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I beni comuni tra rete e reti: il successo di una comunicazione plurale e diversa Francesca Belotti Dottore di Ricerca in “Linguaggi Politici e Comunicazione”, Sapienza Università di Roma Introduzione Il referendum contro la privatizzazione del servizio idrico, indetto in Italia nel giugno del 2011 sotto l’egida dello slogan “Acqua Bene Comune”, ha avuto il merito di lanciare il tema dei beni comuni all’attenzione dell’opinione pubblica e del dibattito scientifico. Esso ha attivato un processo di riconoscimento sociale e vivificazione semantica della nozione, rintracciabile in diverse sperimentazioni politiche messe in campo in questi anni dalla società civile e dai movimenti, entro le azioni di difesa e/o riappropriazione (commoning) di beni percepiti, appunto, come “comuni”. L’epiteto, associato all’acqua prima, e ad altre risorse poi (cultura, Rete, terra, etc.), ha funzionato da risorsa retorica a forte valenza apologetica, capace di mobilitare i cittadini al Sì contro la privatizzazione del servizio idrico e, di lì in avanti, anche alla gestione cooperativa di beni (ad es., il Teatro Valle di Roma o il Teatro dell’ex Asilo Filangieri di Napoli) che hanno una sentita utilità sociale. A partire dai risultati emersi nell’ambito della tesi dottorale “Il bene comune tra scienza e senso comune. Linguaggi, concezioni ed esperienze”, questo contributo darà conto di quali siano stati i canali e le forme di comunicazione privilegiate dalla cittadinanza per informarsi su un evento “sensibile” come quello del referendum in esame, quali siano state le parole d’ordine che hanno mobilitato al voto referendario e quale fosse il significato attribuito all’espressione “bene comune” da parte delle persone che si sono schierate contro la privatizzazione del servizio idrico. Dai beni comuni al bene comune: quale comunicazione? In letteratura i beni comuni incontrano una propria definizione tecnico-scientifica utile a individuare le caratteristiche che qualificano specifiche risorse come tali. Nell’ambito del Diritto, i lavori della Commissione Rodotà, chiamata nel 2007 a riformare la disciplina dei beni pubblici (Libro III c.c.), sono il punto di riferimento privilegiato. Recuperando le forme di appartenenza collettiva già presenti nel diritto romano e l’approccio reicentrico dell’ordinamento giuridico medievale, la Commissione ha inaugurato la categoria dei beni comuni, terza rispetto a quella dei beni pubblici e privati. Si tratta di «beni a titolarità diffusa» che appartengono a tutti e a ciascuno perché esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona, e che sono informati al principio di salvaguardia intergenerazionale delle utilità 1 . Essi servono immediatamente la collettività in persona dei suoi membri e, per questo, la loro amministrazione economica e politica deve seguire una logica di lungo periodo e criteri di reale partecipazione democratica affinché essi possano assolvere alla loro funzione. A tal fine, i lavori di Elinor Ostrom dimostrano come, trattandosi di risorse non escludibili ma rivali 2 , e dunque “tragicamente” esauribili 3 , il modello di gestione più adatto per i beni comuni sia quello della cooperazione 4 . Superando la dicotomia statalizzazione-privatizzazione tradizionalmente proposta dalle scienze economiche, Ostrom propone quindi una terza via: dall’analisi empirica di numerosi casi di studio, dimostra come le singole comunità di utilizzatori, trovandosi in una condizione di prossimità al bene, siano in grado di elaborare in maniera endogena norme e istituzioni più “anatomiche” alle caratteristiche dei beni, e dunque, più adatte a gestirli e utilizzarli secondo i criteri della preservazione, condivisione ed ecosostenibilità. Tuttavia, per dare conto di come una comunità di utilizzatori decida che un bene è “comune” e di quali siano i meccanismi che sovrintendono alla deliberazione collettiva sulla gestione di tale bene, è necessario elevare la discussione su un piano politico e sociale. Come avviene il processo di costruzione sociale e di partecipazione politica 1 Mattei, U., Reviglio, E. e Rodotà, S. (a cura di), I beni pubblici. Dal governo democratico dell’economia alla riforma dei beni pubblici , Bardi Scienze ed Arti, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 2010, pp. 85- 95. 2 In questo lavoro, ci si riferisce nello specifico a risorse materiali e naturali, come l’acqua, sebbene sia necessario precis are che esistono anche beni comuni immateriali e artificiali, quali la conoscenza, per cui non valgono i cirteri della non escludibilità e rivalità. La scelta di fare riferimento ai soli beni comuni naturali e materiali dipende dal fatto che rispetto a questi beni la percezione di molte delle proprietà specifiche è spesso più immediata. E in questo senso si spiega anche il motivo per cui è stato individuato come caso di studio il solo referendum contro la privatizzazione del servizio idrico (e non anche tutti e quattro i referendum convocati nel giugno del 2011): l’epiteto “bene comune” potrebbe aver influito più facilmente e direttamente sugli italiani, proprio perché associato a una risorsa naturale e materiale come l’acqua. 3 Hardin G., The Tragedy of Commons, in «Science», 162, 3859, 1968, pp. 1243-1248. 4 Ostrom E., Governing the Commons. The Evolution of Institutions for Collective Action, Cambridge University Press, Cambridge 1990.

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I beni comuni tra rete e reti: il successo di una comunicazione plurale e diversa

Francesca Belotti

Dottore di Ricerca in “Linguaggi Politici e Comunicazione”, Sapienza Università di Roma

Introduzione

Il referendum contro la privatizzazione del servizio idrico, indetto in Italia nel giugno del 2011 sotto l’egida dello

slogan “Acqua Bene Comune”, ha avuto il merito di lanciare il tema dei beni comuni all’attenzione dell’opinione

pubblica e del dibattito scientifico. Esso ha attivato un processo di riconoscimento sociale e vivificazione semantica

della nozione, rintracciabile in diverse sperimentazioni politiche messe in campo in questi anni dalla società civile e

dai movimenti, entro le azioni di difesa e/o riappropriazione (commoning) di beni percepiti, appunto, come “comuni”.

