I' f · Web viewNon solo nel nostro paese, ma in gran parte dei paesi dell'occidente in cui lo...

32
Brani scelti INDICE (Da L. Chiorazzi, Se non fosse per i bambini... in fondo a scuola non si starebbe male, Armando, Roma, 2000) 1. Sui libri di testo 2. Sui metodi didattici: l'uso delle fotocopie 3. Sulla programmazione didattica 4. Liberaci dai bambini che hanno "solo" diritti (Da R.P. Feynman, Sei pezzi facili, Adelphi, Milano, 2000.) 1. PREFAZIONE (Da G. Ferroni, La scuola sospesa, Einaudi, 1997, pp 79-98) 1. Pedagogia e miti della riforma (Cap. VII) (Da Repubblica del 4.10.02) 1. Il silenzio dei miei studenti che non sanno più ragionare, di M. Lodoli. (Da Repubblica del 13.10.03) 1. Cari prof, non ci piacete, di M.N. De Luca 2. Vince l´illusione di una vita come la ribalta tv, di Marco Lodoli 1

Transcript of I' f · Web viewNon solo nel nostro paese, ma in gran parte dei paesi dell'occidente in cui lo...

Brani scelti

INDICE

(Da L. Chiorazzi, Se non fosse per i bambini... in fondo a scuola non si starebbe male, Armando, Roma, 2000)

1. Sui libri di testo 2. Sui metodi didattici: l'uso delle fotocopie 3. Sulla programmazione didattica 4. Liberaci dai bambini che hanno "solo" diritti

(Da R.P. Feynman, Sei pezzi facili, Adelphi, Milano, 2000.)

1. PREFAZIONE

(Da G. Ferroni, La scuola sospesa, Einaudi, 1997, pp 79-98) 1. Pedagogia e miti della riforma (Cap. VII)

(Da Repubblica del 4.10.02)

1. Il silenzio dei miei studenti che non sanno più ragionare, di M. Lodoli.

(Da Repubblica del 13.10.03)

1. Cari prof, non ci piacete, di M.N. De Luca2. Vince l´illusione di una vita come la ribalta tv, di Marco Lodoli

(Da Repubblica del 13.02.04)

1. Lars von Trier sulla pace

1

Sui libri di testo

(Da L. Chiorazzi, Se non fosse per i bambini... in fondo a scuola non si starebbe male, Armando, Roma, 2001, pp. 74-6)

Ma anche oggi. nel famoso "Duemila", la scuola è rimasta biecamente e anacronisticamente ferma al "libro di lettura", che nella stessa sua definizione si pone presuntuosamente come "l'oggetto" che detiene l'esclusiva e il segreto primordiale della lettura. E invece è la negazione della lettura come piacere, incredibilmente infarcito, com'è il più delle volte, oltre che di un incredibile eccesso di schede di lavoro che fanno l'autopsia ad ogni rigo letto, anche di brani di una banalità stomachevole, che oscillano dagli stereotipi più piatti fino alla pubblicità occulta e che instillano nelle giovani menti la noia e non la gioia della lettura, insieme all'ideologia del Nulla, non meno pericolosa dell'ideologia fascista che sprizzava da ogni pagina dei loro predecessori del Ventennio.

Che fine hanno fatto oggi i grandi autori, i grandi capolavori dell'umanità?

Nei libri di testo e nelle bibliotechine di classe imperversano orrende banalità e insipida "letteratura per l'infanzia".

I Grandi sono superati? E da chi? Ma non si diceva una volta che i grandi autori, quelli classici, parlano sempre all'animo umano, non importa se bambino o adulto, in tutte le epoche? O i Grandi in fondo erano piccoli, oppure è appannato "l'animo umano".

Nel famoso "Duemila" la scuola è rimasta ripiegata sui penosi "sussidiari". "Sussidiario" forse vuol dire che sorregge, che aiuta.

Ma in cosa ci può ormai aiutare un penoso guazzabuglio di nozioni arraffazzonate, sorpassate nella forma e nella sostanza, imprecise, insufficienti, inadatte e addirittura dannose se le fai passare così come sono. Ci occorrono sempre, immancabilmente, diversi sussidiari del sussidiario che chiariscano, approfondiscano, illustrino, spieghino in termini modernamente comprensibili al ragazzo di oggi la Storia, la Geografia, la Scienza e la Matematica.

[...] Siccome mi sono convinto da tempo che uno vale altro, che sono tutti uguali, tutti brutti e tutti inutili, e dal momento che sono comunque costretto dalla legge a scegliere, ormai ho preso l'abitudine di firmare una relazione qualsiasi di un qualsiasi gruppo di colleghe. E sa come si fa la relazione scritta sulla "scelta oculata'' effettuata? Ricopiando inevitabilmente una qualsiasi relazione di un qualsiasi precedente anno di un qualsiasi libro.

Manco a dirlo, si adatta alla perfezione al "libro nuovo" dell'anno prossimo.

E sa quali sono le "ultime tendenze"? Gli stessi autori dei libri, sapendo bene quanto noi maestri odiamo ormai le relazioni scritte, si premurano di farci trovare nelle loro opere delle relazioni prestampate su tutti gli aspetti su cui noi dovremmo scervellarci. Sperano così che. trovando la relazione già scritta, sia più facile che la nostra scelta cada sul loro libro, perché ci fa risparmiare un sacco di tempo e di energia. E sperano bene, perché noi facciamo proprio così.

In questo modo la direttrice è contenta di sentire belle parole in quei disperati quanto inutili Collegi dei "Dolenti", noi siamo contenti di aver fatto presto, e gli autori e gli editori sono contenti perché il Ministero butta i soldi sui loro libri grazie alla nostra scelta.

2

Sui metodi didattici: l'uso delle fotocopie

(Da L. Chiorazzi, Se non fosse per i bambini... in fondo a scuola non si starebbe male, Armando, Roma, 2001, p. 83)

Senza pretendere, naturalmente, di fare di tutte le erbe un fascio, sono costretto a dire che. copia e copias. le didattiche "pocket" preconfezionate dalle guide e dalle riviste la fanno da padroni. Quale grande e fine "professionalità" mi occorre per scegliere a destra e a manca le schede giuste da fotocopiare a seconda degli argomenti previsti dalla programmazione (anch'essa precotta) e poi "somministrarle" (come si usa dire) agli alunni, e poi contare le risposte "esatte" e dare un voto? Se è solo questo, lo potrebbe fare anche il bidello o. al massimo, un ragioniere. Tant'è vero che. pagati dal Comune, ho visto che. per alcuni progetti di educazione ambientale, vengono a fare lezione e ricerca in classe anche gli impiegati delle Poste, appassionati escursionisti e ambientalisti. e spesso la fanno meglio di come l'avremmo fatto noi maestri. perché hanno passione per l'argomento (ciò che spesso manca a noi).

Le fotocopie di tutto e del contrario di tutto impazzano e le fotocopiatrici. super ubriache di Toner, danno i numeri e si bloccano per protesta due volte alla settimana.

E quando si blocca la fotocopiatrice tutti noi maestri andiamo in tilt come accadde alla città di New York durante il famoso black out di alcuni anni fa.

Posso dirlo senza esitazioni perché lo vedo ogni giorno: in classe, cioè nella trincea quotidiana, sono le fotocopie la vera Rivoluzione "Didattica" degli ultimi anni, non il computer, non i "Nuovi Programmi". non la Riforma dei Cicli, non l'Autonomia. Solo le fotocopie hanno influito e hanno cambiato (in peggio, per l'abuso) i metodi d'insegnamento. Le vostre riforme "rivoluzionarie" sono state, sì. registrate nei documenti, ma sono tutte passate troppo alte sul tetto della scuola per essere acchiappate veramente.

3

Sulla programmazione didattica

(Da L. Chiorazzi, Se non fosse per i bambini... in fondo a scuola non si starebbe male, Armando, Roma, 2001, pp. 103-4)

Quanti tipi di programmazione ci sono in un circolo didattico? Da quella educativa a quella didattica, dalla bimestrale alla settimanale, dalla Carta dei Servizi al Pof, dalle relazioni estemporanee fino ai progetti e progettini che ci fate fare anche per andare al gabinetto. Dai contenuti curriculari alle "educazioni trasversali", dall'educazione stradale a quella ambientale, dalla convivenza democratica a quella interculturale, è tutto un continuo fiorire di "cunei" educativi e didattici che da ogni parte si cerca d'infilare a forza all'interno delle attività cosiddette "normali".

Ma anche queste cose... non dovrebbero già far parte di diritto, oggi come oggi, di un qualsiasi percorso educativo?

E allora perché cercate di incunearle dal di fuori con una miriade di progetti e progettini "ad hoc" col risultato di farle sembrare dei veri e propri corpi estranei "in più" con cui ci volete appesantire il groppone?

Il risultato è che se arrivano da corpi estranei, come corpi estranei vengono vissuti: con rigetto. E se voi, dall'alto, sentite impellente la necessità di sorreggere continuamente il programma normale con stampelle di questo tipo, non è forse perché avete capito che il "programma normale" oggi diventa sempre più "anormale" rispetto alle esigenze della società moderna? E se lo avete capito, perché continuate a mettere cerotti invece di affondare il bisturi nel tumore?

Ascolti come in alcuni circoli ci prendiamo per i fondelli: prima l'indicatore numero uno della scheda ricopiato cinquemila volte, sempre uguale, ossessivamente, come Charlot alla catena di montaggio di Tempi Moderni. Poi:

- Obiettivo: "conoscere alcuni articoli della Costituzione";- Contenuti: "alcuni articoli della Costituzione";- Attività: "conversazioni su alcuni articoli della Costituzione":- Verifica: "verificare la conoscenza di alcuni articoli della

Costituzione".Non le sembra paranoico? Alla fine, quando lei l'ha scritto, senza

alcuna utilità assolutamente per nessuno, sulla programmazione annuale. su quella bimestrale, su quella settimanale, sul registro personale. sull'Agenda ufficiale, sul "quadernetto" giornaliero che (Ereud faccia qualcosa!) alcune direttrici deliranti fanno tenere alle insegnanti per registrare anche quanti respiri hanno fatto in un'ora... ma non le viene spontaneo urlare istericamente "abbasso la Costituzione, fatemi scendere, voglio scappare nella giungla del Borneo tra i cannibali e speriamo che mi divorino"?

