Guareschi 10 25

16
inchiuso in carcere per aver det- to a voce un po' troppo alta che cosa pensava della guerra, del patto dell'Asse e della Campa- gna di Russia, Guareschi viene liberato su ordine di Mussolini dopo 1 intervento del capo redattore del «Po- polo d'Italia". Fu così rilasciato, ma non perdonato e il comando della Milizia ottenne che Giovannino venisse richia- mato per direttissima sotto le armi. Era l'autunno del 1942. A PAGINA 12 Arrestato come disfattista ) rilasciato ma spediAD a.' fronte Due vignette di Guareschi. Qui sotto il soldato intima al germoglio: «Torna indietro o sparo!» (dal Bertoldo n.10, 8 marzo 1940). A destra: la fame in Russia: «Dimmi un esempio di nome astratto». «Il pane» (dal Bertoldo n.95, 26 novembre 1937) ntE. IM■ Beppe Gualazzini e troppe ore passate seduto in redazione al Bertoldo l'avevano appesantito: 83 chili, una quindici- na più del necessario. Tentò di combattere l'incipiente obesità. Un giorno, mentre Ennia e Alberti- no, il suo primo figlio nato nel '40, erano in vacanza a Igea Marina, mise uno zaino in spalla, salì sulla sua gloriosa bicicletta Dei e pe- dalò. Non si fermò per quindici giorni. Scalò il Passo del Sella, Por- doi, Falsarego. Pedalò per centi- naia di chilometri in pianura e spuntò a Igea Marina con le gambe bruciate dal sole, il naso pelato, in brache corte e molle di sudore. Si pesò: aveva perduto un solo chilo. Lo sentirono dire: qui ci vuole una cura più robusta. Il destino lo e- saudì subito. La fronda Dal diario clandestino, 19 di- cembre '44, Lager XB 19, Sandbo- stel, Nord Ovest della Germania nazista: «Ho ricevuto — annota Guareschi dal suo letto a castello — una lettera da casa: a C arlottina stanno spuntando quattro dentini e ha imparato a dire no. Anch'io ho imparato a dire no, ma ci è voluta una guerra mondiale». Il no maturava già da anni. I riti e l'aggressiva politica del governo fascista innervosivano quelli del Bertoldo che, dall'umorismo fine a se stesso, saltarono nella satira di costume e subito dopo nella satira politica. Sfidarono il regime so- prattutto con incoscienza poiché esso non era fatto solo di gerarchi piú o meno esaltati, ma era stato concimato a dovere da un lungo codazzo di profittatori e servi. Contro essi la ragione valeva men che nulla. Quando Appelius dai microfoni dell'Eiar, rivolse a Dio l'invito di stramaledire gli inglesi, il Bertoldo insorse condannandone la stupi- dità e lanciandosi contro la retori- ca e i colpevoli silenzi delle tra- smissioni sulla vera situazione in- terna della nazione e sullo stato d'animo della gente. Nelle pagine del giornale l'Eiar divenne l'Ente incoraggiamento afonia radiofoni- ca. Mondaini in una vignetta mise su un angolo di strada un muto e un sordo: ho intenzione di cantare per l'Eiar, dice a segni il muto. Be- ne, ti sentirò volentieri, risponde il sordo. Il regime I ligi al regime sbaluginavano nel vedere il Bertoldo voltar di prora e addentrarsi in quel mare così peri- coloso. Guareschi inventò il Fesso di guerra, un omiciattolo con la bocca a trombetta, tutto vestito di nero, che imperversando tra citta- dini alti un palmo, credeva e pro- palava qualunque scemenza la propaganda suggerisse. Palermo dedicò vignette alle Mamme anno- narie, costrette a far la spesa con la tessera: non piangere Carletto, se stai buono ti faccio succhiare ún ta- gliando dello zucchero. Ma come fate, chiede una signora alla pa- drona di casa, con questa scarsità di burro? Cucino col sapone. I fascisti preparavano la guerra per la primavera. Guareschi dise- gnò un fante che punta il suo anti- quato moschetto 91 contro un ger- moglio che sta spuntando su un al- bero: torna indietro o sparo! Fare