L’epiteto, associato all’acqua prima, e ad altre risorse poi (cultura, Rete, terra, etc.), ha funzionato da risorsa retorica a

forte valenza apologetica, capace di mobilitare i cittadini al Sì contro la privatizzazione del servizio idrico e, di lì in

avanti, anche alla gestione cooperativa di beni (ad es., il Teatro Valle di Roma o il Teatro dell’ex Asilo Filangieri di

Napoli) che hanno una sentita utilità sociale.

A partire dai risultati emersi nell’ambito della tesi dottorale “Il bene comune tra scienza e senso comune. Linguaggi,

concezioni ed esperienze”, questo contributo darà conto di quali siano stati i canali e le forme di comunicazione

privilegiate dalla cittadinanza per informarsi su un evento “sensibile” come quello del referendum in esame, quali

siano state le parole d’ordine che hanno mobilitato al voto referendario e quale fosse il significato attribuito

all’espressione “bene comune” da parte delle persone che si sono schierate contro la privatizzazione del servizio

idrico.

Dai beni comuni al bene comune: quale comunicazione?

In letteratura i beni comuni incontrano una propria definizione tecnico-scientifica utile a individuare le caratteristiche

che qualificano specifiche risorse come tali.

Nell’ambito del Diritto, i lavori della Commissione Rodotà, chiamata nel 2007 a riformare la disciplina dei beni

pubblici (Libro III c.c.), sono il punto di riferimento privilegiato. Recuperando le forme di appartenenza collettiva già

presenti nel diritto romano e l’approccio reicentrico dell’ordinamento giuridico medievale, la Commissione ha

inaugurato la categoria dei beni comuni, terza rispetto a quella dei beni pubblici e privati. Si tratta di «beni a titolarità

diffusa» che appartengono a tutti e a ciascuno perché esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali

nonché al libero sviluppo della persona, e che sono informati al principio di salvaguardia intergenerazionale delle

utilità1. Essi servono immediatamente la collettività in persona dei suoi membri e, per questo, la loro amministrazione

economica e politica deve seguire una logica di lungo periodo e criteri di reale partecipazione democratica affinché

essi possano assolvere alla loro funzione. A tal fine, i lavori di Elinor Ostrom dimostrano come, trattandosi di risorse

non escludibili ma rivali2, e dunque “tragicamente” esauribili

3, il modello di gestione più adatto per i beni comuni sia

quello della cooperazione4. Superando la dicotomia statalizzazione-privatizzazione tradizionalmente proposta dalle

scienze economiche, Ostrom propone quindi una terza via: dall’analisi empirica di numerosi casi di studio, dimostra

come le singole comunità di utilizzatori, trovandosi in una condizione di prossimità al bene, siano in grado di

elaborare in maniera endogena norme e istituzioni più “anatomiche” alle caratteristiche dei beni, e dunque, più adatte a

gestirli e utilizzarli secondo i criteri della preservazione, condivisione ed ecosostenibilità.

Tuttavia, per dare conto di come una comunità di utilizzatori decida che un bene è “comune” e di quali siano i

meccanismi che sovrintendono alla deliberazione collettiva sulla gestione di tale bene, è necessario elevare la

discussione su un piano politico e sociale. Come avviene il processo di costruzione sociale e di partecipazione politica

1 Mattei, U., Reviglio, E. e Rodotà, S. (a cura di), I beni pubblici. Dal governo democratico dell’economia alla riforma dei beni pubblici, Bardi

Scienze ed Arti, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 2010, pp. 85- 95. 2 In questo lavoro, ci si riferisce nello specifico a risorse materiali e naturali, come l’acqua, sebbene sia necessario precisare che esistono anche

beni comuni immateriali e artificiali, quali la conoscenza, per cui non valgono i cirteri della non escludibilità e rivalità. La scelta di fare

riferimento ai soli beni comuni naturali e materiali dipende dal fatto che rispetto a questi beni la percezione di molte delle proprietà specifiche è

spesso più immediata. E in questo senso si spiega anche il motivo per cui è stato individuato come caso di studio il solo referendum contro la

privatizzazione del servizio idrico (e non anche tutti e quattro i referendum convocati nel giugno del 2011): l’epiteto “bene comune” potrebbe

aver influito più facilmente e direttamente sugli italiani, proprio perché associato a una risorsa naturale e materiale come l’acqua. 3 Hardin G., The Tragedy of Commons, in «Science», 162, 3859, 1968, pp. 1243-1248. 4 Ostrom E., Governing the Commons. The Evolution of Institutions for Collective Action, Cambridge University Press, Cambridge 1990.

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che conduce ai risultati proposti da Ostrom, volendo contestualizzare la riflessione sulle deliberazioni collettive

all’interno dei sistemi democratici contemporanei?

Di fronte alla crisi che investe attualmente la democrazia rappresentativa5, è anzitutto opportuno rendere più effettiva

la partecipazione politica, non limitandola alla mera consultazione ma coinvolgendo realmente la cittadinanza in tutte

le fasi della deliberazione6. Sarebbe utile, quindi, un potenziamento degli strumenti di democrazia diretta già esistenti

e degli istituti della democrazia partecipativa (o deliberativa)7 attraverso i quali si estende il monopolio del potere

decisionale anche alla cittadinanza, chiamata così a deliberare su quale sia la gestione da mettere in campo per i beni

che, in ragione della loro particolare natura, sono percepiti come “comuni”. Inoltre, non si può trascurare l’importanza

del conflitto come condizione di effettività della partecipazione: lo spazio politico è un campo di contesa permanente

tra soggettività e interessi contrastanti, caratterizzato da un’inevitabile tensione conflittuale8. Il combinato di disposto

di questi elementi consente, così, di concepire la decisione politica come un potere diffuso e, al tempo stesso, come un

processo permanente animato da una pluralità di soggetti che s’incontrano/scontrano per decidere cosa sia di volta in

volta “bene comune” e come gestirlo.