Settembre, andiamo, è tempo di programmare.Ancor prima di conoscere, o riconoscere, gli alunni, a scuola ancora

chiusa, ci costringiamo a fare: prove d'ingresso, programmazione annuale, programmazione bimestrale, programmazione settimanale, contenuti, attività, obiettivi "individualizzati" per gli "individui" alunni che non

4

conosciamo ancora.In confidenza, ma perché ci mortificate così? E forse un modo per

non farci pensare?Capisco: chi sta sopra ha sempre paura di chi sta sotto e i metodi di

rimbambimento non sono mai troppi.Dopo ore e ore passate a scrivere deliri anche peggiori dei miei

esempi, voi lo sapete benissimo che dubitiamo della nostra intelligenza umiliata.

E il vostro lavaggio del cervello funziona. Incontro molte giovani colleghe talmente imbevute della vostra dottrina che a volte mi fanno paura perché hanno abdicato al pensiero. Sono diventate delle perfette "calcolatrici" scientifiche: se i bambini, nella verifica sulle ormai diluvianti. ossessive fotocopie, non sistemano le sequenze di disegni come loro (le insegnanti) hanno stabilito nelle sacre sedute delle sacre prove. non va bene, hanno sbagliato. Anche se le sequenze si prestano a interpretazioni "circolari" e un bambino "mettendole in ordine" escogita una sistemazione originale, creativa, ma diversa da quella che voleva la maestra, non può avere il massimo dei voti, perché in qualche modo il bambino "ha sbagliato" a non leggere nel pensiero della Santa Maestra. Ha sbagliato a usare la propria fantasia invece che quella dell'insegnante. E "l'errore creativo" tanto predicato da Gianni Rodari. a cui, per colmo della beffa, magari è pure intitolato l'edificio scolastico. che fine ha fatto?

Evviva la Scuola della Creatività di cui ci eravamo innamorati scorrazzando come Huckieberry Finn e Tom Sawyer sulle verdi praterie dei libri di pedagogia!

Ma siccome siamo maestri anche nell'arte dell'arrangiarci, sa cosa faccio io nella mia Scienza Parapedagogica? Cerco in giro le frasi che piacciono tanto a voi superiori su riviste e fogli sparsi, o sulle programmazioni di venti anni fa che riguardavano la scorsa generazione di alunni, cambio qualche parola qua e là e poi le scopiazzo sui registri, sulle relazioni, sui giudizi, sulle "osservazioni sistematiche dei processi d'apprendimento", sui progettini per le "strategie individualizzate" e compagnia bella.

Le carte sono a posto. Voi superiori venite a controllare (se venite). leggete belle parole e ve ne andate soddisfatti della bontà della scuola "all'avanguardia" che dirigete.

Io sono giudicato un bravo maestro e vissero tutti felici e contenti.

5

Liberaci dai bambini che hanno "solo" diritti

(Da L. Chiorazzi, Se non fosse per i bambini... in fondo a scuola non si starebbe male, Armando, Roma, 2001, pp. 113-4)

La retorica sociale sta toccando le punte massime: i "diritti" dei bambini impazzano su tutti i giornali, in tutte le tavole rotonde e in tutte le relazioni e le interviste ai super-esperti. Limitandoci alla società occidentale e italiana, quando eravamo bambini noi sentivamo parlare solo di "doveri" dei bambini. Oggi sentiamo parlare "solo" di diritti. Il "corpo sociale" ha gli stessi difetti dei singoli individui: il vero equilibrio è davvero una cosa quasi impossibile da raggiungere. Solo "diritti dei bambini" sui libri di testo; solo "diritti dei bambini" sui giornali; solo "diritti dei bambini" nei dibattiti alla televisione; solo "diritti dei bambini" su tutte le pubblicazioni che vediamo a scuola in tutte le salse. dai fumetti alle guide didattiche.

Capisco che un senso di colpa collettivo per le esagerazioni precedenti possa provocare facilmente eccessi in senso opposto nei continui corsi e ricorsi storici, ma veramente siamo tutti convinti che sommergendoli e soffocandoli fin dall'età della ragione con una montagna di diritti disgiunti da almeno altrettanti "doveri" stiamo facendo il bene dei bambini e della società?

Prima ancora di nascere li soffochiamo di oggetti accatastati sulla pancia della mamma; ai compleanni e ai battesimi li strozziamo con una marea di regali eccezionali, costosi e stupefacenti: e Babbo Natale non gli basta mai: e la Befana non regge più il ritmo; a casa, spesso, nessuno osa contraddirli più di tanto perché già ci si sente in colpa per la scarsa e debole presenza a causa del lavoro (sempre più tiranno) di entrambi i genitori; a scuola a volte noi maestri non gli possiamo dire più neanche "Ah!" perché se no, poverini, si turbano (come dice la psicologa); sempre più spesso i genitori vengono a lamentarsi perché abbiamo usato un tono e un comportamento "troppo duro" con i loro fragilissimi, e nello stesso tempo insensibili, cocchi di mamma di carta velina superviziati e terribilmente incapaci di sopportare la benché minima frustrazione o fatica.

In realtà scontano sulla loro pelle il senso di colpa e di malessere di una società lacerata e vengono avvelenati quotidianamente col veleno del "tutto e subito senza fatica".

E a diciott'anni. quando capita (ma per fortuna sono eccezioni) che alcuni di loro accoltellano i genitori perché ormai non gli basta più nulla e vogliono "di tutto e di più", i discorsi degli esperti in televisione non cambiano: i genitori non "sanno ascoltarli" abbastanza.

E nessuno si chiede se loro, i figli, sanno "ascoltare" i genitori.La risposta è che ormai non possono più perché sono stati educati

ad ascoltare soltanto se stessi e i loro desideri e a considerare gli esseri umani intorno a loro esclusivamente come debitori di "diritti" nei loro confronti.

A mio parere, in questo sta la colpa dei genitori: nel non averli

6

abituati abbastanza all'ascolto degli altri.E i primi "altri" dei bambini, quelli con i quali si addestrano a vivere,

sono appunto i genitori. E poi gli educatori, cioè noi maestri e maestre. Alle scuole medie potrebbe essere già troppo tardi se non siamo intervenuti prima.

Ma oggi come oggi a scuola non abbiamo nessuno strumento per farlo.

Ne ci stiamo attivando per costruirne. Non sappiamo da dove cominciare.

Le vecchie armi della sopraffazione e dell'umiliazione degli alunni per fortuna sono state smantellate, ma al loro posto non è sorto, come sarebbe stato auspicabile, una struttura educativa fondata sulle due gambe (entrambe indispensabili) dei diritti e dei doveri. Stiamo facendo crescere spropositatamente solo la gamba dei diritti. E su una sola gamba si cammina da zoppi e non si va molto lontano sulla strada dell'equilibrio della persona.

In una scuola "comunità educante", con finalità davvero concertate e condivise, il bambino dovrebbe essere abituato in una prassi quotidiana a "conquistarsi" tutto ciò a cui aspira. La "sana e santa fatica" è il vero sale delle conquiste, per gli adulti come per i bambini. Certamente non eccessiva e insuperabile, ma sempre leggermene superiore alle proprie presunte forze, così che si possa "lanciare il cuore" dietro traguardi sempre più alti e andare agevolmente a raccoglierlo. ma neanche troppo facilmente, affinchè si abbia la possibilità di sperimentare, assaporare, scoprire e accrescere via via le proprie forze e abituarsi senza drammi anche a qualche sconfitta che dia la consapevolezza e la misura del proprio impegno e dei propri limiti umani.

7

(Da R.P. Feynman, Sei pezzi facili, Adelphi, Milano, 2000.)

PREFAZIONE

Queste sono le lezioni di fìsica che ho tenuto nel 1961 e 1962 agli studenti del primo e secondo anno del Caltech (California Institute of Technologv). Naturalmente non sono riportate parola per parola: sono state rivedute, a volte in modo sostanziale, a volte no. Le lezioni formano soltanto una parte del corso completo. L'intero gruppo di centottanta studenti si riuniva in una grande aula due volte la settimana per ascoltare queste lezioni, e poi si divideva in piccoli gruppi di quindici o venti studenti per le esercitazioni sotto la guida di un assistente; inoltre vi era una sessione di laboratorio una volta la settimana.

L'obiettivo principale che ci eravamo prefissi era conservare l'interesse degli studenti che, pieni di entusiasmo e piuttosto intelligenti, arrivano al Caltech dalle scuole superiori. Hanno sentito parlare molto di quanto siano appassionanti e interessanti certi campi della fisica: ad esempio la teoria della relatività, la meccanica quantistica, e altre idee moderne. Capitava invece che al termine del corso molti di loro fossero scoraggiati, perché avevano visto ben poche idee veramente grandi, nuove e moderne. Avevano dovuto studiare piani inclinati, elettrostatica e così via, e dopo due anni erano proprio avviliti. Si trattava quindi di costruire un corso in cui i più bravi e motivati non perdessero l'entusiasmo.

Queste lezioni non intendono essere in alcun modo una semplice rassegna; sono una cosa seria. Pensai di prendere come punto di riferimento i migliori della classe, e di far sì che nemmeno loro riuscissero a comprendere del lutto il contenuto delle lezioni, per esempio suggerendo applicazioni delle idee e dei concetti in varie direzioni, al di fuori della linea principale di ragionamento. Proprio per questo ho cercato di formulare ogni asserzione nel modo più accurato possibile, di sottolineare ogni volta come le equazioni e le idee si integrino nel corpo di conoscenze della fisica, e quali modifiche sarebbero intervenute una volta che si fosse imparato di più. Sentivo anche che per gli studenti è importante aver chiaro che cosa dovrebbero essere in grado di dedurre da quanto detto in precedenza (se sono abbastanza svegli), e cosa invece viene presentato come nuovo. Quando venivano introdotte nuove idee, io cercavo o di dedurle, se erano deducibili, o di spiegare che si trattava di un concetto nuovo, che non aveva alcuna base nelle cose che già avevano imparato: non era dimostrabile, bisognava proprio aggiungerlo.

