quei luoghi dove potevano ancora giungere le fragranze balsamiche che si respiravano nelle vicine contrade; e dalla vetta delle loro montagne di sabbia la loro vista arrivava ancora a scorgere le amene e tranquille campagne che invitavano al godimento e al piacere; simili a quella vergine cristiana che abbandonò la sua oscura grotta per sistemarsi nell’anfratto di una roccia da cui contemplava il palazzo dei suoi genitori, sovrabbondante di ricchezze, di comodità e di delizie, mentre lei gemeva, qual solitaria colomba, nelle fessure di una pietra. D’allora in poi tutti i climi furono buoni per la virtù: l’austerità della morale non dipendeva dalla maggiore o minore vicinanza alla linea dell’Equatore; la morale dell’uomo era come l’uomo stesso, poteva vivere in tutti i climi. Quando la continenza più assoluta poteva essere praticata in un modo così meraviglioso nei paesi più dilettevoli e voluttuosi, nel Cristianesimo poteva ben introdursi e mantenersi la monogamia; e quando negli arcani dell’Eterno fosse giunta l’ora di chiamare un popolo alla luce della verità, poco importava che questo popolo vivesse tra le brine della Scandinavia o nelle infuocate pianure dell’India. Lo spirito delle leggi di Dio non è da rinchiudersi nel piccolo cerchio che il preteso Spirito delle leggi di Montesquieu ha tentato di assegnargli. Torna all’indice

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CAPITOLO XL Importanza dei monasteri d’Oriente. Perché la civiltà trionfò in Occidente e perì in Oriente. Influenza dei monasteri d’Oriente sulla civiltà araba.

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L’influenza degli eremiti d’Oriente sulla religione e sulla morale è un fatto che non ammette dubbi. È vero che non è tanto facile valutarla in modo preciso in tutta la sua estensione e in tutti i suoi effetti, ma non cessa per questo di essere reale e certa. E non agì sui destini dell’umanità come quegli avvenimenti eccezionali che spesso vanno a finire in una maniera ben diversa da quella che facevano presagire; ma fu come una pioggia benefica che scorre lentamente sopra un terreno riarso, e feconda le praterie e le campagne. Se fosse possibile all’uomo comprendere e distinguere bene il vasto complesso delle cause che hanno contribuito ad elevargli lo spirito e a dargli una chiara consapevolezza della propria immortalità, rendendogli pressoché impossibile di tornare all’antica degradazione, capirebbe forse che il prodigioso fenomeno degli eremiti d’Oriente ebbe una parte preponderante in questo enorme cambiamento. Non dimentichiamo che i grandi uomini dell’Occidente ricevettero di là le loro ispirazioni, che S. Girolamo visse nella grotta di Betlemme, e che la conversione di S. Agostino fu accompagnata da una santa emulazione che gli si risvegliò in cuore nel leggere la vita di S. Antonio Abate.

I monasteri che sorsero successivamente sia in Oriente che in Occidente ad imitazione dei primitivi eremi dei cenobiti ne furono una continuazione, benché la diversità dei tempi e delle situazioni li rendessero alquanto diversi in vari sensi. Di là uscirono i Basilio, i Gregorio, i Crisostomo ed altri uomini insigni che diedero lustro alla Chiesa. E se lo spirito meschino delle controversie, se l’ambizione e l’orgoglio non avessero seminato un germe di discordia e di divisione, preparando così quello scisma che doveva privare le chiese orientali dell’influenza vivificatrice della Sede Romana, forse gli antichi monasteri d’Oriente avrebbero potuto servire come quelli d’Occidente a promuovere una rigenerazione sociale tale da riunire in un solo popolo i vincitori e i vinti.

È evidente che la mancanza di unità è stata una delle cause della debolezza degli Orientali. Non negherò che la situazione in cui si trovarono fosse molto diversa dalla nostra: il nemico che dovettero affrontare non assomigliava punto ai barbari del Nord. Dubito però che fosse più facile ad intendersi con questi che con i popoli conquistatori dell’Oriente. Là rimase la vittoria agli assalitori, e lo stesso qua; ma un popolo vinto non è morto, e comunque non gli mancano grandi prerogative che gli possano dare un ascendente morale sul vincitore, onde preparare segretamente un cambiamento e forse anche

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l’espulsione del vincitore stesso. I barbari del Nord conquistarono il Mezzogiorno d’Europa; ma il Mezzogiorno a sua volta trionfò su di loro con l’aiuto della religione cristiana, e i barbari non furono cacciati, ma trasformati. La Spagna fu conquistata dagli Arabi; gli Arabi non poterono essere trasformati, ma infine furono cacciati. Se l’Oriente avesse conservata l’unità; se Costantinopoli e le altre sedi vescovili avessero continuato ad essere soggette a Roma come quelle di Occidente: in una parola, se tutto l’Oriente si fosse accontentato di essere un membro del grande corpo, invece di avere l’ambiziosa pretesa di considerare se stessa, da sola, un gran corpo, io ritengo certo e indubitabile che, supposta pure la conquista da parte dei Saraceni, si sarebbe suscitata una contesa intellettuale, e insieme morale e fisica, che avrebbe finito o col produrre un cambiamento totale nel popolo conquistatore, o col ricacciarlo negli antichi deserti.

Si dirà che la trasformazione degli Arabi sarebbe stata opera di secoli: ma non lo fu forse anche quella dei barbari del Nord? Rimase forse compiuta l’opera con la loro conversione al Cristianesimo? Essi erano in gran parte ariani; ma a parte ciò, capivano così male i princìpi cristiani, e provavano tanta difficoltà a praticare la morale evangelica che per un lunghissimo periodo fu quasi altrettanto difficile trattare con loro che con un popolo di un’altra religione. D’altra parte non bisogna dimenticare che l’invasione dei barbari non fu una sola, in quanto per diversi secoli vi fu una serie continua d’invasioni; tale però era la forza dei princìpi religiosi circolanti in Occidente che tutti quei popoli barbari o furono costretti a ritirarsi, o si adattarono ai princìpi e ai costumi dei paesi che avevano appena occupati. La disfatta delle schiere di Attila, le vittorie di Carlo Magno sui Sassoni e sugli altri popoli oltre il Reno, le successive conversioni delle nazioni idolatre del Nord per mezzo dei missionari spediti da Roma, le vicende infine e l’esito delle invasioni dei Normanni, e in Spagna il trionfo definitivo dei Cristiani sui Mori dopo una guerra di otto secoli, sono una prova decisiva di quanto ho affermato fin qui, cioè che l’Occidente vivificato e fortificato dall’unità cattolica ha avuto la capacità di assorbire e appropriarsi di ciò che non ha potuto cacciare, e la forza sufficiente per cacciare quello che non ha potuto far suo.

Questo è ciò che è mancato in Oriente. L’impresa non era più difficile là che qua. Se l’Occidente da solo riuscì a liberare il Santo Sepolcro, l’Occidente e l’Oriente uniti o non l’avrebbero mai perso, o dopo averlo liberato l’avrebbero conservato per sempre. Per lo stesso motivo i monasteri d’Oriente non acquistarono mai quella vitalità e quella forza che distinsero quelli d’Occidente; e per questo andarono indebolendosi col tempo senza far nulla d’importante che servisse a prevenire la dissoluzione sociale e preparasse in silenzio, con un lento lavorio, quella rigenerazione di cui potessero servirsi le generazioni successive dal momento che la Provvidenza aveva stabilito che quelle di allora vivessero oppresse da calamità e da catastrofi. Chi studiando la storia ha conosciuto le splendide origini dei monasteri d’Oriente si sente

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stringere il cuore nell’osservare come essi siano andati diminuendo di forza e di prestigio nel corso dei secoli, e nel vedere come, dopo i danni sofferti da quel disgraziato paese a motivo delle invasioni, delle guerre, ed infine per l’azione letale dello scisma di Costantinopoli, gli antichi monasteri di tanti uomini celebri per dottrina e santità siano andati sparendo dalle pagine della storia, come torce che si spengono, come fuochi sparpagliati e quasi estinti che si vedono qua e là in un accampamento abbandonato.

Furono immensi i danni che in tutti i campi delle conoscenze umane derivarono da questa debolezza che rese l’Oriente sempre più sterile finendo col farlo morire. Se si guarda bene, al tempo dei grandi sconvolgimenti e dei tumulti che stavano agitando l’Europa, l’Africa e l’Asia, il deposito naturale di ciò che restava dell’antico sapere non era l’Occidente, ma l’Oriente. Non era nei nostri monasteri che venivano conservati i libri e gli altri oggetti preziosi di cui generazioni più felici e tranquille avrebbero tratto profitto un giorno; ma bensì nei monasteri fondati in quei luoghi stessi dove si erano incontrate e mescolate civiltà molto diverse, e in cui lo spirito umano aveva svolto una maggiore attività e si era spinto ad altezze più elevate. In quei monasteri era stato raccolto un patrimonio preziosissimo di tradizioni, di scienze, di bellezze artistiche: era, in una parola, il grande emporio dove si trovavano accumulate le ricchezze della civiltà e della cultura di tutti i popoli del mondo conosciuto.

Non voglio tuttavia dare l’impressione di voler dire che i monasteri d’Oriente non abbiano contribuito ad arricchire l’intelletto umano: la scienza e la letteratura d’Europa ricordano ancora con piacere l’impulso ricevuto dall’arrivo sulle coste d’Italia dei preziosi materiali dopo la presa di Costantinopoli. Le stesse ricchezze però, che furono portate in Europa da alcuni uomini che a stento riuscirono a salvare la propria vita sbattuti sulle nostre spiagge come dalla furia di una tempesta, giungevano tra noi come un naufrago sfinito il quale, scampato alle onde del mare, serba ancora tra le sue mani intirizzite una certa quantità di oro e pietre preziose. E questo c’induce ancor più a dolerci, perché ci fa meglio capire di quali immense ricchezze fosse carica la nave che affondò, e ci fa deplorare amaramente che i primi tempi degl’illustri monaci d’Oriente non abbiano potuto collegarsi ai nostri. Quando vediamo le loro opere colme di erudizione sacra e profana, quando scorgiamo quell’attività instancabile che traspare dai loro lavori, il nostro pensiero va con dolore al prezioso deposito che dovevano aver posseduto quelle ricche biblioteche.

Ciononostante, e ad onta delle precedenti riflessioni purtroppo vere, bisogna anche dire che l’influenza di quei monasteri non mancò di essere di grande vantaggio alla conservazione delle antiche conoscenze. Gli Arabi al tempo della loro supremazia si mostrarono sapienti e colti; sotto diversi aspetti l’Europa va loro debitrice di grandi progressi: Bagdad e Granada furono i due importanti centri della rifioritura delle scienze e delle bellezze artistiche, e

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questo fatto attenua in minima parte l’effetto complessivamente sgradevole della vicenda storica dei settari di Maometto, allo stesso modo di due piacevoli e tranquille figure che rendono più sopportabile la vista di un quadro sgradevole e orribile. Se si potesse seguire la storia dello sviluppo della cultura degli Arabi nel periodo delle trasformazioni e delle catastrofi d’Oriente, probabilmente si scoprirebbe l’origine di molti loro progressi nelle conoscenze di quegli stessi popoli che essi conquistarono o annientarono. Detto questo, è certo comunque che la loro stessa civiltà non contiene alcun principio vitale che favorisca lo sviluppo della conoscenza: ce lo dice la loro stessa organizzazione religiosa, sociale e politica, e ce l’insegnano i pochi frutti raccolti da questo popolo dopo tanti secoli di pacifico possesso nei paesi conquistati. Tutto il loro sistema in ciò che riguarda le lettere e la cultura negli ultimi tempi va a ridursi in quelle stupide parole che pronunciò uno dei suoi capi quando ordinò d’incendiare un’immensa biblioteca: «Se questi libri sono contrari al Corano devono essere bruciati come dannosi; se sono favorevoli, devono essere bruciati come inutili».

Leggiamo in Palladio (Rutilio Paolo Emiliano – IV sec. d.C.) che i monaci in Egitto, non contenti di lavorare oggetti semplici e rozzi, esercitavano altresì ogni genere di arte. Le molte migliaia di persone di ogni classe e di tanti diversi luoghi che abbracciarono la vita monastica dovettero portare nel deserto un patrimonio considerevole di conoscenze. Si sa dove può giungere nella solitudine lo spirito dell’uomo, padrone di se stesso, che si dedichi ad una determinata occupazione. Quindi non è privo di fondamento ritenere che molte nozioni allora sconosciute sui segreti della natura, sull’utilità e le proprietà di certe sostanze, sui princìpi di alcune scienze ed arti di cui, quando comparvero in Europa, in gran parte furono considerate espressioni della civiltà araba, non fossero altro che il resto dell’antica scienza raccolto dagli stessi Arabi in quei paesi che prima erano stati popolati da uomini giuntivi da ogni parte.

È necessario ricordare che nelle prime invasioni dei barbari, quando la Spagna, la parte meridionale della Francia, l’Italia, l’Africa del Nord e le isole adiacenti a tutti questi paesi venivano terribilmente devastate, tutti coloro che potevano intraprendere un viaggio si affrettarono a cercare asilo in Oriente. Fu così che qui si accumulò man mano tutto il patrimonio delle conoscenze dell’Occidente. E questo contribuì molto a conservare i resti dell’antico sapere, che ben presto ci tornò trasformato e sotto un aspetto diverso per mezzo Arabi.

Il forte disinganno derivato dalla constatazione della vanità delle cose terrene, ravvivato da una così lunga serie di grandi sventure, fortificò quegli infelici nel sentimento religioso; e i fuggitivi accolti in Oriente ascoltavano con viva commozione l’energica voce dell’eremita della grotta di Betlemme. Ed è così che i fuggiaschi si ritirarono in gran parte nei monasteri dove trovavano soccorso per le loro necessità e consolazione per le loro anime; e in

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tal modo nei monasteri d’Oriente si accumulava man mano un deposito sempre più ricco di preziose nozioni e cognizioni di ogni genere.

Se mai un giorno la civiltà europea dovesse arrivare a dominare su quei luoghi che ora gemono sotto l’oppressione musulmana, la storia del Sapere forse potrà aggiungere una bella pagina ai suoi studi qualora riuscisse ad individuare (attraverso manoscritti che vengano scoperti dalla diligenza o dal caso nell’oscurità di quei secoli) quel filo conduttore che mostrerebbe ancor più chiaramente il collegamento della scienza araba con la scienza antica, e spiegherebbe le trasformazioni che questa subì man mano e che la fecero sembrare di origine diversa. Le ricchezze conservate negli archivi spagnoli, relative al tempo in cui dominavano i Saraceni, archivi nei quali possiamo dire che non è stata ancora cominciata la ricerca e lo studio, potrebbero forse spargere un po’ di luce su questo fatto. Luce che darebbe senz’altro la possibilità di applicarsi a pregevoli ricerche che ci porterebbero a valutare con grande interesse le due civiltà fra loro tanto diverse, quali sono la maomettana e la cristiana. Torna all’indice

CAPITOLO XLI Caratteristiche degli Istituti religiosi d’Occidente. San Benedetto. Lotta dei monaci contro la decadenza. Origine dei beni dei monaci. Importanza di tali possessi per instillare il rispetto per la proprietà. Osservazioni sulla vita campestre. La scienza e le lettere nei chiostri. Graziano.

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Passiamo ora ad esaminare gli Istituti religiosi che sorsero in Occidente, tralasciando però di parlare di quelli che, sebbene fondati in varie parti d’Europa, non erano che una specie di diramazione dei monasteri orientali. Questi Istituti sorti in Occidente, oltre ad essere improntati allo spirito evangelico che presiedette alla loro fondazione, presero anche il carattere di società conservatrici, riparatrici e rigeneratrici. I monaci non si accontentavano di santificare se stessi, ma fecero subito in modo di incidere sulla società. La luce e la vita racchiuse in queste sante dimore si aprivano la strada per illuminare e fecondare il caos in cui giaceva il mondo.

Non so se nella storia dell’umanità vi sia uno spettacolo più bello é più consolante di quello che ci si presenta con la fondazione, la diffusione e il progresso degl’Istituti religiosi in Europa. La società aveva bisogno di grandi energie per mantenersi in vita tra le terribili crisi che stava attraversando, ed il segreto della forza sociale stava nel mettere insieme le forze individuali, nell’associarsi. Ed è certamente cosa meravigliosa che questo segreto venisse svelato alla società europea come per una rivelazione divina. In questa società tutto stava crollando e cadendo in pezzi, tutto stava andando in rovina. La religione, la morale, l’autorità pubblica, le leggi, i costumi, le scienze, le arti:

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tutto stava soffrendo enormi perdite, ogni cosa stava naufragando; e per chi ritenga che il futuro del mondo dipende dalle capacità umane, i mali erano tanti e tanto gravi che non era più possibile porvi rimedio.

L’osservatore che fissa sbigottito lo sguardo su quei tempi, quando vede S. Benedetto dar vita agli Istituti monastici, prescrivere loro la sua saggia regola costituendoli così in forma stabile, crede di vedere un angelo di luce sorgere in mezzo alle tenebre. La sublime ispirazione che guidò quest’uomo straordinario era la più adatta che si potesse immaginare per depositare in seno alla società disgregata un principio di vita e di riorganizzazione. Chi non sa in quali condizioni era ridotta in quei tempi l’Italia, o, per dir meglio, l’intera Europa? Quanta ignoranza! Quanta corruzione! Quanti elementi di disfacimento sociale! Quante rovine dappertutto! In una così deplorevole situazione appare il santo eremita, nato da un’illustre famiglia di Norcia, deciso a combattere il male che minaccia di dominare il mondo. Armato delle sue virtù; con l’eloquenza del suo esempio esercita sugli altri un ascendente irresistibile; elevato ad un’altezza superiore al suo secolo, ardente di zelo e pieno nello stesso tempo di discrezione e di prudenza, fonda l’Istituto destinato a resistere alle agitazioni dei tempi, immobile come una piramide in mezzo agli uragani del deserto.

Che grande idea, benefica, piena di lungimiranza e di sapienza! Quando la scienza e le virtù non trovavano dove riparare, quando l’ignoranza, la corruzione e la barbarie andavano diffondendosi rapidamente, vediamo erigere un ricovero alla sventura, formare come un deposito dove poter conservare le preziose testimonianze dell’antichità, aprire scuole di scienza e di virtù dove istruire la gioventù destinata un giorno ad essere protagonista nelle vicende del mondo. Quando l’osservatore contempla la silenziosa abbazia di Montecassino; quando vede recarvisi da ogni parte i figli delle famiglie più illustri dell’impero, chi con l’idea di rimanervi per sempre, chi per ricevere un’educazione perfetta per poi portare nel mondo un ricordo delle sagge ispirazioni ricevute dal santo fondatore nell’eremo di Subiaco; quando osserva che i monasteri dell’Ordine si vanno moltiplicando ovunque e si vanno installando come grandi centri di attività nelle campagne, nei boschi e nei luoghi più inospitali; non può fare a meno di sentire la più profonda venerazione verso l’uomo straordinario che ha concepito idee così grandiose. Se non vogliamo considerare S. Benedetto ispirato dal cielo, dovremmo almeno considerarlo come uno di quei personaggi che di tanto in tanto appaiono sulla terra quali angeli tutelari del genere umano.

Dimostrerebbe scarsa intelligenza chi rifiutasse di riconoscere l’effetto vantaggiosissimo che produssero simili istituzioni. Quando la società si dissolve non ci vogliono parole né progetti, e neanche leggi; ci vogliono invece istituzioni forti che resistano all’impeto delle passioni, all’incostanza dello spirito umano e all’urto demolitore degli avvenimenti; istituzioni che innalzino l’intelletto, che purifichino e nobilitino il cuore, producendo così

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alla base della società un movimento di resistenza e di reazione contro i cattivi elementi che la conducono alla morte. Se vi è allora un intelletto limpido, un cuore generoso, un’anima dominata da sentimenti virtuosi, si affretta a rifugiarsi nel sacro asilo. Non sempre vien loro concesso di cambiare l’andamento del mondo, ma almeno lavorano in silenzio per istruirsi e purificarsi, mentre versano lacrime di compassione sulle insensate generazioni che si agitano in una tumultuosa frenesia; e talvolta ottengono anche di far sentire la loro voce in mezzo al clamore, e di ferire il cuore del malvagio con le loro parole che sono come un terribile avvertimento disceso dall’alto. In questo modo contribuiscono almeno a ridurre la forza del male, dal momento che non è loro concesso di porvi riparo. Protestando continuamente contro l’iniquità, ed impedendo quindi che essa in certo qual modo acquisti valore di norma, essi trasmettono alle generazioni future la solenne testimonianza che in mezzo alle tenebre e alla corruzione vi sono pure degli uomini che si sforzano d’illuminare il mondo. Opponendo un argine al sovrabbondare del delitto e del vizio essi conservano la fede nella verità e nella virtù e sostengono e ravvivano la speranza dei loro contemporanei, e degli uomini dei tempi futuri che potranno trovarsi nelle stesse condizioni.

Questa fu l’opera dei monaci in quei tempi calamitosi di cui parliamo; tale fu la bella e sublime missione che adempirono a vantaggio dei grandi interessi dell’umanità.

Forse si dirà che gli immensi beni accumulati dai monasteri furono un’eccessiva ricompensa alle loro fatiche ed una dimostrazione del poco disinteresse che guidava le loro opere. Effettivamente se si guardano le cose sotto l’aspetto con cui le hanno presentate alcuni scrittori le ricchezze dei monaci ci appariranno come il frutto di una smisurata cupidigia e di una condotta astuta ed ingannevole. Ma tutta la storia è pronta a smentire le calunnie dei nemici della religione; e il filosofo imparziale, ben sapendo che vi si poterono introdurre degli abusi, così come accade in tutte le vicende umane, si preoccupa di considerare le cose nel loro complesso nel vasto quadro in cui sono avvenute per tanti secoli; e non curando il male che fu semplicemente l’eccezione alla regola, contempla ed ammira il bene che fu la regola stessa.

Oltre ai molti e legittimi motivi religiosi per i quali venivano elargiti ai monaci dei beni, ve n’era uno anch’esso legittimo perché è sempre stato considerato come uno dei modi più leciti per trarne guadagno. I monaci dissodavano terreni incolti, disseccavano paludi, innalzavano argini, rinchiudevano i fiumi nel loro alveo, costruivano ponti. Vale a dire che in una società e in paesi che erano passati attraverso una specie di diluvio universale, i monaci facevano in certo qual modo le stesse cose che fecero i primi popoli quando, dopo il diluvio universale, si diedero da fare per restituire al mondo devastato l’aspetto primitivo. Una parte considerevole dell’Europa non era mai stata coltivata dall’uomo: i boschi, i fiumi, i laghi, le macchie selvatiche

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di ogni genere erano ancora allo stato primitivo come li aveva lasciati la natura. I monasteri sorti qua e là si possono considerare come quei centri propulsori che le nazioni civili stabiliscono nei nuovi paesi di cui vogliono cambiare l’aspetto impiantando grandi colonie. Vi fu mai un motivo più legittimo per l’acquisizione di una quantità di beni? Chi dissoda un paese incolto, lo coltiva e lo popola, non è forse degno di riservarsi in esso estesi possedimenti? Non è questo il normale andamento delle cose? Chi non sa quante città e borgate nacquero e s’ingrandirono all’ombra delle abbazie?

Le proprietà dei monaci, oltre che il loro vantaggio materiale, ne produssero un altro che forse non è mai stato abbastanza considerato. La situazione di una gran parte dei popoli europei, al tempo di cui parliamo, si avvicinava molto a quell’instabilità e mobilità in cui si trovano le nazioni che ancora non hanno fatto alcun passo sulla via della civiltà e della cultura. Per questo motivo l’idea della proprietà, che è una delle più fondamentali in ogni organizzazione sociale, era allora ben poco radicata. In quei tempi erano frequentissimi gli assalti sia alle proprietà che alle persone. E siccome l’uomo si trovava spesso nella necessità di difendere ciò che possedeva, allo stesso modo si lasciava portare facilmente ad invadere le proprietà altrui. Il primo passo per porre riparo ad un male così grave fu quello di fare in modo che i popoli divenissero stanziali inducendoli alla coltivazione della terra e abituandoli subito al rispetto della proprietà, non solamente per fini morali e di interesse privato, ma anche perché divenisse costume. E questo si poteva ottenere mostrando loro grandi proprietà appartenenti a territori che venivano considerati inviolabili e che non si potevano assalire senza commettere un sacrilegio: così i princìpi religiosi venivano collegati a quelli sociali, e preparavano man mano una regolamentazione che sarebbe giunta a perfezione in tempi più tranquilli.

A tutto questo si aggiunga una nuova necessità prodotta dai cambiamenti che stavano avvenendo in quell’epoca. Presso gli antichi non si conosceva praticamente altro modo di vivere che quello delle città; abitare in campagna, questa dispersione di un’immensa popolazione che nei tempi moderni ha formato una nuova nazione nelle campagne, non era da loro conosciuta; e bisogna notare che questo cambiamento nel modo di vivere avvenne proprio quando sembrava che circostanze calamitose e turbolente lo rendessero più difficile. Bisogna essere grati proprio alla presenza dei monasteri nelle campagne e nei territori disabitati se questo nuovo genere di vita poté radicarsi, il che sarebbe stato senza dubbio impossibile senza l’influenza benefica e la protezione delle grandi abbazie che avevano tutte le risorse e il potere dei signori feudali, e allo stesso tempo la benefica e amabile influenza dell’autorità religiosa.

Di quanto non fu debitrice la Germania ai monaci? Non furono essi forse che dissodarono le terre incolte, vi fecero fiorire l’agricoltura e formarono numerose popolazioni? Quanto non deve loro la Francia? Quanto la Spagna e

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l’Inghilterra? Quest’ultima in verità non sarebbe mai giunta all’alto grado di civiltà di cui tanto si vanta se le fatiche apostoliche dei missionari che vi penetrarono nel sesto secolo non l’avessero tirata fuori dalle tenebre di una grossolana idolatria. E chi erano questi missionari? Il principale fra essi, di nome Agostino, non fu un monaco zelante, inviato da un Papa, S. Gregorio Magno, che era stato anche lui monaco? Nella confusione dei secoli del Medio Evo, dove mai trova il lettore i grandi centri delle scienze e delle virtù, se non in quelle dimore solitarie da cui uscirono S. Isidoro Arcivescovo di Siviglia, S. Colombano Abate, Sant’Aureliano Arcivescovo di Arles, l’apostolo dell’Inghilterra S. Agostino, quello della Germania S. Bonifacio, Beda, Cuberto, Auperto, Paolo monaco di Montecassino, Incmaro di Reims educato nel monastero di S. Dionigi, S. Pier Damiani, S. Bruno, S. Ivone, Lanfranco, ed altri che formarono una classe eletta di uomini che in nulla assomigliavano a quelli dei loro tempi?

Oltre al servizio reso alla società sotto l’aspetto religioso e morale, è inestimabile quello che i monaci fecero per le scienze e le lettere. Si è già detto più volte che queste trovarono rifugio nei chiostri, e che i monaci conservando e copiando gli antichi manoscritti preparavano il materiale per il tempo in cui sarebbero rifiorite le scienze. Non bisogna però sminuire il merito dei monaci considerandoli dei semplici copisti: molti di loro si elevarono ad un grado così alto di dottrina che, per così dire, si proiettarono molti secoli più avanti dell’epoca in cui stavano vivendo. Inoltre, non contenti del penoso incarico di conservare e riordinare i manoscritti, rendevano alla storia un importante servizio redigendo le cronache. Con queste, mentre coltivavano un ramo così importante degli studi, registravano la storia contemporanea che forse senza le loro fatiche non sarebbe conosciuta.

Adone, Arcivescovo di Vienna, educato nell’abbazia di Ferrieres, scrisse una storia universale dalla creazione del mondo fino ai suoi tempi. Abbone, monaco di S. Germano dei Prati, compose un poema in latino in cui è narrato l’assedio di Parigi da parte dei Normanni; Aimone di Aquitania scrisse in quattro libri la storia dei Franchi; S. Ivone pubblicò una cronaca dei re degli stessi Franchi; il monaco tedesco Ditmaro ci ha lasciato la cronaca di Enrico I, dei due Ottoni (I e II), e di Enrico II: cronaca molto apprezzata per la sua obiettività, che è stata pubblicata più volte e di cui si servì Leibnitz per illustrare la storia di Brunsvich. Ademaro fu autore di una cronaca che va dall’829 fino al 1029; Elabero, monaco di Cluny, scrisse un’altra storia molto apprezzata degli avvenimenti accaduti in Francia dal 980 fino ai suoi tempi; Ermanno redasse una cronaca che abbraccia le sei età del mondo fino al 1054. Non finiremmo mai, se volessimo ricordare i lavori storici di Sigeberto, di Inguiberto, di Ugone, Priore di S. Vittore, e di altri insigni uomini che, elevandosi al di sopra dei loro tempi, si applicarono a questo genere di lavori. Noi difficilmente possiamo comprenderne le difficoltà che superarono e il loro grandissimo merito, perché viviamo in tempi in cui i mezzi per istruirsi sono

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molto facili, e col patrimonio culturale ereditato da tanti secoli di studio, oggigiorno lo spirito trova ovunque vie larghe e conosciute dello scibile umano.

Senza l’esistenza degli Istituti religiosi e senza l’asilo dei chiostri sarebbe stato impossibile che uomini di tanto merito avessero potuto ottenere la formazione che ebbero. Non solamente le scienze e le lettere erano del tutto dimenticate, ma per di più erano divenuti ben rari i laici che sapevano leggere e scrivere bene; e tali circostanze non erano sicuramente favorevoli per formare uomini tanto eminenti che potrebbero benissimo onorare con la loro grandezza secoli molto più avanzati nelle cognizioni. Chi non si è soffermato più volte a contemplare l’insigne triumvirato costituito da Pietro il Venerabile, S. Bernardo e l’Abate Sugero? E non possiamo dire che il dodicesimo secolo avanzò dalla sua posizione quando produsse uno scrittore come Pietro il Venerabile, un oratore come S. Bernardo, e un uomo di stato come Sugero?

Ci viene in mente un altro celebre monaco il cui contributo nel progresso dell’umano sapere non è stato stimato quanto merita da quei critici che provano piacere soltanto nell’annotare i difetti. Mi riferisco a Graziano: coloro che hanno infierito contro di lui, mettendo insieme con grande scrupolo gli errori nei quali egli poté incorrere, se si fossero messi nei panni del compilatore del dodicesimo secolo quando mancavano i mezzi e l’ausilio della scienza critica avrebbero potuto meglio vedere e capire se in questo caso la difficile impresa fu o no condotta a termine con molto maggior successo di quello che si poteva sperare. È incalcolabile l’utilità che derivò dalla collezione di Graziano. In un breve volume egli espose molte fra le cose di maggior interesse dell’antichità riguardo alla legislazione civile e canonica, e raccolse in gran quantità i testi dei santi padri riguardanti ogni genere di argomenti. In tal modo, oltre a stimolare lo studio e l’interesse per tali ricerche, fece fare un enorme passo avanti alla società moderna per soddisfare una delle principali necessità, cioè la formazione dei codici, sia nel campo del diritto ecclesiastico che in quello del diritto civile. Si dirà che gli errori di Graziano furono contagiosi, e che sarebbe stato molto meglio poter ricorrere direttamente ai testi originali. Ma per leggere gli originali è necessario conoscerli, sapere che esistono, essere stimolati dal desiderio di chiarire qualche difficoltà, aver preso interesse a tali ricerche: tutte cose che prima di Graziano mancavano; tutte cose che nascevano con la sua impresa. L’accoglienza generale fatta alle sue fatiche è la prova più convincente del merito che esse hanno; e se mi si risponde che questa accoglienza è dovuta all’ignoranza dei tempi, risponderò che dobbiamo essere sempre grati a chiunque, in mezzo alle tenebre, c’invia un raggio di luce, per piccolo che sia. Torna all’indice

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CAPITOLO XLII

Natura degli Ordini militari. Le Crociate. La fondazione degli Ordini militari e la continuazione delle Crociate.

_______________ Dalla rapida occhiata che abbiamo dato agli Istituti religiosi,

dall’invasione dei barbari fino al dodicesimo secolo, si deduce che per tutto questo tempo essi furono un forte sostegno per impedire la completa rovina della società, un asilo per la sventura, per la virtù e per la cultura, un deposito delle cose preziose degli antichi, e una specie di società civilizzatrice che, senza grandi clamori, lavorava per ricostruire l’edificio sociale tendendo a neutralizzare la forza dei princìpi disgreganti. E furono anche un seminario dove poterono formarsi gli uomini destinati a ricoprire posizioni di responsabilità sia nella Chiesa che nello Stato. Nel dodicesimo secolo e in quelli successivi apparvero nuovi Istituti con caratteristiche molto diverse; il loro scopo era ancora prevalentemente religioso e sociale, ma i tempi erano cambiati, ed è il caso di ricordare le parole dell’Apostolo: omnia omnibus. Esaminiamo quali furono le cause e quali gli effetti di simili innovazioni.

Prima di procedere oltre dirò qualche parola sugli Ordini militari, la cui definizione indica già chiaramente il duplice carattere del religioso e del soldato. «L’unione del monachesimo con la milizia! – esclameranno alcuni, – quale mostruosa mescolanza!». Eppure questa pretesa mostruosità fu del tutto conforme al corso naturale e regolare delle cose, fu un potente rimedio contro gravissimi mali, un riparo a pericoli incombenti: fu insomma l’espressione e il soddisfacimento di una grande necessità europea.

Non è questo il luogo dove comporre la storia degli Ordini militari, storia che al pari di qualunque altra presenta scene bellissime e di grande rilievo, con quell’insieme di eroismo e d’ispirazione religiosa che pone la poesia accanto alla storia. Basta pronunciare i nomi dei Templari, degli Ospedalieri, dei Teutonici, di quelli di Calatrava, di S. Raimondo Abate di Fitero, perché il lettore scorra una delle più belle pagine della storia. Ma lasciamo da parte una narrazione che non ci riguarda, e fermiamoci piuttosto ad esaminare l’origine e lo spirito di quei famosi Istituti.

Il vessillo dei Cristiani e lo stendardo della Mezzaluna erano per natura due nemici implacabili, e ancor più spietati oltre ogni misura a causa della lunga e ostinata lotta che li vedeva di fronte. Entrambi avevano in mente progetti grandiosi; entrambi erano molto potenti; entrambi potevano disporre di popoli risoluti, pieni di entusiasmo e pronti a scagliarsi gli uni sugli altri; entrambi avevano a proprio favore grandi possibilità e fondate speranze di trionfo. A chi arriderà la vittoria? Quale condotta dovranno tenere i Cristiani

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per schivare il pericolo da cui sono minacciati? È più conveniente che restino tranquilli in Europa, aspettando di essere attaccati dai Musulmani, oppure che sollevandosi in massa si scaglino sul nemico andandolo a cercare nel suo paese, là dove egli si considera invincibile? Il problema fu risolto in quest’ultimo senso: si bandirono le Crociate, e i secoli successivi hanno confermato la saggezza della decisione. Che importanza ha che alcuni levino proteste in cui fanno mostra di un certo interesse per la giustizia e l’umanità? Nessuno se ne lascia abbagliare. La filosofia della Storia, addestrata dall’esperienza e da un più ricco patrimonio di conoscenze, frutto di uno studio più maturo dei fatti, ha dato un giudizio definitivo su questa vicenda; e in questa, come in tutte le altre, la religione è uscita trionfante dal tribunale della filosofia. Le Crociate, lungi dall’essere considerate un atto di temerità e di barbarie, sono considerate giustamente un capolavoro di politica che assicurò l’indipendenza all’Europa, procurò ai popoli cristiani una decisa superiorità sui Musulmani, rafforzò e accrebbe lo spirito militare delle nazioni europee e comunicò loro un sentimento di fratellanza che ne formò un solo popolo. Sviluppò inoltre in molti modi lo spirito umano, contribuì a migliorare la condizione dei sudditi, preparò il crollo totale del feudalesimo, creò la marina, stimolò il commercio e l’industria dando così un forte impulso per procedere da diverse direzioni sulla strada della civiltà.

Sia chiaro che non intendo dire con questo che quelli che idearono le Crociate e i Papi che le promossero, i popoli che vi parteciparono, i signori e i prìncipi che le sostennero, comprendessero tutta la portata della loro stessa opera, o anche soltanto ne intravedessero gl’immensi effetti: è sufficiente che la questione esistesse e che si risolvesse nel modo più favorevole all’indipendenza e alla prosperità dell’Europa. È sufficiente, ripeto; ed aggiungo che quanto meno ebbe parte la preveggenza degli uomini tanto più il merito lo si deve attribuire alle cose; e le cose, nella fattispecie, sono appunto i princìpi e i sentimenti religiosi nelle loro relazioni con la conservazione e col bene delle società; le cose insomma non sono altro che il Cattolicesimo, che copre col suo scudo e ravviva col suo soffio vitale la civiltà europea.

Ed eccoci allora alle Crociate, che abbiamo appena nominate. Questa grande e nobile idea fu però concepita in un modo piuttosto approssimato, e fu portata ad effetto con quella precipitazione che è frutto dell’impazienza e di uno zelo ardente. Se tenete presente che questa idea, in quanto generata nel Cattolicesimo che converte sempre le sue idee in istituzioni, doveva appunto per questo realizzarsi in un’istituzione che ne fosse l’espressione fedele e che le servisse come mezzo per rendersi più percepibile, e di sostegno perché divenisse più duratura e feconda; se tenete presente questo, vuol dire che avrete compreso come sia possibile vedere insieme la religione con le armi; e sarete allora pieni di consolazione nello scoprire sotto la corazza di acciaio un cuore pieno di ardore per la religione di Gesù Cristo, nel veder sorgere una nuova specie di uomini che si consacrano senza riserva alla difesa della

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religione e insieme rinunciano a tutte le cose del mondo, più mansueti degli agnelli, più coraggiosi dei leoni, secondo un’espressione di S. Bernardo: ora si riuniscono nella loro comunità per levare al cielo una fervorosa preghiera, ora marciano impavidi al combattimento brandendo la formidabile lancia, terrore delle orde saracene.

No, non si trova negli annali della storia un avvenimento più grandioso di quello delle Crociate; come non si trova un’istituzione più generosa e più bella di quella degli Ordini militari. Nelle Crociate si levano innumerevoli nazioni, marciano in mezzo ai deserti, s’inoltrano in paesi che non conoscono, si abbandonano senza riserva a tutto il rigore delle stagioni e dei climi. E per cosa poi? Per liberare un sepolcro!... Impresa grande e immortale, dove cento e cento popoli vanno incontro ad una morte sicura, non già inseguendo un meschino interesse, né col desiderio di stabilirsi in paesi più ameni e più fertili, e nemmeno con la brama di procurarsi un guadagno terreno; ma unicamente ispirati da un’idea religiosa, per il vivo desiderio di conquistare il sepolcro di Colui che morì su di una croce per la salvezza del genere umano. In confronto a questo indimenticabile avvenimento, a che si riducono mai le imprese dei Greci cantate da Omero? La Grecia si solleva per vendicare l’oltraggio di un marito, l’Europa per riscattare il sepolcro di un Dio.

Quando dopo i trionfi e i disastri delle Crociate gli Ordini militari, ora in Oriente, ora nelle isole del Mediterraneo fanno mostra di sé combattendo e resistendo ai duri assalti dell’Islamismo che reso superbo per le sue vittorie cerca di scagliarsi di nuovo sull’Europa, ci sembra di vedere quei valorosi, nel giorno di una gran battaglia, che restano soli nell’arena lottando uno contro cento per donare col loro eroismo e con la loro vita la salvezza ai compagni d’arme, che da loro protetti possono mettersi in salvo. Gloria e onore alla religione che è stata capace d’ispirare princìpi così elevati e che ha saputo ispirare imprese tanto ardue e generose! Torna all’indice

CAPITOLO XLIII

Caratteristiche dello spirito monastico nel tredicesimo secolo. Nuovi Istituti religiosi. Natura della civiltà europea, opposta a quella delle altre civiltà. Mescolanza di diversi elementi nel tredicesimo secolo. Società semibarbara. Cristianesimo e barbarie. Formula per spiegare la storia di quell’epoca. Condizioni in cui si trovava l’Europa agli inizi del tredicesimo secolo. Le guerre diventano più popolari. Perché il rinnovamento delle idee cominciò prima in Spagna che nel resto d’Europa. Effervescenza del male durante il dodicesimo secolo. Tanchelmo. Eone. I Manichei. I Valdesi. Rinnovamento religioso agli inizi del tredicesimo secolo. Ordini mendicanti e loro influenza sulla democrazia. Loro caratteristiche. Loro rapporti con Roma.

_______________ Per quanto contrario alle comunità religiose possa essere il lettore, forse si

sarà riconciliato con gli eremiti d’Oriente dopo che in loro gli abbiamo

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mostrato una categoria di uomini che, mettendo in pratica i più sublimi ed austeri consigli della religione, diedero un generoso impulso all’umanità finché questa, sollevandosi dal fango in cui il paganesimo la teneva immersa, aprì le sue belle ali verso spazi più puri. Abituare l’uomo ad una morale grave e severa; concentrare la sua anima in se stessa; comunicarle un vivo sentimento della dignità della sua natura e della sublimità della sua origine e del suo fine; ispirarle per mezzo di esempi straordinari la sicurezza con cui lo spirito aiutato dalla grazia proveniente dal cielo può trionfare sulle passioni brutali e condurre sulla terra una vita evangelica: questi sono benefìci troppo grandi perché un cuore nobile possa fare a meno di gradirli e di mostrare vivo interesse per coloro che li dispensavano. In quanto poi ai monasteri d’Occidente, anche qui è troppo evidente la loro influenza benefica e civilizzatrice, in modo che chiunque ami il genere umano non può non considerarli benevolmente. Infine i cavalieri degli Ordini militari ci richiamano un ideale tanto poetico e affascinante, realizzano in modo così incantevole uno di quei sogni dorati che attraversano la mente in un momento d’entusiasmo, che sicuramente ogni cuore che non sia insensibile a ciò che c’è di sublime e di bello non mancherà di tributar loro un rispettoso omaggio.

Ora mi resta un’impresa più difficile: quella di presentare al tribunale della filosofia, di quella filosofia agnostica o atea, le comunità religiose non comprese tra quelle che ho descritte fin qui. Contro queste comunità è stata già scagliata una sentenza terribilmente severa: ma in tali materie l’ingiustizia non può mai costituire norma; e nemmeno gli applausi dei nemici della religione, né gli effetti di una rivoluzione che rovescia tutto ciò che trova sulla sua strada impediranno mai di ristabilire la verità nella sua essenza, e che l’irrazionalità e il delitto siano marchiati d’ignominia.

Si era già agli inizi del tredicesimo secolo quando cominciò ad apparire una nuova classe di uomini, che con diversi titoli, con varie denominazioni e sotto distinte forme professavano una vita singolare e straordinaria. Alcuni vestivano di grossolano bigello, rinunciavano a tutte le ricchezze e a qualunque possesso, si obbligavano ad una mendicità perpetua, sparpagliandosi nelle campagne e nelle città per guadagnare anime a Gesù Cristo; altri portavano sull’abito il segno distintivo della redenzione umana e si proponevano di sciogliere dalle catene i numerosi Cristiani che lo sconvolgimento dei tempi riducevano in schiavitù nei paesi musulmani; altri inalberavano la croce in mezzo ad una folla di popolo che si precipitava dietro ai loro passi, e istituivano una nuova devozione, inno perenne di lode a Gesù e Maria, predicando nello stesso tempo senza mai smettere la fede nel Crocifisso; altri andavano in cerca di tutte le umane miserie, si seppellivano negli ospizi e in tutti gli asili di ogni genere di sventura, per soccorrerla e consolarla. Tutti innalzavano nuovi vessilli, tutti mostravano un grande disprezzo del mondo, tutti formavano gruppi separati dal resto degli uomini, ma non assomigliavano né agli eremiti d’Oriente, né ai figli di S. Benedetto.

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Non dimoravano nell’eremo, ma in mezzo alla società; non si proponevano di vivere nei monasteri, ma si disperdevano per le campagne e per i borghi, o penetravano in grossi centri abitati e facevano risuonare la parola del Vangelo tanto nella capanna del pastore, quanto nel palazzo del sovrano. Crescevano e si diffondevano ovunque in un modo prodigioso: l’Italia, la Germania, la Francia, la Spagna e l’Inghilterra li accoglievano nel loro seno; come per incanto sorgevano numerosi conventi nelle campagne, nelle borgate e nelle grandi città; i Papi li proteggevano e concedevano loro mille privilegi; i prìncipi dispensavano grandi favori e li sostenevano nelle loro imprese; i popoli li guardavano con venerazione e li ascoltavano con docilità e rispetto. Ovunque si poteva assistere ad una rifioritura religiosa, nuovi Istituti più o meno simili germogliavano come rami del medesimo albero; e l’osservatore che contempla attonito l’immenso quadro domanda a se stesso: quali sono le cause di un fenomeno così singolare? Da dove nasce questo rinnovamento straordinario; dove tende, quali saranno i suoi effetti nella società?

Quando un fatto di tale portata è certo e tangibile, e si diffonde in molti paesi e continua per lunghi secoli, è segno che è stato prodotto da potentissime cause. Ancorché non si vogliano riconoscere in nessun modo le mire della Provvidenza, non si può però negare che un fatto di tale natura dovette avere le radici nell’essenza stessa delle cose; e di conseguenza è inutile inveire contro gli uomini e contro le istituzioni. Il vero filosofo in questi casi non deve perdere il suo tempo nel lanciare anatemi contro un tale fenomeno, ma deve considerarlo e farne l’analisi: tutte le proteste e tutte le invettive contro i frati non ne cancelleranno sicuramente la storia; essi sono esistiti per lunghi secoli, e i secoli non tornano indietro.

Prescindendo da qualunque intervento straordinario di Dio, lasciando da parte le riflessioni che la religione può suggerire al vero fedele e considerando gli Istituti moderni soltanto sotto l’aspetto filosofico, il fenomeno può essere dimostrato non solo come molto vantaggioso per il benessere della società, ma anche come molto opportuno per la situazione in cui la stessa società si trovava; si può dimostrare che non vi fu in alcun modo malizia, né motivi d’interesse; che questi Istituti ebbero uno scopo altamente lodevole, e che furono l’espressione e nello stesso tempo il soddisfacimento di grandi necessità sociali.

La questione si presta da se stessa ad essere impostata come abbiamo detto, e c’è da stupirsi che i vari aspetti sotto i quali può esser considerata non siano stati valutati come meritano. Per rendere più chiaro il contesto farò alcune osservazioni relative allo stato sociale di quei tempi in Europa. Ad una prima occhiata si nota subito che ad onta della grossolanità degli spiriti, grossolanità che, a quanto pare, avrebbe dovuto mantenere i popoli nella quiete dell’abiezione, ciò nonostante si percepisce negli animi un’inquietudine che li muove e li agita da cima a fondo. Vi è l’ignoranza, ma è un’ignoranza che conosce se stessa e si affanna per arrivare al sapere; vi è mancanza di

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armonia nelle relazioni ed istituzioni sociali, ma questa mancanza è sentita e conosciuta dappertutto: una continua smania indica che quest’armonia è desiderata con ansietà e cercata con ardore. Io non so qual carattere tanto singolare presentino questi popoli europei, ma non vi si scoprono mai sintomi di morte: sono barbari, ignoranti, corrotti, tutto quel che si vuole; però come se fossero sempre in ascolto di una voce che li chiama alla luce, alla civiltà, a nuova vita. Si agitano continuamente per uscire dal cattivo stato in cui furono precipitati da circostanze calamitose; non dormono mai quieti in mezzo alle tenebre, non vivono mai senza rimorso per la depravazione dei costumi; l’eco della virtù non cessa mai di risuonare alle loro orecchie mentre qualche raggio di luce si apre il varco attraverso le ombre. Fanno mille tentativi per fare un passo nel sentiero della civiltà; mille volte tentano invano, ma altrettante volte ricominciano da capo, non abbandonano mai la generosa impresa; non si perdono d’animo nella cattiva riuscita, ma riprendono i loro tentativi con una vivacità e un coraggio che non vengono mai meno. Quale differenza questa, che distingue così fortemente gli Europei dagli altri popoli dove non è mai penetrata la religione cristiana, oppure dove è stata bandita! L’antica Grecia cade, e cade per non più risollevarsi; le repubbliche della costa asiatica spariscono, e non tornano più a rialzarsi sulle loro rovine; l’antica civiltà egiziana è fatta a brandelli dai conquistatori, e la posterità ha potuto appena conservarne la memoria; tutti i popoli della costa africana non ci dànno alcun indizio certo che possa farci conoscere la patria di S. Cipriano, di Tertulliano e di S. Agostino. Non basta: in una parte considerevole dell’Europa orientale il Cristianesimo si è mantenuto: ma è il Cristianesimo separato da Roma, ed eccolo impotente a rigenerare e restaurare. La politica gli ha stesa la mano e lo ha coperto col suo scudo; ma la nazione protetta in questo modo è debole e non può stare in piedi: è un cadavere che vien fatto camminare; non è il Lazzaro che ha intesa la voce onnipotente: Lazzaro, vieni fuori!; (Lazare, veni foras!).

Questa inquietudine, questa agitazione, quest’ardente brama di un più grande e prospero avvenire, questo desiderio di riforma nei costumi, d’idee più vaste e più rette, di migliori istituzioni, che formano uno delle principali caratteristiche dei popoli europei, si facevano sentire in modo prepotente nell’epoca che stiamo considerando. Non parlerò della storia militare e politica di quei tempi (storia che potrebbe fornire prove abbondanti di questa verità) ma mi limiterò, conformemente al nostro scopo, alle vicende che riguardano la religione e la società. Tremenda forza d’animo, gran dispendio di attività e sviluppo simultaneo delle più forti passioni; spirito intraprendente, viva brama d’indipendenza e forte attitudine a far uso di mezzi violenti; gusto straordinario per il proselitismo; ignoranza unita alla sete del sapere, anzi all’entusiasmo e all’esaltazione di tutto ciò che porta il nome di scienza; grande considerazione per gli attestati di nobiltà e di lignaggio, unita con lo spirito democratico e col profondo rispetto per il merito, ovunque esso si

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trovi; un candore infantile, una credulità eccessiva, e nello stesso tempo l’indocilità più ostinata, lo spirito della più tenace resistenza e una caparbietà spaventosa; la corruzione e la licenza dei costumi unita all’ammirazione per la virtù, all’attrazione per i più austeri costumi e alla propensione per gli usi e le consuetudini più stravaganti: ecco i tratti caratteristici di quei popoli che la storia ci presenta.

Un miscuglio così singolare a prima vista può sembrare strano; tuttavia non c’è nulla di più naturale e le cose non potevano avvenire in modo diverso. Le società si formano sotto l’influsso di certi princìpi e di particolari circostanze che comunicano loro la natura e il carattere, e ne determinano l’aspetto. Quello che avviene nell’individuo avviene anche nella società: l’educazione, la conformazione e mille altri fattori fisici e morali concorrono a formare un insieme d’influssi da cui derivano i caratteri più diversi, e talvolta anche contrapposti. Nei popoli europei questo concorrere di cause si era verificato in modo estremamente singolare e straordinario, e per questo gli effetti erano stati così sproporzionati e discordi, come abbiamo dimostrato. Basta scorrere la storia dalla caduta dell’impero romano alla fine delle Crociate per rendersi conto che mai vi fu un altro insieme di popoli in cui si combinassero elementi così vari, e si scorgessero eventi più grandiosi. I princìpi morali che erano alla base dello sviluppo dei popoli europei erano nella più aperta contraddizione con l’indole e le condizioni degli stessi popoli. Questi princìpi erano puri per la loro natura, immutabili come Dio che li aveva stabiliti, splendenti perché emanati dalla fonte di ogni luce e di ogni vita; i popoli al contrario erano ignoranti, rozzi, mutevoli come le onde del mare, corrotti perché derivati da impure mescolanze. Per questo motivo si stabilì una lotta terribile tra i princìpi e i fatti, e si videro le più singolari contraddizioni secondo il prevalere ora del bene ora del male. Non si vide mai in modo così evidente la lotta tra elementi che non potevano vivere in pace tra loro: sembrava che lo spirito del bene e quello del male fossero scesi nell’arena per battersi corpo a corpo.

I popoli europei non si trovavano nella loro infanzia, perché erano già dotati di vecchie istituzioni, erano pieni di memorie dell’antica civiltà e ne conservavano anche parecchi resti, e provenivano essi stessi dalla mescolanza di mille altri popoli diversi per leggi, usi e costumi. Ma non erano neanche popoli adulti, poiché una tale qualifica non si può attribuire né all’individuo né alla società fino a che non siano giunti ad un certo sviluppo, sviluppo dal quale i popoli europei erano allora ancora ben lontani. È dunque molto difficile trovare una parola che esprima la condizione in cui si trovava la società, perché non essendo una condizione civile, non era però neanche barbara dal momento che esistevano tante leggi ed istituzioni che non meritano certamente di essere definite barbare. Se questi popoli li definiamo semibarbari ci accosteremo forse alla verità, anche se d’altra parte le parole hanno poca importanza, purché abbiamo un’idea ben chiara delle cose.

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Non si può negare che nei popoli europei, a causa di una lunga serie di sconvolgimenti e impedimenti, ed anche per la grande mescolanza di razze, idee e costumi sia dei conquistatori fra loro che di questi con i popoli conquistati, era stata trasfusa una buona quantità di barbarie e un germe fecondo di agitazione e disordine; ma l’influsso negativo di questi elementi veniva contrastato dall’opera del Cristianesimo il quale, avendo acquisito un deciso predominio sugli spiriti, si trovava per di più sostenuto da istituzioni molto potenti, e disponeva inoltre di grandi mezzi materiali per condurre a buon fine le sue iniziative. I princìpi cristiani erano penetrati ovunque, e come una sostanza balsamica tendevano a render tutto dolce e soave; ma lo spirito si scontrava continuamente con la materia, la morale con le passioni, l’ordine con l’anarchia, la carità con la superbia, il diritto col fatto. Ne conseguiva una lotta la quale, sebbene in una certa misura sia comune in tutti i tempi e in tutti i luoghi in quanto il suo fondamento è nella natura dell’uomo, in quei tempi era però più forte, più dura e più clamorosa perché due princìpi così opposti tra loro, come sono la barbarie e il Cristianesimo, si trovavano nella stessa arena faccia a faccia senza che alcun mediatore vi si interponesse. Osservate attentamente quei popoli, leggetene con attenzione la storia, e vedrete che questi due princìpi erano costantemente in lotta fra loro, facevano a gara per avere la preminenza e il predominio sull’altro; e da qui risultavano le più stravaganti situazioni e i più bizzarri contrasti. Studiate il carattere delle guerre di allora, e sentirete proclamare continuamente le più sante massime, invocare la legittimità, il diritto, la ragione, la giustizia. Sentirete che ci si appellava sempre al tribunale di Dio: ed ecco l’influenza cristiana. Ma nello stesso tempo avrete il dispiacere di vedere con i vostri stessi occhi innumerevoli violenze, crudeltà, atrocità, il saccheggio, il rapimento, la morte, l’incendio e sventure senza fine: ed ecco la barbarie. Dando un’occhiata alle Crociate, noterete che in tutte le teste ribollivano idee elevate, grandi progetti, alte ispirazioni, disegni sociali e politici grandiosi; tutti i cuori traboccavano di sentimenti nobili e generosi, e un santo entusiasmo pervadeva ogni anima rendendola capace delle più eroiche imprese: ed ecco l’influenza del Cristianesimo. Aspettate però che si passi a concretizzarle, e allora vedrete il disordine, la mancanza di previdenza e di disciplina negli eserciti, le ingiurie, le violenze; cercherete invano la concordia e la buona armonia tra coloro che prendevano parte alla pericolosa e gigantesca impresa: ed ecco la barbarie. Una gioventù avidissima di conoscenza accorreva dai paesi più lontani ad ascoltare le lezioni di famosi maestri; l’italiano, il tedesco, l’inglese, lo spagnolo, il francese si trovavano insieme e mescolati intorno alle cattedre di Abelardo, di Pietro Lombardo, di Alberto Magno e del santo Dottore d’Aquino; una voce potente risuonava alle orecchie di quella gioventù, esortandola a lasciare le tenebre dell’ignoranza e ad elevarsi alle regioni della scienza; la febbre del sapere la consumava, i più lunghi viaggi non la fermavano, l’entusiasmo per i suoi maestri più illustri era di un’esaltazione

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tale da non potersi descrivere: ed ecco l’influenza cristiana, che muovendo e illuminando continuamente lo spirito dell’uomo non lo lascia dormire tranquillo nell’oscurità, ma lo sprona senza sosta perché stimoli degnamente l’intelletto nella ricerca della verità. Ma fate attenzione: questa gioventù che manifestava così belle inclinazioni, ed aveva queste aspettative così lusinghiere e legittime, era quella stessa gioventù licenziosa, inquieta, turbolenta, che si abbandonava alle più deplorevoli violenze, che per le strade delle città metteva continuamente mano alla spada per battersi, e che formava nelle città più popolose una specie di piccola repubblica difficile da tenere a freno, per cui a malapena si riusciva a conservare l’ordine e a mantenere in vigore la legge: ed ecco la barbarie.

È una buona cosa, e conforme allo spirito della religione, che il colpevole quando offre a Dio un cuore contrito ed umiliato manifesti il dolore e l’afflizione dell’anima con atti esterni, procurando inoltre di fortificare lo spirito e di frenare le cattive inclinazioni, infliggendo alla carne i rigori di un’evangelica austerità. Tutto questo è molto ragionevole, giusto, santo, conforme ai princìpi della religione cristiana, la quale prescrive queste cose per la giustificazione e la santificazione del peccatore, e per riparare al danno causato ad altri con lo scandalo di una vita malvagia. Ma che in questo si ecceda fino al punto che si vedano, come si vedeva a quei tempi, vagare per il mondo penitenti nudi carichi di ferro che suscitavano al loro apparire orrore e spavento, al punto che l’autorità era costretta a reprimere tali eccessi, questo porta già il marchio del carattere duro e feroce che accompagna sempre lo stato di barbarie. Non vi è cosa più vera, più bella e più salutare per la società quanto il supporre che Dio prenda le difese dell’innocenza, proteggendola contro l’ingiustizia e la calunnia e facendo sì che presto o tardi esca nitida e pura dalla polvere e dalla sporcizia con cui avevano tentato di oscurarla e macchiarla; questo è l’effetto della fede nella Provvidenza, fede derivata dalle idee cristiane, le quali ci presentano Dio che abbraccia col suo sguardo il mondo intero e penetra nei più reconditi segreti del cuore; e nel Suo amore paterno non trascura l’ultima delle sue creature. Ma chi non vede quale immensa distanza separa da simili credenze le prove del fuoco, dell’acqua bollente, del duello? Chi non riconosce in queste prove quella rozzezza che tutto confonde, quello spirito di violenza che non lascia di estremizzare ogni cosa pretendendo, in un certo modo, di obbligare lo stesso Dio a mettersi continuamente in balìa dei nostri bisogni o dei nostri capricci, di dare con i Suoi miracoli una solenne testimonianza a quanto conviene a noi, o a ciò che ci piace mettere alla prova?

Presento questi contrasti per richiamarli alla memoria di tutti coloro che conoscono la storia, e per ricavarne una formula semplice e generale che riassuma in poche parole lo stato della società di quell’epoca: la barbarie mitigata dalla religione, la religione interpretata dalla barbarie.

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Quando studiamo la storia ci troviamo sempre di fronte ad un ostacolo molto serio che ci rende difficile, e spesso anche impossibile, comprenderla perfettamente: quello di riferire tutto a noi stessi e agli oggetti che abbiamo intorno. Questo difetto fino ad un certo punto è scusabile perché è radicato nella nostra stessa natura; bisogna però farvi attenzione ed esserne prevenuti, se si vuole schivare i deplorevoli equivoci in cui si è soliti cadere continuamente. Senza rendercene conto immaginiamo le persone dei tempi passati come se fossero dei nostri tempi; attribuiamo loro le nostre idee, i nostri costumi, le nostre tendenze e il nostro stesso temperamento. Quando ci siamo formati questi uomini, che esistono solo nella nostra fantasia, pretendiamo che gli uomini esistiti veramente abbiano agito conformemente ai nostri immaginari; e nel constatare la discordanza tra i fatti storici e le nostre inconsce pretese, tacciamo di stravagante e di mostruoso quello che a suo tempo era del tutto normale e abituale.

La stessa cosa facciamo con le leggi e le istituzioni: quando non le vediamo conformi ai modelli che abbiamo sott’occhio ci mettiamo subito ad inveire contro l’ignoranza, l’ingiustizia, la crudeltà di coloro che le concepirono e le fondarono.

E invece quando si desidera farsi un’idea precisa di un’epoca conviene portarsi col pensiero a quei tempi, fare uno sforzo d’immaginazione per vivere, diciamo così, e parlare con quelle stesse persone; non accontentarsi del racconto degli avvenimenti ma vederli, esservi presente, divenirne, se possibile, spettatore e attore, chiamare fuori dal sepolcro le generazioni per farle parlare ed agire di nuovo sotto i nostri occhi. Questo, si dirà, è estremamente difficile! Ne convengo; ma è una fatica necessaria se conoscere la storia significa qualcosa di più che una semplice annotazione di nomi e di date. Noi certamente non possiamo dire di conoscere una persona se non sappiamo quali sono le sue idee, il temperamento, il carattere e il comportamento: lo stesso accade di una società. Se non sappiamo quali erano i princìpi da cui veniva guidata, il modo di vedere e sentire le cose, vedremo gli avvenimenti solamente in superficie, conosceremo le enunciazioni delle sue leggi, ma non ne penetreremo lo spirito e la ragione; contempleremo un’istituzione, ma senza vedere niente più che il suo aspetto esteriore, senza penetrarne il meccanismo e intuire gli ingranaggi che le comunicano il moto. Volendo evitare questi inconvenienti non c’è dubbio che lo studio della storia risulta tra tutti il più difficile; ma è già da un gran pezzo che si sarebbe dovuto sapere che i segreti dell’uomo e della società, essendo l’oggetto più importante per il nostro intelletto, sono altresì il più difficile, il più laborioso e il meno accessibile alla maggior parte degli uomini.

L’uomo dei secoli che stiamo trattando non era l’uomo dei nostri tempi: le sue idee erano molto diverse, come anche il suo modo di vedere e di sentire le cose; la tempra del suo spirito non era simile alla nostra; ciò che per gli

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uomini del nostro tempo è incomprensibile, per quelli di allora era naturalissimo; quello che a noi ora ripugna per loro era cosa gradevolissima.

Gli inizi del tredicesimo secolo trovano un’Europa che aveva già subìto lo sconvolgimento prodotto dalle Crociate: cominciavano a fiorire le scienze, a svilupparsi pian piano lo spirito mercantile, spuntava un certo interesse per l’industria; la tendenza degli uomini e dei popoli ad entrare in comunicazione tra loro andava sempre più aumentando e diffondendosi. Il sistema feudale incominciava a sgretolarsi, il partito dei Comuni si sviluppava rapidamente e lo spirito d’indipendenza si faceva vivo ovunque. Con l’abolizione quasi totale della schiavitù, col cambiamento di condizione dei vassalli e degli schiavi avvenuto in seguito alle Crociate, l’Europa si trovava con una popolazione molto numerosa e non più in catene come nelle antiche società (quando la maggioranza della popolazione era priva dei diritti di cittadino e perfino di uomo), e sopportava a mala pena il giogo del feudalesimo. Una popolazione ben lontana dal riunire le condizioni necessarie per occupare degnamente il posto che spetta ai liberi cittadini. La democrazia moderna si presentava già fin da principio con i suoi grandi vantaggi ma anche con i suoi molti inconvenienti e con i suoi immensi problemi che anche adesso, dopo tanti secoli di esperienze e di prove, ci opprimono e ci sconcertano. I signori stessi conservavano ancora in gran parte le abitudini barbare e feroci con cui si erano tristemente segnalati nei secoli precedenti; e il potere dei sovrani era ancora lontano dall’avere acquistato la forza e il prestigio necessari per dominare elementi tanto opposti fra loro, e per elevarsi all’interno della società come simbolo di riferimento per tutti gl’interessi, come centro d’unione per tutte le forze e come la massima personificazione della ragione e della giustizia.

In quello stesso secolo le guerre incominciarono ad avere un carattere più popolare, e di conseguenza più esteso e di maggior rilievo. Le agitazioni popolari iniziarono a presentare l’aspetto di moti politici. S’incominciò a intravedere qualcosa di più dell’ambizione degl’imperatori che pretendevano d’imporre il giogo all’Italia; non si trattava più di reucci che si contendevano una corona o una provincia; non erano più conti e baroni che accompagnati dai loro vassalli combattevano l’un contro l’altro, oppure contro i vicini municipi, inondando di sangue le contrade e coprendole di stragi; nei sommovimenti di quei tempi si nota qualcosa di più grave e di più spaventoso. Popoli interi si levavano e si stringevano intorno a una bandiera che non portava più gli stemmi di un barone o le insegne di un sovrano, ma il nome di un sistema di dottrine. Senza dubbio i signori s’inserivano nella lotta, e grazie al loro potere s’imponevano ancora sulla turba che li circondava e li seguiva; ma la causa che si agitava non era più quella dei signori. Anche se questa entrava ancora in parte nei problemi di quel tempo, l’umanità aveva spinto lo sguardo al di là delle mura dei castelli. Quell’agitazione e quel movimento prodotti dalla comparsa di nuove dottrine religiose e sociali erano l’annuncio e

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il principio di una serie di rivoluzioni che andranno per tutta Europa a sconvolgerne le nazioni.

Il male non consisteva nel fatto che i popoli andassero dietro alle idee e rifiutassero di prendere come unica guida gl’interessi e il vessillo di qualche tiranno; al contrario, questo era un gran passo avanti sulla via della civiltà, era un segno che l’uomo sentiva e riconosceva la propria dignità, era un indizio che estendendo lo sguardo ad un orizzonte più vasto, comprendeva meglio la sua condizione e i suoi veri interessi: conseguenza naturale del volo che le facoltà dello spirito andavano spiccando ogni giorno di più, volo al quale contribuirono in modo particolare le Crociate. Fin da quel tempo tutti i popoli europei si abituarono alla guerra, non già per la conquista di un territorio limitato, o per soddisfare l’ambizione o la vendetta di un uomo, ma per sostenere un principio, per vendicare un oltraggio fatto alla vera religione: in una parola, i popoli si abituarono a sollevarsi, a combattere e a morire per un’idea grande e degna dell’uomo, la quale, lungi dal limitarsi ad una piccola contrada, abbracciava il cielo e la terra. Ed è da notare che il rinnovamento popolare e lo sviluppo delle idee incominciarono molto prima in Spagna che nel resto d’Europa, perché la guerra contro i Mori fece sì che in Spagna l’epoca delle Crociate iniziasse prima. Il male, lo ripeto, non stava nell’interesse che i popoli incominciavano a prendere per le idee, ma nel continuo pericolo che, essendo essi ancora molto rozzi e ignoranti, si lasciassero incantare e trascinare da qualsiasi fanatico.

Essendo questo movimento così generalizzato, la direzione che esso stava per prendere avrebbe deciso le sorti dell’Europa; e se non sbaglio proprio i secoli dodicesimo e tredicesimo costituirono l’epoca critica nella quale fu risolta la grave questione: se l’Europa sotto l’aspetto sociale e politico avesse dovuto avvalersi dei benefìci del Cristianesimo, o se si doveva far andare in malora tutti gli elementi che promettevano un migliore avvenire.

Fermando lo sguardo su quei secoli, in parecchie regioni d’Europa si nota un non so qual germe funesto, infausto indizio delle più grandi sventure. Tra quelle masse che incominciano ad agitarsi nascono orrende dottrine; e i primi passi che muovono sul sentiero della vita sono accompagnati da spaventosi disordini. Fino a quel momento non si erano visti che re e signori, ma ora sulla scena si presentano i popoli. Vedendo che in quella massa informe sono penetrati alcuni raggi di luce e di calore il cuore si allarga e si riconforta perché pensa al nuovo avvenire che è riservato al genere umano; ma anche trema, pensando che quel calore potrebbe produrre un’eccessiva fermentazione che potrebbe portare alla decomposizione e ricoprire di immondi insetti quel fertile terreno il quale faceva sperare che si potesse tramutare in un incantevole giardino.

Le stravaganze dello spirito umano si presentarono in quei tempi sotto un aspetto così spaventoso, e con un carattere così turbolento, che le previsioni apparentemente più esagerate trovarono nei fatti il presupposto per essere

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considerate fortemente probabili. Mi sia permesso di rammentare alcuni avvenimenti che ci forniscono degli esempi sulle idee che venivano concepite in quei tempi.

Agli inizi del dodicesimo secolo troviamo il famoso Tanchelmo o Tanchelino, il quale insegnava stranezze da pazzo e commetteva i peggiori delitti, e malgrado ciò si portava dietro una massa numerosa ad Anversa, nella Zelanda, nel paese di Utrecht e in molte città di quella regione. Questo sciagurato sosteneva che egli era più degno di Gesù Cristo di ricevere il culto supremo; perché se Gesù Cristo aveva ricevuto lo Spirito Santo, egli aveva la pienezza di questo stesso Spirito. Aggiungeva che tutta l’intera Chiesa era in lui e nei suoi discepoli. Il pontificato, l’episcopato e il sacerdozio secondo lui erano pure chimere. I suoi insegnamenti e le sue prediche erano dirette particolarmente alle donne, e il frutto delle sue dottrine e dei suoi discorsi era la più nauseante corruzione. Ciò nonostante il fanatismo verso quest’uomo abominevole giunse a tal punto che i malati bevevano avidamente l’acqua in cui si era lavato credendo di trovare in essa il più efficace rimedio sia per l’anima che per il corpo. Le donne reputavano un gran privilegio quello di ottenere i favori di quel mostro, le madri si consideravano onorate quando le loro figlie venivano scelte per saziare le sue impure voglie e i mariti si davano per offesi se le loro mogli non venivano marchiate da così infame ignominia. Il malvagio, consapevole dell’influenza che era giunto ad esercitare sugli animi, non tralasciava di trarre profitto dal fanatismo dei suoi seguaci, essendo la generosità nei suoi confronti una delle principali virtù che egli si preoccupava d’infondere.

Trovandosi un giorno in mezzo ad una grande folla si fece portare un quadro della Vergine, e toccando con un gesto sacrilego la mano dell’immagine, disse che se la prendeva per sposa. Rivolto quindi agli spettatori riprese a dire che egli si era unito in matrimonio con la Regina del Cielo, come avevano visto, e quindi toccava a loro fare i regali di nozze. Fece subito disporre due ceppi, uno a destra e l’altro a sinistra del quadro, affinché uno servisse per ricevere le oblazioni degli uomini e l’altro delle donne, in modo che egli potesse constatare quale dei due sessi lo amasse di più. È lecito pensare che un artificio così sacrilego, sordido e vile avrebbe dovuto suscitare semplicemente l’indignazione dei presenti; eppure l’effetto corrispose alle previsioni dell’impostore. Ricevette regali di grande valore e in grande abbondanza; e le donne, sempre gelose dell’affetto di Tanchelmo, superarono in generosità gli uomini, spogliandosi, come invasate, delle collane, degli orecchini e di altri preziosi gioielli.

Appena Tanchelmo incominciò a sentirsi abbastanza forte non si accontentò più di predicare soltanto, ma costituì una milizia armata affinché agli occhi del mondo potesse apparire qualcosa di più di un semplice apostolo. Tremila uomini lo accompagnavano dappertutto; ed egli, circondato da una guardia così folta, vestito con grande magnificenza e preceduto da uno

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stendardo, procedeva con uno sfarzo da re. Quando si fermava a predicare, tremila seguaci gli stavano intorno con le spade sguainate. Già fin da allora traspariva il carattere violento e aggressivo delle sétte eretiche dei secoli successivi.

Tutti sanno che moltitudine di seguaci ebbe Eone, a cui si scaldò la testa per aver inteso più volte le parole: per eum qui iudicaturus est vivos et mortuos. Costui giunse a persuadersi e a sostenere di essere lui quel giudice che aveva da giudicare i vivi ed i morti. Ugualmente ben noti sono i tumulti provocati dai sediziosi discorsi di Arnaldo da Brescia, come pure il fanatismo iconoclasta di Pietro de Bruis e di Enrico.

Se non temessi di annoiare i miei lettori non avrei difficoltà a presentar loro delle scene molto disgustose che illustrerebbero efficacemente lo spirito delle sétte di quei tempi, e il funesto influsso in cui si trovavano gli animi, desiderosi di novità e avidi di spettacoli stravaganti, che si facevano prendere da non so quale fatale ebbrezza per lasciarsi condurre agli errori più strani e ai più deplorevoli eccessi. Non posso tuttavia fare a meno di dire qualcosa sui Catari, sui Valdesi o Poveri di Lione, sui Patarini di Arras e sugli Albigesi. Queste sétte, oltre ad avere avuto non poca influenza nelle catastrofi di quei tempi e negli avvenimenti successivi in Europa, ci saranno molto utili per addentrarci vieppiù nell’esame della questione che stiamo trattando.

Già fin dai primi secoli della Chiesa molto si distinse la setta dei Manichei per i suoi errori e per le sue stravaganze. Con varie denominazioni, con seguaci più o meno numerosi, con una maggiore o minore variabilità di dottrine, si perpetuò di secolo in secolo fino all’undicesimo, in cui andò a sconvolgere la tranquillità della Francia. Eriberto e Lisoy divennero sciaguratamente famosi per la loro ostinazione e il loro fanatismo. Sappiamo anche che ai tempi di S. Bernardo i settari chiamati Apostolici si distinguevano per l’orrore che avevano nei confronti del matrimonio, mentre d’altra parte si abbandonavano al più turpe e sfrenato libertinaggio. Tuttavia tanti traviamenti trovavano un’accoglienza favorevole nell’ignoranza e nella corruzione dei popoli perché, ovunque apparivano, conquistavano le masse e si diffondevano rapidamente come un contagio. Questi settari, oltre a fare uso dell’ipocrisia comune a tutte le sétte, concepirono l’espediente più appropriato per sedurre i popoli ignoranti e rozzi, presentandosi sotto l’apparenza della più rigida austerità e con un abito poverissimo. Già prima dell’anno 1181 li vediamo audaci abbastanza da arrischiarsi ad uscire dalle loro adunanze segrete e a propagandare le loro dottrine alla luce del sole con grande sfrontatezza; e finalmente dopo essersi uniti con i celebri banditi chiamati Corterales, abbandonarsi ad ogni sorta di eccessi. Siccome erano giunti a sedurre alcuni cavalieri e ad ottenere la protezione di vari signori del paese di Tolosa, riuscì loro di provocare una terribile sommossa che non si poté reprimere se non con la forza delle armi. Un testimone oculare, Stefano Abate di S. Genoveffa, inviato a quel tempo dal re a Tolosa, ci descrive con poche

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parole le violenze commesse dai settari: «Ho visto ovunque – egli dice – chiese bruciate e distrutte fino alle fondamenta; ho visto le abitazioni degli uomini trasformate in covili di bestie».

In quello stesso periodo si resero famosi i Valdesi, o poveri di Lione, così chiamati per l’estrema loro povertà, per il disprezzo per ogni ricchezza, e per gli stracci di cui erano coperti. Dai calzari che portavano fu dato loro il nome di Sabos. Costoro imitavano in modo perverso una compagnia di poveri, celebri in quei tempi per le loro virtù e soprattutto per lo spirito di umiltà e di disinteresse. Questi ultimi, che formavano una specie di società in cui erano inseriti chierici e laici, si erano guadagnati la stima e il rispetto dei veri Cristiani, ed avevano ottenuto la protezione dei Papi, i quali diedero loro la facoltà di esporre i loro insegnamenti in pubblico. I discepoli di Valdo si segnalarono per un sommo disprezzo per l’autorità ecclesiastica, e giunsero in seguito ad accumulare un gran numero di errori mostruosi; e finalmente si presentarono come una setta contraria alla religione, dannosa alla buona morale e disturbatrice della quiete pubblica.

Questi errori, che furono la sorgente di tante calamità e agitazioni, anziché estinguersi col tempo, si propagarono sempre più in molti luoghi; e le cose procedevano così male che già all’inizio del tredicesimo secolo non si trattava più di tumulti passeggeri e di disturbi isolati. Gli errori si erano estesi enormemente ed erano scesi in campo con mezzi formidabili; e a causa loro il Mezzogiorno della Francia divenne teatro di un terribile conflitto, fu sconvolto da lotte intestine e precipitò infine in una spaventosa guerra.

In quel secolo: quando il re non aveva la forza necessaria per esercitare un’azione inibitrice; quando i signori conservavano ancora mezzi sufficienti per opporsi ai re ed imporsi sulle popolazioni; quando non si vedeva alcun mezzo, tranne la religione, per frenare le masse tra le quali si era diffuso uno spirito ribelle di agitazione e di sovvertimento; quando uomini perversi e fanatici traevano vantaggio dall’influenza delle stesse idee religiose, fuorviando le masse con violenti discorsi in un confuso miscuglio di religione e di politica e ostentando ipocritamente uno spirito di austerità e disinteresse; quando i nuovi errori non si limitavano più ad attaccare con astuzia questo o quel dogma, ma incominciavano a stravolgere i princìpi basilari della religione e a penetrare fin dentro al santuario della famiglia, condannando il matrimonio e provocando scellerate abominazioni; quando infine il male non restò più confinato in quei paesi che non erano stati molto coinvolti nel progresso dell’Europa (in quanto di più recente evangelizzazione o per altri motivi), ma spostò il teatro degli scontri in quel Mezzogiorno dove lo spirito umano era progredito con maggiore vivacità e celerità: in quel secolo dunque, e in un simile complesso di funeste circostanze che la storia ci descrive in modo così chiaro, non sembrava l’avvenire dell’Europa fosco e tempestoso? Avendo le idee e i costumi presa una direzione sbagliata, rotti i legami dell’autorità e i vincoli di famiglia, i popoli accecati dal fanatismo e dalla

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superstizione, non incombeva forse il pericolo che l’Europa tornasse a sprofondare nel caos da cui a malapena ne stava venendo fuori? Quando l’insegna della Mezzaluna sventolava potente in Spagna, dominava in Africa e trionfava in Asia, era forse utile che l’Europa perdesse l’unità religiosa, che si spargessero nuovi errori diffondendo dappertutto lo scisma e insieme ad esso la discordia e la guerra? Tanti elementi di civiltà e di cultura creati dal Cristianesimo dovevano dunque disperdersi e rimanere infruttuosi per sempre? Le grandi nazioni che andavano formandosi sotto l’influsso cattolico, le leggi e le istituzioni impregnate di questa religione divina, tutto insomma doveva andare in rovina, snaturarsi e morire, per tornare alle menzogne delle antiche credenze? E il progresso della civiltà europea doveva anch’esso subire un brusco arresto? E le nazioni che confidavano in un avvenire più tranquillo, più prospero e più grande, dovevano dunque vedere annullate d’un colpo queste lusinghiere speranze e regredire miseramente fino allo stato di barbarie? Questo era l’immenso problema sociale che si presentava a quei tempi, ed io oso affermare che il rinnovamento religioso sorto allora in una maniera tanto inconsueta, e i nuovi Istituti ora tacciati con tanta leggerezza di semplicità e di stravaganza, furono un potentissimo mezzo di cui la Provvidenza si servì per salvare la religione, e con essa la società. Sì, l’illustre Spagnolo S. Domenico di Guzman, e il meraviglioso Uomo di Assisi, anche se non avessero un posto sugli altari dove ricevono il culto per la loro eminente santità e la venerazione dei fedeli, meriterebbero ugualmente che tutta la società e l’intera umanità per gratitudine avessero loro eretta una statua. Vi scandalizzate forse di queste parole, voi che non avete mai letto la storia o non l’avete guardata se non attraverso il prisma deformante delle prevenzioni filosofiche e protestanti? Ditemi allora: in quegli uomini i cui santi Istituti da essi fondati sono stati l’oggetto delle vostre infinite diatribe come se si trattasse di una delle maggiori calamità del genere umano, cosa trovate voi da rimproverare? Le loro dottrine sono quelle del Vangelo: sono quelle stesse sublimi e sante dottrine alle quali vi siete trovati nella necessità di rendere un omaggio solenne; la loro vita è casta, santa, eroica, in tutto conforme ai loro insegnamenti. Chiedete ad essi quale scopo avessero, e vi risponderanno che era quello di predicare a tutti gli uomini la verità cattolica, di cercare con tutte le loro forze di distruggere l’errore, d’introdurre la riforma dei costumi e d’ispirare ai popoli il rispetto dovuto alle autorità legittime, sia quelle ecclesiastiche che le civili. Insomma, vedrete in loro la ferma risoluzione di consacrare la propria vita per porre riparo ai mali della Chiesa e della società.

Non si accontentavano di sterili aspirazioni, per loro non bastava fare alcuni discorsi e assumere impegni temporanei; non rinchiudevano i loro progetti nella sfera dei propri interessi, ma allargando la visuale e comprendendo tutti i paesi e i tempi a venire fondavano Istituti da cui i loro figli potessero diffondersi su tutta la superficie della terra e trasmettere alle

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generazioni future quello spirito apostolico che infonde loro princìpi così elevati. La povertà a cui si sottomettevano era estrema; gli abiti con cui si coprivano erano rozzi e meschini. E se non comprendete le profonde ragioni di simile condotta ricordatevi che avevano lo scopo di rinnovare lo spirito evangelico tanto dimenticato in quei tempi; ricordatevi che si trovavano spesso faccia a faccia con gli emissari di sétte corrotte, e che questi emissari si sforzavano di imitare l’umiltà cristiana simulando il massimo distacco dalle cose terrene e presentandosi al pubblico con abiti da mendicante; ricordatevi che andavano a predicare a popoli semibarbari, e che per allontanare questi popoli dal disordine dell’errore che aveva incominciato a dominare le menti non bastavano le parole, anche se accompagnate dalla compostezza di un comportamento normale; ci volevano esempi sublimi e un tenore di vita estremamente edificante, il tutto accompagnato da un aspetto esteriore che colpisse fortemente la fantasia.

Il numero dei nuovi religiosi era già elevato e aumentava sempre più ovunque si stabilivano; non si diffondevano solo nelle campagne e nei paesi ma si recavano anche nelle città più popolate. E bisogna tener presente che l’Europa non era più formata da un complesso di piccole comunità e di misere capanne ammassate a ridosso di un castello feudale, i cui abitanti ubbidivano umilmente ai comandi e ai cenni di un arrogante barone; o da alcune borgate cresciute intorno a ricche abbazie, i cui abitanti ascoltavano docilmente la parola dei monaci e ricevevano con gratitudine i loro benefìci. Un gran numero di vassalli aveva già scosso il giogo dei loro signori; potenti municipi andavano sorgendo ovunque: al loro cospetto il feudalesimo tremava e spesso anche si umiliava. Le città andavano popolandosi ogni giorno di più accogliendo nuove famiglie in seguito all’emancipazione dalla schiavitù che stava avvenendo nelle campagne. L’industria e il commercio incominciavano a fiorire procurando maggiori mezzi di sostentamento e dando così un impulso alla crescita della popolazione. Era necessario, quindi, che l’opera religiosa e morale da svolgere tra i popoli europei venisse esercitata con iniziative di più ampio respiro che utilizzassero mezzi universali i quali, disposti da un centro comune e svincolati dai consueti ostacoli, potessero sovvenire alle urgenti necessità del tempo. Ed ecco i nuovi Istituti, con il loro numero prodigioso, con i loro molti privilegi, e con la diretta dipendenza dall’autorità del Papa.

La stessa tendenza piuttosto democratica che si osserva in questi Istituti, non soltanto per la convivenza di persone di ogni classe sociale, ma anche per il sistema di governo, era un elemento che portava ad accrescere l’influenza su quella democrazia ambigua e violenta che, insuperbita dalla libertà da poco acquisita, non riusciva tanto facilmente a trovare di suo gusto qualunque cosa le si presentasse sotto forma aristocratica ed esclusiva. Nei nuovi Istituti religiosi essa trovava invece una certa analogia con la propria esistenza e con la propria origine. Gli uomini di questi Istituti provenivano dal popolo, vivevano a contatto continuo col popolo, vestivano rozzamente come il

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popolo, erano poveri come lo stesso popolo; e così come il popolo teneva le sue assemblee e nominava i suoi consiglieri e i suoi priori, allo stesso modo essi tenevano i loro capitoli ed eleggevano i loro superiori. I nuovi religiosi non erano anacoreti che vivevano in eremi solitari, non erano monaci che alloggiavano in ricche abbazie, non erano ecclesiastici le cui funzioni ed uffici erano circoscritti in un determinato paese: erano bensì uomini senza fissa dimora, che ora si trovavano in città popolose, ora in una meschina borgata; ora s’incontravano nel centro del continente, ora a bordo di una nave che li portava in paesi lontanissimi per portare la loro opera in missioni piene di pericoli; ora si vedevano nel palazzo di un sovrano che istruivano con i loro consigli, e prendevano parte negli importanti affari di stato, ora sotto il povero tetto di un’oscura famiglia di cui erano i consolatori nelle sventure, i pacieri nelle discordie, i consiglieri negli affari domestici. Gli stessi uomini che si distinguevano per autorevolezza nelle cattedre universitarie insegnavano poi la dottrina ai fanciulli in un umile villaggio; questi stessi, che predicavano alla corte in presenza del re e dei dignitari, spiegavano poi il Vangelo nella più miserabile parrocchia. Il popolo li vedeva dappertutto, li incontrava ovunque, in mezzo alla prosperità quanto alle sventure; li trovava sempre disponibili, ora in occasione di un battesimo a prendere parte all’allegria della famiglia, ora a piangere la morte di chi l’aveva immersa nel lutto.

Non ci vuole molto a comprendere la forza e l’ascendente di simili istituzioni: la loro influenza sull’anima dei popoli doveva essere incalcolabile; e le sétte corrotte, che con le loro pestifere dottrine cercavano di traviare le masse, incontrarono un nuovo avversario che le disorientava completamente. Si voleva cercare di sedurre gli incauti, ostentando molta austerità e un totale distacco, o di impressionare con un aspetto umile e con abiti poveri e rozzi? I nuovi Istituti riunivano tutte queste qualità in modo straordinario, e così la dottrina della verità non era priva di quel corteo da cui l’errore si fa accompagnare. Sorgevano per caso in mezzo al popolo violenti predicatori che catturavano l’attenzione e dominavano gli animi della folla con una focosa eloquenza? In tutti i paesi d’Europa s’incontravano ardenti oratori che difendevano la causa della verità, o, conoscendo a fondo le passioni, le idee e i gusti del popolo, sapevano interessarlo, commuoverlo e orientarlo, utilizzando così in difesa della religione quello di cui altri intendevano servirsi per attaccarla. Dove c’era bisogno di resistere ai tentativi di una setta là accorrevano e vi si stabilivano: liberi dai legami del mondo, senza essere vincolati ad una chiesa particolare o ad alcun regno o provincia, avevano tutta l’autonomia necessaria per passare rapidamente da un punto all’altro, e trovarsi in tempo opportuno nei luoghi in cui per qualche urgente bisogno fosse necessaria la loro presenza.

La forza del sodalizio, conosciuta dai settari e impiegata con tanto successo, nei nuovi Istituti era presente in modo mirabile. Lì l’individuo era senza una propria volontà perché un voto perpetuo di ubbidienza lo aveva

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messo a disposizione della volontà di un altro; la quale a sua volta era soggetta a quella di un altro ancora, e così via in una sorta di catena di cui il primo anello era nelle mani del Papa. In tal modo si trovavano unite nello stesso tempo la forza del sodalizio e quella dell’unità del potere; tutto il dinamismo e tutto il calore di una democrazia, e tutto il vigore e la rapidità di azione della monarchia.

È stato detto che gl’Istituti religiosi di cui stiamo parlando furono un forte sostegno dell’autorità dei Papi. Questo è senz’altro vero, e si può aggiungere che, se questi Istituti non ci fossero stati, forse lo scisma funesto di Lutero sarebbe accaduto tre secoli prima. Bisogna convenire però che la fondazione di questi Istituti non fu dovuta ad alcun progetto dei Papi: non furono essi che ne concepirono l’idea, ma personaggi straordinari che, guidati da sublime ispirazione, ne concepirono l’idea, ne tracciarono il metodo, e assoggettandolo al giudizio della Sede Apostolica ne invocarono l’autorità per dare inizio all’opera.

Le istituzioni civili, fondate con lo scopo di consolidare o estendere il potere dei sovrani, furono ispirate dagli stessi sovrani o da qualche loro ministro che, ben consapevole delle mire e dell’interesse del sovrano, sviluppava ed eseguiva le idee del trono. Ma per quanto riguarda i Papi non fu così: l’appoggio dei nuovi Istituti religiosi contribuì a sostenere l’autorità pontificia contro gli attacchi delle sétte dissidenti; ma l’idea di fondarli non venne né dai Papi né dai loro ministri. Uomini ignoti sorsero all’improvviso in mezzo al popolo; nella loro vita anteriore nulla si trova che possa muovere il sospetto di una precedente intesa con Roma; anzi, l’intera loro vita ci attesta che agirono guidati da un’ispirazione che sorse nella loro mente e non diede loro riposo fino a quando non ebbero portato ad effetto quanto era stato loro ispirato. Né punto né poco vi ebbero parte, o poterono averla, mire particolari di Roma: l’ambizione non vi entrò per nulla.

Qualunque persona di senno giunge necessariamente ad una di queste due conclusioni: o la comparsa di questi nuovi Istituti fu opera di Dio che volle salvare la sua Chiesa sostenendola contro i nuovi attacchi e proteggendo l’autorità del Pontefice romano; oppure nello stesso Cattolicesimo vi fu un istinto salutare che lo spinse a creare quelle istituzioni di cui aveva bisogno per uscire trionfalmente dalla terribile crisi in cui si trovava. Agli occhi dei Cattolici le due proposizioni significano la stessa cosa, perché qui non vediamo altro che il compimento della promessa: su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa (Mt 16, 18). I filosofi che non guardano alle cose con la luce della fede potranno spiegare il fenomeno come meglio loro piacerà, ma non potranno fare a meno di convenire con noi che nella sostanza dei fatti si scopre una mirabile sapienza e la più alta preveggenza. Se si ostinano a non vedervi la mano di Dio trovandovi invece nel nocciolo degli avvenimenti soltanto il frutto di ben concertati disegni o il risultato di un’organizzazione ben strutturata, deve

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essere però impossibile per loro negare il dovuto omaggio a questi disegni e a questa organizzazione. E siccome ammettono che la potestà del romano Pontefice, anche considerata con occhio puramente filosofico, è la più straordinaria di tutte le potestà che mai furono viste sulla terra, così non potranno giammai negare che questa società, che si chiama Chiesa Cattolica, mostra nella sua condotta, nel suo istinto per resistere contro i maggiori nemici, il sistema più inspiegabile che mai si sia visto in alcuna società. Che questo si chiami istinto, segreto, spirito, o con qualunque altro nome, poco importa per la verità. Il Cattolicesimo sfida tutte le società, tutte le sétte, tutte le scuole a fare ciò ch’esso ha fatto, a trionfare su ciò su cui ha trionfato, e a passare vittorioso attraverso tutte le terribili crisi per le quali è passato. Potranno portare alcuni esempi dove l’opera di Dio è più o meno imitata: ma i maghi di Egitto alla presenza di Mosè incontrarono un termine ai loro artifici; l’inviato di Dio farà tali prodigi cui essi non potranno arrivare, vedendosi costretti ad esclamare: Digitus Dei est hic; «Qui c’è il dito di Dio». Torna all’indice

CAPITOLO XLIV

Ordini votati al riscatto degli schiavi. Gran numero di Cristiani ridotti in schiavitù. Opere meritorie dei detti Ordini. Ordine della Trinità. Ordine della Mercede. S. Giovanni di Matha. S. Pietro Armengol.

_______________ Avendo passato in rassegna gli Istituti che comparvero nella Chiesa fin dal

tredicesimo secolo, non abbiamo però ancora parlato di uno di essi che, oltre a condividere con gli altri la gloria, porta in sé una nota distintiva di sublimità e di bellezza che lo rende particolarmente meritevole che se ne faccia menzione. Mi riferisco all’Istituto che ebbe per scopo il riscatto degli schiavi dalle mani degl’infedeli. Lo nomino al singolare perché non è mia intenzione esaminare in modo particolare i diversi Ordini in cui fu distinto, ma considero l’unicità dello scopo, e a motivo di questa unicità definisco unico l’Istituto. Essendo per fortuna mutate le circostanze che diedero occasione ad una tale fondazione noi possiamo solo a malapena apprezzarne adeguatamente il valore e formarci l’idea esatta della grata impressione e del santo entusiasmo che questo Istituto produsse in tutti i paesi cristiani.

A causa delle lunghe guerre sostenute contro gli infedeli un grandissimo numero di Cristiani gemeva in loro potere, privati della patria e della libertà ed esposti ai pericoli, data la loro penosa condizione di schiavi, di apostatare dalla fede dei loro padri. Occupando tuttora i Mori una parte considerevole della Spagna e dominando incontrastati le coste dell’Africa, orgogliosi e potenti in Oriente per le vittorie riportate sui Crociati, gl’infedeli avevano circondata la parte meridionale dell’Europa con una linea molto estesa

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sistemata a ridosso, dalla quale potevano spiare continuamente il momento opportuno e procacciarsi un gran numero di schiavi cristiani. Le rivoluzioni e le vicende di quei tempi presentavano loro continuamente occasioni favorevoli; e l’odio e la cupidigia li stimolava a consumare la vendetta sui Cristiani che venivano presi di sorpresa. Si può essere certi che questo era uno dei più gravi mali che affliggevano l’Europa; e se la parola carità non doveva restare un nome vano, se i popoli europei non volevano dimenticare i vincoli di fratellanza e di comunione d’interessi che li univa, era necessario ed urgente concordare un rimedio da applicare ad una calamità tanto dolorosa. Il veterano che invece del premio per il lungo servizio prestato alla religione e alla patria aveva trovata la schiavitù nelle tenebre di una prigione sotterranea; il mercante che solcando i mari per portare i rifornimenti all’esercito cristiano era caduto in potere dei nemici inesorabili, e scontava la sua ardimentosa impresa con l’essere caricato di pesanti catene; la timida fanciulla che in un momento di svago passeggiando assorta sulla spiaggia del mare era stata perfidamente sorpresa e portata via da corsari senza pietà come colomba fra gli artigli dello sparviero: questi infelici avevano sicuramente tutta la ragione che i loro fratelli d’Europa volgessero su di loro uno sguardo di compassione e facessero qualche tentativo per rendere loro la libertà.

Ma come si poteva raggiungere un fine tanto caritatevole? Quali mezzi si sarebbero adoperati per riuscire in un’impresa che non poteva essere affidata alla forza delle armi, né tampoco all’astuzia? Non c’è chi più del Cattolicesimo sia fertile nell’escogitare rimedi. Qualunque necessità si presenti, basta lasciarlo agire in libertà e subito trova i mezzi più adatti per farvi fronte. I richiami e i negoziati delle potenze cristiane non avrebbero ottenuto nulla a favore degli schiavi; nuove guerre intraprese per questo motivo avrebbero aumentato le sventure pubbliche e avrebbero resa ancor peggiore la sorte di quelli che gemevano nella schiavitù, e forse ne avrebbero accresciuto il numero fornendo loro nuovi compagni nella disgrazia; i mezzi pecuniari, per mancanza di un punto centrale di direzione e di azione, avrebbero prodotto scarso frutto e si sarebbero dispersi nelle mani di agenti subalterni. Quale mezzo rimaneva dunque? Quel mezzo potentissimo che la religione cattolica ha sempre avuto, quel segreto con cui sa condurre a termine le più grandi imprese: la carità.

Ma in che modo doveva operare questa carità? Nel modo stesso con cui nel Cattolicesimo operano tutte le altre virtù. Questa religione divina, la quale discesa dal cielo eleva continuamente a meditazioni sublimi l’intelletto umano, ha tuttavia un carattere particolare che la distingue dalle scuole e dalle sétte che hanno preteso d’imitarla. Ad onta dello spirito di riserbo che la mantiene distaccata dalle cose terrene, nulla si trova in essa di vago, di ozioso o di puramente teorico. Tutto in lei è speculativo e pratico, sublime e semplice; si accomoda a tutto, a tutto si adatta, purché la cosa non sia incompatibile con la verità dei suoi dogmi e con la severità dei suoi precetti.

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Con gli occhi fissi al cielo non dimentica che sta sulla terra e che ha da trattare con uomini mortali soggetti a calamità e miserie: con una mano mostra loro l’eternità, e con l’altra li soccorre nelle sventure, ne allevia le pene e ne asciuga le lacrime. Non si accontenta di vane e sterili parole: per lei l’amore per il prossimo nulla vale se non si manifesta col dare da mangiare all’affamato, da bere a chi ha sete, col vestire l’ignudo, consolare l’afflitto, visitare l’infermo, confortare il prigioniero e riscattare lo schiavo; e per servirmi di un’espressione di moda nel secolo attuale, essa è positiva in grado eminente. Essa quindi fa in modo di realizzare le sue idee attraverso istituzioni benefiche e feconde, distinguendosi così dalla filosofia umana di cui le pompose parole e i giganteschi progetti formano un contrasto così miserabile con la piccolezza o col nulla delle sue opere. La religione parla poco, però medita ed opera molto: degna figlia dell’Essere infinito il Quale, inabissato nella contemplazione di un pelago di luce che contiene nella Sua essenza, ha però creato quest’universo che noi ammiriamo, e non cessa di conservarlo con una bontà ineffabile, e di reggerlo con indicibile sapienza.

Per aiutare i miseri schiavi non c’è dubbio che appare ben vantaggiosa l’idea di una vasta società, estesa in tutta Europa, che si trovasse in contatto con tutti quei Cristiani che con le loro elemosine potessero contribuire allo svolgimento di un’opera così santa; e che per di più avesse sempre a sua disposizione un numero di persone pronte a solcare i mari e decise, se ci fosse bisogno, ad affrontare anche la schiavitù e la morte per il riscatto dei loro fratelli. In questo modo si sarebbe ottenuto il vantaggio di mettere insieme molti mezzi, sarebbe stato assicurato il buon uso dei capitali e ci sarebbe stata la certezza che i negoziati per il riscatto degli schiavi sarebbero stati regolati da persone zelanti e di esperienza. Una tale società avrebbe corrisposto perfettamente al suo scopo, e stabilita che fosse, gli schiavi cristiani potevano subito sperare di essere soccorsi quanto più rapidamente ed efficacemente possibile. Ed ecco precisamente l’idea che fu portata ad effetto dall’istituzione degli Ordini votati al riscatto degli schiavi.

I religiosi di questo Istituto si obbligavano con voto a fare quest’opera di carità. Liberi dagli impacci derivanti da relazioni famigliari e da interessi mondani potevano consacrarsi a questa missione con tutto l’ardore del loro zelo. I lunghi viaggi, i pericoli del mare, l’insalubrità dell’aria nei vari climi, la ferocia degl’infedeli: nulla li fermava. Nel proprio abito e nelle preghiere del loro Istituto essi trovavano un ricordo perenne del voto con cui si erano impegnati davanti a Dio. Non erano più padroni del riposo, delle comodità, della vita stessa, perché tutto questo apparteneva ai miseri schiavi che al di là del Mediterraneo gemevano in un oscuro carcere o si trascinavano ai piedi dei loro padroni oppressi da una pesante catena. Le famiglie delle infelici vittime avevano gli occhi fissi sul religioso ed esigevano da lui che adempisse la sua promessa, obbligandolo a trovare i mezzi e ad esporre, se fosse stato il caso, la

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stessa vita per restituire il padre al figlio, il figlio al padre, lo sposo alla sposa, l’innocente fanciulla alla desolata madre.

Già fin dai primi secoli del Cristianesimo la Chiesa profuse il suo zelo nel riscatto degli schiavi, zelo che sempre si mantenne vivo e che fin da allora spinse i fedeli a fare i più grandi sacrifici. Nel capitolo XVII di quest’opera e nelle rispettive note viene dimostrata questa verità in modo incontestabile, e non ho quindi bisogno di soffermarmi per provarla. Ciò nonostante non mi trattengo dal far notare che anche in questo caso fu applicata la regola di comportamento della Chiesa, quella cioè di portare ad effetto le sue idee per mezzo di istituzioni. Seguite con attenzione i suoi passi, e vedrete che essa cominciò con l’insegnare ed esaltare una virtù, inducendo soavemente a praticarla; la pratica si estese, si consolidò; e finalmente ciò che era semplicemente un’opera buona, per alcuni diventò un’opera obbligatoria, e ciò che era un puro consiglio, si convertì, per un numero scelto di persone, in rigoroso precetto. In tutti i tempi la Chiesa si preoccupò del riscatto degli schiavi; in tutti i tempi alcuni Cristiani di una carità eroica seppero privarsi dei loro beni e perfino della libertà, per attendere a quest’opera di misericordia; ma l’opera rimaneva ancora lasciata alla discrezione dei fedeli e non vi era un organismo che rappresentasse questo proposito ispirato dalla carità. Sopraggiunsero nuovi bisogni e i mezzi ordinari non bastavano più: era necessario che venissero messi insieme e celermente i soccorsi e che fossero impiegati con discernimento. La carità ha bisogno, per così dire, di un braccio sempre pronto ad eseguire gli ordini, e si rende necessaria un’istituzione permanente: l’istituzione nasce, e la necessità rimane soddisfatta.

Siamo talmente abituati al sublime e al bello nelle opere della religione che a mala pena ci soffermiamo ad osservare i più grandi prodigi; allo stesso modo che, nel trarre profitto dai benefìci della natura, ne contempliamo poi con indifferenza il suo operare e le sue più meravigliose produzioni. Nei vari Istituti religiosi che sotto diverse forme abbiamo visti fin dagli inizi della Chiesa abbiamo avuto occasione di osservare cose sommamente degne di ammirazione sia per il filosofo che per il Cristiano; ma dubito fortemente che nella storia di questi Istituti si possa trovare cosa più bella, più grande e più commovente dello spettacolo che ci presentano gli Ordini di redenzione. Quale simbolo più leggiadro di quello della religione che protegge lo sventurato! Quale emblema più sublime della redenzione consumata sulla Croce che si estende alla redenzione dalla schiavitù terrena, come pure alle visioni che precedettero la fondazione di questi santi Istituti! Diranno alcuni che queste apparizioni non erano che pure illusioni: fortunate illusioni, risponderemo noi, che hanno come risultato la consolazione dell’umanità!

Comunque sia, ne farò qui menzione senza temere la derisione dell’incredulo il quale, se ancora conserva in cuore alcun sentimento generoso, sarà costretto a convenire che quand’anche non vi riconosca alcuna verità storica, vi trova almeno un’alta poesia, e sopratutto l’amore per

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l’umanità, il desiderio ardente di soccorrerla, e l’eroico disinteresse nel sublime sacrificio che l’uomo fa quando si sottopone alla schiavitù per il riscatto dei suoi fratelli.

Un dottore dell’università di Parigi, assai noto per la sua virtù e per la sua dottrina, era appena stato promosso all’Ordine del presbiterato, e celebrava per la prima volta il sacrificio dell’altare. Il santo sacerdote, nel vedersi favorito con tanta bontà dall’Altissimo, raddoppia l’ardore, ravviva la fede, e si accinge ad offrire l’Agnello senza macchia con tutto quel raccoglimento, con quella purezza e fervore di cui è capace un cuore inondato di grazia e infiammato di carità. Non sa come manifestare al suo Dio la sua profonda riconoscenza per un beneficio così grande, e brama vivamente di potere in qualche maniera dargli una prova della sua gratitudine e del suo amore. Colui che disse: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» gli indica ben presto la strada per sfogare il fuoco della carità, e la visione incomincia. Si presenta agli occhi del sacerdote un angelo con le vesti bianche come la neve e risplendenti come la luce; porta in petto una croce rossa e azzurra ed ha ai suoi fianchi due schiavi, uno cristiano da un lato e dall’altro uno moro, stendendo le braccia sul loro capo. Il sant’uomo è rapito in estasi, e capisce che Dio lo chiama all’opera santa di riscattare gli schiavi, ma prima di fare altri passi si ritira in un eremo, e per la durata di tre anni trascorsi nella preghiera e nella penitenza implora umilmente il Signore affinché gli manifesti la Sua sovrana volontà. S’incontra nel deserto con un santo eremita, e i due si aiutano a vicenda con le orazioni e con gli esempi. Assorti un giorno in santi colloqui presso una fonte, apparve loro improvvisamente un cervo che portava inalberata sulla fronte la misteriosa croce dei due colori. Il santo sacerdote racconta al suo attonito compagno la prima visione; raddoppiano ambedue le orazioni e le penitenze, e per tre volte entrambi ricevono l’avviso dal cielo. Risoluti quindi a non differire neanche un momento dal compiere la volontà di Dio, vanno a Roma, chiedono al Sommo Pontefice lumi e licenza e il Papa, che nello stesso tempo aveva avuto una visione simile, accoglie con piacere la richiesta dei due santi eremiti di fondare l’Ordine della Santissima Trinità della redenzione degli schiavi. Il sacerdote si chiamava Giovanni di Matha, e l’eremita Felice di Valois. Consacratisi con ardente zelo a quest’opera di carità, asciugarono sulla terra le lagrime di molti infelici, e adesso ricevono in cielo il premio delle loro fatiche e la Chiesa ne celebra la memoria venerandoli sugli altari.

La fondazione dell’Ordine della Mercede ebbe un’origine simile. S. Pietro Nolasco, dopo avere consumato tutti i suoi averi nella redenzione degli schiavi, e non sapendo come fare per continuare la pia opera, ricorse alla preghiera per fortificarsi vieppiù nel suo santo proposito di vendere la propria libertà, o di rimanere schiavo al posto di qualcuno dei suoi fratelli. Durante la preghiera gli apparve la Santissima Vergine che gli manifestò quanto sarebbe stata gradita a Lei e al Suo Figlio divino l’istituzione di un Ordine che avesse

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avuto per scopo la redenzione degli schiavi. Accordatosi il santo col re di Aragona e con S. Raimondo di Penafort, fondò il detto Ordine, e convertì in voto, per sé e per tutti i professi del nuovo Istituto, quel suo desiderio di dare se stesso in schiavitù, in riscatto degli altri.

Ripeterò quanto ho detto sopra: qualunque sia il giudizio che altri vogliano formare su queste apparizioni, ed anche se le rigettassero come pure illusioni, risulterà sempre ciò che ci siamo proposti di dimostrare: l’influenza della religione cattolica nel far fronte alle grandi sventure, e l’utilità dell’Istituto nel quale è stupendamente personificato l’eroismo della carità. Supponete infatti che il santo fondatore avesse patito un’illusione prendendo per rivelazioni celesti le ispirazioni del suo fervoroso zelo. Si annullano forse per questo i benefìci a vantaggio dei miseri? Voi mi parlate sempre di illusioni, ma la cosa certa è che queste illusioni produssero la realtà. Quando S. Pietro Armengol non avendo mezzi per liberare alcuni infelici si offrì in ostaggio al loro posto, e passato il giorno fissato per il pagamento e non arrivando il danaro si preparava serenamente a morire impiccato, le illusioni non rimanevano certo senza frutto, e nessuna realtà avrebbe prodotto maggiori prodigi di eroismo e di zelo. Ma è da molto tempo ormai che si è soliti condannare le cose di religione come illusioni e pazzia. Fin dai primi tempi del Cristianesimo il mistero della Croce fu detta una pazzia; ma questo non impedì che la pretesa pazzia cambiasse la faccia del mondo. Torna all’indice

CAPITOLO XLV

Influenza del Protestantesimo sullo sviluppo della civiltà dal sedicesimo secolo in poi. Motivi per cui nei secoli del Medioevo la civiltà trionfò sulla barbarie. Situazione dell’Europa agli inizi del sedicesimo secolo. Lo scisma di Lutero interruppe e indebolì la missione per civilizzare l’Europa. Osservazioni sull’influenza della Chiesa sui popoli barbari negli ultimi tre secoli. Si esamina se attualmente il Cristianesimo è meno idoneo a propagare la fede di quel che fosse nei primi secoli della Chiesa. Missioni cristiane dei primi tempi. Missione terribile di Lutero.

_______________ Nella rapida rassegna fin qui fatta la mia intenzione non è stata quella di

esporre la storia degl’Istituti religiosi (né avrei potuto farlo in modo esauriente), ma soltanto di presentare alcune riflessioni che, mettendo in luce l’importanza di questi Istituti, liberassero il Cattolicesimo dalle accuse rivoltegli per la protezione che in ogni tempo ha accordato loro. Sarebbe stato impossibile porre a confronto il Cattolicesimo e il Protestantesimo nelle relazioni che hanno con la civiltà europea senza dedicare alcune pagine all’esame dell’influenza che hanno avuto gl’Istituti religiosi sulla stessa civiltà. Per cui, una volta dimostrato che questa influenza fu salutare, resta certo il fatto che il Protestantesimo, il quale con tanto odio ed accanimento ha

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calunniato e perseguitato questi Istituti, ha alterata la storia della civiltà, non ne ha compreso lo spirito e ne ha pregiudicato il legittimo sviluppo.

Queste riflessioni mi spingono a ricordare al Protestantesimo un’altra mancanza che ha commesso quando, nell’infrangere l’unità della civiltà europea, vi ha introdotto la discordia e ne ha indebolita la supremazia materiale e morale sul resto del mondo. L’Europa sembrava destinata a civilizzare il mondo intero. La superiorità delle conoscenze, il predominio delle forze, la sovrabbondanza della popolazione, il carattere valoroso e intraprendente, i tratti di generosità e di eroismo, lo spirito comunicativo e propagatore: sono tutte cose che la spingevano verosimilmente a diffondere i suoi princìpi, i sentimenti, le leggi, i costumi e le istituzioni in ogni angolo del mondo. E come mai questo non si è verificato? Come mai la barbarie è ancora alle porte? Come mai l’Islamismo mantiene ancora il suo campo in uno delle regioni più belle, in uno dei paesaggi più pittoreschi d’Europa? L’Asia con la sua inerzia, la sua prostrazione, il dispotismo, la degradazione della donna, e tutti gli obbrobri dell’umanità è ancora così sotto i nostri occhi e a mala pena ha fatto un passo che lasci sperare che si sollevi dalla sua abiezione. L’Asia minore, le coste della Palestina e dell’Egitto, l’intera Africa ci stanno di fronte nel misero stato e nella compassionevole degradazione che fanno da deplorevole contrasto con le loro antiche e nobili memorie. L’America, dopo quattro secoli di rapporti continui con l’Europa è ancora tanto indietro che gran parte delle sue forze intellettuali e delle sue risorse naturali aspetta ancora chi sappia metterle a profitto.

L’Europa piena di vita, ricca di risorse, traboccante di vigore ed energia, come mai è rimasta circoscritta dentro i suoi confini? Se ci mettiamo a considerare attentamente un così funesto fenomeno (a cui pare impossibile che la filosofia della storia non abbia mai posto mente) ne individueremo il motivo nella mancanza di unità che ha sofferto l’Europa, per cui essa ha svolto le sue relazioni con gli stranieri senza un accordo interno, e quindi senza efficacia. Non si fa altro che esaltare, per le società, la convenienza di restare uniti, se ne proclama la necessità per poter ottenere grandi risultati, e poi non si riesce a capire che, essendo questo principio applicabile alle nazioni così come agli’individui, esse non possono sperare di ottenere grandi risultati se non si assoggettano a questa legge generale. Quando un insieme di nazioni di origine comune, e sottoposte per molti secoli alle stesse influenze, sono dirette e dominate dagli stessi princìpi ed hanno raggiunto insieme un notevole grado di civiltà, associarsi fra loro diventa una vera necessità: sono una famiglia di popoli fratelli; e tra fratelli la divisione e la discordia producono effetti peggiori che non tra estranei. Non voglio dire che tra le nazioni europee fosse possibile una concordia tale da restare permanentemente in pace e da condurre in perfetta armonia tutte le iniziative che avessero avviato nelle altre parti del mondo; ma senza abbandonarsi a tante illusioni irrealizzabili non c’è dubbio, tuttavia, che nonostante i particolari contrasti tra nazione e nazione, e

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malgrado la maggiore o minore opposizione d’interessi dentro e fuori l’Europa, essa avrebbe potuto conservare un principio civilizzatore che, elevandosi su tutte le miserie e le meschinità delle passioni umane, l’avrebbe portata ad acquisire una maggiore autorità e ad assicurare la propria influenza a vantaggio degli altri paesi del mondo.

Nella serie interminabile di guerre e di calamità che afflissero l’Europa durante il periodo d’instabilità causata dalle nazioni barbare, quest’unità di princìpi esisteva; e grazie a questa unità dalla confusione spuntò l’ordine, dalle tenebre la luce. Nella lunga lotta del Cristianesimo contro l’Islamismo, ora in Europa, ora in Africa o in Asia, questa stessa unità di princìpi fece trionfare la civiltà cristiana nonostante le rivalità dei prìncipi e il caos tra i popoli. Finché durò quest’unità, l’Europa conservava una forza trasformatrice: tutto ciò che toccava, prima o poi diventava europeo.

Il cuore soffre nel considerare quel disastroso avvenimento che ruppe questa preziosa unità, deviando il corso della nostra civiltà e mortificandone in modo deplorevole la forza fecondatrice. Fa pena, per non dire dispetto, pensare che la comparsa del Protestantesimo sia coincisa proprio con i momenti critici in cui l’Europa, raccogliendo il frutto di lunghi secoli di continua fatica e di sforzi inauditi, si presentava robusta, vigorosa, splendida ed imponente come un gigante, scopriva nuovi mondi, toccando con una mano l’Oriente e con l’altra l’Occidente. Vasco de Gama, passando il capo di Buona Speranza, aveva mostrato la via marittima alle Indie orientali e aveva aperto le comunicazioni con popoli sconosciuti. Cristoforo Colombo con la flotta d’Isabella solcava i mari d’Occidente, scopriva un mondo e piantava su terre ignote il vessillo di Castiglia. Ferdinando Còrtes alla testa di un piccolo gruppo di valorosi penetrava nel cuore del nuovo continente, s’impadroniva della capitale, e facendo uso di armi mai viste dagli indigeni del paese si presentava loro come una divinità in mezzo ai fulmini. Ovunque in Europa ferveva un’immensa attività, uno spirito intraprendente si sviluppava in tutti i cuori, era suonata l’ora in cui si apriva ai popoli europei un orizzonte di potenza e di gloria tanto vasto che l’occhio non arrivava a vederne i confini. Magellano attraversando impavido lo stretto che doveva unire l’Occidente con l’Oriente, e Sebastiano d’Elcano ritornando ai lidi spagnoli dopo aver fatto il giro del mondo, erano il simbolo sublime della civiltà europea che prendeva possesso dell’universo.

Il potere della Mezzaluna si presentava ad un’estremità dell’Europa potente e minaccioso come un’ombra sinistra che appare nell’angolo di un magnifico quadro; ma non temete, perché le sue schiere sono state cacciate da Granata, l’esercito cristiano è accampato sulle coste d’Africa, il vessillo di Castiglia sventola sulle mura di Orano, e nel cuore della Spagna cresce nell’oblio quel prodigioso Fanciullo che appena lasciati i trastulli dell’infanzia farà fallire gli ultimi tentativi dei Mori di Spagna con i trionfi di Alpujarras, e

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subito dopo abbatterà per sempre nelle acque di Lepanto la potenza musulmana.

