Helle Busacca. La scala ripida verso le stelle

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Personalità complessa e carismatica, Helle Busacca (S. Piero Patti, 1915 - Firenze, 1996), poetessa e scrittrice messinese, rappresenta una voce inconfondibile all’interno del panorama letterario italiano per la profonda originalità della sua opera, che dal dramma personale – la morte per suicidio del fratello Aldo – e dalla coscienza di un destino tragico libera una testimonianza di rara intensità.

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Il genio femminile.Ritratti e istantanee

collana diretta daEnza Biagini e Ernestina Pellegrini

Comitato scientificoAugusta Brettoni, Martha Canfield, Anna Dolfi,

Elisabetta De Troja, Ornella De Zordo, Maria Fancelli,Rita Guerricchio, Rosalia Manno Tolu, Anna Nozzoli,

Stefania Pavan, Eleonora Pinzuti, Anna Scattigno, Rita Svandrlik

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Serena Manfrida

Helle BusaccaLa scala ripida verso le stelle

Editrice FiorentinaSocietà

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© 2010 Società Editrice Fiorentinavia Aretina, 298 - 50136 Firenze

tel. 055 [email protected]

isbn 978-88-6032-102-2issn 2036-3508

Proprietà letteraria riservataRiproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata

Le fotografie presenti all’interno del volume e nella copertina sono di proprietà dell’Archivio di Stato di Firenze, che ne ha gentilmente concesso la riproduzione.

Finito di stampare nel mese di febbraio 2010(Grafica Editrice Romana)

ASSESSORATOALLE PARI OPPORTUNITÀ

Un ringraziamento particolare va ad Alessia Ballini, Assessore alle Pari Opportunità della Provincia di Firenze, che ha generosamente accolto e sostenuto questo nuovo progetto editoriale rendendolo possibile. L’auspicio è che questa collaborazione culturale possa continuare nel tempo.

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A mia madre Chiara Giuntini

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Indice

9 Nota al testo

11 i. Profilo biografico

22 ii. La prima fase della poesia 22 Giuoco nella memoria 32 Ritmi

48 iii. Antigone in guerra. La trilogia dei Quanti 48 I quanti del suicidio 62 I quanti del karma 72 Niente poesia da Babele

81 iv. Alla vita, dalla vita: le prose edite 81 Vento d’estate 85 Racconti di un mondo perduto

92 v. Le ultime opere poetiche 92 Il libro del risucchio 102 Il libro delle ombre cinesi 112 Pene di amor perdute 124 Ottovolante

134 vi. Gli inediti

144 Nota bibliografica

147 Notizie biografiche

149 Inserto fotografico

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i. profilo biografico

Helle Busacca nacque il 21 dicembre – solstizio d’inverno – del 1915 a San Piero Patti, in provincia di Messina, dove trascorse

gran parte della sua infanzia. In realtà, la data che risulta dall’atto di nascita è il 22, per un ritardo di registrazione dovuto probabilmente, secondo la ricostruzione della stessa poetessa, al fatto che il nonno, se-gretario comunale, «dové assentarsi dall’ufficio in funzione delle scene drammatiche dovute al primo parto di sua figlia, e, non essendo potuto correre al Municipio a denunciare la […] nascita, preferì il giorno dopo registrarla per il 22, un piccolo peccato di vanità» (C, p. 1).

Il padre di Helle, Annibale Busacca, era un medico dalla tormen-tata storia familiare: rimasto presto orfano di entrambi i genitori, era stato affidato appena adolescente a uno zio prete e, giacché questi non intendeva sobbarcarsene le spese, per poter continuare gli studi liceali e contribuire a quelli dei due fratelli minori fin dai sedici anni aveva lavorato come istitutore in un collegio. Entrambi i fratelli, però, erano morti giovanissimi: Enrico suicida perché lo zio non voleva conceder-gli di studiare musica al Conservatorio, Emilio vittima del terremoto di Messina, cui Annibale stesso, gravemente ferito, era scampato per miracolo. Nonostante questo succedersi di tragedie, però, il giovane era riuscito a proseguire gli studi, laureandosi in medicina e intraprenden-do la professione di oculista.