Nell'iniziare le lezioni presupponevo alcune conoscenze di base da parte degli studenti, cose come l'ottica geometrica, semplici nozioni di chimica, e così via, che si insegnano alle superiori. Inoltre non vedevo ragione di presentare il materiale in un ordine preciso, evitando di parlare di una cosa finché non avessi potuto descriverla in ogni particolare. Al contrario, c'erano continue anticipazioni di argomenti non ancora trattati: una completa discussione sarebbe venuta a suo tempo, con una preparazione adeguata. L'induttanza e i livelli di energia, per esempio, vengono dapprima presentati a livello qualitativo, e solo in seguito diventano oggetto di uno studio approfondito.

Mentre mi rivolgevo agli studenti più attivi, non volevo trascurare il povero studente per il quale i fuochi d'artificio e le applicazioni collaterali sono semplicemente inquietanti, e dal quale sarebbe vano aspettarsi che impari molto del contenuto delle lezioni. A questi studenti volevo presentare almeno un nucleo centrale o spina dorsale della materia che fossero in grado di comprendere. Magari non avrebbero capito tutto, ma potevo sperare che non si innervosissero troppo. Non mi aspettavo che capissero tutto, ma solo le caratteristiche centrali e più dirette, Ci vuole, naturalmente, una certa perspicacia da parte dello studente per capire quali sono i teoremi e le idee più importanti, e quali invece gli argomenti che si potranno comprendere solo negli anni seguenti.

Nel fare lezione c'era poi una seria difficoltà: per come era strutturato il corso, chi era in cattedra non aveva modo di capire come stessero andando le cose, dal momento che gli mancava qualsiasi riscontro da parte degli studenti. Io stesso quindi non ho idea di quanto siano buone queste lezioni. E stato essenzialmente un esperimento; se dovessi rifarlo (e spero di non doverlo rifare!) non lo rifarei allo stesso modo. Comunque penso,

8

per quanto riguarda la fisica, che le cose abbiano funzionato abbastanza bene per il primo anno.

Nel secondo anno non fui altrettanto soddisfatto. In particolare, nel trattare di elettricità e magnetismo, non sono riuscito a trovare un modo veramente unico o diverso di presentare la materia, alcun modo che fosse particolarmente più avvincente di quello usuale. Quindi non credo di aver fatto un granché in questa parte. Alla fine del secondo anno avevo intenzione di aggiungere in coda all'elettromagnetismo un paio di lezioni, per dire qualcosa sulle proprietà dei materiali, e soprattutto per introdurre i modi fondamentali, le soluzioni dell'equazione di diffusione, i sistemi vibranti, le funzioni ortogonali, ecc., per fare insomma i primi passi nei cosiddetti metodi matematici della fisica. Se dovessi, oggi, rifare il corso penso che tornerei all'idea originaria; ma allora, dato che non era previsto un nuovo ciclo di lezioni, sembrò una buona idea cercare di dare piuttosto un'introduzione alla meccanica quantistica (che si trova nel terzo volume delle Lectures)

Certo, chi si laurea in fìsica può aspettare fino al terzo anno per imparare la meccanica quan-tistica, ma molti studenti del nostro corso - si disse - sceglievano fisica solo come materia propedeutica per altre discipline; e il modo standard di presentare la meccanica quantistica la rendeva quasi inaccessibile ai più, perché ci vuole tanto tempo per impararla. Eppure, nelle sue applicazioni reali (specialmente in quelle più complesse, per esempio di ingegneria elettrica e di chimica) non viene effettivamente usalo tutto il macchinario delle equazioni differenziali. Così ho cercato di darne un'illustrazione generale che non richiedesse la conoscenza delle equazioni differenziali alle derivale parziali. Anche per un fisico penso sia interessante sforzarsi di presentare la meccanica quantistica in ordine inverso, per ragioni che risulteranno chiare dalle lezioni stesse. Ho però l'impressione che l'esperimento non sia del tutto riuscito, soprattutto per mancanza di tempo (avrei avuto bisogno di tre o quattro lezioni in più, per trattare con maggiore completezza argomenti quali le bande di energia e la dipendenza spaziale delle ampiezze). Inoltre, essendo la prima volta, la mancanza di riscontro da parte degli studenti fu particolarmente grave. Oggi penso che la meccanica quantistica andrebbe presentata in un secondo momento: forse avrò l'occasione di farlo di nuovo, un giorno, e allora lo farò nel modo giusto.

Non ci sono, nel corso, lezioni su come risolvere i problemi, perché per questo c'erano le ore di esercitazioni. In effetti avevo svolto tre lezioni al primo anno sull'argomento, ma non sono incluse in questa raccolta. C'era anche una lezione sulla guida inerziale, certamente appropriata dopo la lezione sui sistemi rotanti, ma sfortunatamente è stata omessa, la quinta e la sesta lezione sono state tenute da Matthew Sands. essendo io fuori città.

La domanda, ovvia, è fino a che punto l'esperimento sia riuscito. La mia impressione - peraltro non condivisa da quasi nessuno che abbia lavorato con gli studenti - è negativa. Non penso di aver fatto un buon lavoro, dal punto di vista degli studenti. Se guardo come la maggioranza di loro

Ha affrontato le prove d'esame, devo concludere che il sistema è fallito. Naturalmente qualche collega mi fa notare che una o due decine di studenti - sorprendentemente - avevano capito tutto in ogni lezione, avevano lavorato seriamente e avevano affrontato le cose con entusiasmo e inte-resse. E' presumibile che queste persone abbiano una preparazione di base di prim'ordine in fisi-ca: dopotutto sono proprio quelli che cercavo di raggiungere. Ma ciò significa, allora, che «di rado l'insegnamento è veramente efficace, tranne in quei casi felici in cui è quasi superfluo» (Gibbons). Eppure, non volevo lasciare indietro del tutto nessuno, come invece, forse, è successo. Penso che per dare una mano agli studenti bisognerebbe mettere più impegno nell'inventare problemi che chiariscano i concetti presentati a lezione. Esercizi e problemi forniscono una buona opportunità di completare l'argomento e rendere più reali, più complete, più salde nella mente le idee. A mio avviso, comunque, non c'è soluzione al problema dell'istruzione, oltre a rendersi conto che l'insegnamento migliore e quello che si realizza nel rapporto diretto tra lo studente e un buon insegnante: la situazione in cui lo studente discute le idee, riflette sulle cose, e ne parla. Non si impara molto stando seduti in un'aula, e neppure facendo i compiti assegnati, ma di questi tempi dobbiamo istruire una tal massa di gente che è necessario trovare un'alternativa all'ideale. Forse queste lezioni daranno un contributo in tal senso: forse in qualche oasi felice, dove c'è ancora un rapporto individuale tra studenti e insegnanti, qualcuno ne potrà trarre ispirazione, o qualche buona idea. Forse si

9

divertiranno a pensarci su, o a proseguire nello sviluppo di qualche concetto.

Giugno 1963

10

[da Ferroni G., La scuola sospesa, Einaudi, 1997, pp. 79-98]

Capitolo settimo

Pedagogia e miti della riforma

Le didattiche «democratiche», nelle loro varie e contraddittorie tendenze, si sono intrecciate con gli sviluppi della pedagogia, nei suoi sempre più articolati, invadenti esiti istituzionali e, insieme, con le istanze e le progettazioni di riforma riproposte più volte negli ultimi anni. Non solo nel nostro paese, ma in gran parte dei paesi dell'occidente in cui lo sviluppo della scuola si riconduce ad una comune matrice «pubblica» e illuministica, il tema della riforma è stato consustanziale all'esistenza stessa della scuola: fattori diversi ma convergenti hanno contribuito a legare ogni discorso, ogni riflessione, ogni esperienza che riguardasse la scuola alla prospettiva della riforma. Come in parte si è già accennato nei capitoli precedenti, quello della riforma si è imposto come un vero e proprio mito generale, a cui si sono aggregati molteplici miti particolari. Discutere sulla riforma, sostenere la necessità della riforma, progettare riforme, hanno costituito una modalità quasi automatica dell'essere scolastico», un modo di quasi immediata identificazione della scuola. Per gli operatori del settore, per gli esperti e gli interessati, la scuola si è concepita quasi a priori come luogo da riformare. E per molte attività relative alla scuola, il mito della riforma è stato strumento di un rinvio infinito: l'impossibilità e spesso l'incapacità di operare in modo soddisfacente hanno trovato giustificazione nella critica della cattiva volontà politica che rinviava le necessarie riforme; l'accettazione di situazioni deprimenti e la tolleranza verso molteplici forme di degradazione si sono adagiate entro la diffusa convinzione che solo una vera riforma avrebbe contribuito a superarle e a cancellarle.

I discorsi sulla riforma hanno sostenuto e garantito una generalizzata buona coscienza, un vario rifiuto di scommettere e scommettersi nella realtà data, una esitazione verso gli strumenti culturali a disposizione, una inerzia ed indifferenza verso i possibili modi di far valere i propri saperi, di trasmetterli con convinzione e passione. Insomma, la riforma impossibile, rinviata, attesa, mitica, ha contribuito a moltiplicare le forme di passività culturale, a ridurre la fiducia dei docenti nel loro sapere, nell'istituzione scolastica e nella sua funzione; ha tarpato spesso in modo irrimediabile la vitalità sgorgante da esperienze, da rapporti quotidiani, da incroci disciplinari; ha lasciato sprecare tante energie nella progettazione di cose diverse da quelle che erano effettivamente a disposizione e che si sarebbe stati in grado di fare proficuamente. Tutta la vita della scuola è potuta sembrare precaria, inutile, insufficiente, proprio in ragione della necessità universalmente dichiarata di riformarla, di renderla diversa da come si trovava ad essere, di orientarla verso altre possibilità e funzioni. E, in questo contesto, l'attenzione generale della cultura diffusa e dell'opinione pubblica, degli operatori e degli utenti della scuola, si spostava sempre più dai contenuti scolastici, dal corpo del sapere circolante nella scuola, alle situazioni e alle strutture, alle funzioni e alle mansioni, agli stati giuridici, alle forme amministrative, agli aspetti normativi e gestionali: insomma sempre più l'accento si fissava sui meccanismi istituzionali, mentre finivano in ombra le ragioni vitali dell'istituzione e le cose concrete da far in esse vivere e coltivare.