Lo sviluppo delle conoscenze andava di pari passo con la potenza, che era giunta al vertice. Erasmo perlustrava tutte le fonti dell’erudizione e faceva stupire il mondo con le sue doti e la sua dottrina, e da un’estremità all’altra d’Europa diffondeva la gloria della sua fama. L’insigne spagnolo Lodovico Vives emulava il dotto di Rotterdam e si proponeva di rigenerare le scienze, aprendo una nuova strada all’intelletto umano. In Italia fermentavano le scuole filosofiche e si arricchivano avidamente delle cognizioni portate da Costantinopoli; il genio di Dante e di Petrarca andavano perpetuandosi in successori illustri; la patria del Tasso ne faceva echeggiare gli accenti come l’usignolo gorgheggia ai primi albori intanto che la Spagna, ebbra dei suoi trionfi, orgogliosa e fiera per le sue conquiste, cantava come un soldato vittorioso che si riposa sui trofei ammonticchiati sul campo di battaglia.

Chi mai avrebbe potuto resistere a tanta superiorità, a tanto splendore e potenza? L’Europa, sicura della propria superiorità contro ogni nemico, godendo di una prosperità destinata a crescere di giorno in giorno, in possesso delle migliori leggi e istituzioni che mai si fossero viste, il cui perfezionamento e compimento potevano essere lasciati senza timore alla lenta azione dei secoli; l’Europa, ripeto, arrivata ad una condizione così prospera e lusinghiera doveva disporsi all’opera di portare la civiltà in tutto il mondo. Le stesse scoperte che si stavano facendo continuamente facevano capire che era giunto il momento opportuno: numerose flotte trasportavano, insieme ai guerrieri conquistatori, missionari che andavano a seminare il prezioso seme, che sviluppato nel tempo doveva produrre l’albero all’ombra del quale dovevano ripararsi le nuove nazioni. Così stava avendo inizio il generoso lavoro che, benedetto dalla Provvidenza, doveva portare la civiltà in America, in Africa e in Asia.

Intanto nel cuore della Germania già risuonava la voce dell’apostata che andava a portare la discordia tra i popoli fratelli. Cominciarono le dispute, le teste si esaltarono, l’irritazione giunse al suo colmo: si ricorse alle armi, il sangue iniziò a scorrere a fiumi; e l’uomo incaricato dall’abisso infernale di stendere sulla terra questa nube di sciagura poté contemplare, prima di morire, l’orribile frutto delle sue fatiche, ed ingiuriare irridendo con un crudele ed impudente sorriso le sventure dell’umanità. In questo modo ci capita alcune volte d’immaginare il genio del male che, abbandonando la sua tetra dimora e il suo trono circondato da orrori, si presenta all’improvviso sulla faccia della terra, sparge in ogni parte la desolazione e il pianto, gira l’orrido sguardo sul vasto campo di sterminio, e torna infine ad inabissarsi nelle tenebre eterne.

Diffusosi per l’Europa lo scisma di Lutero, l’opera degli Europei sulle popolazioni degli altri paesi del mondo si svigorì, per cui tutte le belle speranze che prima si potevano concepire sparirono di colpo come vane illusioni. Da quel momento la maggior parte delle forze intellettuali, morali e

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fisiche era condannata ad essere impiegata e logorata dolorosamente in una lotta che armava fratelli contro fratelli. Le nazioni che erano rimaste cattoliche si vedevano costrette a concentrare tutte le loro forze, tutta l’azione e l’energia per far fronte agli empî attacchi che venivano portati dai nuovi settari, sia nei campi delle dispute, che in quelli di battaglia. Le nazioni che erano state infettate dal contagio dei nuovi errori precipitarono in una specie di vortice che non lasciava veder loro altri nemici fuorché i Cattolici, nessun’altra impresa degna dei loro sforzi fuorché la rovina e la distruzione della cattedra di Roma. I loro pensieri non venivano più indirizzati allo studio dei mezzi per migliorare la sorte dell’umanità; il vasto campo aperto dalle nuove scoperte ad una nobile ambizione non era degno che gli si desse neanche uno sguardo. Per loro un’opera sola era giusta, santa e necessaria: gettare nella polvere l’autorità del romano Pontefice.

Con questa disposizione di spirito l’ascendente che gli Europei avevano precedentemente acquistato sui popoli delle nuove terre e su quelli che avevano assoggettato s’indebolì e si neutralizzò. Quando essi approdavano su nuovi lidi, non vi s’incontravano più come fratelli, né come generosi rivali stimolati da nobile competizione, ma come nemici implacabili ed accaniti che per la diversità della loro religione si combattevano sanguinosamente, come capitava in passato tra Cristiani e Musulmani. Il nome della religione cristiana, che per tanti secoli era stato il simbolo della pace, e che prima di una battaglia, presentandosi alle schiere contrapposte, era capace di far loro deporre il rancore e cambiare in fraterno abbraccio l’odio e la vendetta; il nome della religione divina che a questi popoli faceva da bandiera per trionfare sull’esercito maomettano; questo stesso nome sfigurato e lacerato da mani sacrileghe si mutò in segno d’inimicizia e di discordia, Dopo che l’Europa fu ricoperta di sangue e di lutto lo scandalo fu mostrato a quei popoli sprovveduti che guardavano attoniti le miserie, lo spirito di divisione, i rancori e la maldicenza che regnavano tra quegli stessi uomini che essi prima erano giunti a considerare come una razza sovrumana o di semidei.

D’allora in poi le forze europee non si unirono più per qualcuna di quelle grandi imprese che avevano formato la gloria dei secoli precedenti. Il missionario cattolico che bagnava col suo sudore e il suo sangue i boschi dell’America e dell’India, poteva bensì far uso di quei mezzi che gli concedeva la nazione alla quale egli apparteneva, se questa era rimasta cattolica; ma non poteva più sperare che l’intera Europa, aderendo all’opera di Dio, andasse a sostenere le missioni con l’aiuto dei suoi mezzi. Sapeva, al contrario, che un gran numero di Europei lo calunniava e l’insultava continuamente cercando in tutti i modi immaginabili d’impedire che la parola del Vangelo attecchisse nel nuovo campo, e accrescesse la fama della Chiesa cattolica e l’autorità dei Papi.

Vi fu un tempo in cui le profanazioni degl’infedeli al Santo Sepolcro e le vessazioni sofferte dai pellegrini che andavano a visitarlo bastavano per

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sollevare l’indignazione di tutti i popoli cristiani, i quali alzando il grido d’allarme si precipitavano in massa dietro le orme dell’eremita che li guidava per vendicare gli oltraggi fatti alla religione e i cattivi trattamenti ricevuti da alcuni dei loro fratelli. Dopo l’eresia di Lutero tutto cambiò: la morte di un religioso sacrificato in paesi lontani, i tormenti, il martirio, tante scene sublimi in cui si mostravano rinnovati lo zelo e la carità dei primi secoli della Chiesa, tutto era disprezzato e messo in ridicolo da uomini che si definivano Cristiani, dai discendenti indegni di quegli eroi che versarono il loro sangue sotto le mura della città santa.

Per farsi una giusta idea del danno immenso recato sotto questo aspetto dal Protestantesimo immaginiamo per un momento che la pretesa riforma non fosse avvenuta, e ipotizziamo quale sarebbe stato allora il corso degli avvenimenti. In primo luogo tutta l’attenzione, tutti i mezzi, tutte le forze che impiegò la Spagna per far fronte alle guerre di religione organizzate in Europa avrebbe potuto dedicarle al nuovo mondo. Lo stesso sarebbe accaduto per la Francia, i Paesi Bassi, l’Inghilterra e gli altri potenti regni. E se queste nazioni, che anche divise hanno potuto far scrivere alla storia pagine tanto gloriose e brillanti, avessero concentrata ed unita la loro azione sulle nuove terre, l’avrebbero fatto con tanto vigore ed energia che nessuna cosa al mondo sarebbe stata capace di arrestarne l’impeto dominatore. Immaginate per un momento che tutti i porti dal Baltico sino all’Adriatico spedissero missionari in Oriente e in Occidente, come facevano la Francia il Portogallo, la Spagna e l’Italia; che tutte le grandi città d’Europa fossero altrettanti centri dove si unissero persone e mezzi per giungere a questo scopo; immaginate che tutti questi missionari fossero diretti dalle stesse intenzioni, dominati dallo stesso pensiero, infiammati dallo stesso desiderio di propagare la stessa fede; che ovunque si incontrassero si riconoscessero per fratelli e collaboratori nella stessa opera, tutti soggetti alla stessa autorità, predicando tutti la stessa dottrina e praticando il medesimo culto. Non vi sembrerebbe allora di vedere la religione cristiana operare in modo grandioso e riportare ovunque i più grandi trionfi? La nave incaricata di portare in lontani paesi la comunità di missionari potrebbe spiegare le vele senza timore, e vedendo spuntare all’orizzonte la bandiera di qualche nazione europea non avrebbe paura di doversi scontrare con gente nemica, ma sarebbe sicura di trovare amici e fratelli ovunque incontrasse Europei.

Le missioni cattoliche, a dispetto di tanti ostacoli nati dal torbido spirito del Protestantesimo, recarono a compimento le più ardue imprese e fecero prodigi che formano una bella pagina della storia moderna; ma è impossibile non vedere quanto si sarebbe fatto di più, se all’Italia, alla Spagna, al Portogallo e alla Francia si fossero uniti l’intera Germania, i Paesi Bassi, l’Inghilterra e le altre nazioni del Nord. Quest’unione era nell’ordine delle cose, e non sarebbe mancata se lo scisma di Lutero non l’avesse impedita. Bisogna inoltre notare che questo funesto avvenimento non solo impedì

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l’unione fra tutte le nazioni europee, ma fece sì che le stesse nazioni cattoliche non potessero impiegare la maggior parte dei loro mezzi nella grande opera di conversione e di rinnovamento del mondo, essendo costrette a restare continuamente in armi a causa delle guerre di religione e delle discordie civili. In quell’epoca gl’Istituti religiosi sarebbero stati il braccio della religione, la quale, consolidata in Europa e soddisfatta per la rigenerazione sociale che aveva conseguita, avrebbe esteso la sua opera alle nazioni infedeli.

Dando un’occhiata al corso degli avvenimenti dei primi secoli della Chiesa, e paragonandoli con quelli dei tempi moderni, salta subito agli occhi che negli ultimi secoli deve essere intervenuta qualche causa potente che si è opposta alla propagazione della fede. Nasce il Cristianesimo, si dilata rapidamente senza alcun aiuto da parte degli uomini e nonostante l’opposizione dei prìncipi, dei dotti, dei sacerdoti idolatri, delle passioni e di tutta l’astuzia dell’inferno. È nato ieri, e già si mostra forte e dominante in tutte le contrade dell’impero romano. Popoli di lingue differenti, di costumi diversi, di vari gradi di civiltà abbandonano il culto dei falsi dèi e abbracciano la religione di Gesù Cristo. Gli stessi barbari, popoli indocili e indomabili come destriero che ancor non abbia provato il freno, dànno ascolto ai missionari che sono inviati loro, chinano il capo, e nell’ebbrezza della conquista e della vittoria si sottomettono alla religione dei conquistati e dei vinti.

Vediamo oggi. Nei secoli moderni il Cristianesimo si è ritrovato col dominio esclusivo sull’Europa; ma ciò nonostante non è giunto ad introdursi di nuovo su quelle spiagge d’Africa e d’Asia che ha davanti ai suoi occhi. È vero che l’America per la maggior parte è cristiana; ma dovete osservare che i popoli di quelle terre furono conquistati, che le nazioni conquistatrici istituirono governi durati per secoli, che le nazioni europee invasero il nuovo mondo di soldati e di coloni, e che in tal modo una gran parte dell’America è una specie di colonia dell’Europa. Per questo la conversione religiosa di quei popoli non è confrontabile con quella che avvenne nei primi secoli della Chiesa. Volgete gli occhi all’Oriente, dove le armi europee non hanno ottenuto una decisiva superiorità, e osservate cosa succede. I popoli giacciono ancora schiavi di false religioni e il Cristianesimo non ha potuto aprirsi una strada; e sebbene i missionari cattolici siano riusciti a fondare alcune missioni di una certa importanza, la preziosa semente non ha generato sufficienti radici, per cui la pianta non ha potuto produrre i frutti desiderati da una carità ardente e da un eroico zelo. Di tanto in tanto i raggi di luce sono penetrati sin nel cuore dei grandi imperi del Giappone e della Cina; per qualche momento si sono potute concepire le più belle speranze; ma queste speranze sono svanite: la scintilla di luce scomparve come una brillante meteora nella vastità di un cielo tenebroso.

E qual è la ragione di questa impotenza? Qual è la causa per cui nei primi secoli la forza fecondatrice fu così esuberante e non altrettanto negli ultimi?

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Lasciamo da parte i profondi segreti della Provvidenza: non vogliamo investigare gli arcani imperscrutabili delle vie del Signore; ma per quanto al debole uomo sia dato di penetrare la verità sulla base degli indizi che fornisce la storia della Chiesa, e per quanto sia possibile immaginare anche se lontanissimamente i disegni dell’Eterno dalle indicazioni che Egli si compiace di comunicarci, possiamo proporre la nostra opinione sui fatti, i quali, per quanto appartengano ad un ordine superiore, non cessano però di essere soggetti ad un corso regolare che Dio stesso ha stabilito. L’Apostolo S. Paolo dice che la fede viene dall’ascolto, e chiede: come si può ascoltare se non vi è chi predichi; come si può predicare se non vi è chi mandi? Dalla qual cosa si deduce che le missioni sono una cosa necessaria per la conversione dei popoli; perché Dio evidentemente non intende fare continuamente nuovi miracoli, mandando legioni di angeli per evangelizzare le nazioni che vivono prive della luce della verità. Premesse queste osservazioni, aggiungerò che per la conversione delle nazioni infedeli ciò che è mancato è stata l’organizzazione in grande di missioni che per l’abbondanza dei mezzi, per il numero e per la qualità degli individui fossero in grado di corrispondere pienamente al grande progetto. Bisogna considerare che le distanze erano immense, i popoli ai quali bisognava rivolgersi erano dispersi in molti paesi e vivevano sotto l’influsso di pregiudizi, di climi, di leggi, quanto più opposti allo spirito del Vangelo. Per far fronte a problemi così vasti, e per superare le enormi difficoltà che s’incontravano, era necessaria una vera invasione di missionari, altrimenti l’esito sarebbe rimasto dubbio ed incerto, la permanenza delle missioni cristiane molto precaria, e la conversione delle grandi nazioni poco probabile. A meno che la Provvidenza non fosse intervenuta con uno di quei grandi prodigi che in un istante cambiano la faccia della terra: prodigi che Dio non rinnova ogni momento e che non concede se non alcune volte grazie alle più fervorose preghiere dei santi. Per farsi un’idea precisa di ciò che è accaduto negli ultimi secoli, guardiamo a quello che accade attualmente. Cosa manca alle missioni tra le nazioni infedeli? Qual è il continuo lamento di quelle persone zelanti che si dedicano alla propagazione del Vangelo? Non si sentono forse continue lagnanze sullo scarso numero degli operai, sui pochi mezzi di cui si può disporre per procurar loro il necessario per la sopravvivenza? E non è questa la necessità alla quale si è proposta di porre riparo l’associazione formata tra i Cattolici d’Europa?

Quest’organizzazione in grande delle missioni è quella appunto che si sarebbe effettuata se non fosse intervenuto il Protestantesimo ad impedirla. I popoli europei, figli prediletti della Provvidenza, avevano l’obbligo e mostravano altresì una volontà decisa di procurare con tutti i mezzi possibili che gli altri popoli della terra fossero partecipi dei benefìci della fede. Disgraziatamente in Europa questa fede s’indebolì, fu abbandonata al capriccio della ragione umana, e da quel momento divenne impossibile ciò che prima era possibile e facilissimo da eseguire. E permettendo la

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Provvidenza una sì infausta sventura, permise altresì che fosse differita di molto la venuta di quel felice giorno in cui nuovi popoli sarebbero entrati in gran numero nell’ovile della Chiesa.

Forse qualcuno dirà che lo zelo dei nostri tempi non è come quello dei primi secoli del Cristianesimo, e che questa è una delle ragioni per cui non c’è stata la conversione delle nazioni infedeli. Non mi metterò a far confronti su questo punto, e non dirò nulla delle molte cose che si potrebbero dire su questo particolare; farò soltanto una semplice osservazione che elimina d’un colpo la presunta difficoltà. Il Divin Salvatore, per mandare i suoi discepoli a predicare il Vangelo, volle che rinunziassero a quanto possedevano e lo seguissero. Lo stesso Divin Salvatore nel rivelarci il segno infallibile della vera carità ci dice che non ve n’è maggiore di quella del dar la vita per i propri fratelli. I missionari cattolici dei tre ultimi secoli hanno rinunciato a tutte le cose, hanno abbandonato la patria, la famiglia, le comodità e tutto quanto sulla terra può interessare il cuore dell’uomo; sono andati a cercare gl’infedeli in mezzo ai più gravi pericoli; e in tutti gli angoli della terra hanno sigillato col sangue il loro ardore per la conversione dei loro fratelli e per la salvezza delle anime. Secondo me simili missionari sono degni di essere considerati successori di quelli dei primi secoli della Chiesa. Tutte le invettive e tutte le calunnie nulla possono contro l’evidenza di questi fatti. La Chiesa dei primi secoli, come quella dei nostri tempi, avrebbe considerato un onore comprendere tra i suoi figli un S. Francesco Saverio o i martiri del Giappone.

Una grande abbondanza di missionari fu a disposizione della Chiesa per la conversione del mondo antico e del mondo barbaro. Appena essa apparve, le lingue di fuoco del Cenacolo e un gran numero di meravigliosi prodigi supplirono alla scarsità degli operai, e furono all’origine del successivo loro aumento. Nazioni molto diverse fra loro, nell’ascoltare lo stesso predicatore, l’udivano simultaneamente ognuna nella propria lingua. Ma dopo l’avvio iniziale in cui l’Onnipotente, impiegando i suoi mezzi infiniti, aveva voluto sconfiggere l’inferno, le cose seguirono il corso ordinario, e per un maggior numero di conversioni ci volle anche un maggior numero di missionari. I grandi centri propulsori di fede e carità, le molte chiese di Oriente e di Occidente, procuravano in gran quantità i missionari necessari per la propagazione della fede; e questo sacro esercito aveva a sua disposizione un’imponente riserva per supplire alle carenze qualora le infermità, le fatiche o il martirio ne diradassero le file. Roma era il centro di questo gran movimento; ma Roma per dare l’impulso non aveva bisogno di flotte che trasportassero le sante colonie alla distanza di migliaia di miglia, come non aveva bisogno di accumulare somme ingenti per il sostentamento delle missioni in terre deserte e in paesi del tutto sconosciuti. Quando il missionario genuflesso ai piedi del Santo Padre gli chiedeva la benedizione apostolica, il Santo Padre poteva mandarlo in pace e lasciarlo partire col solo bordone. Perché sapeva che il missionario avrebbe attraversato paesi cristiani, e che nel

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metter piede in quelli degli idolatri non si sarebbe allontanato molto da prìncipi cristiani, vescovi, sacerdoti e popoli fedeli, che non avrebbero negato di dare aiuto a chi andava a diffondere la Parola divina tra i vicini popoli infedeli.

Lascio con fiducia al giudizio delle persone di senno le riflessioni da me fatte sul danno provocato dallo scisma protestante alla supremazia europea. Io sono intimamente convinto che questa supremazia ne ricevette un terribile colpo, e che senza questo funesto avvenimento attualmente la situazione mondiale sarebbe ben diversa. Può darsi che su questo punto mi illuda alquanto; e allora sfido chiunque abbia molto senno a negare che l’unità di azione, l’unità di princìpi, l’unità di vedute, l’unificazione dei mezzi, il coordinamento degli operatori, siano in ogni impresa il grande segreto della forza e la più sicura garanzia per una felice riuscita. E chiedo anche se non è vero che fu il Protestantesimo a rompere quest’unità rendendo impossibile l’unione e impraticabile la cooperazione. Questi sono fatti inoppugnabili, chiari come la luce del sole, recenti: sono, per così dire, di ieri. Quale ne sia la conclusione da trarre lo vede chiunque non sia parziale, chiunque sia fornito di buon senso, anzi del semplice senso comune, purché abbia per compagna la buona fede.

A qualunque persona in grado di riflettere risulta evidente che l’Europa non è quel che sarebbe stata se non fosse apparso il Protestantesimo; ed è ugualmente chiaro che gli effetti dell’influenza civilizzatrice di questo gran complesso di nazioni non sono stati quelli che gli inizi del sedicesimo secolo promettevano. In ogni modo, si vantino pure i Protestanti di aver dato alla civiltà europea una nuova direzione; si glorino di aver indebolita l’autorità spirituale dei Papi strappando dal sacro ovile milioni di anime; si esaltino per aver distrutto nei loro paesi gl’Istituti religiosi, di aver ridotta in frantumi la gerarchia ecclesiastica e di aver gettato la Bibbia in mezzo a masse ignoranti, rassicurandole che per intendere bene i sacri testi basta l’ispirazione privata o il suggerimento della ragione: sarà comunque certo che in mezzo a loro l’unità della religione cristiana è svanita; che essi mancano di un centro da cui possano partire le grandi iniziative; che non hanno una guida e che vanno errando come un gregge senza pastore, vacillanti ad ogni vento di dottrina, e sono colpiti da una sterilità radicale che impedisce loro di produrre alcune di quelle grandi opere che a piene mani ha tanto prodotto e produce il Cattolicesimo. Una cosa sarà sempre certa: che con le sue dispute senza fine, con le sue calunnie, con i suoi attacchi contro la fede e la morale della Chiesa, per lo spazio di tre secoli l’hanno costretta ad una continua guerra di difesa per respingere i loro assalti, togliendole in tal modo mezzi e tempo preziosi di cui avrebbe potuto far uso per meglio condurre a termine i grandi progetti che aveva in mente di realizzare e dei quali già s’incominciavano a vedere i buoni risultati. Se inoculare negli animi lo spirito di divisione, provocare discordie, suscitare guerre, mutare in popoli rivali quelli che fino ad allora erano stati

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popoli fratelli, fare di un convito di una grande famiglia di nazioni un’arena di accaniti nemici; se il lacerare l’anima dei missionari che vanno a predicare il Vangelo ai popoli infedeli, il frapporre tutti gli ostacoli immaginabili, il fare uso di tutti i mezzi per renderne inutile lo zelo e la carità: se tutto questo è un merito, bene… questo merito lo ha appunto il Protestantesimo. Ma se è piuttosto un cumulo di ferite per l’umanità, di queste ferite ne deve rispondere il Protestantesimo.

Quando Lutero diceva di essere incaricato di un’alta missione, proferiva una verità terribile e spaventosa che egli stesso non comprendeva. I peccati dei popoli colmano talvolta la misura della pazienza dell’Altissimo; lo strepito degli scandali dell’uomo sale fino al cielo e chiede vendetta; l’Eterno nella sua collera formidabile lancia sulla terra un’occhiata di fuoco: suona allora negli arcani infiniti l’ora fatale e nasce il figlio della perdizione che ha da ricoprire il mondo di desolazione e di lutti. Come in altri tempi si aprirono le cateratte del cielo per cancellare il genere umano dalla faccia della terra, così si apre l’urna delle calamità che il Dio delle vendette tiene in serbo per il giorno della Sua ira. Il figlio della perdizione alza la voce, e quello è il momento stabilito per l’inizio della catastrofe. Lo spirito del male percorre la superficie della terra portando sulle sue nere ali l’eco di quella voce sinistra. Uno stordimento misterioso invade tutte le menti; i popoli hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono; nel loro delirio i più orrendi precipizi appaiono strade piane, tranquille e ricoperte di fiori; chiamano bene il male e il male bene; bevono con ardore febbrile la coppa di veleno. L’oblio di tutto il passato, l’ingratitudine per tutti i benefìci s’impadroniscono delle menti e dei cuori: l’opera del genio del male è consumata; il principe degli spiriti ribelli può sprofondare di nuovo nei suoi tenebrosi domìni e l’umanità ha imparato con una terribile lezione che non si provoca impunemente la collera dell’Onnipotente. Torna all’indice

CAPITOLO XLVI

I Gesuiti: loro importanza nella storia della civiltà europea. Motivi dell’odio manifestato contro di loro. Qualità distintive dei Gesuiti. Contraddizione del Signor Guizot su questo tema. Se sia vero, come dice il Signor Guizot, che i Gesuiti in Spagna sono stati la rovina del popolo. Fatti ed epoche. Accuse ingiuste contro la Compagnia di Gesù.

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Trattando degli Istituti religiosi non è possibile passare sotto silenzio quel celebre Ordine che a pochi anni dalla sua fondazione era cresciuto talmente da assumere dimensioni enormi e dispiegava le forze di un gigante; quell’Ordine che perì senza che se ne presagisse la decadenza, che non seguì la normale via percorsa dagli altri, né per quanto riguarda la sua fondazione, né il suo sviluppo, né tampoco la sua caduta; quell’Ordine che, come è stato detto

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molto giustamente, non ebbe né infanzia né vecchiaia: si sarà già capito che sto parlando dei Gesuiti. Capisco che già il nome sarà sufficiente a mettere in allarme una certa categoria di lettori, per cui mi affretto a tranquillizzarli precisando che non ho qui l’intenzione di fare l’apologia dei Gesuiti: tale compito non corrisponde alla natura di quest’opera. Inoltre, altri si sono incaricati di farlo, ed io non voglio ripetere quello che tutti sanno. Comunque sia, è impossibile menzionare gli Istituti religiosi e dare un’occhiata alla storia religiosa, politica e letteraria d’Europa da tre secoli a questa parte, senza incontrare ad ogni piè sospinto i Gesuiti; è impossibile attraversare le terre più remote, solcare mari sconosciuti, approdare ai più lontani lidi, penetrare nei più spaventosi deserti senza trovare dappertutto qualche testimonianza dei Gesuiti; è impossibile avvicinarsi a qualche scansia delle nostre biblioteche senza che ci si presenti l’opera di qualche Gesuita. Stando così le cose, i lettori nemici dei Gesuiti mi vorranno perdonare se fermiamo per alcuni minuti la nostra attenzione su un Istituto che ha riempito il mondo con la fama del suo nome. E quand’anche si voglia prescindere dalla loro rinascita e si considerino come poco degne di esame sia la loro attuale esistenza che le possibilità del loro avvenire, sarebbe tuttavia della massima sconvenienza non parlarne almeno come fatto storico. Facendo diversamente saremmo simili a quei viaggiatori ignoranti e insensibili che camminano sulle più preziose testimonianze del passato con stupida indifferenza.

Parlando dei Gesuiti salta subito all’occhio un fatto singolarissimo: nonostante la breve vita dell’Istituto, se paragonata a quella degli altri Istituti, nessuno di questi ultimi dovette dispiegare altrettanta audacia. Ebbero fin dal loro nascere numerosi nemici; non ne furono mai privi, sia nella loro prosperità e grandezza che nella loro caduta; ed anche dopo l’abolizione del loro Istituto non è mai cessata la persecuzione nei loro confronti, o per meglio dire, l’accanimento. Da quando sono riapparsi son tenuti continuamente sotto osservazione perché si teme che tornino a riacquistare l’antico potere; lo splendore che le pagine della luminosa storia della Compagnia riflettono su di loro li mette ovunque al centro dell’attenzione ed accresce il timore di coloro che temono più la fondazione di un Collegio di Gesuiti che un’invasione di Cosacchi. Vi sarà dunque qualcosa di particolare e di straordinario in questo Istituto che attira in tal modo l’attenzione della gente e il cui solo nome è sufficiente per scombussolare i loro nemici. I Gesuiti non sono disprezzati, ma temuti; di tanto in tanto si vuol provare a metterli in ridicolo, ma subito si capisce che quando contro di loro si maneggia quest’arma, chi l’adopera non ha la tranquillità necessaria per ottenere un buon risultato. Invano si finge di disprezzarli: attraverso la simulazione traspare l’inquietudine e il turbamento, si vede subito che chi li attacca sa di non essere in presenza di avversari di poco conto e gli si risveglia la bile, i lineamenti del viso si contraggono, le parole escono dalle labbra piene di una terribile amarezza come da una coppa di veleno stillano gocce. Si capisce all’istante che prende a cuore la questione,

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che non guarda la faccenda come cosa su cui scherzare, e sembra dire a se stesso: «Tutto ciò che riguarda i Gesuiti è un affare estremamente grave; con essi non si può scherzare; non ci vogliono riguardi né condiscendenze, né ragionamenti d’alcun genere: bisogna trattarli sempre con asprezza, con durezza, con esecrazione: la più piccola negligenza potrebbe esserci fatale».

O io m’inganno del tutto, o questa è la migliore dimostrazione che si possa dare al sommo merito dei Gesuiti. Alle classi e alle corporazioni succede la stessa cosa che accade agl’individui: meriti eccezionali sono destinati a suscitare un gran numero di nemici per il semplice motivo che tali meriti sono sempre invidiati, e non poche volte temuti. Per formarsi un’idea sulla vera origine di quest’odio implacabile contro i Gesuiti basta considerare quali siano i loro principali nemici. Si sa che in prima fila figurano i Protestanti e gli atei, venendo in seconda tutti coloro che più o meno apertamente, più o meno risolutamente, si mostrano poco portati o legati all’autorità della Chiesa romana. Sia gli uni che gli altri in quest’odio che professano nei confronti dei Gesuiti sono guidati da un indubbio istinto, perché effettivamente non hanno mai incontrato un avversario più temibile. Questa è una riflessione sulla quale dovrebbero meditare molto i Cattolici veri, i quali per un motivo o per l’altro sui Gesuiti nutrono in cuore ingiusti pregiudizi. Ricordiamo che quando si tratta di formare un giudizio sul merito e la condotta di una persona, molto spesso un mezzo sicuro per stabilire la verità tra opinioni contrastanti è quello di chiedersi chi sono i suoi nemici.

Considerando attentamente l’Istituto dei Gesuiti, l’epoca della sua fondazione, la rapidità e l’entità dei loro progressi, si conferma sempre più l’importante verità che ho già esposto in altre parti della meravigliosa fecondità della Chiesa cattolica nel far fronte con qualche intuizione degna di lei a tutte le necessità che sopravvengono. Il Protestantesimo combatteva i dogmi cattolici con uno sfarzoso apparato di erudizione e di dottrina; lo splendore della letteratura, la padronanza delle lingue, il gusto per gli antichi modelli, tutto veniva adoperato contro la religione con una costanza e una passione degne di miglior causa. Si facevano sforzi incredibili per distruggere l’autorità pontificia; e dove non si riusciva a distruggerla, si cercava almeno di screditarla e indebolirla. Il male si diffondeva con una rapidità terribile, il veleno mortale circolava già nelle vene di una parte considerevole dei popoli europei, e il contagio minacciava di propagarsi nei paesi che erano rimasti fedeli alla verità; e per colmo di sventura lo scisma e l’eresia avevano incominciato ad attraversare i mari per andare a corrompere la fede pura dei popoli del nuovo mondo da poco evangelizzati. Che si doveva fare per far fronte a questa crisi? Un male così grave poteva essere affrontato con i consueti accorgimenti? Era possibile opporsi a pericoli così grandi e imminenti utilizzando le consuete armi? O non era forse opportuno fabbricarne di nuove che fossero di una tempera adatta al nuovo genere di lotte, affinché la causa della verità non si trovasse a combattere nella nuova

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arena in condizione di svantaggio? Non c’è dubbio: la comparsa dei Gesuiti fu la giusta risposta a queste domande; il loro Istituto la soluzione del problema.

Lo spirito di quei secoli era essenzialmente uno spirito di progresso scientifico e letterario. L’Istituto dei Gesuiti non ignorava questa verità, anzi la comprendeva perfettamente: bisognava avanzare rapidamente per non restare mai indietro in alcun ramo dello scibile umano; e così faceva, e li affrontava tutti, senza però lasciarsi prendere la mano da nessuno di essi. Si studiarono le lingue orientali, si fecero grandi studi sulla Bibbia, si analizzarono le opere degli antichi padri e le testimonianze della tradizione e delle disposizioni ecclesiastiche. I Gesuiti erano sempre al loro posto, e dai loro collegi uscivano in gran numero opere di grande valore su queste materie. Il gusto per le controversie sul dogma si era diffuso per l’Europa, e in molte parti si conservava ancora l’amore per le dispute scolastiche? Bene, dai Gesuiti uscivano opere immortali di controversia, mentre nello stesso tempo essi non la cedevano a nessuno in abilità e nelle sottigliezze scolastiche. Le matematiche, l’astronomia, tutte le scienze naturali andavano prendendo slancio, e nelle capitali europee si fondavano circoli d’intellettuali per coltivarle e favorirle? E i Gesuiti si distinguevano anche in questo ramo di studi, e brillavano di somma gloria nelle grandi accademie. Lo spirito dei secoli era di sua natura dissolvente: ma l’Istituto dei Gesuiti era munito di mezzi preventivi contro la dissoluzione, e nonostante la velocità del suo avanzare marciava compatto e in buon ordine come un gran corpo d’armata. Gli errori, le dispute senza fine, il numero infinito di nuove opinioni, gli stessi progressi delle scienze agitavano le menti comunicando allo spirito umano una funesta instabilità, un turbine impetuoso agitava tutto e tutto sconvolgeva: ma l’Istituto dei Gesuiti, pur essendo in mezzo al turbine, non risentiva né dell’incostanza, né della volubilità, proseguendo per la sua strada senza smarrirsi e senza deviare; e mentre nei suoi avversari non si scorgeva altro che l’irregolarità di un procedere vacillante i Gesuiti camminavano con passo sicuro andando dritti al loro scopo, simili al pianeta che con leggi costanti percorre la sua orbita. L’autorità pontificia era combattuta accanitamente dai Protestanti e attaccata indirettamente in modo simulato e cauto da altri avversari: i Gesuiti invece le si mostravano fedelmente attaccati, la difendevano ovunque la vedessero minacciata, e quali sentinelle zelanti erano sempre all’erta per la conservazione dell’unità cattolica. La loro dottrina, il loro ascendente, le loro ricchezze non riducevano mai quella profonda sottomissione all’autorità dei Papi con cui si distinsero fin da principio. Con la scoperta di nuove terre in Occidente e in Oriente era nato in Europa il gusto per i viaggi, le esplorazioni di terre lontane e la conoscenza delle lingue, delle usanze e dei costumi dei loro abitanti: e i Gesuiti, sparsi in tutto il mondo, mentre predicavano il Vangelo a tutte le nazioni non dimenticavano di studiare quanto poteva interessare alla colta Europa, e al ritorno dalle loro

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gigantesche spedizioni arricchivano il patrimonio della scienza moderna con preziosi tesori.

Quale meraviglia dunque che i Protestanti si scatenassero con tanto furore contro quest’Istituto, vedendo in esso, come infatti era, un avversario così terribile? Non c’è cosa più naturale, poi, che su questo punto si trovassero d’accordo con loro tutti gli altri nemici della religione, sia quelli che si mostravano tali a viso aperto che quelli che si camuffavano con più o meno ipocrisia. E siccome tutti costoro incontrarono nei Gesuiti un muro di bronzo su cui andavano a infrangersi gli attacchi contro la religione cattolica; risolvettero allora di minare questo muro e di abbatterlo, e infine ci riuscirono. Pochi anni erano passati dalla soppressione dei Gesuiti, e il ricordo dei grandi delitti che venivano loro imputati era completamente svanito tra le macerie e i guasti di una così terribile rivoluzione, che un’altra uguale non s’era mai vista. Gl’incauti che in buona fede avevano prestato orecchio alle insidiose calunnie si convinsero allora che le ricchezze, la dottrina, l’influenza e la presunta ambizione dei Gesuiti non avrebbero recato loro quel danno che era stato fatto credere: questi religiosi non avrebbero mai rovesciato un trono, né decapitato un re sul patibolo.

Il Signor Guizot nel dare un’occhiata alla civiltà europea non ha potuto fare a meno d’imbattersi nei Gesuiti; e bisogna pur ammettere che non ha reso loro la giustizia che meritano. Dopo aver sparso lamenti sulla contraddittorietà della riforma protestante e sulla limitatezza di spirito che l’ha diretta; dopo aver ammesso che i Cattolici sapevano benissimo quel che volevano e quel che facevano, che partivano da princìpi fermi e giungevano fino alle estreme conseguenze, che non c’è mai stato un governo più coerente di quello della Chiesa romana, che la Sede di Roma ha seguito sempre un’idea ben precisa e ha sempre tenuto una condotta regolare e costante; dopo avere ben ponderata la forza che si acquista con la piena consapevolezza di ciò che si fa e che si desidera: dopo tutto questo, con un disegno così ben formato, con la piena e giusta adesione a questo sistema, cioè dopo aver fatto senza rendersi conto un brillante panegirico e una convinta apologia della Chiesa cattolica, incontra come per caso i Gesuiti e pretende di muovere loro un’accusa: cosa non degna per un talento come il suo, che per acquistare una giusta reputazione non ha bisogno di compiacere volgari pregiudizi o meschine passioni. «Tutti sanno – egli dice – che i Gesuiti furono il principale potere istituito per combattere la rivoluzione religiosa; leggete la loro storia e constaterete che hanno sempre fallito i loro tentativi, che ovunque sono intervenuti in modo significativo hanno sempre portato disgrazia alla causa a cui prendevano parte: in Inghilterra furono la rovina dei re e in Spagna del popolo». Il Signor Guizot in un primo momento ci ha decantato i vantaggi che uno ha sui suoi avversari con una condotta regolare e coerente, con la piena e precisa adozione di un sistema e con la saldezza in un principio fermo: e in questo modo praticamente ci ha presentato i Gesuiti come l’espressione del sistema della

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Chiesa. Ed ecco che senza neanche accorgersene lo scrittore cambia strada improvvisamente e perde di vista tutti i vantaggi dell’elogiato sistema, dal momento che quelli che seguono tale sistema, cioè i Gesuiti, falliscono in tutti i loro tentativi e portano disgrazia alla causa che difendono. Chi può conciliare tali contraddizioni? La potenza, l’influenza, la sagacia dei Gesuiti erano divenute proverbiali; il rimprovero che si muoveva loro era proprio di aver esteso troppo le loro mire, di aver formulato progetti ambiziosi, di essersi procurati con la loro abilità un deciso ascendente ovunque si erano introdotti. Gli stessi Protestanti avevano ammesso pubblicamente che i Gesuiti erano i loro avversari più irriducibili, e si è sempre ritenuto che la fondazione del loro Istituto avesse portato un immenso vantaggio al Cattolicesimo; ma adesso apprendiamo dal Signor Guizot che i Gesuiti hanno sempre fallito i loro tentativi e che il loro appoggio valeva tanto poco da attirare fatalità e disgrazie sulle cause che sostenevano. Se i Gesuiti servivano così male, ma perché mai i loro servigi erano ricercati con tanta insistenza? Se gestivano così male gli affari, come mai quelli più importanti finivano nelle loro mani? Avversari così inetti o così sfortunati non avrebbero dovuto certamente mettere lo scompiglio nel campo nemico come invece avveniva.

«In Inghilterra essi furono la rovina dei re – dice il Signor Guizot, – e in Spagna del popolo». Non c’è cosa più facile che fare simili affermazioni. Le quali racchiudono in pochissime parole una lunga storia, e facendo passare sotto gli occhi del lettore con la rapidità del fulmine un’infinità di vicende ammassate e confuse, non gli lasciano neanche il tempo di guardarle e ancor meno di chiarirle, come sarebbe opportuno. Il Signor Guizot avrebbe dovuto spendere qualche parola a prova della sua affermazione, indicare i fatti e stabilire le ragioni su cui si fonda per poter affermare che l’influenza dei Gesuiti sia stata così funesta. Per quanto riguarda la rovina dei re d’Inghilterra, è impossibile entrare nell’analisi delle rivoluzioni religiose e politiche che agitarono e desolarono quel paese per la durata di due secoli, iniziando dallo scisma di Enrico VIII. Queste rivoluzioni nel loro immenso percorso si presentano con fasi molto diverse, le quali, deformate e ancor più falsificate dai Protestanti che ebbero il vantaggio di aver vinto (argomento che, se non è convincente, è almeno decisivo) hanno dato occasione ad alcuni sprovveduti di credere che le sventure dell’Inghilterra si dovessero in gran parte far dipendere dall’imprudenza dei Cattolici e, come indispensabile corollario, dai supposti intrighi della Compagnia di Gesù. Comunque sia, la rinascita cattolica che è iniziata in Inghilterra da mezzo secolo a questa parte, e i grandi lavori che si stanno facendo per rendere giustizia ai Cattolici, vanno dissolvendo le calunnie con cui era stata denigrata la loro reputazione. Ben presto la storia dei tre ultimi secoli sarà rifatta come si deve, e la verità tornerà al suo posto. Questa riflessione mi dispensa dall’entrare in modo particolare sul fatto asserito dal Signor Guizot riguardo all’Inghilterra; però non posso lasciare senza risposta ciò ch’egli afferma gratuitamente riguardo alla Spagna.

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Afferma dunque il Signor Guizot che i Gesuiti in Spagna furono la rovina del popolo. Avrei voluto che egli ci avesse detto a quale rovina si riferiscono le sue parole, a quale epoca fanno allusione. Ora, percorrendo la nostra storia, non arrivo a capire quale sia la rovina che i Gesuiti recarono al popolo spagnolo, e non riesco a indovinare dove avesse posato l’occhio il Signor Guizot mentre faceva quest’affermazione. L’aver contrapposto la Spagna all’Inghilterra, e il popolo ai re, m’induce a pensare che il Signor Guizot volesse alludere alla perdita della libertà politica: non mi pare che vi sia altra interpretazione più fondata e più ragionevole. Ma in questo caso stento a credere che un uomo così versato in questo genere di studi, che per di più stava componendo un corso di storia generale della civiltà europea, cadesse nell’errore di un imperdonabile anacronismo. Qualunque sia difatti il giudizio degli studiosi di diritto pubblico sulle cause che produssero la perdita della libertà politica in Spagna e sui gravi avvenimenti del tempo dei re cattolici, di Filippo il Bello, della regina Giovanna la Pazza e della reggenza di Cisneros, tutti convengono in ogni caso che la guerra dei comuni fu il momento critico e decisivo per la libertà politica in Spagna, tutti sono d’accordo nel dire che allora si fecero gli ultimi sforzi da ambo le parti, e che la battaglia di Villalar e il supplizio di Padilla consolidarono ed ingrandirono il potere reale facendo svanire tutte le speranze dei sostenitori delle antiche libertà. Ora, dunque, la battaglia di Villalar avvenne nel 1521, quando ancora non esistevano i Gesuiti, e S. Ignazio, loro fondatore, non era che un valoroso cavaliere che combatteva da eroe sotto le mura di Pamplona. Questo non ammette replica: tutta la filosofia e tutta l’eloquenza non arriveranno mai a cancellare le date.

Durante il sedicesimo secolo le Cortes si riunivano più o meno frequentemente, con più o meno influenza soprattutto da parte della corona d’Aragona; ma è chiaro, più della luce del sole, che il potere reale dominava ogni cosa, che nessuno era in grado di resistergli, e il disgraziato tentativo degli Aragonesi, quando avvenne il fatto di don Antonio Perez, dimostra sufficientemente che non rimaneva più alcuna traccia dell’antica libertà se non in quelle cose che non si opponevano alla volontà dei re. Alcuni anni dopo la guerra dei Comuni Carlo V diede l’ultimo colpo alle Cortes di Castiglia con l’escluderne il clero e la nobiltà, e col lasciare solamente l’Estamento de procuradores, difesa troppo debole contro le esigenze, e perfino le semplici allusioni, di un sovrano sui cui domìni il sole non tramontava mai. L’esclusione del clero e della nobiltà avvenne nel 1538, quando S. Ignazio era ancora impegnato nella fondazione del suo Istituto; i Gesuiti dunque non poterono avere nessuna parte in questa storia.

Ma c’è di più: da quando i Gesuiti si stabilirono in Spagna non fecero mai uso del loro ascendente contro la libertà del popolo. Dalle loro cattedre non insegnarono mai dottrine favorevoli al dispotismo; se indicavano al popolo i suoi doveri li rammentavano anche ai re; se volevano che fossero rispettati i diritti del sovrano, non sopportavano però che fossero calpestati quelli del

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popolo. A testimoniare tali verità chiamo tutti coloro che hanno letto gli scritti dei Gesuiti di quel tempo su argomenti di diritto pubblico.

«I Gesuiti – prosegue il Signor Guizot – si opposero al normale corso degli avvenimenti, allo sviluppo della civiltà moderna e alla libertà dello spirito umano». Se il normale corso degli avvenimenti non è che il normale corso del Protestantesimo; se lo sviluppo della civiltà moderna è lo sviluppo del Protestantesimo; e se la libertà dello spirito umano non consiste in altro che nel funesto orgoglio e nella folle indipendenza che gli comunicarono i pretesi riformatori, in tal caso è verissimo quanto dice il Signor Guizot. Ma se la difesa del Cattolicesimo ha qualche peso nella storia d’Europa; se l’influenza cattolica nei tre ultimi secoli deve pur valere qualcosa; se dalla storia moderna non sono da cancellare i regni di Carlo V, di Filippo e di Luigi XIV; se si vuole considerare qualcosa che faccia da grande contrappeso per l’equilibrio tra le due religioni; se la religione professata da Cartesio, Malabranche, Bossuet, Fenelon può figurare degnamente nel quadro della civiltà moderna; in questo caso non si riesce a capire come i Gesuiti, difendendo intrepidamente il Cattolicesimo, avessero potuto lottare contro il corso generale degli avvenimenti, contro lo sviluppo della civiltà moderna e contro la libertà dello spirito umano.

Fatto il primo passo su una strada sbagliata, il Signor Guizot continua a sdrucciolare in una maniera deplorevole. Richiamo la massima attenzione dei lettori sulle evidenti contraddizioni che ora leggeranno. «Non si vede – dice egli – nei loro progetti nulla di splendido, e nelle loro opere non si scorge nulla di grande». Evidentemente egli dimentica completamente questa affermazione, o per meglio dire la rinnega senza far mistero, poiché alla distanza di poche righe soggiunge: «Ciò nonostante non vi è cosa più certa: essi sono stati grandi, e l’idea della grandezza va unita al loro nome, alla loro influenza e alla loro storia. I Gesuiti sapevano quel che facevano e quello che volevano, avevano una conoscenza piena e limpida dei princìpi con cui agivano e dello scopo a cui si dirigevano; in una parola, ebbero la grandezza del pensiero e la grandezza della volontà». Vorremmo chiedere al Signor Guizot: com’è possibile che non vi sia magnificenza nei progetti e grandezza nelle opere quando vi è grandezza di idee, grandezza di pensiero e grandezza di volontà? Il genio, nel condurre le sue più grandi imprese, e nell’effettuare i più giganteschi progetti, cosa ha di più appropriato che un grande pensiero e una grande volontà? L’intelletto concepisce, la volontà mette in esecuzione; quello forma il modello, questa lo applica; quando vi sia grandezza nell’esecuzione, potrà mai mancare la grandezza nell’opera?

Continuando il Signor Guizot nell’impegno che si è assunto di demolire i Gesuiti, fa un confronto tra loro e i Protestanti, confondendo le idee e dimenticando la natura delle cose in modo tale e a tal punto che si stenterebbe a credere, se le sue stesse parole non ce lo dimostrassero con la massima evidenza. Non capendo che i termini di un paragone non devono essere di

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natura completamente diversa, perché in tal caso non c’è possibilità di confronto, mette un Istituto religioso a confronto con intere nazioni, e arriva a rimproverare i Gesuiti per non avere sollevato i popoli in massa, e per non aver cambiata la condizione e il regime degli Stati. Ecco le parole del Signor Guizot: «I Gesuiti agivano per vie sotterranee, oscure, secondarie, per vie nient’affatto adatte a colpire l’immaginazione e a conciliar loro quel pubblico interesse che va sempre unito alle cose grandi, qualunque ne sia il principio e lo scopo. Viceversa, il partito contro cui lottarono i Gesuiti, non solo sconfisse i propri avversari, ma ne trionfò con gloria e splendore; fece cose grandi e con mezzi ugualmente grandi; sollevò i popoli, riempì l’Europa di uomini grandi, cambiò alla luce del sole la sorte e la forma degli Stati. In una parola, tutto era contro i Gesuiti: la fortuna e le apparenze». Sia detto con buona pace del Signor Guizot, ma bisogna pur ammettere che sarebbe preferibile, per l’onore della sua logica, che si potessero cancellare dalle sue opere simili proposizioni. Ma come! I Gesuiti avrebbero dovuto manovrare le nazioni, far sollevare in massa i popoli, cambiare la sorte e il regime degli stati? Che razza di religiosi sarebbero stati quelli che avesse fatto simili cose, o le avessero anche semplicemente immaginate? Si è detto che i Gesuiti avevano un’ambizione smisurata e che pretendevano di dominare il mondo; e adesso nel metterli a confronto con i loro avversari si rinfaccia loro che questi avversari hanno messo sottosopra il mondo, e di ciò si fa un merito agli stessi avversari per buttar giù i Gesuiti. In verità i Gesuiti non tentarono mai d’imitare i loro nemici in queste cose; e in quanto allo spirito di turbolenza e di scompiglio cedono volentieri la palma a coloro cui spetta di diritto.

In quanto agli uomini grandi, se si parla di quella grandezza che può entrare nelle imprese dei ministri di un Dio di pace i Gesuiti ebbero queste qualità in un grado superiore a qualunque elogio. Si trattasse delle incombenze più ardue, o dei più giganteschi progetti scientifici e letterari, o di viaggi lunghi e pericolosi, o di missioni piene di gravi e incombenti pericoli, i Gesuiti non si tirarono mai indietro; anzi manifestarono uno spirito così ardito e intraprendente che meritò loro la più alta reputazione. Se gli uomini grandi di cui ci parla il Signor Guizot, erano quegl’inquieti demagoghi che alla testa di un popolo senza freno disturbavano la quiete pubblica; se erano quei soldati protestanti che si distinsero nelle guerre di Germania, di Francia e d’Inghilterra, il paragone è privo di senso e non ha alcun valore. Perché sacerdoti e guerrieri, religiosi e demagoghi appartengono ad ordini così diversi, e le loro opere hanno un carattere così differente, che il confronto è impossibile.

Giustizia voleva che in confronti di questo genere i Gesuiti non venissero presi come termine di paragone con i Protestanti, a meno che non s’intendesse fare il confronto con i ministri riformati; ed anche in questo caso non sarebbe del tutto corretto. Perché nella grande contesa tra le due religioni non furono solo i Gesuiti a difendere il Cattolicesimo: nei tre ultimi secoli la Chiesa ha

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contato grandi prelati, santi sacerdoti, eminenti teologi, scrittori di prim’ordine, che non erano della Compagnia; questa fu uno dei principali lottatori, ma non fu l’unico. Se proprio si voleva porre a confronto il Protestantesimo col Cattolicesimo, si sarebbe dovuto contrapporre a nazioni protestanti nazioni cattoliche, a ministri protestanti sacerdoti cattolici, e così teologi con teologi, politici con politici, guerrieri con guerrieri. Fare il contrario significa confondere mostruosamente i nomi e le cose, e fare assegnamento più di quanto sia giusto sulla scarsa intelligenza e sull’estrema benevolenza di chi ascolta e di chi legge. Senza tema di sbagliare il Protestantesimo, se si segue il metodo che abbiamo indicato, non appare così brillante come il Signor Guizot pretende di aver dimostrato. Egli sa bene che, sia nella penna, sia nella spada che nell’abilità politica, i Cattolici non la cedono ai Protestanti. Questa è storia: leggetela. Torna all’indice

CAPITOLO XLVII

Stato attuale degli Istituti religiosi. Quadro della società. Incapacità dell’industria e del commercio di colmare il cuore dell’uomo. Disposizione degli spiriti riguardo alla religione. Necessità degli studi religiosi per salvare le società attuali. All’ordine sociale manca un mezzo e un punto fisso. Il progresso delle nazioni europee è stato sviato. Non bastano i mezzi materiali per frenare le masse, ci vogliono mezzi morali. Gli Istituti religiosi possono armonizzarsi col futuro della società.

_______________ Nel fissare lo sguardo sul vasto e immenso quadro che ci presenta le

comunità religiose; nel ricordarne l’origine, le diverse forme, le vicende di povertà e di ricchezza, di miseria e di prosperità, di tiepidezza e di fervore, di rilassatezza e di austere riforme; nel pensare all’influenza che sotto tanti aspetti hanno esercitato sulla società nelle diverse situazioni in cui questa si è trovata; nel vederle sussistere ancora, risorgendo or qua or là a dispetto di tutti i tentativi dei loro nemici, viene naturale porsi questa domanda: a questo punto, quale sarà il loro avvenire? In alcune parti sono andate decadendo, come va in rovina un muro corroso silenziosamente dal tempo, in altre sparirono improvvisamente come tenera pianticella divelta dal soffio dell’uragano. A prima vista esse sembrerebbero condannate senz’appello soprattutto dallo spirito del secolo. L’immanente, messo sul trono, estende ovunque il suo impero, e a mala pena lascia allo spirito un attimo di tempo per raccogliersi e meditare; non rimane quasi più palmo di terra dove non giunga lo strepito delle attività industriali e commerciali. Il quadro sembra dunque confermare le previsioni della filosofia atea, avversa ad una categoria di uomini consacrati all’orazione, al silenzio e alla solitudine. Eppure i fatti smentiscono tali opinioni; e mentre il cuore del Cristiano conserva tuttora le

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più lusinghiere speranze che si rinforzano e ravvivano ogni giorno di più, e ammira la mano della Provvidenza che porta a compimento i suoi alti disegni burlandosi dei vani pensieri dell’uomo, anche al filosofo si presenta un vasto campo di meditazioni con le quali intuire il probabile avvenire delle comunità religiose, e immaginare l’influenza che sarà loro riservata nei destini della società.

Abbiamo già visto che la vera origine degli Istituti religiosi è nello spirito stesso della religione cattolica; e la storia conferma questo nostro giudizio dicendoci che questi Istituti sono comparsi ovunque si sia stabilita la religione. In questa o quella forma, con queste o quelle regole, con questo o quello scopo, ma la cosa non cambia: da ciò possiamo dedurre che dove è rimasto il Cattolicesimo gli Istituti religiosi torneranno a presentarsi in un modo o nell’altro. Questo è una previsione che si può fate in tutta sicurezza, e non c’è da temere che sia smentita dai tempi.

Viviamo in un secolo immerso in un materialismo edonistico. Ciò che viene chiamato interesse positivo, o in termini più chiari la ricchezza e i piaceri, ha acquistato un tale ascendente che da quel che sembra c’è pericolo che alcune società ritornino ai costumi del paganesimo, la cui religione praticamente era la materia divinizzata. Ma in un quadro così desolante, e mentre lo spirito è rattristato e abbattuto, possiamo osservare che l’anima dell’uomo non è morta, e che la sublimità delle idee, la nobiltà e dignità dei sentimenti non sono ancora del tutto banditi dalla faccia della terra. Lo spirito umano si sente troppo grande per limitarsi a miseri oggetti, e sa che può ancora risalire più in alto di un mondo pieno di vapore.

Osservate quello che accade riguardo al progresso industriale. Quelle macchine fumanti che escono dai nostri porti con la velocità di una freccia per attraversare l’immensità dei mari; quelle altre che solcano le pianure, penetrano nel cuore delle montagne ed effettuano sotto i nostri occhi ciò che sarebbe sembrato un sogno ai nostri antenati; quelle altre ancora che comunicano il moto a fabbriche colossali, e che simili all’opera di un mago fanno muovere un’infinità di strumenti per eseguire con una precisione incredibile i più delicati lavori; tutto questo, per quanto sia grande e meraviglioso, non ci fa rimanere attoniti, e non richiama la nostra attenzione più di quanto non facciano gli altri oggetti comuni che abbiamo intorno. L’uomo sente di essere ancora più grande di queste macchine e di questi congegni, il suo cuore è un abisso che nulla può riempire. Dategli il mondo intero, e sarà sempre ugualmente vuoto: non se ne può scandagliare la profondità; l’anima creata ad immagine e somiglianza di Dio non può essere soddisfatta che dal possesso di Dio.

La religione cattolica, richiamando continuamente questi alti pensieri, ci mostra questo vuoto immenso. In tempi di barbarie s’installò in mezzo a popoli rozzi e ignoranti per condurli alla civiltà; ora se ne resta tra popoli civilizzati per prevenirli contro la dissoluzione da cui sono minacciati. Nulla

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la smuove: né la freddezza, né il disprezzo col quale l’indifferenza e l’ingratitudine degli uomini la ripagano; essa ammonisce incessantemente, rivolge senza sosta ai fedeli le sue esortazioni, fa risuonar la sua voce all’orecchio dell’incredulo e si conserva, intatta e immutabile, in mezzo all’agitazione e all’instabilità delle cose umane. Così vediamo quelle meravigliose basiliche che abbiamo ereditato dalla più remota antichità rimanersene integre e salde attraverso l’azione dei tempi, delle rivoluzioni e delle agitazioni. Intorno ad esse s’innalzano e poi spariscono le abitazioni del mortale: la capanna del povero come il palazzo del potente. Il nereggiante edificio si presenta come una misteriosa apparizione scura in mezzo alle campagne ridenti e alle splendide facciate che la circondano. La cupola gigantesca annulla quanto l’attornia e la sua cuspide ardita si perde fra le nuvole.

Le opere della religione cattolica non restano senza frutto: gl’intelletti più profondi ne riconoscono la verità e anche quelli che non vogliono sottomettersi alla sua fede ne ammettono l’utilità, la necessità, la bellezza; la guardano come il fatto storico di maggiore importanza, e convengono che da lei dipende il buon ordine e la felicità delle famiglie e degli Stati. Ma Dio che vigila sulla conservazione della Chiesa non si accontenta di queste concessioni della filosofia: una pioggia di grazie onnipotenti cade dall’alto, lo Spirito di Dio si diffonde e rinnova la faccia della terra. Avviene di frequente che uomini scelti si tuffino nel vortice di un mondo corrotto e indifferente, uomini la cui fronte fu lambita dalla fiamma dell’ispirazione e il cui cuore arde del fuoco dell’amore celeste. Nel ritiro dell’eremo e nella meditazione delle verità eterne il loro spirito acquista quella forte tempra che è necessaria per portare a compimento le più ardue imprese. Di fronte ai motteggi e all’ingratitudine questi uomini si consacrano imperturbabili al servizio e alla consolazione dell’umanità sofferente, all’educazione dell’infanzia e alla conversione dei popoli pagani. La religione cattolica sussisterà sino alla consumazione dei secoli; e finché essa durerà ci saranno sempre di questi uomini privilegiati che Dio sceglie tra tutti gli altri per chiamarli ad una santità straordinaria o per consolare e alleviare i mali dei loro fratelli. Questi uomini si cercheranno vicendevolmente, si uniranno per pregare, formeranno una società per aiutarsi l’un l’altro nei loro progetti, chiederanno la benedizione apostolica al Vicario di Gesù Cristo e fonderanno Istituti religiosi. Che poi siano quelli antichi a cui vengano apportate opportune modifiche, o che siano altri completamente nuovi, che abbiano questa o quella forma, questo o quel sistema di vita, che vi si vesta questo o quell’abito, tutto ciò nulla importa: l’origine, la natura e il fine non saranno mutati nella loro sostanza. Invano gli sforzi dell’uomo si opporranno ai miracoli della grazia.

Lo stesso stato delle società attuali richiederà la presenza degli Istituti religiosi; perché quando si sarà fatto un esame più preciso dell’organizzazione dei popoli moderni, quando con le amare lezioni del tempo e con i terribili

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suoi disinganni si sarà potuto un po’ chiarire il vero stato delle cose, si constaterà che tanto nell’ordine sociale, quanto nel politico si sono fatti degli errori più gravi di quanto ora si creda, nonostante il molto che già s’è fatto per la correzione delle idee grazie all’esperienza di tante e tanto dolorose prove.

È evidente che le società attuali manchino dei mezzi di cui hanno bisogno per far fronte alle necessità alle quali vanno soggette. La proprietà si divide e suddivide sempre più, e va diventando ogni giorno più mobile ed incostante; l’industria aumenta le sue produzioni in un modo che fa spavento; il commercio si va dilatando senza limiti. Tutto ciò significa che siamo vicini a toccare il culmine della pretesa perfezione sociale indicato da quella scuola materialista che non ha visto negli uomini altro che macchine, e non ha pensato che la società potesse incamminarsi verso un fine più utile e grandioso dell’immenso sviluppo degl’interessi materiali.

Nella stessa proporzione dell’aumento delle produzioni è cresciuta la miseria, e per qualunque uomo di senno e perspicace è chiaro come la luce del sole che le cose hanno preso una cattiva piega; che qualora non si ponga rimedio in tempo, il fallimento sarà inevitabile; e che quella nave che sta navigando a grande velocità, a vele gonfie e col vento in poppa, si sta dirigendo dritta contro uno scoglio che la farà colare a picco. L’accumulo delle ricchezze, conseguenti al dinamismo del settore industriale e mercantile, tende a produrre un sistema che sfrutta la vita e il sudore di molti per il vantaggio di pochi. Questa tendenza però trova un contrappeso nelle idee livellatrici che bollono nelle menti di molti, e che espresse in diverse teorie attaccano più o meno apertamente l’attuale organizzazione del lavoro, la ripartizione dei prodotti e la stessa proprietà. Una moltitudine immensa di gente che vive in miseria e manca d’istruzione e di educazione morale si sente disposta a sostenere concretamente disegni criminosi e insensati non appena una funesta combinazione di circostanze permetta di tentarne l’impresa. Non c’è bisogno di confermare con esempi queste sinistre asserzioni; l’esperienza quotidiana le conferma anche troppo.

In presenza di una simile situazione, vorrei chiedere alla società di quali mezzi essa disponga per migliorare le condizioni della massa, e per controllarla e contenerla. È chiaro che per conseguire il primo di questi due propositi non basta la capacità creativa dell’interesse privato, né l’istinto di conservazione delle classi più agiate. Queste, così come sono formate attualmente, propriamente parlando non hanno le caratteristiche di una classe sociale, perché non sono altro che un insieme di famiglie uscite ieri dall’ombra e dalla povertà, che procedono velocemente per tornare colà stesso da dove uscirono, cedendo così il posto ad altre che andranno a percorrere lo stesso circolo. Non si scorge in esse nulla di fisso e di stabile; vivono l’oggi senza pensare al domani; non sono come l’antica nobiltà la cui origine si perdeva nella notte dei tempi, e la cui struttura e robustezza promettevano molti secoli di vita. Con essa si poteva seguire un sistema, ed infatti si

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seguiva, perché chi viveva oggi era sicuro di vivere domani. Adesso invece tutto è mobile ed incostante; gl’individui e le famiglie si affannano per accumulare ricchezze, non già per fondare una solida base che attraverso i secoli sia destinata a sostenere la magnificenza e l’organizzazione di un’illustre casata; ma si tesaurizza oggi per godere oggi stesso; e la sensazione della breve durata accresce la vertigine della frenesia dissipatrice. Son passati quei tempi in cui le famiglie opulente facevano a gara per fondare qualche istituzione perenne che ne attestasse la generosità e perpetuasse la fama del nome. Gli ospedali e le altre case di beneficenza non escono dagli scrigni dei banchieri come uscivano un tempo dagli antichi castelli, dalle abbazie e dalle chiese. Bisogna pur dirlo anche se è doloroso: le classi agiate della società attuale non fanno più il loro dovere. I poveri devono rispettare la proprietà dei ricchi, ma i ricchi sono d’altra parte obbligati a soccorrere i poveri nelle loro miserie: così ha stabilito Dio.

Da quanto fin qui esposto si deduce che nell’organizzazione sociale manca il sostegno della beneficenza. Per la verità viene praticata, ma proprio come una pratica amministrativa, e si tenga presente che l’amministrazione non costituisce la società, in quanto la suppone già esistente e formata; di conseguenza quando per salvare la società si ricorre a mezzi puramente amministrativi si tenta una cosa che è fuori dell’ordine della natura. Invano verranno studiate nuove misure, invano saranno elaborati ingegnosi progetti e saranno tentati nuovi esperimenti. La società ha bisogno di un elemento di maggiore efficacia. È necessario che il mondo si sottometta o alla legge dell’amore o alla legge della forza; o alla carità o alla schiavitù: tutti quei popoli in cui non risiedeva la carità, non hanno trovato altro mezzo per risolvere il problema sociale che quello di assoggettare il maggior numero di individui al degradante stato di schiavitù. La ragione insegna, e la storia conferma, che l’ordine pubblico, la proprietà, la società stessa, non possono sussistere senza la scelta di uno di questi due mezzi opposti; le società moderne non potranno esimersi dalla legge universale, e i sintomi che abbiamo davanti agli occhi ci mostrano in modo inequivocabile quale futuro aspetta le generazioni che ci seguiranno.

Per fortuna esiste ancora nel mondo il fuoco della carità, ma è costretto a covare sotto la cenere dell’indifferenza e dei pregiudizi degli empî, i quali si mettono in allarme per ogni scintilla che di tanto in tanto ne viene fuori come se minacciasse di produrre un pericoloso incendio. Qualora le istituzioni fondate esclusivamente sulla carità venissero assecondate, ben presto si toccherebbe con mano gli effetti benefici che ne deriverebbero e la padronanza che esse hanno su tutto ciò che si fonda su princìpi diversi. Non è possibile far fronte alle necessità accennate se non mediante l’organizzazione di grande sistemi di beneficenza diretti dalla carità; e questa organizzazione non può avvenire senza gli Istituti religiosi. È fuor di dubbio che i Cristiani laici possono formare delle società che corrispondano a questo fine; ma

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restano sempre da svolgere numerosissimi impegni, e ciò non è possibile senza la dedizione di persone che si siano ad essi esclusivamente consacrate. Inoltre c’è bisogno di un punto di riferimento per tutte le attività, e che presentando per sua natura una garanzia di continuità, ne impedisca le interruzioni e quegli inevitabili episodi che accadono quando a collaborare sono in molti senza che tra loro vi sia un vincolo abbastanza forte per preservarli dalla divisione, dalla disgregazione e forse anche dai dissidi interni.

Il vasto sistema di cui stiamo parlando si deve estendere non solamente al settore della beneficenza come viene intesa comunemente, ma anche all’educazione delle masse. La fondazione di scuole resterà sterile, se non addirittura dannosa, qualora non riceva la sua forza dalla religione; ma questa forza sarà solamente teorica se le scuole non saranno dirette dai ministri della stessa religione. Il clero secolare potrà bensì sostenere una parte di questi compiti, ma non tutti: perché sia per la loro scarsità che per le altre incombenze di cui devono farsi carico, non possono ampliare la loro attività in modo così rilevante come è richiesto dalle necessità del tempo. Considerato tutto ciò si può concludere che la diffusione degli Istituti religiosi è attualmente di una tale importanza sociale che non può non essere riconosciuta, se non da chi voglia chiudere gli occhi all’evidenza dei fatti.

Riflettendo sull’ordinamento delle nazioni europee, si vede subito che qualche causa funesta ne ha stravolto il corso originario, poiché si trovano indubbiamente in una situazione così singolare, che non può dipendere dai princìpi sui quali nacquero e si svilupparono. È evidente che quel gran numero di persone che nell’odierna società ha modo di disporre liberamente di tutte le sue ricchezze, non ha fatto parte, così come le vediamo adesso, del disegno originario e della struttura della vera civiltà europea. Quando si creano delle forze è opportuno sapere per cosa le si utilizzerà, in che modo le si debba muovere e dirigere; altrimenti ci si deve aspettare scontri terribili, agitazione infinita, disordine e distruzione. Il meccanico che non può introdurre nella sua macchina una forza senza sconvolgere l’armonia delle altre, si guarda bene dal farcela entrare; e sacrifica volentieri una maggiore velocità o un maggiore impulso del sistema, alla necessità primaria di dover salvaguardare la macchina, nonché l’armonia e l’efficacia del funzionamento. Nella società attuale c’è questa forza che non è in armonia con le altre; e le persone incaricate della direzione della macchina non si dànno granché pensiero per ottenere questa armonia che manca. Nessun mezzo efficace opera sulla moltitudine, fuorché un ardente desiderio di migliorare lo stato sociale, di conquistare l’agiatezza e di poter godere i piaceri di cui godono le classi ricche. Nulla c’è per indurla a rassegnarsi ai rigori della sorte, per consolarla nelle miserie, per rendere tollerabili i mali attuali con la speranza di un migliore avvenire, per ispirarle il rispetto per la proprietà, l'osservanza delle leggi, la sottomissione al governo; nulla per far nascere nei cuori la gratitudine

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verso le classi potenti, nulla che ne temperi i rancori, ne diminuisca l'invidia, ne calmi la collera; nulla che ne sollevi i pensieri al di sopra delle cose terrene, che ne distacchi gli affetti dai piaceri sensuali; nulla, infine, per formare nei cuori una moralità tanto salda da impedirle di imboccare la china verso il vizio e il delitto.

Se osserviamo bene, per porre un freno al popolo i filosofi di questo secolo fanno conto su tre mezzi che essi ritengono sufficienti, ma che la ragione e l’esperienza dimostrano che sono inefficaci, ed alcuni anche dannosi. Questi mezzi sono: l’interesse privato inteso in senso positivo; la forza pubblica bene impiegata; lo snervamento dei corpi e l’infiacchimento dell’animo che allontanano la plebe dai mezzi violenti. «Facciamo sentire al povero – dice la filosofia – che anche lui ha il suo interesse a rispettare la proprietà del ricco; che anche le sue capacità e il suo lavoro sono una vera proprietà, la quale nondimeno non esige meno rispetto delle altre. Manteniamo una forza pubblica imponente, pronta sempre ad accorrere sul luogo del pericolo e a soffocare sul nascere i tentativi di disordine; organizziamo una polizia che come una vastissima rete si estenda sulla società, e al cui penetrante sguardo niente possa sottrarsi. Saziamo il popolo di divertimenti di ogni genere e a buon mercato, e facciamo in modo che abbia i mezzi per imitare nei suoi grossolani eccessi i raffinati piaceri dei nostri teatri e dei nostri salotti; così i costumi del popolo si addolciranno, cioè si snerveranno, e la plebe, sentendo la debolezza nelle braccia e la codardia nel petto, sarà nell’impossibilità di effettuare grandi sommosse». Questo è all’incirca l’idea che si può dare del sistema suggerito da coloro che, senza prendere in considerazione la religione, pretendono di controllare la società e di mettere un freno alle passioni turbolente.

Fermiamoci un momento ad esaminare questi mezzi. È cosa facilissima scrivere con una bella prosa che il povero ha interesse a rispettare la proprietà del ricco, e che per questa sola considerazione ritenga utile contribuire al mantenimento dell’ordine stabilito, anche lasciando da parte tutti i princìpi morali e tutto ciò che non riguarda l’interesse puramente materiale. È cosa facilissima scrivere dei libri interi per esporre simili dottrine; ma la difficoltà sta nel farlo capire al povero padre di famiglia condannato ad una dura fatica dalla mattina alla sera immerso in un’atmosfera puzzolente e malsana, o a lavorare in una miniera nelle viscere della terra, il quale può guadagnare appena il necessario sostentamento per sé e per i suoi figli; e che la sera rientrando nel suo fangoso abituro invece di riposo e di sollievo trova il pianto della moglie e dei figli che gli chiedono un tozzo di pane.

In realtà non stupisce che una simile teoria non sia accolta favorevolmente da quegli sventurati, e che la loro intelligenza non possa elevarsi tanto da capire perfettamente la parità tra i poveri e i ricchi riguardo all’interesse di tutti nel dovuto rispetto per la proprietà. Diciamolo senza ambiguità: se i princìpi morali vengono messi al bando, se si vuole fondare il rispetto per la

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proprietà esclusivamente sull’interesse privato, le parole rivolte ai poveri non sono che una solenne impostura; perché è falso che l’interesse privato del povero sia uguale all’interesse privato del ricco. Immaginate una rivoluzione delle più terribili, supponete che si sconvolga da cima a fondo l’ordine stabilito, che il potere soccomba, che tutte le istituzioni sprofondino, che spariscano le leggi, che le proprietà siano spartite o siano lasciate al primo che se ne impadronisca. Non c’è dubbio che in questo caso il ricco ci rimetta. Vediamo però cosa succede o può succedere al povero: gli sarà forse rubato il suo miserabile avere? Nessuno ci penserà, perché la miseria non tenta la cupidigia. Mi direte che gli mancherà il lavoro e che poi ne conseguirà la fame: è vero. Ma non capite che in quel momento il popolo è come uno che gioca, e che l’eventualità della perdita del lavoro viene compensata dalla probabilità di avere parte nel ricco bottino? Mi risponderete che questa parte non gli sarà concesso di conservarla. Ma riflettete: se la sorte gli farà cambiare la povertà in ricchezza, non c’è dubbio che in tal caso penserà ad un nuovo ordine, una nuova legislazione, un governo che gli garantisca i diritti acquisiti e non permetta che si annullino i fatti compiuti. Gli mancherebbero forse modelli da imitare? Esempi recentissimi sono dunque stati dimenticati così facilmente? Il povero vede bene che un gran numero di suoi pari soffrirà infinite sventure senza alcuna ricompensa; sa bene che egli stesso sarà forse nel numero di questi sventurati. Supponete allora che non abbia altra guida che l’interesse, supponete che le nuove sventure portate all’estremo non possano procurargli che indigenza e fame, alle quali cose egli è già abituato da molto tempo per il minimo compenso alle sue fatiche o per le frequenti interruzioni del lavoro dovute alle vicende dell’industria; vorrete in questi casi bollare di temerario il suo ardire, se si esporrà al rischio di aumentare soltanto un poco le sue privazioni con la speranza di potersene liberare per sempre? Qui è una questione di calcolo; e quando si tratta del proprio interesse la filosofia non ha alcun diritto di intromettersi nei calcoli del povero.

La forza pubblica e la vigilanza della polizia sono le due basi su cui si fonda la principale fiducia; e certamente non senza ragione, perché attualmente dobbiamo a loro se il mondo non va sottosopra da cima a fondo. Oggi non si vedono moltitudini di schiavi avvinti in catene come nei tempi antichi, bensì intere armate con le armi in pugno che perlustrano le città. Se si osserva bene, dopo tante discussioni, tanti esperimenti, tante riforme e cambiamenti, le questioni di governo e di ordine pubblico si sono infine risolte pressappoco in una questione di forza. Guardate la Francia: la classe ricca ha le armi in pugno per resistere ai tentativi del povero; e al disopra dell’uno e dell’altro ci sono gli eserciti per mantenere l’ordine a cannonate, se occorre.

Non si può certo dire che la situazione in cui sotto questo aspetto si trovano le nazioni europee non sia singolare. Dalla caduta di Napoleone in poi le grandi potenze hanno goduto di una pax romana, a parte piccole vicende

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che qua e là l’interruppero per qualche momento. Né l’occupazione d’Ancona, né la presa di Anversa, né la guerra di Polonia si possono considerare guerre europee; e quella di Spagna, circoscritta per la sua peculiarità in un teatro ristretto, non poteva né attraversare i mari, né varcare i Pirenei. Ad onta di tutto ciò, nella situazione europea figurano eserciti immensi, e i costi che ci vogliono per mantenerli opprimono i popoli ed esauriscono l’erario. A cosa serve tutto questo apparato militare? Credereste forse che si tengano in piedi forze così gigantesche soltanto perché i governi si trovino pronti e organizzati nel caso di una guerra totale di cui si sente sempre minacciare ma che non scoppia mai, e che non è temuta né dai popoli né dagli stessi governi? No, sono destinate ad un altro fine, servono a supplire alla mancanza di mezzi morali, la quale mancanza si fa sentire dappertutto in un modo biasimevole, e soprattutto proprio in quella nazione dove furono proclamati con la massima ostentazione i nomi di giustizia e libertà.

Lo snervamento delle classi popolari per mezzo di un lavoro monotono e senza sforzo, e di un completo abbandono ai piaceri può essere considerato da alcuni come un elemento d’ordine; perché così s’infiacchisce quel braccio che dovrebbe vibrare il colpo. Bisogna ammettere che i proletari del nostro secolo non sono in grado di dispiegare la terribile energia dei popolani d’un tempo, i quali, scosso il giogo dei signori feudali, combattevano corpo a corpo contro quei formidabili paladini che avevano acquistato un nome immortale sui campi della Palestina. Inoltre, ai nuovi rivoluzionari mancherebbe quell’ardore e quell’entusiasmo che nasce dalle idee grandi e generose: l’uomo che combatte solo per procurarsi dei piaceri non sarà mai capace di eroici sacrifici. Questi sacrifici esigono abnegazione e sono incompatibili con l’egoismo; e la sete di piaceri è precisamente l’egoismo portato al più alto grado. A parte queste riflessioni, è il caso di notare che un tenore di vita puramente materiale e senza l’aiuto dei princìpi morali finisce con l’annebbiare le idee e spegnere i sentimenti, e immerge l’animo in una specie di apatia, e in un oblio di se stesso che in certi casi può far le veci del coraggio. Il soldato che marcia tranquillo verso la morte dopo un’orgia bestiale e il suicida che si toglie la vita con la massima calma senza pensare cosa lo aspetti, si trovano in questa disposizione: nella temerità dell’uno e nella fermezza dell’altro c’è il disprezzo per la vita. Allo stesso modo, qualora le passioni venissero riaccese dalle agitazioni dei tempi, le classi popolari potrebbero manifestare quell’energia di cui essi stessi non si credono capaci, soprattutto se incoraggiate dal loro immenso numero e guidate da astuti ed ambiziosi demagoghi.

Comunque sia, è certo che la società non può procedere senza l’azione dei mezzi morali, che questi non possono restare nei ristretti limiti in cui sono tenuti, e che quindi è indispensabile favorire lo sviluppo di istituzioni adatte ad esercitare questa influenza morale in un modo concreto ed efficace. Non bastano i libri: diffondere l’istruzione è un mezzo insufficiente e che può

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essere addirittura dannoso se non è fondato su solide basi religiose. La propagazione di un sentimento religioso vago, indefinito, senza regole, senza dogma, senza culto, non servirà ad altro che ad estendere grossolane superstizioni nelle classi popolari e a formare una religione sentimentale e fantasiosa nelle classi agiate: rimedi vani, che senza arrestare il progredire del male accrescono lo stordimento dell’infermo e ne accelereranno la morte.

Educazione, istruzione, moralizzazione del popolo: ecco le parole che vanno sulla bocca di tutti, e che mostrano con quanta forza sia generalmente sentita la piaga del corpo sociale e l’urgente necessità di porvi riparo in tempo onde prevenire mali incalcolabili. Per questo in tante teste si agitano idee ispirate alla beneficenza, per questo si tenta sotto varie forme di aprire scuole per fanciulli e per adulti, ed altre simili istituzioni; ma qualunque cosa si faccia, sarà senza frutto se non si affida alla carità cristiana. Si cerchi pure di ricavare vantaggio dalle conoscenze che su questa materia siano state acquisite con l’esperienza; si utilizzino pure le novità di carattere amministrativo per meglio conseguire lo scopo; ci si impegni affinché gli istituti siano adattati alle necessità e ai bisogni attuali, e si faccia in modo che né lo zelo della carità intralci l’azione del potere pubblico, né questo dal canto suo metta mai ostacolo all’azione della carità: ma non si dimentichi che nulla di tutto ciò è impossibile quando si lascia la dovuta influenza alla religione cattolica, di cui si può dir in tutta verità che si fa tutto a tutti per guadagnare tutti.

Le menti meschine che non vedono più in là di un ristretto orizzonte; i cuori malvagi che si nutrono di rancore e godono nel provocare odî e attizzare vili passioni; e i fanatici di una civiltà meccanizzata che non giungono a vedere altro propulsore che il vapore, altro movente che il denaro, altro fine che la produzione, altro termine che il godere: tutti costoro non faranno certamente molto caso alle riflessioni che ho fatte fin qui. Costoro non vedono neanche quello che passa sotto i loro stessi occhi; per loro lo sviluppo morale dell’individuo e della società non significa niente, la storia è muta, l’esperienza sterile e l’avvenire un nulla.

Ma per fortuna si trova ancora un numero considerevole di persone che credono il loro spirito più nobile dei metalli, più potente del vapore e troppo grande per poter essere appagato da un piacere passeggero. Ai loro occhi l’uomo non è un essere che vive per caso, e che trasportato dalla corrente dei secoli è in balia delle circostanze; un essere che non debba pensare agli alti destini che lo aspettano e a prepararvisi degnamente facendo buon uso delle qualità intellettuali e morali con cui è stato favorito dall’Autore della natura. Se il mondo fisico è soggetto alle leggi del Creatore non lo è meno il mondo morale; e se la materia può essere in mille modi impiegata a beneficio dell’uomo, lo spirito creato ad immagine e somiglianza di Dio si sente altresì provvisto di una tale quantità di forze da poter operare in una sfera più elevata onde servire al bene dell’umanità, senza limitarsi ad amalgamare o a

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modificare la materia. Lo spirito immortale non deve essere lo strumento o lo schiavo di quell’elemento materiale di cui per voler di Dio gli fu concesso il governo e il dominio. Lasciate che la fede nell’esistenza di un’altra vita e la carità discesa dal seno dell’Altissimo vengano a fecondare questi nobili sentimenti e ad esaltare e dirigere questi alti pensieri, e vi renderete conto che la materia non ha alcun titolo per essere la regina del mondo, e che il Re della creazione conserva tuttora i Suoi diritti. Ma se pretendete di costruire sopra una base diversa da quella che è stata stabilita dallo stesso Dio, guardatevi dall’abbandonarvi ad una lusinghiera ma folle speranza, perché il vostro edificio sarà la casa costruita sull’arena: caddero le piogge, soffiarono i venti, e crollò con gran fragore (1). Torna all’indice

CAPITOLO XLVIII

La religione e la libertà. Rousseau. I Protestanti. Diritto divino. Origine del potere. Diritto divino inteso erroneamente. San Giovanni Crisostomo. Patria potestà. Sue relazioni con l’origine dell’autorità civile.

_______________ Nel capitolo XIII ebbi a dire: «Viene da fremere per l’indignazione quando

si sente che alla religione di Gesù Cristo viene attribuita la tendenza a ridurre in schiavitù. Certo, se si confonde lo spirito della vera libertà con lo spirito dei demagoghi, nel Cattolicesimo la loro libertà non si trova; ma se non si vuole cambiare mostruosamente i nomi, se si dà alla parola libertà il suo senso più ragionevole, il più giusto, il più utile, il più amabile, in tal caso la religione cattolica può reclamare la gratitudine del genere umano: essa ha portato la civiltà nelle nazioni che l’hanno professata, e la civiltà è la vera libertà». Da quanto ho dimostrato finora il lettore avrà potuto giudicare se il Cattolicesimo è stato favorevole o contrario alla civiltà europea, e di conseguenza se la vera libertà ne abbia risentito alcun danno. I vari temi sui quali lo abbiamo posto a confronto col Protestantesimo hanno messo in luce gli orientamenti negativi di questo, e i benefìci che ha procurato invece il Cattolicesimo: non possiamo aver dubbi sul giudizio di una mente giusta e illuminata.

Siccome la vera libertà dei popoli non poggia sulle apparenze, ma risiede nell’intima loro organizzazione, come la vita nel cuore, potrei dispensarmi dal mettere a confronto le due religioni sul tema della libertà politica; ma lo farò ugualmente perché non voglio che mi si dica che ho schivato una questione delicata per timore che il Cattolicesimo non ne uscisse con onore, né desidero che resti il sospetto che il Cattolicesimo in questa materia non possa venirne fuori con lo stesso successo ottenuto nelle altre.

Per chiarire bene la questione che costituisce l’oggetto di quest’opera, sarà necessario esaminare a fondo quale fondamento abbiano le accuse generiche

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che a riguardo vengono fatte al Cattolicesimo, e gli elogi che sono tributati alla pretesa riforma. Sarà quindi necessario porre in evidenza il fatto che le imputazioni fatte alla religione cattolica di favorire la schiavitù e l’oppressione, non sono che calunnie gratuite; e smascherare con l’aiuto della filosofia e della storia la prevenzione menzognera con cui gli atei e i Protestanti hanno tentato d’ingannare i popoli, sostenendo che il Cattolicesimo era favorevole alla schiavitù, che la Chiesa era il baluardo dei tiranni, e che il Papa era l’amico e il protettore naturale di quanti si adoperavano per umiliare gli uomini e per renderli schiavi.

In questa disputa si presentano due campi sui quali affrontarsi: quello delle dottrine e quello dei fatti. Prima di rivolgerci ai fatti esaminiamo le dottrine.

Chi disse che il genere umano aveva perduto i suoi diritti e che Rousseau li aveva ritrovati, sembra che non dovette fare molta fatica nell’esaminare i veri diritti del genere umano e quelli falsi tirati fuori dal filosofo di Ginevra nel suo Contratto Sociale. Difatti si potrebbe quasi dire che il genere umano aveva già i suoi diritti belli e buoni e riconosciuti come tali, e che semmai fu Rousseau a farglieli perdere. L’autore del Contratto Sociale si mise in testa di esaminare a fondo l’origine dell’autorità civile, e le sue sconsiderate dottrine invece di chiarire la questione non hanno fatto che ingarbugliarla maggiormente.

Credo che su questo tema fondamentale non si siano mai avute idee tanto nebulose e confuse quanto da alcuni secoli in qua. Le rivoluzioni hanno prodotto uno sconvolgimento sia nella dottrina che nella prassi; i governi sono stati o rivoluzionari o reazionari, e le dottrine si sono imbevute sia della rivoluzione che della reazione. È difficilissimo acquisire dai libri moderni una conoscenza chiara, certa ed esatta sull’origine, il genere e le relazioni dell’autorità civile con i sudditi. In alcuni troveremo Rousseau, in altri Bonald: Rousseau è un sabotatore che scava per demolire; e Bonald è l’eroe che porta in salvo gli dèi tutelari della città in preda alle fiamme, ma temendone la profanazione, li porta coperti con un velo. È opportuno far notare che non sarebbe giusto dire che fu Rousseau il primo che incominciò a confondere le idee su questo tema: in diverse epoche vi sono stati degli scellerati che hanno fatto in modo di turbare la società per mezzo di dottrine anarchiche; ma il fatto di metterle tutte insieme per formarne teorie fuorvianti risale soprattutto ai tempi in cui nacque il Protestantesimo. Lutero nell’opera De libertate christiana sparse i semi d’interminabili dispute con la sua insensata dottrina che il Cristiano non è suddito di nessuno. Invano successivamente cercò di rimediare dicendo che non si riferiva ai magistrati né alle leggi civili: i contadini della Germania si presero essi la briga di tirarne le conseguenze con l’insorgere contro i loro signori e col provocare una terribile guerra.

Il diritto divino proclamato dai Cattolici è stato accusato di favorire il dispotismo; e si è andati tanto oltre su questa strada, da considerarlo così

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contrario ai diritti del popolo che questa espressione è spesso usata per mettere quello in contrapposizione a questi. Il diritto divino, inteso bene, non si oppone ai diritti del popolo, ma ai loro eccessi; e lungi dal portare fuori misura la forza del potere, la rinchiude piuttosto nei limiti della ragione, della giustizia e dell’interesse pubblico.

Guizot nelle sue lezioni sulla civiltà europea, parlando di questo diritto proclamato dalla Chiesa, dice: «il nuovo principio è sublime e morale, ma è difficile che riesca ad accordarsi con i diritti della libertà e con le garanzie politiche». (Lez.9). Quando uomini come Guizot, che hanno per scopo specifico dei loro studi questo genere di questioni, prendono equivoci in un modo così deplorevole su questo punto, non ci si può meravigliare che accada lo stesso a scrittori dozzinali.

Prima di procedere oltre dovrò fare una considerazione che dovrà essere sempre tenuta presente. In queste materie si parla continuamente della scuola di Bossuet, di quella di Bonald, facendo uso in varie maniere di nomi propri. Rispetto più di ogni altro il merito di questi e di altri insigni uomini che ha avuto la Chiesa cattolica, tuttavia faccio notare che la Chiesa non si rende garante di altre dottrine che non siano quelle che essa stessa insegna; che non si personifica con nessun particolare studioso; e che essendo stata pronunciata da Dio stesso la Parola di verità infallibile in materia di fede e di morale, non permette che i fedeli aderiscano ciecamente alla semplice parola di un uomo, per quanto grande ne sia il merito, la santità e la sapienza. Chi desidera conoscere l’insegnamento della Chiesa cattolica consulti le definizioni dei Concili e quelle dei Sommi Pontefici; consulti anche i dottori di illustre e pura reputazione, ma si guardi bene dal mescolare le opinioni di un autore, per quanto stimabile possa essere, con le dottrine della Chiesa e con la voce del Vicario di Gesù Cristo. Facendo questa raccomandazione non intendo giudicare le opinioni di nessuno, ma solamente prevenire le persone poco versate negli studi ecclesiastici a non confondere in nessun caso i dogmi rivelati con le semplici riflessioni dell’uomo. Fatta questa premessa entriamo pure decisamente nella disputa.

In cosa consiste questo diritto divino di cui tanto si parla? Per chiarire bene la questione conviene prima di tutto determinare appropriatamente gli oggetti su cui verte, perché essendo questi assai differenti tra loro, altrettanto differenti saranno le applicazioni che verranno fatte di questo principio. In questa materia importantissima molte sono le questioni che si presentano; ciò nonostante non mi sembra difficile ridurle alle seguenti, le quali abbracciano tutte le altre: Qual è l’origine dell’autorità civile? Quali ne sono le facoltà? È lecito resisterle in qualche caso?

Prima questione: Qual è l’origine dell’autorità civile? Come va inteso che questa autorità viene da Dio? Io non so quale confusione si sia introdotta su questi punti, ed è certamente doloroso che proprio in un’epoca così turbolenta come la nostra se ne abbiano delle idee tanto false ed equivoche; perché per

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quanto si dica, le dottrine non sono mai del tutto trascurate nelle rivoluzioni e nelle restaurazioni: gli interessi recitano senz’altro la parte principale, ma non restano mai soli sul palcoscenico.

Il miglior mezzo per formarsi idee chiare su questo punto è quello di ricorrere agli antichi autori, servendosi principalmente di quelli le cui dottrine sono state rispettate per lungo tempo, che continuano ad esserlo tuttora, e che vengono considerati guide sicure per la buona interpretazione delle dottrine ecclesiastiche.

Questo modo di studiare la presente questione non può essere respinto neanche da coloro che stimano poco questi autori, perché qui non si tratta tanto di esaminare la verità di una dottrina, quanto d’indagare in che consista la dottrina stessa; e per questo non vi possono essere testimoni meglio informati, né giudici più competenti, di quelli che hanno consacrata tutta la loro vita allo studio di quella dottrina. Quest’ultima riflessione non si oppone per nulla a ciò che abbiamo detto prima riguardo alla diligenza che bisogna avere per non confondere le semplici opinioni degli uomini con le sacre dottrine della Chiesa; ma tende a ricordare la necessità di rivolgersi ad una certa categoria di autori che non meritano certamente di essere dimenticati in modo così ingrato. Non è possibile che per molti secoli persone tanto scrupolose si siano dedicate a queste gravi fatiche senza produrre qualche frutto.

Potremo capire meglio il pensiero di quegli antichi autori andando ad esaminare come essi abbiano applicato il principio generale del diritto divino nei due diversi modi: in quanto origine dell’autorità civile, e in quanto origine dell’autorità ecclesiastica. Perché da questa diversità uscirà una vivissima luce che chiarisce e sbroglia tutte le difficoltà. Leggete le opere dei più insigni teologi, consultate i loro trattati sull’origine dell’autorità del Papa, e vi renderete conto che nel fondare questa autorità sul diritto divino essi non soltanto la fanno derivare da Dio in senso generale, cioè in quanto ogni essere viene da Dio; non soltanto in senso sociale, cioè in quanto essendo la Chiesa una società, Dio ha voluto che vi sia un’autorità che la governi; ma la fanno derivare in un senso del tutto esclusivo, in quanto cioè Dio stesso istituì quest’autorità, Egli stesso ne stabilì la forma e designò la persona che ne fu rivestita. Da ciò deriva che il successore di S. Pietro è per diritto divino il supremo Pastore della Chiesa universale ed ha il primato su tutta la Chiesa stessa. Primato sia di onore che di giurisdizione.

In quanto all’autorità civile, ecco in che modo si esprimono. In primo luogo ogni autorità viene da Dio, perché l’autorità è un essere, e Dio è la fonte di tutti gli esseri; l’autorità è un dominio, e Dio è il Signore e il primo padrone di tutte le cose; l’autorità è un diritto, e in Dio si trova l’origine di tutti i diritti; l’autorità è un motore morale, e Dio è la causa universale di ogni tipo di movimento; l’autorità è diretta ad un fine eminente, e Dio è il fine di tutte le creature, e la sua Provvidenza ordina e regola tutto con soavità ed efficacia.

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Così vediamo che S. Tommaso, nella sua opera De regimine principum, afferma che «ogni dominio viene da Dio come primo padrone, la qual cosa può essere in tre modi: o in quanto il dominio è un essere, o in quanto è motore, o in quanto è fine» (Lib. 3. cap. 1).

Giacché mi sono riferito a questo criterio per spiegare l’origine dell’autorità, mi dispongo subito a confutare Rousseau il quale, alludendo a questa dottrina, mostra di averla capita molto male: «Ogni autorità – egli dice – viene da Dio: sono d’accordo. Ma anche le malattie vengono da Dio; e si dovrà dire per questo che mi sia proibito di chiamare il medico?» (Contratto sociale lib. 1. cap. 3). Effettivamente uno dei significati che si dà all’origine divina dell’autorità è che tutti gli esseri finiti derivano dall’essere infinito; ma questo significato non è l’unico, perché i teologi sanno benissimo che questa idea, in sé sola, non definisce la legittimità, e che è comune alla forza fisica; giacché, come soggiunge l’autore del Contratto sociale, «la pistola del ladro è anch’essa un’autorità». Rousseau in questo passo per apparire originale si e mostrato futile; e per lo sfizio di uscirne con un motto arguto ha cambiato i termini della questione. Infatti non ci voleva molto a capire che trattando dell’autorità civile non si parla di un potere materiale, ma di un’autorità morale, di un’autorità legittima, altrimenti sarebbe fatica inutile cercarne l’origine. Sarebbe lo stesso che investigare da dove vengono le ricchezze, la salute, la robustezza, il valore, l’astuzia e le altre qualità che contribuiscono a formare la forza materiale di ogni autorità. La questione dunque si riferisce a quell’essere morale che si chiama autorità; e nell’ordine morale l’autorità illegittima non è un’autorità, non è un essere: non è nulla. E perciò non c’è bisogno di cercarne l’origine né in Dio né altrove. L’autorità dunque deriva da Dio come fonte di ogni diritto, di ogni giustizia e di ogni legittimità; e nel considerare questa autorità non già come un essere fisico, ma bensì come un essere morale, si giunge alla conclusione che può essere venuta solamente da Dio, in cui risiede la pienezza dell’essere.

Questa dottrina, presa in generale, non solamente non va soggetta a difficoltà di nessun genere, ma deve anche essere accettata senza discussione da quanti non professano l’ateismo: solo gli atei possono metterla in dubbio. Passiamo ora alle particolarità che la questione racchiude; e vediamo se i teologi cattolici insegnano la minima cosa che non sia ragionevolissima anche agli occhi della filosofia.

Secondo questi teologi l’uomo non è stato creato per vivere solo. La sua esistenza suppone una famiglia perché senza di questa non si potrebbe perpetuare il genere umano: il suo istinto lo porta quindi a formare una famiglia. Le famiglie sono unite fra loro per mezzo di relazioni intime e indistruttibili: hanno delle necessità comuni; le une non possono vivere bene, e neanche conservarsi, senza l’aiuto delle altre; dunque si sono riunite formando la società. Questa società non può sussistere senza ordine, né l’ordine può esistere senza la giustizia; e tanto la giustizia quanto l’ordine

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hanno bisogno di un custode, di un interprete e di un esecutore. Ecco l’autorità civile. Dio che ha creato l’uomo, e che ha voluto la conservazione del genere umano, ha di conseguenza voluto anche che si formasse la società e l’autorità di cui questa ha bisogno. Dunque l’esistenza dell’autorità civile è conforme all’autorità di Dio, come lo è la patria potestà: se la famiglia ha bisogno di questa, la società non ha meno bisogno di quella. Il Signore si è degnato di preservare dai sofismi e dagli errori quest’importante verità dicendoci nelle Sacre Scritture che ogni autorità deriva da Lui, che siamo obbligati a prestarle obbedienza, e che chi le si oppone si oppone all’ordine di Dio.

Non riesco a vedere cosa si possa mai obbiettare su questo modo di spiegare l’origine della società e dell’autorità che la governa: così si salva il diritto naturale, il diritto divino e il diritto umano. Tutti questi diritti s’intrecciano fra loro e si rafforzano scambievolmente; la sublimità della dottrina è pari alla sua semplicità; la rivelazione sancisce quanto ci viene detto dal lume della ragione; la grazia insomma conferma la natura.

Ecco a cosa si riduce il famoso diritto divino, quello spauracchio che viene mostrato agli ignoranti o agli sprovveduti per far credere loro che la Chiesa cattolica nell’insegnare l’obbligo, fondato sulla legge di Dio, di obbedire alle autorità legittime, propone un dogma che avvilisce la dignità umana ed è incompatibile con la vera libertà.

Quando si sente qualcuno deridere il diritto divino dei re, sembra che costoro intendano che noi Cattolici riteniamo che il cielo spedisca agli individui o alle dinastie reali una specie di decreto che conferisca loro tale diritto, e che noi ignoriamo grossolanamente la storia delle vicende delle autorità civili. Se costoro avessero esaminato meglio la materia avrebbero appreso che noi, ben lungi dal poter essere rimproverati per tali sciocchezze, non facciamo altro che stabilire un principio la cui necessità fu riconosciuta da tutti gli antichi legislatori, e che sappiamo conciliare benissimo il nostro dogma con le sane dottrine filosofiche e con i fatti storici. A prova di tutto questo si veda con quale ammirevole lucidità San Giovanni Crisostomo spiega questo aspetto nella ventitreesima omelia sulla Lettera ai Romani. «Non c’è autorità che non venga da Dio. Che dici dunque: che ogni principe è costituito da Dio? Io non dico questo; perché non parlo di nessun principe in particolare, ma della cosa in sé, cioè dell’autorità stessa, e affermo che l’esistenza dei principati è opera della divina sapienza, e che tutte le cose non sono abbandonate al capriccio del caso»(Hom. 23. In epist. ad Rom.). Per questo motivo non dice: «Non vi è principe che non venga da Dio», ma tratta della cosa in sé, dicendo: «Non vi è autorità che non venga da Dio».

Dalle parole di San Giovanni Crisostomo si capisce bene che secondo i Cattolici ciò che è di diritto divino è l’esistenza di un potere che governi la società, e che questa non rimane abbandonata in balìa delle passioni e dei capricci. Dottrina la quale, mentre assicura l’ordine pubblico col fondare su

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motivi di coscienza l’obbligo di ubbidire, non va a toccare le questioni subalterne che lasciano sano e salvo il principio fondamentale.

Se ci viene obiettato che, ammessa l’interpretazione di San Giovanni Crisostomo, non vi era alcun bisogno che il sacro testo c’insegnasse quello che con tanta evidenza ci va dettando la ragione, risponderemo: primo, che nella Sacra Scrittura sono espressamente prescritti molti obblighi che ci sono imposti dalla stessa natura indipendentemente da qualunque diritto divino, come quello di onorare i genitori, di non uccidere, di non rubare ed altri simili; secondo, che in questo caso c’era una fortissima ragione per cui gli Apostoli raccomandassero in modo particolare l’ubbidienza alle autorità legittime e sanzionassero in termini chiari e decisivi quest’obbligo fondato sulla stessa legge naturale. Infatti lo stesso San Giovanni Crisostomo ci dice che «in quei tempi era molto estesa l’opinione che faceva passare gli Apostoli per dei sediziosi o dei riformatori che in tutti i loro discorsi ed atti cercavano di sovvertire le leggi comuni» (S. Joan. Chrisost. hom. 23: in Epist. ad Timoth.).

A questo si riferiva senza dubbio l’Apostolo S. Pietro quando, ammonendo i fedeli sull’obbligo di ubbidire alle autorità, diceva loro: «Perché questa è la volontà di Dio: che, operando il bene, voi chiudiate la bocca all’ignoranza degli stolti» (1 Pt 2, 15). Sappiamo anche da S. Girolamo che nei primi tempi della Chiesa alcuni, sentendo predicare la libertà evangelica, immaginavano che s’intendeva con questo la libertà in senso generale. La necessità d’inculcare un dovere la cui osservanza è indispensabile per la conservazione della società, è molto evidente se ci si rende conto che questo errore poteva radicarsi molto facilmente in quanto lusinga le menti orgogliose e amanti dei disordini. Erano già passati quattordici secoli, e notiamo che questo errore si è manifestato ai tempi di Wicleffo e di Giovanni Hus, e che gli anabattisti portarono le sue orribili conseguenze ad un punto tale da inondare di sangue la Germania. Poco dopo i settari fanatici d’Inghilterra provocarono i peggiori disordini e le più spaventose catastrofi con quella sconsiderata dottrina che riuniva nello stesso anatema il sacerdozio e l’impero.

La religione di Gesù Cristo, legge di pace e di amore, predicando la libertà parlava di quella che ci libera dalla schiavitù dei vizi e dal potere del demonio, facendoci coeredi di Gesù Cristo e partecipi della Sua grazia e della Sua gloria; ma era ben lontana dal propagare dottrine che favorissero i disordini o sovvertissero le leggi e le autorità; e perciò era importantissimo disperdere le calunnie con cui i suoi nemici cercavano di macchiarla, ed era necessario che proclamasse con le parole e con i fatti che la causa pubblica non aveva nulla da temere dalle nuove dottrine. Così vediamo che quantunque gli Apostoli avessero ripetuto continuamente questo santo dovere, i padri dei primi tempi ritornarono più volte ad insistere sul medesimo argomento. San Policarpo, citato da Eusebio (Lib. 4. Hist. cap. 15), parlando al proconsole gli dice: «A noi è comandato di rendere il dovuto onore ai magistrati e alle autorità costituite da Dio». S. Giustino nell’Apologia per i Cristiani ricorda allo stesso

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modo il precetto di Cristo di pagare i tributi. Tertulliano nella Sua Apologia (cap. 3) rinfaccia ai gentili le persecuzioni che dirigevano contro i Cristiani nel mentre questi con le mani levate al cielo pregavano Dio per la salute degli imperatori. Lo zelo apostolico di questi padri incaricati dell’insegnamento e della guida dei fedeli instillò talmente questo precetto nei loro cuori che i Cristiani furono ovunque un modello di sottomissione e di ubbidienza. Così Plinio, scrivendo all’imperatore Traiano, ammetteva che, a parte la questione religiosa, i Cristiani non potevano essere accusati della minima mancanza o disubbidienza alle leggi e agli editti imperiali.

La natura stessa ha stabilito le persone in cui risiede la patria potestà; le necessità della famiglia ne segnano i confini; i sentimenti del cuore prescrivono l’oggetto e ne regolano la condotta. Nella società la cosa è diversa, perché il diritto dell’autorità civile è coinvolto nel turbine degli eventi umani: qui risiede in una sola persona, là in molte; oggi appartiene ad una dinastia, domani sarà passato ad un’altra; ieri veniva esercitato sotto questa forma, oggi sotto un’altra molto diversa. Il bambino piangendo tra le braccia della madre le ricorda in modo ben chiaro l’obbligo che essa ha di nutrirlo e di averne cura; la moglie, fragile e senza sostegno, dice al marito che sia lei che il figlio hanno bisogno di protezione: e l’infanzia debole, senza forze per reggersi, senza conoscenze per regolarsi, palesa al padre e alla madre l’obbligo di mantenerla ed educarla. Qui si vede chiara la volontà di Dio: l’ordine stesso della natura ne è la più viva espressione; i più teneri sentimenti ne sono l’eco e l’interprete. Non c’è bisogno di aspettare altro per conoscere la volontà del Creatore, non c’è bisogno di cavillare per cercare la via per cui la patria potestà è discesa dal cielo: i diritti e i doveri dei padri e dei figli sono scritti a caratteri chiari e bellissimi. Ma dove troveremo riguardo all’autorità civile un’espressione così chiara e fuori di ogni equivoco? Se il potere viene da Dio, attraverso quali mezzi lo comunica? Di quale via si serve? Questo ci porta ad altre questioni secondarie, le quali però sono tutte dirette a chiarire e a risolvere la principale.

C’è mai stato uomo che sia stato investito dell’autorità civile per diritto naturale? Se c’è stato, si capisce subito che non ha avuta altra origine che quella della patria potestà; cioè, che la potestà civile in questo caso dovrebbe considerarsi come un’estensione della patria potestà, come una trasformazione del potere domestico in potere civile. Salta subito all’occhio la differenza tra l’ordine domestico e quello sociale, il diverso scopo dell’uno e dell’altro, la diversità delle regole a cui devono andar soggetti, e il fatto che i mezzi di cui si fa uso nella gestione dell’uno, sono molto diversi da quelli che s’impiegano nell’altro. Non nego che la società non assomiglia alla famiglia, e che la prima è tanto più bella e soave quanto più si avvicina all’imitazione della seconda, sia nel comandare che nell’obbedire; ma le semplici analogie non bastano per costituire i diritti, e resta sempre fuor di dubbio che quelli dell’autorità civile non si possono confondere con quelli della patria potestà.

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D’altra parte la natura stessa delle cose ci dimostra che la Provvidenza, nel decidere i destini del mondo, non stabilì la patria potestà come fonte dell’autorità civile; perché non vediamo come si sarebbe potuto trasmetter una simile autorità, né per quali vie fosse possibile giustificare la legittimità dei titoli. È facile ammettere il piccolo regno di un uomo anziano che governa una società composta soltanto di due o tre generazioni della sua stessa stirpe; ma nel momento in cui questa società cresce, si estende a vari paesi e poi si divide e suddivide, il potere patriarcale sparisce perché se ne rende impossibile l’esercizio: e non si riesce a capire come i pretendenti al trono potranno intendersi fra loro e con gli altri per legittimare e giustificare l’autorità. La teoria che nella patria potestà riconosce l’origine dell’autorità civile potrà essere bella quanto si vuole; potrà vantare la testimonianza che le sembra di trovare nei governi patriarcali delle prime società umane; ma due cose le si oppongono: la prima, che afferma ma non prova; la seconda, che è inutile per lo scopo che si propone, cioè quello di legittimare i governi, perché nessuno di questi può provare la sua legittimità se si pretende di fondarla su una tale attribuzione: dal più potente sovrano all’ultimo suddito sanno che sono tutti figli di Noè, e nient’altro. Questa teoria non è contemplata né da San Tommaso, né da alcun altro dei principali teologi, e, andando più su, tanto meno è possibile fondarla sulla dottrina dei santi padri, sulla Tradizione della Chiesa, o sulla Sacra Scrittura. Si tratta dunque di una mera opinione filosofica, e toccherà a coloro che la espongono chiarirla e dimostrarla; il Cattolicesimo non dice nulla, né pro né contro.

Essendo quindi chiaro che l’autorità civile non risiede in alcun uomo per diritto naturale, e sapendo d’altronde che l’autorità viene da Dio, chi riceve da Dio questa autorità? Come la riceve? Prima di tutto è necessario notare che la Chiesa cattolica nel riconoscere l’origine divina dell’autorità civile, origine che è espressamente manifestata nella Sacra Scrittura, non definisce nulla, né riguardo alla forma di tale autorità, né ai mezzi di cui Dio si avvale per comunicarla. Per cui, una volta stabilito il dogma cattolico, resta ancora un vastissimo campo per esaminare chi riceva direttamente siffatto potere, e come si trasmetta. Questa cosa è riconosciuta dagli stessi teologi quando trattano quest’importante questione; e ciò dovrebbe bastare per fugare i preconcetti di coloro che su questo punto vedono nella dottrina della Chiesa un mezzo per condurre alla schiavitù dei popoli.

La Chiesa insegna l’obbligo di ubbidire alle autorità legittime, e aggiunge che il potere che esse esercitano deriva da Dio; e questa dottrina è confacente sia alla monarchia assoluta sia alla repubblica, perché non dice nulla pregiudizialmente né sulle forme di governo, né sui particolari requisiti di legittimità. Queste ultime questioni sono di natura tale che non si possono risolvere in una tesi generale; esse dipendono da mille circostanze alle quali non giungono i princìpi universali che in ogni società sono il fondamento dell’ordine e della quiete pubblica.

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Sono talmente convinto dell’importanza di dover chiarire bene le idee su questo tema mediante l’esposizione delle dottrine elaborate dai più eminenti teologi cattolici, che mi accingo a dedicarvi un apposito capitolo. Torna all’indice

CAPITOLO XLIX

Dottrine dei teologi sull’origine della società. Orientamento dei teologi cattolici confrontato con quello dei moderni scrittori. San Tommaso. Bellarmino. Suarez. Sant’Alfonso Maria de’ Liguori. Padre Concina. Billuart. Il compendio salmaticense.

_______________ Gli studi di questi teologi concernenti le questioni di diritto pubblico sono

quanto mai istruttivi e importanti. Questi autori, senza atteggiarsi a uomini di governo, e non essendo neanche spinti da mire ambiziose, parlano senza adulazione e senza acredine, ed espongono queste materie con tanta tranquillità e pacatezza come se si trattasse soltanto di teorie di scarso impegno e le cui conseguenze siano ristrette ad un àmbito di poca importanza. Ai nostri tempi non è possibile aprire un libro senza capire subito a quale dei partiti militanti appartenga l’autore; ed è ben raro che le sue idee non mostrino l’impronta di una certa faziosità o lo scopo di propagandare progetti di proprio interesse; ed è una fortuna se non cade il sospetto che, per mancanza di convinzioni, si esprime in questo o in quel modo solo perché così gli conviene. Non succede altrettanto con gli antichi scrittori di cui stiamo parlando: è necessario rendere loro la giustizia che meritano, perché le loro opinioni sono conformi alla loro coscienza e il linguaggio è onesto e schietto. Qualunque sia il giudizio che se ne formi, sia che vengano consideranti veri sapienti, sia che li si voglia far passare temerariamente per fanatici ed ignoranti, non è però lecito dubitare che le loro parole non siano sincere; come non si può dubitare, siano essi dominati da un’idea religiosa, o seguano un sistema filosofico, che la loro penna non sia lo strumento fedele dei loro pensieri.

Rousseau decise di indagare sull’origine della società e dell’autorità civile, e incominciò il primo capitolo della sua opera in questi termini: «L’uomo nasce libero, e dappertutto si trova in catene». Non si scorge qui chiaramente il demagogo sotto il manto del filosofo? Non è evidente che lo scrittore invece di rivolgersi all’intelletto si rivolge alle passioni, toccandone la più sensibile e più facile ad insorgere, cioè l’orgoglio? Invano egli cercherebbe di far credere che non intendeva mettere in pratica le sue dottrine: le sue parole rivelano il cuore. In un altro punto della sua opera, volendo addirittura offrire i suoi consigli ad una grande nazione, è appena entrato in argomento che già scaglia sull’Europa la torcia incendiaria: «Quando si legge – egli dice – la storia antica, uno si crede trasportato in un altro mondo e in mezzo ad altri esseri.

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Cosa hanno di comune i Francesi, gl’Inglesi, i Russi con i Romani e i Greci? Poco meno dell’aspetto. Gli spiriti vigorosi di questi sembrano a quelli esagerazione della storia. Chi si sente così piccolo, come potrebbe mai pensare che siano esistiti uomini così grandi? Eppure vi furono, ed erano della nostra stessa specie. Cosa c’impedisce dunque di essere come loro? I nostri pregiudizi, la nostra modesta filosofia, le passioni del meschino interesse concentrate nell’egoismo per mezzo di istituzioni inette che non furono mai opera del genio» (Considerazioni sul governo di Polonia cap. 2). Non si nota forse il veleno che stillano le parole del filosofo? Non si tocca con mano che cerca qualcosa di più che illuminare l’intelletto? Che tenta con i suoi artifici d’irritare gli animi, di ferirli e infiammarli nel modo più malvagio e scandaloso?

Andiamo all’estremo opposto del confronto, e vediamo con quale diverso tono S. Tommaso d’Aquino nella sua opera De regimine principum inizia ad illustrare la stessa materia e fornisce i suoi consigli per il buon governo: «Se l’uomo dovesse vivere solo, come avviene in molte specie di animali, non avrebbe bisogno di nessuno che lo diriga ad un fine, ma ciascuno sarebbe il re di se stesso sotto l’autorità di Dio sommo re, in quanto regolerebbe se stesso nei suoi atti per mezzo del lume della ragione che il Creatore gli ha data. Ma l’uomo è per natura un animale sociale e politico, e deve vivere in comunità a differenza degli altri animali, cosa molto evidente per le stesse necessità naturali. Infatti, per gli altri animali la natura preparò gli alimenti, la pelliccia che li ricopre, i mezzi di difesa come zanne, corna, artigli, o almeno la rapidità nella fuga; ma l’uomo non è stato dotato di nessuna di queste qualità, e al loro posto la natura gli ha fornito la ragione per mezzo della quale e con l’aiuto delle mani può procurarsi ciò di cui ha bisogno. Ma per raggiungere questo scopo non basta un uomo solo, perché non basterebbe a se stesso neanche per difendere la propria vita; è dunque necessità naturale per l’uomo vivere in società. Oltre a ciò agli altri animali la natura ha dato l’istinto di distinguere quello che è loro utile o dannoso: così la pecora ha per natura paura del suo nemico, il lupo. Vi sono inoltre certi animali che per natura riconoscono le erbe che possono servire loro come medicamento, ed altre cose necessarie alla loro conservazione; ma l’uomo non ha alcuna conoscenza naturale delle cose necessarie alla sua esistenza se non in modo generico; perché è con l’aiuto della ragione che dai princìpi universali può arrivare alla conoscenza delle cose particolari necessarie alla vita umana. Non essendo dunque possibile che un uomo arrivi da solo a tutte queste conoscenze è necessario che viva in società con altri, e che tutti si aiutino a vicenda occupandosi ciascuno del rispettivo compito: per esempio uno svolge la sua opera nella medicina, un altro in questo campo e un altro in quello. La stessa cosa si rileva in modo evidentissimo per la facoltà di parlare che è esclusiva dell’uomo, il quale può così comunicare agli altri tutti i suoi pensieri; mentre gli altri animali comunicano vicendevolmente solo i loro comuni sentimenti, così come il cane

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che abbaiando esprime la collera, e pure gli altri esprimono i loro sentimenti in varie maniere. L’uomo è quindi più comunicativo nei confronti dei suoi simili di quanto non lo siano tutti gli altri animali, compresi quelli più inclini a vivere insieme come le gru, le formiche e le api. È per questo che il re Salomone dice nell’Ecclesiaste: è meglio esser due che uno solo, poiché hanno il vantaggio dell’aiuto reciproco. Se dunque è naturale per l’uomo vivere in società con altri, è necessario che vi sia tra loro chi governi tutti. Perché altrimenti, se non ci fosse uno che si prendesse cura del bene comune, stando insieme molti uomini e facendo ognuno ciò che gli pare è inevitabile che la società finirebbe per decomporsi, così come accadrebbe al corpo umano, e a quello di qualunque altro animale, se non vi fosse una forza ordinatrice nel corpo avente per scopo il bene di tutte le membra. Ed è perciò che Salomone dice: Dove non si trova un governatore, il popolo si disperderà. Nell’uomo stesso l’anima regola il corpo; e nell’anima le facoltà irascibile e concupiscibile sono governate dalla ragione. Anche tra le membra del corpo ve n’è uno principale che li muove tutti, come il cuore, o la testa. Dunque in ogni molteplicità vi deve esser un elemento che la governi» (S. Tom. De regimine principum lib 1. cap. 1).