Dunque, il legame che esiste tra beni comuni e democrazia è la partecipazione, l’autogoverno e la difesa (azioni di

commoning) dei beni percepiti come “comuni”: non è un caso, infatti, che lo slogan più ricorrente durante l’intera

campagna referendaria del 2011 fosse “Si scrive acqua, si legge democrazia”. È in questo legame, altresì, che si

rintraccia il nesso tra il bene comune, inteso come concetto astratto, e i beni comuni, intesi come referenti

esperienziali: la difesa o gestione partecipata dei secondi comporta l’individuazione e la partecipazione al primo. Le

azioni di commoning sembrano risalire, quasi per cerchi concentrici, dalla tutela e gestione corresponsabile dei beni

strategici prossimi ai cittadini fino al governo della res publica, e facilitano l’elaborazione di una cornice valoriale

condivisa e deliberata collettivamente. Così, il bene comune come concetto astratto è oggetto di disputa e condivisione

allo stesso tempo: si elabora nella relazione (cum) che tiene unita una comunità di persone in funzione dei beni

(munus) che hanno in comune; ne è il prodotto e il processo. La stessa comunità si costituisce e si riconosce come tale

nell’incontro/scontro della deliberazione collettiva sui beni comuni/bene comune: essa sorge nella e dalla azione di

commoning e ha, per questo, natura moltitudinaria in quanto si viene configurando come rete di singolarità che non si

unificano ma persistono come tali, organizzandosi e impegnandosi per ciò che hanno, appunto, in comune9.

La sfida che i beni comuni pongono oggi è, dunque, aggiornare le procedure e i dispositivi della decisione politica,

valorizzando pratiche comunicative che consentano il confronto/scontro tra i differenti punti di vista in campo. Per

5 Bobbio N., Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino 2005. 6 Elster, J., Deliberative Democracy, Cambridge University Press, Cambridge 1998; Cotturri, G., La democrazia partecipativa; in «Democrazia

e diritto», 1, 2005, pp. 27-40; Bobbio, L., La democrazia deliberativa nella pratica; in «Stato e Mercato», 1, 2005, pp. 67-88. 7 L’espressione “democrazia deliberativa” viene comunemente usata nel senso di processo di argomentazione e discussione. Tuttavia vi è chi

sceglie l’uso italiano, assumendo allora che la democrazia deliberativa è la forma più specifica e rilevante della democrazia partecipativa perchè

si concretizza non solo in procedure di consultazione ma nella assunzione di decisioni comuni. La prima differenza tra i due termini risiede nella

«diversità delle origini, in senso sia temporale che geografico»: la democrazia deliberativa nasce «nell’originario ambiente anglo-americano

[…]dunque prettamente occidentale, sia pure per essere teorizzata solo nella seconda metà del novecento, dai teorici nordamericani agli sviluppi

habermasiani della Scuola di Francoforte»; la democrazia partecipativa, invece, «si sviluppa sulla fine di quello stesso secolo in ambiente latino-

americano». Un’ulteriore differenza «sta nel rapporto teoria-pratica: sebbene entrambe queste declinazioni della democrazia ospitino entrambe le

dimensioni, la teorica e la pratica, nella democrazia deliberativa la dimensione teorica riflette una pratica […] realizzata in un ambiente

relativamente stabile e la innalza a una tensione di teoria molto forte; la democrazia partecipativa concettualizza in maniera semplice le pratiche

partecipative inventate da una realtà in subitaneo movimento». Inoltre, risulta distinta la dimensione sociale in cui si sviluppano i due modelli:

«ambiente economicamente evoluto quello della democrazia deliberativa, legata alla società dei poveri (quanto meno nel continente d’origine) la

partecipativa. La prevalenza dello spirito della tradizione illuministica si respira nella democrazia deliberativa, e dunque l’obiettivo è portare la

società alla maturità della ragione; nella partecipativa è la prassi di liberazione dei poveri che importa. Tuttavia netti sono gli elementi di

comunanza. La reazione alle deficienze della democrazia rappresentativa costituisce la spinta decisiva di entrambe e ciò che ne delinea

l’orizzonte di movimento. Entrambe hanno bisogno di andare oltre il puro conflitto e la pura affermazione degli interessi, condividono una

dimensione morale forte, intendono superare la democrazia puramente aggregativa della tradizione rappresentativa ed elettorale;

all’individuazione -pur nel pluralismo di un terreno comune all’intera società nella prima-, corrisponde nella seconda la costruzione in avanti

dell’uguaglianza nella diversità. Sono gli elementi di comunanza che spiegano le sovrapposizioni, anche esplicite, che si trovano nelle trattazioni

sulla democrazia deliberativa e nelle riflessioni sulla democrazia partecipativa». Allegretti, U., Democrazia partecipativa e processi di

democratizzazione, relazione generale al Convegno “La democrazia partecipativa in Italia e in Europa: esperienze e prospettive”, Firenze 2 e 3

Aprile 2009, disponibile anche in «Democrazia e diritto», 2, 2008, pp. 4-5. 8 Ci riferiamo ala nozione schmittiana del “politico”, inteso come concetto distinto e separato dalla “politica” e dallo Stato. Il primo termine

indica un’energia conflittuale; il secondo un’architettura istituzionale concreta. La politica che nasce dal politico è sempre polemica, mai

neutrale perché il politico riapre lo spazio per il riconoscimento di tale energia conflittuale insita in ogni forma politica. Schmitt, C. (2005), Le

categorie del «politico», Il Mulino, Bologna. 9 Negri, A., Cinque lezioni di metodo su moltitudine e impero, Rubettino, Catanzaro 2003, p. 49-64; Virno, P., E così via, all’infinito. Logica e

antropologia, Bollati Boringhieri, Torino 2010, p. 198.

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questo, è importante che la comunicazione politica diventi un’espressione sociale di per sé plurale, come prerequisito

per la maturazione di una decisione politica che è oggetto di disputa continua entro uno spazio comune che implica

costitutivamente l’alterità. È nell’interazione tra le singolarità che matura la costruzione di «comunità di reazioni»

dalle quali le emozioni diventano «intenzioni ad agire»10

. Pertanto, la comunicazione politica, in virtù del suo potere di

sollecitare forze latenti già presenti in seno alla società e orientarle ad azioni collettive, deve diventare una procedura

attraverso cui tutti i cittadini s’informano e informano il discorso democratico. Deve configurarsi come orizzontale,

porosa, in modo che emittenti e destinatari si trovino allo stesso livello e prendano parte alla deliberazione comune.