Sostegno determinante del mito della riforma è stato costituito dalla pedagogia e dal suo definirsi in modo sempre più articolato ed ambizioso come scienza e come istituzione; parallelamente allo sviluppo delle varie scienze umane, la pedagogia si è affrancata da quella funzione di ancella e di esplicazione pratica della filosofia che in Italia le aveva attribuito la tradizione idealistica, ha conquistato un vastissimo terreno accademico, ha creato reticoli teorici e programmatici sempre più complessi. Sia le ricerche di tipo teorico che quelle di tipo sperimentale si sono moltiplicate all'infinito, con una miriade di pubblicazioni che a uno sguardo d'insieme appare davvero inquietante. Alla pedagogia stricto sensu si è aggregato tutto un sistema di scienze dell'educazione; ma non è completamente chiaro se la pedagogia rappresenti una particolare «scienza dell'educazione» o se si ponga invece come la sintesi e l'orizzonte generale dell'intero sistema delle scienze dell'educazione. Tra queste hanno assunto rilievo rami particolari di

11

altre scienze umane, rivolte allo studio del mondo dei bambini, degli adolescenti, o anche degli adulti in quanto soggetti possibili di attività educative: si sono avute così in prima istanza la psicologia dell'educazione, la psicologia dell'età evolutiva, la sociologia dell'educazione; ma poi è risultato evidente che qualsiasi scienza umana poteva coniugarsi con l'orizzonte educativo, permettendo di far posto ad un'antropologia dell'educazione, ad una semiotica dell'educazione, ecc. All'interno del più stretto orizzonte pedagogico, legato alle circostanze specifiche dell'insegnamento, si è poi sviluppata la didattica, con un'articolazione vastissima di possibilità, da una didattica «generale» a varie didattiche sperimentali, alla didattica speciale, alle didattiche extrascolastiche (con il ramo vastissimo dell'«educazione degli adulti» o dell'«educazione permanente»), alle scienze della valutazione (articolabili in sottosettori specifici), alla inevitabile proliferazione delle didattiche relative alle singole discipline, dalla didattica delle lingue a quella della letteratura, della matematica, della fisica, della storia, della chimica, della geografia, e poi, con ulteriori specificazioni in gradi ulteriori, fino alla didattica della lingua inglese, spagnola, latina, uralo-altaica, ecc., o alla didattica della letteratura italiana, francese, russa, ecc., e poi a possibili didattiche della didattica e cosi all'infinito.

Questa proliferazione e sottospecializzazione ha avuto anche essenziali ragioni accademiche, garantendo sempre nuove titolarità di cattedre e posti universitari, come del resto nell'università italiana è accaduto per moltissimi campi disciplinari (ad esempio con insegnamenti di letteratura italiana del Rinascimento, di letteratura italiana del Romanticismo, di filologia siciliana, di filologia lombarda, ecc.): e la funzione accademica, che ha condotto infine alla creazione di specifiche facoltà di scienze dell'educazione, ha sostenuto e incrementato quella miriade di pubblicazioni a cui già si è accennato, nel circolo di una interminabile autoriflessione interna a una letteratura rivolta all'enucleazione di principi, alla ripetitiva definizione di istanze generali, alla teorizzazione cavillosa degli enunciati più banali, alla elevazione a scienza e alla formalizzazione di istanze ideologiche, di motivi e richieste della moda, di generiche prospettive comportamentali. Un immenso universo accademico-libresco si è costruito intorno agli eventi quotidiani della scuola: immenso universo che, nella sua vastità, ha comportato naturalmente anche progetti importanti, ha visto in azione studiosi di grande serietà e valore; ma nel suo insieme fa l'effetto di una abnorme superfetazione, ponendosi come una delle manifestazioni più intricate ed incontrollate di quel delirio quantitativo che aduggia tutta la cultura contemporanea.

Rispetto a tutte le possibili scienze umane, questo insieme pedagogico, questo vastissimo e invadente territorio delle scienze dell'educazione, sembra segnato da una assoluta istanza proiettiva: per esso la conoscenza è sempre, in qualsiasi momento, proiezione verso uno sviluppo ottimale, verso un nuovo tipo di scambio tra docente e discente, verso una trasformazione dei modi di acquisizione del sapere, verso una identificazione tra sapere e felicità. La società della pedagogia è spesso una società del tutto ideale, in cui le regole e le pratiche definite dalla scienza sembrano magicamente poter dar luogo ad un rapporto trasparente tra le generazioni e ad una gratificante acquisizione di sapere. Si parte frequentemente dal presupposto secondo cui l'elaborazione di un canone didattico, la perfetta programmazione dei momenti, delle fasi, delle tecniche del rapporto didattico, sarebbero destinate a tradursi in diretta, vitale, produttiva esperienza: la scienza dell'educazione, chiudendosi dentro il proprio punto di vista e prescindendo cosi dal senso della contraddizione, sembra aspirare alla compiuta «trasparenza» tra il proprio sapere e la realtà, coltivando il disegno di una realtà ideale, buona e ragionevole, comunque congrua con le previsioni elaborate dagli addetti ai lavori. In questa trasparenza il valore essenziale non è mai quello dell'acquisizione dei saperi, non si identifica mai con i punti di vista interni delle discipline da insegnare, ma si risolve nel benessere dell'allievo, o meglio in una proiezione ideale di questo benessere, di ciò che secondo l'ideologia del pedagogista viene identificato per benessere: e in ogni caso esso si basa sulla comprensione, sulla disponibilità del docente ad acquisire il punto di vista dell'allievo, di far si che lo stesso corpo disciplinare si adegui alle richieste, ai desideri, alle tensioni, alle difficoltà dell'allievo. Di fronte alle istanze rappresentate dall'allievo il docente deve essere in grado di trasformarsi, di modificare se stesso e il proprio sapere. Certo ciò accade quasi sempre nell'esperienza concreta, anche indipendentemente da programmi pedagogici, in ogni autentico rapporto maestro-allievo, nella varietà infinita delle situazioni. Ma l'insistenza a priori sulla comprensione, la

12

definizione delle sue forme progettuali, la sua teorizzazione, programmazione e tecnicizzazione, comportano un suo inevitabile scadere nella mera affettività, nella rinuncia ad ogni distanza, nel deprezzamento dei contenuti dell'insegnamento, nella loro subordinazione di ogni funzione della scuola all'immediata soddisfazione, alla gioia festosa dello starci dentro.

Questa pedagogia «progressista», con le sue pretese di scientificità e le sue ossessioni riformistiche, ha avuto varia diffusione nei paesi più avanzati, assumendo naturalmente aspetti diversi ed associandosi a diverse prospettive politiche e culturali: ma, pur in questa diversità dei suoi aspetti, singolarmente omogenei sono stati i suoi principi costitutivi e sorprendentemente analoghi i suoi effetti, diretti o indiretti, sulle istituzioni scolastiche dei diversi paesi. E si può avere il legittimo sospetto che questi principi pedagogici abbiano la loro parte di responsabilità nella generale «crisi» dell'istruzione che travaglia i paesi avanzati: nei loro confronti, peraltro, non sono mancate critiche molto lucide e dure da parte di studiosi e operatori della scuola schierati comunque «a sinistra», giunti in vario modo a constatare che la pratica di quel corrente pedagogismo viene a scalzare proprio quegli obiettivi «democratici» che dichiara di promuovere. Soprattutto in Francia e negli Stati Uniti, in rapporto a tradizioni scolastiche diverse, queste critiche hanno avuto notevole diffusione e non trascurabile risonanza. Molto più marginali sono state nel nostro paese, per la grande abilità istituzionale dei pedagogisti e dei vari elaboratori di parole d'ordine riformiste e «progressiste», per l'atteggiamento spesso passivo e acritico degli insegnanti (pronti a affidare la soluzione dei loro problemi a modelli imposti da esperti esterni), per la quasi totale indifferenza dell'opinione pubblica, degli intellettuali «generali», degli specialisti delle discipline «da insegnare», oltre che per le varie ragioni di ordine politico e strutturale che si sono in parte già indicate.

Tra i pochi esempi di critica alle pedagogie «progressiste» e di denuncia del loro contributo allo sfascio della scuola si può ricordare un libretto del 1977 passato del tutto inosservato, di Fabrizio Canfora, Quale scuola?, rivolto contro l'unilaterale insistenza pedagogica su certi principi come interdisciplinarietà, antinozionismo, convergenza sull'interesse presente, rifiuto della selezione: in esso si denuncia l'esito distruttivo ed antiegualitario del libertarismo scolastico diffuso dalle ideologie postsessantottesche e il convergere tra mode pedagogiche e riformismo velleitario, responsabile di quella «legislazione "per non dispiacere"» che ha prodotto tanti guasti nella scuola italiana sullo scorcio degli anni '70.