Questo passo così prezioso per la profonda dottrina, la chiarezza delle idee, la solidità degli argomenti, il rigore e l’esattezza delle deduzioni, contiene in poche parole tutto quanto si possa dire, considerando la materia in generale e col solo lume della ragione, sull’origine della società e dell’autorità, sui diritti di cui questa gode e gli obblighi cui va soggetta. Era fondamentale per prima cosa rendere evidente la necessità dell’esistenza della società, e il santo Dottore l’ha fatto poggiandosi su un principio semplicissimo: l’uomo per sua natura non può vivere solo; dunque ha bisogno di unirsi con i suoi simili. C’era bisogno di una prova a conferma di questa fondamentale verità? Eccola: l’uomo è dotato di parola, il che mostra che è destinato dalla stessa natura a comunicare con altri uomini, e di conseguenza a vivere in società. Dopo aver dimostrato che questa è una necessità irrinunciabile bisognava dimostrare che tale è anche un’autorità che la governasse. Per giungere a questo il Santo non inventa sistemi stravaganti o teorie senza capo né coda, e non ricorre a supposizioni assurde: gli basta una ragione fondata sulla natura stessa delle cose dettata dal senso comune e appoggiata sull’esperienza quotidiana: in qualunque comunità di uomini ci deve essere una guida, perché senza di questa è inevitabile il disordine ed anche la disgregazione della società; dunque in ogni società ci deve essere un capo.

Bisogna ammettere che con questa esposizione così semplice e piana la teoria sull’origine della società e dell’autorità si comprende molto meglio di quanto non si riesca con tutti i cavilli intorno a patti espliciti o impliciti. Basta che una cosa sia insita nella natura stessa, basta vederla dimostrata come una pura necessità, per comprenderne facilmente la fondatezza e l’inutilità

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d’investigare con sottigliezze e supposizioni gratuite ciò che risulta subito evidente.

Non si creda tuttavia che S. Tommaso non conoscesse il diritto divino, e che non sapesse che l’obbligo di sottomettersi all’autorità si poteva fondare su di esso. In parecchie parti delle sue opere afferma questa verità; ma lo fa in modo da non dimenticare il diritto naturale e il diritto umano che su questo punto si combinano e si uniscono col divino, il quale è una conferma e una legittimazione di quelli. Così vanno interpretati quei testi del santo Dottore, in cui attribuisce al diritto umano l’autorità civile, contrapponendo l’ordine di questa autorità civile all’ordine della grazia. Per esempio, trattando la questione se gl’infedeli possono avere supremazia o dominio sui fedeli, dice (2-2 q. 10, a. 10): «Qui si deve considerare che il dominio o la supremazia si sono introdotti per diritto umano, mentre la distinzione tra fedeli e infedeli è di diritto divino. Il diritto divino che deriva dalla grazia non nega il diritto umano che proviene dalla ragione naturale; e perciò la distinzione tra fedeli e infedeli considerata in se stessa non nega il dominio e la supremazia degl’infedeli sui i fedeli».

Esaminando in un altro passo se il principe che apostata dalla fede perde per questo fatto il dominio sui suoi sudditi, sì che questi non siano più obbligati ad obbedirgli, si esprime così (2-2 q. 12, a. 2): «Come si è detto più sopra, l’infedeltà per se stessa non ripugna al dominio; perché il dominio è stato introdotto per il diritto delle genti, che è diritto umano; mentre la distinzione tra fedeli e infedeli è di diritto divino, il quale non nega il diritto umano».

E più avanti, indagando se l’uomo ha l’obbligo di ubbidire ad un altro, dice (2-2 q. 104, a. 2): «Siccome le azioni delle cose naturali procedono dalle forze naturali, allo stesso modo le operazioni umane procedono dalla volontà umana. Nelle cose naturali fu necessario che le cose superiori guidassero le inferiori alle loro rispettive azioni per mezzo dell’eccellenza della virtù naturale data da Dio; allo stesso modo è anche necessario che nelle cose umane i superiori guidino gli inferiori per mezzo della volontà in forza dell’autorità ordinata da Dio. Guidare per mezzo della ragione e della volontà significa comandare; e siccome per lo stesso ordine naturale istituito da Dio nella natura le cose inferiori sono necessariamente soggette al comando delle superiori, allo stesso modo nelle cose umane gl’inferiori devono per diritto naturale e divino obbedire ai loro superiori».

Nella stessa questione esaminando se l’obbedienza è una virtù speciale, risponde (2-2 q. 104, a. 2): «Ubbidire al superiore è un dovere conforme all’ordine divino comunicato alle cose».

Nell’articolo 6, proponendosi la questione se i Cristiani siano obbligati ad ubbidire alle autorità civili dice (2-2 q. 104, a. 6): «La fede di Cristo è il principio e la causa della giustizia, secondo quelle parole della lettera ai Romani, capo 3: “La giustizia di Dio per mezzo della fede di Gesù Cristo”; e

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quindi per questa fede non si nega l’ordine della giustizia, ma piuttosto si conferma. L’ordine poi della giustizia richiede che gl’inferiori ubbidiscano ai loro superiori, perché altrimenti non si potrebbe conservare la società umana; e perciò la fede di Cristo non esime i fedeli dall’obbligo di ubbidire alle autorità civili».

Mi sono soffermato alquanto su questi importanti passi di S. Tommaso affinché si constatasse che il santo non intende il diritto divino in modo stravagante come i nemici della religione cattolica hanno voluto far credere; e che anzi, salvando il dogma espressamente riportato nel Sacro Testo, considera il diritto divino come conferma e sanzione del diritto naturale ed umano. Tutti sanno che per lo spazio di sei secoli i teologi cattolici hanno avuto in grande considerazione S. Tommaso. riconoscendone l’autorevolezza in tutto ciò che riguarda il dogma e la morale; per cui, siccome egli stabilisce il dovere di ubbidire alle autorità come fondato nel diritto naturale, divino ed umano, affermando che in Dio si trova l’origine di ogni autorità senza però stabilire dogmaticamente se questa autorità sia da Dio trasmessa indirettamente o direttamente a coloro che lo esercitano, e lasciando un vastissimo campo aperto nel quale le opinioni umane possano spaziare senza alterare la purezza della fede; così allo stesso modo i più celebri dottori che si sono avvicendati nelle cattedre cattoliche si sono limitati ad affermare e sostenere il dogma senza che lo estendessero oltre il necessario, per non pregiudicare temerariamente l’autorità della Chiesa. A prova di questo fatto inserirò alcuni testi di illustri teologi.

Il Cardinale Bellarmino si esprime in questi termini (Bell. De Laicis, L. 3, c. 6): «È certo che l’autorità politica viene da Dio, da cui solo procedono le cose lecite e buone, come prova S. Agostino in molte parti del quarto e del quinto libro della Città di Dio; perché la Sapienza di Dio esclama nel libro dei Proverbi: “Per mezzo mio regnano i re” (Prov 8, 15). E più sotto: “Per mezzo mio i Capi comandano” (Prov 8, 16). E il profeta Daniele: “A te il Dio del cielo ha concesso il regno, la potenza, la forza e la gloria” (Dan 2, 37); e più avanti: “La tua dimora sarà con le bestie della terra; ti pascerai d’erba come i buoi e sarai bagnato dalla rugiada del cielo; sette tempi passeranno su di te, finché tu riconosca che l’Altissimo domina sul regno degli uomini e che Egli lo dà a chi vuole” (Dan 4, 22)».

Dimostrato con l’autorità della Sacra Scrittura il dogma che l’autorità civile deriva da Dio, l’autore passa a spiegare il senso nel quale si deve intendere questa dottrina, dicendo (Ibid.): «Ma qui conviene fare alcune osservazioni. In primo luogo, l’autorità politica considerata in generale, senza riferirci in particolare alla monarchia, all’aristocrazia o alla democrazia, deriva direttamente soltanto da Dio; perché discendendo necessariamente dalla natura dell’uomo procede da Colui che fece la natura stessa dell’uomo. Inoltre questa autorità è di diritto naturale, poiché non dipende dal consenso degli uomini i quali, lo vogliano o no, devono per forza avere un governo se

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non vogliono la rovina del genere umano, cosa che è contro l’ordine della natura. Ma il diritto di natura è diritto divino, dunque anche il governo è stato introdotto per diritto divino. E questo sembra che per l’appunto voglia intendere l’Apostolo nella lettera ai Romani quando dice: “Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio” (Rom 13, 2)».

Questa dottrina demolisce tutta la teoria di Rousseau che fa dipendere l’esistenza della società e i diritti dell’autorità civile dalle convenzioni umane. E crollano anche gli assurdi sistemi di alcuni Protestanti e di altri eretici a loro precedenti i quali, invocando la libertà cristiana, pretendevano di negare ogni autorità. No: l’esistenza della società non dipende dal consenso dell’uomo; la società non è opera dell’uomo, ma è il soddisfacimento di una necessità pressante che se venisse trascurata provocherebbe l’estinzione del genere umano. Dio nel creare l’uomo non lo abbandonò in balìa del caso: gli diede il diritto di provvedere alle proprie necessità e gl’impose l’obbligo di aver cura della propria conservazione. L’esistenza del genere umano include, dunque, sia il diritto di governare che l’obbligo di ubbidire. Non può esserci sul tema una teoria più chiara, semplice e solida. O si vorrà ancora dire che è umiliante per la dignità umana e nemica della libertà? È forse un disonore per l’uomo il fatto di riconoscersi creatura di Dio, e proclamare che ha ricevuto da Dio il necessario per la propria conservazione? Sarà forse per l’intervento di Dio che si riterrà costretta la libertà dell’uomo? Non potrà l’uomo essere libero anche se non è ateo? È assurdo accusare una dottrina di essere favorevole alla schiavitù, quando essa afferma: Dio non vuole che viviate come le bestie feroci, perciò dispone che siate riuniti in società, e quindi vi comanda di essere soggetti ad un’autorità legittimamente costituita. Se questa si chiama oppressione e schiavitù noi la desideriamo, mentre rinunciamo molto volentieri al diritto, che qualcuno pretende di darci, di andare errando per i boschi come gli animali. L’uomo perde la vera libertà se viene privato della più bella qualità della sua natura, che è quella di agire in modo conforme alla ragione.

Dopo aver visto come viene inteso il diritto divino dall’eminente teologo che abbiamo citato, vediamo quali sono le applicazioni che egli ci fa di questo diritto, e in che modo, secondo lui, Dio comunica l’autorità civile a chi è incaricato di esercitarla. Dopo le parole sopra citate continua così (Ibid.): «In secondo luogo, si noti che questa autorità risiede direttamente, come soggetto proprio, in tutto il popolo; perché questa autorità è di diritto divino. Tale diritto non conferisce l’autorità a nessun uomo in particolare, dunque l’ha data al popolo. Inoltre, prescindendo dal diritto positivo, non vi è nessuna ragione per la quale tra uguali dòmini uno piuttosto che un altro, per cui l’autorità è di tutto il popolo. Infine la società umana deve essere una società perfetta; dunque deve avere un’autorità per potersi conservare e quindi per castigare i perturbatori della pace».

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Questa dottrina non ha nulla in comune con le folli teorie di Rousseau e dei suoi seguaci; e cose così diverse non possono essere confuse se non da chi abbia scarsissima conoscenza di diritto pubblico. Infatti ciò che il Cardinale Bellarmino definisce nel passo appena citato, cioè che l’autorità risiede direttamente nel popolo, non si oppone a quanto aveva insegnato poco prima, cioè che il potere viene da Dio e non nasce dalle convenzioni umane. La sua dottrina potrebbe essere formulata in questi termini: supposto un insieme di uomini, e facendo astrazione da ogni diritto positivo, non c’è nessun motivo che uno di essi possa arrogarsi il diritto di governarli. Ciononostante questo diritto esiste, la natura ne mostra la necessità, Dio prescrive che vi sia un governo: dunque in quest’insieme di uomini esiste la legittima possibilità di istituirlo. Per chiarire vieppiù le idee dell’illustre teologo si supponga che un numero considerevole di famiglie uguali fra loro e del tutto indipendenti le une dalle altre sia stato gettato dalla tempesta su un’isola completamente deserta. La nave è affondata e non c’è alcuna speranza di tornare al luogo di partenza, né di arrivare a quello di destinazione; ed è preclusa qualunque possibilità di comunicare col resto dell’umanità. E allora chiediamo: queste famiglie possono vivere senza governo? No! Qualcuna di esse ha diritto di governare le altre? Certamente no! C’è qualche individuo che possa avanzare tale pretesa? È evidente che no! Queste famiglie, hanno il diritto di istituire quel governo che è loro necessario? Certamente! E allora, in quel gruppo di famiglie, rappresentato dai padri di famiglia o in qualunque altro modo, risiede l’autorità civile col diritto che sia trasmessa a una o più persone, secondo il modo che si crederà più conveniente. Sarà ben difficile porre qualche obbiezione di un certo valore alla dottrina di Bellarmino esposta in questo modo.

Che questo sia il vero senso delle sue parole, si deduce dalle considerazioni che presenta continuando col dire (Ibid.): «In terzo luogo, si noti che quest’autorità viene trasmessa dal popolo ad una o più persone per lo stesso diritto di natura; perché non potendo la società esercitarla da sé, è obbligata a trasmetterla ad uno solo, oppure ad alcuni. E quindi l’autorità dei prìncipi, considerata in senso generale, è di diritto naturale e divino; e lo stesso genere umano, anche se fosse riunito tutto insieme, non potrebbe stabilire il contrario, cioè che non debbano esserci prìncipi o governanti».

Facendo salvo questo principio generale, resta però alla società, secondo l’opinione di Bellarmino, un’ampia discrezionalità per stabilire la forma del governo che più le piaccia. La qual cosa dovrebbe bastare per cancellare l’accusa mossa alla dottrina cattolica di favorire la schiavitù; poiché se essa consente di adottare qualunque forma di governo, ne risulta molto chiaramente che è una vera calunnia accusarla d’incompatibilità con la libertà.

Vediamo come il citato autore prosegue per spiegare questo aspetto (Ibid.): «In quarto luogo, si osservi che le forme di governo sono, in modo particolare, di diritto delle genti e non di diritto naturale; perché, come è facile capire,

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dipende dal consenso del popolo se costituire, per esserne governato, un re, oppure dei consoli o altri magistrati; e qualora sopravvenga una motivazione legittima, il popolo può cambiare il regno in aristocrazia o democrazia, o viceversa, come ci dice la storia che avvenne a Roma.

«In quinto luogo, come si desume da quanto detto fin qui, questa autorità particolare viene da Dio, ma indirettamente attraverso l’opinione e la scelta del popolo, come tutte le altre cose che appartengono al diritto delle genti; perché il diritto delle genti è una specie di derivato del diritto naturale attraverso un processo di elaborazione da parte dell’uomo. Da ciò conseguono due distinzioni tra l’autorità politica e quella ecclesiastica: la prima distinzione riguarda il soggetto, e in questo senso l’autorità politica è direttamente nel popolo, e quella ecclesiastica è direttamente in un uomo. La seconda distinzione riguarda la causa, e qui l’autorità politica considerata in senso generale è di diritto divino, e considerata in senso particolare è di diritto delle genti; mentre quella ecclesiastica è in ambedue i sensi di diritto divino, e deriva direttamente da Dio».

Da queste ultime parole risulta chiaramente con quanta concretezza i teologi intendevano il diritto divino in modo assai diverso secondo che venisse riferito all’autorità civile o a quella ecclesiastica. E non si creda che la dottrina esposta fin qui sia soltanto del Cardinale Bellarmino, perché la totalità dei teologi gli fa eco. Ma io ho preferito riportare il suo autorevole pensiero perché, essendo egli molto legato alla Sede romana, se questa fosse stata tanto permeata di idee totalitarie come si vuole far supporre, non c’è dubbio che il pensiero di questo teologo si differenzierebbe da quello degli altri.

Non è difficile prevedere le obiezioni che certamente verranno fatte a ciò che ho esposto: si dirà senz’altro che Bellarmino aveva lo scopo principale di mettere in primo piano l’autorità del Sommo Pontefice e di diminuire quella dei re affinché si annullasse, o almeno venisse messo in ombra, tutto ciò che potrebbe opporsi all’autorità dei Papi. Non starò qui ad esaminare le opinioni di Bellarmino sui rapporti tra le due autorità, perché questo mi allontanerebbe dal mio obiettivo. Oltre a ciò, vi sono dei punti che riguardano il diritto civile ed ecclesiastico che allora erano molto importanti per il complesso di circostanze relative a quei tempi, e che adesso non lo sono più per il grande cambiamento avvenuto nelle idee o per il diverso indirizzo che hanno preso gli avvenimenti. Risponderò tuttavia a questa difficoltà con due semplicissime osservazioni. La prima è che qui non si tratta dell’intenzione che poteva avere Bellarmino nell’esporre la sua dottrina, ma bensì di sapere in che consiste questa dottrina. Qualunque ne fosse il motivo, sarà sempre vero che un autore di tanta notorietà le cui opinioni sono molto apprezzate nelle scuole cattoliche, che scriveva a Roma, le cui opere non furono mai condannate, e che anzi fu sommamente onorato e considerato; questo teologo, dunque, nello spiegare la dottrina della Chiesa sull’origine divina dell’autorità civile lo fa in termini tali che, garantendo il buon ordine della società, non reca il minimo pregiudizio

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alla libertà dei popoli. In realtà l’accusa era diretta contro Roma, e con tale considerazione Roma resta giustificata. La seconda osservazione è che il Cardinale Bellarmino non è il solo ad esprimere quest’opinione, ma ha dalla sua parte la totalità dei teologi; perciò qualunque cosa si dica contro le sue intenzioni non prova nulla contro le sue dottrine.

Fra gli altri non pochi teologi che potrei citare, ne sceglierò alcuni che sono l’ espressione delle diverse epoche; e siccome per motivi di stringatezza devo necessariamente mantenermi in limiti ristretti, prego il lettore di consultare da sé le opere dei teologi e dei moralisti cattolici per conoscere il loro vero pensiero su questa importante questione.

Ecco come Suarez spiega l’origine dell’autorità (Cita a Caiet. Covar. Victor y Soto. De Leg. L. 3. c. 3): «Su questo, pare che l’opinione comune sia che Dio come Autore della natura dà questo potere; potremmo dire che gli uomini costituiscono la materia formando il soggetto capace di questo potere, e Dio dà la forma concedendo questa autorità». (De legibus libro 3. cap. 3.) Continua poi a sviluppare la sua dottrina basandola su quei ragionamenti che si è soliti condurre in questa materia; e tirando le conclusioni spiega come la società, che riceve il potere direttamente da Dio, lo trasmetta a determinate persone: «In secondo luogo da ciò che si è detto ne consegue che l’autorità civile ogni volta che è in un solo uomo, o principe, lo è perché gli è stata conferita per diritto legittimo e comune dal popolo e dalla comunità, prossimamente o remotamente, e che per essere giusta non può esserci un altro modo» (Ibid. cap. 4).

Forse non tutti i lettori sanno che fu un Gesuita spagnolo a sostenere, addirittura contro lo stesso re d’Inghilterra, la dottrina che i prìncipi ricevono il potere indirettamente da Dio e direttamente dal popolo. Questo Gesuita è lo stesso Suarez, e l’opera a cui mi riferisco ha per titolo: «Difesa della fede cattolica ed apostolica contro gli errori della setta anglicana, con una risposta all’apologia che il serenissimo re d’Inghilterra Giacomo ha pubblicato per il giuramento di fedeltà, composta dal P. D. Francesco Suarez professore nell’università di Coimbra, diretta ai serenissimi re e prìncipi cattolici di tutto il mondo cristiano». Nel secondo capitolo del terzo libro, in cui sviluppa la questione se il principato politico proviene direttamente da Dio o dall’istituzione divina, Suarez dice: «Nella quale il serenissimo re non solamente opina in una maniera nuova e singolare, ma attacca con acrimonia il Cardinale Bellarmino perché ha asserito che i re non hanno ricevuto da Dio l’autorità direttamente come i Pontefici. Il re d’Inghilterra afferma invece che il re non ha ricevuto il suo potere dal popolo, ma direttamente da Dio, e tenta di portare altri alla sua opinione con argomenti ed esempi di cui esaminerò il valore nel capitolo seguente.

«Quantunque questa controversia non appartenga direttamente ai dogmi di fede (perché su questo punto non si può ricavare alcuna definizione né dalle Divine Scritture né dalla tradizione dei Padri), ciò nonostante è

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opportuno trattarla e spiegarla con grande diligenza, sia perché può essere fonte di errori in altri dogmi, sia perché la suddetta opinione del re, nel modo in cui la definisce e l’interpreta, è nuova e singolare, e sembra concepita per portare in alto l’autorità temporale e diminuire quella spirituale; ed infine perché crediamo che l’opinione dell’illustrissimo Bellarmino sia antica, accettata, vera e necessaria».

Non si creda che queste opinioni esposte da Suarez dipendessero dalle circostanze del tempo, e che dopo essere state pronunciate scomparissero subito dalle scuole dei teologi. Sarebbe molto facile citare un gran numero di autori che esprimono le stesse opinioni e che confermano ciò che dice Suarez, cioè che la definizione di Bellarmino era accettata ed antica. Ci si renderebbe conto allora che questa definizione continuò ad essere accolta come attualissima e mai giudicata, anche se in minima parte, contraria alla dottrina cattolica, o minimamente dannosa per la sicurezza delle monarchie. A conferma di questo citerò alcuni passi di illustri scrittori che dimostrano come questo modo di insegnare il diritto divino, a Roma non sia mai stato considerato sospetto; e che anche in Francia e in Spagna, dove la monarchia assoluta era molto radicata, questa opinione non era considerata pericolosa per la sicurezza dei re.

Dopo che fu trascorso molto tempo, e non esisteva più quella situazione critica che poteva influire in qualche misura sulle opinioni, i teologi continuavano tuttavia a sostenere le stesse dottrine. Così vediamo che il Cardinale Gotti, che scriveva nei primi anni del secolo scorso, nel suo Trattato delle leggi dà come ammessa da tutti l’opinione che abbiamo riferita, senza neanche preoccuparsi di provarla. Nella Teologia morale di Ermanno Busembaum ampliata da S. Alfonso de’ Liguori, si legge: «È certo che agli uomini è stato dato il potere di emanare le leggi; ma questo potere, per quanto riguarda le leggi civili, per natura non compete a nessuno, ma solo alla comunità degli uomini, che la trasferisce ad uno o a molti affinché governino la stessa comunità» (lib. 1, trattato 2, delle leggi, cap. 1 , dubbio 2, par. 104).

Affinché non si dica che cito solamente teologi gesuiti, e non si sospetti che queste dottrine non siano insegnate che dai casuisti, inserirò alcuni passi importanti di altri teologi che non sono né casuisti né hanno alcuna relazione con i Gesuiti.

Padre Daniello Concina, che scriveva a Roma circa nella metà dell’ultimo secolo, sostiene la stessa dottrina, come comunemente riconosciuta. Nell’edizione stampata nel 1768 a Roma della sua Teologia cristiana dogmatico-morale si esprime in questi termini: «Tutti gli scrittori normalmente fanno derivare da Dio l’origine del potere supremo, come dichiarò Salomone nel libro dei Proverbi: “Per mezzo mio regnano i re e i magistrati emettono giusti decreti” (Prov 8, 15). E in verità, siccome i prìncipi di rango inferiore dipendono da una maestà terrena ad essi superiore, così è necessario che questa dipenda dal supremo Re e Signore dei signori. I teologi

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e i giuristi disquisiscono se questa suprema autorità proviene prossimamente da Dio, o solo remotamente. Molti ritengono che derivi da Dio direttamente, perché non può derivare dagli uomini, che siano essi considerati riuniti in società o individualmente. Perché tutti i padri di famiglia sono uguali, e ognuno di essi ha, all’interno della propria famiglia, soltanto un’autorità amministrativa, per cui non possono conferire ad altri l’autorità civile e politica di cui essi stessi sono privi. Inoltre, se la comunità, in quanto superiore, avesse conferita ad uno o a molti la detta autorità, potrebbe revocarla a suo piacere, perché il superiore è libero di abrogare i poteri conferiti ad altri; e questo sarebbe di grave pregiudizio per la società.

«Altri si esprimono in senso contrario, certamente con maggiore credibilità e correttezza, affermando che è vero che ogni autorità viene da Dio ma, aggiungono, non è data a nessuno in modo diretto, ma mediante il consenso della società civile. Che questa autorità risieda direttamente non in qualcuno in particolare, ma in tutta la comunità degli uomini, lo afferma espressamente S. Tommaso (1-2. qu. 90. art. 3. ad. 2, e qu. 97. art. 3. ad. 3), cui seguono Domenico Soto (lib. 4 .qu. 1. art. 3), Ledesma (2. part. qu.18. art. 3), Covarrubias (in prat. cap. 1). Il motivo è evidente: poiché tutti gli uomini nascono liberi riguardo all’autorità civile, nessuno ha l’autorità civile su di un altro; non risiedendo dunque l’autorità civile né in ciascuno di essi, né in qualcuno in particolare, ne segue che si trova in tutta la comunità. E questa autorità non viene conferita da Dio per mezzo di un atto particolare distinto dalla Creazione, ma è come una proprietà che dipende dalla retta ragione, in quanto questa comanda che gli uomini uniti moralmente in un’unica entità stabiliscano con un loro accordo, tacito o chiaramente espresso, il modo per governare, conservare e difendere la società».

Bisogna osservare che quando P. Concina parla di consenso tacito o chiaramente espresso, non si riferisce all’esistenza stessa della società e dell’autorità che la governa, ma unicamente al modo di esercitare questo potere, per governare, conservare e difendere la società stessa. La sua opinione coincide dunque con quella di Bellarmino: la società e l’autorità sono di diritto divino e naturale: di diritto umano è solo il modo di costituire la prima, e di trasmettere ed esercitare la seconda.

Dopo aver spiegato in qual senso si debba intendere che l’autorità civile viene da Dio, P. Concina passa a sviluppare la questione che si era proposto, sul modo con cui quell’autorità risiede nei re, prìncipi, od altri governanti supremi; e si esprime così: «Da qui consegue che l’autorità che risiede nel principe, nel re, o in più persone, siano esse nobili o plebee, deriva dalla stessa comunità, prossimamente o remotamente; poiché questa potestà non viene direttamente da Dio, perché se così fosse dovremmo saperlo per mezzo di una rivelazione particolare, così come sappiamo che avvenne per Saul e David, i quali furono stabiliti da Dio.

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«Riteniamo quindi infondata l’opinione di coloro che affermano che Dio conferisce direttamente e prossimamente questa autorità al re, al principe, o a qualsivoglia governante supremo, escludendo il tacito o espresso consenso della società; anche se questa disputa riguarda più le parole che i fatti. Questa autorità, infatti,viene da Dio, Autore della natura, in quanto dispose e ordinò che la stessa società, per la sua conservazione e difesa, conferisse ad uno o a molti l’autorità suprema. Fatta poi la designazione della persona o più persone che devono governare, si dice che quest’autorità proviene da Dio in quanto la società medesima è obbligata per diritto naturale e divino ad ubbidire a chi comanda; poiché realmente Dio ha ordinato che la società sia governata da uno, o da molti. In tal modo si conciliano tutte le opinioni e si espongono nel giusto significato le sentenze delle Scritture: “Chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio” (Rom 13, 2); “Poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio” (Rom 13, 1); “Onorate tutti, amate i vostri fratelli, temete Dio, onorate il re” (1 Pt 2, 17); “Tu non avresti nessun potere su di me, se non ti fosse stato dato dall’alto” (Giov 19,11). Queste ed altre simili testimonianze provano con ogni evidenza che Dio, come supremo regolatore di tutte le cose, dispone ed ordina tutto, ma non per questo si escludono le azioni e le opinioni dell’uomo; come saggiamente intendono S. Agostino e S. Giovanni Crisostomo».

Padre Billuart, vissuto prima della metà del secolo scorso, cioè in un’epoca in cui le tradizioni fortemente monarchiche del secolo di Luigi XIV erano ancora in tutto il loro vigore, scriveva su questa materia allo stesso modo dei teologi sopra citati. Nella sua opera teologico-morale, che da circa un secolo è accettata da tutti, si esprime così: «Dico in primo luogo che l’autorità legislativa compete alla comunità o a chi ha cura della comunità stessa ». E dopo avere citato S. Tommaso e Sant’Isidoro soggiunge: «Ciò va dimostrato innanzi tutto con la ragione: il compito di fare le leggi spetta a colui che ha l’obbligo di provvedere al bene comune; perché, come già si è detto, questo bene è il fine delle leggi. Tocca alla comunità o a chi ha cura di essa provvedere al bene comune; ma siccome il bene particolare è un fine proporzionato all’agente particolare, così il bene comune è un fine proporzionato alla comunità o a chi ne fa le veci; dunque fare le leggi è compito di quella o di questo. Quindi si conferma il detto: la legge ha forza di comando e di imposizione; ma nessuno in particolare ha questa forza per comandare alla comunità o per imporsi ad essa, se non essa stessa o quello che la dirige; dunque a questi appartiene l’autorità legislativa».

Dopo queste riflessioni, lo stesso Padre Billuart si pone una difficoltà a causa dell’eccessivo potere che sembra dare ai diritti del popolo, e coglie così l’occasione per sviluppare maggiormente il suo sistema.

«Forse mi si obbietterà – egli dice – che comandare e obbligare è proprio del superiore; cosa che la comunità non può fare non essendo superiore a se stessa. Risponderò facendo una distinzione: la comunità considerata come

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l’insieme di tanti individui non è superiore a se stessa, sono d’accordo; tuttavia lo è se la si considera sotto un certo aspetto. La comunità infatti può essere considerata collettivamente, come un’unità morale, e in questo senso è superiore a se stessa considerata come una pluralità di individui. Inoltre può esser considerata, o come facente le veci di Dio, da cui deriva ogni autorità legislativa secondo il detto dei Proverbi: “Per mezzo mio regnano i re e i magistrati emettono giusti decreti” (Prov 8, 15); o in quanto è destinata ad essere governata avendo come fine il bene comune. Considerata nel primo modo è superiore e fa le leggi; considerata nel secondo è inferiore ed è soggetta alle leggi».

Siccome questa spiegazione potrebbe tuttavia lasciare un po’ d’incertezza, egli si addentra ancor più nell’esaminare l’origine della società e dell’autorità civile per dimostrare come il diritto naturale, il diritto divino e il diritto umano si trovino d’accordo su questo punto; e definisce quindi ciò che appartiene a ciascuno di essi:

«Al fine di capire meglio la questione bisogna osservare che, a differenza degli animali, l’uomo nasce privo di molte cose necessarie al corpo e all’anima, per le quali ha bisogno della compagnia e dell’aiuto degli altri; e di conseguenza egli è per sua stessa natura un animale sociale. Questa società, che la natura e la ragione naturale gli indicano come necessaria, non può sussistere per molto tempo senza l’esistenza di un’autorità che la governi, secondo le parole dei Proverbi: “Senza una direzione un popolo decade” (Prov 11, 14). Ne consegue che Dio, che creò la natura, nello stesso tempo stabilì l’autorità governativa e legislativa; perché chi dà la forma, dà anche tutto ciò che le è necessario. Ma questa autorità legislativa e governativa non può essere facilmente esercitata da tutta la comunità, perché è difficile che tutti e ognuno di quelli che la formano possano riunirsi ogni volta che ci sia da deliberare su qualche questione importante per il bene comune o per emanare delle leggi; e allora, per questo motivo, la comunità usa trasferire il suo diritto, cioè l’autorità governativa, o ad alcuni del popolo presi da tutti i gruppi sociali, e questa si chiama democrazia; o ad un numero limitato di nobili, e vien detta aristocrazia; oppure a una sola persona, o per lui solo, o anche per i suoi discendenti per diritto ereditario, e questa forma di governo è chiamata monarchia. Di qui deriva che ogni autorità viene da Dio, come dice l’Apostolo nella Lettera ai Romani (cfr Rom 13,1). La quale autorità risiede nella comunità direttamente e per diritto naturale; ma nei re e negli altri governanti solo indirettamente e per diritto umano, qualora lo stesso Dio non conferisca direttamente ad alcuni questa autorità, come la conferì a Mosè sul popolo d’Israele, e come Cristo la diede al Sommo Pontefice su tutta la Chiesa».

Ed è significativo che i nostri governi assoluti non si siano messi minimamente in allarme per queste dottrine dei teologi, non soltanto prima della rivoluzione francese, ma neanche dopo la rivoluzione, né per tutto quel tempo che ancora oggi viene chiamata la decade funesta (dal 1823 al 1833:

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ultimo periodo del regno di Ferdinando VII). Si sa che il Compendio Salmaticense in questo periodo in Spagna era in gran voga, e nelle università e nei collegi era il libro di testo per le cattedre di morale. Coloro che si scagliano continuamente contro quell’epoca, dicendo che allora non era consentito insegnare altre dottrine se non quelle che favorivano il più stupido dispotismo, sentano ciò che dice il citato autore, la cui opera era studiata da tutti quei giovani che si consacravano alla vita ecclesiastica. Dopo aver stabilito che tra gli uomini esiste un’autorità civile legislativa, continua così (Compendio Salmaticense): «Domanderai, in secondo luogo, se questa autorità civile il principe la riceva direttamente da Dio. La risposta è la seguente: tutti asseriscono che i prìncipi ricevono questa autorità da Dio; ma per essere più aderenti alla verità si deve dire che essi non la ricevono direttamente, ma indirettamente mediante il consenso del popolo, perché tutti gli uomini sono uguali per natura, e secondo la natura non c’è né superiore né inferiore. E siccome la natura non diede a nessuno un’autorità su un altro, questa autorità Dio l’ha conferita alla comunità, la quale, giudicando che fosse meglio essere governati da una o più determinate persone, la trasferì in una o più persone perché la governassero, come dice San Tommaso (1. 2. qu. 90. art. 3. ad 2).

«Da questo principio naturale nascono le differenze tra le varie forme di governo civile: perché se la comunità ha trasmessa la sua autorità ad una sola persona si parla di governo monarchico; se l’ha assegnata ai nobili della nazione, di governo aristocratico; e se infine la nazione o la comunità l’ha voluta mantenere per sé, questo potere prende il nome di governo democratico. Inoltre, il principe ha ricevuto da Dio l’autorità di comandare perché, una volta eletto dalla comunità, Dio gli ha assegnato questo potere che era nella comunità. Ne consegue che il principe regge e governa in nome di Dio; e che chi gli si oppone, si oppone ai comandi di Dio, come dice l’Apostolo citato sopra». Torna all’indice

CAPITOLO L

Diritto divino. Origine divina dell’autorità civile. Modo con cui Dio assegna questo potere. Rousseau. Patti. Diritto di vita e di morte. Diritto di guerra. Necessità che l’autorità derivi da Dio. Puffendorf. Hobbes.

_______________ Considerando la dottrina del diritto divino nei suoi rapporti con la società

bisogna distinguere i due punti principali che li riguarda: l’origine divina dell’autorità civile, e il modo con cui Dio comunica questa autorità.

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Il primo punto riguarda la dottrina, e per nessun Cattolico è lecito metterlo in dubbio; il secondo è soggetto a disputa e, salva la fede, le opinioni possono esser diverse.

Riguardo al diritto divino considerato in se stesso, il Cattolicesimo è d’accordo con la buona filosofia. Infatti se l’autorità civile non viene da Dio, quale origine le si potrà attribuire? Su quale principio inconfutabile si potrà fondare? Se l’autorità esercitata dall’uomo non è legittimata da Dio, tutte le ragioni di questo mondo saranno insufficienti a giustificare il suo diritto: tale diritto sarà del tutto nullo, di una nullità assoluta. Se invece si ammette che l’autorità viene da Dio, allora si comprenderà facilmente il dovere di sottomettersi ad essa; e questa sottomissione non offende affatto la nostra dignità. Nel caso contrario invece vedremo nell’autorità la forza, l’astuzia e la tirannia; niente apparirà secondo ragione né secondo giustizia; si riconoscerà forse la necessità di sottomettersi, ma mai l’obbligo morale. Infatti: con quale titolo pretende un altro uomo di comandarci? Forse per superiorità d’intelletto? E chi ha deciso questo confronto e ha stabilito questa superiorità? Ma anche ammesso, questa superiorità non fonda un diritto: in certi casi la sua guida potrà esserci utile, ma obbligatoria mai. Forse allora perché è più forte di noi? In tal caso il re di tutta la terra dovrebbe essere l’elefante. In quanto è più ricco? La ragione e la giustizia non stanno nel metallo: nudo nacque il ricco, e quando finirà nel sepolcro non si porterà dietro le sue ricchezze. Sulla terra gli saranno pur servite come mezzo per acquistare il potere, ma non come titolo per legittimarlo. Pretenderà infine di comandarci grazie alla facoltà concessagli da altri uomini? E chi costituì costoro nostri rappresentanti? E dov’è il loro accordo? E chi ne raccolse i voti? E abbiamo noi, e hanno loro stessi, quella sublime prerogativa cui compete l’esercizio dell’autorità civile? Se noi non l’abbiamo, come possiamo delegarla?

Una risposta ci viene dalla dottrina che cerca l’origine del potere nella volontà degli uomini, individuandola nella conseguenza di un accordo al quale essi sono giunti, accordo in base al quale hanno acconsentito a rinunciare ad una parte della loro libertà naturale per godere dei benefìci concessi dalla società. In questo sistema i diritti dell’autorità civile, come anche i doveri del suddito, hanno per unico fondamento un patto che non si differenzia dai comuni contratti se non per la natura e l’ampiezza dell’oggetto, derivando il potere da Dio soltanto in senso generale, in quanto cioè da Lui derivano tutti i diritti e tutti i doveri.

Coloro che hanno spiegato in questo modo l’origine del potere non sempre si sono trovati d’accordo con Rousseau: il contratto del filosofo di Ginevra non ha nulla a che far col patto a cui quelli si riferiscono. Non è questo il luogo adatto per fare un confronto tra la dottrina di Rousseau e quella dei suddetti scrittori: basti rammentare che questi, riferendosi al patto, intendevano stabilire i diritti dell’autorità civile come finora li ha intesi il comune buonsenso degli uomini; mentre invece l’autore del Contratto sociale

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si proponeva di risolvere il seguente problema, che egli chiama fondamentale: «Trovare una forma di associazione che difenda e protegga la persona e i beni di ogni associato con tutte le forze riunite, e per mezzo della quale ciascuno unendosi a tutti non ubbidisca tuttavia che a se stesso, e resti libero come prima». Questo è il problema fondamentale di cui il Contratto sociale dà la soluzione. Questo guazzabuglio di non ubbidire che a se stesso, di aver pattuito e rimanere libero come prima, non ha bisogno di commenti, soprattutto se si tiene conto che, come dice l’autore nel successivo rigo, «le clausole di questo contratto sono talmente definite dalla natura dell’atto, che la più piccola modifica le renderebbe vane e di nessun effetto» (Lib. 1. cap. 6).

Il fine di Rousseau allora non era lo stesso degli altri scrittori che hanno parlato di un patto per spiegare l’origine dell’autorità. Mentre questi si proponevano di elaborare una teoria che ne giustificasse l’origine, Rousseau tentava di distruggere quanto già esisteva, e di appiccare l’incendio a tutta la società. Colui che ebbe la stravagante idea di presentarci il filosofo di Ginevra nella tomba del Panteon con la porta socchiusa da cui sporgeva fuori la mano con una torcia accesa, forse ideò un simbolo più significativo e più vero di quanto egli stesso avesse immaginato. È chiaro che l’artista intendeva esprimere che Rousseau illuminava il mondo anche dopo la sua morte; avrebbe però dovuto ricordarsi che il fuoco rappresenta anche l’incendiario. Non a caso La Harpe aveva detto: la sua parola è fuoco, ma un fuoco devastatore» (Sa parole est un feu, mais un feu qui ravage).

Per tornare in argomento, farò notare che la dottrina del patto non può giustificare la stabilità del potere in quanto non è idonea a legittimarne l’origine e l’autorità. Innanzi tutto è evidente che il patto esplicito non è mai esistito, e che anche volendolo supporre nel caso ipotetico di una piccola società, non ha potuto ottenere il consenso di tutti gl’individui. Si presume infatti che in una simile situazione gli unici a partecipare all’accordo sarebbero i capi-famiglia, cosa che comporterebbe le lamentele delle donne, dei figli e dei subalterni. Con qual diritto i padri patteggerebbero in nome di tutta la loro famiglia? La volontà di questa, si obietterà, è implicitamente in quella del suo capo. Ma questo è da dimostrare: supporlo è facile; provarlo, un po’ meno. Prima si vuole cercare l’origine dell’autorità tra i princìpi di rigoroso diritto, e si sostiene che questo non è altro che un caso particolare di contratto a cui si debbano applicare le regole generali dei contratti; e poi trovando fin dal primo momento una grave difficoltà si decide di ricorrere ad una finzione per superarla? Perché nient’altro che una finzione è quella che si compie quando si parla di consenso implicito. E con questo sistema non sarà mai possibile liberarsi da una tale finzione; se il consenso delle famiglie è implicito anche quando è esplicito quello dei capi (cosa del tutto impossibile se si tratta di una società di una certa importanza), dovrà essere implicito anche il consenso delle generazioni future, perché il patto potrà essere rinnovato in ogni momento consultando la volontà di coloro che sono

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coinvolti nei suoi effetti. La ragione e la storia c’insegnano che nessuna società si è mai formata in questo modo; l’esperienza ci dice che le società attuali non si salvaguardano e non si governano con questo principio. A che serve allora una dottrina inapplicabile? Quando una teoria ha uno scopo pratico, il miglior modo per convincersi che è senza fondamento è quello di dimostrare la sua impraticabilità.

I poteri di cui si è sempre ritenuta dotata l’autorità civile sono di tale natura che non possono derivare da un patto. Il diritto di vita e di morte non può provenire che da Dio; perché l’uomo non ha questo diritto; e un potere di cui egli è privo, sia riguardo a se stesso che agli altri, non può provenire da alcun patto. Cercherò di chiarire questo punto importante esponendo i concetti con la maggior precisione possibile. Se il diritto di dare la morte non è derivato da Dio, ma da un patto, si dovrà supporre che ciò sia avvenuto nella seguente maniera. Ogni appartenente alla società deve aver detto, espressamente o tacitamente: «Io convengo che si facciano leggi con le quali si decreti la pena di morte per certe azioni; e se dovessi contravvenire a tali leggi acconsento, adesso per allora, che mi si tolga la vita». In questo modo tutti gli appartenenti alla società si saranno impegnati a cedere la loro vita qualora si dovessero verificare le debite circostanze; ma siccome nessuno di essi può reclamare un diritto sulla propria vita, la rinuncia è completamente nulla. La somma dei consensi di tutti gli appartenenti non ha alcuna influenza sulla nullità assoluta ed essenziale per ciascuno di loro: dunque la somma di queste rinunce alla propria vita è ugualmente nulla, e perciò è incapace di produrre diritti di alcun genere. Si dirà forse che l’uomo non ha diritti sulla propria vita se si parla di diritti arbitrari, ma quando si tratta di disporne a proprio vantaggio, il principio generale può essere limitato. Questa riflessione, che a prima vista potrebbe sembrare plausibile, conduce ad una conseguenza atroce, a legittimare cioè il suicidio. Si replicherà che il suicidio non reca vantaggio a chi lo commette, ma se viene accordato all’individuo il diritto sulla propria vita quando ne risulti un vantaggio, nessuno può ergersi a giudice se in un caso particolare questo vantaggio sia effettivo o no. Ma questo allora significa che, secondo chi fa questa obiezione, uno ha diritto di cedere la propria vita nel caso, per esempio, che per soddisfare i propri bisogni o i propri piaceri, si impossessasse della proprietà di un altro; cioè che egli è il giudice tra il vantaggio di conservare la propria vita e quello di soddisfare un desiderio. Cosa risponderà l’obiettore allora quando quello gli dirà che preferisce la morte alla tristezza, alla noia, all’afflizione o ad altri mali che lo tormentano?

Il diritto di vita e di morte non può dunque derivare da un patto. L’uomo non è padrone della propria vita, ma la tiene solamente in usufrutto finché il Creatore vuole conservargliela; dunque non ha la facoltà di cederla, e qualunque patto egli faccia con questo fine, è nullo. In certi casi è lecito, degno di lode e di gloria, e a volte anche doveroso, andare incontro ad una

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morte sicura; ma non bisogna confonder le cose, perché in questi casi l’uomo non cede la propria vita come padrone di essa, ma come vittima volontaria che si consacra alla salvezza della patria o al bene dell’umanità. Il soldato che dà l’assalto alle mura di una fortezza, l’uomo caritatevole che rischia il contagio per curare gli infermi, il missionario che sfida il pericolo in terre inesplorate, che vive in climi malsani e s’inoltra in foreste inaccessibili per venire a contatto con popoli selvaggi, non dispongono della loro vita come padroni, ma la sacrificano per un’opera grande, sublime, giusta e gradita a Dio. Perché Dio ama la virtù, e più ancora la virtù eroica; e morire per la patria, per soccorrere gli sventurati, e per portare la luce della verità ai popoli immersi nelle tenebre e nelle ombre della morte, è virtù eroica.

Alcuni forse pretenderanno di fondare il diritto di vita e di morte sul diritto naturale di difesa che ha la società, e di cui l’autorità civile è sempre stata ritenuta investita. Ogni individuo, si dirà, può togliere la vita ad un altro per difendere la propria; dunque può farlo anche la società. Nel trattare il tema dell’intolleranza, toccai questo punto di sfuggita facendo alcune riflessioni. Riflessioni che ora dovrò ripetere cercando di ampliarle e consolidarle con un altro genere di argomenti.

Innanzi tutto concordo sul fatto che il diritto di difesa può generare nella società il diritto di dare la morte. Se un individuo assalito da un altro può lecitamente respingerlo, ed anche ucciderlo se necessario per salvare la propria vita, è evidente che un gruppo di uomini avrà lo stesso diritto. La cosa è tanto chiara che non c’è bisogno di dimostrarla. Una società assalita da un’altra ha il diritto incontestabile di resisterle e di respingerla, e la combatte giustamente; a maggior ragione potrà opporsi all’individuo, combatterlo e ucciderlo. Tutto questo è verissimo e chiarissimo; e sono d’accordo che nella stessa natura delle cose si trova una ragione sulla quale poter fondare il diritto di dare la morte.

Ma sebbene questo concetto sia conforme alla ragione, e a prima vista può sembrare che i motivi per i quali ritenevo necessario far risalire a Dio l’origine di questo straordinario diritto non abbiano più alcun valore, esaminato però a fondo il concetto è ben lontane dall’apparire tanto soddisfacente. E si può anche aggiungere che secondo come lo si intende e secondo come lo si applica, può finire col sovvertire i princìpi riconosciuti in ogni società. Infatti, se si ammette una teoria, se si fa poggiare esclusivamente su di essa il diritto di dar la morte, spariscono subito le idee di punizione, di castigo e di giustizia umana. Si è sempre creduto che quando il reo muore sul patibolo, sconta una pena, e sebbene sia certo che in questo terribile fatto si sia sempre visto il soddisfacimento di una necessità sociale e un mezzo di salvaguardia, ciò nonostante l’idea principale e dominante, quella che si eleva sulle altre, quella che maggiormente giustifica e discolpa la società, che dà al giudice un carattere sacrale, che imprime una macchia al reo, è l’idea del castigo, della punizione, della giustizia. Ma tutto questo si dilegua e si annulla nel momento

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in cui noi diciamo che la società, togliendo la vita, non fa che difendersi: l’atto sarà conforme alla ragione, sarà giusto; ma non meriterà il nobile titolo di amministrazione della giustizia. L’uomo che respinge l’assassino, o l’uccide, fa un atto giusto, ma non amministra la giustizia, non applica una punizione, e non castiga. Queste sono cose fra loro molto differenti e di un genere del tutto diverso, e non possono confondersi senza urtare il buon senso dell’uomo.

Spieghiamo meglio questa differenza, facendo sì che i due casi parlino per bocca del giudice: la differenza è notevole. Nel primo caso il giudice dice al reo: «Tu sei colpevole; la legge ti decreta la pena di morte; io, ministro della giustizia, te la prescrivo; il carnefice sia incaricato dell’esecuzione». Nel secondo invece gli dice: «Tu hai attaccato la società; questa non può mantenersi se tollera simili attacchi; quindi essa si difende, e perciò ti arresta e ti uccide; io, che la rappresento, dichiaro che è venuto il momento di questa difesa, e perciò ti consegno nelle mani del carnefice». Nella prima ipotesi il giudice è un sacerdote della giustizia, e il giustiziato un reo che sconta il giusto castigo; nella seconda il giudice è uno strumento della forza, e il giustiziato è una vittima.

«Ma – si dirà – il reo resta sempre reo e meritevole della punizione che sconta». Questo è vero in quanto alla colpevolezza, ma non in quanto alla punizione. La colpa esiste agli occhi di Dio ed anche agli occhi degli uomini, in quanto essi hanno una coscienza che giudica della moralità delle azioni. Ma non come giudici; perché dal momento che uno è investito di questa funzione, già fa qualcosa di più che difendere la società, e di conseguenza cambiano i termini della questione.

Da ciò che abbiamo stabilito fin qui consegue che il diritto di imporre la pena di morte non può derivare che da Dio; e di conseguenza, anche se non vi fosse altra ragione per cercare in lui l’origine del potere, basterebbe questa. La guerra contro una nazione assalitrice può essere giustificata dal diritto di difesa; anche per la guerra d’invasione si può applicare lo stesso principio, perché, se è giusta, verrà fatta per esigere una riparazione o un compenso che il nemico si sarà rifiutato di dare; e la guerra per motivi di alleanza rientra nel genere di azioni che si compiono per soccorrere un amico. Per cui tutto ciò che riguarda la guerra, con tutta la sua grandezza e con tutte le sue devastazioni, non ci obbliga a ricorrere all’origine divina tanto quanto il semplice diritto di mandare un uomo al patibolo. Sicuramente in Dio si trova anche la conferma delle guerre legittime, perché in Lui risiede la conferma di tutti i diritti e di tutti i doveri; ma per lo meno non c’è bisogno di un’autorizzazione particolare come invece c’è per prescrivere la pena di morte. Perché è sufficiente la regola generale che Dio, in quanto Autore della natura, ha dato a tutti i diritti e i doveri naturali.

E come sappiamo che Dio ha dato agli uomini una simile autorizzazione? A questa domanda si possono dare tre risposte. 1 - Per i Cristiani basta la testimonianza della Sacra Scrittura. 2 - Il diritto di vita e di morte è una

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tradizione universale del genere umano, dunque esiste realmente; e siccome abbiamo dimostrato che la sua origine non si può trovare che in Dio, dobbiamo supporre che Dio l’ha comunicata agli uomini in modi diversi. 3 - Questo diritto è necessario per la salvaguardia della società, dunque Dio glielo ha dato perché se Egli vuole la conservazione di un essere, a questo essere avrà anche concesso tutto il necessario per conservarsi.

Riepiloghiamo quanto è stato detto fin qui. La Chiesa insegna che l’autorità civile viene da Dio: e questa dottrina è d’accordo con i testi della Sacra Scrittura e con la stessa ragione naturale. La Chiesa si limita a stabilire questo dogma traendo la conseguenza diretta che ne risulta; cioè che l’ubbidienza alle autorità legittime è di diritto divino.

In quanto al modo con cui questo diritto divino si comunica alla potestà civile, la Chiesa non ha determinato niente; e l’opinione comune dei teologi è che la società lo riceva da Dio, e che dalla società passa alla persona o persone che l’esercitano attraverso mezzi legittimi.

Perché l’autorità civile possa esigere l’obbedienza, e perché si possa supporre che essa sia investita di questo diritto divino, è necessario che sia legittima; cioè, che la persona o le persone che la posseggono l’abbiano acquisita legittimamente, o che dopo averla acquisita si sia legittimata in loro attraverso mezzi riconosciuti conformi al diritto. In quanto alle forme di governo la Chiesa non ha determinato nulla; e in qualunque di queste forme il potere civile deve mantenersi entro i limiti legittimi; come pure il suddito è da parte sua obbligato ad ubbidire.

L’adeguatezza e legittimità di questa o quella persona, di questa o quella forma di governo, non sono cose comprese nella sfera del diritto divino; sono questioni particolari che dipendono da mille circostanze, per cui nulla può essere detto in un’esposizione generale della materia.

Un esempio del diritto privato renderà chiaro ciò che stiamo dicendo. Il rispetto per la proprietà è di diritto naturale e divino; ma l’appartenenza di questa o di quella proprietà, i diritti che sulla proprietà stessa possono vantare persone diverse, le restrizioni a cui debba andar soggetta, sono questioni di diritto civile che sono state sempre risolte, e si risolveranno sempre, in maniere diversissime. Quello che è necessario è salvare il principio basilare della proprietà, fondamento vitale in ogni organizzazione sociale; ma le applicazioni vanno, e devono andare, necessariamente soggette alla variabilità delle circostanze e dei fatti che dipendono dall’andamento delle vicende umane. La stessa cosa succede col potere: la Chiesa, custode del grande deposito delle verità più importanti, lo è anche di quella che assicura un’origine divina all’autorità civile facendo risalire al diritto divino l’esistenza della legge; ma non s’intromette nei casi particolari, che risentono sempre, molto o poco, della variabilità e dell’incertezza in cui si agita il mondo.

Spiegata in questo modo la dottrina cattolica non si oppone per nulla alla vera libertà, tutela l’autorità e non pregiudica le questioni che possono sorgere

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tra i governanti e i governati. Nessuna autorità illegittima può appoggiarsi al diritto divino, perché per l’applicazione di un tale diritto è necessaria la legittimità. Questa viene determinata e dichiarata dalle leggi di ciascun paese, per cui risulta che l’interprete del diritto divino è la legge. Questo diritto non consolida se non ciò che è giusto; e non c’è dubbio che non si può accusare di tendere al dispotismo chi garantisce la giustizia nel mondo; perché non c’è cosa più contraria alla libertà e alla felicità dei popoli quanto la mancanza della giustizia e della legittimità.

La libertà di un popolo non corre pericolo alcuno dal fatto che gli attestati di legittimità dell’autorità che lo governa siano ben garantiti. Viceversa, la ragione, la storia e l’esperienza c’insegnano che tutti i poteri illegittimi sono tirannici. L’illegittimità porta necessariamente con sé la debolezza; i poteri oppressori non sono forti, ma deboli. La vera tirannia consiste in questo, che il governante cerca i propri interessi e non quelli della comunità; ed è proprio ciò che accade quando, sentendosi debole e vacillante, si vede obbligato a cercare di conservarsi e di rinforzarsi. Allora non ha per scopo l’interesse della società, ma di sé stesso; e quando agisce su di essa, invece di badare al bene che può recare ai sudditi, calcola prima il vantaggio che può ricavare dalle proprie disposizioni.

Ho detto in un’altra parte e lo ripeto qui: percorrendo la storia troviamo scritta dappertutto a caratteri di sangue questa importante verità: Guai ai popoli che sono governati da un’autorità che deve preoccuparsi della propria sicurezza! Verità fondamentale nella scienza politica, che tuttavia è stata deplorevolmente dimenticata nei tempi moderni. Si è fatto moltissimo, e tuttora si fa, per garantire la libertà; ma a tal fine sono stati rovesciati tanti governi, e si è fatto in modo d’indebolirli tutti, senza pensare che questo era il mezzo più sicuro per introdurre l’oppressione. Che importano i veli di cui si copre il dispotismo, e le forme con cui tenta di dare meno nell’occhio? La storia, che in silenzio va annotando gli attentati commessi in Europa da mezzo secolo a questa parte (la vera storia, dico, non quella che è stata scritta dagli autori di quegli attentati, dai complici, o da coloro che ne traggono profitto), racconterà ai posteri le ingiustizie e i delitti commessi in mezzo alle discordie civili dai governi illegittimi che vedevano approssimarsi la loro fine e sentivano l’estrema debolezza in cui si trovavano a motivo della condotta tirannica e della loro origine illegittima.

Cosa è avvenuto perché si dichiarasse una guerra così spietata alle dottrine che assicurano la stabilità dell’autorità civile rendendola legittima, e giustificano questa legittimità col dichiararla proveniente da Dio? Come si è potuto dimenticare che la legittimità del potere è un elemento indispensabile per la sua forza, e che questa forza è garanzia di sicurezza per la vera libertà? Non si dica che questi sono paradossi, perché non lo sono. Qual è lo scopo dell’istituzione delle società e dei governi? Non si tratta forse di far prevalere la forza pubblica su quella privata, stabilendo così la supremazia del diritto sul

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fatto? Dal momento in cui ci si accinge a indebolire l’autorità, a renderla oggetto di avversione o di diffidenza agli occhi del popolo, facendola apparire come un nemico naturale; dal momento in cui vengono ridicolizzati i sacri titoli su cui si fonda l’ubbidienza dovuta all’autorità; da quel momento viene attaccato lo stesso scopo per cui è stata costituita la società. E viene inoltre indebolita l’azione della forza pubblica a vantaggio di quella privata , che è proprio ciò che si voleva impedire per mezzo dell’autorità conferita al governo.

Il segreto dell’amabilità della monarchia europea risiedeva in gran parte nella stessa forza e sicurezza fondate sulla nobiltà e legittimità dei suoi titoli, allo stesso modo che una delle ragioni del mostruoso dispotismo degli imperatori romani e dei sovrani orientali consisteva nei pericoli legati al possesso di quei troni. Non ho alcun timore di affermare (e nel corso dell’opera lo ribadirò con forza) che una delle cause delle sventure subite dall’Europa nella difficile soluzione del problema di conciliare l’ordine con la libertà, sta nell’aver trascurato le dottrine cattoliche su questo particolare: esse sono state condannate senza che fossero comprese, e senza che fosse fatto alcun tentativo per cercare di capire in cosa consistessero; e i nemici della Chiesa hanno agito tutti allo stesso modo senza che a qualcuno venisse l’idea di ricorrere alle fonti originarie dove sarebbe stato facile recuperare la verità.

Il Protestantesimo, deviando dall’insegnamento cattolico, è andato a cozzare contro due scogli opposti: quando ha voluto stabilire l’ordine, lo ha fatto opponendosi alla vera libertà; e quando ha voluto sostenere la libertà, è diventato nemico dell’ordine. Dal seno della falsa riforma uscirono le insensate dottrine che, predicando la libertà cristiana, esentavano i sudditi dall’obbligo di ubbidire alle autorità legittime; dal seno della stessa riforma uscì anche la teoria di Hobbes che innalza il dispotismo sulla società come un idolo mostruoso al quale tutto debba sacrificarsi senza alcun riguardo per gli eterni princìpi della morale, senza altra regola che il capriccio di chi comanda, senza altro limite al suo potere, al di fuori di quello che gli viene indicato dall’entità della sua forza. Questa è la conseguenza alla quale si è inevitabilmente giunti per aver bandita dal mondo l’autorità di Dio: l’uomo abbandonato a se stesso non riesce a produrre altro che schiavitù o anarchia, cioè il fatto stesso sotto le diverse forme, cioè l’impero della forza.

Nello spiegare l’origine della società e dell’autorità, vari studiosi moderni hanno parlato molto di un certo stato naturale anteriore a tutte le società, supponendo che queste si siano formate per mezzo di una lenta trasformazione dallo stato selvaggio a quello della civiltà. Questa dottrina erronea ha radici più profonde di quanto s’immagini. Se si analizza bene la questione, l’origine del pervertimento delle idee verrà trovato nella decisione di ignorare l’insegnamento cristiano. Hobbes fa derivare ogni diritto da un patto. Secondo lui, quando gli uomini vivono nello stato naturale, tutti hanno diritto a tutto; la qual cosa in altri termini significa che non vi è differenza alcuna tra il bene e il

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male. Ne deriva che alla formazione delle società non ha presieduto nessuna specie di moralità, e che le stesse non devono essere considerate se non come un mezzo utile per arrivare ad un fine.

Puffendorf e altri, adottando il principio della socialità, facendo cioè derivare dalla società le regole della morale, cadono in ultima analisi nel principio di Hobbes, mettendo sotto i piedi la legge naturale e quella divina. Riflettendo sulle cause di tanti errori noi le troviamo nel deplorevole capriccio, che ha dominato negli ultimi secoli, di non fare tesoro, nelle discussioni filosofiche e morali, del grande patrimonio di insegnamenti che in tutti i campi impartisce la religione, la quale con i suoi dogmi fissa i punti cardinali di ogni vera filosofia, e con le sue esposizioni presenta l’unica guida sicura per sbrogliare il caos dei tempi antichi.

Leggete gli studiosi protestanti di diritto pubblico e confrontateli con gli scrittori cattolici: ci troverete una notevole differenza. Questi ragionano, lasciano ampia libertà al discorso e fanno emergere l’ingegno, ma conservano sempre intatti certi princìpi fondamentali; e quando vedono che una teoria non si può conciliare con essi, inesorabilmente la rigettano come falsa. Quelli invece vanno vagando senza orientamenti e senza guida per l’immenso spazio delle opinioni umane, e ci presentano una viva immagine della filosofia pagana, la quale (non essendo illuminata dalla luce della fede, ben lontana com’era dal distinguere un Dio creatore e ordinatore che come Padre amorevole ha a cuore la felicità degli esseri che ha creato dal nulla), nell’andare in cerca del principio delle cose non riusciva a scoprire che il caos, sia nel mondo fisico che in quello sociale. Questo stato di degradazione e di stupida brutalità, che hanno voluto mascherare col nome di natura, in realtà non è altro che il caos applicato alla società; caos che troverete in gran quantità nei moderni studiosi di diritto pubblico non cattolici, e che per una sorprendente coincidenza, che dà lo spunto alle più gravi riflessioni, si trova altresì nei più famosi scrittori della cultura pagana.

Dal momento che si perdono di vista le grandi tradizioni del genere umano, tradizioni che ci mostrano come l’uomo abbia ricevuto da Dio l’intelligenza, la parola e il modo di governarsi in questa vita; dal momento che si rifiuta la narrazione di Mosè: la semplice, la sublime, l’unica vera spiegazione dell’origine dell’uomo e della società; le idee si confondono, i fatti s’ingarbugliano, un’assurdità tira l’altra, e chi indaga senza voler tener conto di queste cose subisce il degno castigo della sua superbia come avvenne per gli antichi costruttori della torre di Babele.

Cosa mirabile! L’antichità che, priva della luce del Cristianesimo e perduta nel labirinto delle fantasie umane, aveva quasi dimenticata la tradizione primordiale sull’origine della società, richiamandosi all’assurda trasformazione dallo stato selvaggio a quello civile; quando si trattava di costituire una nuova società invocava sempre quello stesso diritto divino che certi moderni filosofi hanno considerato con tanto disprezzo. I più famosi

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legislatori si preoccupavano di fondare sull’autorità divina le leggi che davano ai popoli, e tributavano così un solenne omaggio alla verità stabilita dai Cattolici, che ogni potere, per essere considerato legittimo ed esercitare la dovuta autorità, è necessario che faccia discendere i suoi diritti da Dio.

Volete che i legislatori non si trovino nella triste necessità di fingere rivelazioni che non hanno ricevuto, e che non si faccia intervenire continuamente in modo straordinario Dio negli affari umani? Stabilite il principio generale che ogni autorità legittima viene da Dio, che l’Autore della natura è anche l’Autore della società, che l’esistenza di questa società è un precetto imposto al genere umano per la propria conservazione; fate in modo che l’orgoglio non si senta ferito dalla sottomissione e dall’ubbidienza; presentate chi governa come persona investita da un’autorità superiore, in modo che il sottomettersi a questa persona non comporti alcuna umiliazione. In una parola: stabilite la dottrina cattolica; e allora qualunque sia la forma di governo, avrete una solida base su cui fondare il rispetto dovuto alle autorità, e avrete eretto l’edificio sociale su fondamenta certamente più stabili delle convenzioni umane. Esaminate il diritto divino tal quale ve l’ho presentato sui pareri di celebri teologi, e sono sicuro che non potrete fare a meno di accettarlo come perfettamente conforme ai lumi di una sana filosofia. Che se vi ostinate a dargli un senso strano che in sé non ha, se credete che debba spiegarsi in altra maniera, esigerò da voi una cosa che non potrete negarmi: presentatemi un testo della Sacra Scrittura, una testimonianza della Tradizione tenuta per articolo di fede nella Chiesa cattolica, una decisione dei Concili o dei Papi, la quale dimostri che la vostra interpretazione è fondata. Fino ad allora io avrò il diritto di dirvi che per la smania che avete di rendere odioso il Cattolicesimo, gli addebitate dottrine che non professa, gli attribuite dogmi che non conosce, e perciò non lo combattete da avversari leali e sinceri, perché mettete mano ad armi che non sono legittime (2). Torna all’indice

CAPITOLO LI

Conferimento indiretto o diretto dell’autorità civile. Sotto certi aspetti la differenza tra queste opinioni può essere importante, sotto altri no. Perché i teologi cattolici sostennero con forza il conferimento indiretto dell’autorità civile.

_______________ La diversità delle opinioni sul modo con cui Dio conferisce l’autorità

civile, per quanto sia importante in teoria, nella pratica non lo è altrettanto. Come abbiamo già visto, alcuni sostengono che Dio conferisca questa autorità indirettamente, altri direttamente. Secondo i primi, quando la società sceglie le persone che dovranno esercitare l’autorità civile, essa non solo le designa, cioè pone la condizione necessaria per il conferimento del potere, ma

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conferisce di fatto questo potere, avendolo essa precedentemente ricevuto da Dio stesso. Secondo gli altri invece, la società non fa altro che designare, e mediante la designazione Dio conferisce l’autorità direttamente alla persona designata. Ripeto: in pratica non c’è alcuna differenza. E forse anche in teoria la differenza non è poi tanta quanto a prima vista potrebbe sembrare. Dimostrerò questo fatto sottoponendo le due opinioni ad un’analisi rigorosa.

La spiegazione che dànno i sostenitori delle due scuole sull’origine divina dell’autorità, si può ridurre ai seguenti termini. Secondo gli uni Dio dice: «O società, per la tua conservazione e perché tu sii felice, ci vuole un governo. Scegli dunque per vie legittime la forma con cui deve essere esercitato e designa le persone che se ne debbano far carico, ed Io conferirò loro le facoltà necessarie per conseguire il fine». Secondo gli altri Dio invece dice: «O società, per la tua conservazione, e perché tu sii felice, ci vuole un governo. Io ti conferisco le facoltà necessarie per conseguire questo fine; ora scegli tu stessa la forma con cui debba essere esercitato e, designando le persone che se ne debbano far carico, trasmetti loro queste facoltà che io ti ho conferito».

Per convincersi dell’identità dei risultati a cui le due formule conducono, esaminiamole nella relazione che hanno: 1 - con la santità dell’origine; 2 - con i diritti e doveri del potere; 3 - con i diritti e doveri dei sudditi.

Che Dio abbia conferito l’autorità alla società, perché la trasmettesse alle persone che dovranno esercitarla; oppure che le abbia conferito solamente il diritto di determinare la forma e di designare le persone incaricate ad esercitate i diritti annessi all’autorità suprema, ne risulta comunque che questa, per poter esistere, deve essere derivata da Dio; e sarà in ogni caso sacra, anche supponendo che venga conferita indirettamente attraverso un mezzo stabilito dallo stesso Dio.

Chiarirò questo concetto con un esempio semplicissimo e facile da comprendere. Si supponga che in uno Stato vi sia una certa comunità che, istituita dal sovrano, non abbia altri diritti che quelli che il sovrano le concede, né altri doveri al di fuori di quelli imposti dallo stesso sovrano. Supponiamo, in altre parole, che la comunità sia debitrice al sovrano di ciò che è, e di ciò che ha. Questa comunità, per piccola che sia, avrà bisogno di un governo, il quale potrà essere formato in due maniere: o il sovrano, che ha disposto le norme per questo governo, concede alla comunità il diritto di governarsi e di trasmetterne l’autorità alla persona o alle persone secondo le proprie preferenze; oppure il sovrano stabilisce che la stessa comunità determini la forma di governo e designi le persone, precisando che, fatta la determinazione della forma di governo e la designazione delle persone, s’intenderà che per questo semplice atto il sovrano accorda alle persone designate il diritto di esercitare le loro funzioni entro i legittimi confini. È evidente che il risultato è lo stesso; infatti: non è forse vero che sia in un caso che nell’altro le facoltà del governante saranno considerate e rispettate come una derivazione dell’autorità del sovrano? Non è forse vero che a mala pena si potrebbe

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trovare la minima differenza tra le due modalità di investitura? In ambedue le ipotesi la comunità avrebbe il diritto di determinare la forma e di designare la persona; in ambedue le ipotesi il governante non otterrebbe le sue facoltà se prima non fossero avvenute questa determinazione e questa designazione; in ambedue le ipotesi non ci sarebbe bisogno di una seconda conferma da parte del sovrano che faccia intendere che la persona nominata è stata delegata di tutte le facoltà corrispondenti all’esercizio delle sue funzioni. Nella pratica dunque non c’è nessuna differenza. E aggiungo che anche nella pura teoria è ben difficile stabilire in cosa differisca un caso dall’altro.

Soltanto se analizziamo la questione alla luce di una metafisica minuziosa potremo concepire questa differenza e considerare l’entità morale che chiamiamo autorità, non per quello che è in sé e nei suoi risvolti legali, ma come un qualcosa di astratto che passa da una mano all’altra come avviene per gli oggetti materiali. Ma se esaminiamo la questione, non per la curiosità di sapere se questa entità morale prima di arrivare ad una persona sia precedentemente passata per un’altra, ma soltanto per verificarne l’origine, quali sono le facoltà che concede, e quali i diritti che impone, allora ci renderemo conto che dire: «Ti conferisco questa facoltà, trasmettila a chi vuoi e nel modo che vuoi»; è lo stesso che dire: «Alla persona che tu vuoi, e nella forma che vuoi, verrà concessa da me una tale o talaltra facoltà con il semplice atto della tua designazione».

Ne deriva che, sia che si condivida il parere del conferimento diretto, che di quello indiretto, i supremi diritti dei monarchi ereditari, di quelli elettivi, e in generale di tutte le autorità supreme, qualunque ne sia la forma di governo, non saranno meno sacri e meno confermati dall’autorità divina. La differenza delle forme non diminuisce per niente l’obbligo di sottomettersi all’autorità civile legittimamente stabilita; per cui si opporrebbe alla volontà di Dio tanto chi si rifiutasse di obbedire al presidente di una repubblica in un paese ove questa fosse la forma legittima di governo, quanto chi lo facesse nei confronti del sovrano più assoluto. Bossuet, pur essendo tanto legato alla monarchia, e vivendo in un paese e in un’epoca in cui il re poteva dire: «Lo Stato sono io», ciò nonostante nel comporre un trattato di Politica ricavata dalle parole della Sacra Scrittura, stabilì in modo chiaro ed esplicito che «è un dovere quello di aderire alla forma di governo stabilita nel proprio paese». E più in là, dopo aver citato le parole dell’Apostolo S. Paolo nella lettera ai Romani: «Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono si attireranno addosso la condanna» ( Rom 13, 1-2), continua così: «Non vi è forma di governo, né realtà umana, che non abbia i suoi problemi; pertanto è conveniente restare comunque nella condizione in cui un popolo è assuefatto da lungo tempo: per questo Dio prende sotto la Sua protezione tutti i governi

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legittimi, qualunque ne sia la forma; e chi intende rovesciarli, non solo è nemico pubblico, ma è anche nemico di Dio» (Lib. 2 propos. 12).

Qualunque sia il modo, dunque, d’intendere il conferimento dell’autorità, che sia cioè avvenuto indirettamente o direttamente, non fa venir meno l’obbligo del rispetto e dell’obbedienza che le è dovuta, e quindi resta sempre effettiva la santità della sua origine qualunque sia l’opinione seguita. La stessa cosa accade riguardo ai diritti e ai doveri sia del governo che dei governati; infatti questi diritti e doveri non hanno nulla a che fare con l’esistenza o meno di un intermediario nel conferimento dell’autorità, perché la loro natura e i loro limiti si fondano sull’oggetto stesso dell’istituzione della società; il quale oggetto è del tutto indipendente dal modo con cui Dio lo ha comunicato agli uomini.

Per confutare le mie affermazioni sulla poca o nessuna differenza tra le due opinioni accennate, mi si citerà, forse, l’autorità di quegli stessi teologi di cui nel capitolo precedente ho riportato alcuni passi. «Essi – mi verrà detto – conoscevano benissimo queste cose; dunque se consideravano tanto importante la differenza tra le due opinioni vuol dire che ci vedevano qualche verità da salvaguardare, e che merita dunque di essere considerata». Questa osservazione acquisisce un peso ancora maggiore se si considera che i teologi che facevano questa distinzione non erano mossi dall’amore per le sottigliezze, come potremmo sospettare se si trattasse di quella categoria di teologi scolastici nelle cui opere abbondano più gli argomenti dialettici che i ragionamenti fondati sulla Sacra Scrittura, sulla Tradizione apostolica e sugli altri luoghi teologici nei quali soprattutto si devono cercare gli strumenti per questo genere di controversie. I teologi da me citati non erano certo fra questi: basti nominare Bellarmino per ricordare un autore serio ed estremamente concreto, il quale attaccando i Protestanti con le armi della Sacra Scrittura, della Tradizione, con l’autorità dei Santi Padri e i provvedimenti della Chiesa universale e dei sommi Pontefici, non era di quelli di cui si lamentava Melchior Cano, quando rinfacciava loro che dovendo combattere gli eretici, invece di usare armi di buona tempera, non maneggiavano che lunghe canne (arundines longas). Ma c’è di più: abbiamo visto che la distinzione tra le due opinioni era ritenuta di tale importanza che il re d’Inghilterra Giacomo si lamentava fortemente di Bellarmino, perché il Cardinale insegnava che l’autorità dei re viene da Dio solo indirettamente; e le scuole cattoliche erano tanto lontane dal considerare come poco importante la distinzione, e da lasciarla senza difesa dall’attacco del re, che uno dei più illustri dottori, l’insigne Suarez, entrò in campo per sostenere le dottrine di Bellarmino.

In un primo momento sembra dunque errata l’affermazione riguardo alla poca importanza della distinzione tra le due opinioni dette prima; ciò nonostante credo che la difficoltà possa facilmente essere superata col distinguere i vari aspetti sotto i quali si è presentata la questione. E prima dì tutto osserverò che i teologi cattolici procedevano su questo tema con una

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meravigliosa sagacia e lungimiranza; ed io sono talmente lontano dal credere che nel discutere questa questione, così come veniva proposta allora, vi si trovassero solo delle inezie, che, al contrario, sono del parere che vi si celasse uno degli aspetti più seri di diritto pubblico.

Per esaminare a fondo la questione, e penetrare il vero senso delle dottrine dei teologi cattolici, conviene riflettere sulla piega che la rivoluzione religiosa del sedicesimo secolo fece prendere alla monarchia europea. Anche prima di questa rivoluzione le monarchie avevano acquisito molta forza e stabilità per il declino del feudalesimo e per il rafforzarsi dell’elemento democratico. Sebbene la forza di questo elemento col tempo sia diventata quella che noi oggi conosciamo, non era allora ancora tale da permettergli di esercitare la sua influenza in un modo così ampio. Per questo motivo era ben naturale che si collocasse all’ombra del trono, il quale innalzato in mezzo alla società come un simbolo di ordine e di giustizia, era una specie di regolatore e livellatore universale, molto adatto per ridurre quelle eccessive disuguaglianze che tanto infastidivano ed offendevano il popolo. Così la stessa democrazia, che nei secoli successivi doveva rovesciare tanti troni, in quei tempi serviva loro di robusto piedistallo e di forte scudo contro gli attacchi provenienti da un’aristocrazia turbolenta e vigorosa che non voleva rassegnarsi alla condizione di cortigiana alla quale i re la stavano riducendo.

In questo non vi era nulla che potesse arrecare gravi danni, finché le cose si fossero mantenute nei limiti prescritti dalla ragione e dalla giustizia. Ma disgraziatamente avvenne che l’applicazione dei buoni princìpi furono ampliati fino al punto di trasformare l’autorità del sovrano in un potere totalitario che riuniva in sé tutti gli altri, allontanandosi così dalla vera natura della monarchia europea, che consiste nel restare sempre entro i giusti limiti anche quando questi non sono assegnati e garantiti da istituzioni politiche.

Il Protestantesimo, attaccando l’autorità spirituale dei Papi, e dipingendo continuamente a fosche tinte i presunti pericoli derivanti dal potere temporale, aumentò in modo inaudito le pretese dei re, e ancor più le aumentò avendo stabilita la funesta dottrina che sottopone alla suprema autorità civile la giurisdizione di tutti gli affari ecclesiastici, e col dare il nome di abuso, di usurpazione, di smisurata ambizione alla giusta rivendicazione d’indipendenza che la Chiesa opponeva e che fondava sui sacri canoni, sulla garanzia derivante dalle stesse leggi civili, sulla tradizione di quindici secoli, e soprattutto sulla sacra istituzione del divino Fondatore, il Quale non ebbe bisogno del permesso di alcuna autorità civile per mandare i suoi Apostoli a predicare il Vangelo in tutto il mondo, e a battezzare in nome del Padre, del Figlio, e dello Spirito Santo.

Basta dare un’occhiata alla storia europea di quei tempi per constatare le dannose conseguenze di una tale dottrina, e quanto la stessa dovette risultare gradita all’autorità civile che veniva da essa lusingata, in quanto ne riceveva un illimitato potere anche sugli affari puramente religiosi. Con questo

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ampliamento dei diritti dell’autorità civile, che andava di pari passo con gli sforzi che venivano fatti per sminuire l’autorità pontificia, divenne molto diffusa la dottrina che parificava sotto ogni aspetto l’autorità dei re a quella dei Papi; e per questo motivo era ben naturale che si cercasse di stabilire e assicurare che i Papi avevano ricevuto da Dio l’autorità nello stesso modo che i re, senza alcuna differenza.

Sebbene la dottrina del conferimento diretto dell’autorità civile possa benissimo avvalersi, come abbiamo già visto, di una spiegazione ragionevole, nella situazione descritta tale spiegazione poteva tuttavia subire un senso più ampio che facesse dimenticare ai popoli il modo speciale e caratteristico con cui fu istituita da Dio stesso la suprema autorità della Chiesa.

Quanto appena riferito non può essere considerata una semplice supposizione, perché è poggiato su fatti che nessuno può aver dimenticato. A conferma di questa purtroppo infausta verità basterebbe senza dubbio accennare ai regni di EnricoVIII e di Elisabetta d’Inghilterra, e le usurpazioni e le violenze che tutte le autorità civili protestanti si permisero contro la Chiesa cattolica; ma sciaguratamente perfino nei paesi dove rimase dominante il Cattolicesimo si videro allora, si sono visti anche successivamente, e si vedono tuttora, tentativi e conflitti che mostrano quanto grande sia la tentazione che subisce l’autorità civile in questo senso, se trova tanta difficoltà a mantenersi entro i limiti che le competono.

Le circostanze in cui scrissero i due insigni teologi, Bellarmino e Suarez, dànno un’ulteriore conferma a quanto ho detto fin qui. La famosa opera del teologo spagnolo, di cui ho riportato alcuni passi, fu scritta contro una pubblicazione data alle stampe dal re Giacomo d’Inghilterra, il quale non voleva accettare quanto era stato stabilito dal Cardinale Bellarmino, cioè che l’autorità dei re non deriva direttamente da Dio, ma viene loro trasmessa attraverso la società, che a sua volta l’ha ricevuta direttamente da Dio. Questo sovrano che, come tutti sanno, aveva la mania di atteggiarsi a teologo, non si limitava peraltro alla semplice teoria, ma trasferendo le sue dottrine dalla teoria alla pratica faceva dire al suo parlamento che «Dio lo aveva fatto padrone assoluto, e che tutti i privilegi di cui godevano i collegi amministrativi erano semplici concessioni derivate dalla benevolenza del re». I suoi cortigiani lo adulavano, chiamandolo moderno Salomone, e non fa quindi meraviglia che se ne avesse a male del fatto che i teologi italiani e spagnoli facessero in modo, attraverso i loro scritti, di umiliare l’orgoglio della sua presuntuosa sapienza e di mettere un freno al suo dispotismo.

Si leggano attentamente le parole di Bellarmino e ancor più quelle di Suarez, e si vedrà che lo scopo di questi insigni teologi era quello di ben stabilire la differenza che passa tra l’autorità civile e quella ecclesiastica per quanto riguarda la loro origine. Essi riconoscevano che ambedue le autorità derivavano da Dio, che era un dovere indiscutibile esserne soggetti, che opporsi loro significava opporsi all’ordine stabilito da Dio; ma siccome, né

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nelle Sacre Scritture né nella Tradizione, trovavano alcun fondamento che consentisse di stabilire che l’autorità civile fosse stata istituita in maniera singolare e straordinaria come quella del Sommo Pontefice, cercavano di far conoscere bene una tale differenza; e in una questione di tale importanza non permettevano che s’introducesse la minima confusione d’idee che potesse dar luogo a pericolosi errori. «Questa opinione – dice Suarez, riferendosi a re Giacomo – è nuova e singolare, e sembra inventata a bella posta per ingrandire il potere temporale e diminuire quello spirituale». Questa è la ragione per cui non permettevano che, riguardo all’origine dell’autorità civile, si dimenticasse il ruolo che era stato assegnato alla società: «Mediante consilio, et electione humana», dice Bellarmino; rammentando così a quel sovrano che, per quanto sacra fosse la sua autorità, era stata però istituita in una maniera ben diversa da quella del Sommo Pontefice. La distinzione tra il conferimento indiretto e quello diretto si adattava benissimo alla definizione di questa differenza, perché in questo modo veniva ricordato che l’autorità civile, quantunque stabilita da Dio, non era concessa in modo straordinario, né doveva essere considerata come soprannaturale, ma bensì come appartenente all’ordine naturale ed umano, quantunque sanzionato espressamente dal diritto divino.

Probabilmente i teologi citati non avrebbero insistito tanto su questa distinzione se non fossero stati indotti dalla necessità di mettere in chiaro ciò che altri tentavano di confondere. Per loro era di grande importanza frenare l’orgoglio dell’autorità civile, e non lasciare che si attribuisse alla sua origine e ai suoi diritti titoli che non aveva; e che arrogandosi un potere illimitato anche sugli affari ecclesiastici, la monarchia andasse e degenerare in una specie di dispotismo orientale, dove un solo uomo è tutto, e le cose e i popoli non sono nulla.

Se si pesano attentamente le parole dei suddetti teologi si vedrà che il loro pensiero dominante è appunto quello che abbiamo esposto. A prima vista si potrebbe pensare che il loro linguaggio sia eccessivamente democratico, in quanto parlano continuamente di comunità, repubblica, società, popolo; ma esaminando nel suo insieme il loro sistema dottrinale, e ponendo mente al loro modo di esprimersi, ci si accorge subito che in loro non vi era alcun progetto di sovversione, né essi avevano in mente teorie anarchiche. Facevano ogni sforzo per sostenere con una mano i diritti dell’autorità, mentre con l’altra sostenevano quelli dei sudditi, cercando di risolvere quel problema che costituisce l’eterna preoccupazione di tutti gli studiosi in buonafede: cioè limitare il potere dei governanti senza distruggerlo e senza apporvi eccessivi ostacoli; e mettere la società al riparo dagli eccessi del dispotismo, senza renderla però disubbidiente o ribelle.

Da quanto detto fin qui si può vedere che la distinzione tra il conferimento indiretto e quello diretto può essere di poca o di molta importanza secondo l’aspetto sotto il quale si considera. Ne ha molta quando serve a ricordare

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all’autorità civile che l’istituzione dei governi e la determinazione della loro forma dipende in qualche modo dalla società stessa, e che nessun individuo o dinastia si può vantare di aver ricevuto da Dio il governo dei popoli senza che abbiano avuto nulla a che fare le leggi del paese, né si può vantare che tutte le leggi esistenti, ed anche quelle che son dette fondamentali, derivino dalla loro libera volontà. Inoltre la distinzione serve anche a stabilire l’origine dell’autorità civile; la quale deriva da Dio autore della natura, ma non come se fosse istituita da un provvedimento straordinario, come qualcosa di soprannaturale, come invece è avvenuto per la suprema autorità ecclesiastica.

Da quest’ultima riflessione risultano due conseguenze della massima importanza, una più dell’altra, per la legittima libertà dei popoli e per l’indipendenza della Chiesa. Rammentando l’intervento tacito o espresso della società nella fondazione dei governi e nella determinazione della loro forma, la loro origine non viene coperta con misterioso velo: se ne fissa in un modo puro e semplice la sostanza, e di conseguenza se ne dichiarano i doveri nell’atto stesso che se ne determinano le facoltà. In questa maniera si pone un argine alla forza e agli abusi dell’autorità, e se questa dovesse arrivare a commetterli, sa di non potersi aggrappare a immaginarie teorie. Ed anche l’indipendenza della Chiesa poggerà su basi solide, perché se l’autorità civile tenterà di farle violenza essa può rivolgerle questo discorso: «La mia autorità è stata stabilita direttamente e senza intermediari dallo stesso Dio in un modo speciale, straordinario e miracoloso; la tua proviene pure da Dio, ma attraverso l’intermediazione degli uomini, mediante le leggi, e secondo il corso ordinario delle cose indicato dalla natura e determinato dalla prudenza umana; e né gli uomini, né le leggi civili hanno il diritto di distruggere o di cambiare ciò che lo stesso Dio si è degnato d’istituire ponendosi al di sopra dell’ordine naturale ed operando indicibili prodigi».

Finché questi princìpi saranno salvi, e il conferimento diretto non sarà inteso in un senso troppo ampio confondendo cose che invece è importante distinguere bene (sia per la religione che per la società), la distinzione indicata non è di grande rilevanza, e si potrebbe anche far coincidere le due opposte opinioni.

Comunque sia, questa distinzione avrà dimostrato con quanta elevatezza di pensiero i teologi cattolici esposero le importanti questioni di diritto pubblico e come, guidati dalla sana filosofia e senza perdere mai di vista la rivelazione, andavano incontro con le loro dottrine alle istanze delle due scuole opposte, senza propendere né per l’una né per l’altra. Essi erano democratici senza essere anarchici; monarchici senza essere vili adulatori. Per stabilire i diritti dei popoli non avevano bisogno di distruggere la religione come fanno i moderni demagoghi, ma con la religione proteggevano i diritti dei popoli, come proteggevano anche quelli dei re. La libertà per loro non era sinonimo di abuso e di irreligione: secondo le loro idee gli uomini potevano essere liberi senza essere ribelli ed empî; la libertà consiste nell’essere schiavi della legge;

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e siccome essi vedevano che senza la religione e senza Dio la legge non è possibile, credevano anche che senza Dio e senza la religione era impossibile la libertà. Quello che veniva loro insegnato dalla ragione, dalla storia e dalla rivelazione, la nostra esperienza ce l’ha fatto toccar con mano. Quanto ai pericoli che le dottrine più o meno democratiche dei teologi potevano arrecare ai governi, ormai nessuno più si lascia ingannare da simulate ed insidiose requisitorie: sanno benissimo, i re, se gli esilî e i patiboli siano venuti loro dalle scuole teologiche (3). Torna all’indice

CAPITOLO LII

Influenza delle dottrine sulla società. Adulazioni tributate al potere: suoi pericoli. Libertà con cui si parlava su questo tema in Spagna negli ultimi tre secoli. Mariana. Saavedra. Senza la religione e la sana morale, le più rigorose dottrine politiche non possono salvare la società. Scuole conservatrici moderne: perché sono impotenti. Seneca. Cicerone. Hobbes. Bellarmino.

_______________ Gli eccessi nelle dottrine non assicurano né la libertà dei popoli, né la

forza e la stabilità dei governi; ma sia gli uni che gli altri hanno bisogno della giustizia e della verità, che sono le uniche basi sulle quali si può costruire con la fiducia che l’edificio resista. Mai il principio di libertà era stato portato più in alto di quando il dispotismo stava per salire sul trono; e quando si sente elargire a profusione indegne adulazioni al potere c’è molto da temere che le rivoluzioni e la rovina dei governi non siano lontane. Quando mai si è sentito tanto lodare l’autorità dei re, più di quanto si sia fatto intorno alla metà del diciottesimo secolo? Chi non ricorda come venivano esagerate le prerogative dell’autorità reale quando si trattava di espellere i Gesuiti e di contrastare l’autorità pontificia? In Portogallo, in Spagna, in Italia, in Austria e in Francia, s’intese un concerto di voci del più puro e più fervido realismo; ma dove andò a finire tanto amore e tanto zelo per la monarchia quando l’uragano rivoluzionario la mise in gran pericolo? Avete visto cosa fecero, parlando in generale, i proseliti delle scuole antiecclesiastiche: si unirono ai demagoghi per rovesciare allo stesso tempo sia l’autorità della Chiesa che quella dei re; dimenticarono le basse adulazioni per abbandonarsi agl’insulti e alla violenza.

I popoli e i governi non devono mai dimenticare quella regola, che tanto giova alle persone sagge, che consiste nel diffidare delle adulazioni, e di apprezzare piuttosto quelli che ammoniscono e correggono. Facciano bene attenzione, che quando sono accarezzati con un affetto ostentato, e la loro causa è sostenuta con troppo ardore, ciò vuol dire che si vuole usarli come strumento per degli interessi che non sono i loro.

In Francia fu tanto lo zelo monarchico in alcuni momenti che in un’assemblea degli stati generali si giunse a proporre la consacrazione del

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principio che i re ricevono l’autorità suprema direttamente da Dio; e quantunque la cosa non ebbe effetto, ciò mostra comunque l’ardore con cui veniva difesa la causa del trono. Ma sapete cosa significava questo ardore? Significava l’intolleranza nei confronti della Sede di Roma; il timore che non si estendesse troppo l’autorità dei Papi; era un ostacolo che si cercava di opporre al fantasma della monarchia universale. Luigi XIV, che si dava tanto pensiero per le regalie, non prevedeva sicuramente la sventura di Luigi XVI; e Carlo III, nell’udire il conte di Aranda e di Campomanes, non pensava che fossero così vicine le corti costituenti di Cadice.

Nel loro accecamento i sovrani non posero mente ad una regola che domina tutta la storia dell’Europa moderna, cioè che l’organizzazione sociale è derivata dalla religione, e che perciò è necessario che vivano in buona armonia le due autorità alle quali appartiene la conservazione e la difesa dei grandi interessi della religione e della società. L’autorità ecclesiastica non s’indebolisce mai senza che ne risenta quella civile: chi semina scismi, raccoglierà ribellioni.

Che importava alla monarchia spagnola che negli ultimi tre secoli si diffondessero in Spagna dottrine molto democratiche e popolari sull’origine dell’autorità civile, se quelli che le sostenevano erano i primi a condannare chi si opponeva alle autorità legittime, ad inculcare l’obbligo di ubbidire a dette autorità, e ad instillare nei cuori il rispetto, la venerazione e l’amore per il sovrano? L’origine dell’irrequietezza dei nostri tempi, e dei pericoli che i sovrani corrono continuamente, non è nella propagazione di dottrine più o meno popolari, ma nella mancanza dei princìpi religiosi e morali. Proclamate pure che il potere viene da Dio: ma che ci guadagnerete se i sudditi non credono più in Dio? Fate conoscere quanto è sacro l’obbligo di obbedire: che effetto produrrà in chi non ammette neanche l’esistenza di un ordine morale, e che reputa il dovere un’idea utopistica? Viceversa: supponete che i sudditi siano stati educati con princìpi religiosi e morali e nel rispetto della divina volontà, alla quale sentono il dovere di sottomettersi quando vien loro manifestata; e allora: che l’autorità civile derivi da Dio indirettamente o direttamente; o che si mostri loro in una o nell’altra maniera purché sia approvata da Dio che ne chiede la sottomissione, vedrete che essi si sottometteranno sempre con buona volontà, perché vedranno nella sottomissione il compimento di un loro dovere.

Queste considerazioni fanno capire perché certe dottrine adesso appaiono più pericolose di prima: il motivo dipende dalle interpretazioni perverse che l’incredulità e l’immoralità (oggi così diffuse) dànno del principio di autorità, e dal fatto che tale principio viene fatto applicare in modo da provocare solamente eccessi e stravolgimenti. Sentendo tanto parlare del dispotismo di Filippo II e dei suoi successori sembrerebbe che a quei tempi non circolassero altre dottrine che quelle favorevoli all’assolutismo più puro; eppure sappiamo

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che circolavano senza alcun timore certi libri nei quali si sostenevano teorie che forse ai nostri giorni sarebbero considerate troppo audaci.

Ed è cosa degna di nota che la famosa opera del P. Mariana intitolata De rege et regis institutione, la quale fu bruciata a Parigi per mano del carnefice, era stata pubblicata in Spagna undici anni prima senza che né l’autorità ecclesiastica né la quella civile avessero posto alcun impedimento o il minimo ostacolo. Mariana compilò la sua opera su istanza e preghiera di D. Garcia de Loaisa, precettore di Filippo III, poi Arcivescovo di Toledo; quindi essa doveva servire addirittura come testo di studio per l’educazione ed istruzione dell’erede al trono. Non si parlò mai ai re con maggior libertà; non fu mai condannata con accenti tanto terribili la tirannia; non si proclamarono mai dottrine più popolari; e nonostante ciò l’opera pubblicata a Toledo nel 1599 nella tipografia del regio stampatore Pietro Rorigo, uscì con approvazione del P. Fra Pietro de Ona provinciale dei Mercedari di Madrid, con licenza di Stefano Hojeda, visitatore della Compagnia di Gesù nella provincia di Toledo, essendo generale Claudio Acquaviva; e ciò che più conta, con privilegio reale e con la dedica allo stesso re. È opportuno notare che, oltre alla dedica che si trova all’inizio, il Mariana volle che sullo stesso frontespizio si conoscesse la persona a cui fu dedicata: De rege, et regis institutione libri tres ad Philippum III, Hispaniae regem catholicum. E come se ciò non bastasse, nella dedica che il Mariana fece a Filippo III nell’edizione castigliana della Storia di Spagna, scrive: «L’anno passato presentai a Vostra Maestà un libro da me composto sulle virtù che deve avere un buon re: desidero che sia letto e diligentemente capito da tutti i prìncipi».

Lasciamo da parte la sua dottrina sul tirannicidio, che è quella che principalmente causò la condanna in Francia, la quale aveva certamente dei motivi per mettersi in allarme dal momento che vedeva morire i suoi re per mano degli assassini. Esaminando semplicemente il tema dell’autorità, la teoria che vi è descritta è tanto popolare e democratica quanto può essere quella dei democratici di oggi; e l’autore ebbe il coraggio di esporre le sue opinioni senza tanti giri di parole e senza ambiguità. Facendo per esempio il confronto tra il re e il tiranno dice: «Il re esercita con molta moderazione l’autorità che ricevette dal popolo… Così non governa i suoi sudditi come se fossero schiavi, alla maniera dei tiranni, ma li governa come uomini liberi; ed avendo ricevuto dal popolo il potere ha una cura particolarissima che per tutta la sua vita il popolo gli si mantenga sottomesso di buona volontà» (Lib. 1. cap. 4. pag. 57).

Così si esprimeva in Spagna un semplice religioso, e i suoi superiori lo approvavano, e i re lo ascoltavano attentamente. A quante e quanto gravi riflessioni dà occasione questo solo fatto! E dov’è quell’indissolubile e stretta alleanza che i nemici del Cattolicesimo hanno immaginato tra i dogmi della Chiesa cattolica e le dottrine sulla schiavitù? Se in un paese dove il Cattolicesimo dominava in una maniera così esclusiva era permesso di

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esprimersi in questo modo, come si potrà sostenere che una tale religione sia propensa a mettere in schiavitù il genere umano, e che le sue dottrine siano favorevoli al dispotismo?

Sarebbe molto facile comporre volumi interi di passi importanti dei nostri scrittori sia laici che ecclesiastici, per dimostrare la grande libertà che su questo tema veniva lasciata sia da parte della Chiesa che del governo civile. Qual è quel sovrano assoluto in Europa, che esprima un giudizio positivo sul fatto che uno dei suoi funzionari di alto grado parlasse dell’origine del potere nei termini che usò il nostro immortale Saavedra? «Dal centro della giustizia – egli dice – è stata tracciata la circonferenza della corona; questa non sarebbe necessaria, se si potesse vivere senza di quella.

«Hoc uno reges olim sunt fine creati, Dicere jus populis injustaque tollere facta (per questo unico scopo in origine erano stati eletti i re: per assicurare ai popoli la giustizia e per rimuovere le opere ingiuste). «Alle origini del genere umano la legge non contemplava la pena perché

non si conosceva la colpa; né il premio, perché l’agire onesto e glorioso era amato per se stesso. Ma col passar del tempo crebbe la malizia, e la virtù, che prima risiedeva fra le genti, semplice e incontrastata, divenne timida. L’uguaglianza fu disprezzata, la modestia e il pudore furono abbandonati, s’introdussero l’ambizione e la forza, e dietro a loro la sete del dominio. La prudenza, costretta dalla necessità e risvegliata dall’istinto, spinse gli uomini a riunirsi formando la società civile, affinché esercitassero le virtù a cui la ragione li predisponeva e si servissero della parola che diede loro la natura in modo che, scambiandosi l’un l’altro le proprie idee, e manifestandosi reciprocamente i loro sentimenti e bisogni, s’istruissero a vicenda, si dessero buoni consigli e si difendessero. Formatasi poi questa società, nacque dal comune accordo un’autorità, illuminata – possiamo dire – dalla legge di natura, per salvaguardare i componenti di questa società e mantenerla nella giustizia e nella pace, castigando i vizi e premiando le virtù. E siccome quest’autorità non poteva restare sparpagliata tra il popolo per la confusione che ne sarebbe derivata nelle decisioni e nelle attuazioni; e tuttavia era necessario che vi fosse qualcuno che comandasse ed altri che ubbidissero, i componenti della società si spogliarono di quest’autorità e la consegnarono a uno, o a pochi, o a molti. Che poi sono le tre forme di governo della società: monarchia, aristocrazia e democrazia. La monarchia fu la prima forma ad essere attuata, quando all’interno delle loro famiglie, e poi del popolo, gli uomini scelsero per loro governante quello che superava gli altri in bontà; del quale, crescendo la dignità, ornarono la mano con lo scettro e cinsero la fronte con la corona in segno di maestà e della suprema autorità che gli avevano concesso. Autorità consistente soprattutto nell’amministrazione della giustizia

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per mantenere la pace tra il popolo; per cui se manca questa, cessa l’ordine nella società, e cessa quindi il compito del re, come accadde in Castiglia quando fu sottoposta al governo di due giudici, e ne furono esclusi i re a causa delle ingiustizie di D. Ordogno, e D. Fruela…» (Idea di un principe politico cristiano esposta in cento imprese da D. Diego di Saavedra Faiardo, cavaliere dell’Ordine di S. Giacomo, del Consiglio di sua maestà nel Consiglio supremo delle Indie etc. Impresa 22).

Le espressioni: popolo, patto, consenso, hanno finito con lo spaventare le persone di sani princìpi e di rette intenzioni per l’abuso deplorevole che ne hanno fatto certe scuole immorali, le quali piuttosto che democratiche dovrebbero essere chiamate irreligiose. Non è stato certo per il desiderio di migliorare le condizioni dei popoli che queste scuole si sono date a sconvolgere il mondo rovesciando troni e facendo correre fiumi di sangue in guerre civili; ma per la cieca frenesia di rovinare le opere di secoli, attaccando particolarmente la religione che era il più saldo sostegno di tutto ciò che di più saggio, più giusto e più salutare era stato conseguito dalla civiltà europea. E infatti, non abbiamo forse visto queste scuole empie, che vantavano tanto il loro amore per la libertà, piegare umilmente il capo sotto la mano del dispotismo ogni volta che l’hanno ritenuto utile per i loro scopi? Prima della rivoluzione francese non furono esse forse le più vili adulatrici dei re, di cui ampliavano i poteri oltre ogni misura, con la speranza che il potere del re servisse ad abbattere la Chiesa? E dopo quel periodo rivoluzionario, non le abbiamo viste affollarsi intorno a Napoleone, e non vediamo che ancora oggi lo esaltano? E sapete perché? Perché Napoleone fu la rivoluzione personificata, perché fu il rappresentante e l’esecutore delle nuove idee che volevano sostituirsi alle antiche; allo stesso modo che il Protestantesimo inglese esalta la regina Elisabetta perché fondò su solide basi la chiesa da lei tutelata.

Le dottrine fondate sul disordine e sulla confusione, oltre che disastri alla società producono indirettamente anche un altro effetto, il quale, sebbene a prima vista possa sembrare benefico, in realtà non lo è, perché tradotte in pratica esse provocano reazioni pericolose, e in campo scientifico vanificano o minimizzano i concetti, facendo sì che vengano condannati come erronei e dannosi, oppure si guardino con diffidenza quei princìpi che prima sarebbero passati per veri, o almeno come innocui fraintendimenti. Il motivo è semplicissimo: il peggior nemico della libertà è l’abuso che se ne fa.

A conferma di questa ultima osservazione bisogna notare che le dottrine più rigorose in materia politica sono nate appunto nei paesi dove l’anarchia ha fatto maggiori stragi, e proprio in quei tempi nei quali il male era ancor presente oppure ne era fresca la memoria. La rivoluzione religiosa del sedicesimo secolo, e gli sconvolgimenti politici che ne derivarono, presero piede principalmente nel nord dell’Europa, mentre il Mezzogiorno ne fu preservato quasi del tutto, e specialmente l’Italia e la Spagna. Orbene, questi

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due ultimi paesi furono proprio quelli dove le prerogative e la dignità dell’autorità civile furono meno portate alle stelle, ma furono anche quelli dove le stesse prerogative e dignità dell’autorità civile non furono disprezzate in teoria né attaccate in pratica. L’Inghilterra fu la prima tra le nazioni moderne in cui accadde una rivoluzione propriamente detta (poiché non considero tra le rivoluzioni né l’insurrezione dei contadini in Germania, che anche se provocò spaventose catastrofi non arrivò a cambiare lo stato della società, e nemmeno l’insurrezione delle Province Unite, che si deve considerare come una guerra d’indipendenza); e appunto in Inghilterra apparvero le dottrine più estremiste ed erronee a favore della suprema autorità civile. Hobbes, il quale mentre negava a Dio i suoi diritti, li attribuiva senza alcun limite ai monarchi della terra, visse nell’epoca più agitata e torbida della Gran Bretagna: nacque infatti nel 1588, e morì nel 1679.

In Spagna, dove fino allo scadere del secolo passato non erano penetrate le dottrine empie ed anarchiche che avevano turbata l’Europa dallo scisma di Lutero in poi, abbiamo già visto che si discuteva con la massima libertà sui punti più importanti di diritto pubblico, e vi si sostenevano dottrine che in altri paesi avrebbero potuto mettere in allarme. Ma appena gli errori entrarono anche in Spagna, l’estremismo si fece subito sentire; e non furono mai tanto esaltati i diritti dei sovrani come al tempo di Carlo III, cioè quando per la Spagna iniziava l’epoca moderna.

La religione, che guidava tutte le coscienze, le manteneva nell’obbedienza dovuta al sovrano senza che ci fosse bisogno di adularlo con titoli immaginari, bastandogli, come effettivamente gli bastavano, quelli veri. A chiunque sa che Dio prescrive la sottomissione all’autorità legittima, poco importa che questa derivi dal cielo indirettamente o direttamente, e quale parte abbia avuto la società nella composizione delle forze politiche e nell’elezione delle persone o dinastie scelte per esercitare il potere supremo. Così vediamo che in Spagna, per quanto si parlasse comunemente di popolo, di consenso, di patti, i Sovrani ricevevano ovunque la più profonda devozione senza che negli ultimi secoli la storia ci presenti un solo esempio di attentato contro le loro persone; e anche i tumulti popolari erano rarissimi, e quando avvenivano erano originati da cause che non avevano nulla a che fare con queste o quelle dottrine.

Come mai sul finire del sedicesimo secolo il Consiglio di Castiglia non si preoccupò dei princìpi audaci espressi da Mariana nel libro De rege, et regis institutione, mentre sul finire del diciottesimo secolo quelle dell’Abate Spedalieri causarono allo stesso Consiglio tanta preoccupazione? Non dobbiamo cercarne la causa nel contenuto delle opere quanto nell’epoca in cui furono pubblicate: la prima venne alla luce in un’epoca in cui gli Spagnoli, ben saldi nei princìpi religiosi e morali, assomigliavano a quei robusti complessi fisici che possono sopportare alimenti poco digeribili; la seconda fu introdotta quando le dottrine e le vicende delle rivoluzioni in Francia facevano

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tremare in Europa tutti i troni, e la propaganda di Parigi incominciava a corrompere gli Spagnoli con i suoi libri e i suoi emissari.

E allora, in una nazione in cui prevalgano e dòminino la ragione e la virtù, dove non si agitino passioni malvagie, dove tutti i cittadini si propongano il bene e la prosperità della patria in tutti i loro atti civili, non sarebbero per niente da temere le forme più popolari e più democratiche, perché né le assemblee numerose provocherebbero disordini, né gl’intrighi offuscherebbero il merito, né sordidi maneggi farebbero cadere il governo in mano a persone indegne, né si farebbero valere i nomi di libertà e di benessere pubblico per formare il patrimonio e soddisfare l’ambizione di pochi. E ancora, in un paese dove la religione e la morale regnino in tutti i cuori, dove il dovere non sia considerato una vana parola, dove compromettere l’ordine dello Stato e la ribellione contro le autorità legittime siano ritenuti delitti davanti a Dio, saranno meno pericolose le teorie nelle quali, facendo l’analisi della creazione della società, e investigando l’origine del potere civile, si passi a supposizioni più o meno ardite e si esprimano princìpi favorevoli ai diritti dei popoli. Ma quando mancano queste condizioni, poco importa proclamare dottrine rigorose: a nulla giova astenersi dal nominare il popolo come se fosse una parola sacrilega. Chi non rispetta l’autorità divina, volete forse che rispetti quella umana?

Le scuole conservatrici dei nostri tempi, che si sono proposte di bloccare l’impeto rivoluzionario e di riportare l’ordine nelle nazioni, hanno quasi sempre un difetto che consiste nel non tener presente la verità che ho esposta. La maestà reale, l’autorità del governo, la supremazia della legge, la sovranità parlamentare, il rispetto per le forme di governo stabilite, l’ordine, sono parole che pronunciano continuamente, e presentano questi concetti come il palladio della società, e condannano con tutte le loro forze la repubblica, l’insubordinazione, la disubbidienza alle leggi, l’insurrezione, le sommosse e l’anarchia; ma non ricordano che queste dottrine sono insufficienti quando non c’è un punto saldo al quale sia fissato il primo anello della catena. Queste scuole escono generalmente dal seno stesso delle rivoluzioni ed hanno per maestri uomini che parteciparono alle rivoluzioni stesse, e che contribuirono ad organizzarle e portarle avanti, e che bramosi di raggiungere l’obiettivo non si fecero scrupoli di rovinare l’edificio fin dalle fondamenta, indebolendo l’influenza della religione e lasciando libero il campo alla rilassatezza morale. Ecco perché si sentono impotenti quando la prudenza o il proprio interesse li consiglia a dire basta; ma trascinati insieme a tutti gli altri nel furioso vortice non riescono a trovare i mezzi per arrestarne il percorso o per dargli la direzione conveniente.

Non si fa altro che condannare il Contratto sociale di Rousseau per le sue dottrine anarchiche, e poi si spargono altre dottrine che sono visibilmente dirette a indebolire la religione. E credete forse che solo il Contratto sociale abbia messo sottosopra l’Europa? Senza dubbio esso ha prodotto gravissimi

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danni; ma ancor maggiori ne ha provocati l’irreligione, che tanto profondamente rovina tutte le basi della società, che allenta i vincoli di famiglia, e che lasciando l’individuo senza alcun freno morale l’abbandona al capriccio delle passioni senz’altra guida che i consigli del turpe egoismo.

I filosofi in buonafede cominciano già a persuadersi di queste verità: ma nell’ambiente politico si compie ancora l’errore di attribuire alla semplice azione dei governi civili una forza creatrice che, indipendentemente dalle influenze religiose e morali, può costituire, ordinare e conservare la società. E invece importa poco che si dicano in teoria cose giuste quando in pratica non si tiene conto dei princìpi morali e religiosi; importa poco proclamare alcune buone regole se non si cerca nel proprio agire di conformarsi ad esse.

Queste scuole politico-filosofiche che si illudono di regolare i destini del mondo procedono in una maniera diametralmente opposta a quella del Cristianesimo. Questo, che pur tendendo al cielo non ha mai trascurato sulla terra il benessere degli uomini, si rivolge direttamente al cuore e alla mente convinto che per dare buon ordine alla comunità è necessario guidare l’individuo, e che per avere una buona società è indispensabile formare buoni soci. Invece per quelle scuole, che credono possibile regolare la società senza esercitare un’efficace influenza sulla mente e sul cuore dell’uomo, il rimedio universale è costituito dalla semplice proclamazione di certi princìpi politici e dall’istituzione di particolari forme di governo. La ragione e l’esperienza sono d’accordo nel dirci cosa ci si possa aspettare da un tale sistema.

Radicare profondamente negli animi la religione e la sana morale: ecco il primo passo per prevenire le rivoluzioni e il disordine: quando queste sante regole hanno il predominio nei cuori, la diffusione delle opinioni politiche non può creare alcun timore. Che fiducia un governo può avere in un uomo che professa idee monarchiche, se a queste unisce l’empiétà? Chi nega i suoi diritti allo stesso Dio, credete forse che rispetterà quelli dei re della terra? «Prima di tutto – diceva Seneca – viene il culto degli dèi; credere alla loro esistenza e venerarne la maestà e la bontà; senza di che non c’è alcuna maestà sulla terra» (Seneca, epist. 95). Ed ecco come sullo stesso argomento parla il più grande oratore e forse anche il più grande filosofo di Roma, Cicerone: «Conviene che i cittadini comincino con l’essere persuasi che esistono gli dèi, signori e governatori di tutte le cose, che guidano tutti gli avvenimenti, che dispensano continuamente grandissimi beni al genere umano, che vedono il cuore dell’uomo, quello che fa, e lo spirito e la pietà con cui professa la religione, e tengono in debito conto sia la vita dell’uomo pio che quella dell’empio» (Cicero., De natura deorum 2).

Bisogna scolpirsi profondamente nell’animo queste verità: i danni della società non derivano tanto dalle idee e dai sistemi politici; la radice del male è nel rifiuto della religione, e se non vi si mette un freno sarà inutile proclamare i princìpi monarchici più rigidi. Hobbes adulava i re indubbiamente più di quel che facesse Bellarmino; e con tutto ciò, qual è quel sovrano saggio che

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non avrebbe preferito avere come suddito il dotto e pio polemista piuttosto che l’autore del Leviathan? (4). Torna all’indice

CAPITOLO LIII

Facoltà dell’autorità civile. Calunnie dei nemici della Chiesa. La legge secondo la definizione di S. Tommaso. Ragione universale. Volontà universale. Il Venerabile Palafox. Hobbes. Grozio. Dottrine di alcuni Protestanti favorevoli al dispotismo. Come va difesa la Chiesa cattolica.

_______________ Dopo aver dimostrato che la dottrina cattolica sull’origine dell’autorità

civile non ha in sé nulla che non sia pienamente conforme alla ragione e conciliabile con la vera libertà dei popoli, passiamo ora alla seconda delle questioni proposte; ad investigare cioè sui requisiti dell’autorità stessa, e se sotto quest’aspetto la Chiesa insegni alcuna cosa che sia favorevole al dispotismo e a quell’oppressione di cui con la peggiore delle calunnie è stata accusata di esserne il sostegno. Invitiamo i nostri avversari a documentare queste loro calunnie, essendo noi sicuri che per loro non sarà altrettanto facile quanto l’accumulare accuse vaghe e buone solo per ingannare gli sprovveduti. Per dimostrare queste loro affermazioni in maniera conveniente, dovrebbero citare i testi della Scrittura, della Tradizione, delle definizioni conciliari e pontificie, delle dichiarazioni dei santi Padri, e mostrare dove in queste fonti ci sia qualche passo che conceda un potere eccessivo all’autorità civile con lo scopo di limitare ingiustamente o di annullare la libertà del popolo.

Alcuni forse diranno che le fonti sono bensì rimaste pure, ma che poi ci hanno pensato gli interpreti ad intorbidirne i ruscelli: in altri termini, che i teologi degli ultimi secoli, fattisi adulatori dell’autorità civile, si sono dati molto da fare per allargarne i poteri, e di conseguenza per rafforzare il dispotismo. Siccome molti si arrogano il diritto di giudicare i dottori della così detta epoca di decadenza, e lo fanno con tanta maggiore sicurezza e disinvoltura in quanto non si sono mai presi il fastidio di aprire i libri di quegli uomini illustri, è necessario entrare in alcuni dettagli su questa materia al fine di dissipare i preconcetti e gli errori che portano gravissimo danno alla religione e non poco pregiudizio alla conoscenza dei fatti.

Grazie alle prediche e alle invettive dei Protestanti alcuni pensano che se non fosse sopraggiunta in tempo la pretesa riforma del sedicesimo secolo in Europa sarebbe svanita ogni idea di libertà. E pertanto costoro si figurano i teologi cattolici come una manica di frati ignoranti che sappiano soltanto scrivere in una lingua rozza e scorretta, e con uno stile anche peggiore, un ammasso di sciocchezze che hanno per scopo soltanto di esaltare l’autorità dei

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Papi e dei re, e di istigare l’oppressione intellettuale e politica, l’oscurantismo e la tirannia.

Che si sia soggetti ad abbagli su argomenti di cui sia difficilissimo fare un maturo esame; e che i lettori si lascino ingannare da un autore su materie nelle quali bisogna fidarsi delle sue parole per non restare al buio, come quando, per esempio, l’autore descrive un paese o un fenomeno visti solo da lui, non c’è nulla di straordinario. Ma che dobbiamo essere schiavi di errori che possono svanire con un soffio soltanto che si trascorra qualche momento nella più scadente delle biblioteche; che gli autori delle splendide edizioni di Parigi abbiano la facoltà di alterare impunemente le opinioni di uno scrittore che giace coperto di polvere e dimenticato nella stessa biblioteca, e forse nella stessa scansia dove quelle splendide edizioni risaltano; che di queste splendide edizioni il lettore scorra avidamente le belle pagine, imbevendosi dei pensieri dell’autore senza curarsi di allungar la mano al voluminoso tomo che sta là aspettando che qualcuno lo apra per smentire in ogni pagina le accuse che con tanta leggerezza, per non dire malafede, gli sta dando il moderno collega, beh! Questo è ciò che non si comprende così facilmente; questo è ciò che non ha scusanti per chiunque si vanti di amare il sapere e di cercare sinceramente la verità. Sicuramente molti scrittori non si metterebbero così facilmente a parlare di ciò che non hanno studiato e a fare l’analisi di opere che non hanno mai letto, se non si fidassero della docilità e leggerezza dei loro lettori. Sicuramente si guarderebbero bene dal dare giudizi da esperti su un’opinione, un sistema, una scuola; dal riepilogare in due parole le opere di molti secoli; e dal liquidare con un motto arguto le più gravi questioni, se temessero che il lettore, preso egli pure da diffidenza, e partecipando anche lui (almeno un poco) dello scetticismo del tempo, non stesse a credere così alla cieca alle loro asserzioni senza farne il confronto con i fatti ai quali si riferiscono.