Quest’ultima, chiaramente, non può avvenire entro un’unica assemblea di massa, in ragione della complessità che

caratterizza le società contemporanee; piuttosto, si elabora nelle conversazioni che scorrono lungo le reti di

associazioni e organizzazioni che legano gli individui allo spazio politico comune. La natura “molecolare”11

di tale

spazio rimanda, dunque, ad una comunicazione reticolare ed eterogenea che consente di implicare target diversificati

per generi, età e status sociali. La Rete, da questo punto di vista, ben si presta a coinvolgere in maniera capillare un

bacino di cittadinanza ampio e variegato cui proporre la messa in comune d’informazioni e opinioni. In effetti, le

nuove tecnologie abilitano alla presa di parola e alla condivisione di significato tramite lo scambio libero di contenuti

su Internet, raggiungendo audience potenzialmente globali12

. Tuttavia, la comunicazione politica online non produce

di per sé conseguenze partecipative, ma ridisegna solo i sistemi relazionali e le dinamiche organizzative13

. I media

digitali, infatti, non possono essere considerati mcluhaniamente “agenti di storia”, anche perché gli scenari della futura

cittadinanza elettronica non sono privi di rischi14

e la partecipazione stessa può spesso ridursi a mera adesione virtuale.

Inoltre, la Rete «non sembra aver ancora dimostrato una vera capacità di consolidamento nei momenti di ‘routine’ del

processo politico»15

. Dunque, è ancora la comunicazione in persona, dislocata territorialmente e lungo i legami sociali,

che consolida la partecipazione politica e la costruzione sociale del bene comune; e come vedremo, il referendum per

l’acqua del 2011 si è rivelato un evento sufficientemente eloquente da questo punto di vista.

Alla luce di quanto evidenziato, possiamo convenire sul definire “bene comune” ogni risorsa (naturale e materiale) che

cumulativamente: appartiene a tutti e a ciascuno allo stesso tempo, perché dà accesso ai diritti fondamentali della

persona senza discriminazioni di sorta; ha bisogno di essere gestita e utilizzata in forma partecipata ma responsabile,

secondo i principi della preservazione della risorsa stessa (cui tutti devono poter avere accesso, ivi comprese le

generazioni future), e del rispetto dell’ecosistema entro cui questa si trova; è comunitaria in quanto percepita come

espressione di valori e principi condivisi da una comunità di persone che si aggrega e si auto-determina come soggetto

collettivo politico proprio in ragione del rapporto con il bene.

Per tradurre in termini operativi tale definizione stipulativa ed esplicativa, si sono specificate quattro dimensioni di

significato e relativi indicatori dell’essere “bene comune” di una risorsa16

. La prima dimensione di significato è quella

della funzione dei beni comuni, in cui confluiscono gli indicatori della titolarità diffusa (ivi inclusa quella delle

generazioni future), dell’accesso ai diritti fondamentali, della garanzia dell’uguaglianza e del carattere comunitario di

queste risorse, così come evidenziato dai lavori della Commissione Rodotà. La seconda dimensione di significato è

quella della gestione, in molti aspetti coincidente con quella dell’utilizzo, proprio perché, stando agli studi di Ostrom,

sono chiamati ad amministrare questi beni proprio coloro che li utilizzano. Confluiscono in queste due dimensioni gli

indicatori della partecipazione e della responsabilità (intese sia dal punto di vista politico-gestionale, sia dal punto di

vista della contribuzione economica), ma anche quelli della ecosostenibilità e della salvaguardia intergenerazionale,

così come gli indicatori della non escludibilità e della rivalità. L’ultima dimensione di significato è quella valoriale-

10 Lombardo, C., Pensare la politica sociologicamente. Linee guida per un programma di ricerca, in «Sociologia e ricerca sociale», 81, 2006,

pp. 5-12. 11 Con l’attributo “molecolare” intendiamo rimandare - anche allegoricamente - alla capacità della moltitudine che abita lo spazio politico di

disegnare reti non omogenee, che non confluiscono in ampli aggregati unitari ma che producono costantemente differenza attraverso un’azione

politica caratterizzata da dissenso e divenire permanente. 12 Il riferimento è chiaramente al concetto di “mass self-communication”. Castells, M., Communication Power, Oxford University Press, Oxford

2009. 13 Netchaeva, I., E-government and E-democracy. A Comparison of Opportunities in the North and South, in «International Communication

Gazette», 64, 2002, pp. 467-477. 14 Gli utenti Internet possono filtrare le comunicazioni e partecipare a discussioni che corrispondono alle proprie opinion e credenze

(polarizzazione); inoltre la connettività elettronica determina una segmentazione e isolamento delle comunità e delle conversazioni

(balcanizzazione). Levine, P., The Internet and Civil Society. In: «Philosophy and Public Policy», 20, 4, 2000, pp. 1-9; Sunstein, C. R.,

Republic.com 2.0, Princeton University Press, Princeton, NJ 2007. 15 Morcellini, M., Nonostante l’impar condicio. Vecchi media, tecnologie di rete e cambiamenti socioculturali, www.federalismi.it, 2011. 16 Lazarsfeld P.F., Evidence and Inference in Social Research, in «Daedalus», 87, 4, 1958.

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relazionale: il bene comune è inteso come progetto collettivo in fieri, come tensione a realizzare i principi desiderati

per la vita politica della comunità. Esso nasce e si definisce entro lo scambio/scontro di opinioni e volontà personali,

ed è di volta in volta individuato entro la relazione che unisce una collettività. Per questo confluiscono in un’unica

dimensione di significato gli indicatori riferibili tanto agli aspetti valoriali quanto a quelli relazionali (garanzia

d’uguaglianza, capacità aggregante, carattere comunitario delle risorse percepite come espressione di valori e principi

condivisi), giacché gli uni implicano gli altri. Vedremo se e quali di questi aspetti tecnico-scientifici che qualificano

una risorsa come “bene comune” siano stati effettivamente stati colti da coloro che hanno votato Sì per l’“Acqua Bene

Comune”.