In Francia un intervento particolarmente vivace e complesso è stato quello del linguista Jean-Claude Milner, con il libro del 1984, De l'école: qui la critica al pedagogismo si salda ad una riflessione generale sul senso dell'istruzione, sul pericolo che essa corre nelle società moderne, sulle minacce che gravano sull'autonomia della cultura e sui docenti come intellettuali. L'ossessione della riforma viene da Milner ricondotta alla natura stessa della istituzione scolastica, inevitabilmente instabile e contraddittoria, perché «dà forma istituzionale a qualche cosa che non ha un rapporto evidente con le istituzioni, cioè ai saperi»: essa è «sempre pronta ad articolare in linguaggio istituzionale ciò che non si può esprimere integralmente in quel linguaggio. Questa inadeguatezza continuamente risorgente, ha come sintomo la riforma: rinasce sempre la speranza che si sarà capaci di tradurre in istituzione il principio non istituzionale. Cosi, l'istituzione contraddittoria passa la maggior parte del suo tempo a discutere se stessa e la propria modificazione...»; e in tale contesto, «a forza di percepire un oggetto dal punto di vista della sua riforma, ci dimentichiamo facilmente di chiederci cosa esso sia e cosa possa essere»1. Milner sottolinea l'orizzonte edificante e «pio» dei discorsi pedagogici, il loro scambiare le scuole per «comunità ideali», la loro tendenza a mettere fuori gioco i «contenuti» e ad insistere sui «metodi»2. Alla programmaticità pedagogica, che appare tanto più illusoria e proiettiva, in un momento in cui non si da nessun valore fisso di riferimento, in cui gli stessi modelli culturali mutano, si trasformano, si smentiscono incessantemente, Milner oppone la dimensione volontaristica, di resistenza culturale dell'insegnamento: questo può darsi oggi essenzialmente come «un atto del soggetto nella sua individualità più assoluta; nessun regolamento amministrativo gli sarà di alcuna utilità». In questo contesto si dà una calzante critica del «populismo» pedagogico: nel ricoprire «di disprezzo i saperi astratti e complicati dei borghesi, per vantare i saperi concreti e semplici» delle classi popolari, questo, al di là dei suoi propositi piamente «democratici», condurrebbe in definitiva alla conclusione che «le classi popolari hanno

13

diritto solo a ciò che serve alla produzione»3. Nelle correnti richieste di aprire totalmente la scuola ai saperi esterni, di immettere in essa tutti quei codici, messaggi, forme di vita, saperi variabili e proliferanti che pullulano nella società attuale, viene d'altra parte a ripetersi quel richiamo tante volte riproposto al rapporto tra scuola e «vita», che, secondo Milner, deve rimanere relativamente distante, per il bene sia della scuola che della vita: «Devono esistere dei saperi di cui la scuola non sappia nulla. Essa deve essere sufficientemente delimitata per lasciare sussistere, al di fuori del proprio ambito, questi punti di resistenza; tanto affermata da suscitare, presso coloro che le resistono, forti passioni; abbastanza generosa da dar loro, nel momento stesso in cui le resistono, un pensiero e un linguaggio»4.

Questo tema della parziale separazione tra scuola e vita, al di là di tutte le pedagogie «democratiche» e di tutte le ideologie sessantottesche, è particolarmente sentito dalla tradizione laica, repubblicana e illuministica francese: come suggerisce Jacques Muglioni, secondo il principio della laicità, la scuola «n'est pas l'ouverture, cornme c'est la mode de dire: c'est la separation. Préserver ainsi l'indépendance de l'école par rapport a la société extérieure, c'était préserver l'avenir et mème le préparer. Il était entendu qu'on sortirait de l'école instruit et assez fort pour affronter un autre monde qui n'est pas toujours conforme a la raison. L'école se proposait ainsi le contraire de l'adaptation; elle voulait étre le lieu où l'on apprenait a étre lucide et libre par rapport à la société, a ses préjugés, à ses injustices, le lieu d'où l'on pouvait s'exercer librement à la juger pour la changer quand il fallait». Questa situazione si è rovesciata dopo il '68, quando la società esterna ha preso d'assalto la scuola «pour lui imposer ses intéréts, ses passions et ses modes», e ha affermato una sua totale continuità con la vita: «L'école n'est plus faite pour placer la société a distance d'elle-méme, pour lui enseigner ainsi les raisons du progrès: c'est la société qui change l'école et la forge a son image afin de ne trouver désormais en face d'elle aucun pouvoir de contestation»; la rottura della separazione tra scuola e vita ha cosi portato ad una più profonda chiusura della scuola; l'ossessione della contestazione ha distrutto ogni autentico spirito di contestazione5.

In un quadro ambientale molto diverso come quello degli Stati Uniti d'America, percorso in modo inquietante da ansie per una vera e propria «fine» dell'istruzione (titolo di un libro di Neil Postman), che diventano addirittura auspici in certo scatenato liberismo tecnologico, un recente volume di Eric Donald Hirsch, Jr., The Schools We Need, ha messo in luce tutta la responsabilità delle teorie pedagogiche democratiche e progressiste nel generale collasso dell'istruzione, nella perdita di quei saperi culturali di base il cui possesso è sola garanzia di una autentica eguaglianza tra i cittadini: Hirsch mette in evidenza il legame tra il successo e la diffusione di quelle teorie (con tutti i miti riformistici da esse scaturiti), e l'approfondirsi, sempre più evidente nella società americana, dell'ingiustizia e dell'ineguaglianza sociale. Riferendosi esplicitamente all'insegnamento di Antonio Granisci, alla sua difesa del rigore dello studio e dei suoi aspetti anche «meccanici» e «nozionistici»6, Hirsch sottolinea l'origine «romantica» delle teorie pedagogiche elaborate e propagate soprattutto negli anni '20, il cui successo si è affidato ad una serie di slogan di grande agilità ed efficacia, che sono penetrati in un senso comune dominato da una implicita diffidenza verso la serietà e il rigore della conoscenza. Questi slogan hanno una natura eminentemente retorica (che Hirsch evidenzia con acume di studioso della retorica) e si fondano sui due canoni paralleli del formalismo e del naturalismo.

Per formalismo si intende «the belief that the particular content wich is learned in school... is far less important than acquiring the formal toois which will enable a person to learn future content», insomma il rifiuto dei contenuti e delle nozioni, l'insistenza sui metodi e sulle abilità di accesso al sapere, la diffidenza pedagogica verso la «trasmissione»; per naturalismo si intende «the belief that education is a natural process with its own inherent forms and rhythms, which may vary with each child, and is most effective when it is connected with natural, real-life goals and settings», insomma l'insistenza sulle motivazioni legate alla situazione particolare, sul piacere e la libera disponibilità dell'apprendimento, sul rifiuto di ogni sistematicità artificiale. Formalismo e naturalismo costituiscono una assolutizzazione di mezze verità, di prospettive parziali, che hanno senso solo se fatte giocare entro la concretezza dell'esperienza, nella verifica dei risultati, nell'acquisizione di saperi e capacità reali. Così il formalismo che punta sui metodi contro i contenuti, sulle abilità contro le nozioni, si trova paradossalmente a fallire proprio nell'acquisizione delle capacità metodologiche: «adequate attention to the

14

transmission of broad general knowledge actually does lead to general intellectual skills. The paradox is quiet stunning. Our emphasis on formal skills has resulted in students who are deficient in formal skills, whereas an appropriate emphasis on transmitting knowledge results in students who actually possess the skills that are sought by American educators skills such as criticai thinking and learning to learn»7. Ma gli slogan formalistici e naturalistici, nonostante siano contraddetti da studi di psicologia della conoscenza che Hirsch prende attentamente in considerazione e soprattutto dalla verifica dell'esperienza, dallo stato effettivo dell'educazione americana, pretendono comunque di aggiornarsi continuamente, assumono vesti sempre ultramoderne, si presentano come risultati di ricerche avanzate, si appoggiano sulle più vicine novità tecnologiche: fino a proporre e riproporre riforme che in realtà mirano a curare i mali da essi stessi causati. Di questi slogan e idées reàues Hirsch offre alla fine del volume un ricco campionario, Critical Guide to educational Terms and Phrases, che sarebbe interessante e anche divertente confrontare con tanti termini e formule in uso nella pedagogia e nel riformismo del nostro paese: e tutte da citare dovrebbero essere le osservazioni duramente critiche di Hirsch sul project method, tendente ad un hands-on learning o ad un holistic learning, sostenuto dal mito della integrità dell'esperienza e da ideologie antiverbalistiche, o sul tema della student-centered education, che è uno di quelli che ricorrono più insistentemente in una scuola a cui si richiede non tanto la trasmissione di saperi solidi e resistenti, quanto la soddisfazione e il dolce benessere dei giovani.

Queste critiche diverse ma convergenti verso un'ortodossia pedagogica che domina, quasi incontrastata, in tutti i paesi avanzati non inquietano comunque gran che l'orizzonte disciplinare, accademico e istituzionale della pedagogia, che sembra spesso sfuggire alla «prova della realtà», al confronto con il mondo esterno, con le mutazioni che in esso sono avvenute negli ultimi decenni, con la nuova sostanza antropologica delle giovani generazioni, con le derive che costituiscono la comunicazione culturale, con la stessa caduta del prestigio sociale della scuola. Se si eccettuano i pedagogisti dotati di una più ampia coscienza filosofica e di una più lucida sensibilità sociale, la pedagogia istituzionale tende per lo più a riproporre come nuovi quei modelli democratici che da noi si sono diffusi soprattutto negli anni '60, che sul piano meramente teorico potevano avere una certa congruenza con una società tutta rivolta verso un'espansione progressiva, verso l'illusione di una democrazia «trasparente» sempre più larga e luminosa. L'osservatore esterno resta davvero sorpreso dal fatto che questa pedagogia si pone ormai quasi come l'unica scienza umana che evita di sottoporsi a critica, che si sottrae al dubbio epistemologico che insidia oggi ogni sapere: se le scienze (anche quelle naturali) e le arti vivono in una sempre più lacerata e lacerante dimensione autocritica e contraddittoria, si proiettano in una conoscenza «sospesa», tanto più rigorosa quanto più sospesa (e che dire della letteratura?), la pedagogia sembra invece ancora del tutto presa da un empito imperialistico, da una spinta interna a proporsi trionfalmente come la disciplina guida del presente e del futuro, a regolare tutti i modi di trasmissione e di comunicazione del sapere e della cultura. Un imperialismo che in parte sembra fare il paio con quello della semiotica: e del resto è facile notare certe convergenze tra i discorsi della vulgata pedagogica e quelli della vulgata semiotica, tra l'insistenza dei pedagogisti sulle regole dell'educazione e la chiacchiera culturale sulle forme della comunicazione; come tutto è comunicazione, cosi tutto è educazione, e a tutti sembra comunque più importante insistere su procedure, regole, tecnologie, piuttosto che su contenuti (senza contare l'inevitabile costruzione di una pedagogia semiotica o di una semiotica pedagogica, di una applicazione dei modelli semiotici all'analisi del processo educativo)8.