la fronda divenne sempre più peri- coloso e difficile. Saul Steinberg si preparò a fuggire in America per' non salire con altri ebrei su un va- gone bestiame diretto al Nord. Scoppiò la guerra. Il fratello di Guareschi fu spedito su fronti diffi- cili e nelle notti d'oscuramento Guareschi cominciò a dire un po' troppo forte ciò che pensavano in molti. Una sera in pieno centro di Milano vuotò il sacco urlando tra la gente la sua definitiva valutazione sulla guerra, sul patto dell'Asse, sulla Campagna di Russia. Arre- stato. Interrogato. Rinchiuso in cella. Ennia se ne andò come una disperata per la città a mobilitare gli amici in sua difesa. Angelo Rizzoli si mosse per pri- mo. Andò al comando della mili- zia. Parlò col federale. Col prefet- to. Con una mezza dozzina d'alti papaveri del regime. Non ottenne altro se non vedersi sbattere sotto il naso due fogli protocollo con scritto tutto quanto Guareschi ave- va urlato per ore sotto centinaia di balconi. Spiacenti, ma la notorietà di Guareschi era tale da non poter lasciare impunito l'episodio. Che poi l'ufficio politico teneva d'oc- chio Guareschi da un bel pezzo, questo disfattista.. Una condanna esemplare sarebbe stata un buon monito per tutti gli antifascisti. Riuscì a sbloccare la situazione Giorgio Pini, • capo redattore del Popolo d'Italia. Informò diretta- mente Mussolini e gli strappò la liberazione di Guareschi in- ventando le giustificazioni piú bi- slacche. Guareschi fu rilasciato. Ma non perdonato. Il comando del- la milizia ottenne che egli fosse ri- chiamato per direttissima sotto le armi. Era l'autunno del '42: Su una tra- dotta militare partita da Bologna, un grassoccio sottotenente d'arti- glieria nel vagone ufficiali, dove u- na piccola lampada blu tentava di rischiarare il corridoio, pestava le scarpe dei colleghi alla ricerca di un posto raccogliendo invettive in tutti i dialetti. Si fermò sugli stivali d'un ufficiale che lo fulminò con u- no sguardo inconfondibile. Il sotto- tenente riconobbe l'ufficiale. Gli chiese dove fosse diretto. «Vado in Africa. E tu che ci fai sui miei pie- di?», rispose l'altro, che era il Nib- bio. Per ora Guareschi era diretto al reggimento. Per il Re L'8 settembre '43, all'alba, uffi- ciali e soldati della caserma di A- lessandria, dove Guareschi era o- ra tenente d'artiglieria, schizzaro- no fuori in ordine sparso per parte- cipare a una marcia in tenuta mi- metica verso i punti più disparati della penisola. L'ordine era sparso perché, piuthe di marcia, si tratta- va di fuga e la tenuta era mimetica perché ognuno s'era infilato nei primi abiti borghesi che erano ca- pitati a tiro, senza curarsi di taglia e foggia pago solo che il colore non fosse grigioverde. Guareschi voglia di tornare a ca- sa ne aveva forse più degli altri. Sei mesi prima gli era esplosa un'ulce- ra nello stomaco. Lo faceva impaz- zire. Aveva avuto una licenza per trascorrere a casa la convalescen- za. Era servita per creare nella si- gnora Ennia i presupposti d'una seconda maternità. Famiglia. Bim- bo in arrivo. Lavoro. Richiami irre- sistibili. Ma non riuscì a disertare: aveva giurato fedeltà al re. Nel re vedeva l'unità nazionale che non andava dissolta. Restò al suo posto. Con pochi commilitoni quasi i- nermi disputò quindi, dall'interno della caserma, un incontro non a- michevole con le truppe corazzate tedesche che s'erano attestate al- l'esterno. Raccomandò ai suoi ven- ticinque uomini a difesa della por- ta carraia di economizzare i colpi. Che ognuno mirasse il proprio uo- mo! «E come si fa? — obbiettò uno Sono tutti nascosti dentro i carri armati». Allora Guareschi raccomandò che ognuno mirasse il proprio car- ro armato. (10 — continua)