Il caso di studio del referendum per l’“Acqua Bene Comune”

Il referendum del giugno 2011 convocava gli italiani ad esprimersi in merito all’abrogazione della norma che

disponeva la privatizzazione dei servizi pubblici di rilevanza economica, tra cui anche il Servizio Idrico Integrato (art.

23bis della L. 133/2008), e di quella che considerava la tariffa non solo come corrispettivo del SII ma anche in

funzione dell’adeguata remunerazione del capitale investito dal gestore (art. 154 co. 1 del Codice Ambientale)17

. Per

economia della trattazione non s’illustreranno in questa sede le note ragioni del Comitato promotore che hanno

condotto alla raccolta delle firme utili a richiedere l’indizione del referendum, rinviando alla memoria storica del

lettore e alla documentazione che ha circolato durante l’intera campagna referendaria. Vogliamo invece ricordare

come l’esito del referendum sia stato più che positivo: l’affluenza alle urne ha superato il 57%, con una vittoria

schiacciante dei Sì in favore dell’abrogazione (95,35 %; 95,80 %).

Al netto del dato politico più interessante, ossia che dopo molti anni di astensionismo referendario la convocazione del

2011 ha schierato nitidamente il paese, il caso in questione è rilevante perché ha messo in evidenza lo stato di salute

della comunicazione politica italiana. Confrontando l’atteggiamento di Tv e stampa con i canali e i contenuti

informativi della società civile che si è copiosamente spesa nella campagna referendaria, appare abbastanza chiaro

quanto i media tradizionali stentino ormai a cogliere istanze sociali “sensibili” e a funzionare da «catalizzatori dei

mutament[i] socio-cultural[i]»18

. Solo negli ultimi giorni hanno iniziato a parlare di acqua, nucleare e giustizia,

limitandosi peraltro a ricordare l’inefficacia dei referendum negli ultimi quindici anni19

. I Tg e i programmi di

approfondimento si sono inseriti tardi nel dibattito sulle vertenze referendarie, e in generale la qualità

dell’informazione televisiva, in termini di chiarezza e di par condicio, non è stata in grado di accompagnare la

cittadinanza nella maturazione del voto da esprimere. Basti pensare che nelle due settimane precedenti le votazioni i

Tg hanno dedicato pochi minuti al giorno alle tematiche referendarie e ogni aumento delle notizie registrato è

avvenuto solo a seguito dei ripetuti richiami dell’Agcom (Fig. 1)20

. Gli spot istituzionali hanno riportato i contenuti dei

quesiti referendari negli stessi termini specialistici in cui erano formulati; la questione del nucleare ha sollevato un

polverone politico e giudiziario che ha opacizzato ulteriormente le vertenze legate all’acqua; i messaggi autogestiti

sono stati collocati in fasce orarie a scarsa visibilità; e le trasmissioni di approfondimento hanno ospitato solo

personaggi della politica istituzionale. Altrettanto può dirsi per la stampa (Fig. 2), che nelle due settimane precedenti

le votazioni ha dato visibilità soprattutto agli esponenti dei partiti. Anche sui quotidiani i riferimenti più ricorrenti

sono stati all’improbabilità del raggiungimento del quorum e alle questioni che hanno complicato la vicenda del

nucleare, mentre è rimasta in penombra la vertenza idrica, spesso proposta nei termini dicotomici e riduttivi di

gestione pubblica versus gestione privata21

.

17 Vi erano atri due quesiti referendari rispetto ai quali gli italiani sono stati chiamati ad esprimersi. Il terzo quesito referendario chiedeva

l’abrogazione della norma che disponeva la realizzazione nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia nucleare (art. 7, co. 1, lett.

d) del D.L. 112/2008). Il quarto quesito chiedeva l’abrogazione della norma che disponeva il c.d. “legittimo impedimento” (art. 1, co. 1, 2, 3, 5,

6 e art. 2 della L. 51/2010). Si è deciso di studiare solo il caso dei due quesiti referendari relativi al servizio idrico perché l’epiteto “bene

comune” è stato associato precipuamente all’acqua durante l’intera campagna referendaria, ed è a partire dallo slogan “Acqua Bene Comune”

che il binomio ha cominciato a diffondersi nel linguaggio comune, mediatico e politico. Inoltre, rispetto all’acqua - che è immediatamente

connessa al diritto alla vita - sarebbe risultato più agevole approfondire le concezioni di “bene comune” elaborate dalle persone. 18 Losito G., La violenza politica nella stampa quotidiana italiana. Principali risultati di una ricerca di analisi del contenuto, in Statera G.

(a cura di), Violenza sociale e violenza politica nell'Italia degli anni ‘70, Milano, Franco Angeli, 1983, p. 120. 19 Morcellini M., Nonostante l’impar condicio, cit. 20 La rilevazione del minutaggio è stata effettuata dall’Osservatorio per il Pluralismo Politico nel periodo compreso tra il 31 maggio e il 3

giugno. Per consultare i dati, si rimanda al sito di Roberto Zaccaria: http://www.robertozaccaria.it/. 21 È stata condotta una ricerca sul sito della rassegna stampa della Camera dei Deputati (rassegna.camera.it), attraverso l’inserimento di singole

locuzioni-chiave (“referendum acqua”, “referendum nucleare”, “bene comune”), poi abbinate tra loro e, infine cumulate. Il periodo preso a

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Fig. 1 Secondi dedicati dai Tg alle tematiche del referendum

Fig. 2 Numero di articoli dedicati alle tematiche referendarie

La società civile, invece, è riuscita a compensare questo atteggiamento sbrigativo ed oscurantista dei media

mainstream tradizionali e ad allestire una campagna referendaria reticolare ed eterogenea, alimentando - sia in Rete

che nei territori - un passaparola efficace. La comunicazione online, infatti, ha consentito di raggiungere capillarmente

un bacino di cittadinanza ampio e variegato entro il quale si sono messe in comune informazioni, opinioni e materiali

di approfondimento; la comunicazione face-to-face, invece, portata avanti da associazioni, comitati, movimenti e

singoli cittadini nei quartieri di molte città italiane, ha compensato il digital divide attraverso eventi pubblici di

sensibilizzazione e informazione sui temi oggetto dei referendum22

.