L'imperialismo pedagogico, come del resto quello semiotico, si basa su un variabile ed eterogeneo proliferare di metafore, su di una illimitata appropriazione e combinazione di modelli ricavati dalle forme culturali «alla moda», sulla continua dichiarazione della propria tempestività, del proprio pieno partecipare alle più autentiche esigenze del presente. La convinzione della centralità dell'educazione per lo sviluppo della cultura conduce fino ad identificare ogni rapporto culturale con un rapporto educativo e ogni comunicazione di forme culturali con un atto pedagogico: cosi, partendo anche dalle esperienze più valide, concrete e parziali, dell'educazione degli adulti, l'orizzonte pedagogico può allargarsi verso l'educazione permanente e verso l'auspicio di una presenza della pedagogia e dei suoi derivati in tutti gli spazi della vita collettiva e individuale. Il tempo della comunicazione globale, irretita in un groviglio inestricabile di messaggi e di scambi senza nessuna pausa di silenzio, è anche quello della formazione

15

totale, a cui ovviamente sono e saranno delegati gli addetti ai lavori, i nuovi sacerdoti di questo sapere universale dei modi e delle regole della comunicazione del sapere. Il configurarsi di questa situazione può dare agli esperti una tale ebrezza, un tale compiacimento autogratificante, da suscitare ottimistiche e trionfali profezie, che per il normale lettore possono risultare addirittura esilaranti. Può per esempio capitare di leggere, in un saggio su quella «scienza dell'educazione» più specifica che è la «Didattica» (generale, si presume), la «profezia» secondo cui essa «sarà incoronata "regina" della formazione», anzi, più in particolare: «Nel cielo tutto azzurro, già sopra di noi, del vicino duemila si può cogliere nitidamente un titolo in gigantografia: "benvenuti nel secolo della formazione"' Nel primo secolo del terzo millennio, le età generazionali (l'infanzia come l'adolescenza, l'età adulta come quella senile) saranno culturalmente attrezzate, per tutta la vita, in modo da poter intraprendere con successo l'impervio viaggio lungo i sentieri di un mondo nuovo... E se nel cielo del ventunesimo secolo campeggerà la formazione dell'uomo e della donna (nei paesi ricchi come in quelli poveri), la sua stella cometa porterà scritto sulla scia luminosa il nome della Didattica... Questo perché qualsivoglia educazione multigenerazionale chiede l'adozione di metodi e strategie rigorose e sofisticate, di cui è titolare "unica" la Didattica: che si propone pertanto quale scienza "regina" della formazione...»9. E poi un proliferare di entusiastiche metafore in cui si afferma l'aspirazione totalizzante di questa scienza del fare-scuola, che ovviamente è anche una scienza della comunicazione e «ha diritto all'abito da sera», per sciorinarci tutto il suo bagaglio di parole d'ordine, dalla riprovazione della vecchia «istruzione scolastica di marca trasmissiva-riproduttiva-nozionistica: in una parola "pappagallesca"», alle aperture verso un «ecosistema disciplinare», costruito con il «gioco del "meccano" della trasversalità curricolare», con «tre strategie didattiche: multidisciplinare, interdisciplinare, transdisciplinare» (o se si vuole «meccano ecosistemico combinabile in direzione multi/inter/transdisciplinare....»)10; e poi programmazioni, collegialità, scuola dei laboratori, aule didattiche decentrate, alfabetieri ecologici, contratti cognitivi e pacchetti orari, ecc.

II linguaggio della pedagogia associa spesso in frullati turbinosi materiali letterari, terminologie tecniche desuntedalle più varie scienze, gerghi massmediatici, anglismi di vario tipo desunti da trattati di pedagogia e di psicologia, formule politico-burocratiche: i termini più diversi assumono nell'argomentazione pedagogica un'aura tecnico-scientifica che spesso copre ed esalta riferimenti e realtà piuttosto semplici e banali. Ecco ad esempio un gran parlare di «ottimizzazione» dell'apprendimento e un vario schierarsi di funzioni quali «amplificazione, implementazione, distanziamento, globalizzazione, individualizzazione»11. A leggere molti testi di questo tipo si ha proprio l'impressione di essere presi nella rete di una ovvietà che si presenta come complessità: cosa che del resto capita anche a tante altre scienze umane, e in misura notevole anche a discipline come la critica letteraria e la teoria della letteratura. Ma, rispetto a ciò che capita in quelle altre discipline, l'incongruità risulta qui ancora più palese ed assurda, perché il gergo tecnico-scientifico pretende di regolare una realtà quotidiana cosi diretta, corposa, caotica, irriducibile, come quella della scuola, fatta spesso anche di piccole strutture, di rapporti inafferrabili, di orizzonti casuali ed imprevedibili.

Tra i termini e concetti sacri della pedagogia c'è ovviamente quello di sperimentazione: in essa si risolve in definitiva la continua proiezione di una scuola sempre possibile, che è sempre al di là dello spazio e del tempo che sono dati, che conquista continuamente nuovi territori ed orizzonti. Da un punto di vista teorico la sperimentazione sembra trasferire nella scuola quel principio della «ricerca» e del movimento verso il «nuovo» che caratterizza il procedere stesso delle scienze e delle discipline adulte: ma resta spesso incongrua con la posizione dei giovani che, per poter adeguatamente «sperimentare», devono comunque entrare in contatto con i corpi istituzionali di discipline assestatesi e definitesi nel tempo; come si possono aprire verso il nuovo i quadri di un sapere istituzionale, se non si possiede in qualche modo la chiave del suo orizzonte di base, del terreno su cui radicare le novità o far esplodere le rotture? E d'altra parte, possono aver davvero senso le sperimentazioni che sorgono non dall'interno sviluppo di una disciplina, ma da presupposti didattici a priori, da progettazioni aleatorie e fluttuanti? che dire della capacità educativa di una sperimentazione che si sposta sempre «più in là», che viene intesa come un «fare altro», rivolto a favorire evoluzioni creative di questo o quest'altro sperimentatore, a condurre fuori dei vincoli istituzionali

16

delle discipline, ad affacciarsi verso culture erratiche, superficiali e subalterne, verso tutto ciò che ha il sentore dell'ultima novità?

Questo spostarsi sempre più in là dei programmi e degli obiettivi didattici viene sostenuto e rafforzato dallo sviluppo tecnologico, dalla stessa velocità con cui si propongono sempre nuove tecnologie: e in particolare le tecnologie della comunicazione prospettano un processo inarrestabile di adattamento della scuola e delle sue pratiche, una continua messa a punto di macchine e di strumenti. Ovviamente le tecnologie sono parte dell'universo culturale contemporaneo e come tali vanno certamente conosciute e usate anche all'interno della scuola, in rapporto all'utilità che possono avere per le singole discipline. Appare però del tutto sospetto ed illusorio l'ottimismo pedagogico che periodicamente si ripropone all'affacciarsi di ogni nuova tecnologia e, come la pretesa di mutare radicalmente i quadri delle discipline e i metodi didattici in rapporto al rilievo che assumono le tecnologie più pervasive. Tutto ciò crea una continua messa a punto di tecnologie didattiche di tutti i tipi, che rendono la scuola assolutamente subalterna ai modelli della comunicazione di massa e al consumismo tecnologico, anche se in alcuni casi si presume di ricavarne non una adesione cieca, ma qualche parvenza di conoscenza «critica»12.

A parte i propositi di utilizzazione didattica della televisione, o di insegnamento delle tecniche cinematografiche, televisive o pubblicitarie, l'orizzonte tecnologico attuale è naturalmente dominato dall'informatica e dalla digitalità, dai computers e dalle reti telematiche. Forse senza rendersi conto della rapida obsolescenza a cui tanti strumenti andranno incontro in un brevissimo giro di anni, si prospetta una immissione indiscriminata di computers e una ubriacatura di Internet nella scuola: alle nuove tecnologie viene affidata addirittura la capacità di attuare in concreto, nell'orizzonte ambientale e comportamentale, i fondamenti delle pedagogie «progressiste». Interattività, multimedialità, comunicazione pluridirezionale, costruzione di percorsi personali, gioco e manipolazione libera di dati estratti da una memoria artificiale: tutto ciò condurrebbe a superare la tradizionale passività dell'allievo, renderebbe possibile una autentica individualizzazione dell'istruzione, il vero avvento di una scuola student-centered e project-based, che tra l'altro potrebbe contribuire anche a superare certe ineguaglianze e discriminazioni, a favorire (ma non si capisce mai bene come) i più poveri e i meno dotati13. Le svariate e bislacche, ingenue o sofisticate utopie alimentate dal diffondersi dell'informatica e delle reti, sottoscritte spesso in modo indiscriminato dalla cultura di sinistra, sono fatte proprie in modo ancor più acritico dalla pedagogia «progressista», certi esponenti della quale sembrano riconoscere rivoluzioni epistemologiche, soli dell'avvenire, nuove felici possibilità esistenziali, perfino dalle applicazioni più pedestri ed alienanti dell'informatica stessa14. Cosa potrà salvarci da questo accecamento tecnologico, da questo cumulo di illusioni, da questi investimenti mitici, da questa pericolosa mancanza di coscienza critica e di senso della contraddizione?

Note

1 Cito dalla trad. it., La scuoia nel labirinto, Armando, Roma 1986, p. 21.2 Con grande acume e non senza ironia Milner individua nella pedagogia una spinta a

rimettersi continuamente «a nuove procedure, sempre nuove e sempre promettenti, per dei domani sempre posticipati: si parla solo di metodi che sarebbero convenienti se per caso si dovesse insegnare qualche cosa, ma non c'è nulla da insegnare, perché tutto ciò che si deve insegnare è che dovrebbero esserci dei metodi rinnovati per l'insegnamento. In breve, nelle scuole medie e nei licei rinnovati dalla buona riforma, agli allievi non si parlerà d'altro che della scuola media e dei licei rinnovati» (La scuola nel labirinto, cit., p. 90).