Transcript of Guareschi 10 25

Page 1: Guareschi 10 25

inchiuso in carcere per aver det-to a voce un po' troppo alta che cosa pensava della guerra, del patto dell'Asse e della Campa-gna di Russia, Guareschi viene

liberato su ordine di Mussolini dopo 1 intervento del capo redattore del «Po-polo d'Italia". Fu così rilasciato, ma non perdonato e il comando della Milizia ottenne che Giovannino venisse richia-mato per direttissima sotto le armi. Era l'autunno del 1942.

A PAGINA 12

Arrestato come disfattista) rilasciato ma spediAD a.' fronte •

Due vignette di Guareschi. Qui sotto il soldato intima al germoglio: «Torna indietro o sparo!» (dal Bertoldo n.10, 8 marzo 1940). A destra: la fame in Russia: «Dimmi un esempio di nome astratto». «Il pane» (dal Bertoldo n.95, 26 novembre 1937)

■ntE. IM■

Beppe Gualazzini

e troppe ore passate seduto in redazione al Bertoldo l'avevano appesantito: 83 chili, una quindici-na più del necessario. Tentò di combattere l'incipiente obesità. Un giorno, mentre Ennia e Alberti-no, il suo primo figlio nato nel '40, erano in vacanza a Igea Marina, mise uno zaino in spalla, salì sulla sua gloriosa bicicletta Dei e pe-dalò. Non si fermò per quindici giorni. Scalò il Passo del Sella, Por-doi, Falsarego. Pedalò per centi-naia di chilometri in pianura e spuntò a Igea Marina con le gambe bruciate dal sole, il naso pelato, in brache corte e molle di sudore. Si pesò: aveva perduto un solo chilo. Lo sentirono dire: qui ci vuole una cura più robusta. Il destino lo e-saudì subito.

La fronda Dal diario clandestino, 19 di-

cembre '44, Lager XB 19, Sandbo-stel, Nord Ovest della Germania nazista: «Ho ricevuto — annota Guareschi dal suo letto a castello — una lettera da casa: a C arlottina stanno spuntando quattro dentini e ha imparato a dire no. Anch'io ho imparato a dire no, ma ci è voluta una guerra mondiale».

Il no maturava già da anni. I riti e l'aggressiva politica del governo fascista innervosivano quelli del Bertoldo che, dall'umorismo fine a se stesso, saltarono nella satira di costume e subito dopo nella satira politica. Sfidarono il regime so-

prattutto con incoscienza poiché esso non era fatto solo di gerarchi piú o meno esaltati, ma era stato concimato a dovere da un lungo codazzo di profittatori e servi. Contro essi la ragione valeva men che nulla.

Quando Appelius dai microfoni dell'Eiar, rivolse a Dio l'invito di stramaledire gli inglesi, il Bertoldo insorse condannandone la stupi-dità e lanciandosi contro la retori-ca e i colpevoli silenzi delle tra-smissioni sulla vera situazione in-terna della nazione e sullo stato d'animo della gente. Nelle pagine del giornale l'Eiar divenne l'Ente incoraggiamento afonia radiofoni-ca. Mondaini in una vignetta mise su un angolo di strada un muto e un sordo: ho intenzione di cantare per l'Eiar, dice a segni il muto. Be-ne, ti sentirò volentieri, risponde il sordo.

Il regime I ligi al regime sbaluginavano nel

vedere il Bertoldo voltar di prora e addentrarsi in quel mare così peri-coloso. Guareschi inventò il Fesso di guerra, un omiciattolo con la bocca a trombetta, tutto vestito di nero, che imperversando tra citta-dini alti un palmo, credeva e pro-palava qualunque scemenza la propaganda suggerisse. Palermo dedicò vignette alle Mamme anno-narie, costrette a far la spesa con la tessera: non piangere Carletto, se stai buono ti faccio succhiare ún ta-gliando dello zucchero. Ma come fate, chiede una signora alla pa-drona di casa, con questa scarsità di burro? Cucino col sapone.

I fascisti preparavano la guerra per la primavera. Guareschi dise-gnò un fante che punta il suo anti-quato moschetto 91 contro un ger-moglio che sta spuntando su un al-bero: torna indietro o sparo! Fare la fronda divenne sempre più peri-coloso e difficile. Saul Steinberg si preparò a fuggire in America per' non salire con altri ebrei su un va-gone bestiame diretto al Nord.