Dunque, dal punto di vista della comunicazione politica non si può fare a meno di annotare un tendenziale

“accomodamento” dei media tradizionali su modalità di discussione pubblica lontane dal fabbisogno informativo che

il referendum sollecitava e che invece la Rete e le reti sembrano aver soddisfatto. Vedremo se e in che misura le

valutazioni espresse dai nostri intervistati confermino quest’analisi preliminare. In effetti, il referendum è stato

valorizzato come occasione di studio utile a rendere conto di diversi interrogativi di ricerca che riguardano proprio

questi temi: quali sono stati i mezzi e le forme di comunicazione privilegiate dalla cittadinanza per informarsi su un

tema politico “sensibile”, quale la privatizzazione del SII? Quali sono state le ragioni e le parole-chiave intorno a cui

si è costruita la mobilitazione al voto referendario? Ma soprattutto, qual era il significato attribuito all’espressione

“bene comune” e quali, tra le sue caratteristiche, hanno effettivamente inciso sulle motivazioni delle persone che

hanno votato a favore dell’“Acqua Bene Comune”?

In relazione a questi obiettivi esplorativi, è stata condotta una ricerca (di tipo quantitativo non probabilistico) mediante

questionario somministrato ad un campione di elettori romani che avevamo votato Sì ad almeno uno dei due quesiti

referendari dedicati all’acqua23

. La progettazione e costruzione della base empirica è avvenuta secondo una procedura

di campionamento a scelta ragionata, definita sulla base del Municipio romano di residenza (a maggiore, minore e

riferimento è lo stesso in cui sono stati monitorati i principali Tg nazionali da parte dell’Osservatorio per il Pluralismo Politico, e le testate prese

in considerazione sono quelle a maggior diffusione nazionale: Corriere della Sera e La Repubblica. 22 Per una rassegna delle iniziative organizzate in tutta Italia: http://tinyurl.com/3x4o7bf. 23 L’indagine è stata effettuata sui soli elettori romani che abbiano votato Sì, perché la percentuale di No emersa dagli scrutini è risultata di

un’entità tale da poter considerare la risposta elettorale una costante anziché una variabile.

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media affluenza di Sì registrata alle urne)24

e l’età anagrafica degli allora votanti (18-34 anni; 35-49 anni; 50-64 anni;

over 65)25

. Dall’incrocio delle due variabili è emersa una tipologia articolata in 12 tipi di unità di analisi, selezionate

poi “a valanga” fino a raggiungere 10 casi per ogni tipo (totale: 120). Per la rilevazione si è progettato un questionario

standardizzato e semi-strutturato, rispondente ad un’analitica articolazione del problema d’indagine: le domande

miravano non solo alla rilevazione delle concezioni di “bene comune” degli intervistati, ma anche all’individuazione

dei fattori che possono aver concorso alla loro maturazione e alle motivazioni sottostanti il Sì (Fig. 3).

Fig. 3 Ipotesi di relazioni interfattoriali: modello di analisi

24 Il Municipio romano di residenza dei votanti è un ambito strutturale caratterizzato da elementi che, in ipotesi, possono aver influenzato il

comportamento individuale dei residenti. I dati pubblicati dall’Ufficio Elettorale documentano che tra gli allora diciannove Municipi romani vi è

stata un’elevata variabilità nell’affluenza alle urne. Dunque, si può ritenere che il contesto ambientale fosse caratterizzato da fattori capaci di dar

conto della variabilità nella partecipazione al voto (basti pensare, a titolo d’esempio, alla presenza o meno dei comitati referendari). 25 L’età anagrafica degli allora votanti è stata scelta come variabile di campionamento perché le liste elettorali alla data del 28 maggio 2011

presentavano valori assoluti molto differenziati sulla base di questa variabile. Dunque, ai fini degli obiettivi della ricerca, è sembrato interessante

distinguere i votanti in classi di età, in modo da agevolare una lettura intergenerazionale dei dati.

FFRRUUIIZZIIOONNEE MMEEDDIIAALLEE AA SSCCOOPPOO

IINNFFOORRMMAATTIIVVOO CCOONNTTIINNGGEENNTTEE

COMPORTAMENTO E

VALUTAZIONE

MEDIA

TRADIZIONALI

(TV E STAMPA)

RETE

STILE DI FRUIZIONE MEDIALE A SCOPO

INFORMATIVO

CANALI

D’INFORMAZIONE

PRIVILEGIATI

ABITUDINE

ALL’INFORMAZIONE POLITICA

RRIICCOORRRREENNZZAA EE

VVAALLUUTTAAZZIIOONNEE

DDEEGGLLII SSLLOOGGAANN

EE DDEELLLLEE

PPAARROOLLEE--

CCHHIIAAVVEE

FIDUCIA NELLA

CITTADINANZA E NEI

PRINCIPALI ATTORI POLITICI

ASPETTATIVE SUL QUORUM

UTILE ALLA VALIDTÀ DEGLI

ESITI REFERENDARI

AATTTTEEGGGGIIAAMMEENNTTOO NNEEII

CCOONNFFRROONNTTII DDEELL CCOONNTTEESSTTOO

SSTTOORRIICCOO--PPOOLLIITTIICCOO

CCOONNTTIINNGGEENNTTEE

CCOONNTTEESSTTOO DD’’AAPPPPAARRTTEENNEENNZZAA

TTEERRRRIITTOORRIIAALLEE

MUNICIPIO DI RESIDENZA

E/O QUARTIERE DI DOMICILIO

PRESENZA DI INIZIATIVE

DI PROMOZIONE E

INFORMAZIONE

PARTECIPAZIONE

E VALUTAZIONE

DI UTILITÀ

RRAAPPPPOORRTTII

DD’’ IINNFFLLUUEENNZZAA

ASSOCIAZIONISMO

ORIENTAMENTO

RELIGIOSO

STILE DI PARTECIPAZIONE POLITICA

ORIENTAMENTO

POLITICO

ATTEGGIAMENTO

NEI CONFRONTI

DELLA POLITICA E

DEL PROPRIO

IMPEGNO

COMPORTAMENTO

ELETTORALE

CONSUETO

SENTIMENTO DI APPARTENENZA

AI CONTESTI AMBIENTALI E

SOCIALI

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I dati più rilevanti

I risultati più interessanti emersi dall’analisi dei dati riguardano, anzitutto, l’atteggiamento degli intervistati nei

confronti del contesto politico. Analizzando i “giudizi scolastici” espressi nei confronti dei “poteri forti”, gli

intervistati hanno “promosso a pieni voti” la società civile e “con debito” la magistratura, la Presidenza della