3 La scuola nel labirinto, cit., pp, 110-12.4 Ibid., p. 25. 5 J. Muglioni, La gauche et l'école, in La République et l'école cit., pp, 277-278: l'orizzonte

politico (che è quello di una sinistra che «s'est mise a aimer cette société qu'elle révait, naguère encore, de changer ou, tout au moins, de rendre meilleure») si salda strettamente a quello pedagogico, con prospettive molto simili in atto nelle pratiche e nei progetti di riforma italiani: «apprendre une science en commenant par les dernières prouesses techniques, les moins instructives mais, croit-on, les plus rentables, se livrer à des activités réputées interdisciplinaires avant d'avoir acquis quelque discipline que ce soit, s'en tenir à la littérature du jour, quand ce n'est

17

pas au journal, sans la moindre attention pour les chefs-d'oeuvre qui ont fait notre langue et nourri notre pensée, confondre l'information et l'enseignement, l'image et l'idee. Et surtout refus de considérer le vrai en lui-méme».

6 Cfr. nelle già citate Osservazioni sulla scuola, quanto Gramsci osserva sullo studio grammaticale e «meccanico» delle lingue antiche; «c'è molta ingiustizia e improprietà nell'accusa di meccanicità e di aridità. Si ha a che fare con ragazzetti, ai quali occorre far contrarre certe abitudini di diligenza, di esattezza, di compostezza anche fisica, di concentrazione psichica su determinali soggetti che non si possono acquistare senza una ripetizione meccanica di atti disciplinati e metodici» {Quaderni del carcere, vol. III cit., p. 1544); e ancora, sui caratteri dello studio appropriato agli adolescenti: «In questo periodo... lo studio deve essere (o apparire ai discenti) disinteressato, non avere cioè scopi pratici immediati o troppo immediati, deve essere formativo, anche se 'istruttivo', cioè ricco di nozioni concrete» (Quaderni del carcere, vol. III cit., p. 1546). Proprio tutto il contrario delle pedagogie «moderne» e «democratiche»!

7 The Schools We Need. Doubleday, New York 1996, pp. 218-19.8 Milner ha messo in luce in tutta evidenza «l'analogia di struttura fra la pedagogia e i discorsi

della comunicazione»; il pedagogista tende a porsi come «il portavoce» della comunicazione, che riduce il senso della cultura alla pura forma del suo comunicarsi, perché in fondo «non si ha mai niente da dire, perché tutto ciò che si ha da dire è che ci sono dei nuovi media». La scuola nel labirinto cit., pp. 88-90.

9 Cfr. F. Frabboni, La didattica, una scienza che già c'è, in B. Vertecchi (a cura di). Il secolo della scuola. L'educazione nel Novecento cit., pp. 233-70 (in particolare p.233)

10 Ibid., p. 244.11 Desumo i termini, riferiti alle tecnologie didattiche, da R. Cerri Musso, Tecnologie

didattiche, in M. Gennari (a cura di), Didattica generale, Bompiani, Milano 1996, pp. 171-223 (cfr. p. 205).

12 Cosi «la didattica tecnologicamente configurata» riuscirebbe a «produrre "formazione alla tecnologia diffusa", ovvero a istituirsi come presidio educativo di fronte al rischio di inconsapevolezza con cui le giovani generazioni vivono immerse nella tecnologia senza esserne concettualmente e idealmente padrone» (R. Cerri Musso, Tecnologie didattiche cit., p. 173).

13 Per questa tematica, cfr. l'articolo del sociologo americano P. Starr, Davvero il computer può cambiare la scuola?, in «Reset», 33, novembre 1996, pp. 47-53 e 34, febbraio 1997, pp, 49-51. Per una proposta di uso didattico dell'informatica, criticamente orientata, vedi A. Pian, Computer. scuola e formazione. Orientamenti culturali e percorsi didattici. Centro Scientifico Editore, Torino 1996.

14 Davvero ineffabile questa dichiarazione di Roberto Maragliano, pedagogista «democratico» che tra l'altro è una delle «menti» del progetto di riforma del sistema scolastico presentato dal ministro Luigi Berlinguer: "II videogioco è la più grande rivoluzione epistemologica di questo secolo. Ti da una scioltezza, una densità, una percezione delle situazioni e delle operazioni che puoi fare al loro interno che permette di esaltare dimensioni dell'intelligenza e dello stare al mondo finora sacrificate dalla cultura astratta» (Maragliano: «La scuola ora si metta in gioco», intervista siglata L., D., M., in «l'Unità», 5 febbraio 1997), Dato che il Maragliano è stato nominato coordinatore di una commissione ministeriale per la discussione di quel progetto di riforma, di cui non fa parte nessun «italianista», può essere interessante citare anche la battuta successiva, con cui egli stesso si rivolge a chi lo intervista: «Lei preferisce che un pilota d'aereo abbia tatto videogiochi o che abbia letto la Divina Commedia?»; al che, tout se tient.

18

(Da Repubblica 4.10.02)

Il silenzio dei miei studenti che non sanno più ragionare di Marco Lodoli

L’ottimismo, anche se temperato dal dubbio e dal buon senso, è un dovere di ogni insegnante, che deve comunicare ai suoi alunni sempre e comunque un po' di fiducia nella vita. Dunque anche io cerco di vedere il bicchiere mezzo pieno, di incoraggiare ogni volontà di miglioramento e di rimarcare gli aspetti più belli dell'esistenza.

Eppure da un po' di tempo un pensiero atroce si è installato nella mia mente, mi tormenta, mi perseguita, e ormai sono arrivato al punto di doverlo assolutamente comunicare a chi per età, lavoro, interessi, è lontano dal mondo dei ragazzi. La cosa è questa: a me sembra che sia in corso un genocidio di cui pochi si stanno rendendo conto. A essere massacrate sono le intelligenze degli adolescenti, il bene più prezioso di ogni società che vuole distendersi verso il futuro.

Non dovete prendere questa mia affermazione in modo metaforico, e non dovete neanche pensare a una delle solite tirate contro i giovani che non hanno voglia di fare niente, che disprezzano i valori alti e la cultura. Non si tratta di denunciare un certo naturale menefreghismo e nemmeno l'inclinazione ossessiva al consumo che dimostrano i gruppi giovanili. La mia non è la sparata moralistica di chi rimpiange i bei tempi in cui i ragazzi leggevano tanti libri e facevano tanta politica. Io sto notando qualcosa di molto più grave, e cioè che gli adolescenti non capiscono più niente.

I processi intellettivi più semplici, un'elementare operazione matematica, la comprensione di una favoletta, ma anche il semplice resoconto di un pomeriggio passato con gli amici o della trama di un film, sono diventati compiti sovrumani di fronte ai quali gli adolescenti rimangono a bocca aperta, in silenzio. Le qualità sentimentali sono rimaste intatte, i miei alunni amano, odiano, fanno amicizia, si emozionano, si indignano, arrossiscono, ridono, piangono, tutto come sempre — ma le capacità logiche, mentali, paiono irreparabilmente compromesse.

In ogni classe ormai ci sono almeno due o tre studenti che hanno bisogno dell'insegnante di sostegno: voi penserete che si tratti di ragazzi affetti da qualche handicap fisico o da qualche grave disturbo mentale, ma spesso non è così. All'inizio è persino difficile distinguerli dagli altri, perché nella classe paiono tutti ugual- mente storditi, come se i cervelli avessero subito qualche lieve ammaccatura. Questi quindicenni sono sani e pressoché normali, e a me sembrano solamente l'avanguardia di un mondo diretto verso le tenebre. Semplicemente non capiscono niente, non riescono a connettere i dati più elementari, a stabilire dei nessi anche minimi tra i fatti che accadono davanti a loro, che accadono a loro stessi. Ripeto: sono appena più inebetiti degli altri, come se li precedessero di qualche metro appena nel cammino verso il nulla.

Loro vengono considerati ragazzi in difficoltà, ma i compagni di banco, quelli della fila davanti o dietro, stanno quasi nelle stesse condizioni. Gli insegnanti si fanno in quattro, cercano di rendere le lezioni più chiare, più dirette, si disperano e si avviliscono, ma non c'è niente da fare, le parole si perdono nel vento, sono semi che rimbalzano su una terra asciuttissima che non fiorisce mai.

La cosa più triste è che questo deficit progressivo dell'intelligenza si nota soprattutto nei ragazzi delle classi sociali più povere. I giovani borghesi hanno in casa libri, dischi e computer, hanno genitori ambiziosi e fratelli in carriera, hanno cento stimoli in più per andare avanti decifrando in qualche modo la realtà. I giovani delle borgate sono avvolti da un'ottusità che fa male. Veramente non capiscono nemmeno chi sono e cosa stanno facendo, spesso non sanno più incollare una parola all'altra, un pensierino a un altro pensierino. Sono perduti in una demenza progressiva e spaventosa. Crescono rintronati dalla televisione, dalla pubblicità e da miti bugiardi, da una promessa di felicità a buon mercato, da mille sirene che cantano a squarciagola, e accanto a loro non c'è altro che riesca a farsi spazio. E così, poco alla volta, perdono ogni facoltà intellettiva, fino a diventare totalmente ottusi.

Sia chiaro: il problema non è che non sappiano nulla di una guerra imminente o dell'Europa unita o di chi ha vinto l'ultimo festival del cinema a Venezia; il problema è che non riescono a ragionare su nessun argomento, perché qualcosa nella testa si è sfasciato. Vi prego di credermi, non sono un apocalittico, non grido al lupo al lupo solo per creare apprensione. Sono semplicemente un testimone quotidiano di una tragedia immensa. Il

19

nostro mondo è in pericolo non solo per l'inquinamento, la violenza, l'ingiustizia, il prosciugamento delle risorse prime. La nostra civiltà rischia grosso soprattutto perché la confusione sta producendo esseri disadattati, creature che non saranno in grado di cavarsela, milioni di giovani infelici che strada facendo — la strada che noi adulti abbiamo disegnato — hanno perduto il pensiero. Dopo essersi spente nelle campagne, le lucciole ora si stanno spegnendo anche nelle teste.