Scoppiò la guerra. Il fratello di Guareschi fu spedito su fronti diffi-

cili e nelle notti d'oscuramento Guareschi cominciò a dire un po' troppo forte ciò che pensavano in molti. Una sera in pieno centro di Milano vuotò il sacco urlando tra la gente la sua definitiva valutazione sulla guerra, sul patto dell'Asse, sulla Campagna di Russia. Arre-stato. Interrogato. Rinchiuso in cella. Ennia se ne andò come una disperata per la città a mobilitare gli amici in sua difesa.

Angelo Rizzoli si mosse per pri-mo. Andò al comando della mili-zia. Parlò col federale. Col prefet-to. Con una mezza dozzina d'alti papaveri del regime. Non ottenne altro se non vedersi sbattere sotto

il naso due fogli protocollo con scritto tutto quanto Guareschi ave-va urlato per ore sotto centinaia di balconi. Spiacenti, ma la notorietà di Guareschi era tale da non poter lasciare impunito l'episodio. Che poi l'ufficio politico teneva d'oc-chio Guareschi da un bel pezzo, questo disfattista.. Una condanna esemplare sarebbe stata un buon monito per tutti gli antifascisti.

Riuscì a sbloccare la situazione Giorgio Pini, • capo redattore del Popolo d'Italia. Informò diretta-mente Mussolini e gli strappò la liberazione di Guareschi in-

ventando le giustificazioni piú bi-slacche. Guareschi fu rilasciato. Ma non perdonato. Il comando del-la milizia ottenne che egli fosse ri-chiamato per direttissima sotto le armi.

Era l'autunno del '42: Su una tra-dotta militare partita da Bologna, un grassoccio sottotenente d'arti-glieria nel vagone ufficiali, dove u-na piccola lampada blu tentava di rischiarare il corridoio, pestava le scarpe dei colleghi alla ricerca di un posto raccogliendo invettive in

tutti i dialetti. Si fermò sugli stivali d'un ufficiale che lo fulminò con u-no sguardo inconfondibile. Il sotto-tenente riconobbe l'ufficiale. Gli chiese dove fosse diretto. «Vado in Africa. E tu che ci fai sui miei pie-di?», rispose l'altro, che era il Nib-bio. Per ora Guareschi era diretto al reggimento.

Per il Re L'8 settembre '43, all'alba, uffi-

ciali e soldati della caserma di A-lessandria, dove Guareschi era o-ra tenente d'artiglieria, schizzaro-no fuori in ordine sparso per parte-cipare a una marcia in tenuta mi-metica verso i punti più disparati della penisola. L'ordine era sparso perché, piuthe di marcia, si tratta-va di fuga e la tenuta era mimetica perché ognuno s'era infilato nei primi abiti borghesi che erano ca-pitati a tiro, senza curarsi di taglia e foggia pago solo che il colore non fosse grigioverde.

Guareschi voglia di tornare a ca-sa ne aveva forse più degli altri. Sei mesi prima gli era esplosa un'ulce-ra nello stomaco. Lo faceva impaz-zire. Aveva avuto una licenza per trascorrere a casa la convalescen-za. Era servita per creare nella si-gnora Ennia i presupposti d'una seconda maternità. Famiglia. Bim-bo in arrivo. Lavoro. Richiami irre-sistibili. Ma non riuscì a disertare: aveva giurato fedeltà al re. Nel re vedeva l'unità nazionale che non andava dissolta. Restò al suo posto.

Con pochi commilitoni quasi i-nermi disputò quindi, dall'interno della caserma, un incontro non a-michevole con le truppe corazzate tedesche che s'erano attestate al-l'esterno. Raccomandò ai suoi ven-ticinque uomini a difesa della por-ta carraia di economizzare i colpi. Che ognuno mirasse il proprio uo-mo!

«E come si fa? — obbiettò uno Sono tutti nascosti dentro i carri armati».

Allora Guareschi raccomandò che ognuno mirasse il proprio car-ro armato.

(10 — continua)

Page 2: Guareschi 10 25

Beppe Gualazzini

, dunque, 1'8 settembre '43, giorno del ribaltone, mentre i più tra ufficiali e soldati gettavano armi e divise per tornare a casa, un cocciu-to colonnello e un cocciutissimo te-nente, che era Guareschi, con un pugno di soldati restarono a difen-dere ligi al giuramento fatto al Regio Esercito la caserma d'artiglieria di Alessandria. I tedeschi avanzarono con i corazzati, smantellarono a cannonate un'ala della caserma ed entrarono. Gli italiani, armati di fu-cile 91 e poco altro, fecero un rapido conto delle cartucce rimaste. Zero. Quindi poterono arrendersi.