La moglie Virginia, maestra elementare, era la primogenita di quat-tro fratelli – tre femmine e un maschio – e aveva sposato il marito con-tro il parere della famiglia; ben presto, però, la coppia era stata separata dalla guerra, e la giovane sposa, rimasta a casa dei genitori, aveva dato alla luce Helle mentre il marito era al fronte.

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Del tempo gioioso passato circondata dall’affetto dei nonni mater-ni e delle giovani zie Elvira e Italia (il rapporto con la madre fu sempre difficile e conflittuale) Helle Busacca portò sempre con sé un ricordo luminoso e vivissimo: coloro che condivisero con lei l’«età dell’oro» di una selvaggia spensieratezza, così come i luoghi che la accolsero bambina intrepida e irruenta, rimasero «per sempre nel cerchio ma-gico della favola» (RMP, p. 16), divenendo simbolo di una purezza irrecuperabile. Allo stesso modo, i paesaggi sfolgoranti della Sicilia le rimasero sempre incisi nella memoria, ricreandosi spesso negli scorci paesaggistici delle liriche e delle prose autobiografiche. Per la poetessa la casa del nonno, con «i soffitti quasi a volta», le grandi stanze e la sontuosa campagna attorno resterà sempre un reame incantato in cui smarrirsi beatamente, il suo ricordo un’oasi di meraviglia che la poe-tessa trasferirà intatta nelle prose evocative di Racconti di un mondo perduto.

La madre era maestra elementare, le zie studentesse, i rapporti fra i genitori avvenivano soprattutto, data la guerra, per via epistolare: come racconta in Contrappunto, romanzo-memoria tuttora inedito, accanto all’amore per la natura Helle Busacca apprese sin da piccolissima il potere della parola e l’importanza della scrittura come mezzo per co-municare e comunicarsi:

da quando, vedendo mia madre scrivere al marito lontano in guer-ra, e le giovanissime ziette scrivere alle amiche di Roma e Palermo, e compreso che la scrittura era un modo di comunicare, volli imparare a foggiar lettere e poi ad annodarle in frasi […]. (C)

Le zie, d’altronde, ripetevano lunghi brani dell’Iliade, dei Sepolcri di Foscolo (di cui la poetessa ricorderà spesso di aver denominato, ad appena tre anni, un brano «la cassandrea»), delle poesie da recitare a scuola, avvincendo la nipote col ritmo dei versi: come la poetessa scri-verà, sempre in Contrappunto, «quel giuoco delle rime mi attraeva paz-zamente». La bambina aveva una predilezione particolare per Elvira, ricambiata al punto che le due erano inseparabili: con la madre, sin da allora, il rapporto si presentava come complesso e ambivalente e anche

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questo dovette contribuire all’idealizzazione della zia, dolce, amante della cultura, intelligente e radiosa:

Quando nacqui, lei aveva solo quindici anni, era “giovane”, e bellis-sima: creatura più bella non ho veduta mai, nemmeno nell’arte. Così, a cominciare da lei, non ho mai sentito, nei miei rapporti, differenza di età, né ho mai, in seguito, avuto istinti materni che mi falsassero: la fanciulla che adorava sia Scienza che Poesia, aveva semplicemente trovato in me un delizioso vasetto, in cui ogni cosa che lei amasse si travasava. (C)

Della madre Virginia, invece, Helle traccerà sempre un quadro contraddittorio, oscillando fra i poli di un rimpianto denso di sensi di colpa per la sua morte prematura e un rancore irrisolto per la sua impulsività, severità e oppressione nei confronti dei figli. Virginia, ma-lata sin dall’adolescenza di un difetto a una valvola aortica che andò aggravandosi sempre più col tempo, sfogava le sue ansie in un atteg-giamento altalenante fra possessività e una sorta di offeso risentimento: la sua reazione alle intemperanze della bambina, vivacissima e testarda, era insieme di rabbia e delusione, come si trattasse dell’ennesimo tradi-mento della vita nei suoi confronti. Invece, nonna e zie dimostravano verso la piccola infinita pazienza e comprensione, ammirate dalla sua precocità e curiosità verso il mondo.