I nostri avi non si ritenevano autorizzati, non dico a raccontare, ma neanche a fare una semplice allusione senza mettere in note col massimo scrupolo le citazioni delle fonti da cui avevano attinto. In questo la loro delicatezza era eccessiva; ma noi siamo talmente guariti da questo male, che ci crediamo dispensati da ogni formalità, anche quando si tratta della materia più importante e che per questo a maggior ragione richiede la testimonianza dei fatti. Ora, le opinioni degli antichi scrittori sono altrettanti fatti, e fatti registrati nelle opere; e chi li giudica nel loro complesso senza andare nei dettagli e senza imporsi l’obbligo di citare le fonti incorre nel sospetto di falsificare la storia. La storia, ripeto, e la più preziosa, che è quella dello spirito umano.

Questa leggerezza di certi scrittori proviene in gran parte dal carattere che ha acquisito la scienza nel nostro secolo. Non ci sono più scienze specifiche, c’è un’unica scienza generale che le abbraccia tutte, e che nel suo vasto giro racchiude tutti i rami della conoscenza umana, e che di conseguenza obbliga le menti ad accontentarsi di nozioni vaghe, adatte disgraziatamente a simulare

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l’astrazione e l’universalità. Mai, come adesso, si sono tanto generalizzate le conoscenze, e mai è stato così difficile meritare il titolo di dotto. Lo stato attuale della scienza richiede, in chi ne aspira il possesso, un’attività laboriosa per acquistare l’erudizione, una meditazione profonda per metterla in ordine ed assimilarla bene, una vasta penetrazione per renderla semplice e centrale, una comprensione sublime che possa elevarsi a quelle altezze dove la scienza ha stabilito la sua sede. E quanti sono gli uomini che riuniscono tutte queste qualità? Ma torniamo a noi.

I teologi cattolici sono tanto lontani dall’abbassarsi a favorire il dispotismo, che dubito molto che si possano trovare libri migliori per formarsi un’idea chiara e vera sulle legittime facoltà dell’autorità; e aggiungerò che, in genere, propendono particolarmente allo sviluppo della vera libertà. Il tipo più diffuso delle scuole teologiche, il modello sul quale per molti secoli sono stati rivolti gli occhi di tutti, sono le opere di San Tommaso d’Aquino; e noi possiamo sfidare senza alcun timore i nostri avversari a presentarci un giureconsulto o un filosofo che con maggiore lucidità, con maggior sapienza, con più nobile indipendenza e generosa elevazione abbia esposte le norme a cui deve attenersi l’autorità civile. Il suo Trattato sulle leggi è un’opera immortale; e chiunque l’abbia ben compreso, non ha bisogno di sapere altro riguardo alle norme generali che devono guidare il legislatore.

Voi che con tanta leggerezza disprezzate i secoli passati; che pensate che prima dei nostri giorni non si avesse alcuna conoscenza di politica e di diritto pubblico; che nella vostra immaginazione costruite mostruose alleanze tra la religione e il dispotismo; che vedete ordire complotti nefandi nella penombra dei chiostri; qual era secondo voi l’opinione di un religioso del tredicesimo secolo sulla natura della legge? Non vi sembra forse di vedere che la forza domina su ogni cosa e invoca la religione per coprire la grave colpa col velo di alcune menzognere parole? E allora sappiate invece che voi non ne dareste una definizione più dolce; che mai vi sareste immaginati, al pari di lui, di far sparire perfino l’idea della forza; che non arrivereste mai a capire come in così poche parole egli seppe dir tutto, e con tanta esattezza e tanta chiarezza, e con parole così propizie alla vera libertà dei popoli e alla dignità dell’uomo.

Siccome questa definizione è un epilogo di tutta la sua dottrina, e per di più è la norma sulla quale si sono basati tutti i teologi, può essere considerata come un compendio delle dottrine teologiche nelle loro relazioni con i poteri dell’autorità civile, e sintetizza i princìpi predominanti tra i Cattolici sotto quest’aspetto.

L’autorità civile agisce sulla società per mezzo della legge. Orbene, secondo S. Tommaso la legge è «una disposizione della ragione diretta al bene comune, e promulgata da chi ha la cura della comunità» (1-2. q. 99, art. 4).

Disposizione della ragione, rationis ordinatio: ecco banditi l’arbitrio e la forza; ecco proclamato il principio che la legge non è una semplice

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conseguenza della volontà; ecco corretta nel modo migliore la celebre sentenza: «Quod principi placuit, legis habet vigorem» («ciò che decise il principe ha valore di legge»); la quale sentenza, sebbene si possa intendere in un senso ragionevole e giusto, non lascia però di esser alquanto inesatta, e di avere il sapore dell’adulazione. Un celebre scrittore moderno ha scritto molte pagine per dimostrare che la legittimità non ha la radice nella volontà, ma nella ragione, volendo dire che questa e non quella deve comandare gli uomini. Con minore apparato, ma con maggiore concisione, e con una concretezza per niente inferiore lo espresse il santo Dottore nelle citate parole: rationis ordinatio.

Osservando bene, il dispotismo, l’arbitrio, la tirannia, non sono altro che assenza di ragione nel potere e dominio della volontà. Quando comanda la ragione c’è legittimità, c’è giustizia, c’è libertà; quando comanda la sola volontà, c’è illegittimità, ingiustizia, e dispotismo. Per questo motivo l’idea fondamentale di ogni legge è che essa sia conforme alla ragione, che ne sia una derivazione, la sua applicazione alla società; e quando la volontà la sanziona e la fa eseguire, non deve essere altro che l’ausilio, lo strumento e il braccio della ragione.

È chiaro che senza un atto della volontà non vi è legge; poiché gli atti della pura ragione senza il concorso della volontà sono pensieri e non comandi; servono per conoscere, ma non per agire; motivo per cui non è possibile concepire l’esistenza della legge sino a quando al dettame della ragione che dispone non si aggiunga la volontà che comanda. Questo non toglie che ogni legge debba avere un fondamento nella ragione, e che vi si debba conformare se vuole essere degna del nome di legge. Queste osservazioni non sfuggirono alla penetrazione del santo Dottore il quale, occupandosene, dissipò l’errore in cui si poteva cadere, cioè che la sola volontà del principe costituisca la legge, esprimendosi quindi in questi termini: «La ragione dà alla volontà la forza di muovere, come si è detto sopra (Quest. 17. art. 1); e appunto perché la volontà vuole il fine, la ragione impera sulle cose che sono ordinate al fine; ma la volontà, per avere forza di legge in ciò che si comanda dev’esser regolata da qualche ragione; e in tal modo s’intende che la volontà del principe ha forza di legge; altrimenti la volontà del principe sarebbe piuttosto iniquità che legge» (Quest. 90. art. 1).

Queste dottrine di S. Tommaso sono state accolte da tutti i teologi; e se esse sono favorevoli all’arbitrio e al dispotismo, se in alcuna cosa si oppongono alla vera libertà, se non sono sommamente conformi alla dignità dell’uomo, se non sono la proclamazione più esplicita e completa dell’autorità civile, se non valgono qualcosa di più che le dichiarazioni dei diritti incontestabili, lo dica l’imparzialità, lo dica il buon senso. Quello che umilia la dignità dell’uomo, quello che ferisce il sentimento di giusta indipendenza, che introduce nel mondo il dispotismo, è l’imperio della volontà, è la sottomissione che esige per questo solo titolo; ma il sottomettersi alla ragione,

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il regolarsi come essa prescrive, non umilia, ma anzi solleva e ingrandisce, perché ingrandisce ed innalza il vivere conformemente all’ordine eterno e alla ragione divina.

L’obbligo di ubbidire alla legge non è fondato sulla volontà di un altro uomo, ma sulla ragione; ma la ragione soltanto, secondo i teologi, non è sufficiente per comandare. E allora cercarono in una regione più elevata la sanzione della legge; e quando si trattò di agire sulla coscienza dell’uomo e di vincolarla ad un dovere, nulla trovarono nella sfera delle cose terrene che potesse giungere a tanto. «Le leggi umane – dice il santo Dottore, – se sono giuste, ricevono dalla legge eterna, dalla quale provengono, la forza di obbligare nel tribunale della coscienza, secondo il passo dei Proverbi (8, 15): “Per mezzo mio regnano i re e i magistrati emettono giusti decreti”». (1-2. Quest. 96. art. 3). Dal che ne segue che secondo San Tommaso la legge giusta deriva non già precisamente dalla ragione umana, ma dalla legge eterna, dalla quale riceve la forza di obbligare nel tribunale della coscienza.

Questo è indubbiamente un po’ più filosofico che cercare nella sapienza umana, nei patti, nella volontà generale, la forza obbligatoria delle leggi: così si spiegano i diritti, i veri diritti dell’umanità; così si limita ragionevolmente l’autorità civile, così si ottiene facilmente l’ubbidienza; così si stabiliscono su basi ferme e indistruttibili i diritti e i doveri sia dei governanti che dei governati. Così comprendiamo, senza difficoltà, cos’è il potere, cos’è la società, cosa sono l’ubbidienza e il comando. Così non regna sugli uomini la volontà di un altro uomo, non regna la semplice ragione, ma la ragione derivata da Dio, o per dir meglio la stessa ragione di Dio, la legge eterna, Dio medesimo. Teoria sublime, in cui l’autorità trova i suoi diritti, i doveri, la forza, il potere, il fascino; e la società vi trova la più ampia garanzia di ordine, di felicità, di vera libertà! Teoria sublime, che dal comando fa sparire la volontà dell’uomo, convertendola in uno strumento della legge eterna, in un ministero divino!

Diretta al bene comune, ad bonum commune: questa è un’altra condizione assegnata da S. Tommaso per costituire la vera legge. Fu chiesto se i re erano per i popoli, o i popoli per i re. Quelli che fecero questa domanda non avevano riflettuto abbastanza né sulla natura della società, né sul fine di essa, né sull’origine e il fine dell’autorità. L’espressione concisa che abbiamo citata, al bene comune, ad bonum commune, risponde in modo soddisfacente a questa domanda. «Le leggi possono essere ingiuste – dice il santo Dottore – in due modi: o perché sono contrarie al bene comune, oppure per il fine, come quando un governo impone leggi onerose ai sudditi, non per il vantaggio comune ma piuttosto per cupidigia o ambizione... e queste sono piuttosto violenze che leggi» (1-2. Quaest. 96. art. 4). Da questa dottrina si deduce che il comando è per il bene comune, che mancandogli questa condizione è ingiusto, e che i governanti sono investiti dell’autorità per farne uso a vantaggio dei governati. I re non sono gli schiavi dei popoli, come ha preteso

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una filosofia assurda che ha voluto mettere mostruosamente insieme cose contraddittorie; tantomeno il potere è un semplice mandatario che eserciti un’autorità fittizia che dipenda per ogni minima cosa dal capriccio di coloro a cui comanda. Ma neanche i popoli sono proprietà dei re, e anche questi non possono considerare i loro sudditi come schiavi dei quali sia lecito disporre secondo il loro libero volere; e i governi non sono arbitri assoluti della vita e delle cose dei governati; e hanno l’obbligo di vigilare su di essi, non come il padrone sullo schiavo da cui vuole ricavare profitto, ma come il padre sul figlio che egli ama e che procura di rendere felice.

«Il regno non è per il re, ma il re per il regno» dice il santo Dottore, che non mi stancherò mai di citare; e con uno stile mirabile per la forza e l’energia prosegue: «Perché Dio li costituì per reggere e governare, e per conservare a ciascuno i propri diritti: questo è il fine dell’istituzione; che se operano diversamente, facendo le cose per il loro interesse particolare, non sono re, ma tiranni». (Divus Thomas de reg. princ. cap. 11).

Secondo questa dottrina è evidente che i popoli non sono per i re, e che i governati non sono per i governanti; ma che tutti i governi sono stabiliti per il bene della società, e che questo bene deve essere la bussola di chi comanda, qualunque ne sia la forma di governo. Dal presidente della più piccola repubblica fino al più potente sovrano nessuno può esimersi da questa legge perché è una legge anteriore alle società, legge che presiedette alla formazione delle società, legge che è superiore alle leggi umane, perché è derivata dall’Autore di ogni società, dalla Fonte di ogni legge.

E quindi i popoli non sono per i re, e i re sono per il bene dei popoli, perché mancando questo fine il governo non serve a nulla, diventa inutile; e su questo punto non c’è alcuna differenza tra la repubblica e la monarchia. Chi adula i re esprimendo princìpi contrari a quelli detti sopra, li perde; non è così che la religione ha parlato loro in tutti i tempi; non è questo il linguaggio di quegli uomini illustri che, vestiti di abiti sacerdotali, hanno portato ai potenti della terra le ambasciate del cielo: «Re, prìncipi, magistrati – esclama il venerabile Palafox, – ogni giurisdizione è ordinata da Dio per la conservazione, non per la distruzione dei popoli; per la difesa, non per l’offesa; per il diritto, e non per l’ingiuria degli uomini. Coloro che scrivono che i re possono ciò che vogliono, e fondano il potere sulla propria volontà, aprono la porta alla tirannia. Coloro che scrivono che i re possono ciò che debbono, e possono tutto ciò di cui hanno bisogno per la conservazione dei sudditi e per la difesa della corona, per l’esaltazione della fede e della religione, per la buona e retta amministrazione della giustizia, per la conservazione della pace e per il giusto sostegno della guerra, per il giusto e conveniente splendore della dignità reale, e per l’onesto mantenimento della loro casa e della loro famiglia; questi dicono la verità senza adulazione, aprono la porta alla giustizia e a tutte le virtù magnanime e regali» (Storia reale sacra lib 1. cap. 11).

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Quando Luigi XIV diceva: «Lo Stato sono io», non l’aveva imparato certo né da Bossuet, né da Bourdaloue, né da Massilon. Quello che parlava con la sua bocca era l’orgoglio esaltato da tanta grandezza e potenza e infatuato da vili adulazioni. Profondi segreti della Provvidenza! Il cadavere di quest’uomo, che si definiva lo Stato, al momento delle esequie fu oltraggiato; e non era ancora passato un secolo che un suo discendente finiva sul patibolo! È così che le dinastie e le nazioni vanno espiando i loro errori; ed è così che, quando è piena la misura del divino sdegno, il Signore rammenta ai popoli sbigottiti che il Dio delle misericordie è anche il Dio delle vendette; e come aprì sulla terra le cateratte del cielo, così scatena sui re e sui popoli le tempeste della rivoluzione.

Fondati che siano i diritti e i doveri dell’autorità su una base solida come l’origine divina, e guidati da una regola tanto sublime come la legge eterna, non vi è alcuna necessità di esaltarla con eccessive lodi, né di attribuirle delle facoltà che non le appartengono; così come,d’altra parte, non è neanche necessario che se ne esiga l’adempimento degli obblighi con quell’imperiosa alterigia che la umilia e la infastidisce. Sia le adulazioni che le minacce all’autorità legittima sono inutili quando ci siano altre spinte che la fanno muovere, ed altri freni che la mantengono nei limiti convenienti. Il popolo non innalzi una statua al re per tributargli un culto; ma non si abbandoni neanche in balìa di tribuni che ben presto ne facciano oggetto di scherni e di beffe, qual vile trastullo delle passioni dei demagoghi.

Nella definizione che stiamo analizzando del santo Dottore, bisogna notare la moderazione e la delicatezza, perché non c’è la minima parola che possa offendere la sensibilità dei settari più fanatici delle libertà pubbliche. Dopo aver posto la legge sotto l’imperio della ragione, dopo averle assegnato come unico fine il bene comune, quando passa a trattare dell’autorità di chi la promulga e di chi deve averne cura, metterla in esecuzione e farla osservare, non parla affatto di dominio, non adopera nessuna espressione che possa indicare una sottomissione eccessiva: fa uso bensì della parola più misurata che si possa trovare: cura: «qui comunitatis curam habet promulgata». Se si nota come l’autore pesi le parole come si pesa l’oro, come se ne serva con la più scrupolosa delicatezza, dilungandosi, se necessario, cioè se ve ne fosse qualcuna un po’ ambigua, nello spiegare il senso; se si nota questo allora si capirà quali erano le idee di questo grande teologo sull’autorità. E allora si vedrà se le dottrine favorevoli all’oppressione e al dispotismo abbiano potuto prevalere nelle scuole cattoliche, quando pensava e si esprimeva in questi termini colui che fu, ed è tuttora, considerato quasi un oracolo e ritenuto poco meno che infallibile.

Si confronti la definizione di S. Tommaso sulla legge, che è adottata da tutti i teologi, con quella che ne dà Rousseau. In quella del Santo, la legge è l’espressione della ragione, in questa di Rousseau l’espressione della volontà; in quella è un’applicazione della legge eterna, in questa il prodotto della

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volontà generale. Da che parte sta la sapienza e il buon senso? Fu proprio perché tra i popoli europei la legge fu compresa come la spiega S. Tommaso, e con lui tutte le scuole cattoliche, che la tirannia fu bandita dall’Europa, il dispotismo asiatico fu reso impossibile e si fondò la meravigliosa istituzione della monarchia europea. Quando poi la legge fu intesa come la spiega Rousseau, allora nacque la Convenzione con i suoi patiboli e i suoi orrori.

La teoria della volontà universale è stata già abbandonata da quasi tutti gli studiosi di diritto pubblico; e gli stessi sostenitori della sovranità popolare, nel descrivere in che modo esercitarla, escludono che la legge debba essere il prodotto della volontà di tutti i cittadini. La legge, dicono, non è l’espressione della volontà universale, ma della ragione universale; e come il filosofo di Ginevra credeva che fosse necessario raccogliere tutte le volontà individuali per farne la somma (cioè la volontà universale, secondo lui), così adesso gli studiosi di cui parliamo ritengono necessario raccogliere, nella nazione governata, la maggior parte della ragione, affinché, trasferita nel governo, possa servire di guida e di regola, non essendo i governanti che strumenti per applicarla. Chi comanda, dicono essi, non sono gli uomini, ma la legge; e la legge non è altro che la ragione e la giustizia.

In Europa questa teoria, in tutto ciò che ha di vero e prescindendo dalle errate applicazioni che se ne fanno, non è una scoperta della scienza moderna, ma un principio tradizionale che ha presieduto alla formazione delle nostre società, ed ha regolato il potere civile in un modo che non assomiglia per niente a quello degli antichi, e neanche a quello degli altri popoli moderni che non appartengono alla nostra civiltà. Se si considera bene, questo è il principio che ha creato quel fenomeno singolare che rende le monarchie europee, anche le più assolute, molto diverse da quelle asiatiche; e che anche quando la società era priva di garanzie legali contro il potere dei re, ne aveva tuttavia ugualmente di fortissime, cioè quelle morali. La scienza moderna dunque non ha scoperto un nuovo principio di governo, ma senz’accorgersene ha riesumato l’antico; e nel rigettare la dottrina di Rousseau non ha fatto, come suol dirsi, un passo avanti, ma piuttosto uno indietro; e non è sempre un danno andare indietro, perché non lo è, né può esserlo, allontanarsi dall’orlo del precipizio per rimettersi sulla giusta strada.

Rousseau deplorò, con giusta ragione, certi scrittori che avevano troppo esaltato le prerogative dell’autorità civile al punto di mutare il popolo in un gregge di cui i governanti potessero disporre secondo i loro interessi o i loro capricci. Queste critiche però non si possono addebitare né alla Chiesa cattolica né ad alcuna delle illustri scuole che da essa hanno avuto origine. Il filosofo di Ginevra attaccò energicamente Hobbes e Grozio per aver essi sostenuta questa dottrina; e sebbene noi Cattolici non abbiamo nulla a che fare con questi autori, osserverò tuttavia che sarebbe ingiusto mettere il secondo sulla stessa linea del primo.

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È vero che Grozio fornisce qualche motivo all’accusa quando sostiene che vi sono dei casi in cui i poteri non sono a vantaggio del popolo ma di quello dei governanti; egli infatti dice: «Sic imperia quaedam esse possunt comparata ad regum utilitatem» (De jure belli et pacis. lib. I cap. 3). Ma nel riconoscere la tendenza pericolosa di un tale principio bisogna convenire che il complesso delle dottrine dello studioso olandese di diritto pubblico non vanno, come quelle di Hobbes, a distruggere completamente la morale.

Resa a Grozio la giustizia che merita, perché non vogliamo che in nessun senso si esagerino gli errori anche quando riguardano un nostro avversario, è giusto che i Cattolici si compiacciano nell’osservare che simili dottrine non furono mai nemmeno pensate da coloro che professano la vera fede; e che i funesti princìpi che conducono all’oppressione del popolo sono nati proprio tra coloro che si allontanarono dall’insegnamento della cattedra di S. Pietro.

I Cattolici non hanno mai pensato di approfondire se i re, per quanto portassero all’estremo l’arbitrio ed il dispotismo, potessero avere un diritto illimitato sulla vita e sulle cose dei sudditi al punto da far loro ingiustizia. Quando l’adulazione ha alzato la voce per esaltare le prerogative dei re, è stata subito soffocata dalle grida unanimi dei sostenitori delle sane dottrine; e non manca un esempio singolare di una solenne ritrattazione comandata dal tribunale dell’Inquisizione ad un predicatore che aveva passato i limiti (vedi al Cap. XXXVII). Non accadde certo in Inghilterra, che è per eccellenza il paese contrario al Cattolicesimo. Mentre in Spagna era severamente proibito spargere queste massime degradanti, in Inghilterra tale questione fu affrontata molto seriamente, e gli studiosi si dividevano in opinioni opposte.

Ogni lettore, purché sia imparziale, si sarà già fatta un’idea sul valore che hanno le querimonie contro il diritto divino e la pretesa apertura delle dottrine cattoliche al dispotismo e alla schiavitù. L’esposizione che ho fatto su queste dottrine non è certo fondata su vani ragionamenti fatti apposta per rendere oscura la questione e schivando, come suole dirsi, la parte più ardua della difficoltà. Si trattava di sapere in che consistessero queste dottrine, ed io ho dimostrato con molta evidenza che chi le calunnia non le comprende, e che dobbiamo supporre che molti non abbiano fatto mai la fatica di esaminarle, tanta è la superficialità e l’ignoranza con cui ne parlano.

Forse avrò ecceduto nel riportare testi e citazioni; ma bisogna notare che non intendevo esporre una dottrina, ma esaminarla storicamente; e la storia non richiede discorsi, ma fatti; e i fatti, in materia di dottrine, non sono altro che il modo di pensare degli autori che le professarono.

Poiché in questi tempi si sta notando un salutare ritorno verso i sani princìpi, bisogna guardarsi bene dal presentare agli intelletti una verità parziale; è molto importante, per la causa della religione cattolica, che i suoi difensori non siano sospettati neanche lontanamente di simulazione o malafede. Per questo motivo non ho esitato a sviluppare il complesso delle dottrine degli scrittori cattolici così come le ho trovate nelle loro opere. Per

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cui, se i Protestanti e gli atei sono riusciti a trarre la gente in inganno col rendere queste dottrine oscure, e confonderle sempre più, io nutro in cuore la speranza di essere a mia volta riuscito a scoprirne gli inganni, restituendo alle dottrine l’originale chiarezza e distinzione.

Nel sèguito dell’opera mi propongo tuttavia di esaminare altre questioni relative allo stesso argomento; questioni che, se non sono le più importanti, sono certamente le più delicate. Per questo motivo ho dovuto sgombrare la strada dagli errori, per poter poi proseguire con più libertà e con maggiore scioltezza.

Ho fatto in modo che la causa della religione si difendesse con le proprie forze, senza mendicare aiuti di cui non ha bisogno. E così continuerò a procedere come ho fatto finora, perché sono intimamente convinto che al Cattolicesimo venga prodotto un danno quando, nel farne l’apologia, vi s’immischino interessi politici o si tenti di rinchiuderlo in uno spazio ristretto in cui non può essere contenuto per la sua vastità immensa. Gl’imperi passano e si dileguano, ma la Chiesa di Gesù Cristo durerà sino alla consumazione dei secoli; le opinioni vanno soggette a cambiamenti e a modifiche, ma i sacri dogmi della nostra religione rimangono immutabili; i troni si innalzano e cadono in rovina, ma la pietra sulla quale Gesù Cristo edificò la sua Chiesa sfida la corrente dei secoli, e le porte dell’inferno non prevarranno mai contro di essa. Quando ci disponiamo a difenderla dobbiamo renderci conto della grandezza della nostra missione: niente esagerazioni né adulazioni ma la pura verità, con un linguaggio misurato ma fermo e severo. Sia che rivolgiamo la parola ai popoli, sia che parliamo ai re, non dimentichiamo che al di sopra della politica c’è la religione, e al di sopra dei popoli e dei re c’è Dio. Torna all’indice

CAPITOLO LIV

Sull’opposizione all’autorità civile. Confronto tra il Protestantesimo e il Cattolicesimo. La dignitosa, ma inutile timidezza di certi uomini. L’attitudine delle rivoluzioni. La forza di persuasione. Si ricorda il principio insegnato dal Cattolicesimo sull’obbligo di obbedire alle autorità legittime. Soluzione di questioni preliminari. Differenza delle due autorità. Differenza di opinioni tra il Cattolicesimo e il Protestantesimo sulla separazione delle due autorità. L’indipendenza dell’autorità spirituale è una garanzia di libertà per i popoli. Gli estremi si toccano. Dottrine di S. Tommaso sull’obbedienza.

_______________ Ora che sulla questione dell’origine e dei poteri dell’autorità civile il

Cattolicesimo ne è uscito giustificato, andiamo ad affrontarne un’altra la quale, se non è più grave della precedente, è tuttavia molto delicata e spinosa. Ed affinché si sappia che io affronterò la questione di petto, e che per difendere la verità non ricorrerò a simulazioni ed ambiguità, dirò apertamente

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che mi accingo ad esaminare se possa esser lecito in qualche caso opporre resistenza all’autorità civile. Non credo di poter essere più chiaro, e di poter impostare in termini più semplici e comprensibili la questione più importante, difficile e pericolosa che si possa presentare in questo genere di materie.

Tutti sanno che il Protestantesimo fin dalla sua origine proclamò il diritto di ribellarsi all’autorità civile, come anche è noto a tutti che il Cattolicesimo ha sempre predicato l’ubbidienza alla stessa autorità civile: possiamo allora dire che il Protestantesimo fin dalla nascita fu un elemento di rivoluzioni e sconvolgimenti, il Cattolicesimo invece di tranquillità e di ordine. Questa differenza potrebbe far pensare che il Cattolicesimo sia favorevole all’oppressione perché lascia il popolo senza armi per rivendicare la libertà. «Voi – ci diranno i nostri avversari – predicate l’ubbidienza all’autorità civile e scagliate sempre l’anatema contro la ribellione dei sudditi; pertanto, qualora si giunga alla tirannia, voi ne sarete i più potenti difensori, perché con la vostra dottrina trattenete il braccio che vuole sollevarsi in difesa della libertà, e soffocate con la voce della coscienza lo sdegno che prorompe dai cuori generosi». E allora è della massima importanza chiarire, per quanto è possibile, questa importantissima questione, distinguendo la verità dall’errore e la certezza dal dubbio.

Non mancano persone timide che non si arrischiano ad affrontare questo genere di argomenti, e forse preferirebbero che siano coperti da un velo che non si azzarderebbero a sollevare per timore di scoprirvi un abisso. Bisogna dire che la loro pusillanimità non è senza giustificazione, perché realmente qui abbiamo degli abissi, e abissi senza fondo! Vi sono dei pericoli, e pericoli tali da far tremare! Un passo incerto può farci precipitare; con un gesto imprudente si può spalancare la porta ad ogni tempesta e metter sottosopra la società. Ciò nonostante a codeste persone troppo timide, ma peraltro di buoni propositi, conviene far notare che a nulla giova il loro riserbo, e che dalla loro prudente accortezza non si ricava alcun utile. Senza di loro, e loro malgrado, le questioni sono sostenute, discusse e risolte in un modo penoso; e quel ch’è peggio, le teorie hanno lasciato la sfera speculativa per passare alla pratica. Le rivoluzioni non dispongono solamente di libri, ma anche della forza, e abbandonando il recesso appartato del filosofo sono andate correndo per le strade e per le pubbliche piazze.

Se le cose sono giunte ad un tale eccesso è inutile andare avanti con palliativi, minimizzare il problema o ricorrere al silenzio. Conviene dire la verità quale è tutta intera, perché la verità non teme l’esposizione alla luce né gli assalti dell’errore; essendo la verità non può ricevere danno dall’essere manifestata e diffusa, perché Dio, autore della società, non l’ha fondarla sulle menzogne. E questo è tanto più necessario in quanto le vicende politiche hanno fatto sì che alcuni non la conoscessero, o almeno non la comprendessero perfettamente, ed altri credessero che le dottrine che prescrivono l’ubbidienza all’autorità legittima non siano altro che la voce di

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un partito che tenta di assicurarsi il dominio. Gli uomini che seguono dottrine degenerate o dalle intenzioni perverse hanno un loro prontuario, una guida a cui ricorrono ogni volta torni utile ai loro disegni; errori funesti o vili interessi guidano i loro passi, e qui cercano lumi, e da qui traggono le loro ispirazioni. Bisogna dunque che anche le persone di sana dottrina e di retta intenzione sappiano come regolarsi nelle incertezze politiche, e non si limitino a conoscere solo in modo generico il principio dell’ubbidienza all’autorità legittima, ma sappiano anche come questo principio debba essere applicato.

È vero che nei conflitti che i moti popolari si portano appresso non sono pochi quelli che mettono da parte le proprie convinzioni per agire secondo i propri interessi; ma è anche certo che le persone di coscienza sono ancora in gran numero. Inoltre, non essendo molto frequente che in una nazione ci si trovi oppressi al punto da non poter scegliere tra il sacrificio della propria convinzione e l’affrontare pericoli gravi ed immediati, accade generalmente che tale convinzione possa esercitare la sua influenza e prevenire molti mali o porvi riparo. Secondo certi pessimisti la ragione e la giustizia hanno abbandonato per sempre questo mondo lasciandolo in preda agli interessi, e sostituendo ai dettami della coscienza le sollecitazioni dell’egoismo. A detta di costoro è inutile esporre e studiare a fondo gli argomenti che possono servirci come regola del nostro agire, perché qualunque sia la convinzione teorica, la sua applicazione sarà sempre la stessa. Io ho la fortuna, o la disgrazia, di vedere le cose un po’ meno cupe, e di credere che al mondo ci siano ancora, e soprattutto in Spagna, persone di convinzioni profonde e di forza d’animo sufficiente per avere una condotta conforme alle medesime. La prova più evidente dell’esagerazione in cui si cade quando si proclama l’inutilità delle dottrine, è la premura con cui tutti i partiti cercano d’impadronirsene. O per interesse, o per un certo pudore, tutti le invocano; e quest’interesse e questo pudore non esisterebbero se le dottrine non conservassero ancora nella società un forte ascendente.

Non c’è cosa che ingarbugli ancor più le varie questioni quanto il discuterle tutte insieme; e per questo motivo farò in modo di distinguere le varie questioni che si presenteranno, risolvendo quelle che interessano e mettendo da parte quelle che non c’entrano col nostro argomento.

Prima di tutto conviene rammentare il principio generale sempre insegnato dal Cattolicesimo, cioè l’obbligo di ubbidire all’autorità legittima. Vediamo adesso quali sono le considerazioni che dobbiamo fare su questo principio.

In primo luogo: si deve ubbidire all’autorità civile quando comanda cose per sé cattive? No, né si può, né si deve obbedire per la semplice ragione che tutto ciò che di sua natura è male, è proibito da Dio, e bisogna ubbidire piuttosto a Dio che agli uomini.

In secondo luogo: si deve ubbidire all’autorità civile quando comanda in materie che non sono nella sfera delle sue facoltà? No, perché riguardo a queste materie essa non è autorità; infatti, il fatto stesso che si presume che le

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sue facoltà non si estendano a queste materie dice che su questo punto essa non è vera autorità. E non si creda che io mi riferisca particolarmente alle cose spirituali, o che faccia allusione soltanto a queste, perché intendo questa limitazione dell’autorità civile anche riguardo a cose puramente temporali. Per meglio capirci voglio ricordare quanto già dissi in un capitolo precedente di quest’opera (cap. XXIII): cioè, che sebbene l’autorità civile debba avere la forza e le caratteristiche necessarie per conservare l’ordine e l’unità nel corpo sociale, è necessario tuttavia che il governo non assimili l’individuo e la famiglia a tal punto da provocare l’annientamento della loro vita privata, facendo mancare la sfera intima dove poter agire prescindendo dal fatto di essere un elemento appartenente alla società. Una delle differenze tra la civiltà cristiana e la pagana consiste proprio in questo: la pagana si preoccupava talmente dell’unità sociale che non badava affatto ai diritti dell’individuo e della famiglia; mentre la civiltà cristiana ha combinato gl’interessi dell’individuo e della famiglia con quelli della società in modo tale che gli uni non distruggano gli altri, né siano vicendevolmente d’intralcio. Quindi, oltre la sfera su cui si estende l’azione dell’autorità pubblica, ne concepiamo delle altre dove l’autorità pubblica non ha nulla a che fare, e dove gli individui e le famiglie possano vivere senza il timore di scontrarsi contro la forza preponderante del governo.

È giusto far notare quanto abbia contribuito il Cattolicesimo a mantenere questo principio, che è una potente garanzia per la libertà dei popoli. La separazione delle due autorità, temporale e spirituale, l’indipendenza di questa da quella, il fatto che non sono riunite nello stesso soggetto, hanno prodotto meglio di ogni altra cosa quella libertà che i popoli europei godono sotto le varie forme di governo. Questa indipendenza dell’autorità spirituale, a parte il fatto che è insita nella sua stessa natura, origine e fine, è stata fin dagli inizi della Chiesa come un monito perenne che quella civile ha i suoi poteri limitati, e che vi sono materie in cui l’autorità civile non può intromettersi, e vi sono casi in cui l’uomo può e deve dirle: io non ti ubbidirò.

Il Protestantesimo invece anche sotto questo aspetto operò per un regresso della civiltà europea; e anziché aprire la strada alla libertà fabbricò le catene della schiavitù. Incominciò con l’abolire l’autorità del Papa, abbattere la gerarchia, negare alla Chiesa ogni autorità e attribuire ai prìncipi l’autorità spirituale. In altre parole, la sua opera consistette nel tornare alla civiltà pagana in cui erano riuniti lo scettro e il pontificato. La grande opera politica, prima del Protestantesimo, era consistita proprio nel separare questi due poteri affinché la società non si trovasse sottomessa ad un potere unico ed illimitato il quale, esercitando le sue facoltà senza alcun contraddittorio, giungesse a vessarla ed opprimerla. E questa separazione fu condotta ovunque si fosse stabilito il Cattolicesimo, senza alcun interesse politico o mira particolare da parte degli uomini, perché così richiedeva la morale e così insegnavano i suoi dogmi.

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È cosa veramente singolare che i fanatici delle teorie dell’equilibrio e dei contrappesi, che tanto hanno esaltata la divisione del potere per evitare che degeneri in tirannia, non abbiano poi percepita la profonda sapienza racchiusa in questa dottrina cattolica, anche considerandola soltanto sotto l’aspetto sociale e politico. Infatti, contrariamente ai loro princìpi, possiamo notare che tutte le rivoluzioni moderne hanno manifestato una decisa tendenza a riunire in un unico soggetto l’autorità civile e quella ecclesiastica. E questa è la prova evidente che tali rivoluzioni sono derivate da un’origine opposta al principio creatore della civiltà europea, e che invece di farla procedere verso la perfezione l’hanno fatta fuorviare.

L’autorità ecclesiastica unita a quella civile produsse in Inghilterra il dispotismo più atroce sotto i regni di Enrico VIII e di Elisabetta; e se quel paese ebbe successivamente il beneficio di conquistare un maggior grado di libertà non fu certamente per l’investitura religiosa che il Protestantesimo diede al capo dello Stato, ma bensì a suo discapito. Bisogna infatti osservare che se negli ultimi tempi in Inghilterra si è iniziato un periodo di più ampia libertà, questo è avvenuto per l’indebolirsi dell’autorità civile in ciò che riguarda la religione, e per l’incremento del Cattolicesimo, che per principio si oppone a questo mostruoso connubio tra le due autorità. Nel Nord dell’Europa, dove pure è prevalente il sistema protestante, l’autorità civile non conosce limiti; e attualmente possiamo vedere l’imperatore delle Russie abbandonarsi alla più fiera persecuzione contro i Cattolici, manifestando maggiore diffidenza nei riguardi di coloro che difendono l’indipendenza del potere spirituale che nei confronti dei circoli rivoluzionari. L’autocrate è avido di un’autorità senza limiti; e un istinto sicuro lo spinge ad irritarsi in modo particolare contro la religione cattolica, che per lui è l’ostacolo principale.

È degno della massima attenzione la concordanza che si nota per questo fatto in tutti i poteri che tendono al dispotismo, qualunque ne sia la forma, rivoluzionaria o monarchica. Quello stesso motivo che spingeva l’assolutismo di Luigi XIV a sopportare di malanimo gli ostacoli che gli frapponeva l’indipendenza dell’autorità spirituale, e ad evitare per quanto fosse possibile quella di Roma, muoveva anche l’assemblea Costituente quando percorreva la strada della rivoluzione. Il sovrano si appoggiava alle regalie e alle libertà della Chiesa gallicana; la Costituente invocava i diritti della nazione e i princìpi della filosofia: ma in sostanza era la stessa questione che si agitava, trattandosi sempre del fatto se l’autorità civile dovesse o no riconoscere qualche limite. Nel primo caso era la monarchia che tendeva al dispotismo, nel secondo era la democrazia che s’incamminava verso il terrore della Convenzione.

Quando Napoleone volle troncare il capo all’idra rivoluzionaria, riordinare la società e creare un’autorità legittima, usò la religione come il più potente strumento; e non essendovi in Francia altra religione influente che la cattolica, chiamò questa in aiuto e firmò il concordato. Si osservi però, che appena egli

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pensò di aver completata l’opera di restaurazione e di riorganizzazione, e appena furono passati i momenti critici nei quali si consolidò il suo potere, subito iniziò a espanderlo e a liberarsi di qualunque ostacolo, cominciando a vedere di malocchio quello stesso Pontefice che con tanto piacere egli aveva visto assistere all’incoronazione imperiale; e provocando gravi dissensi con lo stesso Pontefice finì col rompere i buoni rapporti e col divenirne il più violento nemico.

Queste osservazioni che sottopongo al giudizio di tutti gli uomini che pensano con rettitudine acquistano un peso ancora maggiore qualora si consideri ciò che è accaduto nella monarchia religiosa e cattolica per eccellenza, vale a dire in quella spagnola. Nonostante il predominio che ha avuto in Spagna la religione cattolica, fa ben meraviglia che il principio di opposizione alla Sede di Roma sia sempre rimasto vivo, al punto che sotto la dinastia austriaca e quella borbonica, mentre si faceva in modo di mettere da parte le antiche leggi in tutto ciò che avevano di favorevole per la libertà politica, si conservava però come un sacro deposito la tradizione di opposizione di Ferdinando il Cattolico, di Carlo V e di Filippo II alla Sede di Roma. Per la verità le profonde radici che il Cattolicesimo aveva gettato in Spagna non permettevano che le cose arrivassero agli estremi; ciò non toglie che il germe esisteva e si andava trasmettendo di generazione in generazione, come se vi fosse la speranza che si potesse sviluppare completamente in tempi più opportuni.

Ed infatti, salita al trono la dinastia dei Borbone, ed inaugurata così in Spagna praticamente la monarchia di Luigi XIV, vi furono cancellate le ultime tracce delle antiche libertà in Castiglia, in Aragona, in Valenza e in Catalogna; e la mania delle regalie giunse al più alto grado nei regni di Carlo III e di Carlo IV. E per una coincidenza, che merita di essere considerata, l’epoca in cui fu più viva la diffidenza contro le richieste della Sede di Roma e contro l’indipendenza dell’autorità spirituale fu proprio quella in cui il dispotismo dell’autorità civile e, quel che è peggio, l’arbitrio di un privato, era giunto al massimo livello.

È vero che a quei tempi i re, e forse anche alcuni ministri, senza che se ne avvedessero erano già influenzati dallo spirito delle idee della scuola francese; ma un tale fatto, ben lungi dal far apparire meno valide le riflessioni che stiamo conducendo, le rende ancora più pertinenti, ne mostra la solidità e l’ampiezza in quanto vengono applicate a situazioni molto diverse. Si trattava di distruggere l’antico potere e sostituirlo con un altro non meno ampio, e si faceva quindi in modo da indurlo ad abusare della sua autorità; e nello stesso tempo si instillavano delle idee che potessero successivamente tornare utili quando alla monarchia assoluta fosse subentrata la rivoluzione. Gravi riflessioni si affollano alla mente (e si scoprono interessanti analogie tra situazioni apparentemente opposte) nel vedere istruire processi contro i vescovi per motivi simili a quelli che furono avviati in un famoso processo ai

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tempi di Carlo III; quando cioè vediamo nei supremi tribunali dei nostri giorni i magistrati che ripetono quelle stesse dottrine che l’antico Consiglio sentì uscire dalla bocca dei suoi magistrati di allora. Così, per quanto paiono distanti, gli estremi si toccano; così, per strade diverse, si giunge al medesimo traguardo. Secondo le massime degli antichi magistrati l’autorità del sovrano era tutto e i diritti della corona erano l’arca santa che non era consentito toccare, e forse neanche guardare, senza commettere un sacrilegio. L’antica monarchia scomparve, il trono non è che un’ombra di quello che fu, la rivoluzione trionfante ha imposto la sua legge, e dopo un cambiamento così profondo, non è molto che un magistrato del tribunale supremo, accusando un vescovo di attentato contro i diritti dell’autorità civile, disse: «Nello Stato neanche una foglia si può muovere senza il permesso del governo». Queste parole non hanno bisogno di commenti; le udì lo stesso autore di quest’opera, e al sentir proclamare l’arbitrio con tanta schiettezza e semplicità gli parve che una nuova luce illuminasse la storia.

La gravità e l’importanza della materia richiedeva questa breve digressione per mostrare quanto può contribuire alla vera libertà il principio cattolico dell’indipendenza dell’autorità spirituale; perché racchiude il concetto che i poteri dell’autorità civile hanno i loro limiti, e perciò è una perenne condanna del dispotismo. Per tornare dunque alla questione iniziale, deve essere chiaro che è obbligatorio obbedire all’autorità civile quando essa comanda nella sfera delle sue attribuzioni; ma nessuna dottrina cattolica ne prescrive l’ubbidienza quando l’autorità civile esce da questa sfera.

Non dispiacerà al lettore sapere quale fosse sull’obbedienza il pensiero di uno dei più illustri interpreti del dogma cattolico, il santo Dottore da me tante volte citato. Secondo San Tommaso quando le leggi sono ingiuste (e secondo l’opinione del Santo l’ingiustizia può essere fondata su molte ragioni) non obbligano la coscienza, e non si deve quindi prestare loro ubbidienza se non per evitare lo scandalo e per non arrecare mali maggiori. Cioè, in certi casi l’osservanza della legge ingiusta potrà essere obbligatoria non per un dovere che ne derivi, ma per seguire i consigli della prudenza. Ecco le sue parole, alle quali prego i lettori di prestare la massima attenzione: «Le leggi sono ingiuste per due motivi: o perché contrarie al bene comune, o per il loro fine, come nel caso in cui il governante imponga ai sudditi leggi onerose non per motivi di bene comune, ma per propria cupidigia o ambizione; oppure a causa del suo autore, come quando uno fa una legge uscendo dai limiti delle facoltà che ha; oppure ancora per la forma, come, per esempio, quando gli oneri, per quanto siano ordinati al ben comune, non sono ripartiti equamente sui sudditi: e queste leggi sono piuttosto violenze che leggi, perché come dice S. Agostino (lib. 1. de lib. Arb. cap. 5), non si ritiene legge quella che non sia giusta, e perciò queste leggi non obbligano nel tribunale della coscienza se non, eventualmente, per evitare lo scandalo o il disonore; per il quale motivo l’uomo deve cedere il proprio diritto, secondo le parole di S. Matteo: A chi ti

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vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due. (Mt. 5, 40 s). In altro modo possono essere ingiuste le leggi, cioè per opposizione al bene divino, come le leggi dei tiranni che spingono all’idolatria, o a qualunque altra cosa contraria alla legge divina; e in questi casi non è lecito in alcuna maniera osservare tali leggi, perché, come leggiamo negli Atti degli apostoli, dobbiamo ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini (cfr. At 5, 29)» (D. Th. 1-2. Q. 90. art. 1).

Da questa dottrina si cavano le seguenti regole. Prima: in nessuna maniera si deve ubbidire all’autorità civile quando

comanda cose contrarie alla legge divina. Seconda: quando le leggi sono ingiuste non obbligano nel tribunale della

coscienza. Terza: potrebbe essere necessario ubbidire a queste leggi per ragioni di

prudenza, cioè per evitare lo scandalo o il disordine pubblico. Quarta: le leggi sono ingiuste per i seguenti motivi: quando sono contrarie

al bene comune; quando non sono dirette a questo bene; quando il legislatore va oltre le sue facoltà; quando, sebbene dirette al bene comune e deliberate dall’autorità competente, non posseggono la dovuta equità, come per esempio se gli oneri non sono ripartiti equamente tra il popolo.

Abbiamo citato e trascritto l’autorevole testo dal quale sono state ricavate queste regole; l’illustre autore è stato la guida di tutte le scuole teologiche nei sei ultimi secoli; la sua autorità, quando si tratta di argomenti riguardanti il dogma e la morale, non è stata mai rigettata dalle scuole e perciò queste regole devono essere considerate come un compendio delle dottrine dei teologi cattolici riguardo all’ubbidienza dovuta all’autorità. Adesso possiamo ben appellarci con piena fiducia al giudizio di tutti gli uomini di senno affinché stabiliscano se in queste dottrine si trovi la minima traccia di dispotismo, la minima tendenza alla tirannia, se attentino anche minimamente alla vera libertà. Non vi si scorge il più leggero indizio di adulazione al potere, ma anzi ne vengono assegnati i confini col massimo rigore; e se il potere li oltrepassa gli si dice apertamente: «Le tue leggi non sono leggi, ma violenze; non obbligano la coscienza; e se vi si presta ubbidienza non è per obbligo, ma piuttosto per prudenza, onde evitare tumulti o scandali; e a te ne viene un tale disonore che, lungi dal poterti vantare del trionfo, ti rendi simile al ladro che ruba all’uomo pacifico la tonaca, e a cui questo uomo per spirito di pace ti abbandona anche il mantello». Se queste dottrine sono dottrine di oppressione e di dispotismo, allora è vero che siamo partigiani di un tale dispotismo e di una tale oppressione, perché non riusciamo a capire quali saranno mai le dottrine che potranno esser dette favorevoli alla libertà.

Con questi princìpi è stata fondata la meravigliosa istituzione della monarchia europea, e con questi insegnamenti sono stati stabiliti i confini morali nei quali è circoscritta e che la mantengono nei limiti dei suoi doveri

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anche senza tante garanzie politiche. Lo spirito, stanco di leggere tante e così insulse prediche contro la tirannia dei re, e per altro verso nauseato dal linguaggio adulatore e vile che nei tempi moderni viene adoperato per lusingare il potere, si esalta e si compiace nel trovare l’espressione pura, sincera e disinteressata in cui con tanta sapienza, con retta intenzione e generosa schiettezza si definivano i diritti e i doveri dei governi e dei popoli. E gli uomini che parlavano così che libri avevano consultato? La Sacra Scrittura, i Santi Padri, le raccolte dei documenti ecclesiastici. Ricevevano essi per caso le ispirazioni dalla società che li circondava? Per niente. Anzi, al contrario, in essa regnava il disordine e la confusione: ora vi dominava una torbida disubbidienza, ora il dispotismo. E ciò nonostante essi parlavano con una discrezione, una prudenza, una calma tale come se vivessero in mezzo alla società più ordinata. Avevano per guida la divina rivelazione, la quale insegnava loro la verità, e provavano spesso il dispiacere di vederla dimenticata e combattuta. Ma che importano le circostanze, per quanto funeste, quando si scrive in una regione superiore all’atmosfera delle passioni? La verità è di tutti i tempi: dirla sempre, e Dio farà il resto (5). Torna all’indice

CAPITOLO LV

Governi fondati sulla sola situazione di fatto. Diritto di opposizione a questo tipo di governo. Napoleone e il popolo spagnolo. Falsità della teoria che stabilisce l’obbligo di obbedire ai governi fondati sulla sola situazione di fatto. Soluzione di alcune difficoltà. Fatto compiuto. Come deve intendersi il rispetto per il fatto compiuto.

_______________ Le questioni sull’ubbidienza dovuta al potere civile, che abbiamo fin qui

trattate, sono di grande importanza; ma ancora più importante è quella sull’opposizione al potere stesso.

È possibile pensare che possa verificarsi un caso in cui sia lecito opporsi fisicamente all’autorità? È contemplato da qualche parte il diritto di destituirla? Fino a che punto arrivano in questa materia le dottrine cattoliche? Ecco i punti di estrema importanza che stiamo per esaminare.

Prima di tutto bisogna premettere, come già dimostrato, che è falsa la dottrina di quelli che sostengono di dover ubbidire ad un governo per il solo fatto che esiste, anche quando sia illegittimo. Questo è contrario alla retta ragione e non è mai stato insegnato dal Cattolicesimo. Quando la Chiesa predica l’ubbidienza all’autorità si riferisce a quelle legittime; e nel dogma cattolico non c’è spazio per l’assurdità che la semplice situazione di fatto costituisca il diritto. Se fosse vero che si debba ubbidire ad ogni governo stabilito anche se illegittimo, se fosse vero che non sia mai lecito resistergli, sarebbe altresì vero che il governo illegittimo avrebbe il diritto di comandare,

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poiché all’obbligo di ubbidire corrisponde il diritto di comandare, e quindi il governo illegittimo rimarrebbe legittimato dal solo fatto della sua esistenza. Rimarrebbero in questo caso legittimate tutte le usurpazioni, condannate le più eroiche opposizioni dei popoli, e il mondo sarebbe abbandonato alla pura legge della forza. Ma questa dottrina che fa dipendere la legittimità dal successo dell’usurpazione; questa dottrina che dice ad un popolo vinto e soggiogato da un usurpatore qualunque: «Ubbidisci al tuo tiranno; i suoi diritti si fondano sulla sua forza, e il tuo obbligo sulla tua debolezza»; questa avvilente dottrina non è vera. Non può essere vera questa dottrina che cancellerebbe dalla nostra storia le più belle pagine, quando sollevandosi contro il potere dell’usurpatore straniero la Spagna lottò per la durata di sei anni per l’indipendenza, e finalmente vinse il vincitore d’Europa. Anche se il potere di Napoleone si fosse affermato, il popolo spagnolo avrebbe conservato quello stesso diritto di sollevarsi che ebbe nel 1808. La vittoria non avrebbe legittimata l’usurpazione; le vittime del 2 maggio non legittimarono il potere di Murat; e quand’anche in ogni angolo della penisola si fossero viste le scene orribili del Prado, il sangue dei martiri della patria, coprendo di indelebile ignominia l’usurpatore e i suoi seguaci, avrebbe sanzionato vieppiù il sacro diritto di sollevarsi in difesa del trono legittimo e dell’indipendenza della nazione.

Conviene ripeterlo: sia nell’ordine privato che in quello pubblico la semplice situazione di fatto non forma il diritto; e se un giorno dovesse venir riconosciuto un tale principio, in quello stesso giorno sparirebbero dal mondo le idee di ragione e di giustizia. Coloro che per mezzo di questa funesta dottrina pretesero forse di lusingare i governi non si avvidero che ne minavano le fondamenta e spargevano il più fecondo germe di usurpazione e di rivoluzione. E chi può più sentirsi sicuro se viene stabilito come principio che il successo costituisce il diritto e che il vincitore è sempre il padrone legittimo? Non si spalanca forse così la porta a tutte le ambizioni e a tutti i delitti? E non sarebbe un eccitare gli uomini a dimenticare tutte le nozioni di diritto, di ragione, di giustizia, per non avere altra norma che la forza bruta? In verità quei governi che si trovassero difesi con dottrine tanto strane dovrebbero mostrare ben poca gratitudine ai loro insensati difensori. Questa non è difesa, ma offesa; e invece di considerarla un’apologia, dovrebbe piuttosto esser vista come un brutale sarcasmo. Infatti, sapete a cosa si riduce? Sapete come si può riassumere? In questo modo: «Popoli, ubbidite a chi vi comanda; voi dite che la sua autorità fu usurpata: è vero, ma l’usurpatore, proprio perché ha raggiunto il suo scopo, ha acquistato anche un diritto. Egli è un ladro che vi ha assalito per strada, vi ha rubato il denaro: è vero; ma proprio perché voi non gli poteste resistere e foste obbligati a darglielo, ora che è in suo possesso dovete considerare questo danaro come una sua sacra proprietà. È un furto: ma essendo il furto un fatto compiuto, non è più lecito che si torni indietro».

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Presentata sotto questo aspetto la dottrina del fatto appare così contrastante con le nozioni generalmente ammesse da tutti, che non può essere seriamente condivisa da nessuna persona ragionevole. Io non negherò che vi siano dei casi nei quali anche sotto un governo illegittimo convenga raccomandare al popolo l’ubbidienza; come, per esempio, quando si prevede che la resistenza sarebbe inutile e non produrrebbe altro che disordini e spargimento di sangue; ma nel raccomandare al popolo la prudenza, non bisogna farlo in modo che sia interpretata per una falsa dottrina; e nel temperare l’esasperazione per la sventura bisogna guardarsi dal propalare errori che sovvertano e i governi e le società.

Occorre notare che tutti i poteri, anche i più illegittimi, hanno un istinto più concreto di quello dei sostenitori di tali dottrine. Ogni potere all’inizio della sua esistenza, prima d’incominciare ad agire, prima di esercitare un atto qualunque, si preoccupa per prima cosa di legittimare se stesso. E lo fa cercando nel diritto divino o umano il pretesto della sua legittimazione: la fonda sulla nascita o sull’elezione, la fa derivare da diritti storici o dallo sviluppo improvviso di avvenimenti straordinari; ma sempre va a finire allo stesso punto, cioè alla pretesa della legittimità. La parola fatto non la pronuncia; l’istinto della propria conservazione gli dice che non può adoperarla, e che se lo facesse toglierebbe forza alla sua autorità, distruggerebbe l’incantesimo, additerebbe al popolo la via all’insurrezione, commetterebbe il proprio suicidio. Questo fatto costituisce la più esplicita condanna della dottrina che stiamo contestando. I più impudenti usurpatori sanno tuttavia rispettare il buon senso e la coscienza pubblica meglio di coloro che sostengono questa dottrina.

Avviene talvolta che le dottrine più erronee vengano coperte col velo della mitezza e della carità cristiana; e in questo caso bisogna rivolgersi agli argomenti che si oppongono ai fanatici di una cieca sottomissione ad ogni potere costituito. I quali ci diranno che la Sacra Scrittura prescrive di obbedire all’autorità senza fare alcuna distinzione, dunque non deve farla neanche il Cristiano, il quale si deve sottomettere con rassegnazione a qualunque autorità gli si presenti. A questa difficoltà si può dare le seguenti risposte, e tutte decisive: 1 – L’autorità illegittima non è autorità; l’idea di autorità contiene implicitamente l’idea di diritto; altrimenti non è altro che potere fisico, cioè forza. Ma quando la Sacra Scrittura prescrive l’ubbidienza all’autorità, parla di quella legittima. 2 - Il Sacro Testo, spiegando per qual motivo dobbiamo sottometterci all’autorità civile, ci dice che essa è ordinata da Dio medesimo, e che è il ministro dello stesso Dio; ed è chiaro che l’usurpazione non è investita di una così alta qualifica. L’usurpatore potrà essere, piacendo a Dio, lo strumento della Provvidenza, il flagello di Dio, come si definiva Attila, ma non già il Suo ministro. 3. La Sacra Scrittura, così come prescrive l’ubbidienza ai sudditi verso l’autorità civile, la ordina anche agli schiavi verso i loro padroni. Orbene: di quali padroni si parla? È evidente che si parla

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di quelli che avevano un dominio legittimo, come allora veniva inteso, conforme alla legislazione ed ai costumi in vigore; altrimenti si dovrebbe dire che il Sacro Testo ordina la sottomissione anche a quegli schiavi che si trovavano in tale stato per un puro abuso della forza. Dunque, siccome l’ubbidienza verso i padroni comandata nei Libri Santi non priva del suo diritto lo schiavo che fosse ingiustamente tenuto in schiavitù, così anche l’ubbidienza alle autorità costituite va intesa quando queste siano legittime, o quando così lo prescriva la prudenza per evitare sconvolgimenti e scandali.

A sostegno della dottrina del fatto talvolta si porta come esempio il modo di agire dei primi Cristiani: «Questi – si dice – ubbidirono alle autorità costituite senz’andare a vedere se fossero legittime o no. In quei tempi le usurpazioni erano frequenti; lo stesso trono dell’impero era fondato sulla forza; coloro che lo occupavano erano spesso debitori del loro insediamento all’insurrezione militare o all’assassinio del loro predecessore. Con tutto ciò non si vide mai che i Cristiani si mettessero a fare questioni di legittimità: rispettavano il potere stabilito, e quando questo cadeva, si sottomettevano senza far storie al nuovo tiranno che diventava il padrone dell’impero». Non può negarsi che questo argomento abbia una certa apparenza di validità, e che possa in un primo momento presentare una difficoltà molto grave; ciononostante basteranno poche riflessioni per convincersi della sua estrema inconsistenza.

Se l’insurrezione contro un potere illegittimo vuole essere legittima e prudente, è necessario che chi si accinge all’impresa di rovesciarlo sia assolutamente certo della sua illegittimità, che abbia l’intenzione di sostituirvi un potere legittimo, e per di più abbia la probabilità del successo. Senza queste condizioni l’insurrezione manca di uno scopo e non sarà altro che un’azione sterile, una vendetta impotente, la quale ben lungi dall’arrecare alla società alcun vantaggio, non produrrà che spargimento di sangue, esasperazione del potere aggredito, e di conseguenza maggiore oppressione e maggiore tirannia.

Ai tempi di cui stiamo parlando, normalmente non esisteva nessuna di queste condizioni. Quindi l’unica decisione che potevano prendere le persone oneste era quello di rassegnarsi pazientemente alle circostanze calamitose dei tempi, e di elevate al cielo le loro preghiere affinché il Signore si muovesse a pietà della terra. Chi poteva giudicare se questo o quell’imperatore fosse eletto legittimamente, quando le armi decidevano su tutto? Quali regole esistevano per la successione imperiale? Dove stava la legittimità da doversi sostituire al potere illegittimo? Stava forse nel popolo romano, in quel popolo umiliato e degradato che baciava vilmente le catene del primo tiranno che gli forniva pane e spettacoli? Stava forse nell’indegna prole di quegli illustri patrizi che dettero la legge all’universo? Stava nei figli o parenti di questo o di quell’imperatore assassinato, quando nelle leggi non c’era alcuna norma che prescrivesse la successione ereditaria, quando lo scettro dell’impero era in

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balìa delle legioni, quando accadeva con tanta frequenza che l’imperatore che rimaneva vittima dell’usurpazione, altro non era stato egli stesso che un usurpatore salito sul trono calpestando il cadavere del suo rivale? Stava negli antichi diritti dei popoli conquistati i quali, ridotti a semplici province dell’impero, avevano perduta la memoria di ciò che erano stati un giorno, e privi di spirito di nazionalità, e senza un’idea che li potesse guidare verso l’emancipazione, si trovavano per di più senza mezzi con i quali opporsi alle forze schiaccianti dei loro padroni? Mi si risponda sinceramente: quale scopo poteva mai avere chi in simili circostanze avesse pensato di congiurare contro il governo stabilito? Quando le legioni decidevano dei destini del mondo innalzando e successivamente trucidando i loro padroni, cosa doveva o poteva mai fare il Cristiano? Come discepolo di un Dio di pace e di amore non gli era lecito prendere parte a scene criminose di insurrezione e di sangue. Oltretutto egli non era in grado di poter stabilire se era legittima o no un’autorità vacillante ed incerta, e non gli restava altra soluzione che sottomettersi all’autorità che era comunemente riconosciuta; e al verificarsi di uno di quei cambiamenti che avvenivano così spesso, poteva soltanto rassegnarsi e prestare la stessa ubbidienza ai nuovi governanti. Immischiandosi in tumulti politici i Cristiani non avrebbero fatto altro che screditare la religione divina che professavano, dando motivo ai falsi filosofi e agli idolatri di intensificare le vili calunnie con cui questi cercavano di macchiarla, e fornire pretesti che facessero diffondere e rendere credibile la diceria che accusava il Cristianesimo di sovvertire gli Stati, tirandosi addosso l’odio dei governanti ed accrescendo i rigori della persecuzione che con tanta crudeltà opprimeva i discepoli del Crocifisso. Questa situazione assomiglia forse a molte altre occorse nei tempi antichi e moderni? Questo modo d’agire dei primi Cristiani poteva essere, per esempio, come alcuni pretendono, quello che tennero gli Spagnoli quando si trattò di resistere all’usurpazione di Bonaparte? Può esserlo per un altro popolo che si trovi in simili circostanze? Ma d’altra parte dobbiamo anche chiederere: può essere un argomento per garantire il potere a tutta la genia degli usurpatori? No, l’uomo non lascia, per il fatto di essere Cristiano, di essere cittadino, di essere uomo, di avere i suoi diritti, e di agire il meglio possibile quando nei limiti della ragione e della giustizia corre a difenderli con franchezza e coraggio.

Monsignor D. Felice Amat Arcivescovo di Palmira, nella sua opera postuma che ha per titolo Disegno della Chiesa militante, pronuncia queste importanti parole: «Che il solo fatto del trovarsi costituito un governo basti per convincere della legittimità dell’obbligo che hanno i sudditi di ubbidire, lo indicò esplicitamente Gesù Cristo con questa chiara ed energica risposta: date a Cesare quel che è di Cesare». Siccome quanto ho detto sopra pare che basti a demolire una tale asserzione, e siccome penso di tornare su tale materia soffermandomi maggiormente sul citato scrittore per esaminarne l’opinione e le ragioni su cui la fonda, non mi dilungherò ora a discuterla. Mi limito

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soltanto ad un’osservazione che feci leggendo i passi nei quali egli la spiega. La citata opera è stata proibita a Roma: qualunque sia stato il motivo della proibizione, si può star sicuri che trattandosi di un libro dove s’insegna una tale dottrina, tutti i popoli che amano i loro diritti potrebbero sottoscrivere il decreto della Congregazione.

E poiché l’occasione c’invita, diciamo qualche parola sui fatti compiuti, i quali hanno una relazione molto intima con la dottrina che stiamo esaminando. Compiuto significa una cosa perfetta nel suo genere: così un atto sarà compiuto quando sarà stato portato a compimento. Questa parola applicata ai delitti si contrappone a tentato, dicendosi, per esempio, che vi fu tentativo di furto, d’assassinio, d’incendio, quando con qualche atto si dimostrò l’intenzione di commetterli; come sarebbe rompere la serratura di una porta, assalire con un’arma pericolosa, o iniziare ad accendere il fuoco ad un oggetto combustibile: in questi casi il delitto non si dice compiuto finché realmente non sia stato commesso il furto, data la morte, recato ad effetto l’incendio. Allo stesso modo, nell’ordine sociale e politico si chiameranno fatti compiuti un’usurpazione in cui sia stato completamente rovesciato il potere legittimo, e l’usurpatore ne stia già occupando il posto; un’operazione che sia stata eseguita in tutte le sue parti, come la soppressione dei canonici regolari in Spagna e l’incorporazione dei loro beni all’erario; una rivoluzione che abbia trionfato e che disponga senza rivali dei destini di un paese, come quella dei nostri possedimenti in America. Con questa espressione si evidenzia che un fatto non cambia natura con l’essere compiuto: esso è un fatto terminato, ma non è che un semplice fatto; e questo aggettivo non vuole esprimerne né la giustizia o ingiustizia, né la legittimità o illegittimità. Gli orribili attentati per i quali non vi è mai prescrizione e che non cessano mai di essere degni di ignominia e di condanna, si chiamano anch’essi fatti compiuti.

E allora, che significato hanno le seguenti espressioni che si sentono così spesso sulla bocca di certe persone: «Si rispetti il fatto compiuto»; «Noi accettiamo sempre il fatto compiuto»; «È una follia lottare contro il fatto compiuto»; «Una saggia politica si adatta e si sottomette al fatto compiuto»? Lungi da me l’affermare che tutti coloro che stabiliscono simili regole professino la funesta dottrina che esse suppongono. Accade spessissimo che noi ammettiamo dei princìpi di cui rigettiamo le conseguenze, e che diamo per buona una regola di condotta senza pensare ai princìpi immorali da cui deriva. Nelle cose umane il male è tanto vicino al bene, e l’errore alla verità; la prudenza confina in tal modo con la timidezza colpevole; e la condiscendenza indulgente si trova così vicina all’ingiustizia; che sia in teoria che nella pratica non è sempre facile mantenersi nei limiti stabiliti dalla ragione e dagli eterni princìpi della sana morale. Quando si parla di rispettare il fatto compiuto non mancano uomini perversi i quali intendono che questa espressione ha il significato di approvare i delitti, assicurare la legittimità del bottino fatto nelle sommosse, togliere alle vittime ogni speranza di riparazione, e chiudere loro

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la bocca per non udirne i lamenti. Altri però non covano tali disegni, ma soffrono soltanto di una confusione di idee che nasce dal non distinguere tra i princìpi morali e la convenienza pubblica. Ciò che è necessario dunque su questo particolare, è di fare le opportune distinzioni e fissare bene i concetti. Ed eccoli in poche parole.

Un fatto compiuto non è legittimo per il solo fatto di essere compiuto, né, di conseguenza, degno di rispetto. Il ladro che ha rubato non acquista alcun diritto sulla cosa rubata; l’incendiario che ha ridotto una casa in cenere non è meno degno di castigo né meno meritevole di esser costretto a ripagare i danni, di quel che sarebbe se non fosse andato più in là del semplice tentativo. Tutto questo è tanto chiaro ed evidente che non ammette risposta. Chiunque dica il contrario è nemico di ogni morale, di ogni giustizia e di ogni diritto, e stabilisce il dominio esclusivo dell’astuzia e della forza. I fatti compiuti non cambiano natura, neanche quando appartengano all’ordine sociale e politico: l’usurpatore che ha sottratto la corona al legittimo possessore, il conquistatore che col solo diritto della forza delle armi ha sottomessa una nazione, non acquistano con la vittoria alcun diritto; il governo che abbia commesso grandi iniquità, spogliando intere categorie di cittadini, esigendo contribuzioni non dovute, abolendo diritti legittimi, non può giustificare le sue azioni solamente perché ha forza sufficiente ad eseguirle. Anche questo è ugualmente evidente; e se vi è qualche differenza, consiste certamente in questo: che in quest’ultimo caso il delitto è tanto maggiore in quanto i danni arrecati sono più estesi e più gravi, e in quanto si è provocato uno scandalo pubblico. Questi sono i princìpi di sana morale; morale dell’individuo, morale della società, morale del genere umano, morale immutabile, eterna.

Passiamo ora alla convenienza pubblica. Vi sono dei casi in cui un fatto compiuto, nonostante tutta la sua ingiustizia, la sua immoralità e il suo orrore, acquista ciò nonostante una forza tale, che il non volerlo riconoscere, e l’ostinarsi a resistergli, arreca una serie di sommosse e agitazioni, e senza alcun frutto certo. Ogni governo é obbligato a rispettar la giustizia e a far sì che i sudditi la rispettino; ma non deve impegnarsi a comandare una cosa in cui non sarebbe ubbidito quando non abbia i mezzi per far prevalere la propria volontà. In tale situazione, se non combatte gl’interessi illegittimi, se non fa in modo che le vittime siano debitamente risarcite, non commette alcuna ingiustizia, perché sarebbe simile a colui che, vedendo i ladri che stanno per consumare il delitto, fosse privo dei mezzi per costringerli a restituire le cose rubate. Supposta l’impossibilità, non ha alcun significato dire che il governo non è un semplice privato ma il protettore costituito di tutti gl’interessi legittimi, perché nessuno è obbligato a fare cose che gli è impossibile fare.

E bisogna aggiungere che in questo caso non è necessario che l’impossibilità sia fisica, ma potrebbe anche essere morale. Cioè, anche se il governo avesse i mezzi materiali sufficienti per far avvenire il risarcimento, se però prevedesse che qualora lo facesse lo stato ne verrebbe gravemente

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compromesso in quanto metterebbe in pericolo l’ordine pubblico o spargerebbe germi di futuri dissidi, in tal caso per il governo si tratterebbe d’impossibilità morale. Perché l’ordine pubblico e gli interessi generali sono cose a cui si deve dare la preferenza in quanto fondamentali per ogni governo; e perciò quello che non si può fare senza metterli in pericolo si deve considerare come impossibile. L’applicazione di queste dottrine sarà sempre una questione di prudenza, per cui nulla si può stabilire parlandone in senso generale. Perché, dipendendo da mille circostanze, deve essere effettuata non con princìpi astratti, ma considerando i fatti presenti in quella circostanza, pesandoli e valutandoli con criterio politico. Ecco spiegato il caso del rispetto per il fatto compiuto: conoscendone bene l’ingiustizia, non bisogna lasciar di conoscerne la forza; il non combatterlo non significa approvarlo. L’obbligo del legislatore è di ridurne il più possibile il danno, non di rischiare di aggravarlo pretendendo un impossibile risarcimento. E siccome è fortemente dannoso per la società che gli interessi generali restino compromessi od incerti sul loro futuro, bisogna cercare i giusti mezzi con i quali prevenire i danni che potrebbero risultare da una situazione incerta causata dalla stessa ingiustizia, senza essere coinvolti in questa ingiustizia.

Una politica giusta non sanziona l’ingiusto; ma una politica saggia sa ben conoscere la forza dei fatti. Li conosce, ma non li approva; li accetta, ma non se ne rende complice; se esistono, e non si possono rimuovere, li tollera ma con dignità, trae dalle situazioni difficili il miglior partito possibile, e fa in modo di conciliare i princìpi di eterna giustizia con la necessità della convenienza politica. Non sarà difficile chiarire questo punto con un esempio che ne vale molti. Dopo i grandi mali, e dopo le enormi ingiustizie della rivoluzione francese, com’era possibile una piena riparazione? Era possibile nel 1811 ritornare al 1789? Rovesciato il trono, livellate le classi, distrutta la proprietà, chi era capace di ricostruire l’antico edificio? Nessuno.

Ecco come intendo il rispetto per il fatto compiuto, che dovrebbe chiamarsi meglio indistruttibile. E per rendere più chiaro il mio modo di pensare, lo presenterò in forma semplicissima. Un proprietario che è stato scacciato dal possesso dei suoi beni da un prepotente vicino, non ha i mezzi per recuperarli. Non ha né danaro né prestigio, mentre il prestigio e l’oro sovrabbondano in colui che lo ha spogliato. Se ricorre alla forza, sarà respinto; se ai tribunali, perderà la causa. Quale partito gli rimane? Negoziare per venire ad un accordo, ottenere quel che può, e rassegnarsi alla cattiva fortuna. Con questo è detto tutto: ed è appunto a tali princìpi che si ispirano i governi. La storia e l’esperienza c’insegnano che i fatti compiuti si rispettano quando sono indistruttibili; cioè quando i fatti stessi hanno forza sufficiente per farsi rispettare; in caso diverso, non vanno rispettati. Non c’è cosa più naturale: ciò che non si fonda sul diritto, non può che appoggiarsi alla forza (6). Torna all’indice

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CAPITOLO LVI

Sull’opposizione all’autorità legittima. Dottrina del Concilio di Costanza sull’uccisione del tiranno. Riflessioni sull’inviolabilità dei re. Caso estremo. Dottrine di S. Tommaso d’Aquino, del Cardinale Bellarmino, di Suarez e di altri teologi. Errori dell’Abate de Lamennais. Si respinge la pretesa che la sua dottrina condannata dal Papa sia la stessa che quella di S. Tommaso. Confronto tra le dottrine di San Tommaso e quelle di de Lamennais. Una parola sull’autorità temporale dei Papi. Antiche dottrine sull’opposizione all’autorità. Ciò che dicevano i Consiglieri di Barcellona. Dottrina di alcuni teologi sul caso in cui il sommo Pontefice, come persona privata, cadesse in eresia. Si spiega perché la Chiesa è stata calunniata: ora come amica del dispotismo, ed ora dell’anarchia.

_______________ Da quanto si è detto nei capitoli precedenti ne consegue che è lecito

resistere con la forza ad un potere illegittimo. La religione cattolica non prescrive di obbedire ai governi fondati sulla sola situazione di fatto, perché nell’ordine morale il puro fatto è nullo. Ma quando il potere pur essendo legittimo viene esercitato in modo tirannico, è forse vero che la religione cattolica proibisce sempre la resistenza fisica, e che quindi uno dei suoi dogmi sia il dovere della non resistenza? Che non consideri lecita l’insurrezione in nessun caso e per nessun motivo? Quantunque io abbia già sistemate varie questioni, è tuttavia necessario precisare alcune nuove distinzioni onde stabilire con esattezza dove finisce il dogma, e dove iniziano le opinioni.

Innanzi tutto è certo che un privato non ha diritto di uccidere il tiranno di propria iniziativa. Nel Concilio di Costanza, sessione 15, fu condannata come eretica la seguente proposizione: «Qualunque vassallo o suddito può e deve lecitamente e meritoriamente uccidere qualsiasi tiranno, valendosi anche di insidie nascoste o di astute lusinghe o adulazioni, nonostante qualunque giuramento o patto stabilito con lui e senza aspettare la sentenza o il mandato di qualche giudice».

Questa decisione del Concilio non condanna ogni genere d’insurrezione. Essa parla della morte data al tiranno da un qualunque privato; e le opposizioni al tiranno non le fa un semplice privato, e non in tutte le insurrezioni si tratta di uccidere il tiranno. Ciò che questa dottrina vuole stabilire è l’assoluta proibizione dell’assassinio; mettendo un argine ad infiniti mali che affliggerebbero la società se venisse stabilito che chiunque di propria iniziativa possa uccidere il governante supremo. E chi avrà la sfrontatezza di dire che tale principio è favorevole alla tirannia? La libertà dei popoli non deve formarsi sull’orrendo reato di assassinio; e la difesa dei diritti della società non va affidata al pugnale di un esaltato. Essendo i confini del pubblico potere tanto vasti, e così vari gli àmbiti in cui viene esercitato, è inevitabile che capiti con una certa frequenza che le sue deliberazioni urtino gl’interessi di diversi individui L’uomo portato agli eccessi e alla vendetta ingrandisce facilmente i danni che riceve; e passando dal caso particolare al

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generale propende a considerare malvagi coloro che gli rechino in qualche maniera danno o gli siano contrari. Appena riceve il minimo aggravio da chi comanda, si mette subito a protestare che è un’insopportabile tirannia; e dipinge l’arbitrio immaginario o reale che viene commesso nei suoi confronti come una delle infinite iniquità che si commettono o come l’inizio di quelle che si vogliono commettere. Accordate dunque ad un qualunque privato il diritto di uccidere il tiranno; dite al popolo che per consumare lecitamente e meritatamente un simile atto non c’è bisogno di sentenza o mandato di alcun giudice, e vedrete che l’orrendo delitto verrà commesso frequentemente e senza problemi. I sovrani più saggi, più giusti e più clementi saranno vittime del ferro parricida o della coppa di veleno; e senza che ne venga alcuna garanzia per la libertà dei popoli avrete sottoposto a casi incresciosi i più alti interessi della società.

La Chiesa cattolica con questa dichiarazione solenne ha concesso all’umanità un immenso beneficio. La morte violenta di chi esercita il potere supremo porta con sé altro spargimento di sangue e grandi scompigli, provoca diffidenti misure di sicurezza che degenerano facilmente in iniziative tiranniche: e ne deriva che un delitto, causato da una grande avversione per la tirannia, finisce per renderla più arbitraria e crudele. I popoli moderni devono essere molto grati alla Chiesa cattolica per aver stabilito una norma così protettiva e santa. Chi non sa apprezzarne il giusto valore, e chi preferirebbe tornare alle sanguinose scene dell’impero romano o della monarchia barbara manifesta ignobili sentimenti ed istinti feroci.

Si son viste grandi nazioni, e se ne vedono ancora, in preda ad angosce crudeli per aver dimenticata questa regola cattolica. La storia dei tre ultimi secoli e l’esperienza di oggi ci dicono che il sacro insegnamento della Chiesa cattolica fu impartito ai popoli nella facile previsione dei pericoli da cui erano minacciati. Qui non c’è alcuna adulazione verso i re, perché non sono solo loro che traggono beneficio da questa dottrina; la regola è generale e perciò riguarda tutte le persone che con qualsiasi titolo esercitano il potere supremo, qualunque sia la forma di governo, dal sovrano delle Russie fino al presidente della repubblica più popolare.

È degno di nota che nelle costituzioni moderne, uscite dal seno delle rivoluzioni, senza che ci si rendesse conto si è reso un solenne omaggio al principio cattolico: vi si dichiara infatti la persona del sovrano sacra e inviolabile. Che significa questo, se non la necessità di metterla sotto un’impenetrabile salvaguardia? Rimproverate alla Chiesa cattolica di aver protetta con una specie di scudo la persona dei re, e voi la dichiarate inviolabile; vi burlavate della cerimonia della consacrazione del re, e voi lo dichiarate sacro. I dogmi e la morale della Chiesa dovevano evidentemente contenere, uniti con eterna verità, princìpi di ben alta politica, se voi vi siete visti nella necessità d’imitarla. Avete soltanto presentata come opera della

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volontà degli uomini ciò che la Chiesa esponeva come opera della volontà di Dio.

Ma se l’autorità suprema abusa in modo scandaloso dei suoi poteri, se li estende al di là dei limiti dovuti, se conculca le leggi fondamentali, persèguita la religione, corrompe la morale, oltraggia il pubblico decoro, insidia l’onore dei cittadini, esige contribuzioni sproporzionate ed illegali, viola il diritto di proprietà, aliena il patrimonio della nazione, smembra province trascinando i suoi popoli all’ignominia e alla morte: in questi casi il Cattolicesimo prescrive ancora l’ubbidienza? Proibisce ancora di opporsi obbligando i sudditi a mantenersi quieti e tranquilli come agnelli tra le zanne di belve feroci? Dopo aver esaurito tutti i mezzi pacifici di protesta, di consiglio, di avvertimento, di supplica, ci sarà la possibilità di trovare nei privati o nelle principali corporazioni, o nelle classi più distinte, o nell’intero corpo della repubblica, in qualche parte insomma, il diritto di opporsi e di fare resistenza? In questi disgraziatissimi casi la Chiesa cattolica lascia forse i popoli senza speranza, e senza freno i tiranni? In tali situazioni estreme alcuni eminenti teologi opinano che è lecita l’opposizione; però i dogmi della Chiesa non arrivano a contemplare questi casi particolari. La Chiesa si è astenuta dal condannare alcuna delle opposte dottrine; in circostanze così critiche la non resistenza non è un dogma. La Chiesa non ha insegnato mai una tale dottrina: chi volesse sostenere il contrario, ci mostri una decisione conciliare o dogmatica che gli serva da prova. San Tommaso d’Aquino, il Cardinale Bellarmino, Suarez ed altri insigni teologi conoscevano a fondo i dogmi della Chiesa; ciò nonostante consultatene le opere, e invece di trovarvi una tale dottrina vi troverete l’opposta. E la Chiesa non li ha condannati, e non li ha messi né tra quegli autori sediziosi che tanto abbondarono trai Protestanti, né tra i moderni rivoluzionari, eterni sovvertitori di ogni società. Bossuet ed altri autori di grido non la pensano come San Tommaso, Bellarmino e Suarez: questo fa sì che l’opinione contraria sia da rispettare, ma non già che diventi un dogma. Vi sono punti della massima importanza in cui le opinioni dell’illustre vescovo di Meaux mostrano delle contraddizioni; ed è noto che su questa stessa questione riguardante l’eccesso di tirannia, già tempo fa furono riconosciuti al Papa facoltà che Bossuet gli nega.

L’Abate de Lamennais, nella sua impotente ed ostinata resistenza alla Sede romana, ha ricordato queste dottrine di S. Tommaso e di altri teologi, pretendendo che condannare lui (cioè Lamennais) significasse condannare tutte le scuole fin allora rispettate e ritenute infallibili ( Affari di Roma). L’Abate Gerbet, nell’eccellente confutazione degli errori di Lamennais, ha osservato con molto giudizio che il sommo Pontefice, nel condannare le dottrine moderne, aveva voluto troncarla lì per impedire che si rinnovassero gli errori di Wicleffo; che al tempo della condanna di questo eresiarca erano bene conosciute le dottrine di San Tommaso e degli altri teologi, e che tuttavia non era venuto in mente a nessuno che queste cadessero sotto quella

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condanna. Il celebre confutatore credette che ciò bastasse per togliere all’Abate de Lamennais lo scudo dietro al quale cercava di difendersi e di nascondere la sua apostasia, e per questo motivo tralasciò di fare il confronto tra le due dottrine. Infatti, agli occhi di qualunque persona di giudizio questa riflessione è sufficiente per essere persuasi che le dottrine di S. Tommaso non hanno nulla a che fare con quelle del Sig. Lamennais. Ma forse non sarà inutile presentare in poche parole questo importante confronto; perché nei tempi in cui viviamo, e in simili materie, è molto conveniente sapere non soltanto che queste dottrine sono tra loro differenti, ma anche in cosa consista la differenza.

La teoria di Lamennais si può ridurre ai seguanti termini: uguaglianza di natura in tutti gli uomini; e come necessarie conseguenze: 1 - uguaglianza di diritti, compresi quelli politici; 2 - ingiustizia di ogni ordinamento sociale e politico in cui non si trova questa completa uguaglianza, come accade in Europa e in tutto il mondo; 3 - convenienza e legittimità dell’insurrezione per distruggere i governi e cambiare l’ordinamento sociale; 4 - abolizione di ogni governo, come fine del progresso del genere umano.

Le dottrine di S. Tommaso su questi punti si riassumono come segue. Uguaglianza di natura in tutti gli uomini, cioè uguaglianza di essenza, salve però le disuguaglianze delle doti fisiche, intellettuali e morali; uguaglianza di tutti gli uomini di fronte a Dio, cioè uguaglianza di origine essendo stati tutti creati da Dio; uguaglianza di fine per essere stati tutti creati per godere Dio; uguaglianza di mezzi per essere stati tutti redenti da Gesù Cristo, e per poter ricevere tutte le grazie da Gesù Cristo, salve però le disuguaglianze che nei gradi di grazia e di gloria piaccia al Signore di stabilire. Riguardo alle tesi di Lamennais: 1 - Uguaglianza dei diritti sociali e politici. Impossibile secondo il santo Dottore: anzi utilità e legittimità di certe gerarchie; rispetto per quelle che sono stabilite dalle leggi; necessità che alcuni comandino e gli altri ubbidiscano; obbligo di vivere sottomessi al governo stabilito nel paese, qualunque ne sia la forma; preferenza data al sistema monarchico. 2 - Ingiustizia di ogni ordinamento sociale e politico in cui non si trovi questa uguaglianza. Errore che si oppone alla ragione e alla fede. Perché anzi, al contrario, la disuguaglianza è fondata sulla natura stessa dell’uomo e della società; e se questa disuguaglianza, in ciò che ha talvolta d’ingiusto o dannoso, è effetto e castigo del peccato originale, ciò nonostante agli occhi del santo Dottore sarebbe esistita anche nello stato d’innocenza. 3. Convenienza e legittimità dell’insurrezione per distruggere i governi e cambiare l’ordinamento sociale. Opinione erronea e funesta. La sottomissione è dovuta ai governi legittimi; c’è la necessità di sopportare pazientemente anche quelli che abusano dei loro poteri, e l’obbligo di esaurire tutti i mezzi di preghiera, di consiglio, di protesta, prima di ricorrere ad altri rimedi, e ricorrere all’impiego della forza solamente nei casi del tutto estremi, rarissimi, e sempre con molte restrizioni, come vedremo a suo tempo. 4 - Fine del progresso del genere

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umano: l’abolizione di ogni governo. Proposizione assurda, sogno irrealizzabile. In ogni insieme di persone vi è la necessità di un governo; gli argomenti sono fondati sulla natura dell’uomo; esposizione di analogie tratte dal corpo umano e dall’ordine stesso dell’universo. Anche nello stato d’innocenza è necessaria l’esistenza di un governo.

Ecco esposte le due dottrine: fatene il confronto e giudicate. Io sono nell’impossibilità di riportare i testi del Santo, perché da soli essi riempirebbero il volume. Ciò nonostante, se qualche lettore desidera studiare la materia, oltre a quei brani che ho inseriti e quelli che inserirò in seguito, può leggere tutto l’opuscolo De regimine principum, i Commenti alla lettera ai Romani, e i passi della Somma in cui il santo Dottore tratta dell’anima, della creazione dell’uomo, dello stato d’innocenza, degli angeli e loro gerarchie, del peccato originale e suoi effetti; e poi in particolare il prezioso trattato delle leggi e quello della giustizia, dove discute l’origine del diritto di proprietà e di quello di castigare. Chi vorrà farlo si renderà conto della verità ed esattezza di quanto ho detto; e vedrà anche che il Sig. de Lamennais si ingannò completamente quando per difendere i suoi errori tentò di rendere complici della sua apostasia insigni scrittori e Santi che noi veneriamo sugli altari.

Nelle materie importanti e delicate, siccome la confusione conduce all’errore, i nemici della verità hanno tutto l’interesse a diffondere tenebre, a inventare proposizioni generiche, vaghe, che possono intendersi in mille sensi. Allora cercano disperatamente qualche testo che possa giustificare qualcuna delle molte interpretazioni possibili, e quando l’hanno trovato ci dicono con baldanza: «Vedete con quanta ingiustizia ci condannate; vedete quanto siete ignoranti; quello che diciamo noi l’avevano detto molti secoli prima di noi i più celebri ed accreditati dottori».

L’Abate de Lamennais doveva contare molto sulla credulità dei suoi lettori quando volle dar loro ad intendere che non vi era a Roma un’anima buona che avvertisse il Papa che nel condannare le dottrine dell’apostolo della rivoluzione, condannava insieme con lui l’angelo delle scuole ed altri insigni teologi. Bisogna dire che il Sig. de Lamennais deve averli letti in gran fretta e a tratti, quando invece a Roma ci sono molti studiosi che hanno consumato una lunga vita nello studio delle loro opere.

Sono ben note le focose proteste di Lutero, Zuinglio, Knox, Jurieu, e degli altri corifei del Protestantesimo per sollevare il popolo contro i loro prìncipi, e le violente e grossolane invettive che si permettevano contro di essi per infiammare la moltitudine. Questi traviamenti sono visti con orrore dai Cattolici. E con altrettanto spavento i Cattolici vedono la dottrina anarchica di Rousseau, quando stabilisce che «le clausole del contratto sociale sono talmente determinate dalla natura dell’atto, che la minima modifica le renderebbe vane e di nessun effetto... rientrando ciascuno nei suoi diritti primitivi, e nella sua libertà naturale». (Contratto sociale lib. 1 cap. 6). Le dottrine dei citati teologi non contengono questo germe fecondo d’insurrezioni

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e disastri; ma non bisogna neanche dire che essi si mostrino timidi e pusillanimi nel caso in cui si giungesse agli estremi. Essi predicano la rassegnazione, la pazienza, la tolleranza; ma vi è un punto in cui dicono basta: non consigliano l’insurrezione, ma neanche la proibiscono; invano si vorrebbe che in una tale situazione estrema predicassero l’obbligo della non resistenza come una verità dogmatica. Non possono insegnare ai popoli come dogma quello ch’essi non conoscono come tale. Non è colpa loro se infuria la tempesta, se si sollevano fragorose le onde senza che possa calmarle altra mano che quella del Signore, che cavalca gli aquiloni e doma le burrasche.

Per molti secoli fu professata e praticata in Europa una dottrina molto criticata da coloro che non hanno mai potuto comprenderla. L’intervento dell’autorità pontificia nelle contese tra i popoli e i sovrani, cos’era mai se non il Cielo che veniva come arbitro e giudice a metter fine alle discordie sulla terra?

Il potere temporale dei Papi è servito in un modo meraviglioso di pretesto ai nemici della Chiesa per accendere gli animi e declamare contro Roma; ma questo non cessa di essere un fatto storico ed un fenomeno sociale che ha riempito di ammirazione i più insigni uomini dei tempi moderni, compresi alcuni Protestanti.

Nella Sacra Scrittura s’impone l’obbligo ai servi di ubbidire ai loro signori, anche quando sono cattivi; ma tutto quello che si può ricavarne estendendo le parole all’ordine civile è che un principe, se è cattivo, non perde per questo l’autorità sopra i suoi sudditi, condannando così sul nascere l’errore di coloro che facevano dipendere il diritto di comandare dalla santità della persona che lo possedeva. Questo principio è anarchico ed incompatibile con l’esistenza di ogni società; perché stabilito che sia lascia il potere incerto e vacillante, offrendo ampie possibilità ai nemici dell’ordine e della quiete per dichiarare decaduto dal potere chiunque piacesse loro di considerare cattivo. Ma la questione che stiamo trattando è molto diversa, e l’opinione dei citati teologi non ha nulla a che fare con un simile errore, Essi infatti dicono che si deve ubbidire ai prìncipi, anche qualora siano cattivi; e condannano l’insurrezione quando non ha altro pretesto o motivo che i vizi delle persone che esercitano il potere supremo. E ancora, non ammettono che un qualunque abuso dell’autorità sia sufficiente a legittimare l’opposizione; tuttavia non ritengono di contraddire il Sacro Testo quando ammettono che in casi estremi sia lecito porre un argine agli eccessi di un tiranno.

«Se pure quando sono cattivi i governanti non perdono l’autorità, come si può concepire che sia lecito far loro opposizione?» Non lo sarà certamente in tutto ciò che ordinano entro i limiti delle loro facoltà; ma quando passano tali limiti i loro comandi, come dice S. Tommaso, sono piuttosto violenze che leggi. «Nessuno può giudicare l’autorità suprema»; questo è vero, ma al di sopra dell’autorità suprema ci sono i princìpi di ragione, di morale, di giustizia, di religione; ed anche se è suprema l’autorità resta tuttavia obbligata

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a mantenere le promesse e ad osservare i giuramenti. Le società non si formano col patto sognato da Rousseau, ma in certi casi esistono veri patti tra i prìncipi e i popoli, che né quelli né questi possono tradire. Nella famosa Proclamazione cattolica alla pia maestà di Filippo il Grande, re delle Spagne e imperatore delle Indie, dei consiglieri e Consiglio dei cento della città di Barcellona nel 1640, in un’epoca in cui la religione aveva delle radici così profonde che i consiglieri citavano come ornamento di somma gloria l’ attaccamento dei Catalani alla Chiesa cattolica, la loro devozione alla Vergine nostra Signora e al Santissimo Sacramento, in quell’epoca che l’ignoranza e l’orgoglio chiamano epoca di fanatismo e di degradazione servile, dicevano i nostri consiglieri al sovrano: «Oltre ad avere valore di obbligo civile (si riferivano agli usi, costituzioni ed atti della corte di Catalogna), obbligano anche la coscienza, e violarli sarebbe peccato mortale, perché non è lecito al principe non tener fede al contratto: si fa liberamente, ma si rompe illecitamente; e quantunque non vada mai soggetto a leggi civili va soggetto però a quella della ragione. E quantunque il principe sia il padrone delle leggi; non lo è dei contratti che fa con i suoi sudditi; poiché in questo caso egli è persona privata, e il suddito acquista uguale diritto in quanto il patto va fatto tra uguali. Quindi, siccome il suddito non può lecitamente mancare alla fedeltà verso il suo signore, così anche questi non può mancare lecitamente a quanto promise con un patto solenne, la cui violazione ancor meno è lecito presumere da parte del principe. Se la parola del principe deve avere forza di legge, quella che si dà in un contratto solenne comporta una forza ancora maggiore» (Proclamazione cattolica, § 27). I cortigiani spingevano il sovrano ad agire con la forza per far ridurre all’obbedienza i Catalani; l’esercito di Castiglia si stava preparando a penetrare nel principato. E in questa difficile situazione, dopo avere esauriti tutti i mezzi di protesta e di supplica, i consiglieri si espressero in questi termini: «Coloro che disprezzano i Catalani e li odiano a morte sono riusciti infine con le loro continue insinuazioni a far allontanare dalla rettitudine e dall’equità della Vostra Maestà i mezzi proposti di pace e di tranquillità, che pure dovevano essere ammessi, non fosse altro per sperimentarli; ma per giungere al colmo della malizia, propongono a vostra maestà come cosa necessaria di proseguire l’oppressione del Principato, facendolo occupare da un esercito, e abbandonandolo alla rovina e al saccheggio indiscriminato da parte degli avidi soldati; e dandogli la possibilità di dire (se non fosse per l’amore e la fedeltà che ha avuto, ha ed avrà sempre per la Vostra Maestà) che a causa di una grave violazione dei patti resta nella sua indipendenza; cosa che alla provincia non passa neanche per la mente, ed anzi prega Iddio che non lo permetta. E siccome il Principato sa per esperienza che questi soldati non hanno né rispetto né pietà per le donne sposate, per le vergini innocenti, per le chiese, per lo stesso Dio, per le immagini dei santi, per i vasi sacri delle chiese, e neanche per il Santissimo Sacramento dell’altare che quest’anno gli stessi

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soldati hanno dato due volte alle fiamme; per questo motivo il Principato è tutto in armi per difendere (in caso di tale disgrazia e necessità, e senza speranza di rimedio) le proprietà, la vita, l’onore, la libertà, la patria, le leggi, e soprattutto i sacri templi, le sante immagini e il Santissimo Sacramento dell’altare, che sia sempre lodato. In simili casi i sacri teologi sono del parere che non solamente è lecita la difesa, ma per prevenire il male è anche permesso l’uso delle armi da parte di tutti, sia laici che religiosi, potendosi e dovendosi contribuire anche con i beni secolari ed ecclesiastici in quanto questa è una causa universale; e che i popoli assaliti possono unirsi e confederarsi, e tenere assemblee per porre con ogni prudenza rimedio a questi danni (§ 36).

Così si parlava ai sovrani al tempo in cui la religione era ritenuta superiore a qualunque altra cosa; e sappiamo che le dottrine dei consiglieri, i quali secondo l’uso di quei tempi ebbero l’avvertenza di citare a margine le fonti da cui le avevano attinte, non furono condannate come eretiche. Sarebbe una grave malafede confonderle con quelle di molti Protestanti e rivoluzionari moderni; basta dare un’occhiata a questo genere di scritti per constatare subito la differenza dei princìpi e dei propositi.

Quelli che sostengono che in nessun caso, per quanto estremo, ed anche se vi sia in gioco quanto di più prezioso e di più sacro possa esistere, è mai lecito opporsi all’autorità civile, credono in questo modo di rafforzare il trono dei re, ed effettivamente in genere si riferiscono quasi sempre ai re; ma dovrebbero specificare che la loro dottrina si estende a tutte le supreme autorità, qualunque sia la forma di governo. Perché i testi della Sacra scrittura che raccomandano l’ubbidienza all’autorità, non si riferiscono unicamente ai re, ma parlano delle autorità superiori in generale, senza eccezioni e senza distinzione alcuna; dunque non si potrebbe resistere in nessun caso neanche al presidente di una repubblica. Mi si dirà che le facoltà di un presidente sono determinate; ma non lo sono forse anche quelle di un monarca? Negli stessi governi assoluti non esistono forse delle leggi che ne fissano i confini? Non è questa la distinzione che fanno continuamente i difensori della monarchia, quando combattono la malafede dei loro avversari che vorrebbero confonderla col dispotismo? Mi si replicherà forse: «Ma il presidente di una repubblica è temporaneo»; e se fosse perpetuo? Oltre a ciò, l’essere più o meno duraturi non rende le facoltà né maggiori né minori. Se un esecutivo, un uomo, una dinastia, sono investiti di un tal diritto in forza di questa o di quella legge, con queste o quelle limitazioni, con certi patti, con certi giuramenti; l’esecutivo, l’uomo, la dinastia sono obbligati a stare ai patti e ai giuramenti, benché siano più o meno grandi i poteri, e limitata o perpetua la durata. Questi sono princìpi di diritto naturale tanto semplici e sicuri che non ammettono difficoltà.

Gli stessi teologi più legati al Sommo Pontefice insegnano una dottrina che conviene menzionare per l’analogia che ha col tema che stiamo esaminando. Si sa che il Papa, riconosciuto come infallibile quando parla ex cathedra, non

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lo è invece come persona privata; e come tale potrebbe cadere in eresia. In questo caso, dicono i teologi, il Papa perderebbe la sua dignità: sostenendo alcuni che lo si dovrebbe destituire, e affermando altri che la destituzione sarebbe automatica per il solo fatto che egli si sia allontanato dalla fede. Qualunque si scelga tra queste due opinioni, resta il fatto che l’opposizione sarà lecita. E questo perché il Papa si sarebbe scandalosamente sviato dallo scopo della sua istituzione; avrebbe vilipeso il fondamento delle leggi della Chiesa, che è il dogma, e di conseguenza verrebbero a cessare le promesse e i giuramenti di ubbidienza che gli erano stati prestati. Spedalieri, nel proporre questo argomento, osserva che i re non sono certamente in una condizione migliore rispetto ai Papi, perché sia agli uni che agli altri l’autorità è stata concessa in aedificationem, non in destructionem; e soggiunge che se i sommi Pontefici permettono questa dottrina riguardo a loro, anche i sovrani temporali dal canto loro non se ne debbono offendere.

È cosa strana vedere lo zelo monarchico con cui i Protestanti e i filosofi atei accusano la religione cattolica per aver alcuni Cattolici sostenuto che in certi casi i sudditi possono rimanere liberi dal giuramento di fedeltà; mentre altri delle stesse scuole protestanti e filosofiche rinfacciano alla religione cattolica l’appoggio che presta al dispotismo con la detestabile sua dottrina della non resistenza, secondo l’espressione del dottor Beattie. L’autorità diretta, quella indiretta, la declaratoria dei Papi sono servite egregiamente da spauracchio per i re; i princìpi pericolosi dei trattati teologici erano un eccellente pretesto per gridare all’arme, e per far passare il Cattolicesimo per un semenzaio di princìpi sovversivi. L’ora delle rivoluzioni suonò, cambiarono le condizioni, sopravvennero altre necessità, e a queste si adattò il linguaggio. I Cattolici, prima sediziosi e tirannicidi, furono dichiarati fautori del dispotismo e vili adulatori dell’autorità civile; e i Gesuiti, d’accordo con la politica infernale della Sede di Roma, andavano minando tutti i troni per innalzare sulle loro rovine la monarchia universale del Papa; ma il filo dell’orribile trama fu scoperto, e per fortuna! Perché mancò poco che il mondo andasse incontro ad una spaventosa catastrofe. Vivevano ancora i Gesuiti espulsi, ed espiavano i loro delitti nell’esilio, quando allo scoppiare della rivoluzione francese, che fu il preludio di tante altre, le cose cambiarono improvvisamente di aspetto. I Protestanti, gli atei, gli amici dell’antica disciplina, gli zelanti avversari degli abusi della Sede romana, compresero a fondo la nuova situazione e vi si uniformarono completamente: da allora in poi i Gesuiti, i Cattolici, il Papa, non furono più sediziosi e tirannicidi, ma sostenitori machiavellici della tirannia, nemici dei diritti e della libertà del popolo. Quindi, siccome era stata prima scoperta la lega dei Gesuiti col Papa per fondare la teocrazia universale, così ora, grazie alle indagini di filosofi di gran merito e di Cristiani severi ed incorruttibili, si è scoperto il patto nefando dei Papi con i re per opprimere, avvilire e degradare la misera umanità.

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Volete che vi sia decifrato l’enigma? Eccolo in poche parole. Quando i re sono potenti, quando regnano sicuri sui loro troni, quando la Provvidenza tiene incatenate le tempeste, e il sovrano leva orgogliosa la fronte al cielo e comanda ai popoli con aria altera, la Chiesa cattolica non lo adula: «Sei polvere – gli dice – e in polvere ritornerai; il potere non ti è stato dato per distruggere, ma per edificare; le tue facoltà sono molte, ma hanno però i loro limiti; Dio è tuo giudice così come lo è del più umile dei tuoi sudditi ». Allora la Chiesa viene tacciata d’insolenza; e se qualche teologo tenta di rintracciare l’origine dell’autorità civile, di assegnare con generosa libertà i doveri cui va soggetta, e a scrivere sul diritto pubblico, con prudenza sì, ma non servilmente, i Cattolici sono sediziosi.

Scoppia la tempesta, cadono i troni, la rivoluzione prende il comando, versa a torrenti il sangue dei popoli, tronca teste coronate, e fa tutto questo in nome della libertà; la Chiesa dice: «Questa non è libertà, questa è una serie di delitti; la fratellanza e l’uguaglianza da me insegnate non furono mai i vostri stravizi, le vostre ghigliottine». In questo caso la Chiesa è una vile adulatrice, e con le parole e con i fatti ha mostrato oltre ogni dubbio che il supremo pontificato era l’àncora più sicura dei despoti; e si è avuta la prova che la curia romana era compromessa nel patto nefando (7). Torna all’indice

CAPITOLO LVII

La Chiesa e le forme politiche. Il Protestantesimo e la libertà. Parole di Guizot. Vengono fissati i termini della questione. L’Europa alla fine del quindicesimo secolo. Rinnovamento sociale. Sue cause. I suoi effetti e il suo obiettivo. I tre elementi: monarchia, aristocrazia, democrazia.

_______________ Abbiamo visto quale fosse l’atteggiamento della religione cristiana nei

confronti della società: poco curandosi che in un paese vigesse una forma di governo piuttosto che un’altra, si rivolgeva sempre all’uomo mirando ad illuminarne l’intelletto e a purificarne il cuore, sicura che ottenuti questi due fini la società si sarebbe avviata da sè sulla buona strada in modo naturale. Dovrebbe bastare questo per assolverla dall’accusa che si è preteso di rivolgerle chiamandola nemica della libertà dei popoli.

Essendo innegabile che il Protestantesimo non abbia rivelato al mondo alcun dogma che conferisca all’uomo maggiore dignità, né nuovi motivi di stima e rispetto, né più stretti vincoli di fratellanza, la riforma non può pretendere di aver dato alle nazioni moderne l’impulso per un benché minimo progresso; e perciò non può neanche pretendere sotto questo aspetto alcun titolo che la renda meritevole della riconoscenza dei popoli. Ma siccome accade frequentemente che senza badare alla sostanza delle cose venga data grande importanza alle apparenze; e siccome abbiamo detto che il

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Protestantesimo molto più del Cattolicesimo ha avuto a che fare con quelle istituzioni che si è soliti considerare garanti di un maggior grado di libertà, sarà bene non sottrarsi al confronto, perché altrimenti non verrebbe messo in luce lo spirito del secolo, e si potrebbe inoltre dar valore al sospetto che da un tale confronto il Cattolicesimo non possa venir fuori con successo.

Osserverò in primo luogo che coloro che considerano il Protestantesimo strettamente legato alla libertà pubblica hanno come oppositore su questo punto lo stesso Guizot, al quale non si può certo dare la nomea di avere scarsa simpatia per la pretesa riforma. «In Germania – dice questo celebre esperto di diritto pubblico – lungi dal chiedersi libere istituzioni, non dico che venisse accettata la servitù, ma nel vedere dileguarsi la libertà, non si fece alcun lamento» (Storia generale della civiltà europea. Lez. 12).

Ho citato il Sig. Guizot perché, siccome siamo tanto abituati a tradurre, e si è anche cercato di convincerci che noi Spagnoli siamo capaci solo di credere ciecamente a quanto ci dicono gli stranieri, è il caso che, disquisendo su questioni serie, si consulti l’autorità straniera; altrimenti l’audace scrittore correrebbe il rischio di essere deriso e trattato da ignorante ed arretrato. Inoltre per certi esperti di diritto pubblico l’autorità del Sig. Guizot sarà decisiva; perché in alcuni libri che sono stati pubblicati, e spacciati per Filosofia della storia, si vede anche da lontano che le opere dello scrittore francese sono servite di testo per i loro autori.

Cosa c’è di vero o di falso, di giusto o sbagliato nell’assunto che unisce il Protestantesimo alla libertà? Che ci dicono la filosofia e la storia? Ha il Protestantesimo fatto progredire i popoli contribuendo a fondare e sviluppare le forme libere di governo?

Per porre la questione nel suo vero aspetto, e per svilupparla compiutamente, è necessario fissare lo sguardo sulla situazione dell’Europa tra la fine del quindicesimo secolo e l’inizio del sedicesimo. È fuor di dubbio che sia l’individuo che la società stavano procedendo speditamente sulla via del progresso come dimostrano a sufficienza il meraviglioso sviluppo delle conoscenze in quei tempi, l’introduzione di molti perfezionamenti, il desiderio di ottenerne altri, e un’organizzazione più efficiente che si andava formando in tutti i campi; organizzazione che, sebbene avesse ancora molto da migliorare, era però tale da non temere confronti con quella dei tempi precedenti.

Osservando con attenzione la società dell’epoca, sia che ci atteniamo a quanto ci dicono i libri, sia che ricorriamo all’analisi degli avvenimenti che vi si svolsero, vi scorgiamo un’inquietudine, un’ansietà, un fermento, che mentre testimoniano l’esistenza di grandi necessità non ancora soddisfatte, fanno anche capire che tali necessità erano conosciute abbastanza chiaramente. Nello spirito dell’uomo di allora si scopre tutt’altro che trascuratezza dei propri interessi, o scarsa considerazione dei suoi diritti e della sua dignità o pusillanime sfiducia di fronte alle difficoltà e agli ostacoli; vi si scorge invece

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previdenza e sagacia, si percepisce un uomo dominato da idee grandiose, pieno di nobili sentimenti e avente in petto un cuore intrepido e vigoroso.

Nella società europea vi era a quel tempo un forte movimento, al quale contribuivano tre fattori importantissimi: l’ingresso nella vita civile della totalità degli uomini, come conseguenza dell’abolizione della schiavitù e del declinare del feudalesimo; il carattere stesso della civiltà, che faceva avanzare contemporaneamente e di pari passo tutte le cose; e infine l’esistenza di uno strumento che ne accresceva continuamente l’estensione e la rapidità, cioè la stampa. Se volessimo adoperare un’espressione fisico-matematica, molto adatta a ciò che stiamo esprimendo, diremmo che la quantità del moto doveva essere enorme, perché essendo questa il prodotto della massa per la velocità, tanto la massa quanto la velocità erano allora grandissime.

Questo forte movimento, che traeva origine da un bene (perché in se stesso era un bene), e s’incamminava alla volta di un bene, era tuttavia accompagnato da inconvenienti e pericoli; mentre ispirava le più lusinghiere speranze, incuteva nello stesso tempo apprensione e timori. Quello europeo era un popolo vecchio; ma si può dire che allora trovò nuova giovinezza. Le sue inclinazioni e i suoi bisogni lo spingevano a grandi imprese, e vi si precipitava con l’ardore e il coraggio di un giovane ardente e inesperto che si sente battere in petto un cuore generoso e nella mente serena agitarsi la scintilla del genio.

In una tale situazione si presentò subito un gran problema da risolvere: trovare i mezzi più idonei che permettessero, senza arrestarne il moto, di guidare la società per un sentiero che l’allontanasse dai precipizi e la conducesse ad un traguardo dove avrebbe trovato ciò che formava l’oggetto dei suoi desideri: conoscenza, moralità, felicità. È sufficiente dare un’occhiata all’enormità di questo problema per provarne spavento, perché gli oggetti a cui si estende, le relazioni che abbraccia, gli ostacoli e le difficoltà che contiene sono numerosi. Se lo si considera con attenzione, e lo si confronta alla debolezza dell’uomo, l’animo si sente scoraggiato ed abbattuto.

Ma il problema esisteva, e non come oggetto di speculazione scientifica, ma come una vera necessità, ed una necessità urgente e incalzante. In tali casi la società fa come l’individuo: s’ingegna, prova, tenta, fa degli sforzi per uscire dall’imbarazzo nel miglior modo possibile.

La condizione civile degli uomini andava migliorando ogni giorno, ma per continuare questo miglioramento e portarlo alla perfezione ci voleva un mezzo: ed ecco il problema delle forme politiche. Quali dovevano essere? E prima di tutto, di quali si poteva allora disporre? Qual era la forza di ognuna di queste, le tendenze, le relazioni e l’adattabilità? Come costituirle?

Monarchia, aristocrazia, democrazia: ecco i tre poteri che si contendevano la guida e il comando della società. Per la verità non erano proprio uguali, né riguardo alla forza, né ai mezzi per operare, né alla sagacia nell’applicarli; ma tutti comunque erano adatti; ognuno aveva la pretesa di essere preferito; e

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nessuno era privo della probabilità di prevalere. Questa competizione fra i tre poteri, tanto diversi per l’origine, la natura e l’oggetto, fu una delle caratteristiche più distintive di quei tempi, ed è la chiave per spiegare gran parte dei principali avvenimenti. E nonostante i vari aspetti con cui si presenta, si può considerare come un fatto comune a tutti i popoli che in Europa erano avviati sulla via della civiltà.

Prima di addentrarci nella materia, il solo accenno a questo fatto suggerisce la considerazione che è completamente falsa la diceria che il Cattolicesimo abbia tendenze contrarie alla vera libertà dei popoli; perché la civiltà europea, che per tanti secoli era stata sotto l’influenza e la tutela di questa religione, non presentava nessuna forma di governo che dominasse sulle altre in modo esclusivo.

Girando lo sguardo per l’Europa, non c’era un solo paese in cui non avvenisse lo stesso fatto: in Spagna, in Francia, in Inghilterra, in Germania – o sotto il nome di Cortes, o di Stati generali, o di Parlamenti, o di Diete – ovunque era la stessa cosa, con le sole variazioni che le specificità di ogni paese comportavano. Ciò che bisogna notare è piuttosto il fatto che laddove esisteva qualche eccezione, questa era a favore della libertà. E per una combinazione singolare questo succedeva proprio in Italia, cioè dove l’influenza dei Papi era più forte.

A tutti sono note le repubbliche di Genova, Pisa, Siena, Firenze e Venezia; tutti sanno che l’Italia era il paese dove sembrava che le forme democratiche si adattassero meglio, perché lì erano ancora efficienti quando in altre parti andavano già perdendo terreno. Io non voglio sostenere che le repubbliche italiane fossero un modello che gli altri popoli europei dovessero imitare; e sono convinto che quelle forme di governo portavano con sé gravissimi inconvenienti; ma siccome si parla tanto di spirito e di tendenze, siccome si vuole addebitare alla religione cattolica legami col dispotismo e ai Papi l’inclinazione ad opprimere, sarà bene rammentare questi fatti che possono spargere qualche dubbio sulle asserzioni che con un tono da professori ci vengono presentate come dogmi storico-filosofici. Se l’Italia conservò la sua indipendenza nonostante i tentativi degli imperatori di Germania per levargliela, ne fu in gran parte debitrice alla fermezza e all’energia dei Papi.

Per comprendere a fondo le relazioni del Cattolicesimo con le istituzioni politiche, per verificare fino a qual punto esso abbia avuto legami con queste o con quelle, e per formarci un’idea precisa dell’influenza che sotto questo aspetto il Protestantesimo esercitò sulla civiltà europea, sarà opportuno esaminare ponderatamente, e separatamente ad uno ad uno, gli elementi che si contendevano la preminenza; e passando poi ad esaminarli nei rapporti tra loro comprenderemo, per quanto possibile, che cosa doveva essere in realtà quell’informe complesso.

Ciascuno di questi tre elementi può essere visto in due modi: o considerando l’idea che di essi si aveva in quei tempi; oppure gli interessi che

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essi rappresentavano e il ruolo che svolgevano nella società. È necessario valutare molto bene questa distinzione, perché altrimenti potremmo andare incontro ad equivoci madornali. Infatti non sempre le idee che circolavano su un certo principio di governo andavano di pari passo con gli interessi che questo stesso principio rappresentava e con il ruolo che svolgevano nella società. E sebbene queste due cose dovessero avere tra loro relazioni strettissime, e non potevano quindi sottrarsi ad una reciproca e reale influenza, non è per questo meno certo che sono differentissime tra loro; e che la loro differenza fa nascere considerazioni ben diverse, e presenta la cosa sotto aspetti diversi che non sono per niente somiglianti. Torna all’indice

CAPITOLO LVIII

Monarchia. Sua idea. Sue applicazioni. Sua differenza dal dispotismo. Qual era al principio del sedicesimo secolo. Sue relazioni con la Chiesa.

_______________ L’idea di Monarchia è sempre stata presente nella società europea, anche

ai tempi in cui questa forma di governo fu meno usata; e bisogna notare che anche quando il suo potere s’indeboliva o veniva meno, nei suoi principi teorici l’idea si manteneva sempre forte e vigorosa. Non si può dire che la natura dell’oggetto rappresentato da questa idea per i nostri antenati fosse qualcosa di costante: non poteva esserlo, perché considerando le continue variazioni ed i cambiamenti che vedevano in essa non potevano formarsene un concetto ben distinto e preciso. Ciò nonostante se diamo un’occhiata ai codici là dove parlano della monarchia, e ai trattati su di essa che ancora si conservano, vedremo che le idee su tale materia erano definite più di quanto si possa credere.

Studiando attentamente la storia del pensiero di quell’epoca si osserva che generalmente gli uomini erano di spirito piuttosto analitico, e che il loro sapere era rivolto più all’erudizione che alla speculazione; per cui a mala pena erano capaci di scrivere un passo senza l’aiuto di un numero infinito di citazioni autorevoli. Questa tendenza all’erudizione (che si percepisce subito sfogliando le pagine delle loro opere che riempivano di citazioni; e questo era evidentemente un loro normale sistema, dal momento che fu così generalizzato e usato costantemente) produsse dei rilevanti vantaggi, dei quali non fu certo il minore quello che ha permesso alla società moderna di mettersi in contatto con quella antica grazie alle molte testimonianze che quelle opere hanno portato fino a noi, e che senza questa loro tendenza si sarebbero perdute; e se ne son potute riesumare altre che diversamente sarebbero rimaste sepolte sotto la polvere. D’altra parte però questa tendenza arrecò anche molti mali, fra i quali quello di soffocare il pensiero, non permettendogli di

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abbandonarsi alle proprie ispirazioni che, in verità, su alcuni aspetti sarebbero forse apparse più felici di quelle degli antichi.

Comunque sia le cose stanno così. E per ciò che riguarda la materia che stiamo trattando possiamo notare che le idee sulla monarchia erano una specie di sintesi tra le caratteristiche dei re del popolo ebreo e quelle degli imperatori romani; il tutto ritoccato da una visione cristiana di questa istituzione. Vale a dire, che i princìpi sulla monarchia erano formati da ciò che si ricavava dalle Sacre Scritture e dai codici romani. Cercate dove volete l’idea di imperatore, di re, di principe, e troverete sempre la stessa cosa; sia che consideriate l’origine del potere, la sua estensione, l’esercizio o il fine.