Nei lager I prigionieri furono rinchiusi per

qualche giorno nella Cittadella d'A-lessadria dove i sotto il controllo di mitragliatrici pesanti, era stato im-provvisato un campo di smistamen-to per quegli ufficiali che avevano ri-fiutato di unirsi al Reich. E Guare-schi era tra essi.

«Dio ti scampi dalla Cittadella, po-stero mio! — scrive Guareschi nel Diario clandestino — Le cittadelle sono, oltre il resto, di una esigenza straordinaria. Non esiste in esse un pezzettino di intonaco bianco che non abbia da comunicarti a caratteri di scatola ordini perentori: osare! Credere, obbedire, combattere! Marciare, non marcire! Chi si ferma è perduto! Rinnovarsi o morire! Sul muro di un caratteristico locale a piccoli scomparti trovai scritto a ca-ratteri cubitali: correrei E ciò, pur considerando la fretta imposta dallo

De stato di emergenza, costituiva una pretesa esagerata»,

Qualche giorno dopo, Guareschi e gli altri prigionieri furono incolon-nati, spinti fino alla stazione ferro-viaria, stipati in Carri bestiame 'e de-portati oltre le Alpi. Con un mestolo d'acqua ogni dieci ore, raggiunsero la Polonia e furono internati nella Nord Kaseme, un immenso fortilizio alla periferia di Czestochowa.

Il forte apparve lugubre e spettra-le, "sotto una luna pallidissima, Cir-condata da torrette e reticolati. Era stato trasformato in uno di quei campi di Concentramento dei quali, già nel '43, si parlava sottovoce e con terrore anche in Italia.

Una decina di giorni prima Guare-schi, appena catturato ad Alessan-dria, pesava 86 chili. Ma già era dieci in meno quando le SS lo fotografaro-no nel Cortile della Nord Kaserne do-po avergli messo al collo, come si fa coni delinquenti comuni, un cartello col suo numero di internato, il 6865.

Le SS se ne andarono lasciando i prigionieri sotto la sorveglianza di soldati dell'esercito tedesco. La guer-ra era già stata lunga e, a parte il vit-to, le condizioni di vita degli internati non erano molto peggiori di chi dove-va sorvegliarli. I tedeschi, lontani dal-la loro patria e già con tristi presenti-menti, pur dietro urli e divise stavano rannicchiati nella stessa nostalgia per le famiglie lontane. StesSa,voglia di tornare a casa che straziava gli ita-liani. Così i :guardiani, in un certo senso prigionieri dei prigionieri, se appena il regolamento lo permetteva non lesinavano agli internati carta e matita, un mazzo di carte, una fisar-monica, qualcosa insomma per in-gannare quei tempi eterni.

Per non morire Un giorno comparve un ufficiale

della Gestapo che'. organizzò com-puntó un giro turistico della :città e li Orto con una g-tiida pér <lie di Cze-stodhowa finti al Santuario della Ma-donna Nera. Guareschi fu colto da strani sentimenti sotto quel cielo e tra i polacchi. Emozioni che spiegò anche comè ricordi ancestrali. Certi suoi an-tenati erano nati in quella terra.

Il Santuario della Madonna Nera

in apparve come una fortezza for-niidabile. I monaci come soldati tra-vestiti, con quegli stivaloni che s'in-travVedevano sotto le tonache. Nel diciottesimo secolo gli svedesi non erano riusciti ad espugnarla con 12 Mila uomini, ed era difesa solo da duecento monaci. Avevano dovuto ritornare in 18 mila con centinaia di cannoni. Guareschi a naso in su ne osservò gli emblemi, due leoni ram-

panti e un corvo che portava il pane nel becco.

«Prima quell'uccello era un'aquila — spiegò la guida polacca sottovoce per non farsi udire dai nazisti —. Poi vennero i russi, tolsero l'aquila e mi-sero un corvo. Poi vennero questi al-tri e tolsero anche il pane».