Nel 1918, in occasione di un permesso del marito, Virginia portò con sé a Padova Helle e la figlia minore Igea per riunire la famiglia, ma durante il soggiorno Igea fu punta da un’anofele infetta e sviluppò una devastante setticemia che la uccise nel giro di una settimana, a un anno e mezzo appena. Helle Busacca ricorderà spesso nelle sue opere la mor-te della sorellina, ammettendo però di essere stata troppo piccola per comprendere la portata del lutto, come per rimpiangere quell’“intrusa” che sembrava averla rimpiazzata nel cuore della madre. La morte di Igea, come immaginabile, sconvolse Virginia, che arrivò ad accusarne il marito, rinfacciandogli che «invitandola a Padova, le aveva assassinata sua figlia» (C).

Per Helle, tuttavia, la vita continuò fra i volti amati della casa del nonno: a quattro anni già imparava a scrivere, e poco tempo dopo si

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cimentava con le prime letture. Nel frattempo il suo nucleo familiare andava allargandosi, con la nascita di Fausto, minore di cinque anni, e di Aldo subito dopo. Quest’ultimo evento coincise però con la malattia di Elvira, che si spense in breve tempo per una forma di tubercolosi; la sua morte, narrata nella prosa di Racconti di un mondo perduto che porta il suo nome, gettò nella disperazione la famiglia intera e colpì la piccola Helle con violenza inaudita. I genitori, ormai stabilitisi a Bergamo, decisero di lasciarla ancora qualche tempo presso i nonni per lenirne il dolore, mentre tennero con sé i due fratelli minori, troppo piccoli per stare lontani dalla madre. La bambina cercò consolazione negli affetti rimasti, nei lunghi pomeriggi passati al cimitero, nelle pri-me letture dalla biblioteca del nonno e nelle storie che si raccontava da sola, incessantemente, come a un invisibile uditorio. Finita la scuola, raggiunse i genitori a Bergamo, cittadina che trovò fredda, soffocante e provinciale, e lì dovette misurarsi, oltre che con un ambiente totalmen-te estraneo, con una situazione domestica tutt’altro che idilliaca. Tanto per cominciare, la salute di Virginia peggiorava in modo allarmante: così Helle Busacca descrive le sue condizioni in quegli anni e le conse-guenze che esse avevano sull’equilibrio familiare:

Malata di cuore dai sedici anni, grazie a un difetto e soffio del l’aorta che si aggravava anno per anno, e non potendo più aver figli, facendo spesso e volentieri un aborto, anche se per mani mediche, lei era afflitta da mancamenti, affanni, e spaventose crisi di fegato, oltre che anemia e disturbi all’appendice, che non si poteva operare, per paura che lei morisse sotto i ferri; e noi vivevamo di continuo sotto la spada di Da-mocle di uno o un altro suo malanno, e, spesso, rischio di morte, per cui imparammo molto presto a inibirci e frenarci, e fare tutto ciò che lei voleva, a torto o a ragione. (C)

I rapporti fra Virginia e Annibale, poi, andavano deteriorandosi di giorno in giorno, al punto che la donna, sfinita dagli aborti, rifuggiva il marito accusandolo di volerla portare alla tomba.

A questo panorama desolante si aggiungevano i dissesti economici (il fallimento della banca in cui la famiglia aveva depositato i risparmi messi da parte con fatica per la costruzione di una villetta) e la sensa-

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zione di impotenza di Helle nell’avvertire, «come la monaca di Monza» (C), il suo destino già segnato: era stato infatti deciso che avrebbe intra-preso la professione di medico sulle orme del padre. Nel frattempo, per prepararsi al futuro compito, doveva fargli da assistente mentre opera-va i pazienti, e benché fosse tutt’altro che impressionabile non poteva reprimere, già allora, l’idea che il corpo fosse «una cosa obbrobriosa» (C). Quello della poetessa era un vero e proprio rigetto, che rimase in lei sempre vivo, verso la fisicità, avvertita come umiliante schiavitù di carne. D’altronde aveva visto disfarsi nel male la bellezza di Elvira, prosciugarsi fra emorragie e disgusto la giovinezza della madre, ed era profondamente turbata dai mutamenti, sentiti come un sopruso, del suo corpo durante l’adolescenza: il rifiuto nei confronti della corporeità si configurava anche come rivendicazione della propria individualità e di una profonda insofferenza a ogni condizionamento.