Ma quali erano dunque queste idee che a quei tempi avevano della monarchia? Che significava questa parola? Prescindendo dalle differenze del suo significato secondo le varie situazioni, questa parola esprimeva comunemente il comando supremo della società messo nelle mani di un solo uomo, obbligato però ad esercitarlo conformemente alla ragione e alla giustizia. Questa era l’idea fondamentale, l’unica ovunque stabile e fissa, ed era come il centro intorno al quale giravano tutte le altre questioni.

Aveva il sovrano la facoltà di fare le leggi autonomamente, cioè senza consultare le assemblee generali che sotto diversi nomi rappresentavano le varie classi del regno? Entrando in questa questione siamo già in un altro àmbito: dalla teoria siamo passati alla pratica; abbiamo avvicinata l’idea alla sua applicazione. Da questo momento, bisogna ammetterlo, tutto vacilla e tutto si oscura; ci passano davanti agli occhi mille fatti incerti, strani, contraddittori; e le pergamene su cui sono vergati i diritti, le libertà e le leggi dei popoli dànno luogo a mille interpretazioni differenti che moltiplicano i dubbi ed aumentano le difficoltà.

Si capisce subito che le relazioni del sovrano con i sudditi, o per meglio dire, il modo con cui egli doveva esercitare il governo, non era ben determinato, e che risentiva del disordine dal quale stava uscendo la società e di quella difformità inevitabile derivante dall’unione di corpi molto diversi e dalla combinazione di elementi contrastanti, se non ostili: vediamo cioè un embrione, ed è quindi impossibile che ci si presentino forme regolari e ben distinte.

In questa idea di monarchia si celava forse qualche principio di dispotismo? Qualcosa che assoggettasse l’uomo alla mera volontà di un altro uomo, prescindendo dalle leggi eterne della ragione e della giustizia? Questo no; e vedremo subito un orizzonte limpido e chiaro dove gli oggetti si presentano lucidi e senz’ombra che li offuschi o li annebbi. Infatti la risposta a queste domande, fornita da tutti gli scrittori, è decisiva: il comando deve essere conforme alla ragione e alla giustizia, tutto il resto è tirannia. Possiamo dunque dire che il principio proclamato dal Sig. Guizot nel suo Discorso sulla democrazia moderna e nella Storia della civiltà europea, cioè che la sola volontà non forma diritto, e che le leggi, perché siano tali, devono essere in

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accordo con quelle della ragione eterna, unica origine di ogni potere legittimo; questo principio, che forse alcuni penseranno attribuito di recente alla società, è già tanto vecchio quanto lo è il mondo, conosciuto dagli antichi filosofi, sviluppato, insegnato, applicato dal Cristianesimo, e che si trova in tutte le opere dei teologi e dei giureconsulti.

Ma sappiamo bene che valore avesse nelle monarchie antiche questo principio, e quanto ne abbia ancora oggi nei paesi dove non è radicato il Cristianesimo! Chi si assume in questi paesi l’incarico di ricordare continuamente ai re l’obbligo di essere giusti? Osservate al contrario che succede tra i Cristiani: i termini ragione e giustizia sono sempre sulla bocca dei sudditi, perché essi sanno bene che nessuno ha il diritto di trattarli diversamente: e lo sanno bene perché il Cristianesimo ha instillato in loro un vivo sentimento della propria dignità, e col Cristianesimo si sono abituati a considerare la ragione e la giustizia non come nomi senza significato, ma come valori eterni impressi nel cuore dell’uomo dalla mano di Dio, come un ricordo perenne che, se l’uomo è una creatura debole soggetta ad errori e a mutabilità, ciò nonostante porta in sé scolpita l’immagine della verità eterna e della perenne giustizia.

Se qualcuno si ostinasse a mettere in dubbio quanto detto finora, per dimostrare il suo errore basterebbe ricordare il gran numero di testi da me citati in questo tomo, nei quali i più illustri scrittori cattolici manifestano il loro pensiero sull’origine e i poteri dell’autorità civile.

Abbiamo parlato delle idee. Per quanto riguarda i fatti c’è molta variabilità secondo i tempi ed i paesi. Durante le migrazioni dei popoli barbari, e per tutto il tempo in cui prevalse il regime feudale, la monarchia fu molto inferiore all’idea che le sta alla base; ma nel sedicesimo secolo le cose cambiarono aspetto. In Germania, in Francia, in Inghilterra, in Spagna regnarono monarchi potenti che riempirono il mondo della loro fama. In loro presenza l’aristocrazia e la democrazia si dovevano inchinare umilmente; e se talvolta osavano sollevare la testa erano costrette a soccombere e ad essere ancor più umiliate. Il trono non era ancora giunto al massimo della potenza e di quel fascino che acquistò nel secolo successivo; ma il suo futuro era fissato irrevocabilmente: il potere e la gloria lo aspettavano; l’aristocrazia e la democrazia potevano cercare di prendervi parte, ma invano avrebbero tentato di conquistarli. Le società europee avevano bisogno di un centro forte e stabile, e la monarchia soddisfaceva pienamente questa imperiosa necessità: i popoli che lo sentirono e lo compresero, si diressero senza indugio verso il principio soccorritore, mettendosi sotto la tutela del trono.

Il problema a quel punto non era se la monarchia dovesse esistere o no; ancora meno se dovesse prevalere sull’aristocrazia e la democrazia, perché i due problemi erano già risolti: all’inizio del sedicesimo secolo sia l’esistenza che la supremazia della monarchia erano due fatti certi e indispensabili. Restava però da risolvere se il trono doveva imporsi in modo così decisivo da

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annientare politicamente i due elementi aristocratico e democratico; cioè se per l’avvenire i tre elementi dovevano continuare ad esistere come era avvenuto fino allora,; o se eliminando i due rivali dovesse continuare a dominare solo il potere monarchico.

La Chiesa si opponeva all’autorità del re quando questi cercava di allungare la mano sulle cose sacre; ma la sollecitudine della Chiesa faceva in modo da non arrivare al punto di abbassare agli occhi dei popoli un’autorità che era loro tanto necessaria. Al contrario, oltre a rinsaldare ancor più il potere dei re con le sue dottrine favorevoli ad ogni autorità legittima, faceva in modo di rivestirli di un carattere sacro mediante la celebrazione di sacre cerimonie d’incoronazione.

Alcuni hanno accusato la Chiesa di tendenze anarchiche perché si era opposta con energia alle ingiuste pretese dei sovrani; ed altri, al contrario, le hanno creata la nomea di favorire il dispotismo per aver predicato ai popoli l’obbligo di ubbidire alle autorità legittime. Queste accuse, così opposte fra loro, se non mi sbaglio provano che la Chiesa non è stata mai né adulatrice né anarchica; e che tenendo la bilancia in equilibrio ha sempre proclamata la verità tanto ai re quanto ai popoli.

Lasciamo agli spiriti faziosi il compito di andare in cerca di fatti storici per dimostrare che ì Papi avevano intenzione di abbattere la monarchia civile, eliminandola a proprio vantaggio; intanto però non dimentichiamo che, come dice il Protestante Muller, nei secoli barbari il Padre dei fedeli era il tutore che Dio aveva dato alle nazioni europee, e così non ci meraviglieremo che tra il Muller e i suoi allievi sorgessero contrasti.

Per capire le intenzioni con le quali furono formulate le accuse sull’atteggiamento della Sede di Roma nei confronti della monarchia, basta riflettere sul seguente fatto. Quello di creare tra i popoli europei un’autorità centrale molto forte, fissandole nello stesso tempo dei limiti affinché non abusasse della sua forza, è considerato come un immenso beneficio da tutti gli studiosi di diritto pubblico, i quali esaltano grandemente tutto ciò che, direttamente o indirettamente, ha contribuito a produrlo. Come mai allora quando si tratta della condotta dei Papi, l’appoggio che hanno dato all’autorità dei sovrani viene chiamato amore per il dispotismo, e poi l’impegno che hanno impiegato per limitare su certe cose i poteri degli stessi sovrani viene definito usurpazione sovvertitrice? La risposta non è difficile (8). Torna all’indice

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CAPITOLO LIX

Aristocrazia. La nobiltà e il clero. Loro differenze. La nobiltà e la monarchia. Loro differenze. Classe intermedia fra il trono e il popolo. Cause della decadenza della nobiltà.

_______________ L’ Aristocrazia, il cui nome è riferito alle classi privilegiate, ne

comprendeva due, molto diverse per l’origine e la natura: la nobiltà e il clero. Ambedue avevano in abbondanza ricchezze e potere, ambedue si elevavano di molto sulle masse, ed erano nel sistema politico due elementi di grande importanza. Ciò nonostante tra l’una e l’altra passava una grandissima differenza. Mentre alla base della grandezza e del potere del clero c’erano i princìpi religiosi, princìpi che pervadevano tutta la società, l’animavano e le davano la vita, e di conseguenza garantivano la preminenza di questa classe ancora per molto tempo; la grandezza e l’influenza della nobiltà poggiava invece solo su un fatto necessariamente transitorio, cioè sull’ordinamento sociale di quei tempi, ordinamento che fin da allora già si stava modificando profondamente in quanto la società andava liberandosi senza indugio dai vincoli del feudalesimo. Non intendo dire che i nobili non avessero diritti legittimi riguardo al potere e all’influenza che esercitavano; ma che la maggior parte di questi diritti, quantunque si suppongano fondati lecitamente su leggi e su titoli, non avevano tuttavia un legame essenziale con nessuno dei grandi princìpi conservatori della società; princìpi che dànno una forza immensa ed un grande ascendente alla persona o alla classe che a qualunque titolo li rappresenti.

Siccome questa materia è stata sempre poco esaminata, e la comprensione di importanti eventi sociali dipende dal fatto che essa sia spiegata a dovere, tornerà utile svilupparla con una certa estensione, ed approfondirla con ponderazione.

Cosa rappresentava la monarchia? Un principio altamente conservatore della società, un principio che è sopravvissuto a tutti gli attacchi direttigli dalle teorie e dalle rivoluzioni, ed a cui si sono attaccate come alla sola àncora di salvezza anche quelle nazioni nelle quali le idee democratiche si sono maggiormente sviluppate, e in cui le istituzioni liberali hanno gettato più profondamente le radici. Questa è una delle cause per cui anche nei tempi più funesti per la monarchia, quando ostacolata dall’arroganza feudale e dall’inquietudine e dall’agitazione della nascente democrazia lasciava appena vedere la sua forza in mezzo ai sommovimenti della società, come l’albero ondeggiante di una nave naufragata, anche in questi tempi, ripeto, all’idea di monarchia venivano associate quelle di forza e di sovranità. La dignità reale veniva di fatto calpestata ed oltraggiata in mille modi, ma nonostante ciò tutti riconoscevano che era una cosa sacra ed inviolabile.

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Questo fenomeno della discordanza della teoria dalla pratica, che mostrava come un’idea sia più forte del fatto che essa esprime, non deve destare meraviglia, perché è tipico di quelle idee che producono grandi cambiamenti. Incominciano ad apparire nella società, poi si diffondono, gettano le radici, s’insinuano in tutte le istituzioni. Il tempo fa maturare le cose, e se l’idea è morale e giusta, e se mostra la sua attitudine a soddisfare una necessità, arriva infine il momento che l’idea trionfa e tutto s’inchina e si umilia alla sua presenza. Ecco ciò che accadde riguardo alla monarchia: sotto una o l’altra forma, con queste o quelle varianti, essa era per i popoli europei una vera necessità, come lo è tuttora; per questo appunto doveva prevalere sui suoi rivali e sopravvivere a tutte le contrarietà.

Riguardo al clero, non è necessario fermarsi per dimostrare che esso rappresentava il principio religioso, vera necessità sociale per tutti i popoli della terra se la si considera in senso generale; e vera necessità sociale per i popoli europei, se la si considera in senso cristiano.

È già abbastanza evidente che la nobiltà non poteva paragonarsi né alla monarchia né al clero in quanto non è possibile riscontrare in essa l’espressione di qualcuno di quei princìpi elevati che vengono rappresentati dalla monarchia o dal clero. Grandi privilegi, antico possesso di grandi beni, il tutto garantito dalle leggi e dai costumi del tempo ed unito a gloriose memorie di fatti d’arme, fregiato di nomi altisonanti, blasoni e titoli di antenati illustri. Ecco in sostanza su cosa si basava l’aristocrazia secolare: ma tutto questo non aveva in sé nessuna relazione diretta ed essenziale con le grandi necessità sociali, e apparteneva ad un ordinamento particolare dalle caratteristiche inevitabilmente transitorie. Questa classe era troppo fondata sul diritto puramente positivo ed umano perché potesse contare su una lunga durata ed illudersi di uscire vincitore nelle sue pretese ed esigenze.

Mi si obbietterà, forse, che l’esistenza di una classe intermedia tra il sovrano ed il popolo è una vera necessità riconosciuta da tutti gli esperti di diritto pubblico, e fondata sulla natura stessa delle cose. Infatti noi stessi vediamo che nelle nazioni dove è scomparsa l’antica aristocrazia se n’è formata un’altra nuova, sia per via degli avvenimenti, sia per l’azione del governo. Ma questo fatto non ha nulla a che fare con l’aspetto che stiamo considerando della questione. Io non nego la necessità di una classe intermedia; ma dico soltanto che l’antica nobiltà, così com’era, non conteneva elementi che ne assicurassero la conservazione, poiché la si poteva sostituire con un’altra, come effettivamente è successo. Quella che dà alle classi secolari un’importanza sociale e politica è la superiorità del sapere e della forza; quando questa superiorità viene a mancare nella nobiltà, essa decade. Al principio del sedicesimo secolo il trono e il popolo andavano acquistando ogni giorno di più un maggiore ascendeste: quello con l’accentrare tutte le forze sociali, e questo accumulando maggiori ricchezze per mezzo dell’industria e del commercio. In quanto alle conoscenze tecniche, l’invenzione della stampa

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le andava diffondendo, ed era ormai impossibile che da quel momento restasse il patrimonio esclusivo di una qualunque classe.

Era dunque evidente che alla nobiltà stava sfuggendo di mano l’antico potere, e che non aveva altri mezzi per conservarli almeno in parte se non quelli che la premunisse dal perdere completamente i diritti che glielo avevano procurato. Disgraziatamente per lei, il valore delle proprietà andava diminuendo ogni giorno, non soltanto a causa degli sprechi provocati dal lusso, ma anche perché l’aumento straordinario della ricchezza mobile, ed i grandi cambiamenti cui andarono soggetti tutti i valori a motivo del nuovo ordinamento sociale e della scoperta dell’America, fecero perdere ai beni immobili una gran parte della loro importanza.

Se andava diminuendo il potere della proprietà fondiaria, con anche maggior rapidità andavano in rovina i diritti giurisdizionali, combattuti da una parte dal potere dei re, e dall’altra dalle municipalità e dagli altri centri ove operava l’elemento popolare; al punto che, anche supponendo un profondo rispetto per i diritti acquisiti, e lasciando semplicemente che le cose seguissero il loro corso ordinario, era inevitabile che dopo un certo tempo l’antica nobiltà arrivasse a quello stato di prostrazione in cui attualmente si trova.

Non poteva accadere la stessa cosa al clero, al quale, benché sia stato spogliato dei beni ecclesiastici, e i suoi privilegi siano stati ridotti o aboliti, restava tuttavia il ministero religioso. Questo ministero nessuno poteva esercitarlo senza del clero: la qual cosa bastava per assicurargli una forte influenza a dispetto di tutte le sommosse e di tutti gli sconvolgimenti. Torna all’indice

CAPITOLO LX

Democrazia. Idea di Democrazia. Dottrine dominanti. L’insegnamento del Cristianesimo annullò le dottrine di Aristotele. Caste. Un passo del Sig. Guizot. Riflessioni. Influenza del celibato del clero per prevenire la successione ereditaria. Che sarebbe successo senza il celibato. Il Cattolicesimo e il popolo. Sviluppo delle classi industriali in Europa. Lega anseatica. Stabilimento dei mestieri di Parigi. Sviluppo industriale in Italia ed in Spagna. Il Calvinismo e l’elemento democratico. Il Protestantesimo e i democratici del sedicesimo secolo.

_______________ Prima del sedicesimo secolo la situazione in Europa era tale che la

democrazia non sembrava poter facilmente occupare un posto di rilievo nelle teorie politiche. Soffocata da tanti poteri già affermati, e ancora priva di quei mezzi che solo con l’andare del tempo le avrebbero fatto acquistare una certa influenza, era ben naturale che quanti s’interessassero degli affari di governo la considerassero appena. Essa era molto svalutata; e perciò non ci si deve meravigliare se per l’influenza della regalità sulle idee, queste

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rappresentassero il popolo come una parte abietta della società, indegna di onori e di agi, e fatta unicamente per ubbidire, lavorare e servire.

Eppure bisogna notare che le idee stavano già prendendo un’altra direzione; e si può anche assicurare che queste erano molto più elevate e generose dei fatti. Ed ecco una delle prove più convincenti dello sviluppo intellettuale che il Cristianesimo aveva prodotto nell’uomo, ed una delle testimonianze più indiscutibili di quel sentimento profondo di ragione e di giustizia che lo stesso Cristianesimo aveva immesso nel cuore della società: elementi tali che non potevano essere soffocati dai fatti più ostili e malvagi, perché erano sostenuti dagli stessi dogmi della religione, la quale restava immutabile ad onta di tutti gli sconvolgimenti, come dopo la distruzione di una macchina un asse robusto resta immobile ed inalterato.

Negli scritti di quei tempi leggiamo come indiscutibile il diritto, da parte del popolo, che gli venisse amministrata la giustizia, che non fosse oppresso con nessun tipo di vessazioni, che le cariche fossero distribuite con equità, che non si obbligasse nessuno a fare ciò che non risultasse essere conforme alla ragione e che portasse beneficio alla società: vale a dire che vediamo riconosciuti e stabiliti tutti quei princìpi sui quali dovevano fondarsi le leggi e i costumi che avrebbero prodotto la libertà civile. E questo è tanto vero che, man mano che le circostanze lo permettevano, questi princìpi andavano sviluppandosi con la maggiore estensione e rapidità; furono ampiamente applicati, e la libertà civile rimase tanto radicata tra i popoli dell’Europa moderna, che non è più venuta meno, e si è vista sia sotto le forme del governo misto, che di quello assoluto.

A conferma che i princìpi favorevoli al popolo provenivano dal Cristianesimo porterò un esempio che mi sembra significativo. La filosofia che allora dominava nelle scuole era quella di Aristotele. La sua autorità era indiscutibile: era il filosofo per antonomasia; un buon commentario delle sue opere pareva il punto più alto a cui si potesse arrivare in queste materie. Ciò nonostante è il caso di notare che riguardo alle relazioni sociali le dottrine del filosofo di Stagira non erano adottate perché gli scrittori cristiani avevano dell’umanità un concetto più nobile ed elevato. Quell’insegnamento umiliante intorno agli uomini nati per servire, destinati a questo scopo dalla natura stessa ancor prima che dalle leggi, quelle dottrine orribili sull’infanticidio, quelle teorie che negavano il titolo di cittadino a tutti coloro che esercitavano arti meccaniche: in una parola, quei mostruosi sistemi che gli antichi filosofi elaboravano, senza neanche pensarci, basandoli sullo stato della società nella quale vivevano, furono rigettati dai filosofi cristiani. Colui che aveva finito di leggere la politica di Aristotele andava subito a consultare la Bibbia o le opere di un santo Padre. L’autorità di Aristotele era grande, ma quella della Chiesa lo era molto di più: era dunque necessario interpretare in modo più favorevole le parole dello scrittore pagano, oppure abbandonarlo: in ambedue i casi erano

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salvi i diritti dell’umanità, e questo era dovuto alla superiorità della fede cattolica.

Una delle cause che impediscono maggiormente lo sviluppo dell’elemento democratico, facendo sì che il maggior numero degli abitanti di una nazione non esca mai dall’originario stato d’abiezione e di servitù, è la faccenda delle caste; perché essendo collegati ad esse onori, ricchezze e comando, trasmettendosi tali privilegi di padre in figlio s’innalza una barriera che separa gli uomini gli uni dagli altri, e finisce col far considerare i più forti come appartenenti ad una specie più nobile. La Chiesa si è sempre opposta all’introduzione di un sistema così dannoso; coloro che hanno applicato al clero il nome di casta hanno dimostrato di non conoscerne il significato. Su questo punto il Sig. Guizot ha reso pienamente giustizia alla causa della verità. Ecco in qual modo egli si esprime nella quinta lezione della sua Storia generale sulla civiltà europea.

«Quanto al modo – egli dice – con cui si forma e si trasmette il potere nella Chiesa, vi è una parola di cui si è spesso fatto uso parlando del clero cristiano e che io mi sento di escludere, ed è quella di casta. Spesse volte il corpo dei ministri ecclesiastici è stato definito casta. Questa espressione non è giusta perché all’idea di casta è legata quella di eredità. Girate il mondo e considerate tutti i paesi in cui il sistema delle caste si è affermato: nelle Indie, in Egitto, e ovunque vedrete la casta ereditaria per natura; essa è la trasmissione della stessa situazione, dello stesso potere da padre in figlio. Dove non vi è eredità, non c’è casta, ma corporazione; lo spirito di corpo ha i suoi inconvenienti, ma è diversissimo dallo spirito di casta. Non si può applicare la parola di casta alla Chiesa cristiana: il celibato dei preti ha impedito al clero cristiano di diventare una casta.

«Avrete già capito quali sono le conseguenze di una tale differenza. Nel sistema della casta, all’eredità va necessariamente unito il privilegio; questo deriva dalla definizione stessa della casta. Quando le stesse funzioni, gli stessi poteri diventano ereditari all’interno della stessa famiglia, è chiaro che vi è collegato il privilegio e che nessuno può acquistarlo se non in virtù della propria origine. Così appunto si è verificato dove l’autorità religiosa è capitata nelle mani di una casta; essa è divenuta materia di privilegio, e nessuno vi ha potuto partecipare fuorché gli appartenenti alle famiglie che componevano la casta. Tutto il contrario è avvenuto nella Chiesa cristiana; e non soltanto è avvenuto il contrario, ma per di più la Chiesa ha mantenuto costantemente la norma che tutti gli uomini, qualunque ne sia l’origine, possono essere ammessi a tutti i suoi impieghi e a tutte le sue dignità. La carriera ecclesiastica, particolarmente dal quinto al dodicesimo secolo, era aperta a tutti senza distinzione alcuna. I ministri della Chiesa provenivano da tutte le classi sociali, tanto dalle inferiori, quanto dalle superiori, e dalle inferiori anche più spesso. Al di fuori della Chiesa tutto cadeva sotto il potere del privilegio; soltanto lei manteneva il principio dell’uguaglianza e della

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concorrenza; lei sola permetteva a tutti di accedere a tutte le autorità legittime, e di prendere possesso del potere. Questa è la prima grande conseguenza che sia derivata in modo naturale dal fatto che la Chiesa è un corpo e non una casta».

Questo stupendo passo del pubblicista francese assolve pienamente la Chiesa cattolica dall’accusa di esclusivismo con cui hanno creduto di diffamarla; e questo mi offre l’occasione per fare alcune riflessioni sulla benefica influenza del Cattolicesimo nello sviluppo della civiltà riguardo alle classi popolari.

Tutti sanno quanto abbiano strepitato contro il celibato religioso i pretesi difensori dell’umanità; è strano però che non si siano accorti dell’esattezza dell’osservazione del Sig. Guizot, cioè che il celibato ha impedito al clero cristiano di diventare una casta. Vediamo infatti cosa sarebbe accaduto nel caso contrario. All’epoca di cui stiamo parlando l’influenza del potere religioso non aveva limiti, e i beni della Chiesa erano immensi; tali cioè da permettere ad una casta di assicurare la sua preminenza e stabilità. Che le mancava dunque? La successione ereditaria, e nulla più; e questa successione sarebbe stata stabilita col matrimonio degli ecclesiastici. Questa non è una pura ipotesi, ma un fatto che può essere dimostrato consultando la storia. La legislazione ecclesiastica ci presenta documenti importantissimi dai quali si apprende che fu necessario tutto il vigore dell’autorità pontificia per impedire che non s’introducesse la successione ereditaria. La natura stessa delle cose tendeva inevitabilmente a questo; e se la Chiesa si liberò di una tale calamità fu proprio perché ebbe sempre in orrore un così dannoso costume. Leggasi il titolo 17 del primo libro delle decretali di Gregorio IX, e dalle disposizioni pontificie che vi sono contenute chiunque si convincerà che il male presentava sintomi preoccupanti. Le parole usate dal Papa sono le più severe che si possano immaginare: «Ad enormitatem istam eradicandam» - «Observato apostolici rescripti decreto quod successionem in Ecclesia Dei aereditariam detestatur» - «Ad extirpandas successiones a Sanctis Dei Ecclesiis studio totius sollicitudinis debemus intendere» - «Quia igitur in Ecclesia successiones, et in praelaturis et dignitatibus ecclesiasticis statutis canonicis damnantur». Queste ed altre simili espressioni manifestano chiaramente che il pericolo aveva già raggiunto una certa gravità, e giustificano la prudenza della Santa Sede nel riservarsi il diritto esclusivo di gestire questa materia.

Senza la vigilanza continua dell’autorità pontificia l’abuso si sarebbe allargato ogni giorno di più, poiché a ciò spingevano i più forti istinti della natura. Erano passati quattro secoli da che erano state prese le disposizioni di cui abbiamo parlato, che nel 1533 il Papa Clemente VII si vide costretto a limitare una norma di Alessandro VI per ovviare a gravi scandali di cui quel pio Pontefice si lamentava con gran dolore.

Immaginate ora che la Chiesa non si fosse opposta con tutte le sue forze ad un tale abuso e che il malcostume fosse divenuto comune ovunque. Pensate

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inoltre che in quei secoli regnava la più crassa ignoranza e che ai privilegiati veniva concesso tutto mentre al popolo era riconosciuta appena l’esistenza civile. E allora, formata che si fosse una casta del clero accanto alla casta dei nobili, e unitesi ambedue con vincoli di famiglia e di interessi comuni, non avrebbero opposto un ostacolo insuperabile allo sviluppo ulteriore della classe popolare, immergendo la società europea in quel medesimo avvilimento in cui giacciono quelle asiatiche?

Questo è il bel frutto che ci avrebbe portato il matrimonio degli ecclesiastici se la cosiddetta riforma fosse avvenuta alcuni secoli prima. Essendo invece avvenuta agli inizi del sedicesimo secolo trovò già formata in gran parte la civiltà europea; aveva ormai a che fare con un adulto a cui non era tanto facile far dimenticare le idee e cambiare i costumi. Quanto è accaduto servirà a farci capire ciò che sarebbe potuto accadere. In Inghilterra si formò una stretta alleanza tra l’aristocrazia laica e il clero protestante; e bisogna notare che qui si è visto, e si continua tuttora a vedere, qualcosa di simile alle caste, però con le varianti inevitabilmente conseguenti al grande sviluppo di un certo tipo di civiltà e di libertà a cui è giunta la Gran Bretagna.

Se nel Medioevo il clero si fosse organizzato in una classe esclusiva, assicurandosi la perpetuità con la successione ereditaria, ne sarebbe certamente nata quell’alleanza aristocratica di cui abbiamo detto; e in tal caso, chi l’avrebbe potuta rompere? I nemici della Chiesa fanno derivare da mire segrete tutta la sua disciplina, e alcuni di essi anche i suoi dogmi; e quindi considerano pure la norma sul celibato come frutto di scopi opportunistici. E invece è facile comprendere che se la Chiesa avesse avuto soltanto mire mondane avrebbe potuto benissimo prendere per modello i sacerdoti delle altre religioni, i quali hanno formato una classe separata, predominante, esclusiva, senza opporre la severità del dovere agli istinti naturali.

Mi si obbietterà che l’Europa non è l’Asia: non c’è dubbio; ma neanche l’Europa attuale, né quella del sedicesimo secolo, è l’Europa dei secoli di mezzo, quando nessuno sapeva né leggere né scrivere tranne gli ecclesiastici; quando tutta la scienza di quel tempo era nel clero; quando questo, se avesse voluto lasciare il mondo nelle tenebre, non avrebbe dovuto far altro che spegnere la torcia con la quale lo illuminava.

È anche certo che il celibato ha dato al clero una forza morale ed un ascendente sulle anime che con altri mezzi non avrebbe ottenuto; ma questo prova soltanto che la Chiesa ha preferito a quella materiale l’autorità morale, e che lo scopo delle sue istituzioni è quello di agire, con questa autorità, sull’intelletto e sul cuore. E non è forse cosa altamente degna di lode adoperare per quanto è possibile i mezzi morali per disciplinare l’umanità? Non è forse da preferirsi che il clero cattolico abbia fatto con norme severe per se stesso, quello che sarebbe riuscito a fare solo in parte adottando sistemi allettanti per le proprie passioni e avvilenti agli occhi degli altri? Oh, come

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risplende sotto questo aspetto l’opera di Colui che starà con la sua Chiesa fino alla consumazione dei secoli!

Ma qualunque sia la fondatezza di queste riflessioni, non si potrà negare che, laddove il Cristianesimo non ha piantato le sue radici, il popolo è rimasto sottomesso ad una minoranza che ricompensa le sue fatiche solo con oltraggi e disprezzo. Si consulti la storia e si considerino i fatti: la cosa è generale e ricorrente, senza che siano escluse le antiche repubbliche delle quali sono state portate tanto in alto le loro libertà. In quelle antiche repubbliche sotto una certa forma di libertà, per la maggioranza degli uomini vi era la schiavitù vera e propria, anche se nascosta con belle apparenze agli occhi di quell’anonima moltitudine soggetta ai capricci di un tribuno, e che credeva di esercitare i propri alti diritti quando condannava all’ostracismo o alla morte i cittadini virtuosi.

Nelle società cristiane talvolta poteva capitare che, pur essendoci nella sostanza, la libertà non apparisse; ma se per libertà dobbiamo intendere il predominio delle giuste leggi, nella sostanza le cose erano sempre in favore di essa. Perché le leggi erano dirette al bene del popolo ed erano fondate sulla stima ed il profondo rispetto dovuti ai diritti dell’umanità. Osservate tutte le grandi fasi della civiltà europea nei tempi in cui dominava esclusivamente il Cattolicesimo. Diverse nelle loro forme, nelle loro origini e nelle loro tendenze, tutte andavano però a favore del popolo. Tutto ciò che è rivolto a questo fine perdura; tutto ciò che vi si oppone, finisce. Come mai negli altri paesi non è successa la stessa cosa che in Europa? Anche se le ragioni evidenti e i fatti concreti non ci dimostrassero la benefica influenza della religione di Gesù Cristo, dovrebbe bastare una così grande coincidenza per far nascere serie riflessioni a coloro che meditano sul corso e sul carattere di quegli avvenimenti che cambiano o modificano la sorte del genere umano.

Coloro che ci hanno descritto il Cattolicesimo come nemico del popolo avrebbero dovuto indicarci qualche dottrina della Chiesa in cui venissero approvati gli abusi che lo vessavano, o le ingiustizie con cui l’opprimevano; avrebbero dovuto dirci se all’inizio del sedicesimo secolo, quando l’Europa si trovava sotto l’esclusiva influenza della religione cattolica, il popolo non era già tutto ciò che poteva essere secondo l’andamento ordinario delle cose. Non c’è dubbio che non possedesse le ricchezze che ha accumulato in seguito, e che le conoscenze non erano altrettanto estese quanto lo divennero in tempi a noi più vicini; ma tali progressi sono forse dovuti al Protestantesimo? Il sedicesimo secolo non cominciava forse sotto migliori auspici del quindicesimo, così come questo era progredito rispetto al precedente? Ciò prova che l’Europa sotto la tutela del Cattolicesimo era sulla strada del progresso, e che la causa del popolo non riceveva pregiudizio dall’influenza cattolica. Che poi col tempo si siano fatti grandi miglioramenti, questi non sono stati certamente il frutto della pretesa riforma.

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Ciò che ha fatto aumentare d’importanza la democrazia moderna, e ridurre il predominio delle classi aristocratiche, è stato lo sviluppo dell’industria e del commercio. Se esamino ciò che accadeva in Europa prima che nascesse il Protestantesimo, vedo che le dottrine e le istituzioni cattoliche, lungi dall’ostacolare un tale sviluppo, piuttosto lo favorivano; infatti sotto la loro protezione gl’interessi industriali e mercantili andavano sviluppandosi in un modo sorprendente.

Tutti sanno come in Spagna questi interessi avevano avuto un meraviglioso sviluppo, e sarebbe un errore pensare che un tale progresso fosse dovuto ai Mori. La Catalogna, soggetta esclusivamente all’influenza cattolica, ci appare tanto attiva, prospera ed intraprendente nell’industria e nel commercio, che se non risultasse da incontestabili documenti il suo progresso sembrerebbe inverosimile. Leggendo le Memorie storiche sulla marina, commercio ed arti dell’antica città di Barcellona, del nostro celebre Campmany, si può essere fieri di appartenere alla nazione catalana i cui antenati si davano con tanta alacrità ad ogni genere d’impresa, non permettendo ad altri di sopravanzarli sulla strada della civiltà e della cultura.

Mentre nel Mezzogiorno dell’Europa accadeva questo fenomeno positivo, nel Nord era sorta la lega delle città anseatiche, di cui l’origine si perde nell’oscurità dei secoli di mezzo, e che acquistò col tempo una tale potenza da poter misurare le proprie forze con quelle dei monarchi. I ricchissimi stabilimenti installati in molti punti d’Europa, e favoriti da proficui privilegi, la elevarono al grado di una vera potenza. Non contenta del potere che aveva nel suo paese ed in Svezia, Norvegia e Danimarca, lo estesero fino in Inghilterra e in Russia; Londra e Novgorod ammiravano i grandi stabilimenti di questi arditi commercianti i quali, superbi delle loro ricchezze, si facevano accordare privilegi spropositati, avevano i loro magistrati particolari e formavano tra i paesi stranieri uno stato indipendente.

È degno di nota il fatto che la lega anseatica, riguardo al sistema di vita degli impiegati dei loro stabilimenti, aveva preso per modello le comunità religiose: mangiavano in comune, avevano dormitori comuni, e a nessuno di essi era permesso di prendere moglie. Se uno violava una di queste norme perdeva i diritti di socio anseatico e di cittadino.

Anche in Francia le classi industriali si organizzarono in modo da poter resistere meglio agli elementi di dissoluzione che nutrivano in seno; e questa organizzazione, che portò tanti benefìci, fu dovuta a un re che la Chiesa cattolica venera sugli altari. Lo stabilimento dei mestieri di Parigi contribuì potentemente ad avviare l’industria, a renderla più intraprendente e più etica. E qualunque sia il genere di abusi che vi s’introdussero in seguito, non si può negare che S. Luigi fondando e organizzando questo stabilimento nel miglior modo possibile (considerati i tempi che rispetto al progresso raggiunto in seguito erano ancora molto indietro), soddisfece ad una grande necessità.

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E che diremo poi dell’Italia che contava nel suo seno le potenti repubbliche di Venezia, Firenze, Genova e Pisa? Pare incredibile la strada che l’industria e il commercio avevano preso in quella penisola e il conseguente sviluppo dell’elemento democratico. Se l’influenza del Cattolicesimo fosse per sua natura così deprimente, se l’alito della corte romana fosse tanto micidiale per il progresso dei popoli, non è forse vero che i cattivi effetti avrebbero dovuto farsi sentire maggiormente dove potevano agire più da vicino? Come mai invece, mentre una buona parte dell’Europa gemeva sotto l’oppressione del feudalesimo, la classe media, quella che non aveva altri titoli di nobiltà che il frutto della propria intelligenza e delle proprie opere, in Italia si mostrava in modo evidente così potente e florida? Non voglio dire che questo sviluppo fosse dovuto ai Papi; ma sarà almeno necessario concedere che i Papi non vi frapponevano alcun ostacolo!

E giacché vediamo un fenomeno simile in Spagna, e particolarmente nel regno d’Aragona dove l’influenza pontificia era grande; e giacché lo stesso avveniva nel Nord dell’Europa, dove abitavano popoli civilizzati solo dal Cattolicesimo; e giacché lo stesso avveniva con maggiore o minore rapidità in tutti i paesi sottomessi esclusivamente alla fede e all’autorità della Chiesa, mi sarà lecito concludere che il Cattolicesimo non ha in sé nulla che sia contrario all’avanzare della civiltà e che si opponga ad un giusto e legittimo sviluppo dell’elemento popolare.

Non riesco a comprendere con quali occhi abbiano studiato la storia quelli che hanno voluto regalare al Protestantesimo il bel titolo di favorevole agl’interessi del popolo. L’origine del Protestantesimo fu essenzialmente aristocratica; e nei paesi dove ha potuto gettare le radici ha messo l’aristocrazia su basi tanto solide che le rivoluzioni di tre secoli non hanno avuto forza sufficiente a rovesciarla. Si veda, a conferma di questa verità, ciò che accadde in Germania, in Inghilterra e in tutto il Nord Europa.

È stato detto che il Calvinismo era più favorevole all’elemento democratico, e che se avesse prevalso in Francia, avrebbe sostituito alla monarchia un complesso di repubbliche confederate. Checché ne sia di tale ipotesi intorno ad un cambiamento che non sarebbe certamente stato molto propizio all’avvenire di quella nazione, risulta comunque che in Francia non si sarebbe potuto stabilire altro sistema che l’aristocratico perché a quell’epoca le circostanze non permettevano altro; e i grandi signori che si trovavano alla guida delle innovazioni religiose non avrebbero permesso un diverso ordinamento.

Se il Protestantesimo avesse trionfato in Francia, forse i poveri di quel paese avrebbero cercato di avere per sé una parte del pingue bottino come fecero quelli della Germania; ma sicuramente la proverbiale durezza di Calvino non sarebbe stata per loro meno funesta di quello che fu per i tedeschi la furiosa stupidità di Lutero. È probabile che quei miseri contadini (che secondo quanto affermano scrittori contemporanei non mangiavano che pane

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nero di segale, non assaggiavano mai carne, dormivano sulla paglia e non usavano altro cuscino che un pezzo di legno), nel sollevarsi per reclamare a proprio vantaggio le conseguenze delle nuove dottrine avrebbero avuto la stessa sorte dei loro fratelli tedeschi, i quali non furono castigati, ma sterminati.

In Inghilterra la distruzione contemporanea dei conventi provocò il pauperismo; poiché passando i beni nelle mani dei secolari rimasero senza mezzi di sussistenza sia i religiosi espulsi dai loro conventi che gl’indigenti che prima vivevano delle elemosine di quei luoghi pii. E si noti bene che il danno non fu passeggero, ma è continuato fino ai giorni nostri, ed è ancora il maggiore di tutti i mali che affliggono la Gran Bretagna. Non ignoro quanto è stato detto sul fomentare l’ozio e la pigrizia per mezzo delle elemosine; è certo però che l’Inghilterra, con le sue leggi sui poveri, con la sua carità prescritta dalle leggi, presenta un numero molto maggiore di poveri di quel che sia nei paesi cattolici. Difficilmente mi si potrà convincere che lasciar morire di fame il povero sia un buon mezzo per far progredire l’elemento popolare.

Se vediamo che il Protestantesimo non riuscì ad affermarsi in Spagna e in Italia, che erano allora i paesi dove il popolo godeva i maggiori diritti e stava meglio che altrove, evidentemente in esso c’è qualcosa che non lusingava i democratici di quei tempi. E tanto più si può notare questo, in quanto vediamo che i novatori ebbero miglior successo dove l’aristocrazia feudale contava di più. Mi si parlerà delle Province Unite: ma questo esempio prova unicamente che il Protestantesimo, cercando sostenitori, faceva volentieri alleanza con tutti i malcontenti. Se Filippo II fosse stato un fervoroso Protestante, le Province Unite probabilmente avrebbero sostenuto di non voler continuare ad essere soggette ad un principe eretico.

Per molti secoli quei paesi stettero sotto l’influenza esclusiva del Cattolicesimo, e ciò nonostante prosperarono, e la forma di governo popolare veniva esercitata senza incontrare ostacolo da parte della religione. Fu proprio sul cominciare del sedicesimo secolo che fecero la grande scoperta di non poter più prosperare senza abiurare la fede dei loro padri? Guardate la situazione geografica delle Province Unite, osservate come sono circondate da riformati che offrivano loro aiuto, e coglierete nel fatto politico le cause che non troverete mai se insistete a cercarle in una immaginaria inclinazione del Protestantesimo a sostenere gl’interessi del popolo (9). Torna all’indice

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CAPITOLO LXI

Valore delle forme politiche. Il Cattolicesimo e la libertà. Necessità della monarchia. Carattere della monarchia europea. Differenza tra l’Europa e l’Asia. Un passo del conte de Maistre. Istituzioni per limitare il potere. La libertà politica non deve nulla al Protestantesimo. Influenza dei Concili. L’aristocrazia del talento promossa dalla Chiesa.

_______________ Quell’entusiasmo per certe istituzioni politiche che negli ultimi tempi si

era tanto diffuso in Europa è andato man mano raffreddandosi, perché l’esperienza ha insegnato che un ordinamento politico, che non sia d’accordo con quello sociale, non è utile se si vuole conseguire il bene della nazione ma serve, al contrario, a procurarle un’infinità di mali. Si è anche capito, e non senza fatica nonostante la cosa sia molto semplice, che le forme politiche vanno considerate solamente come strumento per migliorare le condizioni dei popoli; e che la libertà politica, perché sia accettabile, non può essere che un mezzo per acquistare la libertà civile. Queste idee sono comuni a tutte le persone di senno: il fanatismo per questa o quella forma politica senza alcuna preoccupazione per le conseguenze civili è ormai patrimonio degli illusi, oppure è usato come infame strumento di cui si servono ipocritamente quegli ambiziosi che, essendo privi di un vero merito, non hanno altra strada per tentare il successo che quella delle agitazioni e dei tumulti.

Ciò nonostante, considerate le forme politiche come strumento, non si può negare che in alcuni paesi abbiano acquistato importanza e consistenza quelle che vengono dette di governo misto, temperato, costituzionale, rappresentativo, o comunque si voglia; e per questo motivo in molte parti si presenterà con scarsi favori qualunque principio che si supponga nemico naturale delle forme rappresentative e amico di quelle assolute. Per i popoli europei la libertà civile è divenuta una necessità; e siccome presso alcune nazioni l’idea di questa libertà civile è vincolata strettamente a quella di libertà politica, ed essendo difficile far capire che anche la libertà civile può essere presente in un governo di monarchia assoluta, è necessario analizzare quali siano in questa materia le tendenze della religione cattolica e quali quelle della religione protestante: tendenze che farò in modo di mettere in luce esaminando obiettivamente i fatti storici.

Dice in modo egregio il Signor Guizot: «Mai come oggi, forse, sono meno conosciuti gli impulsi naturali del mondo e le segrete vie della Provvidenza. Dove non vediamo assemblee, elezioni, urne e voti, supponiamo che il potere sia assoluto e la libertà senza garanzie» (Discorso sulla democrazia). Quando più sopra ho parlato di tendenze, ho usato apposta questa parola perché è chiaro che il Cattolicesimo su questo punto non ha nessun dogma, e non precisa nulla sui vantaggi di questa o di quella forma di governo; il Pontefice romano riconosce per figlio sia il Cattolico che siede sui banchi di un’assemblea americana che il suddito che riceve umilmente gli ordini di un

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potente sovrano. La religione cattolica è troppo saggia per poter scendere in una simile arena. Partendo dallo stesso cielo si espande come la luce del sole su tutte le cose, le illumina tutte e le rende feconde; ma essa non si oscura e non si appanna mai. La sua missione è quella di guidare l’uomo al cielo, somministrandogli strada facendo grandi beni e consolazioni sulla terra: gli mostra continuamente le verità eterne, gli dà consigli salutari in tutte le imprese; ma quando si passa in certi campi particolari non lo obbliga né lo costringe. Gli ricorda i santi precetti della sua morale, lo ammonisce a non allontanarsene, e come una tenera madre che parla al figlio gli dice: «Purché tu non ti allontani dai miei insegnamenti, fa’ pure come ti sembrerà più conveniente».

Ma è poi vero che il Cattolicesimo abbia in sé almeno una minima tendenza a limitare la libertà? Cosa ha prodotto in Europa il Protestantesimo riguardo alle forme politiche di governo? In cosa ha corretto o migliorato l’opera del Cattolicesimo? Prima del sedicesimo secolo l’ordinamento della società europea era diventato talmente complesso, ed inoltre lo sviluppo di tutte le facoltà intellettuali, la lotta tra i più forti interessi e l’ingrandirsi delle nazioni per la progressiva annessione di altre province erano giunti ad un punto tale che era in ogni caso indispensabile, per la tranquillità e per la prosperità dei popoli, un potere centrale, forte, energico e che si elevasse molto al di sopra di tutte le pretese degli individui e delle classi. Non poteva assolutamente concepirsi altro modo che potesse far sperare all’Europa giorni di pace; poiché dove gli elementi sono numerosi, molto diversi e in contrasto fra loro e tutti potentissimi, è necessaria un’azione ordinatrice che, prevenendo gli scontri, temperando l’ardore eccessivo, e moderando la velocità del cambiamento, eviti le continue guerre e le distruzioni e il caos che ne consegue. Questo fu il motivo che produsse una tendenza irresistibile verso la monarchia; e siccome la stessa tendenza si fece sentire in tutti i paesi d’Europa, ed anche in quelli che avevano istituzioni repubblicane, evidentemente c’erano fortissime ragioni perché essa fosse diffusa ovunque.

Attualmente nessun pubblicista autorevole dubita più di queste verità. Perché proprio da mezzo secolo a questa parte si sono succeduti degli avvenimenti che sembrano accaduti apposta per dimostrare che la monarchia in Europa era qualcosa di più che un’usurpazione ed una tirannia; ed anche nei paesi dove le idee democratiche si sono fortemente radicate si è dovuto modificarle e ridurle il necessario per poter conservare il trono, che viene considerato come la più sicura garanzia dei grandi interessi della società.

È nella misera natura di tutte le cose umane che, per buone e salutari che siano, si portino sempre appresso inconvenienti e mali, e si può ben vedere che la monarchia non poteva sfuggire a questa regola generale, perché la grande estensione e la forza del potere doveva inevitabilmente portare a compiere abusi ed eccessi. I popoli europei non sono di carattere tanto remissivo, e di spirito così moderato da sopportare senza reagire qualunque

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genere di avversità. Il sentimento della sua dignità è per l’Europeo tanto profondo che gli è incomprensibile la passività dei popoli orientali, i quali vegetano in mezzo all’avvilimento ed ubbidiscono con la fronte china al despota che li opprime e li disprezza. Ne deriva che sebbene in Europa sia stata sentita e riconosciuta la necessità di un potere molto forte, si è però sempre dovuto prendere quelle misure che potessero prevenirne o reprimerne gli abusi. Non c’è cosa più adatta a mettere in evidenza la grandezza e la dignità dei popoli europei quanto il paragonarli con quelli dell’Asia sotto questo aspetto. In Asia per sottrarsi all’oppressione non si conosce altro mezzo che uccidere il sovrano; il cui sangue è ancora caldo che già sul suo trono ne siede un altro che sdegnoso calpesta con l’orgoglioso piede il collo di quegli nomini crudeli e nello stesso tempo umiliati.

In Europa questo non avviene. In Europa si ricorre, come si è sempre ricorso, ai mezzi dettati dall’intelligenza, come quelli di fondare delle istituzioni che mettano in un modo duraturo e stabile il popolo al riparo dalle vessazioni e dagli eccessi. Non s’intende dire che tali tentativi non siano costati fiumi di sangue, né che si sia sempre presa la strada più opportuna; ma lo spirito dell’Europa in questo campo è quello stesso che l’ha guidata in qualunque altro campo, quello cioè di sostituire il diritto al fatto. Il problema di cui stiamo trattando non è di oggi, ma esiste fin dall’origine delle società europee: ben lungi dall’essere apparso in questi ultimi tempi, è già da molto tempo che sono stati fatti grandi sforzi per risolverlo. Ecco in che modo il conte de Maistre espone le sue idee sulle cause che rendono difficile il problema: «Sebbene la sovranità non abbia né maggiore né più generale interesse che quello di essere giusta, e sebbene i casi in cui può avere la tentazione di non esserlo siano senza paragone in numero minore degli altri, ciò nonostante sono disgraziatamente molti; e il carattere particolare di certi sovrani può aumentare gl’inconvenienti al punto che, per renderli sopportabili, non vi è quasi altro mezzo che quello di farne il confronto con gli inconvenienti che senza dubbio risulterebbero se non ci fosse un sovrano.

«Era dunque impossibile che gli nomini di tanto in tanto non facessero qualche sforzo per mettersi al coperto dagli eccessi di questo enorme potere; ma su questo punto il mondo si è diviso tra due concezioni del tutto diverse.

«L’audace razza di Jafet, se mi è lecito esprimermi in questo modo, non ha cessato di gravitare verso quella che si chiama libertà, cioè verso quella condizione in cui il governatore governi il meno possibile, e il popolo sia altrettanto poco governato. L’Europeo, sempre prevenuto nei confronti dei suoi signori, ora li ha sbalzati dal trono, ora ha imposto loro delle leggi; ha tentato tutte le strade ed ha esaurite tutte le forme immaginabili di governo per emanciparsi da qualunque padrone, o per limitarne il potere.

«L’ immensa posterità di Sem e di Cam ha preso invece una strada ben diversa; e dai primi tempi fino ai giorni nostri ha sempre detto ad un uomo solo: “Fa’ di noi tutto ciò che vuoi; e quando saremo stanchi di sopportarti ti

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uccideremo”. A parte ciò non ha mai potuto né voluto sapere cosa sia una repubblica; non ha mai capito nulla di equilibrio di poteri, di tutti quei privilegi e di tutte quelle leggi fondamentali di cui noi ci vantiamo tanto. Da loro l’uomo più ricco è quello che più è padrone delle proprie azioni; il possessore di un’immensa fortuna mobile, assolutamente libero di portarsela appresso dove più gli piaccia (e che sarebbe sicuro di una protezione assoluta sul suolo europeo), vedendosi venire incontro la corda o il pugnale li preferisce tuttavia alla disgrazia di morire di tedio fra noi.

«Nessuno naturalmente consiglierà all’Europa di adottare questo diritto pubblico così conciso e così chiaro dell’Asia e dell’Africa; ma poiché il potere tra noi è sempre temuto, discusso, attaccato o trasferito, poiché per il nostro orgoglio non vi è cosa più insopportabile del governo dispotico, il maggior problema europeo si riduce dunque a stabilire: come si possa limitare il potere sovrano senza distruggerlo». (Del Papa lib. 2. cap. 2).

Questo spirito di libertà politica, questo desiderio di limitare il potere per mezzo delle istituzioni, non è dunque cominciato all’epoca dei filosofi francesi, perché prima di loro già circolava nelle vene dei popoli europei, ed anche molto tempo prima che sorgesse il Protestantesimo: la storia ci ha conservato testimonianze indiscutibili di questa verità.

Quali furono le istituzioni che furono ritenute adatte a questo fine? Certe assemblee, nelle quali potesse farsi sentire la voce dell’opinione e degli interessi della nazione; assemblee formate in un modo o nell’altro, e in certe circostanze convocate intorno al trono per presentare i loro reclami e le loro richieste. Siccome era impossibile che queste assemblee potessero esercitare il governo, perché sarebbe stato lo stesso che distruggere la monarchia, erano adatte a far sì che in un modo o nell’altro influissero sugl’interessi dello Stato. E non mi sembra che fino ad ora sia stato teorizzato un mezzo migliore del diritto d’intervenire nella formulazione delle leggi, a garanzia dell’altro diritto che può definirsi lo strumento della rappresentanza nazionale, cioè la deliberazione delle imposte. Si è scritto molto sulle costituzioni e sui governi rappresentativi, ma l’essenziale sta qui; le varianti possono essere molte e molto diverse, ma alla fine tutto va a terminare su un trono, centro di potere e di azione, circondato da assemblee, le quali deliberano sulle leggi e sulle imposte.

Considerata sotto questo aspetto, la libertà politica deve forse la sua origine alle idee protestanti? Ha forse motivo di esser loro grata? Ha qualcosa da rinfacciare al Cattolicesimo?

Consulto i libri degli autori cattolici anteriori al Protestantesimo per vedere che cosa essi pensavano su questa materia; e vi trovo che il problema da risolvere era considerato come meritava. Osservo se riesco a trovare qualcosa che fosse contrario all’avanzare del progresso, che si opponesse alla dignità dell’uomo o ne diminuisse i diritti, oppure che avesse relazione col dispotismo e con la tirannia; e li trovo invece pieni di premura per il miglioramento e il

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progresso del popolo, infiammati da sentimenti nobili e generosi e zelantissimi per il bene del popolo; e mi par di vederli adirarsi al solo udire il nome di tirannia e di dispotismo. Apro gli annali della storia, esamino le idee e i costumi dei popoli, le istituzioni dominanti; e vedo dappertutto statuti, privilegi, libertà, Cortes, stati generali, municipalità, giurati. Vedo tutto ciò con una certa confusione, ma lo vedo; e non mi meraviglio che manchi di regolarità, perché è una specie di mondo nuovo che è appena uscito dal caos. Domando se il sovrano ha il potere di fare le leggi da solo; e in questo, come è naturale, trovo difformità, confusione, incertezza. Osservo però che le assemblee, che rappresentano le varie classi della nazione, prendono parte nella formulazione delle leggi. Domando se le assemblee intervengono nei grandi affari di stato, e trovo scritto nei codici che devono essere consultate negli affari di maggior gravità ed importanza, e vedo i sovrani agire frequentemente in questo modo. Domando se le assemblee hanno qualche garanzia della loro esistenza e del loro influsso, ed i codici mi mostrano testi chiari e precisi, e mille fatti servono a rammentarmi che tali istituzioni sono consolidate nelle abitudini e nei costumi dei popoli.

E qual era a quel tempo la religione dominante? Il Cattolicesimo. Erano i popoli molto attaccati alla religione? Lo erano talmente che lo spirito religioso dominava tutto. Aveva il clero molta influenza? Grandissima. Qual era il potere dei Papi? Immenso. Dove sono i maneggi del clero per accrescere le facoltà dei re a spese dei popoli? Dove i decreti pontifici contro queste o quelle forme di governo? Dove sono le decisioni e i piani dei Papi per limitare qualche diritto legittimo? Se le cose stanno così, come lo sono infatti, io dico dunque, non senza essere indignato: se sotto l’influenza del Cattolicesimo l’Europa usciva dal caos; se la civiltà procedeva a passi rapidi e sicuri e il gran problema delle forme politiche occupava già i pensieri dei dotti; se le questioni sui costumi e sulle leggi cominciavano a risolversi in senso favorevole alla libertà; se quando l’influenza del clero era assai grande anche riguardo alle faccende temporali, e il potere in tutti i sensi dei Papi era colossale, avveniva tutto questo; se quando sarebbe bastato una sola parola del Pontefice contro una forma democratica per ferirla a morte, le forme libere si sviluppavano rapidamente; se consideriamo tutte queste cose, dove è mai la tendenza della religione cattolica a rendere schiavi i popoli? Dove l’empia alleanza dei re e dei Papi per vessare ed opprimere, e per mettere sul trono il feroce dispotismo sotto la cui protezione sguazzare tra le miserie e le lagrime dell’umanità? Quando i Papi avevano qualche contrasto con alcuni regni, era nei confronti dei prìncipi, oppure dei popoli? Quando vi era da prendere una risoluzione contro la tirannia o contro l’oppressione di qualche classe, chi c’era che alzasse la voce in modo più alto e più forte del Pontefice romano? E non sono i Papi, come ammette lo stesso Voltaire, che «hanno tenuto a freno i sovrani, protetto i popoli, posto fine alle contese tra prìncipi con un saggio intervento, ammoniti i re e i popoli sui loro doveri, e lanciate scomuniche

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contro i grandi attentati che non avevano potuto prevenire»? (Citato dal Sig. De Maistre: Del Papa, lib. 2. cap. 3).

E non è da mettere in gran rilievo la bolla In coena Domini, quella bolla che provocò tanto scompiglio, per il contenuto dell’art. 5 che prevede la scomunica per «coloro che mettessero sulle loro terre nuove imposizioni o aumentassero le antiche, fuori dei casi previsti dal diritto»?

Lo spirito di deliberazione, tanto comune anche in quei tempi in cui costituiva un singolare contrasto con la tendenza all’uso dei mezzi violenti, proveniva in gran parte dall’esempio che per tanti secoli aveva fornito la Chiesa cattolica. Infatti è impossibile trovare una società in cui siano state più frequenti le assemblee nelle quali si riunivano gli uomini più illustri per dottrina e virtù. Concili ecumenici, nazionali, provinciali, sinodi diocesani: ecco ciò che si trova ad ogni passo nella storia della Chiesa: e chiunque può immaginare che un tale esempio posto sotto gli occhi di tutti i popoli per lo spazio di tanti secoli non poteva rimanere senza influenza e senza conseguenze riguardo ai costumi e alle leggi. In Spagna la maggior parte dei Concili di Toledo erano nel tempo stesso congressi nazionali, dove mentre l’autorità episcopale svolgeva le sue funzioni di vigilanza sull’osservanza dei dogmi e provvedeva alle necessità della disciplina, di concerto con l’autorità civile venivano trattati anche i grandi affari dello Stato e si formulavano quelle leggi che riscuotono tuttora l’ammirazione degli studiosi moderni.

Ora che presso i migliori studiosi di diritto pubblico le utopie di Rousseau sono cadute in totale discredito, e che non si tratta più di parlare a favore dei governi rappresentativi come mezzi per porre in atto la volontà generale, ma come strumento adatto a consultare la ragione e il buon senso, che altrimenti rimarrebbero dispersi per la nazione; ora che nei libri di diritto costituzionale ci dipingono l’assemblea legislativa come centro dove possono convergere tutti i lumi atti a chiarire le questioni sugli affari pubblici, come rappresentante di tutti gl’interessi legittimi, come organo di tutte le opinioni ragionevoli, eco di tutti le giuste rimostranze, veicolo di tutti i reclami, canale di perenne comunicazione tra governanti e governati, garanzia di prudenza nelle leggi, mezzo per farle rispettare e venerare dai popoli, e infine come una sicurezza costante che il governo senza badar mai a se stesso ha sempre gli occhi fissi sull’utilità e la convenienza pubblica; ora che con tante belle parole ci dicono ciò che tali assemblee dovrebbero essere, ma non quello che sono; ora, dunque, torna sommamente utile ricordare i Concili; perché tenendo presente i Concili si vede ad occhio nudo, e si può comprendere la natura e lo spirito di tali assemblee moderne, e da dove esse abbiano attinto i motivi e il fine.

Conosco bene le grandi differenze che corrono tra le une e le altre assemblee, non potendosi in alcun modo paragonare coloro che ricevono i loro poteri da una nomina popolare con quelli che lo Spirito Santo ha posto al governo della Chiesa di Dio; come non può esservi paragone tra il sovrano

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che ha i suoi diritti sulla corona in forza delle leggi fondamentali della nazione, e quella Pietra sulla quale è stata edificata la Chiesa di Gesù Cristo. E non ignoro neanche che, o ci si riferisca alle materie che vengono trattate nei Concili, o alle persone che vi partecipano, o all’estensione della Chiesa cattolica a tutta la superficie della terra, è impossibile che non ci sia molta differenza tra i Concili e le assemblee politiche: sia riguardo ai tempi delle loro adunanze, sia per il loro ordinamento e per il loro modo di procedere. Ma io non intendo qui elaborare un parallelo ingegnoso, o cercare a forza di sottigliezze delle somiglianze che non esistono; il mio unico scopo è quello di mostrare l’influenza che le leggi e i costumi politici dovettero ricevere dalle lezioni di equilibrio e di prudenza che la Chiesa ha impartito per tanti secoli.

E allora sia che consideriamo la storia delle antiche nazioni, che di quelle moderne, vedremo che in tutte le assemblee deliberanti vi partecipano soltanto coloro che ne hanno diritto per disposizione delle leggi. Ma farvi partecipare il dotto per il solo fatto che è dotto: questo tributo pagato al merito, questa proclamazione solenne che assegna al sapere il compito di governare il mondo, questo l’ha fatto la Chiesa, e soltanto la Chiesa.

Siccome nel fare questa osservazione non ho altro fine che quello di dimostrare che lo Stato civile fu debitore in gran parte alla Chiesa di quanto ha stabilito di ragionevole sotto questo aspetto, rammenterò un fatto a cui forse non si è posta l’attenzione che merita, e che tuttavia manifesta molto chiaramente che è stata la Chiesa cattolica prima di chiunque altro a cercare la sapienza ovunque si trovi, e a darle un posto eminente nei pubblici affari. Non parlerò ora dello spirito per il quale si è distinta costantemente dalle altre società e che l’ha indotta a cercare sempre il merito, e soltanto il merito, per innalzarlo ai primi posti; spirito che nessuno le può negare, e che molto ha contribuito a darle preminenza e splendore. Ma quello che bisogna notare è che questo spirito ha esercitata la sua influenza anche dove apparentemente sembrava che non dovesse esercitarla. Infatti tutti sanno che secondo le dottrine della Chiesa un semplice privato non ha alcun diritto d’intervenire nelle decisioni e deliberazioni dei Concili; e di conseguenza, per quanto sia grande la scienza di un teologo o di un giureconsulto, non per questo ha alcun diritto di prendere parte in quelle auguste assemblee. Con tutto ciò tutti sanno anche che la Chiesa ha sempre fatto in modo che con un titolo o un altro vi assistessero le persone più ragguardevoli per talento e dottrina. Chi non ha letto con grande compiacimento l’elenco dei dotti che, senza esser Vescovi, parteciparono al Concilio di Trento?

Nelle società moderne, non è forse il talento, e il sapere, e il genio, a tenere più alta la fronte, ad esigere maggiore stima e rispetto, a pretendere di elevarsi ai più alti posti, regolare i pubblici affari o esercitare su di essi una grande influenza? Sappiano dunque questo talento, questa scienza, questo genio, che in nessuna parte i loro titoli sono stati tanto rispettati quanto nella Chiesa; che in nessuna parte, quanto nella Chiesa, è stata maggiormente riconosciuta la

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loro dignità; che in nessuna società si è cercato tanto d’innalzarli, di consultarli negli affari più seri, di farli emergere nelle grandi assemblee, come è stato fatto nella Chiesa cattolica.

La nascita e le ricchezze nella Chiesa non hanno alcun significato: non offuscare il tuo merito con una condotta sregolata, e nel tempo stesso fatti distinguere per i tuoi talenti e per il tuo sapere: questo basta: sei un uomo grande, sarai considerato con grande stima, sarai sempre trattato con rispetto e sarai ascoltato con deferenza; e giacché la tua testa, anche se emersa dall’oscurità, ci si presenta adorna di una brillante aureola, non disdegneranno di posarvici sopra né la mitra episcopale, né il cappello cardinalizio, né la tiara pontificia. Lo ripeto a chiare parole: l’aristocrazia del sapere è fortemente debitrice della sua importanza alle idee ed ai costumi della Chiesa cattolica (10). Torna all’indice

CAPITOLO LXII

Rafforzamento della monarchia in Europa. Suo predominio sulle istituzioni libere. Perché la parola libertà per molti è parola di scandalo. Il Protestantesimo contribuì a distruggere le istituzioni popolari.

_______________ Dando un’occhiata alla situazione europea nel quindicesimo secolo si fa

presto a vedere che un simile stato di cose non poteva durare a lungo, e che dei tre elementi che si contendevano la preferenza doveva necessariamente prevalere quello monarchico. E non poteva essere altrimenti: poiché si è sempre visto che le società, dopo molti tumulti e agitazioni, vanno infine a mettersi al riparo di quel potere che offre loro maggior sicurezza e maggiore speranza di benessere.

Nel vedere quei Grandi tanto orgogliosi, esigenti e turbolenti, nemici gli uni degli altri e rivali del re e del popolo; quei Comuni, la cui realtà si presentava sotto forme tanto diverse, di cui i diritti, i privilegi, le franchigie e le libertà avevano un aspetto così vario e complesso, di cui le idee non avevano una direzione costante e ben distinta; si capisce subito che né gli uni né gli altri erano in grado di lottare contro il potere reale, il quale già agiva con un progetto chiaro, con un sistema fisso, spiando tutte le occasioni che potevano essergli propizie. Chi non ammette la sagacia di Ferdinando il Cattolico nel concepire e sviluppare la sua idea dominante, quella cioè di concentrare il potere, di rinvigorirlo, di renderne l’azione forte, regolare ed universale, vale a dire l’idea di fondare una monarchia? Chi non riconosce nell’immortale Cisneros un degno e ancor più grande continuatore di tale politica?

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E non si creda che questa politica causasse danno alle nazioni: tutti gli studiosi convengono che era necessario dare nerbo e stabilità al potere evitando di agire in modo debole o discontinuo; e il vero potere non aveva allora altro rappresentante fisso che il trono. E quindi fu per una vera necessità che il potere reale si fortificò e ingrandì, e tutti i progetti e gli sforzi degli uomini non furono capaci d’impedirlo. Rimane tuttavia da stabilire se questo ingrandimento del potere reale oltrepassò i limiti dovuti; ed è qui che, appunto, bisogna mettere a confronto il Protestantesimo e il Cattolicesimo, affinché si constati, qualora uno di essi ne fu responsabile, quale fu dei due, e fino a che punto.

Tale questione è molto importante, ed anche curiosa; ma nello stesso tempo difficile e delicata. Perché in questi ultimi tempi il significato delle parole è stato talmente alterato, ed inoltre tale è l’ostilità reciproca tra i partiti e la veemenza con cui si rifiuta tutto ciò che seppur minimamente possa assomigliare ad una lode nei confronti degli avversari, che è una difficilissima impresa cercare di far loro intendere i termini della questione e il significato delle parole. Quello di cui prego coloro che mi leggono, qualunque sia la loro opinione, è di sospendere il giudizio finché non avranno letto completamente tutto quello che sto per esporre su questo tema; perché allora, se non andranno in collera per qualche espressione che a prima vista possa dar loro fastidio, se sapranno trattenersi abbastanza da aver avuto il tempo di capire prima di esprimere il loro giudizio, sono sicuro che, se non saremo del tutto d’accordo (la qual cosa è impossibile in tanta diversità di opinioni), dovranno almeno ammettere che l’aspetto sotto il quale considero le cose non manca di apparire ragionevole, e che le mie deduzioni non sono prive di fondamento.

Innanzi tutto eviterò di indagare se per la società fu un vantaggio o un danno che nella maggior parte delle monarchie europee il potere restasse in mano al re senza alcuna restrizione, se non quella che gl’imponevano in modo naturale le idee e i costumi dell’epoca. Alcuni saranno del parere che fu un vantaggio, ed altri un danno; e non c’è bisogno che io indichi con i loro nomi chi sono quelli del primo partito e quelli del secondo. La parola libertà per molte persone è una parola di scandalo; come l’espressione potere assoluto è per altri sinonimo di dispotismo. E qual è la libertà che i primi rigettano con tanta forza? Cosa significa nel loro dizionario questa parola? Questi sono coloro che hanno visto sfilare sotto i propri occhi la rivoluzione francese, carica d’ingiustizie e di orrendi delitti, ed hanno sentito che sulla bocca aveva sempre la parola libertà. E poi hanno visto la rivoluzione spagnola col suo inneggiare alla morte, coi suoi sanguinosi eccessi, con le sue ingiustizie, col disprezzo di quanto di più venerabile e di più sacro gli Spagnoli avevano sempre considerato; e con tutto ciò hanno inteso che anche questa rivoluzione gridava libertà. E cosa poteva succedere? Ciò che appunto è successo! Che hanno collegato l’idea di libertà a quella di empietà e delitti di ogni genere, e di conseguenza sono arrivati a odiarla, a respingerla e combatterla con le armi.

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Invano si è detto che anche anticamente c’erano le Cortes: hanno risposto che quelle di allora non erano come queste di oggi. Invano è stato ricordato che le nostre leggi già contemplavano il diritto che la nazione potesse intervenire nella determinazione delle imposte: essi hanno risposto che lo sapevano, ma che quelli che lo fanno adesso non rappresentano la nazione, e che usano questo potere per tenere in schiavitù sia il popolo che il sovrano. Invano si è ribattuto che nei grandi affari dello Stato anticamente intervenivano i rappresentanti delle varie classi. Essi hanno risposto: qual è la classe dello Stato che voi rappresentate, voi che degradate il sovrano, insultate e perseguitate la nobiltà, oltraggiate e spogliate il clero e disprezzate il popolo, facendovi beffe dei suoi costumi e delle sue credenze? Chi rappresentate dunque? Come potete rappresentare la nazione spagnola, quando ne calpestate la religione e le leggi, provocate dappertutto il disfacimento della società e fate correre fiumi di sangue? Come potete chiamarvi restauratori delle nostre leggi fondamentali quando né in voi né nei vostri atti troviamo alcuna cosa che faccia riconoscere il vero Spagnolo; quando tutte le vostre teorie, i vostri progetti, i vostri disegni sono copie meschine di libri stranieri fin troppo conosciuti; quando insomma avete dimenticato perfino la nostra lingua?

Prego i miei lettori di prendersi il disturbo di dare un’occhiata alle raccolte dei giornali, alle sessioni delle Cortes e agli altri documenti che ci sono rimasti delle due epoche del 1812 e del 1820; che richiamino alla mente le cose che sono accadute sotto i nostri occhi in queste due epoche, che scorrano poi le testimonianze delle epoche anteriori, i nostri codici, i libri, e tutto ciò che ci può descrivere il carattere, le idee ed i costumi del popolo spagnolo. E allora, mettendosi la mano sul cuore, ci dicano da uomini d’onore qualunque sia la loro opinione politica, se trovano alcuna somiglianza tra l’antico e il moderno; ci dicano se già alla prima occhiata non scorgano la più forte differenza e contrapposizione, se non si accorgano dell’abisso che divide le due epoche, abisso che se lo si volesse colmare si dovrebbe farlo – ah, mi è penoso dirlo! – si dovrebbe farlo, come si è fatto, con mucchi di rovine, di ceneri, di cadaveri e con fiumi di sangue.

Ma ponendo la questione al di fuori della sfera avvelenata delle passioni e dei ricordi sgradevoli, si potrebbe esaminare se fosse o no conveniente che l’autorità del re crescesse al punto tale da restare libero da ogni genere di vincoli, anche riguardo alle cose di maggiore importanza e all’imposizione dei tributi. In questo modo la questione diventerebbe semplicemente storico-politica, e non avrebbe nulla a che fare con la situazione attuale, evitando così che tocchi interessi ed opinioni dei nostri tempi.

Pertanto voglio prescindere da tutto ciò che è stato detto fin qui, e partirò dall’ipotesi che a quel tempo il fatto che dal sistema politico fossero spariti tutti gli elementi, eccetto quello monarchico, fu un danno per i popoli ed un ostacolo al progresso della vera civiltà. E di chi fu la colpa?

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Prima di tutto conviene osservare che il culmine della potenza delle monarchie in Europa coincise proprio con l’avvento del Protestantesimo. In Inghilterra, iniziando da Enrico VIII, prevalse non la monarchia, ma un dispotismo così duro che invano alcune parvenze di impotenti forme politiche tentavano di mascherarne gli eccessi. In Francia dopo la guerra degli Ugonotti il potere monarchico si mostrò più forte che mai. In Svezia salì al trono Gustavo, e da quel momento i re esercitarono un potere quasi illimitato. In Danimarca la monarchia diventò sempre più forte. In Germania si costituì il regno di Prussia, e nelle altre regioni prevalsero generalmente le forme assolute. In Austria sorse l’impero di Carlo V con tutta la sua potenza e il suo splendore. In Italia le piccole repubbliche sparirono gradatamente e i popoli passarono sotto il dominio di prìncipi con un titolo o con l’altro. In Spagna le antiche Cortes di Castiglia, d’Aragona, di Valenza e di Catalogna non furono più riunite. Tutto questo ci dice che all’apparire del Protestantesimo, lungi dal vedere i popoli fare un passo verso le forme rappresentative, avvenne il contrario, cioè che s’incamminarono speditamente verso il governo assoluto. Questo fatto è certo ed incontestabile: forse non si è badato abbastanza ad una coincidenza così singolare; ma non per questo essa manca di esser vera e di suggerire molte e sottili riflessioni.

Questa coincidenza fu davvero casuale? O vi fu tra il Protestantesimo e il pieno sviluppo e consolidamento delle forme assolute qualche relazione nascosta? Io credo che fu così; e aggiungerò che se in Europa il dominio esclusivo fosse rimasto al Cattolicesimo, il potere delle monarchie sarebbe stato alquanto limitato e probabilmente non sarebbero del tutto scomparse le forme rappresentative; il popolo avrebbe continuato a prendere parte ai pubblici affari, e noi ci troveremmo molto più avanti sulla strada della civiltà, più avvezzi all’uso della vera libertà, e questa non farebbe ricordare le orribili scene delle rivoluzioni accennate prima. Sì, la malaugurata riforma modificò il corso delle nazioni europee facendole deviare dalla strada della civiltà, creò delle necessità che prima non esistevano, formò dei vuoti che non poté colmare, distrusse molti elementi benèfici. Insomma cambiò da cima a fondo le condizioni della questione politica. E credo di poterlo dimostrare. Torna all’indice

CAPITOLO LXIII

Due democrazie. Loro andamento parallelo nella storia d’Europa. Loro caratteristiche. Loro cause ed effetti. Perché l’assolutismo divenne necessario in Europa. Fatti storici. Francia, Inghilterra, Svezia, Danimarca, Germania.

_______________ Un particolare di notevole importanza caratterizza tutta la storia europea,

ed è presente anche ai nostri giorni. Si tratta dell’andamento parallelo di due

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democrazie le quali, sebbene talvolta simili in apparenza, sono in realtà molto diverse per la loro natura, origine e fine. Una delle due è fondata sulla conoscenza della dignità dell’uomo, e del diritto che egli ha di godere di una certa libertà conforme alla ragione e alla giustizia. Le sue idee, se possono essere non troppo chiare sulla vera origine della società e del potere, sono però molto chiare, precise e salde sul vero oggetto e fine di entrambi. Infatti, che ritenga il diritto di comandare proveniente direttamente e immediatamente da Dio, oppure lo supponga comunicato inizialmente alla società e quindi trasmesso da questa ai governanti, è sempre dell’avviso che il potere è dato per il bene comune, e che se non rivolge i suoi atti a questo bene cade nella tirannia.

I privilegi, gli onori, le distinzioni di qualunque genere, tutto essa esamina e sperimenta con la sua pietra di paragone preferita, che è il bene comune: tutto ciò che è contrario a questo bene è condannato come dannoso; se non gli serve viene rifiutato come inutile. Fortemente convinta che le uniche cose che abbiano un valore effettivo, e che siano da tener presente nella designazione degli incarichi sociali, siano la dottrina e la virtù, incita sempre a cercarle e ad elevarle al massimo grado del potere e della gloria, anche se si debbano tirar fuori dalla più profonda oscurità. Un nobile che tronfio dei suoi titoli e del suo blasone vanta le imprese degli antenati senza saperle imitare, per questo tipo di democrazia è un elemento ridicolo. A quest’uomo essa consentirà di godere delle proprie ricchezze per non ledere il sacro diritto di proprietà, non mancherà però di usare tutti i mezzi legittimi per levargli l’influenza che gli provenga esclusivamente dalla nobiltà del sangue. Se tiene conto della nascita o delle ricchezze, non lo fa per quello che sono in sé, ma come segni di educazione più compita, o di maggiore onestà e sapere.

Questa democrazia, pervasa di idee generose e con un alto concetto della dignità dell’ uomo di cui rammenta i diritti senza dimenticarne i doveri, si sdegna al solo sentire il nome di tirannia: la odia, la condanna, la rigetta, e pensa continuamente al modo più opportuno per prevenirla. Prudente e tranquilla come compagna inseparabile della ragione e del buonsenso, va d’accordo con la monarchia; ma sappiamo benissimo che ha sempre desiderato che in un modo o nell’altro le leggi del paese mettessero un freno al potere eccessivo dei re. Sa che lo scoglio contro cui questi correvano il rischio d’infrangersi era quello di caricare il popolo d’imposte eccessive, e per questo la sua idea preferita che non ha mai abbandonato, neanche quando non poteva metterla in pratica, è sempre stata quella di restringere il potere eccessivo in materia di contribuzioni. Un’altra sua idea fissa è sempre stata quella che la volontà dell’uomo non dovesse mai prevalere nel formulare le leggi o nell’applicarle, e quindi ha sempre voluto qualche garanzia perché la volontà non usurpasse il posto della ragione.

Quest’aspirazione è stata così forte che si è trasmessa ai costumi europei in modo permanente; ed i sovrani più assoluti non hanno potuto esimersi dal

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tenerla presente. E infatti si può osservare che nelle monarchie venivano costituiti i Consigli della corona, la cui esistenza era assicurata dalle leggi o dai costumi della nazione. Consigli che indubbiamente non sempre conservavano una totale indipendenza tale da poter ottenere pienamente i loro intenti, ma non mancavano comunque di fare un gran bene, perché in questi casi la loro esistenza era già un’eloquente protesta contro le disposizioni ingiuste ed arbitrarie. Essi costituivano dunque un’esemplare personificazione della ragione e della giustizia, e come tale avevano il compito di indicare i sacri confini che non dovevano essere mai superati dal più potente sovrano. Ed è per questo che i sovrani in Europa non esercitano personalmente la facoltà di giudicare, distinguendosi in questo dai sultani. Le leggi e i costumi europei rigettano con forza una tale facoltà tanto funesta al popolo e al sovrano; ed il solo accenno ad una simile eventualità provocherebbe la pubblica indignazione contro chi la proponesse.

Tutto questo significa che il principio che oggi viene tanto esaltato, quello che non è il sovrano che comanda, bensì la legge, in Europa era già esistente molti secoli fa; molto prima che i moderni studiosi di diritto pubblico l’avessero scoperto, proclamandolo con tanta enfasi, questo principio era già in vigore presso tutte le nazioni europee. Si potrà dire che lo era in teoria ma non in pratica: non negherò che vi fossero eccezioni riprovevoli; ma in generale il principio era rispettato. Prendiamo come esempio il regno più assoluto dei tempi moderni, l’autorità reale in tutta la sua massima estensione e in tutto il suo splendore, il regno di chi poté dire con orgoglio smisurato, e con una certa ragione: «Lo Stato sono io», il regno cioè di Luigi XIV. Nel mezzo secolo e più che durò, e con tanta varietà e concatenazione di avvenimenti, quante condanne capitali, confische, esilî furono eseguiti per ordine del re senza che venisse istruita una causa? Si potranno forse citare alcuni atti arbitrari; ma se si fa un paragone con ciò che accade nei paesi fuori d’Europa in simili circostanze, e si richiami alla memoria quanto accadeva ai tempi dell’impero romano, e tutti gli eccessi dei regni assoluti ovunque il Cristianesimo non abbia preso piede, allora si vedrà che gli eccessi commessi nelle monarchie europee meritano appena che se ne faccia cenno.

Questo prova che non è arbitraria né fittizia la distinzione che si è fatta tra i governi monarchici e dispotici; e per chiunque conosca la legislazione e la storia d’Europa, questa distinzione è tanto evidente che non si potrà fare a meno di sorridere sentendo quelle veementi filippiche nelle quali o per malizia o per ignoranza si confondono i due sistemi di governo.

Tale limitazione del potere, tali confini costituiti dalla ragione e dalla giustizia entro i quali è stato posto il trono, sia che abbiano la loro garanzia nelle idee e nei costumi, sia che l’abbiano nelle forme politiche, traggono la loro origine soprattutto dai princìpi che ha diffuso il Cristianesimo. È stato il Cristianesimo a dire: «La ragione e la giustizia, la conoscenza e la virtù sono tutto; la pura volontà dell’uomo, la nascita illustre, i titoli, soltanto per sé non

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sono nulla». Questi princìpi sono penetrati nel palazzo del re come nella capanna del povero; e quando un popolo intero si è imbevuto di simili idee il dispotismo asiatico non è più possibile. Perché anche qualora non vi fossero state forme politiche che avessero limitato il potere del monarca, questi ha sempre e ovunque sentita risuonare una voce che gli diceva: «Non siamo tuoi schiavi, siamo tuoi sudditi; tu sei re, ma sei uomo come noi, e come noi dovrai presentarti un giorno davanti al Giudice supremo. Tu puoi fare delle leggi, ma solo per il nostro bene; puoi chiederci i tributi, ma unicamente quelli che sono necessari per il pubblico bene. Non puoi giudicarci a capriccio, ma come prescrivono le leggi; non puoi sottrarci le nostre proprietà senza diventare più colpevole di un comune ladro; non puoi toglierci la vita soltanto perché questo è il tuo volere senza comportarti da assassino. Il potere che hai ricevuto non è finalizzato alle tue comodità e piaceri, non è per soddisfare le tue passioni, ma unicamente per il nostro bene; tu sei una persona consacrata esclusivamente al bene pubblico; se lo dimentichi, sei un tiranno».

Ma per disgrazia, accanto a questo spirito di legittima indipendenza, di ragionevole libertà, accanto a questa democrazia tanto giusta, nobile e generosa, ce n’è sempre stata un’altra che ha formato con essa il più vivo contrasto e le ha provocato il peggior pregiudizio, impedendole di ottenere ciò che reclamava tanto giustamente. Erronea nei suoi princìpi, perversa nelle sue intenzioni, violenta ed ingiusta negli atti, questa seconda democrazia ha lasciato sempre dietro di sé orme di sangue; ben lungi dal procurare ai popoli la vera libertà non è servita che a togliere loro quella che avevano; o se realmente li ha trovati gementi nella schiavitù, non ha fatto altro che rinsaldare le loro catene. Facendo sempre lega con le più vili passioni si è mostrata come emblema di quanto la società aveva in seno di più basso ed abietto: ha riunito intorno a sé tutti gli uomini turbolenti e malvagi, affascinando con parole ingannevoli una turba di miserabili, allettando i suoi seguaci con la succulenta esca delle spoglie dei vinti. Essa è stata un continuo riprodursi di disordini, di scandali e di odî accaniti, i quali produssero infine il loro frutto naturale, cioè le persecuzioni, le proscrizioni e i patiboli. Essa ha avuto sempre per dogma fondamentale il rifiuto dell’autorità di qualsiasi genere, e per scopo costante la sua distruzione. E la ricompensa che sperava di tutti i suoi sforzi era quella di sedersi sui mucchi di macerie e di rovine da lei provocati e di saziarsi col sangue di migliaia di vittime; e nell’atto di spartire le spoglie insanguinate, abbandonarsi all’insensata allegria di abiette gozzoviglie.

Ogni epoca ed ogni paese hanno visto disordini, sommosse popolari, rivoluzioni; ma l’Europa da sette secoli a questa parte ci presenta queste scene con un carattere tanto singolare che merita l’attenzione di tutti i filosofi. In Europa non soltanto c’è stata questa tendenza alla sovversione sociale, tendenza di cui non è difficile scoprire l’origine nel cuore stesso dell’uomo, ma si è visto elevarla a teoria, difenderla nel campo delle idee con tutta

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l’ostinazione e la caparbietà dello spirito di setta; e ogni volta si sia presentata l’opportunità, è stata portata ad effetto con audacia, con tenacia e accanimento. Stravaganze e deliri formavano il complesso del sistema; ostinazione, spirito di proselitismo, mostruosità e delitti: ecco gli elementi con cui è stata impiantata. In tutte le pagine della storia una tal verità viene attestata a caratteri di sangue; felici noi che non abbiamo dovuto farne l’esperienza.

L’Europa assomiglia a quelle persone di grande capacità e di carattere attivo e risoluto che nel bene sono le migliori, e le peggiori nel male. In Europa, se un fatto è di qualche gravità, a mala pena lo si riesce ad isolare; non c’è una verità che non sia utile, né un errore che non sia dannoso. Il pensiero tende sempre a sorpassare la realtà, mentre i fatti cercano l’appoggio nel pensiero; se vi sono virtù, ecco che con teorie sublimi ne viene ricercato il fondamento e attribuita la ragione; se vi sono delitti si cerca di giustificarli, e per riuscirvi si ricorre a sistemi perversi. La gente che fa il bene o il male non si accontenta di farlo privatamente: tenta di propagarlo e non sa darsi pace se non viene imitato dai suoi vicini. È qualcosa di più di un proselitismo ristretto, limitato a certi determinati paesi: si direbbe che da noi tutte le idee nascono con la pretesa di tendere all’impero universale. Lo spirito di propaganda non è nato dalla rivoluzione francese, e neanche nel sedicesimo secolo; fin dai primi albori della civiltà, fin da quando l’intelletto cominciò a dare segni di qualche attività, questo fenomeno si presentò in modo notevolissimo. Nell’Europa turbolenta dei secoli undicesimo e tredicesimo possiamo intravedere l’Europa del diciannovesimo secolo, allo stesso modo che nei confusi lineamenti dell’embrione s’individuano le forme del futuro vivente.

La maggior parte delle sétte che preoccuparono la Chiesa fin dal decimo secolo era fortemente rivoluzionaria: queste sétte o nascevano direttamente dalla funesta democrazia di cui ho fatto la descrizione, o in essa cercavano il loro appoggio. Disgraziatamente questa stessa democrazia inquieta, ingiusta e turbolenta, che aveva compromesso la tranquillità dell’Europa nei secoli anteriori al sedicesimo, trovò nel Protestantesimo i più fervorosi protettori; tra le molte sétte nelle quali la pretesa riforma si suddivise sul nascere, alcune le aprirono le porte, ed altre la presero per bandiera. E quali dovevano risultarne gli effetti nell’ordinamento politico d’Europa? Lo dirò chiaramente: l’annullamento dell’influenza delle istituzioni politiche con cui le varie classi che le formavano prendevano parte agli affari dello Stato. E siccome, considerato il carattere, le idee ed i costumi dei popoli europei, era ben difficile che questi si sottomettessero per sempre alla loro nuova condizione, e che seguendo l’inclinazione naturale non cercassero di porre un argine all’estensione del potere, era ben naturale che con l’andar del tempo sopravvenissero rivoluzioni, ed era altrettanto naturale che le generazioni future venissero a trovarsi in mezzo a grandi catastrofi, quali la rivoluzione inglese del diciassettesimo secolo e quella francese del diciottesimo.

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Una volta queste verità potevano essere difficili da comprendere, ma adesso non più. Perché le rivoluzioni in cui da molto tempo i popoli europei sono di volta in volta coinvolti, hanno fatto capire anche ai meno perspicaci il meccanismo di quella legge che si ripete continuamente: l’anarchia conduce al dispotismo, e il dispotismo genera l’anarchia. In nessun’epoca e in nessun paese (e qui sia la storia che l’esperienza mi fanno da testimone) si sono diffuse le idee antisociali e lo spirito d’insubordinazione e di rivolta, senza che apparisse come unico rimedio per venir fuori da questi conflitti l’istituzione di un governo molto forte il quale, con giustizia o ingiustizia, legittimamente o meno, alzi un braccio di ferro su tutte le teste e faccia chinare tutte le fronti. Al rumore ed al tumulto succede il più profondo silenzio e il popolo si rassegna subito alla nuova condizione, perché sia col ragionamento, sia per istinto, sa che, per quanto la libertà sia molto apprezzabile, la prima necessità della società è quella della sua salvaguardia.

Che successe in Germania sotto il Protestantesimo, iniziando dall’epoca delle rivoluzioni religiose? Furono diffusi princìpi demolitori di ogni società, sorsero fazioni, si fecero insurrezioni; ma quando ancora sul campo di battaglia e sui patiboli scorreva il sangue a fiumi; subentrò d’improvviso l’istinto di conservazione della società; e allora non furono le forme popolari a gettare le loro radici, ma avvenne l’esatto contrario. E non fu forse in questo paese che il popolo era stato tanto lusingato con la prospettiva di una libertà senza limiti, con la distribuzione delle proprietà, e perfino con la comunità dei beni e con l’assoluta uguaglianza in tutte le cose? Ed ecco che proprio qui prevalse la più irritante disuguaglianza e l’aristocrazia feudale continuò a dominare con tutto il suo potere. Mentre in altri paesi dove non era stato fatto tutto questo sfoggio di libertà e di uguaglianza a mala pena si percepiva la differenza tra il popolo e la nobiltà, in Germania questa si manteneva tuttora ricca, prepotente e piena di diritti, di privilegi e di distinzioni di ogni genere. Sempre in Germania, dove si era tanto gridato contro il potere dei re, dove si era proclamato che re era sinonimo di tiranno, e che oppressione e legge erano la stessa cosa, proprio qui si vide sorgere la monarchia più assoluta, e l’apostata dell’ordine teutonico fondò il regno di Prussia, dove ancora oggi le forme rappresentative non sono riuscite a penetrare. In Danimarca si installò il Protestantesimo, e insieme ad esso anche il potere assoluto vi gettò profonde radici; ed anche in Svezia nello stesso periodo iniziò a dominare la dinastia dei Gustavo.

E in Inghilterra che avvenne? Le forme rappresentative non furono certo introdotte dal Protestantesimo, dal momento che esistevano già da più secoli come in altre nazioni d’Europa. Ma quando proprio il monarca fondatore della chiesa anglicana si distinse per il suo dispotismo atroce, il parlamento che doveva servirgli da freno si umiliò nel modo più vergognoso. Che dovremmo pensare della libertà di un paese, del quale i legislatori e i rappresentanti di governo si degradavano al punto di ordinare che chiunque avesse notizia degli

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amori illeciti della regina era obbligato a denunciarli sotto pena di condanna per alto tradimento? Che dovremmo pensare della libertà di un popolo, quando coloro che avrebbero dovuto esserne i difensori lusingavano vilmente le passioni del depravato monarca, quando per compiacere le gelosie del sovrano non si vergognavano di stabilire per legge che la fanciulla destinata a sposare un re d’Inghilterra fosse obbligata a rivelare (sotto pena, anche qui, di condanna per alto tradimento) se aveva subìto qualche offesa al proprio onore? Queste vergognose meschinità dimostrano senza dubbio la più abietta schiavitù, ancor più di quella stessa dichiarazione con la quale il parlamento inglese stabilì che la sola volontà del monarca aveva forza di legge.

Il mantenimento delle forme rappresentative in Inghilterra, quando negli altri paesi d’Europa erano già fallite, non ebbe dunque la forza di liberarla dalla tirannia; e gli Inglesi non ricorderanno certo con molto piacere la libertà di cui godettero sotto i regni di Enrico VIII e di Elisabetta. Non c’era forse paese in Europa in cui si godesse meno libertà, in cui sotto apparenti forme popolari di governo il popolo fosse più oppresso, in cui il dispotismo regnasse con più sfrenatezza. E qualora a convincerci di questa verità non bastassero i fatti già citati, ci riusciranno senz’altro gli sforzi che fecero gli Inglesi per conquistare la libertà; e se lo sforzo che si fa per scuotere un giogo è un segno sicuro della violenza e dell’oppressine cui si è sottoposti, abbiamo tutto il diritto di pensare che quella cui furono sottoposti gl’Inglesi dovette essere enorme, perché essi passarono attraverso una rivoluzione tanto estesa e terribile che tante lacrime fece loro versare, e tanto sangue.

Se consideriamo ciò che accadde in Francia vedremo che il potere della monarchia dopo le guerre di religione aumentò notevolmente. E quando dopo tante agitazioni, tumulti e guerre civili diamo un’occhiata al regno di Luigi XIV, e sentiamo dire dall’orgoglioso monarca :«Lo Stato sono io», ci troviamo di fronte alla più completa personificazione di quel potere assoluto che viene sempre dopo l’anarchia. Se i popoli europei hanno qualcosa di cui dolersi riguardo al potere senza limiti che esercitarono i monarchi, se hanno da lamentarsi che tutte le forme rappresentative, che avrebbero dovuto essere una garanzia delle loro libertà, sono andate in rovina, possono ringraziare il Protestantesimo, il quale, spargendo per tutta Europa i germi dell’anarchia, creò la necessità imperiosa, urgente e inevitabile di concentrare il comando, di rafforzare il potere reale e di chiudere tutte le vie dalle quali potessero venire alla luce princìpi dissolutori, e di separare ed isolare tutti gli elementi che per contatto o per vicinanza fossero capaci di prender fuoco e di produrre conflagrazioni devastanti.

Chiunque sia abituato a riflettere non può che essere d’accordo con me; e nel considerare il modo con cui in Europa il potere assoluto si è ingrandito non vedrà altro che il verificarsi di un fatto già da lungo tempo osservato dappertutto. I sovrani europei non possono certo essere paragonati, né per l’origine, né per il loro agire, a quei despoti che con un titolo o l’altro si sono

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impadroniti del potere nelle società che in determinati momenti critici stavano per sciogliersi; si potrà però dire che l’estensione illimitata del loro potere è provenuta ugualmente da una grande necessità sociale, cioè dal fatto che senza un’autorità unica e forte non era più possibile garantire la conservazione dell’ordine pubblico. Se si dà un’occhiata all’Europa dopo la nascita del Protestantesimo, fa veramente orrore. Che terribile e spaventosa dissoluzione! Quale traviamento di idee! Che rilassatezza di costumi! Quale proliferare di sétte! Che animosità nei cuori! Che accanimento e ferocia! Dispute violente, contrasti interminabili, accuse, recriminazioni senza fine, tumulti, rivolte, guerre intestine, guerre tra Stati, battaglie sanguinose, atroci supplizi: ecco il quadro che presentava l’Europa, ecco gli effetti del pomo della discordia gettato in mezzo a popoli fratelli. E cosa doveva venir fuori da questa confusione, da questo imbarbarimento in cui sembrava che la società s’incamminasse nuovamente verso i sistemi violenti, e a sostituire il fatto al diritto? Doveva venir fuori ciò che di fatto venne: l’istinto di conservazione, più forte delle passioni e dei deliri degli uomini, finì col prevalere e suggerì all’Europa l’unico mezzo che essa aveva di salvarsi; cioè che il potere reale, che a quel tempo stava acquistando grande importanza e potenza, vi arrivasse al sommo grado; che si isolasse e separasse completamente dal popolo e facesse zittire tutte le passioni, ottenendo così con la forza di un’istituzione potentissima quello che si sarebbe potuto ottenere con una saggia direzione delle idee, ed impedendo con la forza dello scettro le conseguenze dell’indirizzo che aveva preso la società, di correre cioè verso la propria rovina.

Se si riflette bene, quanto abbiamo detto descrive ciò che avvenne in Svezia nel 1680, quando il popolo si sottomise interamente alla libera volontà di Carlo XI; in Danimarca nel 1669, quando la nazione, stanca dell’anarchia, supplicò il re Federico III che si degnasse di dichiarare ereditaria ed assoluta la monarchia, come di fatto avvenne; ed anche in Olanda nel 1747, con la creazione di uno Statolder ereditario. E se vogliamo degli esempi ancora più violenti, possiamo ricordare il dispotismo di Cromwell in Inghilterra dopo tante rivoluzioni, e quello di Napoleone in Francia dopo la repubblica (11). Torna all’indice

CAPITOLO LXIV

Contesa tra i tre elementi: monarchia, aristocrazia e democrazia. Motivi per cui prevalse la monarchia. Conseguenze negative dell’aver ridotta l’influenza politica del clero. Vantaggi che questa influenza avrebbe potuto portare alle istituzioni popolari. Relazioni del clero con tutti i poteri e con tutte le classi.

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Quando i tre elementi di governo: monarchia, aristocrazia e democrazia, si affrontavano per contendersi la supremazia, per la monarchia il modo migliore per prevalere sulle altre era quello di spingere una di loro sul sentiero della violenza e degli eccessi. In tal caso si sarebbe creata una necessità urgente: quella che un unico centro d’azione, forte e libero da ogni impedimento, mettesse un freno all’abuso e assicurasse l’ordine pubblico.

E proprio l’elemento democratico si trovava in una condizione che dava adito a molte speranze, è vero, ma non privo di pericoli. Per conservare l’autorità che aveva acquistata e per guadagnare maggiore influenza e potere bisognava che agisse con molta circospezione e molti riguardi. L’autorità reale allora era già fortissima; e siccome aveva acquistato una parte della sua forza col prendere le parti del popolo nelle lotte e nei contrasti che questo aveva con i signori, il sovrano appariva come il protettore naturale degl’interessi del popolo. In questo vi era molto di vero; ciò non toglie che alla monarchia veniva aperto un vasto campo nel quale poter estendere senza limiti il suo potere a spese delle leggi municipali e alla stessa libertà del popolo.

Tra l’aristocrazia e i Comuni vi era un sentimento naturale di reciproca opposizione, la qual cosa dava ai re l’occasione di ridurre i diritti dei signori e di diminuirne il potere, essendo sicuri che qualunque iniziativa avessero presa per questo fine sarebbe stata bene accolta dalla massa. E, in senso contrario, potevano essere ugualmente sicuri che dai signori sarebbe stata accolta con favore qualunque azione diretta a far abbassare la testa a quel popolo che cominciava a sollevarla troppo in alto quando si trattava di opporre resistenza alle aristocrazie feudali. E quando allora il popolo si abbandonava a qualche eccesso e provocava danni, quando metteva in pratica dottrine e princìpi sovversivi dell’ordine pubblico, nessuno si opponeva al monarca che con tutti i suoi mezzi bloccava le intemperanze del popolo. Soltanto i Grandi avrebbero potuto intervenire, ma si astenevano bene dal farlo: primo, per timore che il sovrano si scatenasse anche contro di loro e li privasse, oltre che delle prerogative e degli onori, anche delle proprietà e della vita stessa; e poi perché essendo in opposizione al popolo da molti secoli, opposizione inasprita da tanti accaniti contrasti, era naturale che guardassero con segreta soddisfazione l’umiliazione di quel popolo da cui erano stati tanto umiliati, e vi cooperassero con tutte le loro forze visto che la cattiva strada che incominciava a prendere il movimento popolare presentava loro l’occasione favorevole di trarne vendetta, che camuffavano sotto il velo della pubblica utilità.

A quel tempo il popolo poteva contare su diversi mezzi di difesa; ma restando isolato, o in contrasto col trono, questi mezzi erano troppo deboli perché potesse sperare di resistere. La cultura non era certo un patrimonio esclusivo di alcuna classe privilegiata, ma bisogna ammettere che non era ancora giunto il momento in cui l’istruzione sarebbe stata talmente diffusa da permettere che si formasse un’opinione pubblica abbastanza forte da influire

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direttamente sugli affari di governo. Sebbene la stampa incominciasse già a produrre i suoi frutti non si era però ancora sviluppata in modo tale che le idee acquistassero quel grado di diffusione e di rapidità che hanno poi avuto nei tempi successivi. Nonostante gli sforzi che ovunque si facevano per favorire la diffusione della cultura, è sufficiente avere qualche conoscenza della sua natura e delle sue caratteristiche in quei tempi per essere persuasi che sia per il contenuto che per la forma essa non era adatta a far sì che le classi popolari ne prendessero parte.

Con lo sviluppo delle arti e del commercio si stava accumulando un nuovo genere di capitali destinati a costituire il patrimonio del popolo; ma erano ancora allo stato iniziale, e non erano giunti a quella grandezza e solidità a cui arrivarono in seguito quando si poterono stabilire rapporti intimi con tutte le classi della società. Ad eccezione di qualche paese di scarsa importanza la qualifica di commerciante o di artigiano non aveva ancora un prestigio sufficiente da poter esercitare molta influenza per questo solo titolo.

Visto il corso degli avvenimenti, e l’altezza alla quale il potere reale si era elevato sulle rovine del feudalesimo prima che l’elemento democratico fosse divenuto abbastanza forte da suscitare un certo rispetto, il solo mezzo che si presentava per mettere un limite all’autorità dei monarchi era l’intesa dell’aristocrazia col popolo. Questo non era facile, avendo noi già viste le fortissime rivalità esistenti tra loro, e che queste erano inevitabili perché avevano origine dal contrasto dei rispettivi interessi. Ma bisogna ricordare che la nobiltà non costituiva l’unica aristocrazia, in quanto ve n’era un’altra ancora più potente, cioè il clero. Questa classe aveva allora tutta quell’autorità e quell’influenza che provengono dai mezzi morali uniti con quelli materiali; perché oltre al carattere religioso, che la rendeva rispettabile e veneranda agli occhi del popolo, possedeva nel tempo stesso abbondanti ricchezze con le quali, mentre poteva facilmente procurarsi in mille modi la gratitudine ed assicurarsi il predominio, poteva anche farsi temere dai Grandi e rispettare dai sovrani. Ed ecco allora l’errore madornale che compì il Protestantesimo: distruggendo il potere del clero non fece altro che accelerare il completo trionfo della monarchia assoluta, lasciare il popolo senza alcun sostegno, il monarca senza freni, l’aristocrazia senza legami e senza vitalità. Fu impedito così che i tre elementi, monarchico, aristocratico e democratico, potessero combinarsi opportunamente per formare quel governo moderato verso cui si stavano dirigendo quasi tutte le nazioni d’Europa.

Abbiamo già visto che non bisognava lasciare indifeso il popolo perché la sua forza politica era ancora troppo debole e precaria; ed è altrettanto chiaro che se la nobiltà doveva restare come strumento di governo, non conveniva lasciar sola neanche questa; perché essa, non avendo in sé altro principio vitale al di fuori dei loro titoli e privilegi, non poteva difendersi dai continui attacchi diretti dal potere reale. Suo malgrado si vedeva costretta a piegarsi

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alla volontà del monarca, abbandonando i suoi inaccessibili castelli per trasferirsi nei sontuosi palazzi reali dove svolgeva il ruolo di cortigiana del re.

Il Protestantesimo annientò il potere del clero non solo nei paesi in cui giunse a diffondere i suoi errori, ma anche negli altri; perché dove non poté introdursi, le sue idee si diffusero ugualmente in una certa misura presso quei gruppi che non erano in aperta opposizione alla fede cattolica. D’allora in poi il potere del clero rimase privo di uno dei suoi principali appoggi, che era l’influenza politica del Papa, perché non solamente i re divennero più audaci contro le pretese della Sede apostolica, ma anche gli stessi Papi, per non dare la minima occasione o pretesto alle invettive dei Protestanti, incominciarono ad agire con molta circospezione in tutto ciò che riguardava le faccende temporali. Tutto questo è stato presentato come un progresso sul cammino della civiltà in Europa, e un passo avanti verso la libertà; ma il quadro sommario che ho presentato della politica di quei tempi dimostra chiaramente che, lungi dal prendere la strada più sicura verso forme rappresentative, si andò per il sentiero che portava al governo assoluto.

Il Protestantesimo, a cui interessava soprattutto distruggere in qualunque modo il potere del Papa, esaltò quello dei re anche nelle cose di ordine spirituale; e concentrando così nelle mani dei monarchi il temporale e lo spirituale eliminò ogni genere di contrapposizione al potere reale. E allora, togliendo ogni speranza di ottenere la libertà con mezzi pacifici, costrinse i popoli a fare uso della forza, ed aprì il vulcano delle rivoluzioni che tante lacrime sono costate all’Europa moderna.

Se si voleva che le forme di libertà politica si affermassero e perfezionassero, era necessario che non uscissero prima del tempo dall’atmosfera in cui erano nate. E quando i tre elementi, monarchico, aristocratico e democratico, fossero stati in questa atmosfera fecondati e diretti tutti e tre dalla religione cattolica, e sotto l’influenza della stessa religione avessero incominciato ad amalgamarsi in maniera pacifica, sarebbe stato il caso di non separare la politica dalla religione. E lungi dal guardare il clero come se fosse stato un elemento dannoso, sarebbe stato opportuno considerarlo come mediatore tra tutte le classi ed i poteri in modo da temperare la passione dei contrasti, metter freno agli eccessi e non permettere la preminenza esclusiva del monarca o dell’aristocrazia o del popolo. Quando si tratta di mettere insieme poteri ed interessi molto diversi è necessario che vi sia sempre un mediatore, perché è sempre inevitabile qualche intervento per impedire scontri violenti; se un tal mediatore non esiste per la natura stessa delle cose, bisogna crearlo mediante la legge. Per questo motivo è evidente il danno che il Protestantesimo fece all’Europa isolando per prima cosa il potere temporale e mettendolo in competizione o in contrasto con l’autorità spirituale, e di lasciare il monarca solo a tu per tu col popolo. L’aristocrazia laica perdette subito l’influenza politica perché le mancò la forza e la connessione che ricavava dall’essere insieme all’aristocrazia ecclesiastica; e

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ridotti i nobili allo stato di cortigiani, non ci fu più alcuno che potesse controbilanciare il potere del re.

L’ho già detto, e lo ripeto di nuovo: fu un gran vantaggio per la conservazione dell’ordine pubblico, e di conseguenza per il progresso della civiltà, che si rinforzasse il potere della monarchia anche a spese dei diritti e della libertà dei signori e dei Comuni. Giacché però nell’ammettere queste verità dobbiamo sempre dolerci che siffatto potere diventasse assoluto, bisogna osservare che una delle cause che vi contribuirono maggiormente fu quella di escludere il clero dall’azione politica. All’inizio dell’undicesimo secolo il problema non comportava il quesito se si dovesse conservare quel gran numero di castelli dai quali orgogliosi baroni dettavano legge ai loro vassalli e si credevano nel diritto di non rispettare le disposizioni del monarca. Il problema non consisteva neanche nel chiedersi se si dovesse conservare quella moltitudine di autonomie comunali che non avevano tra loro alcuna connessione, che erano in contrasto con le pretese dei Grandi e intralciavano la politica del sovrano, impedendo che si formasse un governo centrale che potesse assicurare l’ordine e la salvaguardia di tutti gl’interessi legittimi e desse impulso all’avanzamento della civiltà, avanzamento che era incominciato ovunque con tanto dinamismo. Il problema non consisteva in queste cose che abbiamo appena dette, perché i castelli già da sé stavano andando rapidamente in rovina, i signori scendevano dalle loro fortezze mostrandosi più tolleranti verso il popolo col ridurre le loro pretese, e chinavano rispettosamente la fronte davanti all’autorità del monarca; ed i Comuni, che erano costretti a partecipare all’ unificazione che si stava realizzando di tante piccole repubbliche al fine di formare grandi monarchie, si vedevano nella necessità di accettare la riduzione delle loro franchigie e autonomie nella misura in cui queste si contrapponevano alla fusione nell’unità politica.

Il problema era invece se, acquistando il popolo quei benefìci che dovevano venir loro dall’unificazione e dall’ingrandimento del potere reale, vi fosse poi qualche strumento per fissarne nello stesso tempo i limiti legali in modo che, senza intralciarne o indebolirne la politica, il popolo potesse poi esercitare un’influenza ragionevole sugli affari dello Stato, e soprattutto conservare il diritto che aveva già acquisito di controllare l’impiego che si faceva delle pubbliche entrate. Si trattava insomma di evitare le scene di sangue delle rivoluzioni, e gli abusi e gli eccessi dei cortigiani.

Affinché il popolo potesse avere autonomamente tale influenza era necessario che disponesse di un mezzo indispensabile per questa necessità, ma di cui era generalmente sprovvisto: la conoscenza degli affari pubblici. Non vogliamo dire che tra i Comuni non vi fosse una certa conoscenza riguardo a questi, ma non bisogna dimenticare che la parola pubblico aveva acquistato una dimensione molto superiore, perché non limitandosi più ad una municipalità o ad una provincia, per via del raggruppamento che stava

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generalmente avvenendo si estendeva ora a tutto un regno, e ad un regno oltretutto che aveva rapporti con molti altri popoli.

Fin da allora la civiltà europea cominciava a presentare quel carattere di universalità che la distingue; fin da allora per formarsi una vera idea di un affare di stato era necessario alzare ed estendere lo sguardo all’Europa intera, e talvolta al mondo. Si capisce bene che gli uomini capaci di tanta elevatezza di vedute non dovevano essere molto numerosi; ed è logico che quanto di più illustre ci fosse nella società, essendo attratto dallo splendore che circondava il trono dei sovrani, formasse intorno ad esso un centro di cultura che poteva pretendere il diritto esclusivo di partecipare al governo. Se a questo centro d’azione e di cultura aveste contrapposto il popolo da solo, ancora debole ed ignorante com’era, cosa sarebbe successo? Non ci vuole molto a immaginarlo, poiché la debolezza e l’ignoranza non hanno mai prevalso sulla forza e sull’intelligenza. E in che modo si sarebbe potuto rimediare a simile inconveniente? Mantenendo la religione cattolica in tutta Europa e conservando così l’influenza del clero, perché nessuno ignora che il clero possedeva ancora lo scettro del sapere.

Nel lodare il Protestantesimo per avere indebolito l’influenza politica del clero cattolico non si è riflettuto abbastanza sulla natura di questa influenza. Sarebbe difficile trovare una classe che avesse una certa affinità coi tre elementi del potere ed avesse interessi comuni con ciascuno di essi senza essere collegata esclusivamente con alcuno. La monarchia non aveva nulla da temere dal clero, perché i ministri di una religione che considera il potere come disceso dal cielo mai avrebbero potuto dichiararsi nemici del potere reale, il quale, come abbiamo visto, era superiore a tutti gli altri. Anche l’aristocrazia non aveva molto da temere dal clero finché restava entro confini ragionevoli. Esibendo i titoli che le conferivano il possesso delle sue ricchezze e il diritto ad una certa stima e distinzione, non si sarebbe vista contrastare da una classe che per i suoi princìpi ed i suoi interessi non poteva essere avversa a tutto ciò che non superi i limiti della ragione, della giustizia e delle leggi. La democrazia, e con questa parola intendo il popolo in generale, all’epoca della sua massima degradazione aveva trovato il più saldo sostegno e la più generosa protezione nella Chiesa. E allora come poteva questa che tanto si era affaticata per emanciparlo dall’antica schiavitù e per alleggerirne l’oppressione durante il feudalesimo essere nemica di una classe che guardava come una sua creatura? Se il popolo aveva migliorato il suo stato civile lo doveva al clero; se aveva ottenuto un’influenza politica lo doveva al miglioramento della sua situazione, e questo miglioramento era dovuto al clero; e d’altra parte, se il clero aveva un appoggio sicuro lo aveva in questa stessa classe popolare con la quale era continuamente in contatto, e che dal clero riceveva tutte le ispirazioni e l’insegnamento.

A parte questo, la Chiesa attingeva indistintamente gli elementi da tutte le classi senza esigere, per innalzare un uomo al sacro ministero, né titoli di

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nobiltà, né ricchezze; e questo da solo bastava perché il clero avesse con le classi inferiori delle relazioni intime, e perché queste non potessero guardarlo con avversione. Per concludere, è evidente che il clero, che aveva relazioni con tutte le classi, era l’elemento ideale per impedire che una di esse prevalesse in modo esclusivo, e perché tutti gli elementi mantenessero un certo fervore pacifico e fecondo sì da produrre poi con l’andar del tempo una coesione naturale e perfetta.

Con questo non si vuol dire che sarebbero mancati contrasti, liti e forse anche lotte; tutte cose inevitabili finché gli uomini non cesseranno di essere uomini; ma chi non vede che comunque non ci sarebbe stato l’orribile spargimento di sangue che si è avuto nelle guerre in Germania, nella rivoluzione d’Inghilterra, e in quella di Francia?

Forse mi si dirà che lo spirito della civiltà europea già si avviava inevitabilmente a ridurre l’eccessiva disuguaglianza tra le classi: lo ammetto, e aggiungo anche che questa tendenza era del tutto conforme ai princìpi e ai precetti della religione cristiana, la quale ricorda continuamente agli uomini che sono uguali di fronte a Dio, che hanno tutti la stessa origine e lo stesso fine, che le ricchezze e gli onori non sono nulla, e che l’unica cosa veramente importante sulla terra, l’unica che ci rende graditi agli occhi di Dio, è la virtù. Ma riformare non significa distruggere; per riparare al male non si deve ammazzare chi lo patisce. E invece si volle rovesciare d’un colpo ciò che si poteva correggere con mezzi legali: snaturata la civiltà europea dalle funeste innovazioni del sedicesimo secolo; ripudiata la legittima autorità anche nelle materie sue proprie, se ne sostituì l’azione pacifica e benefica con il disastroso ricorso alla violenza. Tre secoli di calamità hanno ammaestrato alquanto le nazioni facendo loro vedere quanto sia rischioso, per la stessa buona riuscita delle imprese, affidarle ai crudeli pericoli dell’uso della forza; ma è probabile che se il Protestantesimo non fosse venuto fuori come il pomo della discordia, tutte le grandi questioni sociali e politiche sarebbero molto vicine ad una soluzione sicura e pacifica, se addirittura non sarebbero state già risolte molto tempo fa (12). Torna all’indice

CAPITOLO LXV

Confronto tra le dottrine politiche della scuola del diciottesimo secolo, quelle dei moderni studiosi di diritto pubblico, e quelle dominanti in Europa prima che comparisse il Protestantesimo. Il Protestantesimo impedì l’omogeneità della civiltà europea. Testimonianze storiche.

_______________ La recentissima scienza politica si vanta dei suoi grandi progressi nello

studio dei governi rappresentativi, e continua a dirci che la scuola che aveva impartito le lezioni ai deputati dell’assemblea costituente non sapeva nulla di

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costituzioni politiche. Ebbene, se confrontiamo le dottrine della scuola attuale con quelle della scuola che la precedette, qual è la differenza che la distingue? In quali punti sono discordi? In cosa consiste il tanto vantato progresso? La scuola del diciottesimo secolo diceva: «Il re è il naturale nemico del popolo; è opportuno distruggerne totalmente il potere, o almeno restringerlo e limitarlo in modo che resti in cima all’edificio sociale, ma con le mani legate e con la sola facoltà di approvare quello che stabiliscono i rappresentanti del popolo». E cosa dice ora la scuola moderna che si gloria di aver compiuto grandi progressi, che si vanta di aver fatto tesoro delle lezioni dell’esperienza, che si loda di aver seguita la strada indicatale dalla ragione e dal buonsenso? «La monarchia – essa dice – è una vera necessità per le grandi nazioni europee checché ne sia degli esperimenti fatti in America, perché questi devono ancora superare la prova del tempo; per di più, essendo stati fatti in situazioni molto diverse dalle nostre, non potranno mai essere validi per noi. Il re non deve essere visto come il nemico del popolo, ma come il padre; e lungi dall’esporlo al pubblico con le mani legate, necessità vuole che lo si presenti circondato da potere, grandezza, ed anche maestà e fasto; perché altrimenti il trono non potrà adempiere le alte funzioni che gli sono affidate. Il re deve essere inviolabile; e questa inviolabilità è necessario che non sia solo teorica, ma vera e concreta, e che non possa mai essere minacciata sotto qualunque pretesto. È necessario che il monarca sia posto ad un livello superiore all’impeto delle passioni e delle fazioni, come una divinità tutelare che è completamente estranea a qualunque interesse meschino e a qualunque bassa passione; e che sia il rappresentante della ragione e della giustizia». «Insensati – hanno detto i seguaci di questa scuola agli avversari – non vi rendete conto che piuttosto che avere un re come lo intendete voi sarebbe meglio non averne alcuno? Non vedete che il monarca tra voi sarà sempre il nemico naturale della costituzione, perché dappertutto l’avrà sempre tra i piedi per ostacolarlo, vincolarlo ed umiliarlo?».