Guareschi intuì la drammatica di-gnità di quel popolo. C'era ancora al mondo chi combatteva contro i mo-

stri. Chi non opponeva odio a odio, ma dignità a violenza. Pazienza alla fol-lia. S'inginocchiò davanti alla Madon-na Nera e cominciò piano a ritrovare se stesso. La guida gli spiegò che si di-ceva fosse la più antica Madonna del mondo, ritratta dal vero da San Luca vent'armi dopo Cristo in un legno ri-cavato dalla tavola sulla quale Maria aveva pianto quando le avevano cro-cefisso il Figlio. Sull'icona i segni di

avventurose peregrinazioni, da Gerusalemme a Costan2- tinopoli, poi in Ungheria, in-fine in Polonia. Colpita da u-na sciabolata, presa a fucila-te da un tartaro. Era l'anima inquieta, immutabile attra-verso tempo e violenza, ma-ciullata ma sempre splendi-da, della Polonia e di quant'altro le somigli.

«Si leva un canto dalla fol-la — annota Guareschi sul Diario Clandestino — pare la voce stessa della Polonia: un dolore dignitoso di gen-te usa da secoli ad essere schiacciata e a risorgere. Di gente che viene uccisa sempre e non muore mai».

Ritornò, incolonnato con gli altri, verso la Nord Ka-seme. La sera già si alzava dai boschi azzurri che re-cingevano Czestochowa. Ma prima, sul sagrato, s'era fermato, aveva respirato a lungo l'aria fredda e aveva inventato il motto che lo se-guì caparbio per tutta la durata della prigionia nei lager.

«Non muoio neanche se m'ammazzano!», disse avo-

ce alta. Lo ripeté piú forte e il capitano

della Gestapo non riuscì a Tarlo smettere. E allora, anche gli altri uf-ficiali italiani gridarono la stessa frase. Poi si misero in cammino, ri-petendola cupi. Sottovoce, caden-. zando su essa il ritmo dei passi.

Paride Biasenti, presidente del-l'Associazione nazionale degli ex in-ternati, dice: «Giovannino Guare-schi fu uno dei 40 mila ufficiali de-portati dai tedeschi dopo 1'8 settem-, bre in quei lager che videro morire, a decine di migliaia, militari italiani d'ogni grado i quali, a una qualsiasi adesione al nazifascismo, preferiro-no le tragiche incognite d'una catti-vità sottratta a ogni garanzia e tute-la delle convenzioni internazionali. Ebbene, nei vari lager in cui passò, Guareschi fu una bandiera esem-plare di dignità. Di coerenza morale incrollabile. Di fede nella libertà».

(11 — continua)

A sinistra: vignetta di Guareschi apparsa sul Bertoldo n. 93 del 19 novembre 1937 dal titolo «Fame in Russia». Dialogo tra i due soldati: «Ieri ho mangiato come un bue» «Molto?» «No: fieno». Qui sopra un'altra vignetta in cui Giovannino prende in giro la propaganda fascista

ortato nel lager urlava: <Non muoio neanche se na'arcrazzano»

Guaresch1 1'8 settembre '43 davanti ai tedeschi non fugge

8 settembre 1943: l'Esercito si sfal-da, ufficiali e soldati, in massa, gettano le armi e cercano di torna-re a casa. Ma ad Alessandria un cocciuto tenentino, '''Guareschi,

con pochi uomini vuol difendere dai te-deschi la sua caserma e l'onore della bandiera. La lotta è impari, fucili '91

- contro carri armati. Rimasto senza mu-nizioni, Giovannino si arrende e dopo un lungo viaggio finisce in Polonia, in un lager tedesco presso Czestochowa.