Oltretutto, l’unica confidente di quel periodo, la zia materna Italia (Lala), laureata in lettere e legge e amante dell’arte, ma soprattutto gran-de ammiratrice del dono della nipotina, era morta improvvisamente, a breve distanza dal matrimonio, dopo un’operazione di emergenza per una gravidanza extrauterina. Morte, malattia, sofferenza, amore tramu-tato in dramma si riconfermavano una cifra costante nel destino della poetessa, che sfogava il suo dolore, come aveva fatto sin da piccola, scrivendo furiosamente, come racconta in Contrappunto:

inventai a undici anni una bambina rapita dagli zingari, e a dodici un Corsaro azzurro che mancava agli annali stampati; poi, in diari, tutto ciò che le mie disavventure d’amore mi spingevano a pensare, e tutti gli stati d’animo, ahimè a rileggerli così monotoni, a cui l’Amore mi costringeva, prezioso materiale, credevo, da usare poi in prose di romanzi.

Sempre al periodo adolescenziale la poetessa ascrive la stesura di un romanzo sulle vicende di una fanciulla di nome Elvira nella Roma del Settecento e una serie di variazioni sulle opere amate, fra cui un rifacimento di Notre Dame des Paris di Hugo. Databile al 1928-1929 è anche un ampio poemetto in rime alterne, La leggenda della città per-duta, che comparirà postumo in apertura della raccolta Ottovolante del

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1997: storia di un amore infelice ambientata in un Oriente fiabesco, da cui trapela, attraverso la voce della protagonista Wanda, tutta l’angoscia del sentirsi votata a un destino oscuro.

Terminati gli studi liceali, Helle Busacca, avvertendo su di sé il peso della responsabilità verso la famiglia, si iscrisse a Medicina presso la Regia Università di Milano. Il suo amore per l’arte, però, prevalse alla fine sul senso del dovere, ed Helle passò a Lettere classiche, nonostante la delusione del padre. A Lettere, fra l’altro, erano iscritti molti nomi destinati a diventare «grandi calibri» – Enzo Paci, Luciano Anceschi, Vittorio Sereni – che Helle riconosceva come spiriti affini, «di quella razza, poco pratica e poco seria, per cui era incantevole una teoria filo-sofica, o una gloria probabile: comunque, da guadagnarsele coi propri meriti» (C).

Helle aveva ventun’anni quando la madre morì: mentre era in casa con i figli, Virginia accusò un malore e nonostante i convulsi tentativi di rianimarla si spense tra le braccia del quindicenne Aldo (la scena, agghiacciante, sarà riprodotta con straziante lucidità nella prosa di Rac-conti di un mondo perduto intitolata, appunto, Virginia). Dal senso di colpa per non aver fatto abbastanza, per gli scontri e le incomprensioni passate, per aver desiderato di fuggire da quell’ambiente malsano la poetessa non si libererà mai del tutto: «Io volevo la laurea, per fare il concorso, insegnare, guadagnare, e perciò andarmene via di casa. Con quella morte, di questa aspirazione mi feci il complesso di colpa» (C). Il fantasma di un rapporto difficile che non avrebbe mai più avuto modo di risolversi influenzò profondamente l’opera di Helle, determinando il senso di inconsistenza e precarietà delle cose del mondo e la ricerca continua di un colloquio coi morti.

Della madre scomparsa la poetessa avrà a dire, ancora in un passo da Contrappunto, «lei si era sempre sentita vittima dei nostri insuccessi, delle rivolte, e di tutto ciò che per noi era vivere la nostra vita». Per tutta la sua, e ve n’è ampia testimonianza nel percorso della sua opera, Helle Busacca si dibatté fra l’orgoglioso senso di indipendenza che la animava e quello, altrettanto forte, di responsabilità verso le persone care, nel timore angoscioso di non saperle aiutare.