20

Da Repubblica del 13-10-2003

"Cari prof, non ci piacete" bocciati da due studenti su tre. Insensibili, poco comunicativi, indifferenti ai giovani"

Lo rivela una ricerca su mille ragazzi dai 16 ai 19 anni, realizzata dal mensile Campus. La provocazione: prendete esempio dai divi dello spettacolo "Cari prof, non ci piacete" bocciati da due studenti su tre. Insensibili, poco comunicativi, indifferenti ai giovani""Non sanno nulla di musica tecnologia e droghe leggere" "Ignorano il nostro mondo, sono trascurati anche nel vestire" MARIA NOVELLA DE LUCA

ROMA - Bocciati in globalizzazione, moda, tecnologie, piercing, musica e droghe leggere. Trascurati nel vestire, insensibili ai problemi degli studenti, poco coinvolgenti durante le lezioni, per nulla informati sul mondo del lavoro e terribilmente lontani dalle immagini levigate dei divi della tv. Che poi conoscano la loro materia, e siano aggiornati, come sembra, su calcio e sport, non è che cambi molto il giudizio finale. Cari prof non ci piacete. Così hanno decretato mille studenti tra i 16 e i 19 anni intervistati dal mensile Campus, un´indagine per capire che cosa manca, davvero, agli insegnanti italiani per essere considerati dei "maestri". Al primo posto tra le critiche alla scuola i ragazzi hanno indicato (68%) proprio i professori, poi le condizioni fatiscenti degli istituti. Alla domanda "ti è mai capitato di parlare dei tuoi problemi con un insegnante?", il 69% ha risposto "no, mai". Oltre la cattedra, insomma, il silenzio. Dalla ricerca affiora anche l´identikit di un certo modello di studente. Che critica i prof per il loro modo di vestire (dimesso e trasandato), manderebbe insegnanti e presidi a scuola dai personaggi delle soap, e soprattutto (ma forse la risposta è ironica) sogna in cattedra Maria De Filippi, Alessia Marcuzzi, Fabio Volo, Lorenzo Ciompi e Piero Chiambretti.

"Sinceramente non mi ritrovo nei modelli proposti da questa ricerca - commenta Giovanni Salvi, 18 anni, ultimo anno di Tecnico Commerciale e coordinatore dell´Unione Studenti - se non quando si afferma che i prof sono ignoranti sui temi della globalizzazione. Del loro modo di vestire non me ne importa nulla, e devo dire che negli anni ho incontrato diversi docenti con cui è stato possibile parlare, prof che danno quel "qualcosa in più" oltre all´ora di lezione. Il punto vero è un altro: dietro tutte queste critiche, secondo me, c´è un malessere per la mancanza di spazi di rappresentanza dei giovani nella scuola". Forse. Ma le affermazioni del questionario sembrano più "personali" che "politiche", come se gli studenti si sentissero delusi dal disinteresse del mondo adulto per tutto ciò che compone il loro mondo under. "Difendo la mia totale ignoranza in fatto di mode, tatuaggi e simili - risponde Massimo Pierro, docente di Storia e Filosofia al liceo Visconti di Roma - gli studenti devono pretendere da me che io sia preparato in ciò che insegno, non che discuta del loro anello al naso. Non sono d´accordo nemmeno con le critiche al look dei professori". Già, ma c´è un universo ben definito dietro quelle risposte. "I ragazzi si lamentano della mancanza di un rapporto personale - dice Pierro - ci chiedono di parlare del loro stile. Sono richieste che dovrebbero fare ai loro genitori. Per quanto mi riguarda insegno da anni e sono sempre rimasto in contatto con i miei ex studenti. Quello che mi preoccupa, invece, sono i modelli di riferimento ai quali noi dovremmo ispirarci: Maria De Filippi, Fabio Volo, Emilio Fede. Speriamo che sia una provocazione...".

21

La Repubblica: La cultura viene percepita come un ferrovecchio ingombrante e fastidiosoVince l´illusione di una vita come la ribalta tv La cultura viene percepita come un ferrovecchio ingombrante e fastidioso MARCO LODOLI Che gli alunni non amino visceralmente i loro professori è cosa talmente nota che forse non serviva un sondaggio a ricordarcelo. Tutti quanti abbiamo stampati nella memoria i nostri professori di un tempo: e ce n´erano tanti veramente bizzarri, scorbutici, infelici, prepotenti, a volte sfaticati, spesso noiosi. Basta rivedere l´inizio di Amarcord, con quella collezione di insegnanti strampalati, persi nelle loro lezioni ripetute anno dopo anno fino allo sfinimento, e del tutto incapaci di capire cosa accadeva nella classe. Ora agli insegnanti si chiede giustamente di non essere solo degli esperti nella loro materia, ma anche di saper cogliere gli umori degli alunni, la debolezza di uno, la crisi familiare di un altro, l´aria pericolosamente stordita di un terzo.Ma questo sondaggio ci racconta che nonostante tutti gli sforzi il fossato resta largo e che i ragazzi considerano quegli adulti in cattedra vecchi babbioni incapaci di aggiornarsi sulle mode giovanili, sull´evoluzione della musica e del costume, su tutto ciò che conta davvero. Universi opposti continuano a come sempre scontrarsi, a stridere. Quello che colpisce, semmai, sono le nuove accuse che i ragazzi muovono, e il tipo di cultura che produce queste accuse. Almeno a dare retta al sondaggio, i professori vengono rimproverati perché vestono male, perché non somigliano in nulla ai personaggi vincenti della televisione, perché parlano difficile e non comunicano come i comici e gli attori più simpatici.Questi severi appunti ci dicono qualcosa della scuola e parecchio del mondo in cui oggi viviamo. Ci dicono, ad esempio, che la cultura viene recepita come un ferrovecchio ingombrante o addirittura fastidioso. Conta poco imparare a leggere un libro, risolvere un´equazione, orientarsi tra i secoli della storia. Conta niente concentrarsi - e la concentrazione è spesso una pratica dolorosa - per penetrare un problema filosofico o matematico. Mille volte di più contano la giacca che indossi, la maglia griffata, la macchina che parcheggi davanti alla scuola. Se sei un poveraccio con i polsini sfilacciati e una Ritmo ammaccata, oggi non puoi insegnare niente a nessuno, perché evidentemente tu per primo non hai saputo tradurre quelle conoscenze nelle uniche cose che valgono davvero: il denaro e il successo.A fidarsi del sondaggio, le cose stanno esattamente così. Ciò che più dispiace è che queste sono le posizioni dei giovani, che da sempre immaginiamo portatori di un idealismo magari un po´ ingenuo, di quell´energia nobile e pura che sa mettere in imbarazzo il cinismo degli adulti. Il mondo è sempre andato avanti in questo modo: i vecchi si irrigidiscono in un realismo asfittico e i giovani li incalzano con la bufera delle loro emozioni disinteressate, nobili, spesso incomprensibili, e la vita si rinnova.Ora pare che la giostra abbia iniziato a girare nel senso opposto. Io arrivo a scuola (scuola di periferia, lo ricordo sempre, la più lontana dalle ansie culturali, la più vicina al televisore) portando riviste di musica, i cd dei Radiohead o di Capossela, i libri appena usciti, gettando sul tappeto argomenti d´attualità che mi paiono vitali, e spesso vado a sbattere su commenti tipo: «Professò, ste cose interessano solo a lei e a quattro matti come lei, a noi ce piacciono la De Filippi e Gigi D´Alessio, i tatuaggi e le vetrine del centro commerciale. Quando butta quel catorcio di vespa?».

Bisogna prendere atto della realtà, senza farsi soverchie illusioni. Il consumismo più becero, la cultura dell´immagine, l´illusione di una vita che sia come un palcoscenico televisivo dove si ride e si balla, picchia e mena l´hanno avuta vinta. Vinta alla grande. E noi non possiamo far finta di sorprenderci.

22

Da “Repubblica”

Censurato il suo messaggio di ringraziamento. Von Trier rifiuta il premio di pace"Datelo agli amici di Bush"dal nostro inviato MARIA PIA FUSCO

BERLINO - Un premio per la pace ed è subito guerra (di comunicati). Destinatario del premio assegnato dal Comitato per il cinema di pace era Lars von Trier, che, assente per tradizione, aveva inviato in video un discorso di ringraziamento dai toni ironici, video che però nella serata ufficiale per la raccolta di fondi Unicef - 600 illustri ospiti tra i quali Liza Minnelli e Christopher Lee, la raccolta è stata di 500 mila dollari - era stato censurato.

Dopo i ringraziamenti di rito, von Trier diceva: "Il popolo del mondo è come due tribù nel deserto, una tribù vive in un paese con un pozzo, l'altra in un paese senza pozzo. La tribù con il pozzo vuole la pace, l'altra non vuole la pace, vuole l'acqua! La tribù senza pozzo forse è meno civilizzata, non ha una parola per dire pace, ma ne ha una per dire sete, che, data la situazione, è più o meno la stessa cosa. Il Comitato per la Pace nel paese con il pozzo, è buono, saggio, sano, gente bella che non ha sete, perciò ha tempo ed energia per il comitato. La gente con il pozzo parla molto di premi per la pace da dare ad altra gente che vive nel paese con il pozzo. Quelli del paese senza pozzo non parlano molto di premi per la pace...". I collaboratori del regista danese, presenti alla serata, dopo la censura, hanno restituito il premio: "Lo diano a qualcuno che sia più amico di Bush!".

E' curioso che sia accaduto a Berlino, dove pace, guerra e tragedie piccole e grandi del mondo sono temi che attraversano molti dei film del festival e dove, proprio ieri, è stato presentato La sorgente del fiume di Theo Anghelopoulos, prodotto da Amedeo Pagani e dall'Istituto Luce, la cui versione italiana curata da Carlo Di Carlo uscirà il 27 febbraio. Il film, a cui ha collaborato Tonino Guerra, è il primo della trilogia con cui Anghelopoulos intende "raccontare il secolo trascorso, attraverso le sue tragedie e le sue speranze, facendo anche una sorta di riassunto del mio cinema".

(13 febbraio 2004)

23