GUALAZZINI A PAGINA u J gin

Page 3: Guareschi 10 25

Deportato in campo di concentramento, Guareschi non cede alle lusinghe delle SS e dei gerarchi fascisti che andavano a cercare adesioni al Reich e alla Repubblica di Salò. Anzi continuava a dare prove di pericolosità e venne trasferito in un lager ancora pia tremendo

ZEZEME

Beppe Gualazzini

isogna dire — ha detto Paride , Piasenti, presidente dell'AssociaZio-ne nazionale ex internati — che tra le altre stranezze dei lager nazisti, quel mondo fuori dal mondo, si mori-va di fame e di tubercolosi, ma si po-tevano svolgere attività culturali. C'erano grossi calibri, come Giusep-pe Lazzati, Enzo Paci, Enrico Allorio, Silvio Golzio. E c'era Guareschi. Quel che egli scrisse e disse, sfidan-do i più temibili straflager e i campi di sterminio, per dissolvere ango-scia e sfiducia, per tenere alto il mo-rale di migliaia di uomini laceri ed e-sasperati quando fame e freddo im-perversavano e la guerra pareva non finire più, i rischi da lui ogni giorno corsi sotto la ferula della censura te-desca, tutto questo è un merito che rimane e che fu di Giovannino Gua-reschi uno di quegli uomini ai quali, specie in questi tristissimi tempi, il pensiero ritorno con riconoscenza immutabile».

Il colpo di moschetto Quando freddo e fame alle Nord

Kaserne di Czestokhowa divennero pugnali, i nazisti ricaricarono a gruppi gli ufficiali che insistevano a non aderire al Reich e a Salò e li smi-starono in altri campi di concentra-mento. Ulteriori giri di vite. A Gua-reschi consegnarono il pastrano d'un soldato russo ucciso e una carta dove stava scritta la nuova destina-zione: Beniaminovo, un vero campo di concentramento questa volta. Senza costruzioni in muratura come alla Nord Kaserne, con baracche in

legno lunghe e basse, circondate so-lo da sabbia e dalla sconfinata pianu-ra polacca. Il vento fischiava giorno p notte tra le assi sconnesse.

E cominciò la Resistenza bianca, tra le lusinghe delle SS e dei gerar-chi fascisti che andavano di campo in campo a cercare adesioni al Reich e alla Repubblica di Salò promettendo in cambio un facile e immediato ri-torno a casa. Di farla finita con fame, freddo e pericolo costante di riceve-re un colpo di moschetto tra le spal-le. Di chiuderla con la certezza d'es-sere prima o poi deportati, giù giù per i gironi dell'inferno, fino ai cam-pi di sterminio.

Guareschi e tanti altri invece di ce-dere si scossero e diedero un soffio di vita a quei giorni morti. Allestirono un teatrino nella baracca 18. Il poeta Roberto Rebora vi recitò assorto le sue poesie. Guareschi lesse conver-sazioni scritte inventando giornali parlati. D• capitano Musella, che da civile era un ottimo concertista, rac-colse qualche strumento, qualche virtuosista e fece della musica.

Musella, piccolo, minuto,- era giun-to a Beniaminovo dal duro campo di Doblin, dov'era riuscito a creare un'orchestra e a concertare Krieg e Bach a memoria. I nazisti sapevano quali momenti d'aggregazione, qua-le forza possano scaturire dalla mu-sica e l'avevano strappato da Doblin come erba cattiva per spedirlo via. A Beniaminovo, Musella durò poco più di due mesi. Morì dagli stenti. Gua-reschi pretese dai nazisti che la bara del capitano Musona fosse avvolta nella bandiera tricolore. I colori del drappo esplosero sullo sfondo d'un cielo tumultuoso. I prigionieri laceri, smagriti, al passaggio di bara e ban-diera parvero trovare di colpo sé stessi. Scattarono sull'attenti. Batte-rono l'uno contro l'altro gli zoccoli.

E i nazisti fecero una crocetta an-che a fianco del numero 6865 e lo mi-sero di buon diritto tra coloro che a-/ vevano urgente bisogno d'essere ca-, lati d'un altro girone.*Guareschi ave4, va dato in poche settimane tropps, prove di pericolosità.

Leggendo una conversazioné nel teatrino della baracca 18 aveva detto dei tedeschi: «Mettono acqua in una marmitta, dosano la carne, le polveri , e gli estratti, chiudono il coperchio a

tenuta ermetica, mettono il lucchet-to, accendono il fuoco e, quando una certa valvola fischia, la minestra è r)ronta. I tedeschi fanno così anche la guerra: buttano nel pentolone car-ne d'uomini, dosano polveri piriche, estratti di scienza militare, abbassa-no i R)rchio della disciplina, met-tono ' lucchetto dell'intransigenza, accendono il fuoco e aspettano il fi-

ischio dhe annunci che la guerra è

vinta. Ma il fischio non si sente e la pentola scoppia».