Dopo aver conseguito la laurea in Lettere classiche con una tesi

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sulle tragedie dell’Alfieri (autore da lei tutt’altro che amato) e affron-tato i concorsi per l’abilitazione, la poetessa iniziò a insegnare presso vari licei, in una serie di spostamenti continui che negli anni successivi la portarono a Varese, Pavia, Milano, Monza, Assisi, Castiglion Fio-rentino, Montevarchi, Napoli, Siena, Chiavari, sino a Firenze. I primi anni di insegnamento coincisero con momenti drammatici della storia nazionale, che Helle Busacca trascorse fra la fame per i razionamenti, il gelo delle aule e i lunghi e rischiosi spostamenti per procurarsi cibo dalle fattorie della campagna. Durante i bombardamenti su Milano del 1943 ad opera degli alleati, il palazzo della famiglia Busacca in via Dante fu sventrato, e furono proprio i due fratelli di Helle a salvarne un’ala dall’incendio divampato istantaneamente.

Intanto, all’età di ventiquattro anni, Helle Busacca aveva conosciuto tramite Anna Maria Ortese – con la quale aveva iniziato uno scambio epistolare presto trasformatosi in amicizia – Corrado Pavolini, poeta e critico, che, oltre a incoraggiarla nel suo cammino artistico, fu anche il suo grande amore (per quanto la loro sia sempre rimasta una storia im-possibile). Fratello del ministro fascista, Corrado sopravvisse al crollo del regime in virtù del suo essere sempre stato «politicamente innocuo e dedito solo all’Arte» (parole di Helle Busacca). Tra lunghe pause di silenzio e riprese, il rapporto, improntato, al di là del coinvolgimento emotivo, a una stima reciproca che rimase sempre intatta, proseguì sino alla morte di lui. Fu proprio Pavolini, colpito dal talento della poetessa, a spingerla a sottoporre a Guanda le poesie che uscirono per lo stesso editore nel 1949 col titolo di Giuoco nella memoria, esordio di una voce inquieta e malinconica, drammaticamente consapevole della precarietà del mondo e del rovinare dei sogni d’infanzia.

Dal 1945, intanto, Helle aveva definitivamente abbandonato la casa paterna. Gli anni ’50, durante i quali proseguì la lunga serie dei suoi trasferimenti in giro per l’Italia, segnarono un periodo di intensa attività letteraria (a questa data risale la prima stesura del romanzo autobiografico che uscirà solo nel 1987 col titolo di Vento d’estate) ma anche l’inizio di una catena di dissesti finanziari: infatti la ditta di pro-gettazione e costruzione di macchinari industriali gestita dal fratello ingegnere, su cui anche la poetessa aveva investito cospicui risparmi,

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andò in passivo per via di una causa con un’azienda che rifiutò il pa-gamento dei macchinari forniti. La bancarotta di un’altra ditta, che risultò in una nuova insolvenza dei pagamenti, costrinse Aldo a restare in America, dove, arrivato grazie a una borsa di studio, aveva subito ricevuto importanti offerte di lavoro. La desolata corrispondenza di questi anni tra i due fratelli rivela come i problemi familiari ed econo-mici li avessero logorati fisicamente e psicologicamente.

Dagli anni ’50 si ha notizia del rapporto epistolare di Helle Busac-ca con Eugenio Montale: anche in questo caso il tributo a un artista che ammirava profondamente si trasformò in un’amicizia di lungo corso. Come racconta nell’articolo Il mio strano amico Montale (uscito su «L’Albero», 73-74, 1985) tramite alla conoscenza del grande poeta fu, nel 1941, la carissima amica e poetessa Rina Sara Virgillito; per entrambe la lettura dei suoi versi costituì una vera e propria rivela-zione:

Eravamo mortalmente innamorate, io e Sara; e mortalmente Mon-tale diceva per noi tutto quello che avremmo voluto dire, e questo fu molto a lungo, e ancor oggi, quando nelle sue […] pagine balena la raggiante ombra di Clizia, io riconosco l’Amore.