Repubblica e l’Unione Europea (Tab. 1). Tra i “bocciati” (Tab. 2), invece, vi sono i media tradizionali, le istituzioni

economiche, l’apparato istituzionale e amministrativo dello Stato, i partiti e sindacati e la Chiesa. In particolare,

rispetto all’informazione mainstream i più diffidenti sono stati i giovani, mentre è diffusa tra tutte le fasce d’età la

poca fiducia dimostrata nelle istituzioni economiche e nell’apparato statale.

Tab. 1 I poteri forti “promossi”

Tab. 2 I poteri forti “bocciati”

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Per quanto riguarda la fruizione mediale a scopo informativo avvenuta nel periodo a ridosso delle votazioni, gli

intervistati sono ricorsi principalmente ai media tradizionali: in Tv sono state seguite soprattutto le trasmissioni di

approfondimento (57,5% dei casi, per lo più over 65) e in parte i Tg (47,5%, per lo più over 50); e un buon numero di

persone (64,2%, per lo più over 50) ha consultato i quotidiani cartacei. Quanto all’informazione reperita online,

invece, il campione risulta perfettamente dicotomico: il 50% degli intervistati ha navigato per informarsi, e il 50% no.

I siti più “cliccati” sono stati quelli delle testate dei quotidiani (23,1%), seguiti da blog, siti personali e/o di partito,

associazioni e movimenti politici (20,8%). Significative risultano anche le percentuali di coloro che hanno utilizzato

canali online assolutamente personali, quali mail (16,8%) e Social Network Sites (13,9%), o i siti del Forum italiano

dei movimenti per l’acqua (11%)26

. Tuttavia, gli aspetti più interessanti dell’indagine sono quelli legati alle valutazioni

espresse in termini di adeguatezza nei confronti di Tv e stampa (anche online), e di soddisfazione rispetto alla mass

self-communication27

attivatasi intorno alle vertenze referendarie. Dalla “pagella” della Tv (Tab. 3) emerge un

giudizio tendenzialmente insufficiente in termini d’intelligibilità, visibilità e par condicio. Rispetto alla stampa (Tab.

4), il giudizio è meno severo, ma comunque negativo, soprattutto con riferimento alla par condicio e alla visibilità.

Valutazione analoga è quella espressa nei confronti delle testate dei quotidiani online (Tab. 5), mentre i canali di

informazione online quali SNS, mail, forum e chat, blog e siti di movimenti, associazioni e Forum italiano dei

movimenti per l’acqua sono risultati decisamente soddisfacenti (Tab. 6).

Tab. 3 La pagella della Tv

Tab. 4 La pagella della stampa

26 La metà dei frequentatori della Rete sono giovani tra 18 e 34 anni: lo scarto percentuale tra questa classe d’età e le altre è enorme e le

percentuali diminuiscono progressivamente e notevolmente a mano a mano che aumenta l’età. 27 Castells, M., Communication Power, cit. Per i canali di informazione online riferibili al modello della mass self-communication, il criterio di

valutazione adottato è quello della soddisfazione perché si tratta di ambienti mediali rispetto ai quali il soggetto si muove conoscendo già il tipo

di informazioni che cerca e che, quindi, vuole.

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Tab. 5. La pagella della stampa online

Tab. 6 La pagella dell’informazione online “voluta”

L’informazione on line è risultata anche molto adatta a motivare gli intervistati ad un Sì con una forte valenza

apologetica: gli intervistati che hanno dichiarato di aver utilizzato come fonti di informazione i diversi tipi di canali

online, hanno tendenzialmente considerato il voto non solo come un atto di protesta o di mera partecipazione politica,

ma anche e soprattutto come moto di protezione nei confronti del bene comune acqua. Altrettanto efficace è risultata

la comunicazione territoriale faccia-a-faccia portata avanti dalle tante realtà della società civile che hanno animato la

campagna referendaria: gli intervistati che hanno partecipato alle iniziative di promozione del referendum nel proprio

Municipio di residenza (iniziative che aumentano in numero in corrispondenza del Municipio a maggiore affluenza di

Sì registrata alle urne) le hanno valutate molto utili. Si tratta per lo più di attività promozionali (banchetti e volantini:

57,5% delle risposte), eventi di discussione pubblica (27,6% delle risposte) e culturali (10,3% di risposte, fornite

soprattutto dai giovani), promosse da associazioni e cooperative di quartiere (23% delle risposte), centri sociali

autogestiti (23% delle risposte) e comitati referendari territoriali (14,9% delle risposte). Le strategie discorsive messe

in campo dalla società civile sono state, in effetti, adatte a motivare le ragioni del Sì e a consegnare alla cittadinanza

un’idea più precisa del concetto di bene comune. Guardando agli slogan che gli intervistati hanno considerato più

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rappresentativi della “posto in gioco” (Tab. 7) e alle parole-chiave che hanno ricordato essere più ricorrenti durante la

campagna referendaria (Tab. 8), è interessante annotare che le parole-chiave “bene comune” e “diritto”, riferibili alle

implicazioni ottative del referendum, sono state menzionate soprattutto da coloro che hanno partecipato alle iniziative

territoriali, mentre “privatizzazione” e “bene pubblico”, riferibili a una visione binaria e limitata del referendum, sono

state segnalate soprattutto da coloro che non hanno partecipato a queste iniziative. Si può quindi ipotizzare che la

comunicazione face-to-face nei Municipi abbia fornito informazioni più raffinate e complesse rispetto a quelle

evidentemente transitate per altri canali comunicativi.

Tab. 7 Slogan rappresentativi della “posta in gioco”: i più menzionati

Tab. 8 Parole-chiave associate al referendum sull’acqua: le più ricorrenti

L’ipotesi trova conferma anche rispetto alle concezioni personali di “bene comune” elaborate dagli elettori.