Se ora facciamo il confronto tra questi progressi scientifici e le dottrine che dominavano in Europa molto prima che apparisse il Protestantesimo, ci si accorgerà che quanto contengono di ragionevole, di giusto e di utile, era già conosciuto da tutti quando in Europa non vi erano altre influenze al di fuori di quella della Chiesa cattolica. È necessario un re, dice la scuola moderna; e grazie all’influenza della religione cattolica tutte le grandi nazioni d’Europa avevano un re: il re si deve considerare non come nemico, ma come padre del popolo, e padre del popolo era già chiamato; il potere del re deve essere grande, e questo potere era ugualmente grande; il re deve essere inviolabile e la sua persona deve essere sacra, e la persona del re era sacra; e questa prerogativa fin dai primi tempi gli veniva assicurata dalla Chiesa con una cerimonia solenne ed augusta: la consacrazione.

«Il popolo è sovrano – diceva la scuola del secolo scorso, – la legge è l’espressione della volontà generale; i rappresentanti del popolo sono dunque i

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soli che abbiano il potere legislativo; il sovrano non può andar contro una tale volontà: le leggi verranno assoggettate per pura formalità alla sua ratifica; se rifiutasse di darla, tutt’al più andranno soggette ad un nuovo esame; ma se la volontà dei rappresentanti del popolo continuasse ad essere la stessa, acquisterà la dignità e la forza di legge; ed il sovrano che, non avendola ratificata aveva dimostrato di crederla nociva al bene pubblico, sarà obbligato a mandarla in esecuzione con discapito della propria dignità ed indipendenza».

E che risponde a questo la scuola moderna? «La sovranità del popolo o non significa niente, oppure ha un significato molto pericoloso; la legge non deve essere l’espressione della volontà, ma della ragione; la semplice volontà non basta per fare le leggi, ci vogliono la ragione, la giustizia e la convenienza pubblica». E tutte queste idee erano già comuni molto prima del sedicesimo secolo, non soltanto tra i dotti, ma anche tra la gente più semplice ed ignorante. Un Dottore del tredicesimo secolo lo aveva espresso con la sua solita meravigliosa concisione: ordine della ragione diretta al bene comune. «Se volete – continua la scuola moderna, – se volete che il potere reale sia una realtà è necessario assegnargli il primo posto tra i poteri legislativi, è necessario il veto assoluto». E nelle antiche Cortes, negli antichi stati e parlamenti, il re aveva il primo posto tra i poteri legislativi, e non si faceva nulla contro la sua volontà: aveva il veto assoluto.

«Si elimini qualunque classe – dicono quelli dell’assemblea costituente, – si elimini ogni distinzione; il re stia direttamente faccia a faccia col popolo; il di più è un attentato contro i diritti imprescindibili». «Siete dei folli – risponde la scuola moderna; – se non vi sono distinzioni, bisogna crearle; se nella società non vi sono classi che per loro natura formino un secondo corpo legislativo, un mediatore tra il re e il popolo, bisognerà formare tali classi. Sarà necessario creare per legge ciò che non esiste nella società; se non c’è la realtà vi deve essere almeno la finzione». E queste classi esistevano pure nella società antica, e prendevano parte ai pubblici affari; erano ordinate in magistrature e formavano i primi corpi legislativi.

Ora io domando: da un tale confronto, non risulta più chiaro della luce del sole che quanto attualmente si chiama progresso in materia di governo, non è in sostanza che un tornare di fatto verso ciò che veniva insegnato e praticato dappertutto prima del Protestantesimo sotto l’influenza della religione cattolica? Per rispetto nei confronti delle persone dotate di una certa conoscenza delle materie sociali e politiche potrò fare a meno d’insistere sulle differenze che inevitabilmente passano tra un’epoca e l’altra. So bene che lo stesso andamento delle cose avrebbe prodotto delle importanti modifiche, essendo necessario adattare le istituzioni politiche alle nuove necessità cui bisognava far fronte. Ma sostengo che il progresso della civiltà europea, per quanto lo permettevano le circostanze, procedeva sulla buona strada verso un migliore avvenire, e che conteneva in se stesso i mezzi di cui aveva bisogno

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per riformare senza rovesciare. Ma per ottenere questo era necessario che gli avvenimenti si sviluppassero in un modo spontaneo e senza alcun tipo di violenza; era necessario non dimenticare che l’azione dell’uomo da sé sola vale pochissimo; che gli esperimenti improvvisati sono pericolosi; che le grandi produzioni sociali assomigliano a quelle della natura, perché come quelle della natura hanno bisogno di un elemento indispensabile: il tempo.

C’è un fatto al quale, da quel che mi sembra, non si è posta la debita attenzione nonostante in esso si racchiuda la spiegazione di alcuni strani fenomeni avvenuti nel corso dei tre ultimi secoli. Il fatto è questo: il Protestantesimo ha impedito alla civiltà moderna di essere omogenea, opponendosi alla fortissima tendenza che spingeva tutte le nazioni europee ad una tale omogeneità. Non c’è dubbio che il progredire della civiltà riceve l’origine e il carattere da quegli stessi princìpi che le hanno trasmesso il movimento e la vita; ed essendo questi princìpi più o meno gli stessi per tutte le nazioni europee, queste risultavano molto simili fra loro. Su questo fatto la storia va d’accordo con la filosofia; è indubbio quindi che le nazioni europee, finché non fu instillato loro alcun germe di divisione, per quanto riguarda le loro istituzioni civili e politiche procedevano in un modo molto simile. Naturalmente tra loro vi erano quelle differenze che dipendono necessariamente dalla diversità delle situazioni; ciononostante si vede benissimo che erano sulla strada per diventare sempre più simili, tendendo a formare dell’Europa un tutt’uno di cui noi, avvezzi come siamo alla divisione, non possiamo formarci un’idea precisa. Questa omogeneità sarebbe giunta a compimento grazie alla rapidità della propagazione intellettuale e materiale che si ebbe con l’incremento e la prosperità delle arti e del commercio, e soprattutto della stampa; perché il flusso e riflusso delle idee avrebbero ben presto livellate le differenze che distinguevano una nazione dall'altra.

Ma per disgrazia nacque il Protestantesimo, e divise i popoli europei in due grandi famiglie che fin dal primo momento nutrirono un reciproco odio mortale; odio che produsse guerre spietate in cui furono versati fiumi di sangue. Anche peggiore di queste catastrofi fu il germe di scisma civile, politico e letterario che derivò dalla mancanza di unità religiosa. In Europa le istituzioni civili e politiche, e tutti i rami del sapere, erano nati e prosperati sotto l’influenza della religione; lo scisma fu religioso, attaccò la radice e si estese inevitabilmente a tutti i rami. Questa fu la ragione per cui tra le diverse nazioni si alzarono quelle mura di bronzo che le isolarono l’una dall’altra, e si sparse dappertutto lo spirito del sospetto e della diffidenza; e quelle cose che prima sarebbero state giudicate innocue o di poco conto, vennero poi reputate sommamente pericolose.

Ben si comprende allora l’inquietudine, il disagio e l’agitazione che nacquero da circostanze tanto funeste, e può ben dirsi che in questo germe maligno è racchiusa la storia delle catastrofi che hanno sconvolto l’Europa negli ultimi tre secoli. A chi deve la Germania le guerre degli anabattisti,

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quelle dell’impero e quella dei trent’anni? E la Francia le guerre degli Ugonotti e le scene feroci della Lega, a chi le deve? A chi deve quella causa profonda di divisione, quel semenzaio di discordie che cominciò con gli Ugonotti, col Giansenismo, poi proseguì con la filosofia per arrivare alla Convenzione? L’Inghilterra, se non avesse nutrito in seno quella miriade di sétte che nacquero col Protestantesimo, avrebbe sofferto i disastri di una rivoluzione che durò tanti anni? Se Enrico VIII non si fosse separato dalla Chiesa cattolica la Gran Bretagna non avrebbe trascorso i due terzi del sedicesimo secolo tra le più atroci persecuzioni religiose e sotto il più brutale dispotismo, e non si sarebbe vista affogare per la maggior parte del diciassettesimo secolo in fiumi di sangue sparso dal fanatismo delle sétte. Senza il Protestantesimo, sarebbe forse arrivata a quella condizione catastrofica in cui si trova con la questione irlandese, che resta sospesa tra uno smembramento dell’impero ed una spaventosa rivoluzione? Se negli ultimi tre secoli non fossero stati divisi da un lago di sangue alimentato dalle discordie religiose, questi popoli fratelli non avrebbero trovato il modo d’intendersi amichevolmente?

Quelle leghe difensive ed offensive tra nazioni e nazioni che dividevano l’Europa in due partiti non meno ostili fra loro di quanto non siano Cristiani e Maomettani, quegli odî divenuti tradizionali tra il Settentrione e il Mezzogiorno, quella profonda divisione tra la Germania protestante e quella cattolica, tra la Spagna e l’Inghilterra, e tra questa e la Francia, contribuirono enormemente a ritardare le relazioni tra i popoli europei, ed a far sì che avvenisse solo con lo sviluppo dei mezzi materiali ciò che si sarebbe potuto ottenere molto tempo prima con l’aiuto dei mezzi morali. Il vapore tende a trasformare l’Europa in un’immensa città: di chi è la colpa se quegli uomini destinati un giorno a ritrovarsi sotto il medesimo tetto si sono odiati tra loro per tre secoli? Se fosse avvenuta molto tempo prima l’unione dei cuori, non sarebbe stato anticipato il felice momento in cui si fosse giunti a stringere le mani? Torna all’indice

CAPITOLO LXVI Il Cattolicesimo e la politica in Spagna. Si definiscono i termini della questione. Cinque cause della rovina delle istituzioni popolari in Spagna. Differenza tra la libertà antica e quella moderna. Le Comunità di Castiglia. Politica dei re. Ferdinando il Cattolico e Cisneros. Carlo V. Filippo II.

_______________ Non potrei considerare completamente svolto questo tema se evitassi di

risolvere la seguente difficoltà: «In Spagna si è avuto esclusivamente il Cattolicesimo, e nello stesso tempo si è affermata la monarchia assoluta, il che dimostra che le dottrine cattoliche sono avverse alla libertà politica». La

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maggior parte degli uomini non si preoccupa di esaminare a fondo la vera natura delle cose, né il vero significato delle parole; purché una certa cosa gliela si presenti in grande, che colpisca fortemente la fantasia, accetta i fatti tali quali appaiano a prima vista e confonde senza riflettere la casualità con la coincidenza. Non può negarsi che il predominio della religione cattolica in Spagna venne a coincidere con la dominazione della monarchia assoluta; ma la questione sta piuttosto in questo: stabilire se la religione fu la vera causa di questa dominazione, se fu essa a spodestare le antiche Cortes consolidando il trono dei monarchi assoluti sulle rovine delle istituzioni popolari.

Prima di affrontare la questione, cioè prima di passare all’esame delle cause particolari che eliminarono la partecipazione della nazione agli affari pubblici, sarà utile ricordare che in Danimarca, in Svezia e in Germania l’assolutismo si stabilì e gettò le radici insieme al Protestantesimo; la qual cosa basta per dimostrare che ben poca utilità porta l’argomento delle coincidenze; poiché siccome lo stesso fatto si è verificato sia col Cattolicesimo che col Protestantesimo, avremmo dimostrato allo stesso modo che il Protestantesimo conduce alla monarchia assoluta. E qui faccio notare che quando nei capitoli precedenti dimostrai che la falsa riforma contribuì alla rovina della libertà politica, sebbene richiamassi l’attenzione dei lettori sulle coincidenze, non mi fondai soltanto su queste, ma anche sul fatto che il Protestantesimo, seminando dottrine dissolutrici, aveva reso necessario un potere più forte; e distruggendo l’influenza politica del clero e del Papa aveva sconvolto l’equilibrio delle classi, aveva lasciato il trono senza contrappeso, e ne aveva accresciuto il potere con l’accordargli nei paesi protestanti l’autorità suprema ecclesiastica, e con l’ampliarne le prerogative nei paesi cattolici.

Ma lasciamo da parte le considerazioni generali, e puntiamo lo sguardo sulla Spagna. Questa nazione ha la disgrazia di essere una delle meno conosciute perché non viene fatto un vero studio della sua storia, e la situazione presente non viene osservata a dovere. I suoi disordini, gli sconvolgimenti, le guerre civili, ci dicono chiaramente che non vi si è indovinato il giusto sistema di governo: la qual cosa ci fa capire che si ha poca conoscenza della nazione che si deve governare. In quanto poi alla sua storia l’abbaglio è, se possibile, anche maggiore; perché siccome gli avvenimenti sono ormai molto lontani da noi, e se influiscono sul presente lo fanno in un modo nascosto e non molto facile ad essere compreso, gli osservatori si accontentano di un’occhiata superficiale lasciando poi libero corso alle loro opinioni, e infine per sostituire queste alla realtà dei fatti.

Quasi tutti gli autori che parlano delle cause che fecero perdere in Spagna la libertà politica rivolgono lo sguardo esclusivamente o soprattutto sulla Castiglia, e attribuiscono alla sagacia dei sovrani molto più di quello che il corso degli avvenimenti assegna loro. Si è soliti prendere come punto di riferimento la guerra dei Comuni; al dire di certi scrittori sembrerebbe che senza la sconfitta di Villalar la libertà spagnola avrebbe fatto senza dubbio

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grandi progressi. Non nego che la guerra dei Comuni sia un punto di riferimento eccellente per studiare questa materia, che nei campi di Villalar si sia in qualche modo giunti alla soluzione del dramma, che la Castiglia debba considerarsi come il centro degli avvenimenti, e finalmente che i monarchi spagnoli adoperassero molta sagacia nel condurre l’impresa a buon fine. Con tutto ciò io credo che non sia giusto dare a qualunque di queste considerazioni un valore assoluto. Oltre a ciò mi sembra anche che nel complesso non si colga il vero aspetto della difficoltà, e che talvolta si prendano gli effetti per cause, e l’accessorio per fondamentale.

A mio giudizio le cause della rovina delle istituzioni libere furono le seguenti:

1 - lo sviluppo prematuro ed eccessivo di queste istituzioni; 2 - l’essere composta, la nazione spagnola, da elementi troppo dissimili,

ciascuno dei quali con proprie istituzioni popolari; 3 - l’aver stabilito il centro del potere tra le province dove le suddette

forme erano meno ampie, e dove dominava maggiormente l’autorità del re; 4 - l’eccessiva abbondanza di ricchezze e gloria di cui il popolo spagnolo

si vide circondato, e nella felicità di questa abbondanza il popolo si addormentò;

5 - l’assetto militare e di conquista in cui si ritrovarono i monarchi spagnoli; assetto che era giunto all’apice del suo splendore proprio nel momento critico in cui la contesa stava per giungere alla sua soluzione.

Esaminerò queste cause rapidamente, giacché la natura dell’opera non mi permette di farlo con quell’estensione che richiederebbero la serietà e l’importanza dell’argomento. Il lettore mi perdonerà questa digressione politica in considerazione dello stretto collegamento che la presente materia ha con la questione religiosa.

Non c’è dubbio che le forme popolari si svilupparono in Spagna prima che nelle altre nazioni monarchiche. Ma lo sviluppo fu troppo precoce e sproporzionato, e questo fatto contribuì a farle cadere, così come si ammala e muore prima il bambino che in tenera età cresce troppo di statura o manifesta un’intelligenza eccessivamente precoce.

Questo spirito esuberante di libertà, questa infinità di franchigie e di privilegi, questi ostacoli che intralciavano l’avanzare del potere centrale impedendogli di sviluppare il suo dinamismo e la sua energia, questo grande sviluppo dell’elemento popolare, per sua natura torbido e smanioso, accanto alle ricchezze, alla potenza e all’ orgoglio dell’aristocrazia, dovevano produrre naturalmente molti contrasti. Tanti elementi così diversi e contrastanti non potevano operare tranquillamente e in sintonia, considerando anche che non avevano avuto ancora il tempo sufficiente per intendersi, come sarebbe stato necessario per vivere in pacifica comunione ed armonia. L’ordine è il primo bisogno delle società, ad esso devono piegarsi le idee, i costumi e le leggi; in questo modo anche se c’è qualche seme di discordia, per quanto esso sia

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radicato si può essere sicuri che sarà estirpato o almeno allontanato in modo che non continui a presentare un pericolo per la quiete pubblica. L’ordinamento municipale e politico della Spagna aveva quest’inconveniente, ed ecco l’imperiosa necessità di modificarlo.

A quei tempi però la mentalità e i costumi erano tali che la cosa non tanto facilmente poteva essere effettuata con una semplice modifica; poiché allora non c’era, come adesso, quello spirito costituente che con tanta facilità crea numerose assemblee per formare nuovi codici fondamentali o per riformare gli antichi; e le idee non avevano acquistato quella universalità con la quale, superando i limiti ristretti di un particolare paese, vanno fino a quelle alte regioni dove si perdono di vista tutte le situazioni locali ed altro non si scorge che l’uomo, la società, la nazione, il governo. Allora non era così: un diploma di libertà concesso da un re a qualche città o contrada; una franchigia concessa da un signore che a ciò fu costretto dai propri vassalli armati; un privilegio ottenuto per un’azione eroica in guerra, per proprio merito o di un proprio antenato; una concessione fatta nelle Cortes dal sovrano al momento di votare qualche contribuzione o, come la chiamavano allora, servigio; una legge, una consuetudine, l’antichità della quale si perdeva nella notte dei tempi o si confondeva con la culla della monarchia; questi ed altri simili erano i titoli su cui si fondava la libertà della nobiltà e del popolo, titoli di cui andavano superbi, e della conservazione ed integrità dei quali erano gelosissimi ed irriducibili difensori.

La libertà al giorno d’oggi è qualcosa di più vago, e talvolta di meno positivo a motivo della stessa universalità ed elevatezza a cui sono salite le idee, ma d’altra parte è anche meno soggetta ad essere distrutta, perché parlando un linguaggio comune a tutti i popoli, e presentandosi come causa comune a tutte le nazioni, riscuote consensi universali, e può formare delle associazioni più vaste per tutelarsi dalle manovre che il potere cercasse di dirigere contro di essa. Le parole libertà, uguaglianza, diritti dell’uomo, intervento del popolo nei pubblici affari, responsabilità ministeriale, opinione pubblica, libertà di stampa, tolleranza ed altre simili, hanno certamente una gran varietà di significati molto difficile da stabilire e classificare quando si tratta di farne delle applicazioni concrete; ma non lasciano tuttavia di presentare allo spirito certe idee che, sebbene complesse e confuse, hanno una falsa apparenza di semplicità e di chiarezza. E siccome d’altra parte presentano concetti grandiosi che abbagliano con vivi e lusinghieri colori, ne vien fuori che pronunciandole tutti vi ascoltano con grande interesse, siete capito da tutti i popoli, e sembra che costituendovi campione delle idee che esprimono vi eleviate alla posizione sublime di difensore dei diritti dell’intera umanità. Recatevi però tra i popoli liberi dei secoli quattordicesimo e quindicesimo e vi troverete in una situazione molto diversa: prendete una franchigia di Catalogna o di Castiglia e rivolgetevi a quegli Aragonesi che mostrano la loro baldanza quando si tratta delle loro franchigie: questa non è

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cosa loro, non eccita né il loro zelo né il loro interesse; finché non trovano il nome che ricordi qualcuna delle loro città o castelli, quella pergamena sarà per loro una cosa indifferente ed estranea.

Quest’inconveniente, che aveva la sua origine nelle stesse idee, limitate per loro natura alle situazioni locali, in Spagna era molto più grave perché si stava cercando di amalgamare sotto lo stesso scettro popoli tanto diversi nei costumi e nell’ordinamento municipale e politico, e che per di più non erano immuni da rivalità e rancori. In tale situazione era molto più facile poter combattere la libertà di una provincia senza che le altre si sentissero coinvolte o temessero per la propria libertà. Quando in Castiglia i Comuni si sollevarono contro Carlo V, se ci fosse stata quell’unione d’idee e di sentimenti e quelle affinità che adesso uniscono tutti i popoli, la sconfitta di Villalar sarebbe stata una sconfitta e nulla più; perché diffondendo l’allarme in Aragona e in Catalogna, sicuramente avrebbero dato molto più da pensare all’inesperto e mal consigliato monarca. Ma non fu così: furono fatti dei tentativi isolati, e di conseguenza sterili.

L’esercito della monarchia, procedendo sempre allo stesso modo, poté sconfiggere separatamente quelle forze sparpagliate, e il risultato non fu più in dubbio. Nel 1521 morirono sul patibolo Padilla, Bravo e Maldonado; nel 1591 in Aragona ebbero la stessa sorte D. Diego de Heredia, D. Giovanni de Luna, e lo stesso supremo giustiziere D. Antonio della Lànuza. E quando nel 1640 si sollevarono i Catalani per difendere le loro franchigie, nonostante i manifesti esposti per procurarsi alleati non trovarono nessuno ad aiutarli. Allora non c’erano ancora quei fogli volanti che ogni mattina richiamano la nostra attenzione su questioni di ogni genere, e che al minimo pericolo gridano all’arme. I popoli attaccati ai loro usi e costumi, contenti delle conferme delle loro franchigie che i re davano ogni giorno, allegri e soddisfatti della venerazione che gli stessi re manifestavano alle antiche libertà, non pensavano di avere di fronte un avversario scaltro che non adoperava la forza se non quando era il momento di dare il colpo decisivo, ma che in ogni caso la teneva sempre pronta per schiacciarli con la sua mano potente.

Quando si studia attentamente la storia di Spagna si capisce subito che il progetto di concentrare tutta l’azione governativa nelle mani del sovrano escludendo per quanto possibile l’influenza della nazione cominciò fin dal regno di Ferdinando e di Isabella. E non c’è da meravigliarsi, perché allora fu maggiormente necessario, ed anche più facile farlo. Fu maggiormente necessario perché partendo l’azione di governo dallo stesso centro, ed estendendosi a tutta la Spagna che allora presentava una gran varietà di leggi, di usi e costumi, si sentiva più fortemente e più acutamente l’ostacolo che tanta diversità di Cortes, di magistrati municipali, di codici e di privilegi causava all’azione del potere centrale. E siccome ogni governo desidera operare con rapidità ed efficacia, era ben naturale che i consiglieri dei re di Spagna pensassero di appianare, di uniformare e di concentrare.

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Non è difficile capire che ad un re, che allora si trovava alla testa di eserciti possenti, che disponeva di grandi flotte, che aveva umiliato in tanti scontri poderosi nemici, che si vedeva rispettato dalle nazioni straniere, non poteva far molto piacere di andare continuamente in giro a celebrare Cortes, ora in Castiglia, ora in Aragona, poi a Valenza, quindi in Catalogna; e che dovevano infastidirlo alquanto quei ripetuti giuramenti di mantenere le franchigie e le libertà, e quella continua cantilena che gli facevano risuonare all’orecchio i procuratori di Castiglia e i magistrati di Aragona, di Valenza e di Catalogna. Ci vuole poco a capire che quel doversi umiliare a chiedere alle Cortes qualche servizio per le spese dello stato, e in particolare per le continue guerre che venivano condotte, doveva andar poco a genio ai sovrani, i quali a mala pena si sarebbero rassegnati a farlo per timore della nobile fierezza di quegli uomini che combattevano come leoni sul campo di battaglia a difesa della religione, della patria, del re; ma che con lo stesso ardimento avrebbero combattuto per le strade e nelle loro case se altri avessero tentato di toglier loro i diritti e le franchigie che avevano ereditato dai loro antenati.

Già con la semplice riunione delle monarchie di Aragona e di Castiglia in un’unica Corona fu segnato il destino delle istituzioni popolari, che era quasi impossibile che non venissero esautorate. Da allora in poi il trono si trovò in una situazione troppo dominante perché le istituzioni dei regni appena unificati potessero opporre un argine al suo potere. Se volessimo immaginare un potere politico che in quei tempi fosse stato capace di far fronte al trono, dovremmo pensare tutte le assemblee che col nome di Cortes si radunavano di quando in quando nelle varie parti del regno, riunite insieme e amalgamate in una rappresentanza nazionale, in modo da aumentare la loro forza nella stessa misura con la quale era cresciuta la forza dei re. Dovremmo immaginare questa assemblea generale come erede delle sue componenti per lo zelo della conservazione delle prerogative e privilegi, sacrificando sull’altare del pubblico bene tutte le rivalità, e dirigendosi al suo fine con passo fermo e in massa compatta, perché non sarebbe stato tanto facile aprirvi una minima breccia. Insomma sarebbe come dire che dovremmo immaginare una cosa impossibile: impossibile per la mentalità del tempo, impossibile per le usanze locali, impossibile per le rivalità tra i popoli, per la loro incapacità di vedere la questione sotto un aspetto generale, per la resistenza che avrebbero opposto i re; e impossibile infine per le complicazioni e gli ostacoli provocati dall’ordinamento municipale, sociale e politico. In una parola: dovremmo immaginare cose tanto impossibili allora di essere concepite, quanto di essere messe in pratica.

Tutte le circostanze erano favorevoli all’ingrandimento del potere del sovrano. Già per il fatto che non era soltanto re di Aragona o di Castiglia, ma di Spagna, gli antichi regni andavano rimpiccolendo di fronte all’elevatezza e allo splendore del soglio, e cominciarono fin da allora ad assumere la condizione che doveva poi toccar loro, cioè quello di province. Inoltre il

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sovrano, avendo da esercitare un’azione più estesa e più complessa, non poteva più stare in continuo contatto con i sudditi; e quando era necessario presiedere le Cortes in qualcuno dei regni soggetti si doveva aspettare molto tempo in quanto il re era impegnato in un’altra parte dei suoi dominî. Per punire una sedizione, per bloccare un abuso o per reprimere un eccesso non aveva più bisogno di ricorrere alle armi di tutto il paese: con quelle di Castiglia poteva soggiogare coloro che insorgevano nel regno d’Aragona, e con l’esercito d’Aragona domava i ribelli di Castiglia. Granata si era arresa, l’Italia si sottometteva alla spada vittoriosa di un suo generale, con le sue flotte navigava Colombo che aveva scoperto un nuovo mondo. Volgete adesso l’attenzione al mormorio di Cortes e municipalità, e spariranno ai vostri occhi, come di fatto sparirono.

Se i costumi della nazione fossero stati pacifici, senza essere in uno stato permanente di guerra, forse ci sarebbe stata qualche possibilità di salvare le istituzioni democratiche. Rivolta l’attenzione esclusivamente sul governo municipale e politico, i popoli avrebbero potuto capire meglio quali fossero i loro veri interessi; gli stessi re non si sarebbero così facilmente abbandonati ad ogni sorta di guerre, e quindi il trono avrebbe perso in parte quel prestigio che gli comunicavano lo splendore e lo strepito delle armi; il tono dell’amministrazione non avrebbe avuto quella durezza che poco o molto mutua dai costumi militari, e sarebbe stato più facile conservare qualcosa delle antiche giurisdizioni. Di fatto la Spagna era allora la nazione più bellicosa del mondo. Il campo di battaglia era il suo elemento naturale: sette secoli di guerre avevano formato di essa – si può dire – un vero soldato. Le recenti vittorie sui Mori, le prodezze delle armate d’Italia, le scoperte di Colombo, tutto contribuiva a renderla altera e a conferirle quello spirito cavalleresco che per tanto tempo fu la sua nota più distintiva. Il re doveva essere un condottiere, e allora finché si rendeva illustre con brillanti fatti d’arme poteva essere sicuro di accattivarsi l’animo degli Spagnoli. E le armi sono molto terribili per le istituzioni popolari; perché l’aver vinto sul campo di battaglia, abitua a trasferire nelle città l’ordine e la disciplina militare.

Fin dai tempi di Ferdinando e d’Isabella il soglio dei re di Castiglia poggiò tanto in alto che le libere istituzioni in confronto a loro appena si distinguevano. E se dopo la morte della regina il popolo e i Grandi tornarono ad apparire sulla scena ciò dipese dai dissapori tra Ferdinando il Cattolico e Filippo il Bello, che fecero perdere al trono l’unità e di conseguenza la forza. Ma poi, cessate quelle condizioni, si vide sulla scena solamente il trono; e questo non solo negli ultimi giorni di Ferdinando, ma anche sotto la reggenza di Cisneros.

I Castigliani, esacerbati dagli eccessi dei Fiamminghi, ed animati forse dalla speranza della debolezza che suole portarsi appresso il regno di un monarca giovanissimo, tornarono ad alzare la voce. I reclami ed i lamenti degenerarono ben presto in tumulti, e poi finirono in aperta insurrezione.

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Nonostante le molte circostanze che favorivano oltremisura i popolani, e nonostante questa situazione fosse comune a tutte le province della monarchia la ribellione, quantunque fosse consistente, non presentò tuttavia l’estensione e la gravità di un’insurrezione nazionale. Una buona parte della penisola si mantenne in una effettiva neutralità ed un’altra aderì al partito del monarca. Se non giudico male questo fatto indica l’immenso prestigio che aveva acquistato il trono, il quale era già considerato l’istituzione più poderosa e predominante.

Tutto il regno di Carlo V fu dedicato a completare l’opera iniziata; essendosi inaugurato sotto gli auspici della battaglia di Villalar, continuò con una serie ininterrotta di guerre in cui i tesori e il sangue degli Spagnoli furono versati con incredibile prodigalità per tutti i paesi d’Europa, Africa e America. Non si lasciava neanche il tempo alla nazione di pensare ai propri affari, essa era quasi sempre priva della presenza del suo re e divenne come una provincia di cui l’imperatore di Germania, dominatore dell’Europa, disponeva a suo piacere. È anche vero che le Cortes del 1538 alzarono alta la voce e diedero a Carlo una lezione severa invece del servizio ch’egli chiedeva, ma era ormai troppo tardi: la conseguenza fu che il clero e la nobiltà furono esclusi dalle Cortes, e la rappresentanza di Castiglia fu ristretta per il futuro ai soli procuratori, fu condannata cioè a non esser più che un mero simulacro di quello che era prima, ed uno strumento della volontà dei re.

Si è detto molto contro Filippo II, ma a mio parere egli non fece altro che stare al suo posto e lasciare che le cose seguissero il corso naturale. La crisi era ormai passata, la questione era stata decisa, e affinché la nazione recuperasse l’influenza che aveva perduto fu necessario che sulla Spagna passasse l’azione riformatrice dei secoli.

Ma non si deve credere con questo che il processo di formazione del potere assoluto fosse terminato e che non rimanesse traccia dell’antica libertà. Questa si era rifugiata in Aragona ed in Catalogna, ma nulla poteva contro quel colosso che la teneva a freno dal centro di un paese già tutto dominato dalla capitale della Castiglia. Forse i sovrani avrebbero potuto fare un tentativo audace, come quello di vibrare un unico colpo ben assestato su coloro che ancora li ostacolavano; ma per quanto fosse grande la possibilità di un esito favorevole grazie ai molti mezzi di cui disponevano, si guardarono bene dal farlo: permisero agli abitanti di Navarra e del regno di Aragona di godere tranquillamente delle loro franchigie, prerogative e privilegi, fecero sì che il contagio non si attaccasse alle altre province, e con attacchi parziali e generali ottennero col passar del tempo che lo zelo per le antiche libertà venisse raffreddato, e che gradatamente i popoli si abituassero all’azione livellatrice del potere centrale (13). Torna all’indice

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CAPITOLO LXVII

Libertà politica e intolleranza religiosa. Sviluppo europeo sotto l’influenza esclusiva del Cattolicesimo. Quadro dell’Europa dal secolo undicesimo fino al sedicesimo. Condizioni del problema sociale alla fine del secolo quindicesimo. Potere temporale dei Papi: suo carattere, origine ed effetti.

_______________ Nel quadro fin qui abbozzato, del quale nessuno può mettere in dubbio la

rigorosa esattezza, non si nota alcuna influenza persecutoria del Cattolicesimo e non vi si scopre alcuna alleanza fra il clero e il trono per distruggere la libertà; allo sguardo si presenta soltanto l’andamento regolare e naturale delle cose con il progressivo succedersi degli avvenimenti sviluppatisi gli uni sugli altri, come la pianta sulla semenza.

Riguardo all’Inquisizione credo di averne parlato già abbastanza nei capitoli ad essa dedicati; qui voglio soltanto osservare che non è vero che si piegasse alla volontà dei sovrani e che venisse da questi utilizzata come strumento politico. Il suo scopo era religioso; e tanto poco era propensa a compiacere la volontà del sovrano che, come abbiamo già visto, non aveva alcuna difficoltà a condannare le dottrine che accrescevano ingiustamente le facoltà del re. Se mi si obbietta che l’Inquisizione era per sua natura intollerante, e che quindi si opponeva allo sviluppo della libertà, risponderò che la tolleranza, così come l’intendiamo adesso, non esisteva allora in nessun paese d’Europa; e che appunto in mezzo all’intolleranza religiosa si emanciparono i Comuni, si organizzarono le municipalità e si stabilì il sistema delle grandi assemblee che sotto nomi diversi intervenivano più o meno direttamente nei pubblici affari.

Le idee non si erano ancora snaturate al punto di far credere che la religione fosse amica e sostenitrice dell’oppressione del popolo. Al contrario, proprio il popolo nutriva un vivo desiderio di libertà e di progresso che nella sua mente si accordava perfettamente con una fede tanto ardente ed entusiasta da considerare come giustissimo e salutare il non tollerare idee opposte all’insegnamento della Chiesa romana.

L’unità nella fede cattolica non costringe i popoli con una mano di ferro, non impedisce affatto che si muovano in tutte le direzioni: la bussola che nell’immensità dell’Oceano impedisce ai naviganti di perdere l’orientamento non fu mai chiamata oppressione.

Era forse priva di grandezza, varietà e bellezza l’antica unità della civiltà europea? Quell’unità cattolica che presiedeva ai destini della società, ne impediva forse il progresso anche nei secoli barbari? Avete mai fissato lo sguardo sul grandioso e gradevole spettacolo che presentano i secoli anteriori al sedicesimo? Fermiamoci un momento a considerarlo, così si capirà meglio quanto sia vera la mia tesi, che cioè lo sviluppo della civiltà fu fuorviato dal Protestantesimo.

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Con l’immensa scossa prodotta dalla colossale impresa delle crociate si può capire come fermentarono i poderosi elementi riposti nel seno della società. Ravvivatane l’azione con gl’incontri e gli scontri, e moltiplicatesi le forze col riunirle insieme, ovunque e in tutte le direzioni si diffuse un movimento di calore e di vita, sicuro annuncio dell’alto grado di civiltà e di cultura che l’Europa stava per raggiungere. Come se una voce potente avesse richiamate in vita le scienze e le arti, queste apparvero di nuovo nella società, e reclamavano ad alta voce protezione ed accoglienza favorevole; e i castelli feudali, retaggio dei costumi dei popoli conquistatori, furono illuminati all’improvviso da un raggio di luce che percorse tutti i paesi e le regioni con la velocità del fulmine. Quelle moltitudini di uomini che con tanta fatica lavoravano curvi la terra a vantaggio dei loro signori alzarono la fronte, e con l’ardore nel cuore e la franchezza sulle labbra chiesero la loro parte dei beni della società; e scambiandosi tra loro uno sguardo di intelligenza e d’intesa, si unirono insieme, e così uniti reclamarono ad alta voce che le leggi venissero a sostituire gli abusi.

Allora si formarono e s’ingrandirono le borgate e le città, e si cinsero di mura; si fondarono e si svilupparono le istituzioni municipali; e i re, che fino a quel momento erano stati lo zimbello dell’orgoglio, dell’ambizione e dell’ostinazione dei signori, approfittando di una così favorevole occasione, fecero causa comune col popolo. Il feudalesimo, minacciato a morte, entrò coraggiosamente nella lotta, ma invano: una forza più potente dell’acciaio stesso dei suoi avversari lo tratteneva; come se fosse oppresso dall’ambiente che lo circondava si sentiva impacciato nei movimenti e indebolito del suo vigore; e disperando oramai della vittoria si abbandonò ai piaceri ai quali lo attirava lo sviluppo delle arti.

Cambiando la corazza di ferro con le vesti delicate, il forte scudo con l’insegna del lusso, il contegno e l’aspetto guerresco con le gentili maniere di corte, minava così dalle sue stesse fondamenta tutto il suo potere lasciando che l’elemento popolare si sviluppasse completamente e che il potere dei monarchi acquistasse ogni giorno maggiore forza.

Consolidato il potere dei re, sviluppate le istituzioni municipali, minato e indebolito il feudalesimo, crollando sotto i colpi di tanti avversari i residui di barbarie e di oppressione ancora presenti nelle leggi, si vide un numero considerevole di grandi nazioni presentare, e questo per la prima volta nel mondo, il pacifico spettacolo di alcuni milioni d’individui riuniti in società, e che godevano dei diritti di uomo e di cittadino.

Fino allora la quiete pubblica e l’esistenza stessa della società erano state preservate dal fatto che gran parte degli uomini era ridotta in schiavitù, e quindi impedita a partecipare alla vita politica; il che testimonia la degradazione e nello stesso tempo la debolezza intrinseca delle antiche costituzioni. La religione cristiana con quel coraggio che viene ispirato dal sentimento delle proprie forze e dall’ardente amore per l’umanità, non

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dubitando affatto di avere a disposizione molti altri mezzi per frenare l’uomo senza che vi fosse bisogno di ricorrere alla degradazione e alla forza, aveva risolto il problema nel modo più brillante e generoso. Essa aveva detto alla società: «Tu temi questa moltitudine immensa che non ha titoli sufficienti per meritare la tua fiducia? Ebbene: io me ne rendo garante; tu la tieni soggiogata con una catena di ferro, io dominerò il suo cuore. Scioglila tranquillamente, e questa moltitudine che ti fa tremare come se fosse un branco di bestie feroci si muterà in una classe utile per sé e per te stessa». Questa parola era stata ascoltata; e liberati che furono tutti gli uomini dal ferreo giogo, iniziò quella nobile gara che doveva portare la società ad un giusto equilibrio senza distruggerla e senza scuoterla dalle fondamenta.

Abbiamo già visto che in quei tempi si trovavano di fronte avversari molto potenti; e sebbene fossero inevitabili alcuni scontri più o meno violenti nulla però faceva presagire grandi catastrofi, purché funeste coincidenze non venissero a infrangere il freno (l’unico capace di dominare tanti cuori ardenti e talvolta inaspriti), cioè a toglier di mezzo quella voce forte che aveva detto ai combattenti: basta; quella voce che veniva ascoltata con maggiore o minore docilità, ma sempre quanto bastava per temperare il calore delle passioni, moderare l’impeto degli scontri e prevenire scene di sangue.

Dando un’occhiata all’Europa tra la fine del quindicesimo e l’inizio del sedicesimo secolo, nel cercare gli elementi che emergevano sulla società e che entrando in lotta fra loro potevano disturbarne la pace, si nota che il potere reale si era già molto innalzato al disopra dei signori e del popolo. Se rammentiamo come esso cercava di compiacere i suoi rivali avvicinandosi agli uni per sottomettere gli altri, si capisce facilmente che quel potere era ormai indistruttibile. Tuttavia, stretto tra le memorie della superba aristocrazia feudale e la forza sempre crescente ed invadente del popolo, doveva comunque restare il centro che proteggesse la società dalle violenze e dagli eccessi. Era tanto evidente che ci si dirigeva verso questa meta, che con maggiore o minore chiarezza, e con caratteristiche più o meno simili, dappertutto si presentava lo stesso fenomeno.

Le nazioni erano grandi, sia per estensione che per popolazione; con l’abolizione della schiavitù era stato stabilito il principio che l’uomo doveva vivere libero nella società usufruendo dei suoi benefìci fondamentali, e aveva la strada aperta per poter occupare qualunque posizione nella scala gerarchica, secondo i mezzi di cui poteva disporre per conseguirla. Fin da allora la società diceva a ciascun individuo: «Ti riconosco come uomo e come cittadino, e fin da questo momento ti garantisco questi diritti; se vuoi condurre una vita tranquilla in seno alla tua famiglia lavora e fa’ dei risparmi, e nessuno ti sottrarrà il frutto dei tuoi sudori né frapporrà limiti all’esercizio delle tue facoltà; se desideri grandi ricchezze osserva come le acquistano gli altri e sviluppa lo stesso grado di attività e di conoscenze; se aspiri alla gloria, se ambisci a cariche importanti ed ad alti titoli, sono a tua disposizione le scienze

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e le armi; se la tua famiglia ti ha trasmesso un nome illustre, potrai aumentarne lo splendore, altrimenti potrai guadagnartelo tu stesso».

Questo era l’aspetto della società sul finire del quindicesimo secolo. Tutte le conoscenze erano a portata di mano; tutti i grandi mezzi d’azione erano stati attuati e si andavano sviluppando rapidamente; la stampa trasmetteva le idee da un’estremità all’altra del mondo con la rapidità del lampo, e ne garantiva il passaggio alle generazioni future; le relazioni tra i popoli, il rifiorire delle belle lettere e delle arti, la cultura delle scienze, l’amore per i viaggi e l’attitudine al commercio, la scoperta di una nuova strada per le Indie orientali e di quella delle Americhe, la propensione per i negoziati politici onde regolare le relazioni tra le nazioni; tutto era stato già preparato perché gli animi ricevessero quel forte impulso e quella scossa che risveglia e sviluppa tutte le facoltà dell’uomo e comunica ai popoli una nuova vita.

In presenza di fatti così positivi e sicuri e di tale enorme importanza, che basta aprire il libro di storia per restarne subito colpiti, non si riesce a capire come si sia potuto dire seriamente che il Protestantesimo fece progredire il genere umano. Se prima della riforma di Lutero la società fosse stata stazionaria nel suo caos in cui era stata immersa dalle scorrerie dei barbari; se i popoli non fossero riusciti a costituirsi in grandi nazioni con forme di governo più o meno bene ordinate, e comunque migliori di quelle che le avevano precedute; se l’amministrazione della giustizia più o meno bene esercitata non avesse avuto un sistema legislativo fortemente morale, ragionevole ed equo da cui attingere per formulare le sue sentenze; se i popoli non avessero scosso in gran parte il giogo del feudalesimo acquistando così gran quantità di mezzi per la conservazione e difesa della libertà; se il governo amministrativo non avesse già fatto passi da gigante con la fondazione, l’ampliamento e lo sviluppo delle municipalità; se con l’ingrandirsi, rafforzarsi e consolidarsi il potere reale non si fosse formato nella società un forte centro di potere per operare il bene, impedire il male, tenere a freno le passioni, prevenire contrasti dannosi e vigilare sugl’interessi generali, fornendo una costante protezione e uno sprone continuo; se non si fosse già vista fin da allora in tutti i popoli un’acuta intuizione dello scoglio contro cui la società correva il rischio d’infrangersi se si fosse lasciata senza alcun genere di contrappeso la potenza dei re; se tutto questo, dunque, fosse accaduto dopo la rivoluzione religiosa del sedicesimo secolo allora l’asserzione potrebbe avere qualcosa di verosimile, o almeno non avrebbe l’inconveniente di apparire in aperta contraddizione con i più certi ed innegabili fatti.

Ammetto senz’altro che in campo sociale, politico ed amministrativo siano stati fatti fin da allora grandi progressi; ma ne consegue forse che siano dovuti alla riforma protestante? Per provarlo occorrerebbe che due società perfettamente simili per la loro situazione e per le circostanze, ma separate da un lungo intervallo di tempo affinché l’una non potesse influire sull’altra,

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fossero state soggette, una all’influenza cattolica, e l’altra a quella protestante. In tal caso le due religioni avrebbero potuto dire: questa è opera mia. Ma confrontare l’oggi con tempi molto diversi; circostanze che non sono per niente simili; epoche che presentavano situazioni eccezionali con epoche normali; e non considerare che i primi passi in tutte le cose sono sempre i più difficili e che il maggior merito è quello dell’invenzione; ed ostinarsi, anche dopo esser caduti in errori di logica tanto evidenti, ad attribuire ad un fatto (la nascita del Protestantesimo) tutti gli altri fatti (relativi al progresso della civiltà) solamente perché questi sono superiori a quello: in questo modo non si mostra di desiderare sinceramente la verità; ma piuttosto l’interesse di falsificare la storia.

L’assetto della società europea, così come lo trovò il Protestantesimo, non era certamente quello che doveva essere, ma era tuttavia tutto quello che poteva essere. A meno che la Provvidenza avesse voluto guidare il mondo a forza di prodigi non era possibile in quei tempi che l’Europa fosse strutturata in modo migliore. Aveva in sè gli elementi di progresso, di compiacimento, di civiltà e di cultura, e questi erano abbondanti e forti. Con l’andar del tempo si andavano sviluppando in una maniera veramente meravigliosa; e poiché a furia di dolorose esperienze le dottrine dissolutrici vanno perdendo sempre più il loro prestigio e il loro credito, non è forse lontano il giorno in cui tutti i filosofi che studiano in modo imparziale questa epoca della storia converranno che la società a quel tempo aveva ricevuto il più giusto impulso; e che venendo il Protestantesimo a traviarne il percorso, non fece che deviarla su di un sentiero disseminato di scogli dove è stata in procinto d’infrangersi, e dove forse s’infrangerebbe ancora se la mano dell’Altissimo non fosse più potente del debole braccio dell’uomo.

I Protestanti si vantano di aver fatto un grande servizio alla società portando la distruzione in alcuni paesi e indebolendo in altri l’autorità dei Papi. Riguardo alla supremazia in materia di fede basti ciò che dissi sulle disastrose conseguenze dello spirito privato; e per quanto concerne la disciplina, siccome non voglio ingolfarmi in materie che allargherebbero troppo i limiti di quest’opera, pregherò soltanto i miei avversari di riflettere se sia prudente lasciare una società diffusa su tutta la terra senza legislatore, senza giudice, senza arbitro, senza consultore, senza capo.

Potere temporale. Questa parola è stata per molto tempo lo spauracchio dei re, l’insegna dei partiti anticattolici, il laccio che ha fatto cadere molti uomini di sicura fede, il bersaglio su cui hanno maggiormente diretto i loro strali uomini politici insoddisfatti, scrittori offesi, arcigni canonisti; e non c’è niente di più logico, perché in questa materia incontravano un vasto campo per sfogare i loro risentimenti e divulgare sospette dottrine, essendo sicuri che mostrando il loro zelo per l’autorità dei sovrani avrebbero trovato presso la reggia una sicura protezione contro qualunque disgrazia avesse potuto loro capitare. Non è qui il posto per discutere una materia che ha dato motivo a

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tante dispute accalorate ed erudite; e tanto meno è opportuno, in quanto nello stato attuale delle cose nessuna potenza può avere il minimo sospetto riguardo ad usurpazioni temporali della Santa Sede. Questa, in tutti i tempi e checché ne dicano i suoi nemici ha mostrato, anche umanamente parlando, più prudenza, giudizio, pazienza e saggezza di qualunque altra autorità sulla terra; anche nei difficilissimi tempi moderni ha saputo mettersi in una posizione tale da restare (senza diminuirne la dignità, senza allontanarsi dai suoi alti doveri) libera di agire secondo ciò che esigono le diverse circostanze.

Non c’è dubbio che il potere temporale del Papa nel corso dei tempi si era elevato ad un’altezza tale che già non era più soltanto il successore di S. Pietro, ma un consigliere, un arbitro, un giudice universale dalle cui sentenze, anche in materia puramente politica, era pericoloso prendere le distanze. Con l’avanzare del progresso in tutta Europa questo potere si era un po’indebolito; ma alla nascita del Protestantesimo conservava ancora una tale influenza sugli animi, ispirava tali sentimenti di venerazione e rispetto, e disponeva di mezzi tanto forti per difendere i suoi diritti, per sostenere le sue pretese, sostenere i suoi decreti e far rispettare i suoi pareri, che anche i più potenti sovrani d’Europa consideravano un grave inconveniente provocare il dissenso della Sede di Roma in qualsiasi faccenda. Per cui cercavano sempre di propiziarsene la benevolenza e di guadagnarne l’amicizia; e così Roma divenne il centro universale dei negoziati, e non vi era faccenda di una certa importanza che potesse sottrarsi alla sua influenza.

Si è tanto declamato contro questo enorme potere, contro questa pretesa usurpazione di diritti, che i Papi finirono per esser visti come una manica di grandi cospiratori che con i loro maneggi e i loro artifici aspirassero niente di meno che alla monarchia universale.

Giacché i declamatori hanno fondato le rimostranze sul loro presunto spirito di osservazione e di analisi dei fatti, avrebbero dovuto osservare che il potere temporale dei Papi si rinforzò e si estese quando non era ancora costituito concretamente alcun altro potere. Quindi chiamarlo usurpazione, non solamente è un’inesattezza, ma anche un anacronismo. Nella confusione generale in cui si trovavano immerse tutte le società europee durante l’invasione dei barbari, nell’informe e mostruoso miscuglio che avvenne di razze, di leggi, costumi e tradizioni, non restò altra base su cui poter formare la civiltà e la cultura, né altra fonte di luce che illuminasse quel caos, né altro elemento che bastasse a fecondare il seme di rigenerazione che giaceva sepolta in mezzo alle rovine e al sangue, al di fuori del Cristianesimo; il quale, dominando, umiliando, annientando i resti delle altre religioni, s’innalzò come una colonna solitaria nel centro di una città in rovina, come un faro luminoso in mezzo ad un mare di tenebre.

Barbari com’erano i popoli conquistatori, e superbi dei loro trionfi, ciononostante piegavano il capo sotto la verga dei pastori del gregge di Gesù Cristo; e questi uomini così singolari per loro, che parlavano con un

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linguaggio superiore e divino, acquistarono sui feroci capi di quelle genti un’influenza tanto efficace e durevole che col passare del tempo non venne mai meno. Ecco la radice del potere temporale: e ben si arriva a comprendere che, elevato il Papa sopra tutti gli altri pastori dell’edificio della Chiesa, come la superba cupola sulle altre parti di un tempio magnifico, il suo potere doveva allo stesso modo elevarsi al di sopra del potere temporale dei semplici vescovi e gettare altresì radici più profonde, più vigorose, più solide e sempre più estese. Tutti i princìpi delle leggi, tutte le basi della società, tutti gli elementi della cultura, tutto quanto era rimasto di arti e di scienze, tutto era in mano alla religione, e come conseguenza naturale fu messo tutto sotto la tutela del soglio pontificio, essendo questo l’unico potere che operava con ordine, continuità e organizzazione, l’unico che presentava garanzie di stabilità e di fermezza. A guerre succedettero guerre, tumulti ad altri tumulti, a forme di governo altre forme, ma il fatto dominante, straordinario, universale, fu sempre lo stesso: ed è cosa che fa veramente ridere sentire tanti declamatori chiamare «serie di attentati e di usurpazioni contro il potere temporale» un fenomeno così naturale, così inevitabile e soprattutto di così grande utilità.

Perché un potere sia usurpato bisogna che esista; e dove esisteva allora? Forse nel re, zimbello e spesso anche vittima di orgogliosi baroni; o nei signori feudali che erano in continua guerra tra loro, con i re e con i popoli? Forse nel popolo, massa di schiavi che grazie agli sforzi della religione andava lentamente emancipandosi, che riunendosi per opporsi ai signori, alzando la voce per reclamare la protezione dei re, o domandando alla Chiesa un aiuto contro le violenze e le vessazioni degli uni e degli altri, altro non era che un confuso embrione di società, senza regole fisse, senza governo e senza leggi? Con quale onestà si è potuto paragonare i nostri tempi a quelli di allora, e si è voluto applicare regole sulla limitazione dell’autorità, le quali regole possono essere ammesse solo in quella società che, avendo già sviluppati gli elementi di vita e di civiltà fondate su basi ferme e durevoli, disciplinano le funzioni dei poteri sociali, entrando nei più minuti dettagli sui limiti delle rispettive attribuzioni?

Immaginare qualcosa di diverso è come chiedere ordine al caos e uniformità alle onde in una burrasca. Bisognerebbe anche ricordarsi di un fatto universale e costante fondato sulla natura stessa delle cose, fatto di cui la storia di tutti i tempi e di tutti i paesi ci dà continue lezioni, e che ci viene dimostrato soprattutto e in modo efficacissimo dalle rivoluzioni dei popoli moderni. Questo fatto è il seguente: ogni volta che nella società si sia generato un gran disordine, subito si presenta un principio forte per fermarlo. Comincia la lotta, si ripetono, si riaccendono, si moltiplicano gli scontri, ma infine il principio di disordine cede a quello di ordine, e colui che ha ottenuto il trionfo rimane per lungo tempo padrone nella società. Questo principio sarà più o meno giusto, più o meno ragionevole, più o meno violento, più o meno adatto a conseguire lo scopo; ma comunque esso sia, e qualunque sia, sempre

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prevale, purché durante la lotta non se ne presenti un altro migliore, o più forte, da potergli subentrare.

Ora, nel Medioevo questo principio era la Chiesa cristiana; ed essa era l’unica che potesse esserlo perché nei suoi dogmi aveva la verità, nelle sue leggi la giustizia, nel suo governo la regolarità e la prudenza. Era lei in quel tempo l’unico elemento di vita, la depositaria di quel pensiero sublime che non era né astratto, né vago, ma positivo, pratico ed applicabile, perché disceso dalla bocca di quel Signore la cui parola feconda il nulla e fa sorgere la luce dalle tenebre. Così successe che dopo aver fatto penetrare nel cuore della società i suoi dogmi sublimi, la Chiesa divenisse anche maestra dei costumi con la sua morale pura, caritatevole e consolatrice; e che le forme di governo e i sistemi legislativi venissero ispirati in varia misura dalla sua potente e soave influenza. Questi sono fatti e nient’altro che fatti, e se a questi ne aggiungiamo un altro, quello cioè che il centro di questa religione, che con tanti legittimi titoli andava estendendo il suo benefico predominio, era nelle mani del Pontefice romano, allora è molto chiaro che il potere del Pontefice dovesse inevitabilmente essere innalzato sopra tutti gli altri poteri della terra.

Se dopo aver contemplato questo magnifico quadro che la semplice e fedele narrazione della storia ci mette davanti agli occhi ci si ferma a considerare i vizi di alcuni uomini, si citano eccessi, errori e difetti, patrimonio inseparabile dell’umanità, si va frugando attraverso una lunga serie di oscuri secoli accumulandoli ed esponendoli tutti insieme perché colpiscano maggiormente e sorprendano la credulità e l’ignoranza; e si insiste sugli stessi, esagerandoli, sfigurandoli e dipingendoli con nere tinte; questo non fa altro che manifestare una vista ben corta e una scarsa conoscenza della filosofia della storia; e soprattutto significa avere uno spirito di faziosità, visuali molto basse, sentimenti meschini e miseri rancori. Bisogna dirlo a voce alta perché tutti sentano; è necessario ripeterlo mille e mille volte perché nessuno lo dimentichi: non si viene meno al rispetto dei limiti, quando i limiti non esistono; non si usurpa il potere quando lo si crea; non si violano le leggi quando le si forma; non si mette scompiglio nella società quando si sbroglia il caos in cui essa è avvolta: questo è ciò che fece la Chiesa, questo è ciò che fecero i Papi (14). Torna all’indice

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CAPITOLO LXVIII

È falso che l’unità nella fede e la libertà politica siano in opposizione. L’empietà si lega, secondo le sue convenienze, alla libertà o al dispotismo. Rivoluzioni moderne. Differenza tra la rivoluzione negli Stati Uniti d’America e quella francese. Cattivi effetti della rivoluzione francese. La libertà è impossibile senza la moralità. Importante passo di S. Agostino sulle forme di governo.

_______________ L’ opposizione assoluta, che si è voluta supporre tra l’unità nella fede e la

libertà politica, è un’invenzione della filosofia atea del secolo scorso. Qualunque sia l’opinione politica che si professa è molto importante

tenersi distanti da questa idea. E bisogna invece tener presente che la religione cattolica appartiene ad una sfera molto superiore a tutte le forme di governo, che non rigetta dal suo seno né il cittadino degli Stati Uniti, né l’abitante della Russia e accoglie tutti con la stessa tenerezza, che a tutti prescrive di ubbidire al governo legittimo stabilito nel proprio paese, che considera tutti come figli dello stesso Padre, come partecipi alla stessa redenzione, come eredi della stessa gloria. Ed è anche importante tener presente che l’irreligione fa lega con la libertà o col dispotismo secondo i suoi interessi; che si compiace nel vedere una plebe furibonda incendiare le chiese e scannare i ministri del Signore, e allo stesso modo sa adulare i monarchi, esaltandone oltre misura i poteri quando essi, spogliando il clero, rovesciando la disciplina o insultando il Papa, giungono a meritarne gli elogi. Che le importa dello strumento che adopera? Purché l’opera sia portata ad effetto vanno tutte bene. Sarà realista se potrà dominare l’animo dei re, espellere i gesuiti dalla Francia, dalla Spagna e dal Portogallo e perseguitarli in tutti gli angoli della terra senza dar loro né tregua né riposo; sarà liberale quando vi siano delle assemblee che esigano dal clero giuramenti sacrileghi, e mandino in esilio o al patibolo i ministri sacri fedeli ai loro doveri.

Bisogna aver dimenticato la storia, bisogna aver chiusi gli occhi ad una recente esperienza, per non conoscere la verità e l’esattezza di queste mie affermazioni.

Con la religione e la morale tutte le forme di governo possono andare avanti; senza di esse nessuna. Un monarca assoluto, imbevuto delle idee religiose, circondato da consiglieri di sana dottrina, regnando su un popolo dove tali dottrine non cessino di dominare, può fare la felicità dei suoi sudditi, e la farà senza alcun dubbio per quanto lo permettono le circostanze del luogo e del tempo. Un monarca empio, o diretto da consiglieri empî, farà tanto più danno quanto più ampi saranno i suoi poteri. Sarà da temere più della stessa rivoluzione, perché concepirà meglio i suoi disegni e li eseguirà con maggiore rapidità, con meno ostacoli, con più apparenza di legalità, con più pretesti di convenienza pubblica, e di conseguenza con maggior garanzia di esito positivo e immutabilità del risultato ottenuto. Le rivoluzioni hanno provocato

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certamente molti danni alla Chiesa; ma non sono minori quelli che le hanno causato quei monarchi che si sono abbandonati alla persecuzione. Un capriccio di Enrico VIII stabilì in Inghilterra il Protestantesimo; la cupidigia di altri prìncipi produsse lo stesso effetto nei paesi del Nord; e ai giorni nostri un decreto dell’autocrate di Russia costringe milioni di anime a vivere nello scisma.

Ne deriva allora che la monarchia non è da preferire se non è religiosa: l’irreligione, siccome è immorale per natura, per natura tende all’ingiustizia, e di conseguenza alla tirannia. Se giunge a sistemarsi su un trono assoluto, o domina la mente di chi l’occupa, i suoi poteri non avranno più limiti; ed io non conosco cosa più orribile dell’onnipotenza dell’empietà.

La democrazia europea negli ultimi tempi si è distinta in modo deplorevole per i suoi attentati criminali contro la religione; la qual cosa invece di favorirne la causa le ha causato un danno incredibile. Perché si può concepire che un governo sia più o meno folto quando nella società c’è la virtù, la morale, la religione; ma in mancanza di queste è impossibile. In tal caso non c’è altro sistema di governo che il dispotismo e l’impiego della forza, perché questa è l’unica che può governare gli uomini senza coscienza e senza Dio.

Se riflettiamo sulle differenze che passano tra la rivoluzione degli Stati Uniti d’America e la rivoluzione francese ci accorgeremo che una delle più importanti consiste nel fatto che la prima è stata democratica per essenza, la seconda essenzialmente empia. Nei manifesti con cui la prima diede inizio all’insurrezione si leggono dappertutto i nomi di Dio e della Provvidenza; gli uomini che si accinsero all’impresa pericolosa di emanciparsi dalla Gran Bretagna non bestemmiavano il Signore, ma anzi ne invocavano l’aiuto ben persuasi che la causa dell’indipendenza è la causa della ragione e della giustizia. In Francia invece si cominciò col fare l’apoteosi dei corifei dell’irreligione, si rovesciarono gli altari, s’inondarono le chiese, le vie e i patiboli del sangue dei sacerdoti, si mostrò ai popoli come emblema della rivoluzione l’ateismo che stringe la mano alla libertà. Questa demenza ha prodotto i suoi frutti: il fatale contagio si è propagato alle altre rivoluzioni degli ultimi tempi, il nuovo ordine di cose è stato inaugurato con attentati sacrileghi, e la proclamazione dei diritti dell’uomo ha dato inizio alla profanazione dei templi di quel Dio da cui derivano tutti i diritti.

È vero che i moderni demagoghi non hanno fatto altro che imitare i loro predecessori: i Protestanti, gli Ussiti e gli Albigesi. Con la sola differenza che ai tempi nostri l’empietà si è manifestata apertamente accanto alla sua degna compagna, la democrazia di sangue e di fango, mentre anticamente quest’ultima era associata al fanatismo delle sétte.

Le dottrine dissolutrici del Protestantesimo resero necessario un potere più forte, portarono alla rovina le antiche libertà ed obbligarono l’autorità a restare continuamente all’erta e pronta a colpire. Indebolita l’influenza del Cattolicesimo, fu necessario riempirne il vuoto con lo spionaggio e con la

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forza. Non dimenticate questo fatto, voi che fate la guerra alla religione in nome della libertà; non dimenticate che le stesse cause producono gli stessi effetti; che se non esistono le influenze morali, bisognerà supplire con la forza fisica; che se togliete ai popoli il dolce freno della religione, non lasciate altri mezzi di governo che la vigilanza della polizia e l’acciaio delle baionette. Meditate e regolatevi.

Prima del Protestantesimo la civiltà europea, posta sotto l’egida della religione cattolica, tendeva indubbiamente verso quell’armonia universale la cui mancanza ha portato alla necessità d’impiegare ingenti forze militari. L’unità della fede disparve, e così vennero introdotte la corruzione del pensiero e la discordia religiosa; in alcune parti si distrusse e in altre s’indebolì l’influenza del clero, e così si ruppe l’equilibrio delle classi e divenne inutile quella che per sua natura era destinata ad essere la mediatrice; s’indebolì il potere dei Papi, e così si tolse ai popoli ed ai governi un freno soave che li moderava senza rovesciarli e li correggeva senza umiliarli. Il risultato fu che i re e i popoli rimasero faccia a faccia senza una classe che avesse l’autorità d’interporsi per evitare i contrasti, e senza un giudice amico di tutti che, non parteggiando per nessuno, ponesse fine alle discordie. Il governo allora cercò un appoggio nelle armate, che allora venivano normalmente impiegate, ed il popolo lo trovò nelle insurrezioni.

E non ha nessun valore dire che nelle nazioni dove prevalse il Cattolicesimo accadde in politica qualcosa di simile che nei paesi protestanti; certamente anche tra i Cattolici gli avvenimenti non seguirono quell’andamento naturale che avrebbero seguito se non fosse sopraggiunta la malaugurata riforma. La civiltà europea per svilupparsi perfettamente aveva bisogno di conservare quell’unità da cui aveva avuto origine; non poteva avere altro mezzo per stabilire l’armonia tra i vari elementi che nutriva in seno. Appena disparve l’unità nella fede venne meno l’omogeneità; da quel momento ogni nazione si vide costretta ad organizzarsi nel modo più conveniente, non soltanto riguardo alle necessità interne, ma anche tenendo conto dei princìpi che regnavano nelle altre nazioni, dalla cui influenza era molto importante cautelarsi. Credete forse che la politica del governo spagnolo, difensore della causa cattolica contro potenti nazioni protestanti, non dovesse risentire fortemente delle circostanze eccezionali e sommamente pericolose in cui si trovava la Spagna?

Credo di aver dimostrato che la Chiesa non si è mai opposta allo sviluppo legittimo di qualsiasi forma politica, che ha preso tutti i governi sotto la sua protezione, e che di conseguenza è una vera calunnia dire, come tanti dicono, che la Chiesa è per sua natura nemica delle istituzioni popolari. Ho dimostrato anche, e in modo da non lasciare dubbi, che le sétte separate dalla Chiesa cattolica istigando una democrazia empia o accecata dal fanatismo. Invece di contribuire a creare una giusta e ragionevole libertà misero i popoli

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nell’alternativa di optare tra un abuso sfrenato della stessa libertà e il potere illimitato della suprema autorità.

Questa lezione della storia viene confermata dall’esperienza, e non sarà smentita neanche in futuro. L’uomo è tanto più degno di libertà quanto più è religioso e morale; poiché in questo caso ha meno bisogno di un freno esterno avendone uno fortissimo nella propria coscienza. Un popolo irreligioso ed immorale ha necessità di tutori che dirigano i suoi interessi; egli abuserà sempre dei suoi diritti, e otterrà come conseguenza che gli verranno tolti.

Sant’Agostino aveva compreso in modo meraviglioso queste verità, e in poche parole spiega con somma saggezza le condizioni necessarie per le diverse forme di governo. Il santo Dottore afferma che quelle popolari saranno adatte se il popolo è morigerato e di retta coscienza; ma se fosse corrotto, ci vorrà o l’aristocrazia ristretta a pochi, o la monarchia. Sono sicuro che si leggerà con molto piacere questo passo importante che in forma di dialogo si trova nel lib. 1 Del libero arbitrio, cap. 6:

«Agostino – Gli uomini e i popoli hanno forse una natura tale da non poter

né morire né mutare, sì da essere addirittura eterni? «Evodio – chi ha mai dubitato che siano mutevoli e soggetti all’azione del

tempo? «Agostino – Dunque se il popolo è moderato e saggio, ed anche custode

diligente del comune benessere in modo che ognuno preferisca l’interesse pubblico al proprio, non è forse vero che sarà una cosa buona stabilire per legge che il popolo elegga i propri magistrati per l’amministrazione della repubblica?

«Evodio – Sì, certamente. «Agostino – Ma se il medesimo popolo arriva a pervertirsi talmente che i

cittadini pospongano il pubblico bene al privato, se vende i voti, se corrotto dagli ambiziosi mette il governo della repubblica in mano ad uomini malvagi e rei della sua stessa risma, non è forse vero che se c’è una persona potente e di retta coscienza, essa farà bene a togliere al popolo il potere di conferire le cariche, e concentrare questo diritto nelle mani di poche persone oneste o anche di una sola?

«Evodio – Non c’è dubbio. «Agostino – E queste leggi, sembrando tanto opposte fra loro che una dà al

popolo il potere di conferire le cariche, e l’altra glielo toglie; ed essendo impossibile che tutte e due siano in vigore nello stesso tempo, dovremmo dunque dire che una di esse sia ingiusta, e che non doveva essere promulgata?

«Evodio – In nessuna maniera». Ecco detto tutto in poche parole: possono essere legittime, ed anche

opportune, sia la monarchia, che l’aristocrazia o la democrazia? Sì. Cos’è che

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ci deve far decidere su questa legittimità e convenienza? Il diritto vigente e le condizioni del popolo al quale vanno applicate queste forme. Quella che prima andava bene, può diventare non più adatta? Certamente, perché tutte le cose umane vanno soggette a mutazione. Queste riflessioni tanto salde quanto semplici preservano da qualunque eccessivo entusiasmo per questa o per quella forma politica. Non è una questione di pura teoria, ma bensì di prudenza; e la prudenza non emette il suo giudizio se non dopo aver considerato con matura riflessione tutte le circostanze.

Nella dottrina di sant’Agostino domina sempre il principio che ho riferito sopra; cioè la necessità di grandi virtù e di molto disinteresse nei governi liberi. Meditino bene le parole dell’insigne Dottore coloro che vogliono fondare la libertà politica sulla distruzione di tutte le dottrine.

E come volete che il popolo eserciti ampi diritti, se fate in modo di renderlo incapace, traviandone le idee e corrompendone i costumi? Affermate che nelle forme rappresentative attraverso le votazioni vengono elette la ragione e la giustizia che poi vanno ad operare nell’ambito del governo; e com’è allora che non vi date alcun pensiero che questa giustizia e questa ragione siano presenti nella società da cui si dovrebbero tirar fuori? Voi seminate vento, e per questo raccogliete tempeste; per questo invece di modelli di saggezza e di prudenza voi presentate ai popoli scene di scandalo. Non ci venite a dire che parlando in questo modo condanniamo il secolo, perché il secolo va avanti malgrado noi: noi non rigettiamo ciò che c’è di buono, ma non possiamo fare a meno di condannare il male. Il secolo va avanti, non c’è dubbio , ma né voi né noi sappiamo dove vada. Noi Cattolici sappiamo soltanto una cosa senza che per questo sia necessario essere profeti: che con uomini cattivi non si può formare una società buona; che gli uomini immorali sono cattivi; che mancando la religione, la morale non ha più base. Fermi nelle nostre credenze vi lasceremo tentare varie forme, cercare palliativi al male ed ingannare l’infermo con belle parole; le sue continue convulsioni e il continuo star male manifestano la vostra impotenza; e beato lui se si mantiene ancora nella sua inquietudine, indizio sicuro che non ne avete ancora conquistata la piena fiducia. Che se un giorno arrivaste ad ispirargliela sì che si dovesse sentire tranquillo tra le vostre braccia, quello stesso giorno si potrebbe dare per certo che ogni carne ha corrotto la sua strada; in quello stesso giorno si potrebbe temere, Dio non voglia, che l’uomo venga cancellato dalla faccia della terra. Torna all’indice

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CAPITOLO LXIX

Il Cattolicesimo nei suoi rapporti con lo sviluppo dell’intelletto. Si esamina l’influenza del principio di sottomissione all’autorità. Si ricerca quali ne siano gli effetti riguardo a tutte le scienze. Confronto tra gli antichi e i moderni. Dio. L’uomo. La società. La natura.

_______________ È stato accuratamente dimostrato nel corso dell’opera che la falsa riforma

non ha per niente contribuito al miglioramento né dell’individuo né della società; e da ciò è logico dedurre che neanche lo sviluppo delle conoscenze sia ad essa debitore. Ciò nonostante non voglio lasciare quest’ultima affermazione allo stato di semplice deduzione perché ritengo che sia possibile chiarirla con precisione. Si può iniziare la disamina andando direttamente a cercare i vantaggi che il Protestantesimo avrebbe procurato ai vari rami dell’umano sapere, senza timore che al Cattolicesimo ne venga alcun danno.

Quando si tratta di esaminare cose che per loro natura contengono tante e diverse relazioni, non basta pronunciare alcuni nomi illustri o citare enfaticamente un fatto o l’altro: in questo modo la questione non è posta sul suo vero terreno e non viene prospettata nel modo giusto. Se rimane circoscritta in un piccolo àmbito non può mostrarsi in tutta la sua estensione e varietà; e se la si fa vagare in uno spazio non ben definito, a chi non possiede uno sguardo penetrante essa presenta una certa universalità, elevazione e volo ardito, mentre invece non fa altro che ondeggiare con incertezza senza una fissa direzione e in balìa di ogni genere di contraddizione.

E allora se si vuole esaminare la questione come merita sarà necessario, secondo il mio parere, affrontare il principio cattolico e quello protestante e indagarne i più reconditi recessi per vedere fino a che punto vi si possa trovare qualcosa che aiuti od ostacoli lo sviluppo dello spirito umano. Ma dopo questo esame l’osservatore non sarà ancora soddisfatto, e dovrà fare qualcosa di più. Dovrà scorrere la storia del sapere e fermarsi in modo particolare su quelle epoche in cui l’influsso del principio di cui si vogliono conoscere le tendenze e gli effetti ha potuto prevalere. Sarà qui che, se si prescinderà da casi strani ed eccezionali che non provano nulla né a favore né contro e da quei fatti che per la loro piccolezza od unicità influiscono punto sul corso degli avvenimenti, se si solleverà lo sguardo alla giusta altezza con spirito di osservazione e col desiderio sincero di trovare la verità, si scoprirà se le considerazioni filosofiche vanno d’accordo con i fatti, e il problema sarà perfettamente risolto.

Uno dei princìpi fondamentali del Cattolicesimo, che è anche una delle sue caratteristiche distintive, è la sottomissione dell’intelletto all’autorità in materia di fede. Questo è il punto contro cui sono stati sempre diretti gli attacchi dei Protestanti, e lo sono tuttora; la qual cosa è più che naturale, perché essi professano come principio fondamentale e costitutivo la resistenza

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all’autorità; e tutti gli altri loro errori non sono altro che tanti corollari che derivano da questo principio corrotto. Se nel Cattolicesimo si scopre qualcosa che impedisce al nostro spirito di rinnovarsi e di elevarsi, dobbiamo ritrovarlo senza alcun dubbio nel principio di sottomissione all’autorità: ad esso dovremo addebitarne la colpa, se verrà stabilito che la religione cattolica ne abbia alcuna.

Non si può negare che chiunque senta parlare della sottomissione dell’intelligenza ad un’autorità, chiunque senta pronunciare questa parola, se non se ne spiega il vero senso e non si determinano gli oggetti ai quali è rivolta potrà pensare che in essa vi sia qualcosa che si opponga allo sviluppo della conoscenza. E se siete rispettosi della dignità dell’uomo, se siete entusiasti dei progressi scientifici, se vi è gradito vedere lo spirito umano alzarsi in volo per mostrare il suo vigore, la sua agilità e il suo ardire, non potrete fare a meno di sentire una certa avversione per un principio che, impedendo il volo della mente e lasciandola come un debole uccello annaspante, sembra condurre alla schiavitù. Ma se esaminando il principio qual è in sé, se applicandolo a tutti i campi scientifici e osservando quali siano i punti di contatto che ha con essi si troverà che questi timori e sospetti sono infondati, cosa resterà allora di vero delle calunnie a cui è stato sottoposto il Cattolicesimo? Quanto invece si scoprirà d’insulso e puerile nelle invettive che a questo proposito le sono state rivolte?

E allora esaminiamo a fondo questa difficoltà, affrontiamo il principio cattolico studiandolo con l’occhio di una filosofia che non sia di parte. Portiamolo subito con noi a fare il giro di tutte le scienze e interroghiamo la testimonianza dei più grandi uomini. E se scopriremo che questo principio si sia opposto al vero sviluppo di qualche ramo del sapere; e se andando a interrogare nelle loro tombe i più celebri ingegni, questi sollevando il capo dal sepolcro ci diranno che il principio di sottomissione all’autorità ne bloccò l’intelletto, ne oscurò l’inventiva o ne inaridì il cuore, in tal caso riconosceremo ai Protestanti la fondatezza delle accuse che per questo motivo rivolgono continuamente alla religione cattolica.

Dio, l’uomo, la società, la natura, l’intera creazione: ecco gli oggetti di cui può occuparsi il nostro spirito: non è opportuno allontanarsi da questo campo, perché è infinito, ed anche perché fuori di esso non c’è più nulla. Il progresso della conoscenza di Dio, dell’uomo, della società, della natura non imbarazza minimamente il principio cattolico: in nulla lo impedisce, in nulla gli si oppone; lungi dal recargli danno, può considerarsi come un gran faro che invece di opporsi alla libertà del navigante gli serve piuttosto di guida perché non perda la rotta nelle tenebre della notte.

Cosa mai potrà trovarsi nel principio cattolico che si opponga al volo dell’umano intelletto in tutto ciò che appartiene alla Divinità?

Non potranno certo dire i Protestanti che ci sia qualcosa da correggere nell’idea che la religione cattolica dà di Dio. Essi sono d’accordo con noi che

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l’idea di un Essere eterno, immutabile, infinito, creatore del cielo e della terra, giusto, benefico, santo, che premia il bene e punisce il male, sia l’unica che possa presentarsi come ragionevole all’intelletto dell’uomo.

La religione cattolica unisce a quest’idea un mistero inimmaginabile, profondo, ineffabile, coperto con cento veli agli occhi del debole mortale: l’augusto arcano della Trinità. Ma riguardo a questo i Protestanti non possono rinfacciare nulla ai Cattolici, a meno che non vogliano dichiararsi apertamente partigiani di Socino. I Luterani, i Calvinisti, gli Anglicani e molte altre sétte condannano come noi coloro che negano l’augusto mistero: e qui si osservi che Calvino fece bruciare vivo a Ginevra Michele Serveto per le dottrine eretiche che costui diffondeva sulla Trinità.

Non ignoro i danni che il socinianesimo ha provocato nelle chiese separate, dove lo spirito privato e il diritto di libero esame in materia di fede trasformano i Cristiani in filosofi atei; ma questo non toglie che il mistero della Trinità sia stato rispettato per lungo tempo dalle principali sétte protestanti, e che lo sia tutt’ora, almeno in apparenza, nella maggior parte di esse.

Oltretutto io non riesco a capire quale possa essere l’ostacolo che questo mistero ponga alla ragione nelle sue contemplazioni sulla Divinità. Le vieta forse di spaziare in un immenso orizzonte? Restringe ed oscura quel mare di Essere e di Luce che è racchiuso nella parola Dio? Quando lo spirito umano, sollevandosi al di sopra della realtà creata e liberandosi per alcuni momenti dal corpo che lo grava, si abbandona a sublimi meditazioni sull’Essere infinito, creatore del cielo e della terra, l’augusto mistero forse gli si fa avanti per fermarlo od ostacolarlo? Lo dicano gl’innumerevoli volumi scritti sulla Divinità: essi sono una testimonianza eloquente ed indiscutibile della libertà che rimane all’intelletto dell’uomo, ovunque domini la religione cattolica.

Le dottrine cattoliche sulla Divinità si possono considerare sotto due aspetti: in quanto si riferiscono ai misteri che superano l’intelligenza umana; o in quanto c’insegnano ciò che è a portata della ragione. Il primo aspetto è situato in una sfera così alta, e si riferisce a oggetti talmente superiori ad ogni pensiero creato, che la ragione, anche se si abbandonasse alle indagini più estese, più profonde e nello stesso tempo più libere, non potrebbe mai, senza la rivelazione, concepire la più remota idea di misteri tanto ineffabili. Non potranno mai essere d’intralcio l’una all’altra quelle cose che non s’incontrano perché appartengono a realtà del tutto diverse e che si trovano ad un’immensa distanza tra loro. L’intelletto può meditare sopra una di esse, anche inabissarvisi, senza pensare all’altra: l’orbita della luna, che ha a che fare con quella dell’astro che gira nella più lontana regione delle stelle fisse?

Temete forse che la rivelazione di un mistero limiti lo spazio dove può estendersi la vostra ragione? O di rimanere soffocati dalla limitatezza del luogo quando divagate per l’immensità? Mancò forse un vastissimo spazio al genio di Cartesio, di Gassendo e di Malebranche? Si lamentarono mai che la

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loro intelligenza si trovasse limitata e ristretta? E come potevano farlo, se non solamente essi, ma tutti i dotti moderni che hanno trattato della Divinità non possono fare a meno di ammettere che vanno debitori al Cristianesimo dei più alti e sublimi pensieri con cui hanno arricchito le loro opere? Quando gli antichi filosofi ci parlano della Divinità restano ad un’immensa distanza dal minimo dei nostri teologi e metafisici; lo stesso Platone, cosa sarà mai se lo confrontiamo a Granata, a Luigi di Leone, a Fenelon o Bossuet? Prima che apparisse sulla terra il Cristianesimo, e prima che la fede della cattedra di San Pietro si fosse impadronita del mondo, essendo state dimenticate le primitive nozioni sulla Divinità l’intelligenza umana divagava in balìa di mille mostruosità e di mille errori; e sentendo la necessità di un Dio metteva al suo posto i parti della propria fantasia. Dacché apparve però quell’ineffabile splendore che, scendendo dal seno del Padre dei lumi, dà luce a tutta la terra, le idee sulla Divinità sono rimaste così salde, così chiare, così semplici, e nel medesimo tempo così grandi e sublimi, che hanno espanso la ragione umana, hanno sollevato il velo che copriva l’origine dell’universo, hanno annunciato quale ne fosse il destino, ed hanno data la chiave per la spiegazione di tanti prodigi quanti ne vede l’uomo in se stesso e in tutte le cose che lo circondano.

I Protestanti sentirono la forza di questa verità: il loro odio contro tutto ciò che proveniva dai Cattolici degenerava in fanatismo; ma per ciò che riguarda l’idea di Dio, generalmente parlando, si può dire che la rispettarono. Questo è il punto in cui si fece meno sentire lo spirito innovatore: non poteva essere diversamente! Il Dio dei Cattolici era troppo grande perché gli potesse essere sostituito un altro Dio: Newton e Leibnitz, abbracciando nei loro calcoli e meditazioni il cielo e la terra, non trovarono null’altro da dire sull’Autore di tante meraviglie fuor che quello che era stato già detto in precedenza dalla religione cattolica.

Felici i Protestanti, se in mezzo ai loro traviamenti avessero almeno conservato questo prezioso tesoro; se seguendo fedelmente le orme dei loro predecessori avessero rigettato quella mostruosa filosofia che minacciava di riesumare tutti gli errori antichi e moderni, incominciando col sostituire quel deforme panteismo al Dio sublime dei Cristiani. Ne siano avvertiti quei Protestanti che professano amore per la verità e hanno cura dell’onore della loro comunione per il bene della loro patria e per l’avvenire del mondo! Se il panteismo dovesse arrivare a prevalere non sarà la filosofia spiritualista quella che uscirà trionfante, bensì la materialista. Invano i filosofi tedeschi si abbandonano all’astrazione e all’enigma, invano condannano la filosofia sensualista del secolo passato: un Dio confuso con la natura non è Dio; un Dio che s’identifica con tutto è un nulla; il panteismo è l’apoteosi dell’universo, cioè la negazione di Dio.

La piega che vanno prendendo gli spiriti in diversi paesi d’Europa, e particolarmente in Germania, suggerisce dolorose riflessioni. I Cattolici avevano avvertito che chi avesse iniziato ad opporsi all’autorità negando un

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dogma avrebbe finito col negarli tutti, col precipitarsi nell’ateismo; e il percorso che hanno seguito le idee negli ultimi tre secoli ha confermato pienamente la previsione. Cosa incredibile! La filosofia tedesca si accinse a promuovere una reazione contro la scuola materialista, e con tutto il suo spiritualismo ha finito col diventare panteista. Pare che la Provvidenza abbia voluto rendere sterile per la ricerca della verità quel secolo da cui uscirono gli araldi dell’errore. Fuori della Chiesa tutto è stordimento, tutto è delirio. Si abbracciano alla materia e si fanno atei! Divagano per regioni ideali, vanno in cerca dello spirito, e si fanno panteisti! È proprio vero che Dio ha sempre in orrore l’orgoglio e ripete il tremendo castigo della confusione di Babele. Questo è un trionfo per la religione cattolica, ma è un ben triste trionfo!

Un’altra cosa che non comprendo è come possa il Cattolicesimo fermare il volo dell’intelletto su ciò che riguarda lo studio dell’uomo. Su questa materia cosa esige da noi la Chiesa? Qual è l’insegnamento che ci dà? Qual è il luogo dove sono contenute le dottrine alle quali ci viene proibito di opporci?

I filosofi si sono divisi in due scuole: quella dei materialisti e quella degli spiritualisti. I primi affermano che la nostra anima non è che una parte di materia la quale, modificata in una certa maniera, produce dentro di noi ciò che chiamiamo pensare e volere. I secondi pretendono che le attività che svolgono il pensiero e la volontà sono incompatibili con l’inerzia della materia; e che ciò che è divisibile, ciò che è costituito di molte parti, e quindi di molti esseri, non è compatibile con la semplice unità, la quale si deve trovare necessariamente nell’essere che pensa, che vuole, che rende conto a se stesso di tutto, e che possiede il profondo sentimento di un io; e così sostengono che l’opinione contraria è falsa ed assurda, e lo provano con ogni specie di ragionamenti. La Chiesa cattolica, intervenendo nella contesa, ha detto: «L’anima dell’uomo non è corporea, ma è uno spirito; chi vuole essere Cattolico non può essere materialista». Domandate però alla Chiesa qual è il sistema con cui devono spiegarsi le idee, le sensazioni, gli atti della volontà, i sentimenti dell’uomo; domandateglielo e vi risponderà che siete in piena libertà di pensare su questo fatto quel che vi sembrerà più ragionevole: il dogma non scende alle questioni di dettaglio, le quali appartengono a quel mondo che Dio ha lasciato alle controversie degli uomini.

Prima che il Vangelo portasse la sua luce le scuole dei filosofi erano immerse nelle tenebre della più profonda ignoranza sulla nostra origine e sul nostro fine; nessuno di essi sapeva come spiegare quelle mostruose contraddizioni che si osservano nell’uomo; nessuno riusciva ad assegnare la causa di quella mescolanza informe di grandezza e di meschinità, di bontà e di malizia, di sapere e d’ignoranza, di elevazione e di abiezione. Venne la religione e disse: «L’uomo è opera di Dio; il suo fine è quello di unirsi a Dio per sempre; la terra per lui è un esilio; egli adesso non è come uscì dalle mani del Creatore; tutto il genere umano sopporta le conseguenze di una grande caduta». Ed io sfido tutti i filosofi antichi e moderni a dimostrarmi che

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l’obbligo di credere a tutte queste cose sia in opposizione ai progressi della vera filosofia.

È tanto lontano il dogma cattolico dal contrastare minimamente i progressi filosofici che, al contrario, esso è la feconda semente di tutti. Non è poco, quando si tratta di fare progressi in qualche scienza, avere un punto sicuro e fisso intorno al quale possa girare l’intelletto. Non è cosa da poco quella di poter evitare fin dall’inizio una serie di questioni dai cui labirinti non si uscirebbe mai, oppure si uscirebbe per cadere in assurdità peggiori. Non è cosa da poco, se si vogliono esaminare queste stesse questioni, trovarle già risolte in ciò che c’è di più importante, sapere dov’è la verità e dove il pericolo di perdere la strada. In queste condizioni il filosofo è come quell’uomo il quale, sicuro che in un certo luogo esiste una miniera, non perde tempo inutile per scoprirla; ma recatosi subito sul posto mette a profitto fin da principio tutte le sue ricerche e le sue fatiche.

Questo è il motivo dell’immenso vantaggio che i moderni filosofi hanno sugli antichi, i quali camminavano a tentoni nelle tenebre mentre quelli moderni camminano con passo fermo e sicuro illuminati da un’intensa luce e andando direttamente verso lo scopo. Non importa che dicano ogni momento che prescindono dalla rivelazione; non importa che talvolta la guardino con disprezzo o addirittura la combattano apertamente: anche in questo caso la religione li illumina e ne dirige i passi così che non dimenticano i mille concetti luminosi che hanno appresi dalla religione, concetti che hanno trovato nei libri, appreso nei catechismi, succhiato col latte; concetti che sono sulla bocca di tutti, che si sono diffusi dappertutto, e che impregnano, per così dire, l’atmosfera che respiriamo come un elemento vivificante e benefico. Quando i moderni rigettano la religione, portano ben lontano la loro ingratitudine, perché nel momento stesso che l’insultano, approfittano dei suoi benefìci.

Non è questo il posto dove entrare nei dettagli su questa materia: sarebbe facile portare una quantità di prove a conferma di quanto ho detto: mi basterebbe aprire il libro di un qualunque filosofo tra quelli moderni e farne il confronto con gli antichi. Ma un simile lavoro non sarebbe sufficiente per coloro che non sono versati in tali materie, e sarebbe inutile per quelli che vi si sono applicati. Affido con la massima fiducia la questione all’intelligenza di coloro che giudicano in modo imparziale, e sono certo che converranno con me che ogni volta che i filosofi moderni parlano dell’uomo con dignità e verità, nel loro linguaggio si trova sempre l’eco delle idee cristiane.

Se tale è l’influenza del Cattolicesimo riguardo alle scienze che limitandosi all’ordine puramente speculativo lasciano risaltare con maggior vigoria l’ingegno del filosofo; se rispetto a queste scienze invece di limitare in qualcosa l’ampiezza dell’intelletto, lo dilata oltremisura; se lungi dal deprimerne il volo, non fa che innalzarlo rendendolo più sicuro dandogli maggiore ardimento e preservandolo dal divagare e dal traviarsi; che diremo allora se parliamo delle scienze morali? Tutti i filosofi messi insieme, cosa

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hanno mai scoperto nel campo morale che già non si trovi nel Vangelo? Quale dottrina supera in purezza, in santità, in elevazione quella che viene insegnata dalla religione cattolica? A questo punto bisogna rendere giustizia ai filosofi, ed anche a quelli che sono più avversi alla religione cristiana: ne hanno attaccato i dogmi, si son fatti beffe della sua divinità; ma quando hanno parlato della morale le hanno portato rispetto: non so qual forza segreta li abbia costretti a fare una confessione che doveva costar loro molto: «Sì – hanno detto tutti – non si può negare, la sua morale è eccellente».

Nel Cattolicesimo vi sono alcuni dogmi che non si può dire che appartengano direttamente né a Dio, né all’uomo, né alla morale, nel senso che diamo comunemente a questa parola. È chiaro che essendo la religione cattolica una religione rivelata, di un ordine molto superiore a quanto può essere concepito dall’intelletto umano e destinata a condurci ad un fine che non potremmo né conseguire né forse neanche immaginare con le nostre sole forze; e partendo oltretutto dal principio che la natura è decaduta e corrotta e che di conseguenza ha bisogno di riparazione e purificazione; considerando tutto questo è chiaro che la religione cattolica doveva contenere alcuni dogmi i quali insegnassero il modo con cui erano avvenute in generale, e con cui avvengono in particolare, la detta riparazione e purificazione, e spiegassero quali siano i mezzi di cui Dio ha voluto servirsi per condurre gli uomini alla felicità eterna.

Ed ecco i dogmi dell’Incarnazione, della Redenzione, della Grazia e dei Sacramenti. Essi abbracciano un vasto campo, e le relazioni che hanno con Dio e con gli uomini sono molto estese: e su questi dogmi la fede della Chiesa cattolica è ed è stata sempre immutata. E si noti bene, che nonostante tanta ampiezza non c’è alcun punto in cui possa dirsi che impediscano la libera azione dell’intelletto per ogni genere di ricerche. Il motivo è quello che ho già indicato: tutti coloro che hanno fatto uno studio comparativo delle scienze filosofiche e teologiche avranno potuto osservare che riguardo agli estremi da me indicati, la teologia va per una strada tanto diversa e tanto superiore che sfiora appena l’ambiente filosofico. Sono due orbite, ambedue grandi, immense, ma che nell’immensità dello spazio occupano posti molto distanti l’uno dall’altro. L’uomo talvolta cerca di avvicinarle, vuole che si tocchino, che s’incrocino; vuole che un raggio di luce terrena penetri in quella regione di arcani incomprensibili. Ma sa a malapena come farlo: sente egli stesso la sua debolezza, e lo sentirete ammettere che parla per congruenze e analogie, non avendo altro modo di farlo capire meglio. E la Chiesa lo tollera in grazia della sua buona volontà, e talvolta lo stimola anche a farlo, affinché, per quanto possibile, i dogmi incomprensibili si avvicinino un poco alla capacità di comprensione della gente.

I filosofi, dopo aver tanto parlato sugli attributi della Divinità e sulle relazioni dell’uomo con Dio, hanno trovato qualcosa col quale opporsi a questi dogmi del Cattolicesimo? Hanno mai urtato contro di essi come contro

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un ostacolo che non permettesse loro di andare avanti nelle ricerche? Nella rivoluzione filosofica promossa da Cartesio nel diciassettesimo secolo vi è da notare un fatto singolare che sparge molta luce sulla materia. È nota la dottrina della religione cattolica riguardo all’augusto mistero dell’Eucaristia; si sa ugualmente in che consista il dogma della transustanziazione, e che molti teologi per spiegare il fenomeno soprannaturale che accade dopo la consumazione del miracolo, ricorrevano agli accidenti e alla distinzione di questi dalla sostanza. La teoria di Cartesio e di quasi tutti i filosofi moderni era incompatibile con questa spiegazione, perché negavano l’esistenza degli accidenti come distinti dalla sostanza; e per questo motivo sembrava che dovesse conseguirne qualche imbarazzo per la dottrina cattolica, e che la Chiesa venisse costretta ad entrare in lotta contro questi sistemi filosofici. È forse accaduto così? No: esaminata a fondo la questione, si è riconosciuto che il dogma cattolico era in una realtà molto più alta a cui non potevano arrivare le vicende di quella dottrina filosofica che pure sembrava che gli stesse molto vicino. E per quanto abbiano disputato i teologi, per quanti rimproveri si siano fatti gli uni gli altri, per quante conseguenze abbiano voluto tirare dalla nuova dottrina onde presentarla come pericolosa, la Chiesa si è dimostrata aliena da tali dispute, superiore ai pensieri degli uomini, e si è mantenuta in quell’attitudine grave, maestosa ed inalterabile che si addice così bene alla custode del sacro deposito che le fu affidato da Gesù Cristo. Questa è la libertà che la Chiesa lascia ai filosofi onde spaziare con l’ingegno per tutte le materie; non ha bisogno di andare sempre con restrizioni e condizioni; i sacri dogmi di cui è depositaria si trovano in una regione tanto sublime, che a fatica l’uomo può incontrarli qualora nelle sue ricerche non voglia allontanarsi dal sentiero della vera filosofia.

Però la ragione dell’uomo, che è tanto grande ma nello stesso tempo tanto debole, talvolta si gonfia troppo ed alza orgogliosa la fronte arrogante ed offensiva: in nome della libertà e dell’indipendenza reclama il diritto di bestemmiare Dio, di negare all’uomo il libero arbitrio e all’anima la spiritualità, l’immortalità e la sublimità dell’origine e del fine. E allora sì, lo diciamo con orgoglio, la Chiesa alza la voce: non per opprimere, non per tiranneggiare l’intelletto dell’uomo, ma per difendere i diritti dell’Essere supremo e della dignità umana. Allora si oppone con fermezza inflessibile a quella libertà insensata che consiste nel funesto diritto di formulare ogni sorta di stravaganze. Questa libertà noi Cattolici non l’abbiamo, ma neppure la vogliamo, perché sappiamo che anche in queste materie vi è un sacro limite che distingue la libertà dalla licenza. Beata schiavitù! Che c’impedisce d’essere atei o materialisti, di dubitare che l’anima nostra viene da Dio e si dirige a Dio, e che dopo i patimenti che opprimono in questa vita lo sfortunato mortale, fa sì che un’altra vita eternamente felice lo attenda grazie ai meriti di un Uomo Dio.

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In quanto alle scienze che hanno per oggetto la società credo di potermi dispensare dal difendere la religione cattolica dall’accusa di opprimere l’intelletto umano. Perché le molte considerazioni che ho esposte in modo più chiaro della luce del sole riguardanti le dottrine e l’influenza che riguardano la natura e l’estensione dell’autorità, e sulla libertà civile e politica dei popoli, dimostrano che la religione cattolica, senza scendere nell’arena delle passioni e delle meschinità in cui si agitano gli uomini, insegna la dottrina più conveniente alla vera civiltà e alla vera libertà delle nazioni.

Dirò ora una parola sulle relazioni del principio cattolico con tutto ciò che riguarda lo studio della natura. Per la verità non è così facile capire in cosa il detto principio possa danneggiare il progresso dello spirito umano nelle scienze naturali. Dico che non è così facile capirlo, e potrei aggiungere che è anche impossibile: e tutto questo per una ragione semplicissima fondata su un fatto che è alla portata di tutti, cioè che la religione cattolica è estremamente prudente in tutto ciò che appartiene a cognizioni puramente naturali. Si direbbe che Dio volle dare una lezione severa alla nostra eccessiva curiosità: leggete la Bibbia e rimarrete convinti di questo fatto.

Non è che nella Bibbia non si parli della natura, ma ce la presenta sotto l’aspetto più bello, grande e sublime; viene offerta al nostro sguardo tutta insieme, tutta animata, con le sue grandi relazioni e con i suoi alti fini, ma senza analisi e senza alcun genere di separazione: il pennello del pittore e la fantasia del poeta vi troveranno modelli magnifici, ma il filosofo che scruta cercherà invano gli indizi che desidera. Lo Spirito Santo non ha inteso fare dei naturalisti, ma uomini virtuosi; e per questo ci presenta i portenti della creazione solamente sotto l’aspetto più adatto a suscitare in noi l’ammirazione e la gratitudine verso l’Autore di tante meraviglie e di così grandi benefìci. La natura così come viene mostrata nel sacro Testo soddisfa poco la curiosità filosofica mentre ricrea e ingrandisce la fantasia, colpisce e penetra il cuore. Torna all’indice

CAPITOLO LXX

Esame storico dell’influenza del Cattolicesimo nello sviluppo dell’intelletto umano. Si confuta l’opinione del Sig. Guizot. Giovanni Eriugena. Roscellino ed Abelardo. Sant’Anselmo.

_______________ Dalla rapida occhiata che abbiamo dato sui vari rami della scienza nelle

loro relazioni con l’autorità della Chiesa risulta chiaramente che la pretesa schiavitù dell’intelletto dei Cattolici è un falso spauracchio, ed è falso quindi che la nostra fede impedisca del tutto o svigorisca il progresso delle scienze. Ma siccome avviene spesso che i ragionamenti apparentemente più solidi siano manchevoli in qualche aspetto che non si conosce bene, e il difetto viene

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fuori quando sono messi alla prova dei fatti, sarà bene condurre queste prove sulla questione che stiamo trattando, perché sono sicuro che la causa della verità ci guadagnerà molto. Incominciamo dunque dall’origine.

Afferma il Sig. Guizot che la contesa tra la Chiesa e i difensori del libero pensiero iniziò nel Medioevo. Dopo aver ricordato i tentativi di Giovanni Eriugena, di Roscellino e di Abelardo, e l’allarme che tali tentativi suscitarono nella Chiesa, ci dice: «Allora incominciò la lotta tra il clero e coloro che si dichiaravano difensori del libero pensiero»; poi soggiunge: «Allora ebbe inizio quel fatto importante che occupa tanto spazio nei secoli undicesimo e dodicesimo, e tanti effetti produsse nella Chiesa teocratica e monastica» (Storia generale della civiltà europea, lezione 6). Da tutto il contesto dell’opera del Sig. Guizot si deduce che secondo l’opinione di questo studioso di diritto pubblico il rimprovero principale da rivolgere alla Chiesa cattolica era questo: la Chiesa tarpava, per così dire, le ali al pensiero; e questo, secondo lui, costituiva un grande punto di vantaggio del sistema protestante sul Cattolicesimo. Quest’idea che egli si proponeva di sviluppare con grande perizia trattando dei propositi della rivoluzione religiosa del sedicesimo secolo, doveva già essere depositata come un seme nel complesso delle sue lezioni precedenti; perché altrimenti l’idea sarebbe stata percepita isolatamente come un fatto a sé, e sarebbe quindi venuta meno la sua importanza. Oltre a ciò, era anche molto importante che l’opposizione dei Protestanti alla Chiesa cattolica non apparisse un fatto qualunque, ma si presentasse come l’espressione di un pensiero grande e generoso, come la proclamazione della libertà dello spirito umano.

Per arrivare a questo fine era necessario: da una parte, che la Chiesa venisse mostrata come se nel Medioevo avesse accampato una pretesa che non aveva avuto in epoche precedenti; e dall’altra che venissero esaltati certi scrittori per la resistenza che fecero a simili pretese, e si esagerasse oltremisura la portata delle loro mire.

Questo è il filo del discorso del Sig. Guizot, e qui si trova il motivo dei tentativi che fa nel punto citato per preparare il trionfo delle sue opinioni. Egli però è stato così poco accorto nel procedere, che sembra aver dimenticato i fatti più evidenti della storia della Chiesa, ed anche di non conoscere le dottrine dei tre campioni di cui evoca i nomi con tanta compiacenza. Perché non si dica che io proceda con leggerezza ne riporto fedelmente le parole: «La Chiesa presentava il più bell’aspetto, e già sembrava che tutto tornasse a vantaggio della sua unità quando nel suo stesso seno sorsero alcuni uomini intraprendenti, i quali senza attaccare minimamente alcun dogma e le credenze consolidate, chiedevano ad alta voce il diritto di far intervenire l’esame in materia religiosa e negli argomenti di fede. Giovanni Eriugena, Roscellino, Abelardo: ecco i dotti che si proclamarono interpreti della ragione umana, difensori del suo libero esercizio, acerrimi oppositori dell’autorità dell’uomo come giusto criterio in materia di religione: ecco quelli che ai

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tentativi riformatori di Ildebrando e di San Bernardo unirono i loro. Nell’investigare la natura ed il carattere di questo movimento non si nota una tendenza a voler cambiare radicalmente le opinioni, o l’intenzione di provocare una rivoluzione contro la pubblica fede: nulla di tutto questo; si reclamava soltanto di poter ragionare liberamente, e di rimuovere anche nelle questioni di fede gli ostacoli posti dall’autorità» (Storia generale della civiltà europea, lezione 6).

Lasciamo da parte la particolare stranezza di presentare i tentativi di Giovanni Eriugena, Roscellino ed Abelardo come se fossero dello stesso genere di quelli di Ildebrando, ossia San Gregorio VII, e di San Bernardo: questi due s’impegnarono per riformare la Chiesa con legittimi mezzi, per rendere il clero più degno di venerazione attraverso la pratica delle virtù, per far sì che l’autorità fosse oggetto di maggior rispetto attraverso gli opportuni mezzi di santificazione; quei tre al contrario, a detta del Sig. Guizot, combattevano questa autorità in materia di fede, cioè facevano in modo di rovesciarla, e perciò andavano con la scure alla radice; questi due erano riformatori, e quei tre demolitori; e nonostante ciò ci vengono a dire che i tentativi di questi e di quelli fossero uniti, come se mirassero allo stesso fine e procedessero allo stesso scopo! Sarebbe cosa ben meschina la filosofia della storia se giungesse ad ammettere una tal confusione di idee: ben poco progresso faranno in questa scienza coloro che si accontentano di osservare i fatti in un modo così stravagante.

Ma lasciamo, ripeto, siffatte stranezze, e concentriamoci in modo particolare su due oggetti: l’importanza dei tre scrittori che ci vengono tanto esaltati, e l’idea che ci viene data della loro opposizione. Sono certo che i nomi di Giovanni Eriugena e di Roscellino sono già pronunciati con rispetto da coloro che, desiderando di passare per filosofi della storia senza forse averla mai letta, si vedono costretti ad accontentarsi di quelle facili lezioni che si ascoltano in un breve ritaglio di tempo o si studiano in una serata: basterà loro di averli intesi nominare con enfasi e sentirli definire uomini intraprendenti, dotti, interpreti della ragione umana, difensori del suo libero esercizio, per ritenere che le scienze non sono meno debitrici ad Eriugena e a Roscellino di quanto non siano a Cartesio o a Bacone.

Se non si tenesse conto delle osservazioni fatte sopra sulla situazione in cui si trovava il Sig. Guizot, non sarebbe facile indovinare perché voglia presentare come nuovo e straordinario quello che era antico e comune; come mai abbia affermato che la Chiesa incominciò a contendere con la libertà del pensiero quando bloccò Eriugena, Roscellino ed Abelardo; come mai abbia attribuito a questi tre scrittori un’influenza così eccezionale, quando non fu che quella di qualsiasi settario, e di cui tanti esempi erano stati visti nei tempi anteriori. E in verità: chi era questo Giovanni Eriugena? Uno scrittore che, poco versato nelle scienze teologiche, e insuperbito dai favori che gli concedeva Carlo il Calvo, diffuse certi errori sull’Eucaristia, sulla

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predestinazione e sulla grazia; fin qui non si vede altro che l’uomo che si allontana dalla dottrina della Chiesa; e quando Nicolò I lo bloccò vediamo un Papa che fa il suo dovere. Cosa c’è di nuovo e di straordinario in tutto questo? Forse nella storia della Chiesa non troviamo fin dal tempo degli Apostoli un’ininterrotta catena di fatti simili?

Lo ripeto: è impossibile indovinare come potesse venire in testa al Sig. Guizot di ritenere importante fare il nome di Eriugena, poiché né i suoi errori ebbero grandi conseguenze, né l’epoca in cui visse ebbe particolare influenza sullo sviluppo dell’intelletto nei tempi successivi. Giovanni Eriugena viveva nel nono secolo che non fu interessato dal rinnovamento che avvenne nei secoli seguenti, essendo cosa ben nota che il decimo secolo fu il culmine dell’ignoranza dei secoli di mezzo e che il rinnovamento intellettuale iniziò tra la fine del decimo e l’inizio dell’undecimo secolo. Tra Eriugena e Roscellino passano due secoli.

Quanto a Roscellino ed Abelardo forse è più facile capire perché ci vengano citati su questo argomento. Infatti tutti sanno come Abelardo avesse messo il mondo a rumore con le sue dottrine, e forse più ancora con le sue avventure; e in quanto a Roscellino, anche questi richiama l’attenzione non soltanto per i suoi errori, ma anche e soprattutto per essere stato il maestro di Abelardo.

Per dare un’idea dello spirito da cui erano guidati questi uomini e cosa bisogna pensare delle loro intenzioni è necessario entrare in alcuni particolari sulla loro vita e sulle loro dottrine. Roscellino era uno tra i più cavillosi del suo tempo: sottile dialettico e ardente sostenitore della setta dei nominali, sostituì le proprie opinioni all’insegnamento della Chiesa fino al punto di spargere gravissimi errori sull’augusto mistero della Trinità. La storia ci ha conservato un episodio su Roscellino che dimostra in una maniera incontestabile la rinomata malafede e la mancanza di onestà e di pudore. Quando Roscellino propalava i suoi errori era ancora vivente S. Anselmo, che poi divenne Arcivescovo di Canterbury e che era allora Abate di Bech. Poco prima era morto Lanfranco, Arcivescovo di quella sede, con una tale reputazione di virtù e di santa dottrina che non si poteva chiedere di meglio. Roscellino pensò che i suoi errori avrebbero acquistato maggior credito se avessero potuto apparire sotto il manto autorevole di un nome così illustre; e imbastendo la più nera calunnia affermò che le sue opinioni erano le stesse dell’Arcivescovo Lanfranco e di Anselmo Abate di Bech. Lanfranco non poté rispondere perché era già morto, ma l’Abate di Bech si oppose vigorosamente ad una attribuzione così ingiusta, e nello stesso tempo difese Lanfranco che era stato suo maestro. Quali fossero gli errori di Roscellino lo dimostrano fuor d’ogni dubbio le opere di S. Anselmo nelle quali sono descritti con la massima precisione. In verità non si riesce proprio a capire come il Sig. Guizot desse tanta importanza a quest’uomo, e perché dovesse presentarcelo come uno dei principali difensori della libertà di pensiero, non essendovi in lui alcuna cosa

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che lo distingua dagli altri eretici. Fu un uomo capzioso, pieno di sottigliezze e di errori; ma nella storia della Chiesa questa cosa indecente non desta nemmeno meraviglia.

Molto più degno della nostra attenzione è il famoso Abelardo, perché il suo nome è divenuto così celebre che non c’è chi non conosca le sue tristi avventure. Discepolo di Roscellino ed ugualmente bravo nella dialettica del suo secolo, dotato di grande talento e bramosissimo di sfoggiarlo nelle principali dispute letterarie, arrivò a procurarsi quell’alta stima cui non giunse mai il dialettico di Compiegne. Gli errori che propalò in materie molto importanti causarono gravi danni alla Chiesa, ma non risparmiarono neanche a lui gravissime pene. Non è vero però, come dice il Signor Guizot, che non tanto furono riprovate le sue dottrine quanto il suo metodo, e che tanto lui quanto il suo maestro Roscellino non avessero intenzione di operare un vero mutamento nelle dottrine. Per fortuna abbiamo testimonianze inconfutabili che non ci lasciano alcun dubbio sul fatto che non fu del metodo che fu accusato Roscellino bensì degli errori sulla Trinità; ed infatti i vari errori estratti dalle opere di Abelardo sono conservati tuttora sotto forma di articoli.

Sappiamo da S. Bernardo che Abelardo sulla Trinità la pensava come Ario, sull’Incarnazione come Nestorio, e sulla Grazia come Pelagio: e già si vede che tutto questo non tendeva soltanto ad un cambiamento radicale delle dottrine, ma lo era già di sua natura. È vero che Abelardo affermò che tali imputazioni erano false, ma sappiamo quanto valgano tali negazioni; e comunque c’è di certo che nella famosa assemblea di Sens sollecitata dallo stesso Abelardo egli non poté rispondere una parola al santo Abate di Chiaravalle, il quale gli contestò i suoi errori mostrandogli le proposizioni estratte dalle sue stesse opere e portandolo al punto di doverle difenderle o abiurarle. In una tale temibile situazione Abelardo, vedendosi di fronte un avversario di tanto valore, seppe rispondere soltanto che si appellava a Roma. E sebbene il Concilio di Sens per rispetto alla Santa Sede si fosse astenuto dal condannare la persona del novatore, non lasciò per questo di condannarne gli errori; condanna che fu poi confermata dal Sommo Pontefice ed estesa anche alla persona. Dagli articoli che contengono gli errori di Abelardo non si rileva che questo scrittore avesse in particolare l’idea di proclamare la libertà di pensiero. Si sa invece che si abbandonava troppo alle proprie sottigliezze, non facendo altro che dogmatizzare erroneamente sui punti più importanti, cosa che fecero allo stesso modo tutti gli eretici che l’avevano preceduto.

Il Sig. Guizot conosceva certamente tutte queste cose e non capisco come abbia fatto a dimenticarle, né comprendo perché volesse attribuire ai detti autori un’importanza che in realtà non meritano. Andando in cerca della ragione che poté indurlo a menzionare con tanta enfasi i nomi di Roscellino e di Abelardo, vien da pensare che forse avesse l’intenzione di fornire ai Protestanti alcuni illustri predecessori: e siccome in verità Roscellino ed Abelardo non furono privi di talento e di dottrina, e d’altronde vissero nella

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stessa epoca in cui iniziava in Europa il rinnovamento intellettuale, dovette sembrargli questa l’epoca opportuna per mettere in scena questi novatori onde far sapere che fin dall’inizio dello sviluppo dell’intelletto gli uomini più illustri avevano fatto sentire la propria voce in favore della libertà di pensiero. Ma anche se il Sig. Guizot potesse provarci che Eriugena, Roscellino ed Abelardo non avessero altro scopo che quello di proclamare l’esame privato in materia di fede, non ne verrebbe come conseguenza che questi novatori non volessero un cambiamento radicale nelle dottrine, non potendovi essere cosa più radicale in materia di fede quanto l’attaccare la radice della certezza, che è l’autorità. E non potrebbe neanche conseguirne che la Chiesa nel condannare i loro errori si fosse messa in allarme per un semplice metodo; poiché se questo metodo doveva consistere nel sottrarre l’intelletto al giogo dell’autorità anche in materia di fede, era già questo un errore gravissimo per sua natura, combattuto in ogni epoca dalla Chiesa cattolica che non ha mai permesso né tollerato che si mettesse in dubbio la sua autorità in questioni riguardanti il dogma.

Ciò nonostante, se i citati novatori si fossero presentati per combattere in primo luogo l’autorità in materia di fede il Sig. Guizot avrebbe avuto ragione di indicarcene i nomi come iniziatori di una nuova epoca; ma, si noti bene, non risulta che compilassero le loro proposizioni in particolare in favore dell’indipendenza del pensiero e contro l’autorità in materia di fede; non risulta che la Chiesa li abbia condannati soltanto per questo motivo, ma bensì per altri errori. Dove sono allora l’esattezza e la verità storica alle quali si presume dovesse appoggiarsi un uomo come il Sig. Guizot? Come fa a prendersi la libertà di esporre i propri pensieri al posto dei fatti, rivolgendosi, come infatti si rivolse, ad un numeroso auditorio? Sapeva bene il Sig. Guizot che queste sono materie che tutti trattano ma che pochi esaminano a fondo; e che per suscitare simpatie negli uomini superficiali è sufficiente parlare con sussiego della libertà di pensiero, e di proferire certi nomi che molti sicuramente sentono per la prima volta come quelli di Eriugena e Roscellino, e soprattutto di ricordare quello dell’infelice amante di Eloisa.

Siccome il Sig. Guizot non poteva non sapere che le osservazioni che andava facendo intorno a quell’epoca erano alquanto deboli, cercò di rimediarvi con l’inserire un passo dell’Introduzione alla teologia di Abelardo; il quale passo a mio giudizio è ben lontano dal provare ciò che si propone il pubblicista. Egli vorrebbe persuaderci che già allora incominciava a regnare un forte spirito di opposizione all’autorità della Chiesa in materia di fede, e che l’intelletto dell’uomo era già impaziente di rompere i legami con cui lo tenevano avvinto. Secondo il Sig. Guizot risulta che su richiesta dei propri discepoli Abelardo si diede a scuotere il giogo dell’autorità, e che i suoi scritti furono già, in un certo modo, l’espressione di una necessità che si faceva vivamente sentire, di un pensiero che già da gran tempo ferveva in molti cervelli. Ecco le parole a cui alludo: «Nell’investigare – dice il Sig. Guizot –

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la natura ed il carattere di questo rinnovamento non si nota una tendenza a voler cambiare radicalmente le opinioni, o l’intenzione di provocare una rivoluzione contro la pubblica fede: nulla di tutto questo; si reclamava soltanto di poter ragionare liberamente, e di rimuovere anche nelle questioni di fede gli ostacoli posti dall’autorità». Abbiamo già visto quanto sia lontano dal vero ciò che qui afferma lo scrittore, e che anche qualora fosse stato attaccato solamente il principio di autorità questo stesso fatto racchiudeva in sé un cambiamento radicale nelle opinioni ed una rivoluzione contro la pubblica fede, perché l’infallibilità della Chiesa era un dogma in sé, e per di più era la base di ogni credenza. A mio parere l’esperienza lo ha dimostrato a sufficienza fin da quando apparve il Protestantesimo nei primi anni del sedicesimo secolo. Ma lasciamo continuare il Sig. Guizot: «Lo stesso Abelardo nella sua introduzione alla teologia ci dice che i suoi discepoli gli chiedevano argomenti adatti a soddisfare la ragione; che insegnasse loro non a ripetere le sue spiegazioni, ma a comprenderle bene: perché nessuno può veramente credere senza prima aver capito, e sarebbe perfino ridicolo insegnare cose che non dovessero capire né il professore né i discepoli… Quale può essere lo scopo di una sana filosofia se non di condurci alla più perfetta conoscenza di Dio, al quale devono dirigersi tutte le nostre meditazioni e tutti i nostri studî? Con quale fine si consente ai fedeli la lettura delle cose del secolo, ed anche dei libri dei pagani, se non per disporre il loro intelletto a penetrare le verità della Sacra Scrittura, e per esercitarsi a difenderle con la parola?… Per questo scopo è indispensabile adoperare tutte le forze della ragione in modo da impedire che in questioni tanto difficili e complesse, come quelle che si presentano ad ogni passo nello studio delle dottrine del Vangelo, la purezza della nostra fede non abbia mai da alterarsi per le sottigliezze dei suoi nemici».

Non può negarsi che ai tempi di Abelardo si fosse risvegliato un vivo desiderio di conoscenza che spronava lo spirito a far uso di tutte le sue capacità per rendersi conto delle cose in cui credeva; ma non è vero che la Chiesa si opponesse ad un tale movimento considerato come metodo scientifico e finché non fosse andato al di là dei confini legittimi, e non si fosse spinto a combattere o a minare i dogmi di fede. Non è possibile presentare la Chiesa sotto un aspetto più negativo di quello che non abbia fatto a questo punto il Sig. Guizot; non è possibile una più clamorosa svista, o per dir meglio, alterazione dei fatti. «La Chiesa – egli dice – nonostante fosse impegnata nella sua riforma interna, non lasciò per questo di percepire e di comprendere l’importanza di quel movimento e si mise subito in allarme per gli effetti che ne potevano derivare. Dichiarò allora guerra ai novatori, che tanto più dovevano temersi in quanto era dai loro metodi e non dalle dottrine che proveniva la minaccia». Ecco dunque la Chiesa che cospira contro lo sviluppo del pensiero, e con mano forte soffoca i tentativi che faceva l’intelletto per fare i primi passi sul cammino delle scienze; eccola che

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prescinde dalle dottrine e combatte i metodi. E tutto questo ci viene presentato come una cosa nuova, perché, secondo il Sig. Guizot, «allora cominciò la lotta tra il clero e coloro che si dichiaravano difensori del libero pensiero, allora ebbe inizio quel gran fatto che occupa tanto spazio nei secoli undicesimo e dodicesimo e che tanti effetti produsse nella Chiesa teocratica e monastica. I lamenti di Abelardo, e fino a un certo punto quelli di San Bernardo, i Concili di Soisson e di Sens che condannarono il primo, sono una vera manifestazione di quel fatto, che per un’occulta catena di vicende si è perpetuato fino ai nostri giorni».