Proprio a Montale, in una lettera datata 3 marzo 1957, la poetessa confidò la scoperta casuale di una passione che da allora in poi non avrebbe più abbandonato, quella della pittura:

trovandomi in vacanza dagli obblighi […] mi son data due mesi alla pittura; senza aver mai imparato in vita mia a tirare una riga. Così per caso, cioè, mi son messa a laccare uno stipetto che accogliesse de-gnamente i miei libroni di saggezza indiana, cinese, egiziana […] dopo di che, passata una piacevolissima settimana, mi son munita di tubetti e mi son messa a pittare, come si dice a Napoli, su certe orribili tavo-lette, e ho trovato che era una catarsi e distensione completa mettere insieme colori e farne venir fuori, per proprio uso e spasso, non per la gloria, non per gli altri, tante rocce e mare e luoghi solitari quanti stanno nel subcosciente, come non ci fossero e invece ci si accorge che ci sono. Così non le dico quanti mari e cipressi pini barchette e mon-tagne ho scaraventato sulle pareti […].

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La lettera costituisce anche una conferma dell’interesse che in que-sti anni Helle Busacca coltivò per le filosofie orientali e la storia del-le civiltà: interesse alimentato attraverso studi attenti e testimoniato dall’inventario della sua biblioteca, che contiene numerosi testi mistici e antropologici. Nel ’56, sulla rivista bimestrale «Civiltà delle Mac-chine», apparve il suo monumentale articolo I bestioni e gli eroi, che documenta un’ampia cultura a livello storico e sociologico, affiancata a spunti eruditi di glottologia, e un’attitudine di spregiudicata apertura alla contaminazione fra studi umanistici e scientifici.

Nel 1960 Aldo ritornò dall’America – dove si era conquistato la stima dei colleghi ingegneri e di grandi personalità della scienza – pro-vato dal duro lavoro, dalle ristrettezze cui si era sottoposto per risanare i debiti e da una nevrosi i cui sintomi andarono aggravandosi sempre più negli anni a seguire. La sorella gli offrì ospitalità in casa sua, a Milano, ma ben presto la convivenza divenne difficile: Aldo, infatti, non riusci-va a trovare lavoro, era sempre più immerso nella cappa della depres-sione e soffriva di incubi notturni in cui manifestava sottoforma di os-sessioni persecutorie l’angoscia per la sua immeritata condizione. I due fratelli dovevano vivere con un solo stipendio, dividendo un ambiente ristretto; la fiera individualità di Helle e l’orgoglio di un’indipendenza duramente conquistata si scontravano con la sua volontà di proteggere il fratello, frustrata dall’impotenza e dalla crescente consapevolezza di non riuscire ad essere ciò di cui Aldo aveva bisogno.

Nel 1965 uscì per la casa editrice Magenta di Varese la seconda rac-colta poetica di Helle Busacca, Ritmi, costituita da liriche composte tra il 1951 e il 1964. Ma lo stesso anno riservò ad Helle Busacca l’evento più sconvolgente della sua vita: durante un’assenza della poetessa, par-tita per una breve vacanza a Vulcano, Aldo si uccise inalando gas nella casa che avevano sin allora condiviso: le sue ultime ore e quelle appena successive alla scoperta del corpo da parte di una vicina sono descritte con raggelante precisione in Riccioli d’oro, prosa finale della raccolta di memorie Racconti di un mondo perduto (1992). L’impatto del lutto sulla poetessa fu atroce, potenziato se possibile dal senso di colpa, il rimorso di «non aver saputo dare», non aver capito in tempo.