Nonostante a giudicare dai punteggi assegnati dagli intervistati l’importanza degli indicatori legati alla funzione dei

beni comuni risulti più stabile e alta rispetto alle altre dimensioni di significato (Tab. 9), dall’analisi testuale delle

risposte liberamente fornite in merito a cosa significasse per loro l’espressione “bene comune” emerge una certa

attenzione nei confronti delle caratteristiche che qualificano una risorsa come “bene comune” anche dal punto di vista

valoriale-relazionale. Parole come “diritto” e “democrazia”, “valore/i” e “condivisione”, “comunità” e

“partecipazione” appaiono spesso nei reciproci contesti d’uso. La locuzione “beni comuni” (al plurale) risulta

associata non solo a parole come “acqua” o “aria” ma anche a “cultura” e “salute”, a conferma di come la categoria in

esame trascenda i confini delle risorse materiali e naturali e assuma una valenza difensifa anche nei confronti di

risorse immateriali e artificiali. La parola “bene comune” (al singolare), invece, risulta associata a “gestire”, “di tutti”,

“accesso”, “appartenere”, con ovvi riferimenti alle implicazioni (gestione, accesso e appartenenza) che l’essere “bene

comune” comporta. È proprio sul tema della gestione, peraltro, che si misura più chiaramente la differenza percepita

dagli intervistati tra un bene comune e un bene pubblico: pur preferendosi in entrambi i casi una gestione pubblica, un

bene comune sembra richiedere un maggiore protagonismo dei cittadini cui si abbina un forte senso di “condivisione”.

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Tab. 9 Statistiche descrittive del livello d’importanza attribuito agli indicatori dell’essere “bene comune”

Chi ha partecipato alle iniziative organizzate nei territori, peraltro, sembra avere una visione leggermente più

complessa delle questioni che riguardano la definizione di “bene comune” di quanto non abbiano coloro che, invece,

non hanno partecipato né assistito ad alcun evento: ciò si evince dal fatto che le parole più utilizzate dai primi sono

“istituzionalità” e “difendere”, mentre quelle più frequenti tra i secondi sono “privato” e “pagare”. Anche l’utilizzo di

canali d’informazione on line risulta discriminante quanto a capacità di valorizzare gli aspetti ottativi ovvero concreti

della definizione di bene comune: chi ha frequentato la Rete (i giovani) sembra più propenso a menzionare i primi (la

parola più ricorrente è “diritto”), mentre chi si è informato solo offline ha messo maggiormente in evidenza i secondi

(le parole più ricorrenti sono “per tutti” e “amministrazione”).

Conclusioni

Alla luce dei dati illustrati, è possibile ricondurre il successo del referendum così come la fortuna della nozione di

“bene comune” alla campagna referendaria portata avanti dalla società civile online e offline, tanto più se si tiene

contro dell’atteggiamento latitante tenuto sia dai media tradizionali sia dalla politica istituzionale nel periodo a ridosso

delle votazioni. Quanto abbiamo evidenziato dà conto di come ormai i media tradizionali non riescano più ad

intercettare il mutamento sociale né ad orientare i comportamenti collettivi, e di come invece la Rete e le reti sociali

siano habitat più adatti ad aggiornare le pratiche comunicative grazie al loro funzionamento osmotico. Un tessuto

sociale coeso intorno a obiettivi sensibili e, insieme, un uso dei media digitali che ridisegni i sistemi relazionali e le

dinamiche organizzative, sono in grado di pluralizzare e diversificare il dibattito pubblico, valorizzando le identità e le

motivazioni delle persone che co-producono e, al tempo stesso, co-consumano i contenuti comunicazionali e

informativi. È proprio il carattere relazionale di questi ambienti comunicativi a soddisfare il fabbisogno sociale di

partecipazione democratica alla vita politica che un evento “sensibile” quale quello del referendum per l’“Acqua Bene

Comune”. Da un lato, la mass self-communication ha consentito la generazione e distribuzione di informazioni in

modo autonomo, fondandosi su un’interazione many-to-many entro un dibattito continuo su tematiche e questioni

proposte dagli stessi utenti. Dall’altro, la comunicazione locale face-to-face, esistendo in funzione della dinamica

sociale in cui si sviluppa e della relazione che stabilisce con le proprie audience territoriali, ha facilitato lo scambio tra

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diverse realtà che, pur essendo lontane geograficamente, hanno costituito una piattaforma comune da cui sono riuscite

a lanciare le issues referendarie all’attenzione pubblica, nonostante fossero apparentemente marginali.

Il caso del referendum ha messo in evidenza come lo scambio comunicativo su Internet e negli incontri in persona

possa alimentare una mobilitazione “emotiva” intorno a finalità strategiche (tendenzialmente emergenze sociali o

ambientali) che poi si traduce in intenzione ad agire collettivamente. Tale azione collettiva (nel caso di studio: la

difesa referendaria dell’acqua) si organizza e/o si riproduce on e offline, propagandosi e intercettando i sentimenti

diffusi tra le comunità e le singolarità interconnesse nei luoghi fisici e virtuali, grazie anche all’efficacia retorica di

parole d’ordine ad alto significato simbolico e dotate di una forza trasformativa e aggregante. I beni comuni, in questo

senso, si sono dimostrati adatti a funzionare da piattaforma concettuale che ha agglutinato intorno a sé diversi attori

politici (per lo più non-istituzionali), entro processi di deliberazione collettiva su risorse strategiche che servono

immediatamente una comunità. È nell’azione di difesa, rivendicazione e “uso generativo” di questi beni, quindi, che si

rintraccia il loro carattere distintivo: essi non solo consentono l’esercizio di diritti fondamentali della persona e della

collettività, ma richiedono costitutivamente un’implicazione, tanto sul piano decisorio quanto su quello gestionale, di

tutti coloro che li hanno, appunto, in comune. Ed è questa la sfida concettuale e operativa che il tema dei beni comuni

pone oggi all’attenzione delle istituzioni, intorno alla quale la società civile e i movimenti si stanno già sperimentando.

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