La solita confusione d’idee. L’ho già detto, e devo ripeterlo: la Chiesa non ha mai condannato nessun metodo. Ciò che condanna sono gli errori, quando non si voglia intendere per metodo quello che tanto piace al Sig. Guizot, cioè quello «di rimuovere anche nelle questioni di fede gli ostacoli posti dall’autorità»; e questo non è un semplice metodo, ma un errore di prima grandezza. Nel disapprovare una dottrina pericolosa e sovversiva della fede, come quella che nega l’infallibilità della Chiesa in materia di dogma, questa non ebbe alcuna nuova pretesa; il suo agire è rimasto sempre lo stesso, quello cioè che ha sempre tenuto fin dal tempo degli Apostoli e che tiene ancora oggi. Quando si diffonde una dottrina che presenta un pericolo essa la esamina e la confronta col sacro deposito di fede che le è stato affidato: se la dottrina non ripugna alla verità divina la lascia andare in piena libertà, perché non ignora che Dio ha lasciato il mondo alle dispute degli uomini; ma se si oppone alla fede la condanna irrimediabilmente senza riguardi e senza condiscendenze. E se facesse il contrario negherebbe se stessa, cesserebbe di essere ciò che è, non sarebbe più la gelosa depositaria della divina Verità. Se permettesse di mettere in dubbio la sua infallibile autorità, fin da quel momento dimenticherebbe uno dei suoi più sacri obblighi e non avrebbe più diritto di essere creduta; perché mostrando di non avere interesse per la verità darebbe prova di non essere una religione discesa dal cielo, e di conseguenza entrerebbe nella sfera delle illusioni umane.

Precisamente in quei tempi a cui riferisce il Sig. Guizot avvenne un fatto che dimostra come la Chiesa lasciasse libero il campo all’intelletto perché potesse spaziarvi. Si sa di quale reputazione godette Sant’Anselmo durante tutta la sua vita, e in quanta stima fu tenuto dai Pontefici del suo tempo; con tutto ciò sant’Anselmo lasciava andare il suo pensiero con la massima libertà. Nel prologo del suo Monologio ci dice che alcuni lo pregavano che insegnasse loro a spiegare le cose con la sola ragione prescindendo dalla Sacra Scrittura. Il santo non temette di condiscendere alle loro richieste, e per accontentarli scrisse su questo tema il citato opuscolo; né lasciò di adottare in altre parti delle sue opere lo stesso metodo. Siccome oggi sono pochi coloro che si curano degli scrittori antichi, non saranno molti quelli che hanno letto qualche opera di questo santo; in esse vi si trova una chiarezza d’idee, una solidità di ragionamento, e soprattutto un giudizio così sobrio e moderato che pare quasi

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impossibile che fin dall’inizio del rinnovamento intellettuale il pensiero si elevasse tanto. Qui si può vedere la massima libertà di pensiero unita al rispetto dovuto all’autorità della Chiesa; e questo rispetto, ben lungi dall’indebolire minimamente il vigore del pensiero, non serviva che ad illuminarlo e fortificarlo. Qui si vede che non era solo Abelardo che insegnava a non ripetere le lezioni, ma a comprenderle; poiché alcuni anni prima Sant’Anselmo stava facendo la stessa cosa con una chiarezza e solidità molto superiori a quanto si potesse sperare a quei tempi. Si vede anche che nella Chiesa cattolica ci si voleva servire, per quanto possibile della ragione, sapendo però rispettare i limiti che le vengono assegnati dalla propria debolezza, e inchinandosi rispettosamente davanti al sacro velo che copre gli augusti misteri.

Nelle opere di questo dotto scrittore si vedrà che non era Abelardo colui che doveva insegnare al mondo che «lo scopo di una sana filosofia è quello di condurci alla più perfetta conoscenza di Dio… e che è indispensabile adoperare tutte le forze della ragione in modo da impedire che in questioni tanto difficili e complesse, come quelle che si presentano ad ogni passo nello studio delle dottrine del Vangelo, la purezza della nostra fede non abbia mai da alterarsi per le sottigliezze dei suoi nemici». Ma nella profonda sottomissione che il santo mostra all’autorità della Chiesa, nella pura lealtà con cui riconosce i limiti dell’intelletto umano, si capisce che egli era convinto che non è impossibile credere prima di comprendere; poiché non è la stessa cosa essere certi dell’esistenza di un oggetto, e conoscerne con certezza la natura. Torna all’indice

CAPITOLO LXXI

La religione e l’intelletto in Europa. Differenza dello sviluppo intellettuale tra i popoli antichi e gli Europei. Motivi del rapido sviluppo dell’intelletto in Europa. Motivi dello spirito di sottigliezza. Beneficio procurato all’intelletto dalla Chiesa con l’opporsi ai cavilli dei novatori. Confronto tra Roscellino e S. Anselmo. Riflessioni su S. Bernardo. San Tommaso d’Aquino. Utilità della sua dittatura scolastica. Grandi benefici procurati dall’opera di S. Tommaso allo spirito umano.

_______________ Giacché ci troviamo nei secoli undicesimo e dodicesimo, ci fermeremo un

po’ per esaminare quale sia stata la condotta della Chiesa in quei secoli nei confronti dei novatori e per osservare, come da un buon punto d’osservazione, il cammino dello spirito umano partendo da lì.

Abbiamo detto che lo sviluppo dell’intelletto in Europa era stato interamente teologico. Questa è una verità fondamentale, e la ragione è semplicissima: tutte le facoltà dell’uomo si vanno sviluppando in un modo conforme alle circostanze in cui egli si trova: e siccome la salute, il

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temperamento, le forze, ed anche il colore e la statura dipendono dal clima, dagli alimenti, dal tenore di vita e dalle altre circostanze che agiscono sull’uomo, così allo stesso modo le facoltà intellettuali e morali portano l’impronta delle norme che dominano nella famiglia e nella società di cui si fa parte. In Europa l’elemento predominante era la religione: questa si sentiva, si vedeva, si trovava in tutti gli oggetti: senza di lei non si scorgeva in nessun luogo un principio di azione e di vita; e perciò era inevitabile che tutte le facoltà dell’ Europeo si sviluppassero in senso religioso. Se si osserva bene non era soltanto l’intelletto a presentare questo carattere; lo era anche il cuore, le passioni stesse, insomma tutto l’uomo morale. Al punto che, siccome in Europa non si può fare un passo in qualsivoglia direzione senza imbattersi in qualche testimonianza religiosa, così non si può esaminare alcuna qualità dell’Europeo senza incontrare le tracce della religione.

Quello che accadeva nell’individuo succedeva anche nella famiglia e nella società: la religione dominava queste e quello. Un simile fenomeno si scorge ovunque l’uomo si sia incamminato verso uno stato di perfezione; ed è un fatto costante nella storia del genere umano che nessuna società andò mai avanti sulla via della civiltà se non sotto la direzione e l’impulso dei princìpi religiosi. Veri o falsi, ragionevoli o assurdi, questi princìpi si trovano ovunque l’uomo si perfeziona; e sebbene siano degni di compassione alcuni popoli per le mostruosità superstiziose in cui piombarono, dobbiamo tuttavia ammettere che sotto quella superstizione si nascondevano dei germi di bene che non mancavano di produrre vantaggi consistenti. Gli Egiziani, i Fenici, i Greci e i Romani erano molto superstiziosi; e ciononostante fecero tanti progressi nella civiltà e nella cultura da suscitare anche adesso la nostra ammirazione per i loro monumenti e le loro memorie. È facile farsi beffe di una pratica stravagante o di un dogma insensato; ma non dobbiamo mai dimenticare che c’è un certo numero di princìpi morali, i quali non nascono e non si conservano che sotto la tutela delle credenze; princìpi indispensabili perché l’individuo non si trasformi in mostro e non si spezzino tutti i vincoli della società e della famiglia. Si è molto parlato contro l’immoralità tollerata, permessa e talvolta predicata da alcune religioni: certamente non c’è cosa più deplorevole di quella che, dovendo essere la principale guida dell’uomo, lo porta invece alla depravazione; ma se guardiamo attraverso quelle ombre che tanto ci urtano a prima vista non tarderemo a scoprire alcuni raggi di luce, i quali ci faranno considerare le false religioni, non dico con indulgenza, ma con minore ripugnanza di quella che ci suscitano quegli empî sistemi i quali non riconoscono altro essere che la materia, né altro Dio che il piacere.

Il fatto di conservare le idee del bene e del male morale, le quali non hanno alcun senso se non supponendo l’esistenza di una divinità, è già di sua natura un beneficio incomparabile; e questo beneficio è sempre unito alle religioni, perfino a quelle che permettono o impongono azioni mostruose e crudeli. Nei popoli antichi si sono senz’altro visti, e si vedono anche oggi tra

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quei popoli che non sono illuminati dal Cristianesimo, traviamenti che fanno piangere; ma in mezzo a questi stessi traviamenti c’è sempre qualche scintilla di luce la quale, per poco che illumini, per quanto pallidi e deboli ne siano i raggi, vale senza confronti molto più che le dense tenebre dell’ateismo.

Tra i popoli antichi e gli Europei c’è una grandissima differenza, perché quelli camminarono verso la civiltà uscendo dall’infanzia, e questi si sono pure diretti verso la civiltà, ma partendo da quello stato indefinibile che risultò dalla confusa mescolanza che si era formata, con l’invasione dei barbari, tra una società giovane e un’altra decrepita; tra popoli rozzi e feroci, e altri inciviliti e colti, o per meglio dire svigoriti. Ne venne quindi che nei popoli antichi la fantasia si sviluppò prima dell’intelletto, e tra gli Europei l’intelletto prima della fantasia. Di conseguenza, in quelli la prima ad essere coltivata fu la poesia; in questi la dialettica e la metafisica.

Cerchiamo ora la ragione di una così grande differenza. Quando un popolo è nell’infanzia (o che sia effettivamente nell’infanzia, o che, avendo vissuto per lungo tempo nella stoltezza, si trovi poi in uno stato simile a quello di un popolo bambino) abbonda di sensazioni mentre è scarso d’idee. La natura, con tutta il suo splendore, con tutte le sue meraviglie e i suoi segreti, è quella che più vivamente l’impressiona; il linguaggio di questo popolo è enfatico, pittoresco, poetico. Le passioni non sono raffinate, ma energiche e violente; e l’intelletto, che cerca ingenuamente la ragione della luce, ama la verità pura e semplice, la confessa, l’abbraccia; e non è fatto per sottigliezze, cavilli e dispute. La più piccola cosa lo sorprende e gli desta meraviglia, purché colpisca vivamente i sensi e la fantasia; e se uno vuole ispirargli entusiasmo è necessario che gli presenti qualcosa di sublime e di eroico.

Nell’osservare lo stato dei popoli d’Europa nel Medioevo si vede subito che presentavano qualche somiglianza con un popolo bambino; ma vi erano anche molte e notevoli differenze. Le loro passioni avevano una grande energia, amavano molto il meraviglioso e lo stupefacente, e quando mancava la realtà la loro fantasia creava immagini gigantesche. La professione delle armi era l’occupazione preferita; cercavano ansiosamente le avventure più pericolose che affrontavano con incredibile audacia. Tutto questo indicava uno sviluppo del sentimento e dell’immaginazione in ciò che queste facoltà racchiudono di più forte e audace. Eppure, insieme a queste attitudini era mischiato un gusto particolare per gli oggetti puramente intellettuali; accanto alla realtà più viva, più ardente, più pittoresca, sorgevano le astrazioni più aride e fredde. Un cavaliere crociato riccamente vestito, circondato da trofei, risplendente di gloria conquistata in cento combattimenti; e un dialettico sottile che disputa sul sistema dei nominali, e porta le astrazioni ed i cavilli fino ad un grado inintelligibile: ecco due personaggi che sicuramente si assomigliano poco; ma con tutto ciò questi personaggi coesistevano nella società, e non già come gente qualunque, ma con molto prestigio, riveriti con ogni genere di ossequi e seguiti da ardenti sostenitori.

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Tenendo presente anche la situazione straordinaria descritta sopra in cui si trovarono le nazioni in Europa, non è facile spiegare il motivo di quest’anomalia. Si arriva a capire senza difficoltà che i popoli europei, usciti per la maggior parte dalle foreste del Settentrione, e che avevano vissuto per molto tempo in guerra tra loro o con i popoli conquistati, conservassero con le loro abitudini guerriere un’immaginazione viva e forte e passioni energiche e violente; quello però che non si riesce a comprendere altrettanto bene è quella loro inclinazione ad un ordine d’idee puramente dialettico e metafisico. Ciò nonostante, se si esamina a fondo la questione, si arriva a capire che questa anomalia aveva la sua origine nella natura stessa delle cose.

Perché un popolo nell’infanzia abbonda tanto d’immaginativa e di sentimento? Perché di queste cose abbondano gli oggetti che stimolano le sue facoltà, e perché questi oggetti possono esercitare la loro azione con maggior forza in quanto l’individuo si trova continuamente esposto all’influenza delle cose esteriori. L’uomo prima sente e immagina, successivamente comprende e pensa; così richiedono in modo naturale l’ordine e la dipendenza delle facoltà. Ed ecco la ragione per cui in un popolo l’immaginativa e le passioni si sviluppano prima dell’intelletto: quelle trovano subito sia l’oggetto che il nutrimento, l’intelletto no; e per questa stessa ragione il secolo dei poeti ha sempre preceduto quello dei filosofi. E allora ne consegue che i popoli bambini pensano poco perché mancano di idee; e proprio in questo si trova la principale differenza che li distingue da quelli europei nell’epoca di cui parliamo: in Europa abbondavano le idee. La qual cosa serve a spiegare perché erano tenute in tanto pregio le cose puramente intellettuali anche in mezzo alla più profonda ignoranza, e perché l’intelletto faceva ogni sforzo per elevarsi quando pare che non fosse ancora arrivata l’ora. Le vere idee su Dio, sull’uomo e sulla società erano già diffuse dappertutto grazie all’insegnamento continuo del Cristianesimo; e siccome rimanevano ancora molte tracce dell’antico sapere sia cristiano che pagano, ne risultava che l’intelletto di un uomo un po’ istruito era in realtà pieno d’idee.

Nonostante i molti vantaggi è chiaro che per effetto dell’ignoranza prodotta da tanti sconvolgimenti l’intelletto restava offuscato e confuso da quella mescolanza che gli si presentava di erudizione e di filosofia, e che scarseggiava di discernimento e di giudizio onde potersi dedicare nello stesso tempo e con profitto allo studio della Bibbia, degli scritti dei santi Padri, del diritto civile e canonico, delle opere di Aristotele, e dei commentari degli Arabi. Eppure, nello stesso tempo si studiava tutto questo, si disputava con ardore di tutto; e accanto agli errori e alle stravaganze, che erano inevitabili, non mancava la presunzione, compagna inseparabile dell’ignoranza. Per spiegare con buon esito vari punti della Bibbia, dei santi Padri, dei codici, delle opere dei filosofi, sarebbe stato necessario prepararvisi con molte e lunghe fatiche, come lo ha dimostrato l’esperienza dei secoli posteriori. Si sarebbe dovuto studiare le lingue, frugare gli archivi, scavare reperti,

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raccogliere da tutte le parti un gran cumulo di materiali; e poi ordinare, confrontare, discernere: in una parola, ci sarebbe voluta una grande base di erudizione illuminata dalla fiaccola della critica.

Tutto questo a quel tempo mancava, e non si poteva acquisire se non col passare dei secoli. E che succedeva? Quello che precisamente doveva succedere quando si ha il prurito di spiegare tutto: si presentava una difficoltà? Mancavano i fatti e le notizie per risolverla? Si andava per la via più breve: invece di appoggiarsi ad un fatto, vi si fondava sopra un’idea; invece di un solido raziocinio, si metteva avanti un’astrazione cavillosa. Giacché non era possibile formare un corpo di sana dottrina, si accumulava una farragine confusa di idee e di parole. Chi per esempio non ride di Abelardo, o non lo compatisce, vedendolo presentare ai suoi discepoli un commento sul profeta Ezechiele dopo essersi impegnato a prendersi pochissimo tempo per prepararsi? E pare dunque al lettore che nel dodicesimo secolo, trattandosi del profeta Ezechiele ed essendo il maestro poco preparato, poté il commento riuscire felicissimo e di molto interesse?

Tanto fu l’entusiasmo con cui fu abbracciato lo studio della dialettica e della metafisica che in poco tempo queste materie giunsero ad offuscare tutte le altre discipline. Il che recò gravissimo danno allo spirito, poiché essendo assorbita tutta la sua attenzione dall’oggetto di sua preferenza guardò con indifferenza la parte più solida delle scienze: si curò poco della storia, non pensò punto alla letteratura, e avvenne quindi che non si sviluppò completamente. Avendo lasciato indietro tutto ciò che è attinente alla fantasia e ai sentimenti, l’intelletto rimase padrone del campo, ma non di ciò che è utile, come la comprensione chiara e precisa, il giudizio maturo e il ragionamento solido ed esatto, bensì di quanto c’è di più sottile, cavilloso e bislacco.

Oserei dire che coloro che accusano la Chiesa per la condotta che tenne allora coi novatori hanno capito malissimo la situazione scientifica e religiosa in cui l’Europa si trovava in quel tempo. Abbiamo già visto che lo sviluppo intellettuale era caratterizzato da un’impronta religiosa; e di qui ne venne che l’intelletto, anche quando si allontanò dalla vera strada, conservò sempre questo carattere; ne derivò altresì che si videro accostate le sottigliezze più stravaganti ai più sublimi misteri. Quasi tutti gli eretici di quei tempi erano famosi dialettici e incominciarono a prendere delle cantonate per eccesso di sottigliezze, Roscellino era uno dei principali dialettici del suo tempo, fondatore della setta dei nominali, o almeno uno dei principali caporioni; Abelardo era celebre per la sottigliezza del talento, per l’abilità nelle dispute, e per la destrezza con cui sapeva spiegare tutto a modo suo. L’abuso dell’ingegno lo fece cadere negli errori di cui ho parlato prima; errori che avrebbe potuto evitare benissimo se non si fosse abbandonato con tanto orgoglio in balìa dei suoi vani pensieri. Lo spirito di sottilizzare tutto condusse Gilberto Porretano ai più deplorevoli errori sulla Divinità; ed Amauri, altro

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filosofo celebre secondo la moda di quei tempi, si scaldò tanto la testa con la materia prima di Aristotele, che arrivò a dire che questa materia era Dio.

La Chiesa si oppose con tutte le sue forze a questa caterva di errori che uscivano da tutte queste teste allucinate da tanti futili argomenti ed esaltate da un orgoglio insensato; e bisogna non conoscere affatto i veri interessi delle scienze per non convenire che la resistenza della Chiesa ai sogni dei novatori era sommamente proficua al progresso del sapere.

Quegli uomini così focosi, i quali avidi di sapere si lanciavano con tutto l’ardore verso la prima chimera che produceva la propria fantasia, avevano un estremo bisogno di essere ammoniti da una voce giudiziosa che ispirasse loro sobrietà e temperanza. L’intelletto faceva appena i primi passi sulla strada del sapere, e già credeva di sapere tutto; tutto pretendeva di conoscere, eccetto lo sciocco, il non so; come rinfacciò San Bernardo al vanitoso Abelardo. E com’è possibile non rallegrarsi per il bene dell’umanità e per l’onore dell’umano intelletto, vedendo la Chiesa condannare gli errori di Gilberto, errori che tendevano nientemeno che a stravolgere le idee che abbiamo di Dio; e quelli di Amauri e del suo discepolo Davide di Dinant, i quali confondendo il Creatore con la materia prima, distruggevano d’un colpo l’idea della Divinità? Che vantaggio poteva trarre l’Europa d’incominciare il rinnovamento intellettuale precipitandosi subito nell’abisso del panteismo?

Se l’intelletto umano avesse continuato a seguire la strada sulla quale lo stava guidando la Chiesa la civiltà europea sarebbe avanzata almeno di due secoli: il quattordicesimo secolo avrebbe potuto essere il sedicesimo. Per convincerci di questo fatto non dobbiamo fare altro che confrontare testi con testi, uomini con uomini: i più legati alla fede della Chiesa si elevarono ad una tale altezza da lasciarsi dietro di un buon tratto il loro secolo. Roscellino ebbe per avversario Sant’Anselmo: questi si mantenne sempre sottomesso all’autorità, quello le fu ribelle; e chi potrebbe mettere il dotto Arcivescovo di Canterbury a confronto col dialettico di Compiegne? Che differenza immensa tra il profondo e giudizioso metafisico autore del Monologio e del Prosologio, e il frivolo disputatore corifeo dei nominali! Che valore hanno mai le sottigliezze e i cavilli di Roscellino messi a confronto con gli alti pensieri di quell’illustre personaggio che già nell’undicesimo secolo aveva portato tanto avanti le sue idee metafisiche? Questi per provare l’esistenza di Dio invece di ricorrere a parole vane e fantasiose si concentrava in se stesso per esaminare le proprie idee, sottoponendole all’analisi, confrontandole con l’oggetto, e fondando la dimostrazione dell’esistenza di Dio nella stessa idea di Dio, precedendo così di cinque secoli Cartesio. Chi interpretava meglio i veri interessi della scienza? Dov’è quel funesto influsso che avrebbe dovuto rimpicciolire e restringere l’intelletto di sant’Anselmo, quella tanto terribile autorità della Chiesa, quell’usurpazione dei Papi sui diritti dello spirito umano?

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Ed Abelardo, sempre Abelardo, può forse esser messo a confronto col suo avversario cattolico, San Bernardo? Certamente no! Né come uomo, né come scrittore. Cosa fu Abelardo paragonato all’insigne Abate di Chiaravalle? Abelardo s’immergeva in tutte le sottigliezze della scuola, si perdeva in dispute clamorose, si gonfiava tra gli applausi dei suoi discepoli abbagliati dal talento e dall’ardire del loro maestro, e ancor di più dalla stravaganza scientifica che dominava in quel secolo; e intanto che sorte hanno avuto le sue opere? Chi le legge? Chi va a cercare in esse una pagina ben ragionata, la descrizione di un grande avvenimento, un quadro dei costumi del tempo, qualsiasi cosa cioè che interessi la scienza o la storia? E qual è invece l’uomo di cultura che non abbia cercato più volte tutto questo negli scritti immortali di San Bernardo?

Non è possibile trovare una più sublime personificazione della Chiesa che combatte gli eretici del suo tempo, di quel che fu l’illustre Abate di Chiaravalle che lottò contro tutti i novatori e parlava, per così dire, in nome della fede cattolica. Non si può trovare un più degno rappresentante delle idee e dei sentimenti che la Chiesa faceva in modo di ispirare e diffondere, né un’espressione più fedele del cammino che il Cattolicesimo stava facendo seguire allo spirito umano. Fermiamoci un momento di fronte alla colonna gigantesca che si sollevava ad un’altezza immensa al di sopra di tutti i monumenti del suo secolo, a quell’uomo straordinario che riempie il mondo del suo nome, lo eleva con la parola, lo domina con la sua autorevolezza; che lo illumina nell’oscurità, che funge da misterioso anello per unire due epoche tanto distanti tra loro quali furono quella di San Girolamo e Sant’Agostino, e quella di Bossuet e Bourdaloue. La rilassatezza e la corruzione lo circondavano, ed egli si schermiva dai loro attacchi con la più rigida osservanza e con la più delicata purezza di costumi; l’ignoranza si era diffusa in tutte le classi, ed egli studiava giorno e notte per illuminare l’intelletto. Una scienza falsa e fittizia tentava di occupare il posto del vero sapere: egli la apprese, la disdegnò, la disprezzò, e con uno sguardo d’aquila colse a prima vista che l’astro della verità procedeva ad una distanza immensa da questo splendore menzognero, da questa farragine informe di sottigliezze ed inezie che veniva chiamata filosofia dagli uomini del suo secolo. Se a quel tempo si poteva incontrare da qualche parte una scienza utile, era certamente nella Bibbia e negli scritti dei santi Padri; e San Bernardo si abbandonava senza riserva allo studio dell’una e degli altri. Lungi dal consultare i frivoli parolai che cavillavano e declamavano nelle scuole, andava a cercare le ispirazioni nel silenzio del chiostro e nell’augusta maestà dei templi; e se talvolta ne usciva era per contemplare il gran libro della natura, di cui studiava le eterne verità nella solitudine del deserto, o, come ci dice lui stesso, in mezzo a boschi di faggi.

Così quest’uomo illustre, elevandosi al di sopra delle pretese dei suoi tempi, giunse ad evitare il danno prodotto nei suoi contemporanei dal metodo

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allora dominante, il quale consisteva nello spegnere l’immaginazione e il sentimento, falsare il giudizio, aguzzare troppo l’ingegno, confondere e ingarbugliare le dottrine. Leggete le opere del santo Abate di Chiaravalle e vedrete subito che tutte le facoltà camminavano dandosi la mano, per così dire, tutte insieme. Volete l’immaginazione? Ci troverete bellissimi quadri, ritratti fedeli, pitture magnifiche. Volete coglierne gli effetti? Ve li sentirete insinuare delicatamente nel cuore, incantarlo, soggiogarlo, dirigerlo: ora riempiendo di salutare terrore il peccatore ostinato, delineando con energiche pennellate la formidabile giustizia di Dio e l’eterna vendetta; ora consolando e confortando l’uomo abbattuto dalle avversità del mondo, dagli assalti delle passioni, dal ricordo dei suoi trascorsi, da un timore eccessivo della giustizia divina. Volete sentimenti teneri? Sentitelo nei colloqui con Gesù e con Maria; sentitelo parlare della Santissima Vergine con una dolcezza incantata che vi pare esaurisca quanto la speranza e l’amore possano mai suggerire di più bello e di più delicato. Volete fuoco, volete veemenza, volete quell’impeto irresistibile che spiana quanto gli si oppone, che esalta l’anima, che la fa uscire da se stessa, che l’infiamma del più ardente entusiasmo, che la trascina per le vie più ardue e la porta alle più eroiche imprese? Eccolo infiammare con la parola di fuoco i popoli, i Grandi, i monarchi, farli uscire dalle loro abitazioni, armarli, riunirli in eserciti numerosi e spingerli sulle contrade dell’Asia per riscattare il Santo Sepolcro. Quest’uomo straordinario si trovava in tutti i luoghi e si sentiva da tutte le parti: esente da ogni ambizione, egli ha tuttavia la più grande influenza nei grandi affari d’Europa; amante della solitudine e del ritiro, si vedeva continuamente costretto ad uscire dall’oscurità del chiostro per assistere ai Consigli dei prìncipi e dei Papi; non adulava mai, non lusingava; mai tradiva la verità, mai dissimulava il sacro ardore che gli bruciava in cuore; ciò nonostante egli era ascoltato dappertutto con profondo rispetto, e faceva sentire la sua voce severa tanto nella capanna del povero quanto nel palazzo del re; ammoniva con terribile austerità sia il più oscuro monaco che il Sommo Pontefice.

Ad onta di tanto ardore e di tanta attività il suo spirito conservava tutta la sua nitidezza e la sua precisione; se spiegava un articolo di dottrina, si distingueva per la disinvoltura e la limpidezza; se faceva una dimostrazione, procedeva con un rigore pieno di forza; se argomentava, lo faceva con una logica stringente che incalzava l’avversario senza lasciargli scampo; e se doveva difendersi, agiva con somma agilità e destrezza. Le sue risposte erano limpide ed esatte, le repliche penetranti e vivaci; e senza essersi formato con le sottigliezze della scuola districava in modo egregio la verità dall’errore, e la ragione inconfutabile dall’ingannevole fallacia. Ecco un uomo interamente ed esclusivamente formato dall’influenza cattolica; ecco un uomo che non si allontanava mai dal grembo della Chiesa e non pensò mai di scuotere dall’intelletto il giogo dell’autorità, e che ciò nonostante s’innalza come una piramide colossale al di sopra di tutti i contemporanei.

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Per la gloria eterna della Chiesa cattolica, e per respingere l’accusa rivoltale di restringere l’intelletto umano, è il caso di osservare che non fu solo S. Bernardo ad elevarsi al di sopra del suo secolo e a mostrare la strada che si doveva seguire per il vero progresso. Possiamo esser certi che gli uomini più illustri di quei tempi, quelli che non ebbero parte in quei deplorevoli traviamenti che per tanto tempo spinsero l’intelletto umano dietro alle vanità e ai sogni, furono proprio quelli che si mostravano più legati alla religione cattolica. Essi diedero l’esempio di come si doveva agire se si voleva progredire nelle scienze: esempio che, sebbene per molto tempo fosse seguito da pochi, ebbe finalmente molti imitatori nei secoli successivi, essendo le scienze progredite in proporzione al numero di persone che hanno messo in pratica tale esempio: mi sto riferendo allo studio dell’antichità.

L’oggetto principale di studio di quei tempi erano le scienze sacre; perché essendo lo sviluppo dell’intelletto in senso teologico la dialettica e la metafisica si studiavano con lo scopo di applicarle alla teologia. Roscellino, Abelardo, Gilberto Porretano, Amauri, dicevano: «Ragioniamo, sottilizziamo, applichiamo i nostri sistemi ad ogni genere di questioni, la nostra ragione sia nostra regola e guida; altrimenti la conoscenza è impossibile». Sant’Anselmo, S. Bernardo, Ugo di S. Vittore, Riccardo di S. Vittore, Pietro Lombardo, dicevano invece: «Vediamo cosa c’insegna l’antichità, studiamo le opere dei santi Padri, analizziamo, confrontiamo i loro testi. Non c’è molto da fidarsi dei ragionamenti puri, a volte pericolosi e altre volte senza fondamento». Di questi giudizi, qual è quello che è stato convalidato dalla posterità? Di questi metodi, qual è quello che fu adottato quando si volle seriamente fare dei progressi? Non si fece ricorso allo studio assiduo delle testimonianze antiche? Non furono messi da parte i cavilli dialettici? Gli stessi Protestanti, non si gloriano di aver proceduto per questa strada? E i loro teologi, non considerano un sommo onore di esser detti versati nell’antichità? E non considererebbero un’offesa essere chiamati dialettici puri? Da quale parte dunque stava la ragione, dalla parte degli eretici o da quella della Chiesa? Chi capiva meglio quale fosse il metodo più conveniente per il progresso delle scienze? Chi batteva la strada più sicura, i dialettici eretici o i dottori cattolici? Questo non ammette replica, perché non sono ipotesi, sono fatti; non è una teoria, ma la storia delle scienze tale quale la conoscono tutti, tale quale ce la presentano testimonianze innegabili; e chiunque fosse condizionato dall’autorità del Sig. Guizot non potrà certamente lamentarsi che io sia andato di palo in frasca, che abbia schivate le questioni storiche, né che abbia preteso che mi si credesse sulla parola.

Disgraziatamente l’umanità sembra condannata a non trovare la vera strada se non dopo molti giri e rigiri. Avvenne quindi che l’intelletto, seguendo la peggior direzione, andò dietro alle sottigliezze ed ai cavilli e abbandonò il sentiero segnato dalla ragione e dal buonsenso. Sul principio del dodicesimo secolo il male era andato tanto avanti che non era per niente

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semplice cercare di porvi riparo. Non è tanto facile immaginare a quali estremi sarebbero giunte le cose, e i mali che in diversi sensi sarebbero sopravvenuti, se la Provvidenza, che sempre si prende cura dell’universo sia nell’ordine fisico che in quello morale, non avesse fatto nascere un genio straordinario, il quale, elevandosi ad un’altezza immensamente superiore ai suoi contemporanei, si accinse a districare quel caos, e qui tagliando, lì aggiungendo, e illustrando, classificando, riuscì a ricavare da quell’indigesta mole un corpo di vera scienza.

Chiunque sia versato nella storia delle scienze di quei tempi avrà capito subito che sto parlando di San Tommaso d’Aquino, che dobbiamo fissare dal punto d’osservazione indicato se vogliamo comprendere tutta l’estensione dei suoi meriti. Essendo questo Dottore dotato della mente più chiara, più vasta e più penetrante di cui si possa gloriare il genere umano, verrebbe da dire che fosse fuori posto nel tredicesimo secolo, e dispiace che non sia vissuto nei secoli successivi per disputare il primato agli uomini più illustri di cui possa gloriarsi l’Europa moderna. Tuttavia se si riflette con maggiore ponderatezza sui grandi benefìci da lui arrecati all’intelletto umano ci si rende conto della convenienza che egli fosse apparso nel suo secolo, e non si potrà quindi fare a meno di ammirare i profondi disegni della Provvidenza.

Cos’era la filosofia del suo tempo? Dove sarebbero andate a finire la dialettica, la fisica, la morale in mezzo all’abbietto miscuglio di filosofia greca, filosofia araba e princìpi cristiani? Abbiamo già visto quali frutti cominciavano a produrre queste mescolanze favorite dalla grossolana ignoranza che non faceva distinguere la vera natura delle cose, e fomentate dall’orgoglio che pretendeva di sapere già tutto. Eppure il male era solo all’inizio, e sviluppandosi man mano avrebbe certamente presentato sintomi più spaventosi. Fortunatamente comparve questo uomo illustre che di punto in bianco fece avanzare la scienza di due o tre secoli, e giacché non poté evitare il male, vi pose riparo. Ottenendo una superiorità indiscutibile, il suo metodo e la sua dottrina prevalsero ovunque, ed egli divenne il centro di un gran sistema intorno al quale furono costretti a girare tutti gli scrittori scolastici; e così furono repressi un numero immenso di sbagli che diversamente sarebbero stati pressoché inevitabili. Trovò le scuole in piena anarchia, ed egli stabilì la dittatura: dittatura sublime di cui fu investito per la sua mente angelica, abbellita ed illustrata da un’eminente santità. Così io comprendo la missione di San Tommaso, così l’intenderanno quanti si sono impegnati nello studio delle sue opere non accontentandosi della rapida lettura di un articolo biografico.

Quest’uomo era Cattolico, ed è venerato sugli altari nella Chiesa cattolica; e con tutto ciò la sua mente non fu ostacolata dall’autorità in materia di fede, e lo spirito spaziò liberamente per tutti i rami del sapere con tanta ampiezza e profondità di cognizioni che rispetto al tempo in cui visse sembra un vero portento. E bisogna notare che in San Tommaso, nonostante il metodo sia

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molto scolastico, si osserva lo stesso fatto che si è già osservato negli autori cattolici che si sono maggiormente distinti in quei secoli. Ragiona molto, ma si capisce che diffida della ragione, con quella diffidenza prudente che è segno non equivoco di vera sapienza. Si serve delle dottrine di Aristotele, ma si capisce che se ne sarebbe servito molto meno, e si sarebbe invece occupato maggiormente dello studio dei santi Padri, se non avesse seguita la sua idea principale che era quella di utilizzare la filosofia del suo tempo per la difesa della religione.

Ma non si creda per questo che la sua metafisica e la filosofia morale siano un miscuglio di cavilli inesplicabili come ci si potrebbe aspettare dalle tendenze di quei tempi, perché non è così; e chi lo pensasse dimostrerebbe di aver impiegato ben poco tempo nello studio delle sue opere. Quanto alla metafisica, si sa quali fossero le opinioni allora dominanti; ma nelle sue opere si trovano ad ogni passo idee tanto luminose sui punti più complicati di ideologia, ontologia, cosmologia e psicologia, che vi sembra di sentire un filosofo che scrive dopo che le scienze hanno fatto i maggiori progressi.

Abbiamo già visto quali fossero le sue idee in materia politica; e se vi fosse bisogno e lo permettesse la natura di questo scritto potrei citare molti passi del suo Trattato delle leggi e della giustizia dove si trova tanta solidità di princìpi, tanta elevatezza di vedute, una conoscenza così profonda dello scopo della società senza dimenticare la dignità dell’uomo, che farebbero ottima figura nelle migliori opere di legislazione che sono state scritte nei tempi moderni. I suoi trattati sulle virtù e i vizi in generale ed in particolare esauriscano la materia; e si potrebbero ben sfidare tutti gli autori che hanno scritto dopo di lui a presentarci una sola idea di qualche importanza che non vi fosse sviluppata, o almeno accennata. Delle sue opere si può ammirare soprattutto la massima conformità allo spirito del Cattolicesimo: nelle dottrine esposte vi si trova una moderazione, una temperanza, che se fosse stata imitata da tutti gli autori sicuramente il campo delle scienze sarebbe simile ad un’accademia di veri dotti e non già ad una sanguinosa palestra dove combattono accanitamente campioni furibondi. Basti dire che la sua modestia era tale che della sua vita privata e di quella pubblica non riporta un solo fatto; dalla sua bocca non si ode che la parola del sapere che va sviluppando tranquillamente i suoi tesori. Ma l’uomo, con tutte le sue glorie, con tutte le avversità, le fatiche e con tutte quelle frivolezze con cui generalmente gli altri autori ci infastidiscono, tutto questo manca e non si vede per niente (15). Torna all’indice

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CAPITOLO LXXII

Progresso dell’intelletto umano dall’undicesimo secolo fino ad oggi. Sue diverse fasi. Il Protestantesimo ed il Cattolicesimo nei confronti dell’erudizione, della critica, delle lingue dotte, della fondazione delle università, del progresso della letteratura e delle arti, della mistica, dell’alta filosofia, della metafisica e della morale, della filosofia religiosa, della filosofia della storia.

_______________ Credo di aver scagionata completamente la Chiesa cattolica dalle

imputazioni che le hanno attribuito i nemici per la condotta che tenne nei secoli undicesimo e dodicesimo riguardo allo sconvolgimento dello spirito umano. Seguiamo ora a gran passi la marcia dell’intelletto fino ai nostri giorni, e vediamo quali sono i titoli che la riforma ci mostra per meritare la gratitudine degli amanti del progresso dell’umano sapere.

Se non erro le fasi dello sviluppo delle scienze, dalla restaurazione dei lumi incominciata nell’undicesimo secolo, furono le seguenti: prima si sottilizzò, ammucchiando nel tempo stesso un’erudizione indigesta; poi si criticò, imbastendo convenientemente dibattiti approfonditi su ciò che presentavano le testimonianze, e infine si meditò, inaugurando l’epoca della filosofia. La dialettica e la farragine di erudizione formarono il carattere dell’undicesimo secolo e dei secoli seguenti fino al sedicesimo; la critica e la controversia furono il distintivo del sedicesimo e di una parte del diciassettesimo, lo spirito filosofico incominciò a prevalere circa alla metà del diciassettesimo, e continua a dominare ancora ai nostri giorni.

Che beneficio produsse il Protestantesimo in materia di erudizione? Nessuno. La trovò già messa su, e per dimostrarlo basti dire che ai tempi di Lutero brillavano Erasmo e Lodovico Vives.

Contribuì forse il Protestantesimo a stimolare lo studio della critica? Sì! Come un contagio che, decimando le popolazioni, serve al progresso della medicina. Non si creda che senza la falsa riforma non si sarebbe diffuso ugualmente il gusto per questa disciplina: man mano che si dissotterravano le testimonianze del passato, che si diffondeva la conoscenza delle lingue, che si apprendevano nozioni più chiare e precise sulla storia, era ben naturale che si cercasse di discernere il falso dall’autentico. I documenti erano a portata di tutti, se ne faceva uno studio continuo perché questa era la passione preferita del tempo: com’era possibile allora che non si risvegliasse il desiderio di esaminare i motivi per i quali essi venivano attribuiti a questo o a quell’autore, a questo o a quel secolo, e fino a che punto l’ignoranza o la malafede li avessero alterati, o vi avessero tolte o aggiunte delle parti?

A questo proposito ricorderò quanto accadde alle famose Decretali di Isidoro Mercatore. Prima del quindicesimo secolo queste circolavano ovunque senza che nessuno le contestasse grazie all’ignoranza dei tempi e al fatto che la critica non si era ancora sviluppata; ma appena si ebbe un’abbondanza di

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indizi e cognizioni l’edificio dell’impostore incominciò a vacillare. Già nel quindicesimo secolo il Cardinale Cusano attaccò l’autenticità di alcune Decretali che erano dichiarate anteriori a Papa Siricio; le riflessioni del dotto Cardinale aprirono la strada a quelli che si accinsero ad attaccare le altre. Si intavolò una disputa seria e, com’era naturale, vi presero parte anche i Protestanti; ma certamente sarebbe avvenuto lo stesso tra gli autori cattolici. Quando s’incominciarono a leggere i codici di Teodosio e di Giustiniano, e le opere degli antichi autori e le collezioni delle testimonianze ecclesiastiche, non fu più possibile non accorgersi che nelle false decretali si trovavano sentenze e frammenti di scritti risalenti ad epoche posteriori al tempo al quale era stato detto che appartenessero. Da qui venne prima il sospetto, e poi la dimostrazione dell’inganno.

Quanto abbiamo detto sulla critica si può riferire anche alla controversia; pure questa non sarebbe mancata anche con l’unità della fede; e a prova di tale verità basti ricordare ciò che avvenne tra le scuole cattoliche. E se questo avveniva in presenza del nemico comune, non ci vuole molto a capire che, non essendo distratte da tal nemico, si sarebbero abbandonate alla polemica con maggior vivacità e calore.

Né per la critica né per la controversia i Protestanti hanno alcun vantaggio sui Cattolici; perché sebbene sia vero che non tutti i nostri teologi compresero la necessità di far fronte ai nemici della fede con armi più solide e di miglior tempera di quelle che provenivano dall’arsenale della filosofia aristotelica, è certo però che molti furono coloro che si elevarono alla debita altezza ben consapevoli della gravità della crisi e dell’urgente necessità d’introdurre negli studi teologici profonde modificazioni. Bellarmino, Melchior Cano, Petavio, e molti altri che potrei citare, sono uomini che non stanno per niente indietro ai più famosi Protestanti, per quanto si voglia esagerare il merito scientifico dei difensori dell’errore.

La conoscenza delle lingue antiche doveva contribuire in modo particolare al progresso della critica e della polemica intesa in senso positivo; ed io non vedo che nella lingua latina, nella greca o nell’ebraica i Cattolici rimanessero indietro. Antonio di Nebria, Erasmo, Lodovico Vives, Lorenzo Valla, Leonardo Aretino, il Cardinale Bembo, Sadoleto, Poggio, Melchior Cano, ed infiniti altri che potrei ricordare: tutti costoro furono forse istruiti nella scuola protestante? E non furono i Papi quelli che diedero il principale impulso a quel movimento letterario? E non furono essi che proteggevano con la massima liberalità gli eruditi, che dispensavano onori, somministravano i mezzi e cacciavano i denari per l’acquisto dei migliori manoscritti? Si è forse dimenticato che il gusto per la colta latinità giunse all’eccesso, fino al punto che alcuni eruditi avevano quasi scrupolo di leggere la Volgata per timore di rimanere contaminati da parole poco latine?

Quanto al Greco, per convincersi che lo sviluppo di questa lingua non è dovuto alla falsa riforma basti ricordare le cause per cui si diffuse in Europa.

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Tutti sanno che con la presa di Costantinopoli da parte dei Turchi i resti delle opere letterarie di quella sfortunata nazione approdarono alle coste d’Italia; in Italia si cominciò a studiare seriamente la lingua greca, e dall’Italia questo studio si estese alla Francia e agli altri paesi d’Europa. Un mezzo secolo prima che comparisse il Protestantesimo già l’italiano Gregorio di Tiferno insegnava a Parigi la lingua greca. Nella stessa Germania fioriva tra la fine del quindicesimo secolo e l’inizio del sedicesimo il celebre Giovanni Reuchlin, che insegnò il Greco con lustro e gloria prima ad Orleans e Poitiers, e successivamente ad Ingolstad. Reuchlin conosceva questa lingua con tanta perfezione che, trovandosi a Roma, interpretò con tale bravura e proferì con un accento così puro un passo di Tucidide in presenza del celebre Argiropilo, che questi pieno di ammirazione esclamò: Graecia nostra exilio transvolavit alpes.

In quanto alla lingua ebraica inserirò qui un passo importante dell’Abate Gujet: «I Protestanti – egli dice – vorrebbero accaparrarsi l’onore di passare per i restauratori della lingua ebraica in Europa; ma sono costretti a riconoscere che se sanno qualcosa in questa materia ne vanno debitori ai Cattolici che sono stati i loro maestri e dai quali ci è pervenuto quanto abbiamo di meglio e di più utile rispetto alle lingue orientali. Giovanni Reuchlin, che passò la maggior parte della sua vita nel quindicesimo secolo, era certamente cattolico, e fu uno dei più preparati nella lingua ebraica e il primo tra i Cristiani che la ridusse ad arte. Giovanni Wessel di Groninga gliene aveva insegnato a Parigi gli elementi, ed egli stesso ebbe altri discepoli a cui ispirò l’amore per questo studio. L’ardore per la lingua ebraica si ravvivò in Occidente per l’impulso di Pico della Mirandola, che apparteneva anch’egli alla comunione della Chiesa romana. Ai tempi del Concilio di Trento coloro tra gli eretici che conoscevano questa lingua l’avevano imparata quasi tutti in seno a quella Chiesa che avevano abbandonato; e le loro vane sottigliezze intorno al senso del Testo stimolarono vieppiù i veri fedeli a studiare a fondo una lingua che poteva tanto contribuire al proprio trionfo e alla disfatta dei nemici. Non dovevano far altro, per questo, che seguire lo spirito di Papa Clemente V, il quale già dall’inizio del quattordicesimo secolo aveva disposto che per l’istruzione delle lingue straniere, a Roma, Parigi, Oxford, Bologna e Salamanca s’insegnassero pubblicamente il Greco, l’Ebraico, il Caldeo e l’Arabo. L’intenzione di questo Papa, che conosceva così bene i vantaggi che provengono dal fare studi approfonditi, era quella di ottenere dallo studio delle lingue maggior luce che illuminasse la Chiesa, e a formare uomini di scienza capaci di difenderla contro l’errore. Egli aveva in particolare l’intenzione di rinnovare lo studio dei Libri Santi servendosi delle lingue, e sopratutto dell’Ebraico; voleva che la Sacra Scrittura, letta nell’originale, sembrasse ancora più degna nei confronti dello Spirito Santo che la dettò, e che conosciutane più da vicino l’elevazione e la semplicità, fosse venerata con maggior riverenza, in modo che senza minimamente diminuire il rispetto

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dovuto alla versione latina, si potesse comprendere che la conoscenza del Testo originale era tuttavia più utile alla Chiesa per rendere la fede più salda e per far tacere l’eresia» (Abate Gujet, Discorso sul rinnovamento degli studî ecclesiastici dal secolo XLV in poi).

Una delle cause che contribuirono maggiormente allo sviluppo dell’intelletto umano fu la creazione di grandi centri d’insegnamento dove fu messo insieme quanto c’era di più illustre riguardo agli uomini di scienza ed al sapere; e dai quali si diffondesse la luce in tutte le direzioni. Non so come si sia potuto dimenticare che questa iniziativa nulla debba alla falsa riforma, e che la maggior parte delle università d’Europa furono fondate molto tempo prima della nascita di Lutero. Quella di Oxford sorse nell’anno 895; quella di Cambridge nel 1280; quella di Praga in Boemia nel 1358; quella di Lovanio nel Belgio nel 1425; quella di Vienna in Austria nel 1365; quella d’Ingolstad in Germania nel 1372; quella di Lipsia nel 1408; quella di Basilea in Svizzera nel 1469; quella di Salamanca nel 1200; quella di Alcalà nel 1517. Ed è inutile ricordare l’antichità di quelle di Parigi, Bologna, Ferrara, e molte altre che avevano acquistata la più alta reputazione molto tempo prima che apparisse il Protestantesimo.

Si sa che i Papi partecipavano alla fondazione delle università, che concedevano loro molti privilegi, e che le favorivano con grandi prerogative; e come si è potuto dunque affermare che Roma covasse il disegno di sterminare la luce delle scienze e di mantenere i popoli nelle tenebre dell’ignoranza? Come se la Provvidenza avesse voluto confondere i futuri calunniatori, il Protestantesimo comparve proprio nell’epoca in cui sotto la protezione di un gran Papa si svolgeva il più vivace progresso nelle scienze, nelle lettere e nelle arti. I posteri che giudicheranno senza parzialità le nostre dispute pronunceranno senza dubbio una sentenza molto severa contro quei pretesi filosofi che si affaticano ostinatamente per trovare nella storia prove sicure che il Cattolicesimo ostacolasse la marcia dell’intelletto umano, e che le scienze sono debitrici del loro progresso al grido di libertà che si levò dal centro della Germania. Sì: agli uomini saggi dei secoli avvenire come a quelli del presente basterà, per giudicare con certezza e giustizia, ricordare che Lutero cominciò a propagare i suoi errori nel secolo di Leone X.

Non era certo di quei tempi l’oscurantismo, cioè l’accusa che viene rivolta alla corte di Roma. Essa era in testa a tutti i progressi, dava loro l’impulso col più vivo zelo e con l’entusiasmo più ardente, tanto che, se c’era un rimprovero da farle, se c’era qualcosa che potesse non andar bene, era semmai l’eccesso e non il difetto. Non c’è dubbio: se un nuovo San Bernardo si fosse rivolto a Papa Leone X, non l’avrebbe certamente accusato di abuso di autorità nei confronti dell’intelletto umano, né di danno per il progresso delle scienze.

«La riforma – dice il Sig. de Chateaubriand, – penetrata dallo spirito del suo fondatore, frate invidioso e barbaro, si dichiarò nemica delle arti. Togliendo l’inventiva dalle qualità dell’uomo tarpò al genio le ali

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impedendogli di elevarsi. Essa scoppiò a motivo di alcune elemosine destinate ad innalzare per il mondo cristiano la basilica di S. Pietro: gli antichi Greci non avrebbero certamente negati gli aiuti richiesti alla loro pietà per edificare il tempio di Minerva.

«Se la riforma avesse ottenuto fin da principio un trionfo completo avrebbe instaurato almeno per qualche tempo una nuova epoca di barbarie. Trattando come superstizione la sontuosità degli altari e come idolatria i capolavori di scultura, architettura e pittura, si avviava a bandire dal mondo l’eloquenza e la poesia in ciò che hanno di più grande e più sublime, a pervertire i gusti col ripudiarne i modelli, ad introdurre un certo che di arido, di freddo, di ostinato nello spirito, ad imporre una società rigida e materiale al posto di una società spontanea ed intellettuale, a porre le macchine ed il movimento di una ruota al posto delle mani e del lavoro dell’intelletto. L’osservazione su un certo fatto confermerà queste verità.

«Le diverse ramificazioni della religione riformata si sono allontanate dal bello in proporzione a quanto si sono allontanate dalla religione cattolica. In Inghilterra, dove si è conservata la gerarchia ecclesiastica, le lettere hanno avuto il loro secolo classico, il Luteranesimo conserva ancora alcune scintille d’inventiva, che il Calvinismo si sta affrettando a spegnere; e così man mano scendendo per le varie sétte fino al quacchero, il quale vorrebbe ridurre la vita sociale alla grossolanità dei modi ed alla pratica esclusiva dei mestieri.

«Shakespeare molto probabilmente era cattolico; Milton imitò in modo evidente alcune parti dei poemi di Saint-Avite e di Masenio; Klopstoch ha attinto sostanzialmente dalle credenze romane. Ai nostri tempi l’immaginazione sublime non si è manifestata in Germania, se non quando lo spirito del Protestantesimo si è indebolito ed ha cambiato natura. Goethe e Schiller hanno ritrovato il loro genio nel trattare temi cattolici; Rousseau e Madame de Staël sono illustri eccezioni di questa regola; ma non erano Protestanti del tipo dei primi discepoli di Calvino. I pittori, gli architetti e gli scultori delle sette dissidenti vanno a Roma per cercare quelle ispirazioni che la tolleranza universale permette loro di raccogliere. L’Europa, dirò meglio, il mondo è coperto di monumenti della religione cattolica; ad essa dobbiamo quell’architettura gotica che gareggia nei particolari con i monumenti della Grecia e li oltrepassa in grandezza. Son passati tre secoli dalla nascita del Protestantesimo; esso è potente in Inghilterra, in Germania e in America, ed è praticato da milioni di persone; e cosa ha edificato? Esso vi mostrerà le rovine che ha prodotto, in mezzo alle quali ha piantato qualche giardino o stabilito qualche opificio. Ribelle all’influenza delle tradizioni, all’esperienza dei tempi, alla sapienza degli antichi, il Protestantesimo si separò da tutto il passato per fondare una società senza radici. Riconoscendo per padre un frate tedesco del sedicesimo secolo rinunciò alla meravigliosa genealogia che fa risalire il Cattolico attraverso una serie di santi e di uomini illustri fino a Gesù Cristo, e quindi fino ai Patriarchi, fino alla culla dell’universo. Il secolo

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protestante, fin da quando ebbe origine, rifiutò ogni parentela col secolo di quel Leone, protettore del mondo incivilito contro Attila, e col secolo del Leone attuale, che mettendo fine al mondo barbaro, abbellì la società quando non c’era più bisogno di difenderla» (Studî storici sulla caduta dell’impero romano, e sulla nascita e il progresso del Cristianesimo).

È peccato che l’autore di un così bel passo, e che con tanta finezza di giudizio definiva gli effetti del Protestantesimo in ciò che riguarda le lettere e le arti, abbia detto che «la riforma, propriamente parlando, fu la verità filosofica che sotto una forma cristiana attaccò la verità religiosa» (Ibid. prefazione). Che significato hanno queste parole? Per procedere con sicurezza vediamo cosa intende l’illustre scrittore. «La verità religiosa – egli dice – è la conoscenza di un Dio unico manifestata attraverso un culto; la verità filosofica è la triplice scienza delle cose intellettuali, morali e naturali» (Studi storici, esposizione). Non è facile concepire come ammettendo la verità della religione cattolica, e quindi riconoscendo la falsità di quella protestante, questa possa essere detta verità filosofica in lotta con quella che è la verità religiosa. Sia nell’ordine naturale che in quello soprannaturale, sia nell’ordine filosofico che in quello religioso tutte le verità vengono da Dio, tutte trovano il loro fine in Dio. Non può esserci dunque lotta tra la verità di un ordine e le verità di un altro; non può esserci lotta tra la religione e la vera filosofia, tra la natura e la grazia. Quello che è vero è la realtà stessa, poiché la verità consiste negli stessi esseri; o, diremo meglio, essa altro non è che gli esseri tali quali sono e come sono in se stessi; e per questa ragione non è esatto dire che la verità filosofica sia mai stata in opposizione alla verità religiosa. Secondo lo stesso autore, «la verità filosofica è l’indipendenza dello spirito dell’uomo; essa tende a scoprire e a perfezionare nelle tre scienze di sua competenza, la scienza intellettuale, la scienza morale e la scienza naturale»; «ma la verità filosofica – prosegue, – inclinando verso l’avvenire, si è trovata in contraddizione con la verità religiosa, la quale è legata al passato perché partecipa dell’immobilità del suo eterno principio». Col dovuto rispetto per l’immortale autore del Genio del Cristianesimo ed al cantore dei Martiri , mi prenderò la libertà di dire che vi è qui una spiacevole confusione d’idee. La verità filosofica, di cui ci parla il Sig. de Chateaubriand, può essere intesa o come la scienza stessa, in quanto racchiude un complesso di verità; o come l’insieme di tutte le cognizioni, comprendendovi sia la verità che l’errore; o come coloro che posseggono tali cognizioni, in quanto formano una classe di somma influenza nella società. Nel primo caso, è impossibile che la verità filosofica contrasti con quella religiosa, cioè col Cattolicesimo; nel secondo, non sarà strano che vi sia una tale opposizione, perché essendovi un miscuglio di errori, alcuni di questi potranno essere in contraddizione con i dogmi cattolici; nel terzo caso infine, è vero purtroppo che molti uomini illustri per i loro talenti e per la dottrina hanno combattuto l’insegnamento cattolico; ma siccome ce ne sono stati anche altri in numero nient’affatto minore, né meno

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illustri, che lo hanno sostenuto con successo, non sarà molto esatto affermare, anche in questo senso, che la verità filosofica si sia trovata in opposizione con la verità religiosa.

Non è mia intenzione dare alle parole dell’illustre autore un senso malevolo; al contrario, io penso che la verità filosofica nella sua mente non fosse altro che lo spirito d’indipendenza considerato in generale, in un modo vago ed indeterminato, senza riferimento particolare a questo o quell’oggetto. Questo è il solo modo per poter conciliare i vari testi tra loro, essendo evidente che chi condanna con tanta severità la riforma protestante non può ammettere che essa contenga in sé la verità filosofica propriamente detta nelle cose in cui si trovava in opposizione con le dottrine cattoliche. Ma in questo caso è certo che il linguaggio dell’illustre scrittore non è stato molto esatto; la qual cosa non desta meraviglia quando si pensi che l’esattezza nelle scienze storico-filosofiche non suole essere il carattere distintivo dei geni avvezzi a lasciarsi trasportare nei più alti spazi nei loro voli di sublime poesia.

Il rinnovamento filosofico, in ciò che ha di più libero e ardito, non ebbe la sua origine in Germania, né in Inghilterra, bensì nella Francia cattolica. Cartesio, che inaugurò l’epoca nuova sbalzando dal trono Aristotele, e che diede l’impulso ai progressi della logica, della fisica e della metafisica, era francese e cattolico. La maggior parte dei suoi discepoli più distinti erano anch’essi in comunione con la Chiesa romana. La filosofia dunque, in ciò che ha di sublime, non deve nulla al Protestantesimo. Fino a Leibnitz la Germania ebbe appena un filosofo di grido; e le scuole inglesi che hanno acquistato più o meno celebrità furono posteriori a Cartesio. Se si osserva bene, la Francia fu il centro del rinnovamento filosofico fin dagli ultimi anni del sedicesimo secolo: epoca nella quale tutti i paesi protestanti erano tanto indietro in questo genere di studî, che a mala pena s’interessavano del vivace progresso della filosofia che stava avvenendo tra i Cattolici.

Nel seno della Chiesa cattolica cominciò a svilupparsi anche l’interesse per le meditazioni profonde sui segreti del cuore, sulle relazioni dell’anima umana con Dio e con la natura; e quell’astrazione sublime che concentra l’uomo e lo spoglia della materia, lo fa spaziare per le alte regioni dove pare che possano aggirarsi soltanto gli spiriti celesti. La mistica, in ciò che ha di più puro, più delicato e più sublime, non si trova forse nei nostri autori del secolo d’oro? Quanto si è pubblicato nei tempi posteriori, non si trova forse in S. Teresa di Gesù, in S. Giovanni della Croce, nel Venerabile Avila, in Luigi di Granata, in Luigi di Leone?

Era forse Protestante uno dei più vigorosi pensatori del diciassettesimo secolo, quel genio di cui tuttavia rammentiamo con dolore che fu abbagliato per un certo tempo da una setta ipocrita e seduttrice, l’insigne Pascal? E non fu egli che fondò quella scuola filosofico-religiosa che ora si lancia nelle profonde vie della religione, ora in quelle della natura ed ora nei misteri dello spirito umano, facendo scintillare in tutte le direzioni raggi di vivissima luce

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per la causa della verità? E i suoi Pensieri, non sono forse quel libro che gli apologeti della religione cristiana, sia cattolici che protestanti, hanno consultato con vera predilezione quando ebbero da lottare contro l’ateismo e l’indifferenza?

I professori di filosofia della storia sono quelli che maggiormente si sono segnalati per il loro impegno di dare alla Chiesa la taccia di nemica del progresso scientifico, e di presentare la falsa riforma come grande protettrice dei diritti dell’intelletto. Almeno per gratitudine avrebbero dovuto procedere con maggiore circospezione; perché non potevano dimenticare che il vero fondatore della filosofia della storia fu un Cattolico, e che la prima e la più eccellente opera scritta su tale materia uscì dalla penna di un Vescovo cattolico. Bossuet fu quello che col suo immortale Discorso sulla storia universale insegnò agli uomini moderni a contemplare la vita del genere umano in un modo sublime; ad abbracciare con una sola occhiata tutti i grandi avvenimenti che si sono succeduti nel corso dei secoli, a vederli in tutta la loro grandezza, in tutta la loro concatenazione, in tutte le fasi, con tutti gli effetti e le rispettive cause, e a ricavarne lezioni benefiche per l’ammaestramento dei prìncipi e dei popoli. E Bossuet era Cattolico, ed era uno dei più illustri campioni contro la riforma protestante. E la sua fama aumentò ancora, se fosse stato possibile, con un’altra opera in cui ridusse in polvere le dottrine dei novatori, basandone la condanna sulle loro continue variazioni, e dimostrando che esse avevano preso la via dell’errore perché la varietà non può essere una caratteristica della verità. Possiamo ben domandare ai fautori del Protestantesimo se il volo d’aquila del celebre vescovo di Meaux risenta qualcosa dei presunti ostacoli della religione cattolica quando nel dare un’occhiata all’origine e al destino dell’umanità, alla caduta del primo padre ed alle conseguenze che ne vennero, alle rivoluzioni d’Oriente e d’Occidente, descrive con tanta sublimità e maestria la via tenuta dalla Provvidenza.

Quanto al movimento letterario, potrei quasi astenermi dal difendere il Cattolicesimo dalle accuse dei nemici. Cos’era mai la letteratura in tutti i paesi protestanti quando l’Italia e la Spagna producevano quei retori e quei poeti che nei tempi successivi sono stati il modello di quanti si sono applicati ad un tal genere di studî? Sia in Inghilterra che in Germania molti rami della letteratura, che pure erano comuni nei paesi cattolici, non erano conosciuti; e quando negli ultimi tempi si è voluto rimediare a tale mancanza, uno dei migliori mezzi escogitati è stato quello di prendere per modello gli autori spagnoli, soggetti all’oscurantismo cattolico e ai roghi dell’Inquisizione.

L’intelletto, il cuore, la fantasia, non devono nulla al Protestantesimo; prima che questo nascesse, si sviluppavano con grazia e vigore; e dopo la sua comparsa continuarono a svilupparsi nel seno della Chiesa cattolica con tanto splendore e gloria quanto ne ebbero nei tempi precedenti. Tra le file dei Cattolici spiccano uomini insigni, radiosi per la magnifica aureola con cui cinsero la fronte tra gli applausi universali di tutti i paesi civili; dunque è una

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vera calunnia quella che attribuisce alla nostra religione la tendenza di rendere schiava la mente, e di oscurarla. No, non sarebbe mai potuta accadere una cosa simile: quella che è nata dal seno della Luce non può produrre le tenebre; quella che è opera della stessa Verità, non ha bisogno di sottrarsi ai raggi del sole, e non è costretta a nascondersi nelle viscere della terra. Può camminare alla luce del giorno, può affrontare la controversia, può chiamare intorno a sé tutte le intelligenze, ben sicura di essere riconosciuta tanto più pura, più bella e più incantevole quanto più la contemplino con attenzione, e quanto più da vicino la guardino. Torna all’indice

CAPITOLO LXXIII Epilogo dell’opera e dichiarazione dell’autore con cui la sottopone al giudizio della Chiesa romana.

_______________ Trovandomi ormai al termine della mia difficile impresa mi sia lecito di

volgere indietro lo sguardo, come fa il viandante che si riposa dalle sue fatiche dando un’occhiata al lungo cammino che ha percorso. Il timore che penetrasse nella mia patria lo scisma religioso; la conoscenza dei tentativi che venivano fatti per introdurre gli errori dei Protestanti; la lettura di alcune opere nelle quali è riportata come cosa accertata che la falsa riforma è favorevole al progresso delle nazioni; tutte queste cause unite insieme m’ispirarono l’idea d’intraprendere la fatica di scrivere un’opera in cui si dimostrasse che tanto l’individuo quanto la società nulla devono al Protestantesimo sotto l’aspetto religioso, sociale, politico e letterario. Mi proposi d’esaminare quanto ne dice la storia e ciò che insegna la filosofia. Non ero ignaro dell’enorme vastità delle questioni che occorreva mettere sul tappeto e non mi lusingava il fatto di doverle chiarire, come era necessario fare; ciò nonostante iniziai l’opera con quel coraggio che ispirano l’amore per la verità e la certezza di difenderne la causa.

Nel considerare la nascita del Protestantesimo ho cercato di alzare lo sguardo alla maggiore altezza che mi fosse consentita; rendendo la dovuta giustizia agli uomini, ho attribuito in gran parte il danno alla misera condizione dell’umanità, alla debolezza della nostra mente e a quel retaggio di malvagità e di tenebre che ci tramandò la caduta del primo padre. Lutero, Calvino, Zuinglio sparirono alla mia vista: collocati nell’immenso quadro degli avvenimenti mi si presentarono come figure piccole, impercettibili, la cui singolarità era ben lontana dal meritare quell’importanza che le è stata data in altri tempi. Leale nelle mie convinzioni e schietto nelle mie parole ho ammesso sinceramente, ancorché non senza dolore, la realtà di alcuni abusi che servirono di pretesto per rompere l’unità della fede; ho riconosciuto

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ugualmente che una parte di colpa toccava agli uomini; ma ho osservato che quanto più ne risultava la debolezza e la malizia, tanto più risplendeva la provvidenza di Colui che promise di stare con la sua Chiesa fino alla consumazione dei secoli.

Per mezzo del ragionamento e d’indiscutibili prove ho dimostrato che i dogmi fondamentali del Protestantesimo mostravano chiaramente di conoscere ben poco la mente dell’uomo e che erano una sorgente feconda di errori e di sciagure. Passando poi a riflettere sullo sviluppo della civiltà europea ho messo faccia a faccia, in un confronto continuo, il Protestantesimo e il Cattolicesimo; e credo di poter essere certo di non aver riportata una sola proposizione di qualche importanza che non abbia provata con fatti storici. Mi sono trovato nella necessità di scorrere tutti i secoli dalla fondazione del Cristianesimo in poi, e di osservare le diverse fasi sotto le quali si è sviluppata la civiltà; perché non avrei potuto in altro modo giustificare in tutto e per tutto la religione cattolica.

Il lettore avrà potuto osservare che il pensiero dominante dell’opera è questo: «Prima del Protestantesimo la civiltà europea si era già sviluppata per quanto era possibile; il Protestantesimo ne deviò il corso e arrecò danni enormi alla società moderna; i progressi che sono avvenuti dopo la sua comparsa non sono stati promossi dal Protestantesimo, bensì nonostante il Protestantesimo». Mi sono preoccupato di consultare la storia, e ho posto molta attenzione a non alterarla, perché ho mantenuto il vivo ricordo di quelle parole del sacro Testo: ha forse bisogno Dio delle vostre menzogne? Qui sono racchiuse le testimonianze a cui mi sono rivolto, esse stanno in tutte le biblioteche, pronte a rispondere a chiunque voglia interrogarle: leggete e giudicate.

Non so se nella gran massa di argomenti che mi si sono presentati e che ho dovuto esporre ne abbia risolto qualcuno in modo poco conforme ai dogmi della religione che avevo intenzione di difendere; non so se in qualche passo dell’opera abbia riportato proposizioni erronee o mi sia espresso in termini poco opportuni. Prima di darla alla luce ho sottoposto l’opera alla censura dell’autorità ecclesiastica; e senza esitare avrei ascoltato la più piccola osservazione della medesima, emendando, correggendo o variando qualunque cosa mi avesse segnalata come meritevole di variazione o di emenda. Ciò nonostante sottopongo l’intera opera al giudizio della Chiesa cattolica, apostolica, romana; e qualora il Sommo Pontefice, successore di San Pietro e Vicario di Gesù Cristo in terra, proferisse una parola contro qualcuna delle mie opinioni, mi affretterei a dichiarare che tale opinione la tengo per erronea e che rinuncio a professarla.

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NOTE

(1) – Il piano dell’opera prevedeva di parlare delle comunità religiose, ma senza sviluppare completamente la materia. A mio parere però sarebbe utile comporre una storia delle comunità religiose in un modo che, sviluppando parallelamente quella dei popoli tra i quali sono sorte, venga dimostrato in modo più ampio ciò che io ho dimostrato succintamente: cioè che la fondazione degl’Istituti religiosi, a parte lo scopo principale e divino che ne fu all’origine, è sempre stata la conseguenza di una necessità religiosa e sociale. Un lavoro di tale importanza, che può sgomentare chiunque si limiti ad osservare l’immensità dell’impegno da profondere per eseguirlo in modo conveniente, è qualcosa che supera le mie forze; tuttavia voglio ugualmente suggerirne l’idea a chiunque si senta di avere la capacità, l’erudizione e il tempo necessario per intraprenderla, e quindi di arricchire il nostro secolo di questa nuova testimonianza storico-filosofica. Concepito il disegno sotto questo aspetto, e subordinandolo al suo fine unitario (il cui fondamento è molto chiaro nei fatti più palesi, è adombrato in quelli più oscuri, e può essere soltanto intuìto in quelli occulti), un simile lavoro potrebbe avere in sé tutta la varietà che si può desiderare. Lo stesso soggetto vi si presterebbe, stimolando l’autore ad entrare in certi importantissimi dettagli che potrebbero essere sviluppati come capitoli di un grande poema. La disposizione degli animi, sempre più favorevoli agli Istituti religiosi grazie al disinganno che si va diffondendo sulle infami calunnie che i Protestanti e i filosofi hanno inventato, e sulla falsità di vane teorie, spianerebbe la strada allo scrittore che potrebbe così procedere con maggiore libertà. Il sentiero è già abbastanza battuto: si tratterebbe ora di allargarlo e di portarlo più all’interno nella regione della verità per condurvi un maggior numero di persone.

Fatta questa premessa mi resta da annotare, seppur succintamente, alcuni fatti che ho preferito mettere tutti insieme in una nota perché, pur facendo parte dello stesso argomento, non mi è sembrato conveniente distrarre continuamente l’attenzione del lettore con l’interrompere il filo del discorso.

Anche tra i pagani erano diffusi gli asceti, i quali si dedicavano alla vigilanza e alla pratica di austere virtù; il che ci dice che anche prima del Cristianesimo erano conosciute alcune idee sul merito di quelle virtù che sono state poi criticate quando furono professate nel Cristianesimo. Le vite dei filosofi sono piene di esempi che confermano questo fatto. Ciononostante si comprende bene che i pagani, privi del lume della vera fede e degli altri sostegni della grazia, non potevano esercitare che una vaga forma di ciò che col tempo avrebbero praticato gli asceti cristiani.

Abbiamo già visto che l’aspetto ascetico della vita monastica ha nel Vangelo il suo fondamento, e nella Chiesa la troviamo fin dall’inizio già stabilita sotto una o l’altra forma. Origene ci parla di certi asceti che si astenevano dal mangiare carne e da tutto ciò che avesse avuto una vita, per

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ridurre il corpo in schiavitù (cfr. Orig. contra Celsum lib. 5). E lasciando da parte gli altri antichi scrittori, vediamo che Tertulliano parla di alcuni che si astenevano dal matrimonio, non perché lo condannassero, ma per guadagnare il regno dei cieli (cfr. Tertul. lib. 2, de cultu foeminarum).

È il caso di osservare che il sesso debole fu partecipe in modo particolare di quella forza spirituale che il Cristianesimo aveva comunicato per l’esercizio delle grandi virtù. Nei primi secoli della Chiesa erano già molte le vergini e le vedove consacrate al Signore e legate con voto di perpetua castità. Negli antichi Concili osserviamo che si aveva una cura particolare per questa parte eletta dell’ovile della Chiesa, ed era oggetto della sollecitudine dei Padri dettare regole convenienti a questa disciplina. Le vergini facevano la loro professione pubblica nella chiesa, ricevevano il velo dalle mani del Vescovo, e per dare maggiore solennità venivano ammesse allo stato religioso con una specie di consacrazione. Questa funzione esigeva che la persona che si consacrava a Dio avesse una certa età, e in questo la disciplina variò molto secondo i paesi. In Oriente i voti si prendevano a 17 anni, e anche a 16, come sappiamo da S. Basilio (Epis. canone 18); in Africa a 25, come vediamo nel canone 4 del terzo Concilio di Cartagine; in Francia a 40 anni, come ci dice il canone 19 del Concilio di Agde. Anche se vivevano in casa dei loro genitori le consacrate facevano sempre parte del numero delle religiose; e siccome in caso di necessità la Chiesa forniva loro gli alimenti, allo stesso modo, se mancavano al voto di castità, venivano scomunicate, e se volevano essere riammesse nella comunione della Chiesa dovevano assoggettarsi alla penitenza pubblica. Chi desidera conoscere meglio tutti questi particolari veda il canone 33 del terzo Concilio cartaginese, il canone 19 del Concilio d’Ancira, e il canone 16 del Concilio di Calcedonia.

Le condizioni in cui si trovò la Chiesa nei primi tre secoli, nei quali andò soggetta ad una persecuzione quasi continua, impedì naturalmente che le persone portate alla vita ascetica, fossero uomini o donne, si unissero per praticarla insieme nelle città. Alcuni ritengono che la propagazione della vita ascetica nel deserto fu in gran parte dovuta alla persecuzione di Decio, che avendola condotta in Egitto in un modo particolarmente crudele fece sì che molti Cristiani si ritirassero nei deserti della Tebaide e in altri vicini, e che iniziasse così a prender piede quel sistema di vita che doveva poi estendersi in modo tanto prodigioso nei secoli successivi. San Paolo, a quanto dice S. Girolamo, fu il fondatore della vita degli anacoreti.

Fin dai primi secoli si erano già introdotti alcuni abusi, poiché vediamo che ai tempi di S. Girolamo certi monaci erano detestati a Roma, (quousque genus detestabile monachorum urbe non pellitur? Dice il Santo per bocca dei Romani, scrivendo a Paola); ma ben presto sui monaci fu ristabilita una buona opinione, che era stata compromessa forse a causa dei sarabaiti e dei girovaghi, una specie di vagabondi che non si curavano per niente della pratica delle virtù e che anzi si abbandonavano con vergognosa sfrenatezza ai

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peccati di gola e agli altri piaceri. S. Atanasio, lo stesso S. Girolamo, S. Martino ed altri celebri santi tra i quali si distinse in modo particolare S. Benedetto, risollevarono lo splendore della vita monastica facendone la più eloquente apologia consistente nel sublime esempio delle austere virtù che praticavano.

Nonostante il moltiplicarsi delle comunità, sia in Oriente che in Occidente, è da notare che nel corso dei primi dieci secoli esse non si divisero in Ordini differenti ma, come osserva Mabillon, si consideravano come appartenenti allo stesso Istituto. Questo fatto mostra qualcosa di veramente edificante per l’unità che rappresentava perché di tutti i monasteri faceva in certo qual modo una sola famiglia; ma bisogna ammettere che la diversità degli Ordini che si introdusse in seguito fu molto vantaggiosa in quanto corrispose ai molti e svariati fini che successivamente richiamarono l’attenzione delle fondazioni religiose.

La disciplina che ad un certo punto fu introdotta, di non fondare nessuna regola se prima non vi fosse l’approvazione pontificia fu necessaria, dato l’eccessivo entusiasmo che animava a volte le nuove fondazioni, per evitare che le fantasie esaltate portassero ad oltrepassare i dovuti limiti, introducendovi il disordine.

Alcuni, ricorrendo ai racconti di Matteo Paris, ed anche alle lamentele di S. Bonaventura, provano piacere nel ricordare gli eccessi a cui si abbandonavano alcuni appartenenti agli Ordini mendicanti. Senza alcuna intenzione di giustificare il male da chiunque provenga, osserverò tuttavia che le circostanze dei tempi nei quali furono fondati quegli Istituti, e il tenore di vita che dovevano condurre se volevano conseguire il fine che si ripromettevano, come ho già detto nel testo rendevano poco meno che inevitabili i mali dei quali si lamentano con sincerità le persone pie, e con ostentazione ed esagerazione i nemici della Chiesa.

È il caso di osservare che gli Ordini mendicanti furono fin dal loro nascere oggetto dell’odio più accanito e perseguitati con atroci calunnie. Il fatto che questi Istituti venissero combattuti così spietatamente dal genio del male conferma ancor di più ciò che ho detto nel testo sul gran bene che producevano. Le cose giunsero a tale eccesso che fu necessario decidersi seriamente a bloccare la calunnia rispondendo alle falsità con una brillante apologia. Quello dei mendicanti veniva chiamato stato condannato, e l’impegno di sostenere questa folle dottrina era fondato sull’autorità della Sacra Scrittura e dei santi Padri. Guglielmo di Santo Amore e Sigerio, maestri di Parigi, scrissero un libro su questa materia e lo presentarono a Clemente IV, il che diede motivo alla compilazione del famoso opuscolo di S. Tommaso intitolato. «Contra impugnantes Dei cultum, et religionem» composto su richiesta del Sommo Pontefice. (Omissis).

L’opuscolo merita attenzione sotto molti aspetti, e in particolare perché ci mostra che fin d’allora contro quegli Istituti si formulavano le stesse accuse

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che continuarono ad esser loro rivolte anche successivamente. Un’altra cosa da notare è che si rinfacciava come un difetto o un abuso quello che invece, come ho già dimostrato,era molto necessario a quei tempi affinché i nuovi Ordini conseguissero il sacro fine di difendere la Chiesa contro gli attacchi dei numerosi suoi nemici, e di contribuire alla conservazione e al buon ordine negli Stati.

L’abito umile e grossolano che indossavano, segno tangibile che l’austerità della vita e il disprezzo per le cose superflue non erano esclusive delle false sétte che ostentavano ipocritamente la loro santità, li rendeva graditi al popolo; eppure, l’abito era oggetto di critica e di maldicenze. I religiosi praticavano le opere di carità; esercitavano una forte influenza sul popolo con la predicazione della Parola; applicandosi alle scienze acquistavano un nome illustre; agivano in modo di procurare ovunque una buona reputazione al loro Ordine, il quale manteneva intensi rapporti tra i suoi membri e tra questi e il mondo; si difendevano dai loro avversari con quella vivacità ed energia che richiedevano le avversità dei tempi o lo spirito impetuoso e irruente delle sétte pervertite; facevano ogni sforzo per procurarsi l’affetto della gente, visitavano la capanna del pastore come il palazzo del monarca: in una parola, esercitavano contro l’errore e il vizio un’azione così viva, efficace e soprattutto universale che l’inferno ebbe timore davanti a loro, e mise in moto ogni genere di attacco per discreditare quegli stessi mezzi che venivano adoperati dagli apostoli della verità per difenderla e propagarla. Il santo Dottore si vide costretto a dimostrare l’innocenza dei suoi fratelli in tutte le accuse loro rivolte (Omissis).

Per conoscere gli effetti che produce un’istituzione può essere molto utile osservare quali siano i suoi nemici; e per valutare i mezzi con i quali essa si rende più temibile ai suoi nemici conviene osservare attentamente le denunce e le accuse che essi le rivolgono contro. Se questo è vero bisognerà ammettere che i nuovi Istituti religiosi erano riusciti a capire in che modo avrebbero dovuto regolarsi in quelle circostanze, e che perciò portarono un gran beneficio alla religione e alla società.

Bisogna anche notare che già a quei tempi si adoperavano gli stessi mezzi che furono usati anche in seguito per denigrare le comunità religiose e per distruggere o indebolire l’influenza che avevano sull’animo del popolo.

Anche allora si argomentava, come vien detto, a particulari ad universale, attribuendo a tutta la comunità gli eccessi di cui solo alcuni si rendevano colpevoli. E allora vediamo il santo Dottore rigettare le accuse basate sulle deviazioni di questo o quell’individuo ma rivolte a tutto l’Ordine, e rinfacciare quindi ai suoi avversari la malafede con la quale avevano tentato di infamare i religiosi esagerando i vizi nei quali in modo più o meno grave sempre incorre la fragilità umana. La frenesia contro i nuovi Istituti era arrivata ad un punto tale che non si può immaginare: i loro membri venivano chiamati falsi apostoli, falsi profeti, messaggeri dell’Anticristo, e perfino anticristi. Abbiamo

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già visto che quando i Protestanti, nel vomitare contro il Papa il dizionario delle villanie lo chiamavano con tanta frequenza l’Anticristo, non inventarono un nuovo epiteto, perché le false sétte che li precedettero chiamavano già in questo modo i difensori della verità. È da notare che i Cattolici quando attaccano i loro avversari non hanno l’abitudine di agitarsi con tanta facilità, né di esprimersi con tanta villania. Quanto alla venuta dell’Anticristo, i Cattolici la lasciano a quel tempo che il Signore vorrà, e non applicano con tanta leggerezza questo nome ai settari, per quanto questi presentino caratteristiche che molto si rifanno a quelle dell’uomo di perdizione.

Dai fatti accennati fin qui possiamo ricavare una lezione molto utile per non farci facilmente abbagliare dai nemici della Chiesa. La tattica preferita di costoro suole essere la seguente: alzano un grido unanime di condanna, di riprovazione o di esagerazione contro un certo fatto che a loro non va a genio, e rivolgendosi subito al pubblico dicono: «E non sentite quel grido forte e universale che condanna ciò che noi stiamo condannando? Di cosa avete più bisogno per essere convinti che la nostra causa è giusta e che i nostri nemici hanno in cuore soltanto malignità e ipocrisia?». Così parlano e così incantano molte persone, facendo rimbombare il baccano dei secoli precedenti insieme al loro; e non ci si accorge che coloro che gridano oggi non sono altro che i successori di quelli che gridavano allora; e che tutto questo rumore prova soltanto che in tutti i tempi la Chiesa cattolica ha avuto un gran numero di nemici. Ma noi già lo sapevamo; sono più di diciotto secoli che ce lo predisse il divino Fondatore.

Cosi ai tempi nostri, quando si è voluto dare molta importanza ai clamori che si sentivano contro le istituzioni più sante, e si pretendeva che fossero l’indizio dell’opinione delle persone sensate e intelligenti, senza dubbio non si è considerato che in ogni tempo è accaduta la stessa cosa; e che se per ogni simile opposizione fosse necessario desistere da certe imprese non se ne condurrebbe a termine nessuna. Non voglio dire con questo che sia necessario o conveniente non fare alcun caso delle lamentele e dei reclami, e che trascurare l’esame del vero stato delle cose non potrebbe comportare qualche grave conseguenza. Non ignoro neanche che la vera prudenza non prescinde mai dalle circostanze relative agli eventi, e che ci sono delle virtù che con lo stesso loro nome indicano che è molto importante discernere, osservare e considerare, virtù che si chiamano destrezza e circospezione. Ma quanto abbiamo detto non si oppone affatto a queste virtù, anzi è una conferma di ciò che esse stesse prescrivono.

Infatti, esiste forse regola più prudente e più giudiziosa di quel che sia il discernere tra lamentela e lamentela, tra rimostranza e rimostranza, tra reclamo e reclamo? Le sagge parole di S. Bernardo e di S. Bonaventura potranno forse confondersi con le invettive violente e insidiose degli eretici del loro tempo? Possiamo noi supporre che Lutero, Calvino e Zuinglio avessero le stesse intenzioni di S. Ignazio, S. Carlo Borromeo e S. Francesco

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di Sales? Ecco ciò che non bisogna confondere quando si tratta di formarsi un’idea degli abusi che in questo o in quel tempo afflissero la Chiesa. Condanniamo il male ovunque si trovi; ma facciamolo con sincerità, con pura intenzione e con vivo desiderio di porvi rimedio, e non per il maligno piacere di presentare agli occhi dei fedeli quadri dolorosi e ripugnanti. Guardiamoci sempre da quel falso zelo che nulla rispetta; e non vogliamo farci strumenti di distruzione atteggiandoci a promotori di riforme. Non crediamo ad ogni spirito, e non trascuriamo mai di unire la prudenza del serpente alla semplicità della colomba.

(2) – Ho già dimostrato con molte testimonianze dei teologi scolastici come debba intendersi l’origine divina dell’autorità civile; e ognuno può vedere che in ciò non vi è nulla che non sia del tutto conforme alla giusta ragione e molto confacente agli alti fini della società. Mi sarebbe stato facile riportarne un maggior numero; ma ho ritenuto che bastassero quelle che ho presentate per chiarire la materia e per soddisfare tutti quei lettori che, lasciando da parte ingiusti pregiudizi, desiderano sinceramente apprendere la verità. Ciò nonostante affinché un argomento di tale importanza venga sviluppato sotto tutti gli aspetti illustrerò in modo un po’ più ampio quel celebre passo dell’Apostolo S. Paolo nel capitolo 13 dell’Epistola ai Romani nel quale parla dell’origine delle autorità e della sottomissione ed ubbidienza che è loro dovuta. E non si creda che intenda risolvere la questione con ragionamenti più o meno capziosi, perché quando si ha da esporre il vero senso di un testo della Sacra Scrittura non bisogna badare soprattutto a ciò che ci dice il nostro debole intelletto, ma piuttosto al modo con cui lo intende la Chiesa cattolica. Quindi è necessario consultare quegli scrittori che, avendo una grande autorità per la loro dottrina e le loro virtù, possiamo con fiducia supporre che non si siano allontanati dalla massima: quod semper, quod ubique, quod ab omnibus traditum est.

Abbiamo già visto un passo importante di San Giovanni Crisostomo dove viene spiegato con molta chiarezza e solidità il passo citato; come anche alcune testimonianze dei Santi Padri, che ci indicano i motivi che avevano gli Apostoli d’inculcare con tanta insistenza l’obbligo di obbedire all’autorità legittima. E così ci resta soltanto d’inserire di seguito i commenti di alcuni illustri scrittori sul citato testo di San Paolo. In essi vi si troverà, per così dire, un corpo di dottrina che ci mostrerà la ragione dei precetti del Sacro Testo, facendoci così giungere facilmente al suo senso genuino.

Per prima cosa si veda con quanta dottrina, pietà e prudenza espone quest’importante materia uno scrittore, non già dei secoli d’oro, ma di quelli che troppo genericamente vengono chiamati secoli d’ignoranza e di barbarie: S. Anselmo, che nei suoi commenti sul capitolo 13 della lettera ai Romani dice così:

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(Omissis). In questo passo importante si trova tutto: l’origine dell’autorità, l’oggetto, i

doveri e i limiti. C’è da notare che il santo conferma totalmente ciò che ho inserito nel testo sull’errata interpretazione nei primi tempi da parte di alcuni, i quali credevano che la libertà cristiana portasse con sé l’abolizione delle autorità civili, e in particolar modo di quelle pagane. Viene anche messo in rilievo lo scandalo che sarebbe potuto derivare da tale dottrina, e che perciò, sebbene gli Apostoli non avessero lo scopo di conferire all’autorità civile un’origine straordinaria e soprannaturale come quella dell’autorità ecclesiastica, ebbero tuttavia delle ragioni particolari per insegnare che anche l’autorità civile viene da Dio, e che chiunque le si oppone si oppone all’ordine di Dio.

Passando ai secoli successivi troveremo le stesse dottrine nei più celebri commentatori. Cornelio a Lapide spiega in questo modo il passo citato come S. Anselmo, fornendo le stesse ragioni per mettere in evidenza i motivi che avevano gli Apostoli per raccomandare l’ubbidienza alle autorità civili:

(Omissis). Ho detto nel testo che tra i filosofi antichi privi della luce della fede, e

quelli moderni che l’hanno abbandonata, si osserva una particolare coincidenza di opinioni sull’origine della società; che mancando agli uni e agli altri quell’unica guida che è la storia di Mosè, esaminando l’origine delle cose non sono riusciti a trovare altro che il caos, tanto nell’ordine fisico quanto in quello morale. A testimonianza di questa mia asserzione ecco alcuni notevoli passi di due personaggi celebri dove il lettore troverà poca differenza con il linguaggio stesso di Hobbes, di Rousseau e di altri della stessa scuola.

«Vi fu un tempo – dice Cicerone – in cui gli uomini andavano vagando per

la campagna come dei bruti, alimentandosi con le prede come le fiere, non regolandosi affatto mediante la ragione ma in tutte le cose con la forza. A quel tempo non si professava alcuna religione, non si osservava nessuna morale, non vi erano leggi sul matrimonio; il padre non sapeva chi fossero i suoi figli e il bene procurato dai princìpi di giustizia non era conosciuto. Così, a motivo dell’ignoranza e dell’errore regnavano tirannicamente le cieche e sconsiderate passioni, che per soddisfare se stesse si servivano del loro brutale servitore: la forza fisica» (De Inv. 1).

La stessa dottrina si trova in Orazio (Satyrarum lib. 1, Satyra 3, 132-152 –

[Traduzione di Luca Antonio Pagnini, 1814]): Quando gli uomini primi usciro al mondo

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Muti e sozzi animali ebbero insieme Per le ghiande e le tane ad azzuffarsi Con unghie e pugni, co’ baston dipoi, Indi con l’armi che foggiò il bisogno, Finchè inventate fur parole e nomi A dinotar gl’interni sensi; e allora Cessaron le battaglie, e alzate furo Città munite, e con le leggi esclusi I furti, gli adulterj e le rapine. Perocchè prima ancor d’Elena al mondo Donne impudiche fur cagion di guerra, Ma ignoti son que’ che di fere in guisa Cercando pasto alla lussuria ingorda Spense la mano di rival più forte, Come toro che sventra i men gagliardi. Se a scorrer prendi d’ogni età gli annali, Vedrai che incontro all’oprar fello e ingiusto Fur le leggi dagli uomini inventate; Nè Natura scevrar dal torto il dritto Può come il ben dal male, il pro dal danno.

(3) – A proposito della questione sull’origine indiretta o diretta dell’autorità civile c’è da osservare che al tempo di Lodovico il Bavaro i prìncipi dell’impero approvarono solennemente l’opinione che sostiene che il potere imperiale proviene direttamente da Dio. In una costituzione imperiale pubblicata contro il Romano Pontefice stabilirono la seguente proposizione: «Per evitare un grande male dichiariamo che la dignità e potestà imperiale procede direttamente soltanto da Dio». Per formarci un’idea dello spirito e della tendenza di questa dottrina ricordiamo chi fosse Lodovico il Bavaro. Scomunicato da Giovanni XXII e poi da Clemente VI, giunse a deporre quest’ultimo e a sostituire nella Sede Apostolica Pietro di Corbara. Essendo stato per tale fatto ammonito più volte dal Papa, questi infine lo spogliò della dignità imperiale e gli fece succedere Carlo, il IV e di questo nome.

Il luterano Zieglier, acerrimo difensore del conferimento diretto, esponendo la sua dottrina paragonò l’elezione del principe a quella del ministro della Chiesa al quale, egli diceva, non è il popolo a conferire l’autorità spirituale, perché questa gli viene direttamente da Dio. Da questa interpretazione si rileva quanto sia vero ciò che ho affermato nel testo, cioè che tale dottrina a quei tempi tendeva ad equiparare le due autorità, temporale e spirituale, facendo intendere che questa non poteva pretendere sull’altra la minima superiorità dovuta all’origine: Non dirò comunque che la dichiarazione fatta al tempo di Lodovico il Bavaro fosse rivolta direttamente a questo scopo, perché la si deve considerare piuttosto come un’arma che

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veniva usata per combattere l’autorità pontificia, della quale in quel momento si temeva l’influenza. Ma si sa bene che le dottrine, a parte l’azione che esercitano al momento di usarle, hanno in sé una loro forza che si sviluppa ogni volta che si presenti l’opportunità di servirsene. Vediamo infatti che molto tempo dopo i monarchi inglesi, difensori della supremazia religiosa di cui si erano impadroniti, sostenevano la stessa proposizione che era stata riferita alla costituzione imperiale.

Non so come si sia potuto sostenere che l’opinione di Zieglier fosse comune prima di Puffendorf, perché consultando gli scrittori sia ecclesiastici che secolari non ho trovato prove del fondamento di tale asserzione. Bisogna anche rendere giustizia agli stessi avversari, perché l’opinione di Zieglier, sostenuta da Boecler ed altri, fu combattuta da alcuni Luterani, tra i quali Boemero, il quale osservò che quest’opinione non era affatto vantaggiosa per la sicurezza della nazione e dei prìncipi, come pretendevano i suoi sostenitori.

Ripeto quanto ho già spiegato nel testo: non credo che l’opinione del conferimento diretto, se inteso correttamente, sia tanto inammissibile e dannosa come alcuni suppongono; ma siccome per se stessa può dare occasione ad una errata interpretazione, i teologi cattolici fecero benissimo a combatterla per ciò che poteva avere in sé di pericoloso per il dogma dell’origine divina dell’autorità ecclesiastica.

(4) – Potrei citare molti passi importanti con cui il lettore si renderebbe conto di quanto sia lontana dal vero l’accusa rivolta al clero cattolico dai suoi nemici, quella cioè di essere favorevole al dispotismo e di aver stretta con esso un’empia alleanza. Ma per non stancare troppo il lettore con testi e citazioni, e per non dilungarci eccessivamente, farò un cenno delle opinioni che correvano in Spagna su questo tema verso gli inizi del diciassettesimo secolo, pochi anni dopo la morte di Filippo II, di quel monarca cioè che ci viene sempre descritto come l’orribile personificazione del fanatismo religioso e della schiavitù politica.

Fra le molte opere che in quei tempi furono scritte su queste delicate materie ce n’è una singolarissima, che a quanto pare non è delle più note. Essa ha per titolo:

Trattato della repubblica e della politica cristiana ad uso dei re e dei

prìncipi, e di coloro che ne fanno le veci nel governo; composto da fra’ Giovanni di S. Maria, religioso scalzo della provincia di S. Giuseppe, dell’Ordine del nostro glorioso Padre S. Francesco.

L’opera fu stampata a Madrid nel 1615 con tutte le licenze, approvazioni,

e le altre solite formalità, e dovette essere accolta abbastanza bene perché nel 1616 fu già ristampata a Barcellona da Sebastiano de Cormellas. Chi sa che quest’opera non ispirasse a Bossuet l’idea di comporre la sua Politica ricavata

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dalle parole della Sacra Scrittura? È certo comunque che il titolo è analogo e il soggetto è lo stesso, benché l’esposizione sia diversa.

«Io penso – dice l’autore – di risolvere la questione presentando ai re con

questo trattato non le mie ragioni, né quelle che potrei ricavare da grandi filosofi e dalla storia umana, ma le parole di Dio e dei suoi santi, la storia divina e quella della Chiesa, delle quali non potranno disprezzare gli insegnamenti, e non vorranno considerare un affronto (per quanto siano i re grandi e potenti) il sottomettersi ad esse, se sono Cristiani, avendole dettate lo Spirito Santo che ne è l’autore. E se avrò da riportare alcuni esempi di re pagani, e di avvalermi dell’antichità servendomi delle sentenze di filosofi non appartenenti al popolo di Dio, lo farò come colui che riprende le proprie cose dalle mani di coloro che le detengono e le posseggono ingiustamente» (Cap. 2).

Nel primo capitolo, che ha per titolo: Nel quale si tratta brevemente di ciò

che contiene in sé questo nome di repubblica e della sua definizione, si leggono queste interessanti parole:

«Di modo che la monarchia, per non degenerare, non deve procedere

libera e assoluta (il che renderebbe insensato il comando e il potere), ma vincolata alle leggi in tutto ciò che è contenuto nelle leggi; e nelle faccende private e temporali al Consiglio, per il legame che deve avere con l’aristocrazia che ne è il sostegno, e al consiglio dei potenti e dei saggi. Perché, se la monarchia non è ben moderata, vengono fuori gravi errori nel governo, e poca soddisfazione e grande disgusto nei governati. Tutti gli uomini più giudiziosi e più dotti in ogni campo hanno sempre considerato questo tipo di governo come il meglio organizzato, e non si è mai pensato che una città o un regno possa essere ben governato in modo diverso. I buoni re e i grandi governatori lo hanno sempre preferito, mentre viceversa quelli che non erano tali sono andati per un’altra strada portati dalla loro forza. Ciò detto, se il monarca, chiunque egli sia, dovesse agire esclusivamente di testa sua senza ascoltare il Consiglio o contro il parere dei suoi consiglieri, anche se se la sua decisione risultasse vantaggiosa uscirebbe dai limiti della monarchia ed entrerebbe in quelli della tirannia: la storia è piena di questi esempi che hanno portato all’infelice successo la tirannia. Ne basti uno per tutti, quello illustrato nel primo libro di Tito Livio riguardante Tarquinio il Superbo. Il quale, volendo con la sua grande superbia farsi padrone di tutto e mettersi tutti sotto i piedi, fece in modo di indebolire l’autorità del Senato romano riducendo il numero dei senatori, giungendo così a decidere da solo quanto occorreva nel regno».

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Nel secondo capitolo, in cui l’autore esamina Cosa significa il nome di re, si legge quanto segue:

«E qui torna bene il terzo significato della parola re, che è lo stesso che

padre, come risulta dalla Genesi, dove i Sichemiti chiamarono il loro re Abimelech, che vuol dir Padre mio o Signor mio. Anticamente i re erano chiamati padri delle loro nazioni; per questo il re Teodorico, difendendo la maestà reale, secondo Cassiodoro si espresse così: “Princeps est pastor pubblicus et comunis”; il re non è altro che un padre pubblico e comune della nazione. Ed è proprio perché il compito del re assomiglia molto a quel del padre che Platone chiamò il re Padre di famiglia. E Il filosofo Senofonte disse: “Bonus princeps nihil differt a bono patre”; il buon prìncipe non differisce in nulla dal buon padre. La differenza sta unicamente nell’avere più o meno persone sotto il proprio comando. E per la verità è molto conforme alla ragione che si dia al re il titolo di padre, perché deve esserlo dei suoi sudditi e del suo regno, tutelando il loro bene e la loro sicurezza con affetto e sollecitudine di padre. Per cui, dice Omero, regnare non è altro che esercitare un governo paterno, come quello di un padre sui propri i figli: Ipsum namque regnum imperium est suapte natura paternum. Il modo migliore per governare è che il re si rivesta dell’amore di padre e guardi i sudditi come figli nati dalle sue viscere. L’amore che il padre ha per i suoi figli, il vigilare che non manchi loro nulla, il dedicarsi tutto a ciascuno di essi, assomiglia molto alla benevolenza del re verso i suoi sudditi. Si chiama padre, e questo nome l’obbliga a corrispondere con i fatti a ciò che significa. Anche perché questo nome di padre si addice moltissimo ai re: che se ben si considera, tra i nomi e gli epiteti di maestà e signoria è il maggiore e li comprende tutti come il genere le specie. Padre è al di sopra di signore, al di sopra di maestro, al disopra di capo e di capitano; questo nome è infine al di sopra di tutti gli altri nomi rivolti agli uomini che denotano signoria e provvidenza. Anticamente quando si voleva onorare oltremodo un imperatore lo si chiamava Padre della patria (che è più di Cesare, più di Augusto, e più di qualunque altro nome glorioso), o per adularlo, o per impegnarlo ai gravi obblighi connessi a questo nome di padre. Finalmente con questo nome si dice al re ciò che deve fare: reggere e governare, e mantenere nella giustizia le nazioni e i regni; che deve pascere da buon pastore le sue docili pecorelle, e deve medicarle e curarle come un buon medico; che deve aver cura dei sudditi come il padre ha dei suoi figli, con prudenza, con amore, con sollecitudine, essendo re più per loro che per se stesso. Perché i re sono più obbligati verso il regno e il popolo che verso se stessi; infatti, se consideriamo l’origine e l’istituzione di re e di regno, troveremo che il re fu fatto per il bene del regno, e non il regno per il bene del re».

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Nel terzo capitolo, che ha per titolo: Se il nome di re è nome di ufficio, si esprime in questa maniera:

«Oltre a ciò che ho appena detto, che il nome di re debba essere nome di

ufficio viene confermato anche da questa comune massima: Il beneficio si dà per l’ufficio. Per cui, essendo i re beneficiati in misura così grande, non soltanto per i notevoli tributi che dà loro la nazione, ma anche per quelli che ricavano dai benefìci e rendite ecclesiastiche, non c’è dubbio che hanno un ufficio, e il più grande di tutti, per il quale tutto il regno li sostiene con tanta larghezza come dice S. Paolo nella lettera ai Romani: ideo et tributa praestatis etc. I regni non pagano inutilmente: tanti privilegi, cariche, rendite; tanta autorità, dignità e così grande nome, non vengono dati senza alcun onere. Non avrebbero il nome di re se non avessero nessuno da reggere e governare, se non avessero quest’obbligo: in multitudine populi dignitas regis. Questa grande dignità, queste grandi ricchezze, questa grandezza, maestà e onore vengono dati con l’onere perpetuo di reggere e governare i loro Stati, e di mantenerli nella pace e nella giustizia. Sappiano dunque i re che sono tali per servire i regni, perché appunto sono pagati per questo, e che hanno l’ufficio di re perché sono tenuti all’impegno di esercitarlo: qui praeest in sollicitudine, dice S. Paolo. Questo è il titolo e il nome del re e di chi governa: quello che sopravanza tutti non solamente negli onori e nei piaceri, ma anche nella sollecitudine e nelle cure. Non credano di essere re soltanto di nome e pro forma, di non avere altro da fare che farsi adorare, rappresentando la regalità e la dignità suprema in modo pomposo come facevano alcuni re dei Persiani e dei Medi i quali non erano che un’ombra di re, dimentichi del loro ufficio come se non lo avessero mai avuto. Non c’è niente di più inerte e di più incorporeo dell’immagine di un’ombra che non muove né braccia né testa se non dietro le mosse che altri fanno. Dio prescrisse al suo popolo di non avere né statue né dipinti che mostrino la mano dove non è, il viso dove non è; che dove non c’è corpo lo rappresentino con atteggiamenti come se fosse vero, come se fosse vivo e parlasse. Perché Dio non è amico di figure finte, di uomini dipinti, né di re scolpiti come quelli di cui Davide disse: os habent, et non loquentur, oculos habent et non videbunt. Lingua che non parla, occhi che non vedono, orecchi che non sentono, mani che non operano: a che servono? Questo non è altro che un idolo di pietra, che di re ha solo l’aspetto esteriore. Essere solo nome e apparenza di autorità, e niente uomo, suona male. I nomi che Dio dà alle cose sono come il titolo di un libro, che in poche parole esprime tutto quello che contiene. Questo nome di re è dato da Dio ai re, e contiene tutto ciò che devono fare perché fa parte del loro ufficio. E se le opere non corrispondono al nome è come se uno dicesse sì con la bocca, ma con la testa facesse segno di no, il che sembrerebbe uno scherzo incomprensibile. Verrebbe preso per uno scherno o un inganno l’insegna di una bottega dove fosse scritto: Qui si vende oro fino, se in realtà non offrisse

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altro che orpello. Il nome di re non deve essere inutile come se fosse un di più nella persona reale, ma serva per quello che esso significa e rappresenta al pubblico; chi ha il nome che lo abilita a reggere e governare, regga e governi: non serve essere re di anello (come vien detto), cioè di solo nome. In Francia ci fu un tempo in cui i re non avevano che il nome: tutto veniva fatto dai loro intendenti generali mentre essi non si occupavano che dei piaceri sensuali e della gola come i bruti, e per far vedere che erano vivi (perché non uscivano mai) apparivano una volta all’anno il primo maggio sulla piazza di Parigi, seduti su un trono reale come i re delle commedie. Qui gli si presentavano gli omaggi e i doni, ed essi concedevano alcune grazie, come meglio a loro pareva e piaceva, E affinché si comprenda la meschinità a cui erano arrivati, Eginardo racconta nelle prime pagine della sua Vita di Carlo Magno che questi re erano pavidi e non davano alcun minimo segno di fatti illustri, ma avevano soltanto il nome vano di re, perché di fatto non lo erano né prendevano alcuna parte nel governo e nei beni del regno, essendo tutto in possesso dei prefetti di palazzo che venivano chiamati maggiordomi della casa reale. I quali erano praticamente padroni di tutto, mentre al misero re non lasciavano nulla se non il titolo. Seduto sul soglio, con la capigliatura e la barba lunga, egli rappresentava la sua parte e faceva finta di ascoltare gli ambasciatori che venivano da ogni dove, e quando questi stavano per tornarsene ai loro paesi dava loro le risposte. Ma in realtà rispondeva come l’avevano istruito o gli avevano dato da leggere, e lo faceva come se la risposta fosse opera della sua mente. E in questa maniera dell’autorità reale non avevano che l’inutile nome di re, quel trono e quella maestà ridicola, mentre i veri re e signori erano quegli intendenti che li opprimevano col loro potere. Di un re di Samaria Dio disse che non era altro che un po’ di schiuma, che vista da lontano sembra qualcosa, ma quando si arriva a toccarla non è più niente. Simia in tecto rex fatuus in solio suo (S. Bernardo, De consideratione libri quinque ad Eugenium III, cap. 7). La scimmia sul tetto, che avendo l’apparenza di uomo tale è ritenuta da chi non sa cosa sia, è come un re inutile sul suo trono. Come la scimmia serve da trastullo ai fanciulli il re fa ridere quelli che lo vedono agire non da re, con sfoggio di autorità ma senza governo. Un re vestito di porpora seduto con gran maestà sul trono come conviene alla sua grandezza, grave, severo e terribile in apparenza, di fatto è assolutamente un nulla. Come una pittura di El Greco, che posta in alto e vista da lontano sembra bellissima e fa un grand’effetto; ma da vicino è tutta linee e sbavature. Se consideriamo bene, la grande pompa e maestà non sono che una sbavatura, un’ombra di re. Simulacra gentium, chiama Davide i re di solo nome; o come traduce l’Ebreo: imago fictilis et contrita. Figura di argilla instabile che viene puntellata da tutte le parti; vano simulacro, che fa gran figura ma è tutta una finzione, e a cui si può applicare benissimo il nome che attribuì ingiustamente Elifaz a Giobbe quando, deridendo questo così buono è giusto re, lo chiamò uomo senza beni e senza sostanze e di sola apparenza

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esteriore, lo definì Mirmicoleone, che è un animale chiamato in latino formica-leo perché ha una figura mostruosa che presenta nella metà anteriore del corpo la forma di un fiero leone, che è sempre stato simbolo del re, e nell’altra metà una formica, che rappresenta una cosa debolissima e senza la minima sostanza. Lo sfoggio di autorità, il nome, il trono e la maestà sono di forte leone e potentissimo re; ma l’essere e la sostanza sono di formica. Vi furono dei re che col solo nome spaventavano e intimorivano il mondo, ma in sé non avevano sostanza, e nel loro regno non erano che formiche; nome e ufficio grandissimo, ma senza opere. Si riconosca il re dunque ufficiale, non solo per un ufficio, ma come ufficiale generale e soprintendente a tutti gli uffici, perché in tutti deve parlare e operare. Sant’Agostino e S. Tommaso, spiegando quel passo di S. Paolo che tratta della dignità episcopale dicono che la parola episcopus si compone in greco di due vocaboli, che hanno lo stesso significato di superintendens. Il nome di vescovo, di re e di qualsivoglia altro superiore è un nome che significa soprintendenza e assistenza in tutti gli uffici, Questo è simboleggiato nello scettro reale di cui i re fanno uso nelle funzioni pubbliche, e quest’usanza era già praticata dagli Egiziani, che a loro volta l’avevano appresa dagli Ebrei. I quali per avere sempre presente l’obbligo di un buon re raffiguravano un occhio aperto su un’estremità dello scettro, significando da una parte la grande autorità detenuta dal re, e dall’altra la provvidenza e protezione che egli deve procurare. Perché il re non si deve soltanto compiacere di avere la suprema autorità e di occupare il posto più alto ed eminente, e in questo modo dormire e riposare; ma deve anche essere il primo nel governo, nel Consiglio, e in tutti gli uffici, vigilando continuamente, guardando ed osservando come opera ognuno nel proprio ufficio. In questo significato lo vide anche Geremia quando, richiestogli da Dio che cosa vedeva, rispose: virgam vigilantem ego video. Hai visto benissimo, e in verità ti dico che io, che sono capo, vigilerò sul mio corpo; io, che son pastore, veglierò sulle mie pecorelle; io, che sono re e monarca, veglierò senza riposo su tutti i miei sudditi. Regem festinantem, traduce il Caldeo Re che si affretta; perché quantunque abbia occhi e veda, se resta tranquillo nel suo riposo, nei suoi piaceri e passatempi invece di andare in giro per cercare di vedere e conoscere tutto il bene e il male che vien fatto nel regno, è come se non ci fosse. Rifletta allora che egli è capo, e capo di leone, il quale anche quando dorme tiene gli occhi aperti; che è scettro, che ha occhi e veglia. Apra dunque gli occhi e non dorma, perché non può fidarsi di coloro che forse sono ciechi o senza occhi come le talpe, e se li hanno non li usano che per vedere i loro interessi, e per guardare da lontano cosa può procurar loro un vantaggio o una promozione. Occhi per se stessi, e sarebbe meglio che non li avessero; occhi di sparviero e di uccelli di rapina».

Nel capitolo quarto, che ha per titolo Dell’ufficio dei re, spiega in questo

modo l’origine dell’autorità reale e dei suoi obblighi:

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«Ne segue allora che l’istituzione dello stato reale, o di re, che ci raffigura

la mente, non è soltanto per l’uso e profitto dello stesso re, ma per quello di tutto il regno. E così il re deve vedere, udire, sentire e intendere non soltanto per sé e da sé, ma per tutti e a vantaggio di tutti. Non deve fissare lo sguardo soltanto sulla propria grandezza, ma anche sul bene dei sudditi, perché per tutti fu fatto re, e non per sé solo. Adverte rempublicam non esse tuam sed te reipublicae, disse Seneca all’imperatore Nerone. Quei primi uomini che abbandonando lo stato di solitudine si unirono insieme per vivere in comunità, capirono che per natura ciascuno agisce per sé e per i suoi e non pensa agli altri; convennero allora di scegliere uno di merito eccellente a cui ricorressero tutti; il più distinto in virtù, prudenza e fortezza che presiedesse a tutti e li governasse, che tutelasse tutti e fosse sollecito con tutti dei profitti e vantaggi comuni come lo è un padre con i figli e un pastore con le pecore. E considerando che questo tale uomo, dovendo badare non più alle proprie cose ma a quelle di tutti non poteva mantenere se stesso né la sua famiglia (perché allora tutti vivevano del lavoro delle proprie mani), stabilirono tutti di procurargli il cibo ed il sostentamento, onde non si desse ad altre occupazioni fuorché quelle per il bene comune e per il governo della comunità. A questo fine furono stabiliti i re; fu così che ebbe inizio l’istituzione, e tale deve essere l’ufficio del buon re: di avere maggior cura del bene comune che del suo bene privato. Tutta la sua grandezza gli costerà grande premura, angoscia e inquietudine d’anima e di corpo; per lui comporterà fatica e per gli altri riposo, sostentamento e protezione, così come i fiori leggiadri e i frutti, per quanto abbelliscano la pianta, non sono tuttavia per essa e a vantaggio di essa quanto a vantaggio degli altri. Nessuno creda che tutto il bene sia compreso nella bellezza e vivacità per cui risalta il fiore, e risaltano quelli che sono i fiori del mondo: i re. I re potenti e i prìncipi sono fiori, ma fiori che consumano la vita e dedicano molta cura, e i frutti li gustano più gli altri che loro stessi. Giacché, come dice Filone ebreo, il re per il suo regno è ciò che il dotto è per l’ignorante, il pastore per le pecore, il padre per i figli, la luce per le tenebre; e ciò che quaggiù sulla terra Dio è per tutte le Sue creature; Dio che diede questo titolo a Mosè quando lo fece re e duce del suo popolo; e ciò valeva a dirgli che doveva essere come Dio, padre comune di tutti, tale essendo l’obbligo dell’ufficio e della dignità di re. Omnium domos, illius vigilia defendit, omnium otium illius industria, omnium vocationem illius occupatio (Seneca lib. De consol.). Così disse il profeta Samuele a Saul subito dopo averlo unto re, nel comunicargli gli obblighi del suo ufficio: Oggi Dio ti ha unto re su tutto questo regno che hai l’ufficio di governare; non sei stato fatto re perché ti metta a dormire e t’insuperbisca, e ti vanti della dignità reale, ma perché tu governi e mantenga il popolo in pace e giustizia, e perché lo difenda e lo protegga contro i nemici. Disse Socrate: Rex eligitur, non ut sui ipsius curam habeat, et sese molliter curet sed ut per ipsum ii qui

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elegerunt, bene beateque vivant. I re non sono stati creati e introdotti nel mondo solo per i loro comodi e piaceri, e perché tutti i buoni cibi venissero messi nel loro piatto (che se fosse così nessuno si assoggetterebbe volentieri), ma per l’utilità e per il bene comune di tutti i loro sudditi, per il loro governo, protezione, accrescimento, conservazione e servizio. E si può ben dire così: perché sebbene la corona e lo scettro abbiano l’aspetto di comando e di signoria, però a rigore l’ufficio è di servo. Servus communis, sive servus honoratus alcuni definiscono il re. Quia a tota republica stipendia accipit ut serviat omnibus. E questo è il titolo di cui si onora il Sommo Pontefice, servus servorum Dei. E sebbene anticamente questo nome di servo era infame, dopo che Cristo lo ricevette nella sua persona, divenne titolo d’onore; e non ripugnando né contraddicendo all’essere e alla natura di Figlio di Dio, neanche può ripugnare all’essere e alla grandezza dei re.