Dal ribollire della rabbia verso i responsabili più diretti del gesto di

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Aldo, dalla furia verso una società che si accanisce contro gli inermi e dallo strazio di una perdita insuperabile nacque l’irrefrenabile torrente di versi della cosiddetta Trilogia dei Quanti, costituita da I quanti del suicidio (1972), I quanti del karma (1974) e Niente poesia da Babele (1980). Con la svolta repentina da una poesia di sognanti distanze e di impianto classico – ma anche intrisa di quel senso stridente e oscuro di tragedia aleggiante che più che tema ricorrente è timbro inconfondibile della sua voce – alla libertà furibonda di un verso caricato di parole, pesante di concretezza, contaminato da registri gergali e bassi, Helle Busacca lasciò chi già la conosceva artisticamente travolto dall’asso-luta potenza della sua scrittura. Molti critici e artisti illustri dedicaro-no pagine di ammirazione e stupore alla poetessa messinese: da Sergio Solmi a Vittorio Sereni, da Gilda Musa a Carlo Betocchi, da Luciano Anceschi a Carlo Bo, da Oreste Macrì a Mario Luzi (entrambi, ne-gli anni successivi alla pubblicazione del primo capitolo dei Quanti, suoi corrispondenti epistolari). Dalla morte di Aldo in poi, più o meno esplicitamente, la sua opera fu tutta per il fratello: volontà di diramare un messaggio che lo rappresentasse, di impiegarne l’eredità morale per decifrare il mondo.

Nel 1971 la poetessa riuscì, dopo molti tentativi, a farsi trasferire a Firenze, città sognata sin dall’adolescenza e a lungo vagheggiata insieme ad Aldo, dove rimase sino alla morte. Questi anni le portarono l’estrema disillusione riguardo all’insegnamento: delusa dall’«orripilante esperien-za di vacuità mentale e psichica di un liceo scientifico 1971-76» – come scrive in un suo curriculum vitae – «mandai all’inferno la scuola».

Chiesta la pensione, Helle Busacca poté dedicarsi con rinnovato impegno alla scrittura, ma anche alle amatissime letture di Lucrezio, Wolfe, Lorca, Koestler, ai libri di saggezza orientale e alla passione, nata in quegli anni, per l’astrologia (oltre a quella, sempre vivissima, per pittura e fotografia). Particolarmente importanti in questi anni furono i viaggi, vere e proprie missioni nei luoghi che il fratello aveva amato e sognato, dalla Spagna a Creta sino al Sahara.

Quella dai ritmi obbligati e frenetici della routine lavorativa fu per la poetessa una liberazione che coincise con un rinnovato slancio crea-tivo:

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Finalmente ero libera di presenze e di orari coatti, e di colpo i co-lori assorbiti in silenzio per anni erompevano dal profondo dove forse avevano fatto argine alla mia nevrosi e alla mia libido mortis. (C)

Nel 1987 uscì per le edizioni Amadeus il romanzo autobiografico Vento d’estate, storia di una donna in tempo di guerra e cronaca del trauma di un aborto, a lungo rielaborata a partire dal 1949. Per quanto riguarda invece il versante poetico, le liriche scritte in queste periodo confluirono in due raccolte pubblicate nel 1990 da Book editore di CastelMaggiore: Il libro del risucchio (poesie 1980-1990) e Il libro delle ombre cinesi (scelta 1981-1989), silloge vincitrice del premio di Poesia Libero De Libero 1990. Al tono convulso dei Quanti succede in queste ultime opere una riflessività lucida e amara, che dagli eventi di ogni giorno e dalle fonti più disparate (letture, trasmissioni televisive, musi-ca) ricava lo spunto per considerazioni di più ampio respiro, impronta-te a un affilato, stringente disincanto.

Il ritmo incalzante delle pubblicazioni proseguì nel 1992 con la già citata raccolta di prose memoriali Racconti di un mondo perduto e nel 1994 con l’uscita della raccolta Pene di amor perdute, che contiene rime e assonanze composte tra il 1945 e il 1964: testimonianza di una voce giovanile e percorso parallelo a quello delle prime opere, che contiene però anche importanti indizi anticipatori della svolta dei Quanti.

Nei suoi ultimi anni di vita Helle Busacca fu vittima di problemi di salute sempre più gravi – il distacco della retina prima, l’infarto e l’ope-razione per carcinoma poi – in una vecchiaia sempre più malandata ma fieramente indipendente. La morte la colse alla fine del 1996, mentre stava preparando l’antologia Ottovolante, uscita postuma, a cura di Ido-lina Landolfi, l’anno seguente.