«Ben lo capì Antigono re di Macedonia, e lo disse al figlio quando lo rimproverò perché trattava con troppa alterigia i sudditi. An ignoras, fili mi, regnum nostrum nobilem esse servitutem? Nello stesso modo si era espresso Agamennone prima di lui: Viviamo apparentemente in molta grandezza e in una condizione di privilegio, ma in realtà siamo servi e schiavi dei nostri sudditi. Questo è l’ufficio dei buoni re, servire onorevolmente; perché essendo re, le loro azioni non dipendono solamente dalla loro volontà, ma anche dalle leggi e regole vigenti e dalle condizioni con cui fu accettata la dignità reale. E quando vengono meno a tali condizioni (per effetto di accordi umani) non possono mancare a quelle che diede loro la legge naturale e divina, padrona e signora sia dei re che dei sudditi; le quali regole sono praticamente contenute in quelle parole di Geremia con cui, secondo l’opinione di San Girolamo, Dio dà l’ufficio ai re: facite judicium et justitiam, liberate vi oppressum de manu calumniatoris, et advenam et pupillum et viduam nolite contristare, neque opprimatis inique, et sanguinem innocentem non effundatis. Questo è il compendio degli obblighi del re; queste sono le leggi della sua istituzione, per cui egli è obbligato a mantenere in pace e giustizia l’orfano e la vedova, il povero e il ricco, il potente e il debole. A lui vanno addebitati gli aggravi che i suoi ministri fanno agli uni, e l’ingiustizia che soffrono gli altri, le angustie dell’animo, le lagrime di chi piange; per non parlare di mille altre cose e di un profluvio di impegni e di obblighi cui è soggetto chiunque sia principe e capo di un regno: che sebbene sia capo nel comandare e governare, nel correggere e promuovere, deve anche essere piede sul quale poggia e insiste il peso di tutto il corpo della nazione. Dei re e dei monarchi dice il santo Giobbe, come abbiamo già visto, che a motivo del loro ufficio mantengono e trasportano il mondo sulle loro spalle. A figura di questo, come è scritto nel libro della Sapienza, in veste ponderis quam habebat summus sacerdos, totus erat orbis terrarum. Quando uno è re sappia che gli è stato messo sulle spalle un peso tanto grande che non riuscirebbe a portarlo un carro robusto. Ben lo sperimentava Mosè, che avendolo Dio fatto Suo viceré, condottiero e

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luogotenente nel governo, invece di ringraziarlo per la carica così onorevole che gli aveva conferito si lamentava di avere sulle spalle un carico troppo pesante: Cur afflixisti servum tuum? Cur imposuisti pondus universi hujus populi super me? E continuando con i suoi lamenti dice: numquid ego concepi omnem hanc multitudinem, aut genui eam, ut dicas mihi: porta eos? Li ho forse partoriti io, o Signore, o li ho io generati, perché Tu mi dica che me li metta sulle spalle e li porti? E qui bisogna notare che Dio non parlò a Mosè in questo modo, perché gli comandò soltanto di reggerli e governarli, e di svolgere l’ufficio di capo e di duca: eppure cosa disse Mosè? Che Dio gli comandò di prenderli sulle sue spalle: Porta eos. Sembra che si lamenti a torto, perché non gli era stato detto altro che di essere loro capo, di reggerli, comandarli e governarli. Da queste parti c’è un proverbio che dice: A buon intenditor poche parole. Chi sa bene e intende cosa sia governare ed essere capo, sa che governo e carico è tutt’uno. E gli stessi vocaboli reggere e portare sono sinonimi, ed hanno lo stesso significato: non vi è governo, né carica senza peso e fatica. Nella distribuzione degli uffici che fece Giacobbe ai suoi figli, destinò Ruben ad esser primo nell’eredità e in grado più elevato nel governo: prior in donis, major in imperio. E San Girolamo traduce: major ad portandum, perché autorità e carica sono la stessa cosa; e quanto l’autorità è maggiore, maggiore è la carica e la fatica; e S. Gregorio nei suoi Moralia dice, che l’autorità, il dominio e la signoria che i re hanno sui loro sudditi non devono esser visti come un onore, ma come una fatica: Potestas accepta non honor, sed onus destimatur. E questa verità è stata scoperta anche dai più ciechi pagani; e uno di essi prendendo la cosa nel medesimo senso dice, parlando di un altro pagano cui il suo Dio Apollo aveva fatto allegro e contento col dargli un certo ufficio: laetus erat mixtoque oneri gaudebat honore. Di modo che il regnare e il comandare è una miscela costituita da un poco di onore e da molto peso. E in latino onore differisce da carica soltanto per una lettera, honos quella e onus questa; e non mancò mai, né mancherà mai, chi confonda la carica con l’onore, sebbene tutti prendano il meno possibile di ciò che è di peso e il più possibile di ciò che è di onore: scelta pericolosa, non essendo questa cosa la più sicura».

Se un tale linguaggio verrà tacciato di adulazione, non è facile capire

allora in che consista il dire la verità. E bisogna notare che queste cose non sono dette così, alla leggera, ma sono ripetute con tanta insistenza che potrebbe apparire irriverenza se il candore infantile del suo linguaggio non rivelasse la più pura intenzione. Il passo è lungo, ma molto importante perché vi è dipinto lo spirito di quel tempo.

Potrei portare molti altri testi nei quali si vedrebbe quanto falsamente il clero cattolico è stato accusato di essere favorevole al dispotismo; ma non voglio finire senza inserire due passi del dotto P. Ferdinando de Ceballos,

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monaco Girolamino del monastero di S. Isidoro del Campo, noto per l’opera intitolata:

La falsa filosofia, o l’ateismo, il deismo, il materialismo ed altre nuove

sétte convinte di delitto di stato contro i sovrani e loro regalie, e contro i magistrati e autorità legittime (Madrid 1776).

Si noti con quale saggezza il dotto monaco valuta l’influenza della

religione sulla società, nel lib. 2. Disert. 12, art. 2. «Il governo moderato e dolce è quello che più si confà allo spirito del

Vangelo.

§ I «Una delle prerogative più eccelse che dobbiamo considerare della nostra

santa religione, è che con le sue fondamentali verità essa dà un grande aiuto alla politica umana, tale che questa possa conservare con minore fatica il buon ordine tra gli uomini: La religione (dice giustamente Montesquieu) è molto lontana dal puro dispotismo, perché essendo nel Vangelo tanto raccomandata la dolcezza, si oppone così alla collera dispotica con cui il principe vorrebbe farsi giustizia e soddisfare la sua crudeltà.

«Conviene osservare che questa opposizione del Cristianesimo alla crudeltà del principe non deve essere attiva ma passiva, e con quella dolcezza di cui non può fare a meno senza che perda il proprio carattere. In questo sta la differenza tra i Cattolici e i Calvinisti e gli altri Protestanti. Basnage e Jurieu hanno scritto in nome di tutta la riforma che i popoli possono combattere i loro prìncipi ogni qualvolta si sentano da loro oppressi, o quando sembra che si comportino da tiranni.

«La Chiesa cattolica non ha mai cambiato la dottrina che ha ricevuto da Gesù Cristo e dagli Apostoli. Ama la moderazione, si compiace del bene; ma non fa resistenza al male, e lo vince con la pazienza.

«Ai governi diretti dalle false religioni non basta una politica moderata: in essi il dispotismo o tirannia dei prìncipi, l’atrocità delle pene e il rigore di una legislazione crudele e inflessibile sono mali necessari. E perché solo la religione cattolica può correggere da tale malvagità i governi umani?

«In primo luogo per il forte ascendente che hanno i suoi dogmi; e in secondo luogo per la grazia di Gesù Cristo che rende gli uomini docili ad operare il bene e forti contro il male.

«Laddove si professi una falsa religione, e mancano quindi questi due aiuti, è necessario che il governo per porre un freno ai cittadini supplisca per quanto è possibile con una politica violenta, dura e piena di orrore.

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«Dunque la religione cattolica libera i governi dalla necessità di una tale durezza mediante l’influenza dei suoi dogmi sulle azioni umane. Si osservi che in Giappone, non avendo la religione ivi dominante alcun dogma né alcuna idea sul paradiso e sull’inferno, per supplire ad un tale difetto sono state elaborate delle leggi, affidandosi, per ottenere dei risultati, alla crudeltà delle stesse ed al rigore con cui vengono fatte rispettare. Ovunque i deisti, i fatalisti e i filosofi diffondono l’errore affermando che le nostre azioni sono soggette alla necessità e che quindi non si potrà evitare che le leggi diventino più terribili e sanguinarie di quelle che avevano i popoli barbari; perché non avendo più gli uomini che motivi sensibili (alla maniera delle bestie) che li induca ad agire come viene comandato o a non fare ciò che è proibito, questi motivi, o pene, dovranno essere di giorno in giorno sempre più aggravate, affinché gli uomini non si abituino ad esse e quindi le temano di meno. Ma la religione cristiana, che insegna e dichiara in modo meraviglioso il dogma della libertà razionale, non ha bisogno di una verga di ferro per guidare gli uomini.

«Il timore delle pene, quelle eterne per i delitti non confessati, o quelle temporali per le macchie dei peccati già confessati, dispensa i giudici dalla necessità di applicare leggi particolarmente severe. D’altra parte la speranza del paradiso per i pensieri, parole ed opere buone, porta gli uomini ad essere giusti non solo in pubblico, ma anche nel segreto del loro cuore.

«I governi che non hanno questo dogma dell’inferno e del paradiso, con quali leggi o castighi potranno formare dei cittadini che siano veramente uomini portati al bene? Ora, i materialisti che negano il dogma della vita futura, e i deisti che lusingano i cattivi con la sicurezza del paradiso, mettono i governi nella penosa necessità di armarsi con tutti gli strumenti del terrore, e di ricorrere continuamente ai più crudeli supplizi per contenere il popolo ed evitare che gli uomini si distruggano l’un l’altro. Nelle stesse condizioni si sono ridotti anche i Protestanti che negano il dogma dell’inferno eterno lasciando, tutt’al più, il timore di una pena che avrà comunque un termine. Di modo che, come ha detto D’Alembert al clero di Ginevra, se i primi riformatori negarono il purgatorio e lasciarono l’inferno, i Calvinisti e i riformati moderni avendo limitata la durata dell’inferno lasciano in pratica quello che più propriamente è chiamato purgatorio.

«Il dogma del giudizio finale, in cui verranno palesati al mondo intero le più piccole colpe che ciascuno commise anche in segreto, quale efficacia non deve avere per frenare i pensieri stessi, i desideri e tutte le perversità del cuore e delle passioni? Allo stesso modo dunque questo dogma libera il governo politico dalla fatica e sorveglianza continua che dovrebbe esercitare su una città i cui abitanti non credessero a questo giudizio, o non pensassero alle sue conseguenze.

§ II

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«Certe stravaganze uscite dalla bocca dei filosofi derivano da alcune

conoscenze che acquisirono quando facevano ancora uso della loro ragione, o quando conservavano ancora la santa religione. Così, per esempio, quando dicono, che “la religione è stata inventata dalla politica per risparmiare ai sovrani la preoccupazione di essere giusti, di fare buone leggi, e di ben governare”.

«Questa sciocchezza, che di per sè vien meno quando si tratta di religioni che già preesistevano, suppone tuttavia la verità di cui parliamo. Perché essendo evidente a tutti, ed anche ai filosofi che vanno così delirando, l’aiuto che la religione cristiana dà ai governi umani con i suoi dogmi, e quanto essa cooperi affinché gli uomini possano vivere bene anche su questa terra, da questo fatto quei filosofi traggono motivo per tirar fuori la loro sciocca malizia. Ma in sostanza, e pur non volendo, ci vengono a dire che i dogmi della religione sono così favorevoli e convenienti a chi governa, e tanto efficaci per alleggerire in gran parte le fatiche di governo, che sembrano fatti apposta per loro, secondo le intenzioni di un magistrato o di un governo politico.

«Non s’intende dire con questo che gli uomini debbano essere governati con la sola religione e i giudici debbano trascurare del tutto le leggi e le pene senza farne uso. Anche se noi crediamo all’efficacia dei dogmi che c’insegna la religione, non abbiamo una presunzione così sconsiderata da ritenere superflue e inutili per la società gli uffici delle leggi e della politica. L’Apostolo ci dice soltanto che la legge non sarebbe necessaria per i giusti; ma siccome ci sono tanti malvagi che a furia di non pensare mai al loro fine e ai terribili giudizi di Dio vivono in balìa delle loro passioni, per tenerli a freno rimane sempre la necessità delle leggi e delle pene esistenti. Così la religione cattolica non esclude la buona politica, e non nega i suoi uffici, ma piuttosto li aiuta e ne viene aiutata per il buon governo del popolo, in modo che possa essere ben governato con molto minor rigore e severità.

§ III

«La seconda ragione per cui negli Stati cattolici il governo può essere più

moderato e più facile da esercitare consiste nell’aiuto che la grazia del Vangelo dà per operare il bene e odiare il male; aiuto che fornisce sia con la pratica dei Sacramenti, sia con altri mezzi che elargisce lo Spirito Santo. Senza di che ogni legge diventa dura, mentre con questa unzione ogni giogo è soave ed ogni peso diventa leggero».

Nell’articolo terzo, nel difendere la monarchia dalle accuse che le

rivolgono i nemici, l’autore respinge la taccia di dispotismo con cui cercano di attaccarla; e passa quindi a spiegare i giusti limiti dell’autorità reale chiarendo

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anche un punto della Sacra Scrittura sul quale alcuni fondavano una loro tesi per ampliare le prerogative del trono. Egli si esprime come segue:

«Quando alcuni hanno rinfacciato alla monarchia il rischio che corrono i

cittadini di perdere i loro beni a causa del sovrano che può impadronirsene, costoro hanno ragionato contro la natura del dispotismo piuttosto che contro la forma del governo monarchico. “A cosa serve – dice Teseo in Euripide – accumulare ricchezze per i propri eredi ed educare con ogni cura le figlie, se la maggior parte di quelle saranno rapinate da un tiranno, e queste serviranno alle sue voglie sfrenate?”

«Qui si vede chiaramente che si parla di un tiranno, mentre invece si vuole ragionare dell’ufficio di un monarca. È vero comunque che per i frequenti abusi che i re hanno fatto del loro potere si sono confusi i nomi e le forme; ed inoltre è stato osservato che gli antichi conobbero a mala pena la vera monarchia, e probabilmente fu proprio cosi perché non ne videro che gli abusi.

«Questo mi dà l’occasione per fare un’osservazione sull’episodio in cui gli Ebrei chiesero di essere governati dai re: “Dacci un re – fu questa la richiesta che fecero al profeta – perché ci giudichi come si usa presso tutte le nazioni”. A Samuele dispiacque questa sconsideratezza che avrebbe portato una rivoluzione totale nel governo dato da Dio. Ma Dio gli ordinò di sopportare pazientemente l’ingiuria del popolo che cadeva soprattutto su di Lui, che gli Ebrei rigettavano affinché non regnasse più su di loro. Gli disse che come avevano rigettato Dio, servendo a divinità straniere, non doveva meravigliarsi che si ribellassero anche a lui profeta e gli chiedessero un re simile a quelli delle nazioni. Bisogna sempre notare come siano legate tra loro il cambiamento del governo e quello della religione, specialmente quando si tratti di passare da quella vera ad una falsa.

«Ma quello che mi preme far osservare è in che modo venne accettata la richiesta del popolo. Questo chiedeva di essere governato da un re, come lo erano tutte le altre nazioni. Il Signore castigò il loro spirito di rivolta abbandonandoli ai loro desideri, e comandò a Samuele di corrispondere alla richiesta; ma che prima facesse loro conoscere il diritto del re che avrebbe regnato su di loro secondo la regola delle nazioni, come loro chiedevano.

«Ed ecco qui dunque la forma della regalia, o diritto del re, che avrebbe regnato sul popolo: “Vi toglierà i vostri figli e li metterà sui suoi carri; ne formerà dei cavalieri di guardia al suo seguito o per correre davanti alle sue carrozze. Ne farà dei tribuni e dei centurioni; altri li metterà a lavorare i suoi campi, a raccogliere il grano, a fabbricare armi e macchine da guerra; le vostre figlie le farà profumiere, cuoche e fornaie. Prenderà le vostre migliori vigne e i vostri terreni per darli ai suoi servi. Decimerà i vostri frutti e gli introiti delle vostre vigne per mantenere i suoi eunuchi e i suoi ufficiali. Prenderà anche i vostri servi e serve, i giovani più robusti e gli asini, e li farà lavorare tutti per

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sé. Prenderà inoltre le decime dei vostri greggi, e voi stessi finalmente sarete suoi schiavi. Allora reclamerete contro il re che chiedeste e sceglieste; ma Dio non vi ascolterà, perché voi stessi l’avete voluto”. Il popolo non volle ascoltare le parole di Samuele ed esclamò: “Non occorre che ci parli oltre, dobbiamo avere un re, e saremo come tutte le genti”.

«Alcuni, con l’intenzione di estendere oltre il dovuto l’autorità del re, hanno preso da qui la formula del diritto reale. Che intenzione cieca e disonorevole per dei monarchi legittimi quali sono quelli cattolici! Chiunque dotato di buona scienza non voglia errare su questo passo della Scrittura, e chiunque non sia cieco, riconosce, sia nel contesto, che nel confronto che ne faccia con altri passi, che qui non viene descritto il potere legittimo o di diritto, ma quello di fatto. Voglio dire: non viene descritto ciò che devono fare i re giusti, ma ciò che facevano i re delle nazioni pagane, i quali ordinariamente erano e venivano chiamati tiranni. Si osservi perciò che il popolo non domandava altro che di essere, in quanto alla politica, uguale alle nazioni pagane. Non ebbe la prudenza di chiedere un re come doveva essere, ma come solevano essere allora; ed è questo ciò che, appunto, Dio concesse loro. Giacché, se Dio nel suo furore talvolta ha dato ai popoli i re (come dice il profeta), quale popolo lo meritò più di quello che rigettava lo stesso Dio, non volendo che regnasse su di esso?

«Infatti Dio castigò severamente il suo popolo concedendogli quello che scioccamente aveva chiesto. Gli accordò un re che facesse ciò che veniva dalla consuetudine, sebbene cattiva, e che si chiamava diritto reale. Il quale consisteva nel togliere i figli e le figlie ai sudditi, spogliarli delle terre, vigne, eredità ed anche della libertà, facendoli schiavi, e con tutto il resto che viene descritto nel testo.

«Qual è quell’uomo del nostro secolo il quale, pur non comprendendo ciò che si legge nella Scrittura, ma comprendendo però quanto è stato scritto sulla natura dei governi e dei loro abusi, potrà mai pensare che le cose dette da Samuele esprimano la forma legittima dell’autorità reale o della monarchia? Dipende forse da una tale autorità togliere ai sudditi i beni, le terre, le ricchezze, i figli e le figlie, e la stessa libertà naturale? È questa la monarchia? O è la tirannia più dispotica?

«Per tirare il lettore del tutto fuori dall’inganno basterà trasferirci da questo passo al capitolo 21 del III [I] Libro dei Re, dove viene descritta la storia di Nabot, che era un abitante di Izreèl. Acab, re d’Israele, voleva ampliare il palazzo o villa che aveva in quella città. Una vigna di Nabot, che era vicina al palazzo, veniva ad trovarsi nella zona dei giardini che rientravano nel progetto di ampliamento. Il re non la prese di propria autorità, ma la chiese al proprietario con l’onesta intenzione di pagarla al prezzo stimato, oppure di dargliene un’altra migliore situata in un altro luogo. Nabot non accettò l’offerta perché si trattava dell’eredità dei suoi antenati.

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«Il re, che non era abituato a ricevere un rifiuto, si gettò sul suo letto preso dal dispiacere; entrò la regina, che era Gezabele, e gli disse di non prendersi pena perché grande era la sua autorità, grandis auctoritatis es, e che ci avrebbe pensato lei a fargli ottenere la vigna. L’infame donna scrisse ai giudici di Izreèl di processare Nabot per una calunnia che sarebbe stata testimoniata da due testimoni prezzolati, e di condannarlo a morte. La regina fu ubbidita, e Nabot fu lapidato. Era necessario che si facesse così affinché la vigna fosse devoluta al fisco, e perché, innaffiata col sangue del suo proprietario, producesse fiori per il palazzo di tali prìncipi.

«Ma in realtà non produsse che triboli ed erbe velenose, sia per il re che per la regina. Si presentò Elia davanti ad Acab mentre costui andava a prender possesso della vigna di Nabot, e gli fece sapere che lui, la sua posterità e tutta la sua casa, e perfino il cane che faceva i suoi bisogni contro il muro sarebbero stati cancellati dalla faccia della terra.

«Ora io domando a coloro che ritengono legittimo lo jus regis che Samuele pronunciò al popolo: come mai Acab e Gezabele furono castigati tanto duramente per aver tolto la vigna e la vita a Nabot, se il re poteva togliere ai suoi sudditi le vigne e i migliori oliveti, che è una delle cose dichiarate da Samuele?

«Se Acab aveva questo diritto fin da quando lo costituirono re del popolo di Dio, come mai va a pregare Nabot con tanto garbo, lui che era un principe cosi violento? E perché mai fu necessario accusare Nabot con una calunnia? Per processarlo era sufficiente che si fosse opposto al diritto del re col negargli per il giusto valore quanto occorreva per ampliare il palazzo e gli orti. Eppure con tutto ciò Nabot non fece ingiuria al re per il fatto di non avergli voluto vendere la sua proprietà, e questo anche a giudizio dell’ambiziosa regina che vantava la grande autorità di suo marito.

«Questa grande autorità che Gezabele riconosceva al re, si riferisce allo jus regis di cui Samuele parlava al popolo; cioè, come ho detto prima, ad un diritto e un potere di fatto o di forza fisica per prendersi tutto, e sopraffare tutti, come dice Montesquieu parlando del tiranno.

«Non si faccia dunque menzione né di questo né di altro passo della Sacra Scrittura per giustificare l’idea di un governo inteso così male. La dottrina della religione cattolica ama la monarchia legittima secondo le caratteristiche che le si addicono e secondo le qualità che in essa riconoscono gli studiosi di diritto pubblico moderni, cioè un potere paterno e sovrano, ma secondo le leggi fondamentali dello Stato. Dentro tali confini più che leciti quest’autorità è ordinatissima, è la più ampia che vi sia tra le autorità temporali, ed è la più favorita e la più sostenuta dalla vera religione».

Ecco l’orribile dispotismo che insegnavano questi uomini calunniati con

tanta villania: felici i popoli che avranno prìncipi il cui governo sia conforme a queste dottrine!

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L’importanza delle materie trattate in questo volume mi obbliga ad inserire con qualche estensione i testi che provano la verità di quanto ho esposto.

(5) – Ecco come parla S. Tommaso della potestà reale, e con quanto solide

e generose dottrine ne assegna i doveri in De regimine principum, libro 3, cap. XI.

DIVUS THOMAS

DE REGIMINE PRINCIPUM

LIBRO III

CAPITOLO XI

«Il potere regale: in che cosa consiste, in che cosa differisce da quello politico, e come si distingue in vari modi, secondo diversi criteri.

«Ora dobbiamo esaminare il potere regale, rilevando in esso varie

distinzioni secondo le diverse regioni, e secondo i vari autori che ne trattano. E prima di tutto notiamo che nella Sacra Scrittura le leggi del dominio regale sono tramandate da Mosè nel Deuteronomio in un modo, e dal profeta Samuele, nel Libro dei Re, in un altro. Ambedue, però, in maniera diversa, sempre parlando in nome di Dio, ordinano il re al bene dei sudditi; e questo è proprio dei re, come insegna Aristotele nell’ottavo libro dell’Etica. Si legge infatti nel Deuteronomio: “Quando il re sarà stato proclamato non accrescerà il numero dei suoi cavalli, né fidandosi dei suoi cavalieri ricondurrà il popolo in Egitto… Non avrà una moltitudine di mogli, che seducano il suo cuore, né eccessiva quantità d’argento e d’oro (come poi questo debba intendersi è stato detto prima in questo libro)… Scriverà per suo uso in un volume una copia di questa legge…, e la terrà presso di sé, e la leggerà tutti i giorni della sua vita, per impararvi a temere il Signore Dio tuo, ed a custodire i comandamenti e le osservanze prescritte nella sua legge” (Deuteronomio 17, 16-19), e cioè, affinché possa dirigere il popolo secondo la legge divina. Perciò anche il re Salomone al principio del suo regno chiese a Dio questa sapienza, per indirizzare il suo governo al bene dei sudditi, come è scritto nel terzo [primo] Libro dei Re. Aggiunge poi Mosè nel medesimo libro (Deuteronomio 17, 20): “Non monti in superbia il suo cuore rispetto ai suoi fratelli, né pieghi verso destra o verso sinistra, acciocché regni lungamente sopra Israele, egli ed i suoi figlioli”.

«Invece nel primo Libro dei Re [primo Samuele] le leggi del regno sono dirette principalmente all’utilità del re, come abbiamo visto prima, nel secondo libro di quest’opera (cap. IX), dove sono scritte parole perfettamente

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adatte alla condizione servile; e tuttavia Samuele afferma che le leggi che ha enunziato, pur essendo interamente dispotiche, sono le leggi del regno.

«Aristotele però nell’ottavo libro dell’Etica, concorda di più con le prime [ossia col Deuteronomio]. Nello stesso libro infatti stabilisce tre princìpi riguardo al re, e cioè che è legittimo solo il re, il quale miri anzitutto al bene dei sudditi; secondo, che egli basti a se stesso, ossia che abbia una grande abbondanza di tutti i beni, affinché non abbia a gravare sui sudditi; terzo, che si preoccupi a che i sudditi agiscano bene, come un pastore fa col suo gregge.

«Da tutte queste cose risulta chiaramente che sotto questo profilo il dominio dispotico differisce molto da quello regale, come afferma Aristotele nel primo libro della Politica. Risulta inoltre che il regno non è per il re, ma il re per il regno: poiché Dio dispose che i re reggano il regno e lo governino tutelando ciascuno nel proprio diritto; e questo è il fine del governo: perché se agiscono diversamente, curando il proprio vantaggio, non sono re, ma tiranni. E contro di essi il Signore nel libro di Ezechiele (34, 2-4) dice: “Pastori sciagurati d’Israele, che pascevano se stessi: oh, non sono forse i greggi che dai pastori si fanno pascere? Voi vi nutrivate del latte e della lana vi eravate ricoperti, e le più pingui scannavate, e non pascevate il mio gregge. Non avete sostentato le inferme, né curato le ammalate, né fasciato le fratturate, né ricondotto le sbandate, né cercato le smarrite, ma avete spadroneggiato con rigore e prepotenza”. E con queste parole ci viene efficacemente insegnata la forma del buon governo, mentre si condanna il suo contrario.

«Di più: un regno è costituito da uomini, come una casa lo è dalle pareti e il corpo umano dalle membra, come dice Aristotele nel terzo libro della Politica. Dunque il fine del re, affinché il governo sia prospero, è che gli uomini siano conservati ad opera sua. Ed è per questo che il bene comune di qualsiasi principato è una partecipazione della bontà divina; cosicché Aristotele nel primo libro dell’Etica può dire che il bene comune è lo scopo cui mirano tutti i componenti, e che è un bene divino. Come Dio, infatti, – che è il Re dei re e il Signore dei dominanti, per virtù del quale i prìncipi governano, come è stato provato in precedenza –, ci regge e governa non per Se stesso, ma per la nostra salvezza, cosi devono fare anche i re e gli altri dominanti della terra».

(6) –Ho parlato nel testo dell’opinione di Monsignor Felice Amat, Arcivescovo di Palmira, riguardo all’ubbidienza dovuta ai governi di fatto, ed ho osservato che i princìpi del detto autore, oltre che falsi, sono anche sommamente contrari ai diritti del popolo. Sembra che il citato scrittore si trovasse alquanto imbarazzato nel cercare una massima a cui attenersi nei casi che potessero capitare, e che infatti capitano con troppa frequenza. Egli temeva l’oscurità e la confusione di idee che di solito s’introduce quando si tratta in certe situazioni di definire la legittimità; e cercando di rimediare al

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male credo che l’abbia di molto aggravato. Ecco in qual maniera egli spiega la sua opinione nel cap. 3 art. 2 dell’opera intitolata: Idea della Chiesa militante.

«Quanto più rifletto sui dubbi accennati tanto più vedo chiaramente che è impossibile sciogliere con qualche certezza anche quelli antichi, e più impossibile ancora trarre da questi dei lumi per sciogliere quelli che ora sono così fortemente suscitati dallo spirito predominante di ribellione al giudizio e alla volontà di chi comanda e, viceversa, di limitare sempre più la libertà civile di chi ubbidisce. E con la guida dei vari punti e delle varie nozioni che ho proposte sull’autorità suprema di ogni società veramente civile, mi pare che invece di perdere tempo in discussioni speculative potrà essere utile stabilire una massima opportuna, pratica e giusta per conservare la quiete pubblica, specialmente nei regni e nelle repubbliche cristiane, e per trovare qualche mezzo per ristabilirla e consolidarla qualora sia perduta o perturbata.

«La massima è la seguente: è senza dubbio legittimo l’obbligo che hanno tutti i cittadini di ubbidire al governo che si trova con certezza stabilito di fatto in qualsivoglia società civile. Si dice con certezza costituito perché non si tratta di un’invasione o di un’occupazione temporanea in tempo di guerra. Da questa massima derivano due conseguenze. 1 - Partecipare a sommosse o unirsi a persone che si rivolgono alle autorità costituite per obbligarle a fare ciò che esse non credono giusto, è sempre un’azione contraria alla retta ragione naturale, ed è sempre contro la legge naturale e quella del Vangelo. 2 - Unirsi tra privati, in pochi o in molti, ed armarsi per raccogliere forze materiali, e combattere contro il governo già costituito, è sempre una vera ribellione, la più contraria allo spirito della nostra religione divina».

Non starò qui a ripetere ciò che ho già detto sull’infondatezza e sugli inconvenienti e pericoli di questa dottrina; aggiungerò soltanto che proprio perché si tratta di un governo costituito di solo fatto è contraddittorio accordargli il diritto di comandare e di farsi ubbidire. Se si dicesse che un governo costituito di fatto è obbligato, finché dura, a difendere la giustizia, ad evitare ì delitti, e a fare in modo che la società non si disgreghi, nessuno lo negherebbe, perché si tratta di verità comuni che tutti conoscono; ma aggiungere che sia illecito e contro la nostra religione divina riunirsi e raccogliere forze per combattere contro il governo costituito di fatto, questa è una dottrina che non fu mai professata dai teologi cattolici, né mai ammessa dalla buona filosofia, né mai praticata dai popoli.

(7) – Inserisco, per continuare, alcuni passi importanti di S. Tommaso, di Suarez e del Cardinale Bellarmino dove spiegano le loro opinioni, alle quali nel testo ho fatto cenno, riguardo ai dissensi che possano nascere tra governanti e governati. Rammento quanto ho già accennato in un’altra parte: qui non si tratta tanto di esaminare fino a che punto possono essere vere queste o quelle dottrine, quanto di sapere quali fossero le dottrine dei tempi di

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cui parliamo, e quale l’opinione dei più distinti dottori intorno alle delicate questioni di cui stiamo trattando.

San Tommaso d’Aquino 2. 2. q. 42, art. 2. Ad tertium. Se la sedizione sia sempre peccato mortale. «3. Vengono lodati coloro che liberano il popolo da un potere tirannico.

Ora, questo non si può fare facilmente senza una divisione del popolo; perché mentre una parte cerca di conservare il tiranno, l’altra cerca di scacciarlo. Perciò la sedizione si può fare senza peccato.

«Ad tertium dicendum. Il regime tirannico non è giusto: perché non è ordinato al bene comune, ma al bene personale di chi governa, come spiega il Filosofo. Perciò scuotere tale regime non ha natura di sedizione: a meno che non si turbi talmente codesto regime, da procurare al popolo un danno maggiore di quello sofferto col regime tirannico.

«Anzi, si può dire che è sedizioso il tiranno, il quale provoca nel popolo sottoposto discordie e sedizioni, per dominare con più sicurezza. Infatti questo è un modo di agire tirannico, essendo ordinato al bene di chi comanda, con danno del popolo».

Lib. I

De regimine principum, cap. 10

«Il re o chi presiede deve adoperarsi a ben governare, sia per il bene proprio, sia per l’utilità che ne deriva. Il contrario avviene nel regime tirannico.

«Poiché per i re è stabilito un premio così grande nella beatitudine celeste,

se si saranno comportati bene nel governare, essi devono badare a se stessi con accurata diligenza, affinché non diventino tiranni. Niente infatti deve essere loro più gradito dell’essere portati alla gloria del regno celeste da quello stesso onore regio dal quale sono esaltati in terra. Sbagliano invece i tiranni che per qualche interesse terreno abbandonano la giustizia, perché si privano di un bene così grande, che potrebbero ottenere governando con giustizia. Nessuno poi, a meno che non sia stolto o privo di fede, ignora come sia sciocco perdere beni grandissimi ed eterni per dei beni così meschini e soggetti all’usura del tempo.

«Bisogna poi aggiungere che i vantaggi temporali per i quali i tiranni trascurano la giustizia provengono ai re in quantità maggiore col rispetto della giustizia. E questo a cominciare dall’amore di amicizia, poiché fra le cose di questo mondo non c’è niente degno di essere preferito all’amicizia. È essa infatti che unisce gli uomini virtuosi, e conserva e promuove la virtù. Di essa tutti hanno bisogno per compiere qualsiasi impresa; di essa che nei momenti

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di prosperità non importuna e nelle avversità non abbandona. È essa che provoca i piaceri più grandi, al punto che qualunque cosa piacevole senza amici diventa noiosa, e qualunque cosa difficile, dall’amore è resa facile e quasi insignificante. E non esiste un tiranno tanto crudele che non si diletti dell’amicizia.

«Ma i tiranni, per quanto lo desiderino, non possono conseguire il bene dell’amicizia. Infatti, nel momento in cui, invece di cercare il bene comune cercano quello personale, la comunione con i sudditi diventa piccola, o inesistente addirittura. Ogni amicizia invece si basa su una qualche comunanza. Infatti noi vediamo che si uniscono in amicizia persone che si avvicinano per origine di natura, o per somiglianza di costumi, o per la comunanza di un qualsiasi rapporto sociale. Perciò, l’amicizia del tiranno col suddito è meschina o addirittura inesistente, mentre i sudditi sono oppressi dall’ingiustizia; e sentendo di non essere amati ma disprezzati, certamente non amano. Né i tiranni hanno di che lamentarsi dei sudditi, se da questi non sono amati, poiché non si comportano con loro in modo da rendersi amabili.

«I buoni re, invece, siccome si preoccupano del bene comune, in modo che i sudditi si accorgono di riceverne molti vantaggi, sono amati da molti, perché dimostrano di amare i loro sudditi: infatti odiare gli amici e rendere ai benefattori male per bene è proprio di una cattiveria più grande di quella che si riscontra nella massa. Da questo amore deriva che il governo dei buoni re sia stabile, perché per essi i sudditi accettano di esporsi a ogni sorta di pericoli.

«Non è dunque facile che sia turbato il dominio di un principe che il popolo ama con così grande consenso. Di qui le parole di Salomone (Proverbi 29, 14): “Il trono del re che giudica i poveri con giustizia sarà stabile in eterno”. Il dominio dei tiranni invece non può durare a lungo, dal momento che è odioso alla moltitudine; poiché non si può conservare a lungo ciò che è in contrasto con i desideri di molti. È difficile infatti che qualcuno trascorra tutta la vita senza patire qualche avversità; e nel tempo dell’avversità non può mancare l’occasione di insorgere contro il tiranno: e quando c’è l’occasione, non manca tra molti chi ne approfitta. Il popolo poi accompagna col suo incoraggiamento chi insorge, ed è raro che non raggiunga l’effetto ciò che si tenta col favore del popolo. Dunque è difficile che il governo tirannico duri a lungo.

«Ciò risulta chiaramente anche se si considera il modo col quale si conserva il dominio dei tiranni. Questo infatti non si conserva con l’amore, dal momento che poca o nulla è l’amicizia dei sudditi verso il tiranno, come risulta dalle cose già dette prima. Né i tiranni possono fare affidamento sulla fedeltà dei sudditi. Infatti non si trova in molti una virtù di fedeltà così grande che li trattenga dallo scuotere, avendone la possibilità, il giogo di una servitù indebita. Anzi, secondo l’opinione di molti, non è da reputare contrario alla fedeltà qualsiasi tipo di resistenza alla perfidia del tiranno. Dunque resta che

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un governo tirannico si regge solo sul timore; perciò i tiranni si sforzano in tutti i modi di essere temuti dai sudditi. Ma il timore è un debole fondamento. Infatti coloro che sono tenuti sottoposti per mezzo del timore, se si offre l’occasione in cui possono sperare l’impunità, insorgono contro i loro capi con tanto maggior ardore quanto più contro la propria volontà erano trattenuti soltanto dal timore: come fa l’acqua, la quale, se viene chiusa con forza, appena trova uno sbocco irrompe con maggior impeto. E lo stesso timore non è senza pericolo, poiché molti per il troppo timore cadono nella disperazione. La disperazione della salvezza poi spinge a tentare audacemente qualunque cosa. Dunque il dominio del tiranno non può durare a lungo.

«Questo inoltre è dimostrato più dagli esempi che dai ragionamenti. Se infatti si considerano le gesta degli antichi e gli avvenimenti moderni, difficilmente si troverà che il dominio di un qualche tiranno è durato a lungo. Perciò anche Aristotele nella sua Politica, dopo aver enumerato molti tiranni, dimostra come il loro dominio sia finito in breve tempo; alcuni di essi, tuttavia, comandarono più a lungo, perché non eccedevano molto nella tirannide, ma sotto molti aspetti imitavano la moderazione regale.

«La cosa finalmente è resa ancora più chiara dalla considerazione del giudizio divino. Dio infatti come è detto in Giobbe (34, 30), “fa regnare l’uomo ipocrita per i peccati del popolo”. Ora, nessuno può essere detto più veracemente ipocrita di chi assume l’ufficio di re, e poi si comporta da tiranno. Infatti viene chiamato ipocrita colui che rappresenta la persona di un altro, come capita di solito negli spettacoli. Così dunque Dio permette che i tiranni governino, per punire i peccati dei sudditi. Questa punizione nelle Scritture viene chiamata di solito ira di Dio. Perciò per bocca di Osea (13, 11) il Signore dice: “Nel mio furore vi darò un re”. Infelice è poi il re che viene dato al popolo nel furore di Dio. Il suo dominio infatti non può essere stabile: perché “il Signore non si dimenticherà di avere pietà e nella sua ira non cesserà dalle sue misericordie”» (Salmo 76, 10); anzi per bocca di Gioele (2, 13) è detto che “è paziente e molto misericordioso, e predisposto a condonare il peccato”. Dio dunque non permette che i tiranni regnino a lungo, ma dopo aver scatenato la tempesta nel popolo per mezzo di essi, con la loro cacciata fa ritornare la tranquillità. Perciò nell’Ecclesiastico (10, 14) si dice: “Dio ha distrutto i troni dei condottieri superbi e al loro posto ha fatto sedere i miti”.

«Dall’esperienza risulta anche che i re con la giustizia si procurano più ricchezze che i tiranni con la rapina. Infatti, poiché il dominio dei tiranni dispiace alla moltitudine soggetta, essi hanno bisogno di avere molte guardie per essere sicuri dei loro sudditi; e per queste guardie debbono spendere molto più di quanto possano rapinare ai sudditi. Invece il dominio di quei re, che piacciono ai sudditi, ha come guardie tutti i sudditi, per i quali non occorre spendere; anzi questi talvolta nelle necessità donano spontaneamente ai re molto di più di quanto i tiranni possano rapinare ai sudditi; e così si adempie quello che dice Salomone (Proverbi 11, 24): “Gli uni (cioè i re) dividono le

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proprie cose beneficando i sudditi, e diventano più ricchi; gli altri (cioè i tiranni) rapinano le cose non proprie, e sono sempre nel bisogno”». Così avviene per giusto giudizio di Dio, che coloro i quali ingiustamente ammassano ricchezze le dissipino inutilmente, oppure che giustamente ne vengano privati. Come infatti dice Salomone (Ecclesiaste 5, 9), “l’avaro non si sazierà di denaro, e chi ama il denaro non ne raccoglierà il frutto”; anzi, come è detto nei Proverbi (15, 27): “Chi segue l’avarizia turba la propria casa”. Ai re, invece, che cercano la giustizia le ricchezze sono date in più da Dio, come a Salomone, il quale, avendo chiesto la sapienza per giudicare, ricevette la promessa di abbondanti ricchezze.

«Della fama poi sembra superfluo trattare. Chi dubita infatti che i buoni re non solo in vita, ma ancora di più dopo la morte, in un certo qual modo vivono nelle lodi degli uomini, e sono rimpianti; mentre il nome dei malvagi, o viene subito dimenticato o, se furono eccezionali nella malvagità, è ricordato con detestazione? Perciò Salomone (Proverbi 10, 7) afferma: "La memoria del giusto è in benedizione, mentre il nome degli empi marcirà", perché, o svanisce, o rimane in cattivo odore».

LIBRO I

CAPITOLO VI

«Conclusione: il regime monarchico assolutamente parlando è il migliore. Qui si mostra come il popolo debba comportarsi nei suoi confronti per togliere al re l’occasione di trasformarsi in tiranno, e quanto in tal caso si debba tollerare, per evitare mali maggiori.

«Dal momento che si deve preferire il governo monarchico, essendo esso

il migliore, e che può avvenire che questo si muti in governo tirannico che è il peggiore, come risulta da quello che abbiamo detto finora, è necessario che il popolo attenda diligentemente a provvedersi un re, in modo da non cadere nella tirannide. Prima di tutto è necessario che come re venga scelto, da chi ha questo compito, un uomo che con ogni probabilità non diventerà un tiranno. Per questo Samuele, lodando la provvidenza di Dio nell’istituzione del re poteva dire (I Re[I Samuele] 13, 14): “Dio si cercò un uomo secondo il suo cuore”. In secondo luogo bisogna disporre il governo in modo tale da togliere al re già istituito l’occasione della tirannide. Nello stesso tempo bisogna temperare il suo potere in modo che difficilmente possa mutarlo in tirannide. In seguito si vedrà come si possano attuare queste cose. Ora dobbiamo vedere come si può ovviare quando il re diventa tiranno.

«Se la tirannide non è eccessiva, è certamente più utile sopportarla per un certo tempo piuttosto che, reagendo, incorrere in molti pericoli più gravi della stessa tirannide. Infatti può succedere che quelli che si sollevano contro il

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tiranno siano sconfitti e così il tiranno provocato diventerà più crudele. Ma anche dalla loro vittoria possono derivare molte gravissime discordie nel popolo: la comunità si divide in fazioni, sia al momento dell’insorgenza contro il tiranno, sia, una volta scacciatolo, sul modo di organizzare il governo. Talvolta succede anche che, avendo il popolo cacciato il tiranno con l’aiuto di qualcuno, questi diventi tiranno a sua volta dopo aver preso il potere; e, temendo di dover subire da qualcun altro ciò che egli stesso ha fatto, opprima i sudditi ancor più pesantemente. Infatti nella tirannide suole avvenire che il tiranno successivo sia più gravoso del precedente, perché non abbandona le gravezze precedenti e lui stesso ne trova di nuove con la perfidia del cuore. Ecco perché una volta capitò che, mentre i Siracusani desideravano la morte di Dionigi (il tiranno) una vecchia pregava incessantemente che egli le sopravvivesse sano e salvo; il tiranno venutolo a sapere, le domandò perché facesse così. Ed essa rispose: “Quando ero bambina, siccome avevamo un tiranno crudele, desideravo la sua morte; però dopo che lui fu ucciso ne venne un altro ancora più crudele. Allora mi pareva una gran cosa se fosse finito anche il suo dominio. Ma dopo sei venuto tu, che sei ancora più insopportabile. Così, se tu fossi ucciso, ne verrebbe un altro ancora peggiore”.

«Se poi l’eccesso della tirannide fosse insopportabile, secondo alcuni toccherebbe al valore degli uomini forti uccidere il tiranno ed esporsi al pericolo della morte per la liberazione del popolo: e di questo c’è un esempio anche nell’antico Testamento. Infatti (come narra Giudici 3, 15 ss.) un certo Aod uccise Eglon re di Moab che opprimeva con una grande schiavitù il popolo di Dio conficcandogli un pugnale nel fianco. Ma questo non è consono alla dottrina degli Apostoli. Infatti S. Pietro ci insegna che dobbiamo essere soggetti con reverenza “non solo ai signori buoni e temperati, ma anche ai perversi” (1 Pietro 2, 18). Difatti “è un merito sopportare pazientemente ingiustizie per amore di Dio”; perciò, quando molti imperatori romani perseguitavano tirannicamente la fede di Cristo, una grande moltitudine di nobili e di popolo già convertita alla fede, non per aver reagito, ma per aver sopportato pazientemente la morte per Cristo, pur avendo le armi, come chiaramente appare nella sacra legione tebea, ora viene lodata; e bisogna considerare che Aod più che un principe tirannico del suo popolo, ne uccise un nemico. Perciò anche nel vecchio Testamento si legge che coloro che uccisero Joas re di Giuda furono giustiziati e i loro figli risparmiati, secondo il precetto della legge, sebbene il re si fosse allontanato dal culto di Dio (Vedi 4 Re [2 Re] 14, 5-6).

«Sarebbe pericoloso per il popolo e per i suoi governanti, se arbitrariamente si potesse attentare alla vita di coloro che governano, sia pure tiranni. Per lo più infatti a pericoli di questo genere si espongono più i cattivi che i buoni. Ora, ai cattivi il governo dei re risulta gravoso non meno di quello dei tiranni perché, secondo la sentenza di Salomone, (Proverbi 20, 26) “Un re sapiente disperde gli empi”. Perciò un simile arbitrio procurerebbe al popolo

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più il pericolo di perdere un buon re, che il rimedio della cacciata di un tiranno.

«Risulta dunque che contro la crudeltà dei tiranni si deve procedere non secondo l’arbitrio di qualcuno ma per mezzo della pubblica autorità. In primo luogo, se a qualche comunità spetta di scegliersi il re, secondo il diritto il Re creato può essere destituito e il suo potere frenato dalla comunità stessa, se adopera tirannicamente la sua potestà. E non si deve ritenere che questa comunità manchi di fedeltà destituendo il re, anche se prima gli si era sottomessa in perpetuo; poiché egli stesso non comportandosi fedelmente nel governo della comunità, come esige il dovere del re, si è meritato che i sudditi non mantengano il patto stretto con lui. Così i Romani cacciarono Tarquinio il superbo, che avevano accettato come re, per la tirannide sua e dei suoi figli, sostituendolo con una potestà minore, quella consolare. Così pure Domiziano, che era succeduto a due imperatori molto temperati – suo padre Vespasiano e suo fratello Tito – mentre esercitava la tirannide fu ucciso dal Senato romano, e giustamente e salutarmente fu abrogato con un senatoconsulto tutto quello che con perfidia egli aveva imposto ai Romani. Così avvenne che S. Giovanni Evangelista, discepolo diletto di Dio, che dallo stesso Domiziano era stato mandato in esilio nell’isola di Patmos, per senatoconsulto tornò ad Efeso.

«Se poi spetta a qualche superiore il diritto di nominare il re per la comunità, bisogna attendere da lui il rimedio contro la perfidia del tiranno. Così ad Archelao, che regnava in Giudea al posto del padre Erode imitandone la perversità, lamentandosi di lui i Giudei presso Cesare Augusto, dapprima venne diminuito il potere col togliergli l’appellativo di re e col dividere la metà del regno fra i suoi due fratelli; quindi, poiché nemmeno così veniva distolto dal tiranneggiare, fu mandato in esilio da Tiberio a Lione, città della Gallia. Ma se contro il tiranno non si può avere alcun aiuto umano, bisogna ricorrere a Dio, re di tutti, il quale al momento opportuno soccorre nelle tribolazioni. Infatti è in suo potere volgere alla mansuetudine il cuore crudele del tiranno, secondo la sentenza di Salomone (Proverbi 21, 1): “Il cuore del re è in mano a Dio; lo piegherà dovunque vorrà”. Egli volse in mansuetudine la crudeltà del re Assuero che preparava la morte ai Giudei. Egli trasformò talmente il crudele re Nabucodonosor che questi divenne un predicatore della divina potenza. “Ora dunque – dice – Io Nabucodonosor lodo, magnifico e glorifico il re del cielo, poiché le sue opere sono vere e le sue vie giudizi, e può umiliare coloro che camminano nella superbia”. (Daniele 4, 34).

«Dio può togliere di mezzo i tiranni che reputa indegni della conversione, o ridurli alla condizione più bassa, secondo quel detto del Sapiente (Ecclesiastico 10, 14): “Distrusse il trono dei condottieri superbi e fece sedere i miti al loro posto”. Egli è lo stesso che, vedendo l’afflizione del suo popolo in Egitto e prestando ascolto al suo grido, sommerse nel mare il tiranno Faraone col suo esercito. Egli è quello stesso che trasformò rendendolo simile a una bestia il già ricordato Nabucodonosor che era insuperbito, cacciandolo

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non solo dal regno, ma anche dall’umano consorzio. Ora, la sua mano non s’è accorciata da non poter liberare il suo popolo dai tiranni. Per bocca di Isaia Egli infatti promette al suo popolo di dargli pace dal travaglio, dalla confusione e dalla dura schiavitù sotto la quale prima aveva servito. E per bocca di Ezechiele (34, 10) dice: “Libererò il mio gregge dalle loro fauci”, cioè da quelle dei pastori che pascono se stessi. Ma il popolo, per meritare da Dio questo beneficio, deve cessare dai peccati, poiché è appunto in punizione dei peccati che per divina permissione gli empi prendono il comando, come dice il Signore per bocca di Osea (13, 11): “Ti darò nel mio furore un re”. E in Giobbe (34, 30) è detto che “fa regnare un uomo perverso per i peccati del popolo”. Dunque, perché cessi la piaga dei tiranni, bisogna rimuovere la colpa».

Suarez – Disp. 13. De bello, Sec. 8, Utrum seditio sit intrinsece mala? (Omissis). Bellarminus – De Romano Pont. Lib. V, Cap. VII, Tertia ratio. (Omissis). Ecco come parlava in Spagna nei tempi detti di dispotismo il P. Marquez

nell’opera intitolata Il Governatore cristiano; e si sa che non fu questo uno di quei libri poco noti che circolano di nascosto, perché se ne fecero varie edizioni sia in Spagna che all’estero. Riporterò qui il titolo completo, e l’elenco delle edizioni che furono fatte in diversi tempi, luoghi e lingue, come è scritto in quella di Madrid del 1773.

Il Governatore cristiano tratto dalla vita di Mosè principe, del popolo di

Dio, del R. P. M. I. R. Giovanni Marquez dell’Ordine di Sant’Agostino, predicatore di sua Maestà il re D. Filippo III, qualificatore del sant’Uffizio e cattedratico di teologia nel dopo pranzo, nell’università di Salamanca. – Sesta nuova edizione. Con permissione: Madrid 1773.

«Il Governatore cristiano, composto su istanza ed in ossequio di S. E. il

Sig. Duca di Feria, uscì alla luce la prima volta a Salamanca nell’anno 1612. La seconda nella stessa città nel 1619. La terza ad Alcalà l’anno 1634, e infine la quarta a Madrid nel 1640. La quinta fuori di Spagna a Bruxelles nel 1664. Fra quanti dei nostri hanno scritto su questa materia questo è il capo lavoro.

«Fu tradotta in Italiano dal P. Martino di San Bernardo dell’Ordine Cistercense, che la fece stampare a Napoli nel 1646. Fu anche tradotta in lingua francese dal Sig. De Virion, consigliere del Duca di Lorena, e fu pubblicata a Nancy nel 1621.

Lib. I, cap. 8.

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«Ci resta da rispondere alle obbiezioni contrarie. Noi affermiamo che né la

legge divina, né la legge naturale hanno dato alle nazioni la facoltà di fermare la tirannia con mezzi così violenti come quello di spargere il sangue dei prìncipi che Dio costituì suoi vicari con autorità di vita e di morte sugli altri uomini. E in quanto al resistere alle loro crudeltà non c’è dubbio che si possa e si debba fare, non ubbidendo in ciò che è contrario alla legge di Dio, sottraendosi fisicamente e parandone i colpi, come fece Gionata con Saul suo padre quando lo vide prendere la lancia contro di lui, e allora si alzò da tavola e uscì per andare in cerca di Davide per avvertirlo di mettersi in salvo; e qualche volta anche opponendosi con le armi per impedir loro di compiere fatti manifestamente temerari e crudeli. Perché, come dice S. Tommaso, questo non significa provocare la sedizione, ma arrestarla e porvi riparo. E ugualmente afferma Tertulliano: illis – dice – nomen factionis accomodandum est, qui in odium bonorum et proborum conspirant; cum boni, cum pii congregantur, non est factio dicenda, sed curia.

«Per la qual cosa il beato S. Ermenegildo, glorioso martire di Spagna, uscì armato in campo contro il re Leovigildo Ariano per opporsi alla grande persecuzione da questi avviata contro i Cattolici, come affermano gli storici di quel tempo. È vero che San Gregorio Turonense condannò questo episodio del nostro re martire, quantunque lo facesse non perché il santo si fosse opposto al suo re ma perché Leovigildo oltre che suo re era anche suo padre, e San Gregorio sosteneva che per quante fosse eretico il padre, il figlio non doveva mai ribellarglisi.

«Ma questa obiezione è senza fondamento, come fa osservare il Baronio: ed all’autorità di un S. Gregorio si oppone quella di un altro maggior Gregorio, qual è San Gregorio Magno, il quale nella prefazione al libro dei suoi Moralia approva l’ambasceria di San Leandro, spedito a Costantinopoli da Sant’Ermenegildo per chiedere aiuto all’imperatore Tiberio contro il proprio padre Leovigildo. E non c’è dubbio che per quanto sia sacro l’obbligo della pietà figliale, lo è però maggiormente quello della religione; e per adempiere l’obbligo che questa impone bisogna sacrificare ogni cosa; e nei casi simili a questo è scritto quanto fu detto della tribù di Levi: Qui dixerunt patri suo, et matri suae, nescio vos, et fratribus suis ignoro vos, nescierunt filios suos. E questo fu quando per ordine di Mosè i leviti presero le armi contro i loro parenti per castigarli del peccato d’idolatria.

«Ma se il Principe giungesse ad attentare personalmente alla vita del suddito, e lo riducesse talmente alle strette da non potersi questi difendere senza ucciderlo, come faceva Nerone, quando usciva di notte per le strade di Roma ed assaliva con gente armata le persone che andavano per la loro strada sicure e tranquille? Io dico che in questo caso si potrebbe uccidere, respingendo la forza con la forza, secondo anche il parere di molti. Perché, come dice fra’ Domenico di Soto, trovandosi in questi frangenti il suddito

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deve lasciarsi ammazzare, e preferire alla propria vita quella del principe, soltanto qualora dalla morte di questi dovessero seguire grandi sconvolgimenti e guerre civili nel regno. Al di fuori di questo caso sarebbe una grande malvagità obbligare gli uomini a tanto. Ma per difendere i propri beni dalla cupidigia del principe non sarebbe lecito mettergli le mani addosso, poiché le leggi divine ed umane hanno dato ai prìncipi questo privilegio, che non se ne possa versare il sangue col pretesto che sarebbe d’esempio contro altri invasori. E la ragione è che la vita dei re è l’anima e il vincolo delle nazioni e ha più valore dei beni dei privati, ed è minor danno tollerare tali ingiurie che privare lo Stato del suo capo».

(8) – Per dare un’idea del modo con cui anche in quei tempi si cercava di limitare l’autorità del monarca promuovendo associazioni tra i popoli, ed anche tra questi, i Grandi e il clero, riporto qui la Carta di fratellanza che firmarono i regni di Leone e Galizia con quello di Castiglia, così come si trova nella collezione intitolata: Bullarium Ordinis militiae sancti Jacobi gloriosissimi Hispaniarum patroni, pag. 223, nella quale si vede che fin da quei tempi in Spagna già esisteva un vivo istinto di libertà, benché allora queste idee fossero di un ordine molto secondario.

«1 – Nel nome di Dio e di Santa Maria, amen. Coloro che leggono questa

Carta sappiano che a causa di molte ingiustizie e molti danni e violenze, e morti, e prigionie, e insolenti rifiuti di ascoltare, e disonori, ed altre molte cose compiute oltremisura contro Dio, contro la giustizia e contro le leggi, e con gran danno di tutti i regni, che ci faceva il re D. Alfonso; per tutto questo noi Infanti, Prelati, uomini ricchi, Consigli, Ordini e Cavalleria del regno di Leone e di Galizia, vedendo che eravamo oppressi dalle ingiustizie e maltrattati come si è detto sopra, e non potendolo più sopportare, nostro signore l’Infante D. Sancio ha pensato bene ed ha comandato che fossimo tutti di un sol volere e di un sol cuore, egli con noi e noi con lui, per mantenerci nelle nostre leggi e nei nostri privilegi, usi, costumi, libertà e franchigie che avevamo ai tempi del re D. Alfonso suo bisavolo che vinse la battaglia di Merida, ed al tempo del re D. Ferdinando suo avo, e dell’imperatore e degli altri re di Spagna suoi predecessori e del re D. Alfonso suo padre, dei quali tutti siamo stati soddisfattissimi; e il detto nostro signore Infante D. Sancio ci ha fatto giurare e promettere, come è scritto sul contratto che è tra lui e noi; e vedendo che questo è per il servizio di Dio e di Santa Maria e della Corte celeste, per la difesa e l’onore della Santa Chiesa, dell’Infante D. Sancio e dei re che saranno dopo di lui, e finalmente per il vantaggio di tutto il paese, che facciamo fratellanza (Hermandat) e tutti noi stabiliamo oggi e sempre i regni suddetti con i Consigli del regno di Castiglia e con gli Infanti, e con gli uomini ricchi, e con i gentiluomini, e con i Prelati, Ordini, cavalieri e con tutti gli altri che sono qui e vorranno esserci in questa maniera.

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«2 – Che manterremo a nostro signore l’Infante D. Sancio e a tutti gli altri re che verranno dopo di lui tutti i loro diritti e tutta la loro Signoria integralmente così come glielo abbiamo promesso, e come sono contemplati nel privilegio che egli ci ha dato a tal fine. La giustizia continuerà ad essere amministrata da parte della Signoria; e la Martiniega (a), dove solevano darla e come solevano darla, continuerà ad essere data di diritto al re D. Alfonso, che vinse la battaglia di Merida. E la moneta nel giro di sette anni, dove solevano darla e come la solevano dare, e non ordinando essi di batter moneta. L’ Illiantar (denaro per il pranzo) sarà dato là dove solevano averlo secondo la legge del paese una volta l’anno recandosi al luogo stesso, come lo davano al re D. Alfonso, bisavolo, e al re D. Ferdinando, avo, come si è detto. La Fonsadera (b) sarà data quando il re sarà in guerra, dove solevano darla secondo la legge del paese, e di diritto al tempo dei suddetti re, essendo garantiti a ciascuno i privilegi, le carte, le libertà e le franchigie che abbiamo.

«3 – Inoltre che manteniamo tutti i nostri statuti, usanze, costumi, privilegi, carte, e tutte le nostre libertà e franchigie, sempre in maniera tale che se il re o L’Infante D. Sancio o i re che verranno dopo di loro, e qualsivoglia degli altri signori, o Alcadi, o Merini, o altri uomini che volessero violarle, o in tutto o in parte, o in qualsivoglia maniera, o in qualsivoglia tempo, tutti noi non saremo che un sol uomo per mandare a dire al re, o a D. Sancio, o ai re che verranno dopo di loro, così come dice il privilegio, se essi vorranno rimediare a ciò che sarebbe di nostro aggravio; e se no, saremo tutti uniti come un sol uomo a difenderci e a proteggerci, come dice il privilegio che ci diede il nostro signore l’Infante D. Sancio.

«4 – Inoltre che nessun uomo della Hermandat sarà castigato e che non gli sarà tolta alcuna cosa di sua proprietà contro lo statuto e contro l’uso del luogo in queste giurisdizioni della Hermandat suddetta, e non consentano che nessuno prenda più di quel che è richiesto secondo lo statuto, e dove egli si troverà.

«5 – Inoltre dichiariamo che se un Alcade o Merino o altro uomo qualunque ammazzasse qualche uomo della nostra Hermandat per una lettera del re o dell’Infante D. Sancio, o per suo ordine, o per ordine degli altri re che saranno dopo di loro, senza averlo sentito e giudicato secondo lo statuto, che noi della Hermandat lo ammazzeremo per un tal fatto, e se non potremo catturarlo, sarà considerato e dichiarato nemico della Hermandat; qualunque membro della Hermandat che lo nascondesse e ricoverasse incorrerà nella pena di spergiuro e di fellonia, e sarà trattato pure esso come chi va contro questa Hermandat.

«6 – Inoltre dichiariamo riguardo alle decime dei porti, che non le concediamo se non secondo quei diritti che erano in uso ai tempi del re D. Alfonso e del re D. Ferdinando; i Consigli della Hermandat non permetteranno a nessuno di percepirle in altro modo.

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«7 – Inoltre che nessun Infante o uomo ricco che non sia Merino, né gran Balivo nei regni di Leone e di Galizia, né gentiluomo, né cavaliere, abbia notoriamente un gran numero di cavalieri o altri uomini del paese in vassallaggio, e che non sia straniero del regno. E facciamo questo perché così fu fatto al tempo del re D. Alfonso e del re D. Ferdinando.

«8 – Inoltre, che tutti quelli che vorranno appellarsi al giudizio del re o di D. Sancio o degli altri re che verranno dopo di loro, possano appellarsi, e che abbiano il giudizio secondo il libro Giudico in Leon, così come lo solevano avere al tempo dei re che furono prima di questo. E se non volessero accettare l’appello di chi vi ricorresse; noi faremo da parte nostra quello che detta il privilegio che ci diede D. Sancio.

«9 – E per mantenere ed eseguire tutti gli atti di questa Hermandat, facciamo un sigillo di due riquadri con questi segni: nell’uno la figura di leone, e nell’altro una figura di S. Giacomo a cavallo con la spada nella mano destra, e nella mano sinistra uno stendardo con una Croce in alto e delle conchiglie. La scritta dirà così: Sigillo della Hermandat dei regni di Leone e di Galizia, per sigillare le lettere di cui avremo bisogno per le esigenze di questa Hermandat.

«10 – E noi tutti della Hermandat di Castiglia facciamo promessa ed omaggio a tutta la Hermandat dei regni di Leone e di Galizia di aiutarci scambievolmente bene e con lealtà, di osservare e mantenere tutte queste cose suddette e ognuna di esse. E se noi non lo facessimo, che siamo traditori per questo solo fatto come lo è chi ammazza il suo signore e consegna il coltello al nemico, e possiamo non aver mai in questo caso né mani, né armi, né lingua per poterci difendere.

«11 – E perché non possa mai esserci dubbio su questo, e sia anzi questo fatto stabilito per sempre, facciamo sigillare questa Carta con entrambi i sigilli della Hermandat di Castiglia e di Leone e Galizia, e la consegniamo al maestro D. Pietro Nunez, e all’ordine cavalleresco di S. Giacomo che sono con noi in questa Hermandat. Scritta questa Carta a Valladolid il giorno 8 di giugno dell’anno 1320».

Erano passati già molti secoli e in Spagna non c’era altra religione che

quella cattolica, e tuttavia continuava a mantenersi in tutto il suo vigore e vitalità l’idea che il re dovesse essere il primo ad osservare le leggi, e che non dovesse comandare ai popoli per puro capriccio ma secondo i princìpi della giustizia e i criteri della pubblica convenienza. Savedra nelle sue Imprese parlava nel seguente modo.

«Vane saranno le leggi, se il principe che le promulga non le conferma e

difende con l’esempio e con la vita. Dolce è al popolo la legge a cui ubbidisce l’autore stesso della medesima.

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«In commune jubes siquid, censesve tenendum, Primus jussa subi; tunc observantior acqui Fit populus, nec ferre vetat, cum viderit ipsum Auctorem parere sibi. «Le leggi che promulgò Servio Tullio non erano solo per il popolo, ma

anche per i re: le cause tra il principe e i sudditi dovevano essere giudicate secondo queste leggi. Tacito riferisce di Tiberio: Quantunque siamo liberi dalle leggi (dissero gli imperatori Severo ed Antonino) viviamo però in modo conforme alle leggi stesse. La legge non obbliga il principe in quanto ha anche per lui forza di legge, ma in quanto è fondata sulla legge naturale e comune a tutti, e non su leggi particolari dirette ai sudditi per il buon governo nei loro confronti. Perché queste leggi particolari, invece, spetta osservarle solo ai sudditi; sebbene anche il principe le debba osservare se il caso lo richiedesse affinché risultino dolci e soavi ai sudditi. Sembra che in questo consista il misterioso comando dato da Dio ad Ezechiele di mangiarsi il libro: affinché gli altri, vedendo che egli era stato il primo a gustare le leggi e che gli erano sembrate dolci, lo imitassero tutti. I re di Spagna sono tanto soggetti alle leggi che il fisco nelle cause del patrimonio subisce la sentenza come un suddito qualsiasi, e in caso di dubbio è condannato piuttosto il fisco che il suddito. Così ordinò Filippo II, ed essendosi suo nipote Filippo IV, glorioso padre di Vostra Altezza, trovato presente alla sentenza del Consiglio reale in un’importante causa della Camera, i giudici ebbero la nobile fermezza e costanza di condannarlo, e sua Maestà ebbe la rettitudine di ascoltare la sentenza senza sdegnarsi. Felice regno in cui la causa del principe è meno favorita di quella degli altri!».

(9) – Forse non sono mai stati analizzati con la dovuta attenzione i grandi meriti delle organizzazioni industriali che ebbero origine in Europa fin dai primi tempi e incominciarono ad estendersi dal dodicesimo secolo in poi. Parlo delle corporazioni (gremios) che si erano formate sotto l’influenza della religione cattolica; esse erano poste normalmente sotto la protezione di qualche santo, ed erano amministrate da pie fondazioni che si occupavano di sovvenire alle necessità dei soci e di celebrare le feste dei patroni. Il nostro illustre Capmany nelle sue Memorie storiche sulla marina, commercio ed arti dell’antica città di Barcellona, ha pubblicato una raccolta di documenti preziosissimi per la storia delle classi industriali e dello sviluppo della loro influenza sulla politica del governo. Sono poche le opere pubblicate all’estero dalla metà del secolo scorso, ed anche nel presente, che hanno tanto merito quanto quella del nostro Capmany pubblicata nel 1779. Vi si trova un capitolo della massima importanza sull’istituzione dei gremios o corporazioni di arti; capitolo che riporto qui per conoscenza di coloro che sono convinti che finora in Europa non si sia mai pensato a qualcosa di utile per le classi industriali, e

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che scioccamente considerano un mezzo di schiavitù e di monopolio quello che in realtà serviva da stimolo e da mutuo soccorso. Credo del resto che leggendo le riflessioni filosofiche di Capmany chiunque si convincerà che fin dai secoli più remoti in Europa erano già conosciuti i sistemi atti ad incoraggiare l’industria, a preservarla dalle funeste agitazioni dei tempi, a favorire l’interesse per le arti meccaniche e a sviluppare in modo legittimo e provvidenziale l’elemento popolare. E non sarà inutile neanche presentare questo saggio a certi stranieri che tanto si occupano di economia sociale e politica e che, leggendo la storia che ne fanno, si capisce bene che a loro non è mai giunta notizia di un’opera di tanta importanza per tutto ciò che riguarda il movimento del Mezzogiorno d’Europa dall’undicesimo secolo fino al diciottesimo.

Dell’Istituzione dei Gremios, e di altre corporazioni delle arti in

Barcellona. «Non si è trovato finora alcun documento che ci illumini e ci guidi nella

ricerca dell’epoca precisa in cui nacquero le corporazioni delle arti a Barcellona (c): ma dalle supposizioni che ci suggeriscono le più antiche testimonianze è molto probabile che la fondazione o formazione politica delle corporazioni degli artigiani sia avvenuta al tempo di D. Giacomo I, sotto il cui glorioso regno le arti prosperarono nella stessa misura in cui il commercio e la navigazione erano sostenuti dalle spedizioni oltremare degli eserciti aragonesi. L’industria era cresciuta per la maggior facilità dello smercio e la popolazione, figlia del lavoro, a sua volta produceva ed aumentava il lavoro stesso.

«Le corporazioni dei mestieri dovettero necessariamente formarsi a Barcellona, come nelle altre parti, quando le comodità e i capricci degli uomini aumentarono a tal punto che gli stessi artigiani si divisero in tante comunità per lavorare con maggior sicurezza e non danneggiarsi reciprocamente. E siccome il lusso ed i capricci dell’uomo nella vita di società, come anche gli oggetti di commercio, vanno facilmente soggetti alle mode, ecco che col tempo si sono visti nascere alcuni mestieri mentre altri cessarono del tutto; in un certo momento convenne che un’arte si dividesse in diversi rami, e in un altro che varie arti si riunissero in una sola. L’industria delle arti e mestieri di Barcellona è andata soggetta a tutte queste vicende nel corso di cinque secoli. I lavori in ferro sono giunti parecchie volte a sostenere undici o dodici rami diversi, e di conseguenza altrettante classi di famiglie benestanti. Questi stessi mestieri oggi sono ridotti ad otto per certi cambiamenti di modi e di usi.

«Secondo le costituzioni che allora normalmente predominavano nella maggior parte dei paesi europei era necessario accordare autonomia e privilegi ad un popolo laborioso e mercantile che fin da allora era la difesa e il sostegno

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del suo re, distribuendo i cittadini in diversi ordini. Ma questa divisione non avrebbe potuto essere duratura e netta se non per mezzo della separazione politica delle corporazioni di arti e mestieri, separazione necessaria per classificare sia gli uomini che le professioni; e ancor più necessaria in una città come Barcellona la quale, fin dalla metà del tredicesimo secolo, cominciò a governarsi con una specie d’indipendenza democratica. In Italia, il primo paese d’Occidente che ristabilì il nome e le funzioni del popolo, che erano stati cancellati dal governo gotico nei secoli di ferro, si era già conosciuta l’industria suddivisa in corporazioni, le quali resero stabili ed onorate le arti e i mestieri in quelle città libere dove l’artigiano diventava senatore e il senatore artigiano in mezzo al flusso e riflusso delle invasioni. Le guerre e le fazioni, mali endemici allora di quel delizioso paese, ad onta dei guasti che provocavano non riuscirono a distruggere le corporazioni dei mestieri, dei quali l’esistenza politica, dacché i loro soci furono ammessi al governo, formava la base della costituzione di quei popoli industriosi e mercantili. Su questo sistema municipale e su questa giurisprudenza consolare, di cui hanno avuto sempre bisogno tanto il commercio quanto l’industria che ne è compagna, si ordinarono, prosperarono e fiorirono i mestieri a Barcellona, al punto da formare di questa capitale, nel basso Medioevo, uno dei centri più celebri delle manifatture, conservatosi fino ai nostri giorni con la stessa reputazione e con nuovi progressi. Sotto il nome e lo statuto delle corporazioni e delle comunità si avviarono i mestieri in Fiandra, Francia ed Inghilterra, paesi nei quali le arti sono arrivate al massimo grado di perfezione e di splendore.

«Le corporazioni dei mestieri a Barcellona, anche se non venissero considerate come un’istituzione necessaria per il funzionamento del governo municipale, dovrebbero però essere sempre ritenute un organismo della massima importanza sia per la conservazione delle arti che per la considerazione degli stessi artigiani. Innanzi tutto queste corporazioni, come dimostra l’esperienza ininterrotta di cinque secoli, a Barcellona hanno fatto un bene incalcolabile soltanto col conservare, come in un perpetuo deposito, l’amore, la tradizione e la memoria delle arti. Essi hanno formato altrettanti centri d’unione, diciamo così, sotto le cui bandiere si rifugiarono talvolta ciò che restava dell’industria per risanarsi, rigenerarsi e sostenersi fino ai nostri tempi, ad onta delle pesti, delle guerre, delle fazioni e di tante altre calamità funeste che fiaccano gli uomini, sovvertono gli orientamenti ed alterano i costumi. Se Barcellona, che ha sofferto tanti di questi flagelli fisici e politici, avesse avuto i suoi artefici dispersi qua e là, senza una comunità, senza vincoli e relazioni fra loro, tutta l’intelligenza, l’economia e l’attività sarebbero andate sicuramente disperse, come accade ai castori quando, inseguiti dai cacciatori, vengono da questi sparpagliati (d). Per un benefico effetto della sicurezza di cui godevano le famiglie nei loro distinti mestieri, e dell’aiuto (o del pio Monte), istituito dalle corporazioni stesse, che ricevevano gli individui

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bisognosi, corporazioni che se si disunissero andrebbero in rovina, queste istituzioni economiche contribuivano direttamente a mantenere fiorenti le arti, allontanando dalle officine la miseria e preservando gli artigiani dall’indigenza. Senza gli statuti della corporazione, che definivano ciascun mestiere ed assicuravano una condizione florida alla proprietà e alla professione degli artigiani, forse i mestieri avrebbero perduto il loro credito e la loro solidità; perché in tal caso il falsificatore, il guastamestieri e l’oscuro avventuriero avrebbero potuto impunemente ingannare i clienti, convertendo la libertà di cui godevano in un dannoso abuso. D’altronde queste corporazioni, avendo grandi forze, ed essendo ciascuna ben diretta dagli intenti e dagli interessi comuni, facevano con molto vantaggio ed a tempo opportuno le provviste delle materie prime, provvedevano ai bisogni delle maestranze e favorivano ed assicuravano quegli individui cui mancava il tempo o i mezzi per versare le caparre in denaro. Oltre a ciò codeste corporazioni, contenendo e rappresentando l’industria nazionale, ed avendo perciò tutto l’interesse a salvaguardarsi, inviavano i loro memoriali, secondo i tempi, al Consiglio municipale o alle Cortes, qualora avvertissero qualche sospetto, o prevedessero, come spesso succedeva, l’introduzione di generi falsificati o di manifattura straniera che potevano provocare la rovina dell’industria nazionale.

«Infine, senza una tale istituzione non sarebbe esistito un certo ordine ed una regola costante nell’insegnamento, perché dove non ci sono maestri riconosciuti e stabili non ci possono essere nemmeno apprendisti; e tutte le leggi sarebbero inutili o non rispettate se non vi fosse un potere esecutivo. Le corporazioni furono molto necessarie per salvaguardare le arti che per mezzo delle loro differenziazioni gestionali e produttive diedero in altri tempi origine e nome ai diversi mestieri che ora conosciamo in quella capitale. Quando il ferraio produceva nella sua officina vomeri, chiodi, chiavi, coltelli, spade ecc. non si conoscevano i nomi dei mestieri: calderaio, chiodaiolo, coltellinaio, spadaio ecc; e siccome non vi era una maestranza propria e specializzata in ciascuno di questi rami di attività la cui suddivisione ha formato in seguito altrettante arti sostenute dalle rispettive comunità, tali mestieri non erano conosciuti.

«Il secondo vantaggio politico prodotto dalle corporazioni dei mestieri a Barcellona è la stima ed il prestigio che la loro istituzione ha assicurato in ogni tempo agli artigiani ed alle arti stesse. La saggia istituzione di codeste comunità ha procurato un buon nome agli artigiani, formandone una classe distinta e stabile nella società. Così ne venne che il popolo barcellonese ha sempre manifestato in ogni epoca un carattere, un atteggiamento ed un tenore di vita confacenti ad un popolo onorato; e non avendo mai potuto confondersi con nessuna corporazione esclusiva, e privilegiarla (perché le corporazioni caratterizzano i loro associati, e fanno conoscer loro ciò che sono e ciò che valgono), giunse a persuadersi che per ognuna di esse, entro il rispettivo

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ambiente vi era onore e virtù, e così ha fatto in modo di conservarle tutte. Quanto è mai vero che le distinzioni degli stati sociali in una nazione influiscono più di quello che non si creda a rinsaldarne lo spirito!

«D’altra parte le corporazioni dei mestieri formavano delle comunità regolate dal loro statuto amministrativo, e ciascuna di esse aveva certi uffici e cariche a cui tutti i suoi membri potevano aspirare. E siccome anche le prevenzioni degli uomini, quando si sa dar loro un buon indirizzo, producono talvolta degli effetti meravigliosi, il governo e l’amministrazione di queste corporazioni (in cui l’artigiano ha goduto sempre del privilegio di regolare l’esercizio e gl’interessi del proprio mestiere) con il titolo di console o di reggente portò alle arti meccaniche di Barcellona una stima pubblica e universale. In questi uomini la preminenza, o presidenza, in una festa o in un’assemblea può benissimo temperare la durezza della fatica fisica e l’inferiorità della condizione.

«A Barcellona i mestieri, riuniti in corporazioni ben ordinate, avendo stabilite e salvaguardate le arti, procurarono anche, in quanto corpi politici della classe più numerosa del popolo, la massima stima ai loro membri. L’oscuro artigiano senza matricola e senza corporazione resta isolato e girovago. Quando muore insieme a lui muore anche l’arte; altre volte emigra ed abbandona il mestiere al primo rovescio di fortuna. Quale stima potranno mai meritare in qualunque paese mestieri miserabili e girovaghi? Quella di cui godono gli arrotini e i calderai nelle province spagnole! A Barcellona tutti i mestieri hanno goduto sempre della stessa stima generale perché tutti furono istituiti e regolati da un sistema fisso che ha reso gli artigiani stanziali, noti e benestanti.

«Dalla stima acquisita a Barcellona dai mestieri, fin da quando per mezzo degli statuti delle comunità divennero corporazioni nazionali e altrettanti organismi dell’economia nazionale, nacque la lodevole ed utile usanza di perpetuare il mestiere nella famiglia. Ora, avendo il popolo capito che nella sua classe poteva conservare la stima ed il rispetto dovuto ai cittadini operosi ed onorati, non aspirò mai ad uscirne, né ebbe mai vergogna della sua condizione. Quando i mestieri sono onorati, la qual cosa è una conseguenza della stabilità e virtù civile delle corporazioni, naturalmente diventano ereditari; e il vantaggio che deriva agli artigiani e alle stesse arti da questa trasmissione del mestiere, è tanto palese e tangibile che ci risparmia la fatica di specificarne i benéfici effetti. Da questa distinzione e classificazione dei mestieri è risultato che molte arti divenissero altrettante specializzazioni fisse per coloro che si misero in quel ramo. Da qui nacque la propensione nei padri di trasmettere il mestiere ai figli, formando così un ramo stabile dell’industria nazionale che rendeva il lavoro dignitoso e che stabiliva costumi solidi ed omogenei, per così dire, nel popolo artigiano.

«Quello però che a Barcellona contribuì maggiormente a dare alle arti meccaniche non solo il prestigio, che generalmente non hanno ottenuto nel

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resto della Spagna, ma anche l’onore di cui godettero come in nessun’altra repubblica antica o moderna, fu l’ammissione delle corporazioni alla matricola degl’impieghi municipali di una città, ciò che le ricolmò di privilegi e di particolari prerogative d’indipendenza al punto tale che la nobiltà, quella nobiltà gotica dotata di grande influenza, volle essere incorporata con gli artigiani nella giunta municipale per le cariche ed i supremi onori del governo politico, il quale a Barcellona per più di cinquecento anni continuò sotto una forma e con uno spirito veramente democratico (e).

«Tutti i settori delle arti meccaniche, senza odiose distinzioni ed esclusioni, erano considerati degni di far parte del Consiglio concistoriale dei magistrati; tutti ebbero voce e voto tra i padri coscritti che rappresentavano la città forse più privilegiata del mondo, e comunque una tra le più rispettate che nel basso Medioevo si conoscesse tra i vari Stati e potentati d’Europa, Asia ed Africa (f).

«Questo sistema politico e questa forma municipale di governo erano simili a quelli con cui si reggevano nel Medioevo le principali città d’Italia, dalle quali la Catalogna acquisì molti usi e consuetudini. A Genova, Pisa, Milano, Pavia, Firenze, Siena ed altre città, di cui il governo municipale era composto dai capi del commercio e delle arti chiamati consules, consiliarii, priores artium, ecc., fu creata questa forma popolare di governo elettivo distribuito tra le varie classi dei cittadini fra i quali gli artigiani, che nei secoli tredicesimo e quattordicesimo erano molto agiati e costituivano la parte più importante della popolazione, e quindi la più ricca, la più potente e indipendente. Questa libertà democratica che distingueva l’industria in Italia, procurò anche una stima particolare per le arti meccaniche. Il gran Consiglio di quelle città si convocava al suono della campana, e il popolo artigiano si divideva in bandiere o gonfaloni dei rispettivi mestieri. Tale fu anche la costituzione politica di Barcellona dalla metà del tredicesimo secolo fino all’inizio del presente.

«Considerato tutto ciò, quale meraviglia che le arti e gli artigiani conservino ancora ai nostri giorni una stima ed un prestigio immutato; e che l’amore per le arti meccaniche sia divenuto ereditario? E infine che il decoro e la buona opinione siano stati trasmessi di padre in figlio fino alle ultime generazioni, le quali perpetuano così i costumi dei loro padri anche se non sussistono più i motivi politici che ne diedero la prima spinta? Molte corporazioni conservano ancora nelle sale delle loro adunanze i ritratti di quei personaggi che nei tempi passati ottennero i primi incarichi dalla comunità. Questa lodevole consuetudine, può non avere scolpito nella memoria dei membri dell’associazione le idee di onore e di stima conformi alla condizione di un artigiano? Non c’è dubbio che la forma popolare dell’antico governo dei Barcellonesi dovette dare fin dall’inizio un certo impulso e un indirizzo generale ai costumi pubblici; perché dove tutti i cittadini hanno gli stessi diritti nel partecipare agli onori, come giusta conseguenza accade che nessuno

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voglia essere inferiore ad un altro nella virtù e nel merito, anche se lo sia per la posizione sociale e per la fama. Da questa nobile emulazione, che in modo naturale doveva rifulgere e propagarsi nell’ambito di tutti gli ordini dello stato, derivarono il decoro, il portamento e l’onorabilità degli artigiani barcellonesi, che dura tuttora con ammirazione universale dentro e fuori la Spagna. A causa dell’indolenza dei nostri scrittori nazionali questa esposizione sembrerà una cosa nuova, perché fino adesso le vicende di questa città e principato non hanno avuto l’onore di essere considerate dalla storia politica, soltanto la quale con i suoi lumi può chiarire e spiegare i veri motivi (sempre ignorati dalla maggioranza della gente) che hanno prodotto in ogni tempo le virtù e i vizi delle nazioni.

«A questi e ad altri motivi si può attribuire in gran parte la stima nei confronti degli artigiani, dovuta all’obbligo di mostrare una condotta onorata e decorosa nei loro impieghi pubblici, tanto della loro corporazione quanto del governo municipale. Inoltre l’esempio continuo della casa dei maestri, che finora hanno vissuto in lodevole comunità con i loro discepoli, ha confermato i giovanetti nelle idee di decoro e di ordine; perché i costumi, che hanno una forza pari alle leggi, devono inculcarsi fin dalla più tenera età. Quindi il vestire sudicio e cencioso non ha potuto mai confondere gli artigiani con gli accattoni dei quali, come dice un illustre autore, è tanto facile contrarre i costumi licenziosi e sfaccendati quando l’abito dell’uomo onorato non si distingue da quello della canaglia; come anche non si è mai vista nella classe degli artigiani quella moda di vestire imbarazzante che, nascondendo gli stracci e coprendo la pigrizia, impedisce i movimenti e l’agilità del corpo, e induce ad una comoda indolenza. E neanche si è visto l’uso di frequentare le taverne dove si fa abbastanza presto a passare all’ubriachezza ed alla sregolatezza dei costumi. Gli svaghi, senz’altro necessari alla classe degli artigiani per rendere loro tollerabile il lavoro quotidiano, furono sempre innocenti passatempi per farli distrarre dalle fatiche, o per variarle. I giochi permessi erano l’anello, gli aliossi, le palline, la palla, il tiro al bersaglio, la scherma e il ballo (quando permesso dalla corporazione e sotto la sua vigilanza), il quale da tempo immemorabile è stato il diversivo generale dei popoli della Catalogna in certe stagioni ed in certe feste dell’anno.

«Ogni campo in cui l’artigiano svolgeva il suo mestiere: argento, acciaio, ferro, rame, legno, lana ecc., non ha mai recato svantaggio alla sua stima; perché abbiamo visto che tutti i mestieri aprivano ugualmente la strada agl’incarichi municipali senza escludere neanche quello dei macellai. Gli antichi Barcellonesi non caddero mai nell’errore politico di suscitare preferenze che potessero originare rivalità tra i mestieri. Essi erano convinti che tutti i cittadini fossero ugualmente degni di stima per se stessi, perché tutti concorrevano ad alimentare e mantenere la prosperità di una città ricca e potente grazie all’opera dell’artigiano e del commerciante. Infatti contro nessuna delle arti meccaniche c’è mai stata l’idea di viltà o d’infamia; idea

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purtroppo generalizzata nelle altre province della Spagna dove ha portato un grave pregiudizio al progresso delle arti. E non si conosceva neanche l’errore di non ammettere in certe corporazioni coloro che avessero esercitato altri mestieri, perché qui hanno sempre goduto tutti della stesa stima. In una parola, a Barcellona come in nessun’altra città della Catalogna, non hanno mai preso piede né questi né altri errori comuni che potessero scoraggiare la gente onorata dall’applicarsi alle arti, o i figli dal continuare quelle che i loro padri avevano esercitate (g)».

(10) – Nel testo ho fatto riferimento ai molti Concili che in altri tempi si celebrarono nella Chiesa; perché dunque, mi si chiederà, adesso non si celebrano con la stessa frequenza? A questo risponderò col seguente giudizioso passo del conte de Maistre nell’opera Del Papa, lib. I cap. 2.

«Nei primi secoli del Cristianesimo era molto più facile riunire i Concili

perché la Chiesa era compresa in confini meno estesi, e l’unità dei poteri riuniti nella persona dell’imperatore permetteva di radunare un numero di Vescovi sufficiente per imporre subito una certa considerazione, e non avere poi bisogno che del consenso degli altri. E nonostante ciò, quante pene e quanti imbarazzi per radunarli!

«Ma nei tempi moderni, da quando il mondo civile si trova, per così dire, diviso in tante sovranità, e si è inoltre ingrandito immensamente grazie ai nostri intrepidi navigatori, un Concilio ecumenico è divenuto quasi una chimera (h); poiché soltanto per convocare tutti i Vescovi, e poi per farne stabilire legalmente la convocazione, occorrerebbero non meno di cinque o sei anni». (11) – Prego i miei lettori, per convincersi della verità e dell’esattezza di quanto affermo nel testo, di leggere la storia delle eresie che hanno afflitta la Chiesa fin dai primi secoli, e in modo particolare dal decimo secolo fino al nostro.

(12) – Per convincersi che escludere dalla politica l’influenza del clero fu un gran danno per la libertà dei popoli basti osservare che una buona parte dei teologi propendevano per dottrine abbastanza permissive in materia politica, e che furono gli ecclesiastici quelli che con maggior libertà continuarono a parlare ai re anche dopo che i rappresentanti del popolo ebbero già perduto quasi del tutto l’influenza nei pubblici affari. Ecco quali erano le opinioni di S. Tommaso sulle forme di governo:

«Questione 105. 1-2. «Motivi dei precetti giudiziali riguardanti le autorità, art. 1.

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«Riguardo al buon ordinamento dei governanti, in una città o in una nazione, si devono tener presenti due cose. La prima di esse è che tutti in qualche modo partecipino al governo: così infatti si conserva la pace nel popolo, e tutti si sentono impegnati ad amare e a difendere codesto ordinamento, come nota Aristotele. La seconda deriva dalla particolare specie di regime, o di governo. Come insegna il Filosofo, esistono diverse specie di governo; ma le migliori sono: la monarchia, in cui si ha il dominio di uno solo, onestamente esercitato; e l’aristocrazia, cioè il dominio degli ottimati, in cui si ha l’onesto governo di pochi. Perciò il miglior ordinamento di governo si trova in quella città o in quel regno, in cui uno solo presiede su tutti nell’onestà; mentre sotto di lui presiedono altri uomini eminenti nella virtù; e tuttavia il governo impegna tutti, sia perché tutti possono essere eletti, sia perché tutti possono eleggere. E questa è la migliore forma di governo politico, perché in essa si integrano la monarchia, in quanto c’è la presidenza di un solo; l’aristocrazia, in quanto molti uomini eminenti in virtù vi comandano; e la democrazia, cioè il potere popolare, in quanto tra il popolo stesso si possono eleggere i prìncipi, e al popolo spetta la loro elezione. E questo fu il regime istituito dalla legge divina. Infatti Mosè e i suoi successori governavano il popolo quasi presiedendo da soli su tutti, il che equivale a una specie di monarchia. Però venivano eletti, secondo il merito della virtù, settantadue anziani: “Io ho preso di fra le vostre tribù uomini saggi e nobili, e li ho costituiti vostri prìncipi”. E questo era proprio di un regime aristocratico. Apparteneva invece a un regime democratico il fatto che venivano scelti di mezzo a tutto il popolo; poiché sta scritto: “Eleggi di fra tutta la gente uomini saggi, ecc.”; e il fatto che li eleggeva il popolo: “Prendete di fra voi degli uomini saggi, ecc.”. Perciò è evidente che l’ordinamento riguardo ai prìncipi, istituito dalla legge, era il migliore».

(Consultare anche di S. Tommaso: 1-2 q. 90 art. 3-4; q. 95 art. 1-4). Se si dovesse credere a certi contestatori, sembrerebbe una scoperta molto

recente il principio che deve essere la legge a governare, e non la volontà dell’uomo; e allora si veda con quale solidità e chiarezza questa dottrina viene esposta dall’Angelico (1-2. quaest. 95. art. I):

(Omissis). In Spagna i procuratori delle Cortes non ardivano alzare la voce contro gli

eccessi del potere, e meritavano per la loro debolezza i severi rimproveri del P. Mariana.

Nell’interrogatorio al quale fu sottoposto nella celebre causa intentata contro di lui per i Sette Trattati, ammise di aver chiamati i procuratori delle Cortes uomini vili, frivoli e venali, che non si curavano che dei favori del principe e dei loro particolari interessi senza badare al bene pubblico; ed

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aggiunse che questa era la pubblica nomea, e questo il lamento di tutti, almeno a Toledo dove egli risiedeva.

Lascerò da parte l’opera intitolata De rege et regis institutione avendone parlato in un’altra opera. Limitandomi alla Storia di Spagna, farò notare la libertà con cui P. Mariana si esprimeva sui punti più delicati senza che il governo civile e l’autorità ecclesiastica vi si opponessero, Nel lib. I, cap. 4, parlando degli Aragonesi con quel tono grave e severo che lo distingue, dice:

«Gli Aragonesi hanno e fanno uso di leggi e statuti molto diversi da quelli

degli altri popoli di Spagna, costumi che sono molto appropriati per conservare la libertà contro l’eccessivo potere del re in modo che per la sua stessa forza non degeneri e non si muti in tirannia, e affinché abbia sempre presente che dalle piccole cose s’incomincia a perdere il diritto della libertà, come infatti accade».

Proprio in quella stessa epoca gli ecclesiastici parlavano con la massima

libertà sulla materia più delicata, quale è quella delle contribuzioni. Il venerabile Palafox, nel suo memoriale al re per l’immunità ecclesiastica, diceva:

«Quando il Figlio di Dio affermò con la sua stessa bocca, secondo il

giudizio di Sant’Agostino, del grande Abulense e di altri seri autori, che i figli di Dio, che sono i ministri della Chiesa ed i suoi sacerdoti, non dovevano pagare i tributi ai prìncipi delle genti, domandò a San Pietro ciò che già Egli sapeva, essendo l’Eterna Sapienza del Padre, dicendo: Reges gentiun, a quibus accipiunt tributum; a filiis, an ab alienis? E rispose San Pietro: ab alienis. E il Signore concluse con queste parole: ergo liberi sunt filii. Qui si può, o Signore, fare un’osservazione sottile: che Gesù Cristo non disse Reges gentium a quibus capium tributum [I re delle genti a chi carpiscono il tributo], ma a quibus accipiunt tributum [da chi ricevono il tributo], manifestando con la parola accipiunt la mansuetudine e la dolcezza che conviene avere nel ricevere i tributi dai sudditi, affinché si stemperi e si addolcisca l’amarezza e il dolore che derivano dal dover pagare gli stessi tributi.

«46 - Infatti non c’è dubbio che sia cosa utilissima per il mantenimento dello Stato, che i sudditi debbano essere i primi a dare affinché poi i prìncipi ricevano. È giusto che i re accettino ed usufruiscano, poiché consiste in questo la conservazione della corona; ma è bene che siano gli stessi sudditi ad averlo offerto volontariamente fin dall’inizio. Da questo principio, e da ciò che uscì dalla bocca dell’Eterno Verbo, la corona cattolica, sempre piissima in tutto, ha ricevuto sicuramente questa santa dottrina, non permettendo Vostra Maestà, né i suoi serenissimi predecessori, che si levi mai un tributo se non col consenso, col voto e con l’offerta dei suoi stessi sudditi, essendo la Maestà

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Vostra senza paragone più grande quando limita e tempera il suo potere reale, che dispiegandolo in tutta la sua forza.

«47 - Dunque, o Signore, se i laici, che non hanno alcuna esenzione in materia di tributi, godono però di quella che viene loro accordata dalla pietà e clemenza di Vostra Maestà e dei re cattolicissimi, e non pagano che dopo aver dato la parola, e non si riceve da loro se prima non hanno offerto; è possibile che la religione e pietà illuminata di Vostra Maestà, e il grande zelo del suo Consiglio possano permettere che gli ecclesiastici, figli e ministri di Dio, privilegiati ed esenti per ogni diritto divino e umano in tutte le nazioni del mondo, ed anche tra gli stessi pagani, siano qui in una peggiore condizione degli estranei, i quali non sono come questi ministri della Chiesa e sacerdoti di Dio? Che per i ministri di Dio, o Signore, ha da essere il capiunt, e l’accipiunt per quelli del mondo?».

E nella sua Storia reale sacra si esprime col tono più severo contro la

tirannia: «Questo è il diritto che il re voluto da voi manterrà su di voi. Questo che

chiama diritto è in senso ironico, come se dicesse: Questo re che chiedete governerà con diritto, e lo chiedete proprio per questo: perché vi lamentate che la mia giustizia non vi governa secondo il diritto; e il diritto che manterrà questo re è quello di non mantenere alcun diritto, e il suo diritto non sarà altro che una rispettata tirannia. Sarebbe un barbaro, o indegno di esser considerato un essere ragionevole quel politico che, fondando il suo parere su questo passo delle Scritture, volesse dare ai re per diritto il potere che Dio manifesta al popolo per castigo. Qui il Signore non definisce ciò che è meglio, non dice ciò che dà, e non lo qualifica; ma riferisce soltanto ciò che sarebbe successo, e lo disapprova. Chi mai può fondare l’origine della tirannia sulla stessa giustizia? Dio dice che quello che essi vogliono avere per re sarà un tiranno, non un tiranno approvato dal Signore, ma bensì riprovato e castigato: e questo si verificò puntualmente nel corso dei tempi, perché in Israele vi furono dei re malvagi con i quali la profezia ebbe la sua attuazione, e ve ne furono dei santi nei quali si manifestò la sua misericordia. I cattivi si attirarono letteralmente la minaccia divina col fare ciò che era proibito, e i buoni per la loro dignità presero quanto era giusto e conveniente nei modi leciti».

Il P. Marquez nel suo Governatore cristiano esamina anch’egli

ampiamente la stessa questione, e presenta con semplicità le sue opinioni, sia esponendo la teoria che la pratica.

Capitolo 16, 53

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«Fin qui è quanto dice Filone, che scrisse in occasione di questo avvenimento; e siccome mi ha dato l’occasione di ragionare sull’obbligo che hanno i re cristiani riguardo a questo, ho voluto riportarlo estesamente. Io non andrò ad esortarli che si comportino come Mosè; perché non hanno gli aiuti straordinari che egli ebbe per aiutare il suo popolo, né la verga che Dio gli diede per tirar fuori l’acqua dalla pietra in caso di necessità. Potrò però ammonirli che facciano bene attenzione ai nuovi contributi che esigono dai loro sudditi e ai nuovi pesi che impongono loro; e che si ritengano obbligati a giustificarne anticipatamente il motivo in piena verità e non sotto false scuse, tenendo sempre presente che vivono al cospetto di Dio il quale guarda sempre le loro mani, e chiederà debito conto di quanto fecero. Perché (come diceva il Nazianzeno) il Figlio di Dio a bella posta nacque in tempo di bandi e di tributi: per confondere i re che li imponevano a capriccio, e per dar loro ad intendere che alla prima occhiata lo vedranno che sta esaminando fino all’ultimo spicciolo e pesando severamente qualunque minima cosa di cui da noi non si fa alcun conto.

«E con questo condanniamo la falsa convinzione di certi adulatori i quali, per accattivarsi il favore dei prìncipi, dicono che possono fare ciò che vogliono e che sono padroni delle sostanze e delle persone dei loro sudditi, potendosene servirsi a loro piacere. E per sostenere questa loro tesi, si avvalgono (come ho già detto) della storia di Samuele, il quale rispose al popolo di Dio che gli chiedeva un re: Se lo volete l’avrete, ma con terribili condizioni; perché vi porterà via i campi, le vigne, gli oliveti per darli in dono ai suoi servi; avrà per schiave le vostre figlie occupandole a fare il pane per la regia mensa ed a comporre profumi e conserve per i suoi piaceri. E non si è fatto attenzione al fatto che questa interpretazione, come dice Giovanni Bodino, è di Filippo Melantone, la qual cosa dovrebbe bastare per far destare il sospetto. E non si è neanche badato che, come dice San Gregorio, e dopo di lui la cosa è stata considerata anche dai dottori, qui non fu stabilito il giusto diritto del re, ma piuttosto fu annunciata la futura tirannia da parte di molti; e non fu detto ciò che i buoni re debbano fare, ma quello che sono portati a fare i cattivi. Così per essersi il re Acab impossessato della vigna di Nabot, Dio si adirò contro di lui e lo trattò nel modo che già sappiamo; mentre il re David, l’eletto di Dio, chiedendo al Gebuseo il terreno per edificare l’altare, non lo volle prendere se non a condizione di pagarne il valore.

«Per cui i prìncipi devono esaminare con grande attenzione l’equità delle nuove contribuzioni, perché quando cessano quelle pattuite, secondo l’opinione dei dottori sarebbe un furto manifesto aggravare i sudditi con nuovi tributi. Questa verità è tanto certa e tanto cattolica, che anche parlando dei tributi necessari uomini di sana dottrina affermano che il principe non potrebbe imporli di nuovo senza il consenso del popolo. Perché, dicono essi, non essendo il principe (come non lo è realmente) padrone delle sostanze, non potrà servirsene senza il volere di quelli che devono dargliele. E questa

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consuetudine è in vigore da molto tempo nel regno di Castiglia dove a norma di legge non si dispongono nuove imposizioni senza il preventivo intervento delle Cortes; e anche dopo che queste hanno deliberato, si manda l’avviso per le città, e finché la maggior parte di esse non sia favorevole il principe non ha la garanzia di ottenere ciò che chiede. In Inghilterra Edoardo I promulgò la stessa legge come riferiscono autori informati; ed anche in Francia, scrive Filippo di Comines, anticamente si faceva altrettanto fino al re Carlo VII il quale, costretto dalla necessità, ordinò la riscossione di una certa taglia senza aspettare la volontà degli stati; la qual cosa aprì in Francia una piaga profonda che continuerà a sanguinare per molto tempo. E c’è chi attribuisce a questo autore l’affermazione che in quella occasione fu detto pubblicamente che il re era uscito dalla tutela del regno; ma che egli però era dell’opinione che senza il consenso degli stati i re non possono imporre neanche un soldo di contributo, e che chi facesse il contrario incorrerebbe nella scomunica. Questo dovrebbe essere riportato nella bolla In coena Domini; ma io non sono riuscito a trovarlo.

«E considerando questo secondo punto, non c’è dubbio che il principe non potrà mai di sua autorità imporre un nuovo tributo contro la volontà del popolo quando per una valida ragione il popolo abbia acquisito un diritto che gli si opponga, come io credo sia avvenuto per quello di Castiglia. Infatti nessuno nega che i regni possano eleggere i prìncipi con questa condizione fin da principio, oppure prestar loro sussidi tali da ottenere in compenso la promessa di non imporre nuovi pesi senza il loro consenso. Ora nell’uno e nell’altro caso sarà stato fatto una specie di contratto che i re non possono esimersi dall’obbligo di osservare senza che non nasca il dubbio, come credono alcuni, se i sovrani siano entrati in possesso del regno per l’elezione da parte dei sudditi o con la forza delle armi. Per cui, sebbene sia più verosimile che uno Stato che si dà al principe di propria volontà avrà maggiori privilegi e condizioni migliori di quello di cui il principe sia entrato in possesso in seguito ad una guerra giusta, tuttavia non sarebbe impossibile che uno Stato nello scegliersi un re gli trasferisca tutto il suo potere in un modo assoluto e senza restrizione alcuna per obbligarlo maggiormente con la dimostrazione del suo affetto; come anche che il re che abbia sottomesso un altro regno con le armi in pugno, gli voglia concedere spontaneamente questa franchigia per propiziarsene l’affetto e renderne l’ubbidienza meno amara. La regola certa di questo diritto particolare sarà dunque il contratto che virtualmente o espressamente sarà stipulato tra il principe e lo Stato: il quale contratto deve essere inviolabile, soprattutto se sancito dalla santità del giuramento.

Il Governatore cristiano, lib. 2, cap. 39, § 2 «Coloro che affermano che i prìncipi possono ordinare ai sudditi di dare a

minor prezzo ed anche gratuitamente una parte dei loro beni, fondano questa

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norma sulla seguente legge: se una nave che trasporta molte mercanzie viene investita da una gran tempesta che costringe a gettarne una parte in mare, i padroni dell’altra parte che è rimasta in salvo sono in obbligo di dare pro rata a quelli che hanno subìto le perdite il compenso di quanto perdettero. Da qui Bartolo ed altri giureconsulti hanno dedotto che in tempi di necessità e carestia il principe può ordinare che i sudditi diano anche gratuitamente, o a maggior ragione a minor prezzo, una parte dei loro averi a quelli che ne hanno bisogno. E dicono che indubbiamente il principe potrebbe dichiararli beni comuni, come lo erano prima che nascesse il diritto delle genti, e di conseguenza toglierli ad un suddito per darli ad un altro.

«È certo che nelle leggi dei re d’Israele si dice che il re scelto da Dio avrebbe tolte le vigne e i beni dei suoi sudditi per farne un regalo ai suoi servitori. Ma di questo testo non si valgono i dottori, perché come dicemmo nel cap, 16 del lib. I, non vi si parla dei diritti dei re buoni, ma della tirannia dei cattivi. Se però si considera bene la Sacra Scrittura, è impossibile che non sia in favore dell’una o dell’altra parte; perché se si volle stabilire che i re avrebbero avuto in coscienza tutta l’autorità di cui qui si parla, è certo che la ebbero anche per confiscare i beni ad un suddito e darli ad un altro. Se invece s’intese far conoscere le violenze, le estorsioni, le tirannie dei cattivi prìncipi, non è meno certo che essa condanna il fatto di cui si parla, poiché lo presenta come esempio di ciò che avrebbero fatto i tiranni. Ora, se fosse cosa permessa ai re buoni, non potrebbe essere considerato un esempio di tirannia, come invece esige la Scrittura.

«E allora, da questo solo testo, qualora non ve ne fossero altri in favore di questa dottrina, io sono del parere che i re non possono comandare ai loro sudditi di dare i loro beni per meno di quello che valgono, neanche sotto il pretesto del pubblico bene. Perché, se questo fosse vero, non sarebbe stato difficile ai re d’Israele di servirsene per giustificare la loro tirannia, col pretesto che premiare coloro che li servivano con fedeltà, con tanto vantaggio per il regno, riguardava il pubblico bene. Ed anche il re Acab avrebbe potuto dire che al pubblico bene spettavano le ricreazioni del principe, per la salute del quale hanno tanta premura i popoli, ed avere così un pretesto per togliere la vigna a Nabot ed unirla ai giardini reali. E vediamo invece che di questo pretesto non si servì neanche per obbligare Nabot a vendergliela, e il re stesso non si ritenne colpito dal rifiuto, sebbene lo sentisse vivamente, e non si sarebbe indotto ad impossessarsi della vigna se l’empia Gezabele non gli avesse procurato i mezzi per farlo.

«E il motivo che rende valida questa opinione è chiarissimo; perché i re sono ministri della giustizia, e l’origine della loro elezione è la necessità che hanno i popoli di essere amministrati e difesi; e come insegna San Tommaso non può essere equo un contratto di compravendita se il prezzo non ha lo stesso valore della cosa comprata. È vero che il pubblico bene si deve preferire a quello privato; e se lo stato stesse andando in totale rovina, nel caso

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che un cittadino non desse i suoi beni il principe potrebbe comandare che glieli si requisiscano ad un prezzo minore ed anche gratuitamente, allo stesso modo che lo può obbligare ad esporre la vita, che vale molto più dei beni, per difendere la causa comune in una guerra giusta. Questo caso però, come dice il P. Molina, è impossibile, poiché il principe potrebbe sempre compensare il danno particolare ripartendone il valore in una contribuzione generale, la quale sarebbe giusta e il popolo sarebbe obbligato ad accettarla. E per mostrarlo con maggior chiarezza, immaginiamo il caso più urgente che possa mai capitare, e poniamo che un tiranno tenga assediato un re nel suo palazzo, e sta per entrarvi e metter tutto a ferro e fuoco, offrendosi però di levare l’assedio e ritirarsi purché gli si dia una statua d’oro di gran valore, che fu già degli antenati dello stesso tiranno e venne portata via in un saccheggio da un suddito del re assediato, che era capitano generale dello stesso re, e la tiene vincolata in una primogenitura della sua famiglia. O, per stringere ancor di più, supponiamo che questo tiranno abbia al servizio del re assediato un parente a cui tiene molto, e che si accontenti che si requisiscano tutti i beni ad un signore del regno che possiede molti e vari dominî, e che tutto passi in possesso di quel parente affinché ne divenga il nuovo signore.

«Nessuno dubiterà che per riscattare la vita di tutti si potrà accettare il patto, e che in questo caso il principe potrà fare quanto gli è stato richiesto, e quindi requisire la statua, ed anche tutto il patrimonio di quel signore per darlo al parente del tiranno. Ma nessuno dirà neanche che il signore spogliato di tutti i suoi beni debba egli solo risentirne di tutta la perdita; poiché allo Stato resterebbe sempre l’obbligo di risarcirlo del danno, e il compito di mettere insieme mediante una contribuzione il valore della perdita, comprendendovi per la sua rata quel signore al quale dovrà effettuarsi la restituzione. Il motivo consiste nel fatto che è contrario alla legge naturale che un membro soltanto porti sulle spalle il peso di tutto il corpo, e questo è appunto il caso della legge proposta dai nostri avversari. In caso di naufragio tutte le mercanzie che stanno sulla nave vanno incontro all’inconveniente di essere gettate in mare per alleggerire il peso e salvare la sorte e la vita di tutti. Ed essendo comune la difficoltà non è giusto che subiscano il danno soltanto i padroni delle mercanzie che si trovano più a portata di mano, o caricano maggiormente col loro peso l’imbarcazione; dovranno subirlo tutti indistintamente, compresi quelli che non portano cose di valore come gioie e diamanti, perché neanche questi, e neanche la stessa nave, si potrebbero salvare senza che sia alleggerita del peso delle mercanzie gettate in mare.

«Ed inoltre la legge dice che anche il padrone della nave ha l’obbligo di pagare la sua rata, non perché sia tenuto a soccorrere i proprietari delle mercanzie perdute perché li vede nel bisogno, potendo ritenersi che siano persone ricche, ed anche se la loro miseria sia al momento estrema rimarrebbero sempre vincolati a restituire poi quanto venga loro adesso prestato; perché, dicono i dottori, non c’è alcun obbligo di fare donazioni al

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ricco che si trovi in estrema necessità, potendolo aiutare già abbastanza col fargli un prestito. Ma l’obbligo del padrone della nave, si dice invece, è fondato sul fatto che avendo tutti l’interesse di salvare la vita e gli averi, il pericolo e la perdita delle cose gettate in mare deve essere messo in conto a tutti, e non solo a quelli che erano padroni delle cose gettate in mare. E che questa sia l’interpretazione giusta si potrà dedurre dal sommario di quel titolo e nelle parole della stessa legge, che sono queste: Eo quod id tributum servatae merces deberent.

«Al di fuori però da questo caso, o di un altro della stessa urgenza, non dovendo lo stato correre alcun pericolo, se una cosa non passa dalle mani di un padrone a quelle di un altro il principe non potrebbe obbligare il proprietario della stessa a darla per meno di quel che vale, e ancora meno poi regalarla; perché considerando le stesse persone e i beni di un regno, poco importa alla comunità, presa collettivamente, che questi siano ricchi e quelli poveri o viceversa, perché nessuno nella comunità ha una condizione fissa e stabile da cui non possa salire o scendere. E queste variazioni che accadono in ogni momento tra i membri passando i beni da una mano all’altra, perdendo una e guadagnando l’altra, sono inevitabili nelle società per la poca stabilità delle cose temporali, ed in questo il bene pubblico non ci guadagna né ci perde».

(13) - Alcuni credono, quando si parla della perdita della libertà in Spagna, che sia facile ridurre la questione ad un solo aspetto, come se il regno avesse sempre avuto quell’unità che non ebbe fino al diciottesimo secolo, ed anche allora in maniera molto imperfetta. Basti leggere la storia, ed in particolare i codici delle diverse province che hanno formata la monarchia, per essere convinti che il potere centrale si andò creando e fortificando molto lentamente, e che quando l’opera era già quasi compiuta in Castiglia restava però ancora molto da fare in Aragona e in Catalogna. Le nostre Costituzioni, i nostri usi e costumi del diciassettesimo secolo sono una prova evidente che la monarchia di Filippo II, tal quale ce la figuriamo forte e irresistibile, non si era ancora stabilita nel regno di Aragona. Mi asterrò dal produrre documenti e rammentare fatti che tutti sanno, per non accrescere senza che ce ne sia bisogno la mole dell’opera. (14) – È nota l’opera immortale del conte de Maistre sul potere dei Papi, e tutti sanno come egli abbia affrontato con successo, demolendole, le calunnie dei nemici della Sede Apostolica. Ma fra le tante e profonde osservazioni dell’autore su questo particolare merita tutta la nostra attenzione quella che riguarda la moderazione dei Papi riguardo all’estensione dei loro dominî, in cui fa risaltare la differenza che passa tra la corte di Roma e quella degli altri sovrani europei.

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«È cosa di grande rilevanza, ma che mai o ben poche volte è stata notata, che i Papi non si sono mai serviti dell’immenso potere che avevano per ingrandire i loro Stati. Quale cosa, per esempio, sarebbe stata più naturale e incline alla natura umana, quanto il tenere per sé alcune delle province conquistate sui Saraceni, che i Papi invece concedevano al primo occupante al fine di respingere la Mezzaluna che non cessava d’ingrandirsi e di avanzare? Eppure non lo fecero mai neanche per quelle terre che erano vicine ai loro Stati, come il Regno delle due Sicilie, sul quale avevano dei diritti incontestabili, almeno secondo l’idea di allora, e per cui si accontentarono di un dominio eminente simbolico, che finì ben presto con la famosa chinea che ora non si presenta neanche più.

«Per concludere: i Papi hanno potuto far valere in quei tempi quel dominio eminente, o feudalità universale, alla quale un’opinione ugualmente universale non negava loro. Hanno potuto esigere omaggi, imporre contributi, anche arbitrariamente se così si vuole dire, e qui non abbiamo il minimo interesse di esaminare questi punti. Ma sarà sempre certo che i Papi non hanno mai cercato, né mai hanno approfittato, dell’occasione per ingrandire i loro Stati a danno della giustizia. Quando invece nessun’altra sovranità temporale imitò questo buon esempio; ed oggi stesso, con tutta la nostra filosofia, la nostra civiltà e i nostri bei libri, non c’è forse una potenza in Europa che possa giustificare i propri possessi di fronte a Dio ed alla ragione» (Lib. 2. cap. 6).

(15) – Ecco alcuni passi degni di nota, in cui sant’Anselmo espone i motivi che l’inducevano a scrivere, e il metodo che intendeva tenere nei suoi scritti.

Prefatio beati Anselmi Episcopi Cantuariensis in Monologium. (Omissis). In quanto a ciò che ho detto riguardo alla dimostrazione dell’esistenza di

Dio, cioè che sant’Anselmo aveva preceduto Cartesio, si leggano i seguenti passi, benché con questo non intenda manifestare la mia opinione sul merito della dimostrazione. Qui si tratta solo di osservare il cammino dello spirito umano e non di sciogliere questioni filosofiche.

Prosologium D. Anselmi, cap. III Quod Deus non possit cogitari non esse (Omissis). Dai passi che ho inserito, i lettori avranno potuto convincersi che nella

Chiesa cattolica il pensiero non era oppresso, che i più illustri dottori discorrevano sulle più alte materie con giusta e ragionevole indipendenza di pensiero, e che sebbene venerassero profondamente l’insegnamento cattolico non lasciavano di muoversi quanto e meglio di Abelardo nelle regioni della

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vera filosofia. Io non riesco a capire cosa si possa esigere dall’intelletto umano di quei tempi più di quanto troviamo in Sant’Anselmo. E allora come mai vengono profusi tanti elogi a Roscellino e ad Abelardo, e non si nomina mai il santo Dottore? Perché lasciare così incompiuto il quadro del movimento intellettuale non includendovi una figura di portata cosi enorme e di tanta magnificenza?

Per mostrare quanto sia falso che Abelardo non attaccasse, come pretende il Sig. Guizot, le dottrine della Chiesa, e in quale equivoco modo lo stesso Abelardo riferisse le cause che misero in moto lo zelo dei Pastori, inseriamo qui la lettera dei Vescovi delle Gallie a Papa Innocenzo, la quale contiene una completa narrazione dell’origine e dello sviluppo di un così grave fatto.

EPISTOLA CCCLXX Reverendissimo Patri et Domino, INNOCENTIO Dei gratia summo

Pontifici Henricus Senonensium Archiepiscopus, Camotensis Episcopus, Sanctae Sedis Apostolicae famulus, Aurelianensis, Antisiodorensis, Trecensis, Meldensis Episcopi, devotas orationes el debitam obedientiam.

(Omissis). Ecco come spiega S. Bernardo il metodo e gli errori del famoso Abelardo;

si vedano il capo primo e il capo quarto del trattato che scrisse, avente per titolo De erroribus Petri Abailardi:

(Omissis). Il Papa Innocenzo, condannando le dottrine di Abelardo, dice: In Petri

Abailardi Perniciosa doctrina, et praedictorum haereses, et alia perversa dogmata catholicae fidei obviantia pullulare coeperunt.

Fine del secondo ed ultimo volume

______________________________ Note alle note

(a) - Tributo che si pagava per la festa di S. Martino. (b) - Tributo per mantenere le armate e i fossati dei castelli della Castiglia. (c) - A dimostrazione della difficoltà di rintracciare l’origine delle corporazioni di arti e mestieri anche nelle città più antiche e meglio organizzate, nella sua Storia civile di Venezia Sandi,che aveva visitato tutti gli archivi della repubblica, nel tomo 2, part. 1, pag. 767, dopo aver elencato

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sessantuno corporazioni esistenti all’inizio del secolo in quella città, dice non esser possibile assegnare per ciascuna di esse l’epoca della fondazione né quella dei primi statuti, e si limita ad annotare che nessuna di quelle corporazioni è anteriore al quattordicesimo secolo. (Le note che accompagnano questo capitolo sono dello stesso Capmany). (d) - Siccome qui ripetiamo moltissime cose scritte in un’opera pubblicata nel 1778 dalla stamperia di Saucha intitolata Discorso economico politico in difesa del lavoro meccanico degli artigiani, di D. Raimondo Michele Palacio, l’autore di queste memorie, temendo la taccia di vile plagiario, fa presente che dovendo trattare la stessa materia in quest’opera, non poteva non riportare gran parte delle idee di quello scritto che allora credette opportuno pubblicare senza il suo vero nome. (e) - Leggendo l’appendice delle note numero 28 e 30 si conoscerà l’alta stima e il potere di cui godeva in altri tempi la città di Barcellona attraverso i magistrati municipali che la rappresentavano con il comune nome di Consiglieri. (f) - Nella raccolta diplomatica, di queste memorie si trovano moltissime lettere ed altri documenti che provano la corrispondenza diretta e reciproca della città di Barcellona con gl’imperatori d’Oriente e con quelli di Germania, con i sultani d’Egitto, i re di Tunisi, del Marocco ecc., come anche con i vari monarchi, con le repubbliche e con altri potentati d’Europa. (g) – Si notino le proteste dell’illustrissimo Sig. Campomanes contro questi abusi e questi princìpi erronei in politica, che espone nel suo Discorso sull’educazione popolare degli artigiani, da pagina 119 a 160. (h) - Comunemente diciamo una chimera o una cosa impossibile ciò che è enormemente difficile che si avveri. Non possiamo fare a meno di avvertire in questa occasione le anime semplici affinché, considerando queste grandi difficoltà, possano comprendere quale concetto debbano formarsi sulla legittimità e sincerità dei desideri dei falsi riformatori e di coloro che invocano un Concilio: costoro non vogliono i Concili, ma vogliono, sotto il pretesto del Concilio, sottrarsi all’autorità dei loro legittimi superiori (Nota degli autori della Biblioteca di religione).