Erano gli unici discorsi che poteva-no dar forza ai prigioneri: se non c'e-ra la speranza che la follia nazista ve-nisse sconfitta, a che scopo continua-re a resistere? Guareschi aggiunse: «Signora Germania, tutti inquieti con me, ma è inutile (...) L'uomo è fatto co-sì, signora Germania: al di fuori è una faccenda molto facile da comandare,

ma dentro ce n'è un altro e lo coman-da solo il Padreterno». '

Fissava negli occhi le sentinelle te-desche.

«E questa è la fregatura per te, si-gnora Germania!».

Trasferito. Il maestro Coppola, di Treviso, tra

il filo spinato di Sandbostel e Wiet-zendorf, occupò la stessa baracca di Guareschi, lui sul pagliericcio al pri-

mo piano del letto a castelloGuareschi sotto. Un condomi2,rv nio dove le uniche pareti possi-' bili erano Amicizia e Solida-- rietà. Professore di musica,. compositore geniale, Coppola! era anche un gran disegnatoreE disegnò infatti curiose carica-'d ture corredate da didasoalie p scritte a Guareschi. Ecco il lager d'inverno. Cielo nero, basso e galoppante. L'orizzonte lun-.. ghissimo, con in fondo una stri-scia di luce che abbacina. Ac-'; quattata e piatta baracca M as-sito che pare una gran stalla coli tetto spesso di neve e frastaglia-.`+; to da stalattiti di ghiaccio. EIT ghiaccio, come una morsa coloriv acciaio, è attorno a un piccolo m pozzo con la pompa a mano. trebbe essere un unico, alluci-nante, mondo dilagato e privo di 'i ostacoli.

19

Steppa e reticolati Ma tra baracche e steppa

ge il reticolato. Alto. A due pa-reti. E nel corridoio tra le due pareti corrono aggrovigliatak matasse di filo spinato. In primo

piano, avvolto in una coperta grigia e sfilacciata, sta in piedi, rigido, un !, prigioniero. Secco come un baccalà. ',- Volto smagrito, occhiali a stanghetta con lenti gelate. Naso paonazzo a forma di candelotto di ghiaccio. È posa da indossatore. Didascalia di Guareschi: «Completo invernale ner, quale' un soffice drappeggio ammor-bidisce la linea del corpo e attenua l'evidenza delle curve (...) vezzosi i calzoni a volant e le calde babbucce con suole di faggio». -

Altro indossatore messo di profilo. Sta infilato fino alle ascelle in un lo-goro panno fermato sul petto con un 7.1- filo di ferro. Occhiali e naso sporgo-7g no da un cappuccio fatto con una ma-gi nica strappata. Commento di Guai reschi: «Calzone di lana con cinturag in filo di ferro con fibbia a torciglio-ào ne. La novità di questo indumento 3 soffice è caldo sta nel fatto che esso n serve da calzone e da giacca. In casoià di tempo rigido, il calzone può esse-in re allacciato sopra la testa». )11

(12 continua)_l

Neff lager sfida la ceng

e SS e areStiSCe in teatrino nella baracca, ,1136-)

Guareschi: anche un teatrino nel campo di concentramento

Tiame, freddo e il pericolo costante di ricevere un colpo di moschetto tra le spalle, ma Guareschi e tan- i ti altri internati invece di cedere si scossero e diedero un soffio di

vita a quei tristi giorni passati nei lager nazisti. Durante il soggiorno a Benia-minovo, in Polonia, nella baracca 18 fu allestito un teatrino: il poeta Rebora vi recitò le sue poesie, mentre Giovanni-no lesse lunghe conversazioni scritte, inventando i giornali parlati.

GUALAZZINI A PAGINA I I

Page 4: Guareschi 10 25

Li

• Guareschi dal lager risponde no - a Kesselring che vuoti Nheigarlo

Da Beniaminovo, in Polonia, Gua-reschi viene «trasferito» a Sandbostel in

Germania. Nel nuovo la- • ger nulla cambia, natu-ralmente. E Giovannino decide di farsi crescere i baffi «per avere qualcosa cui aggrapparsi». Intan-to il maresciallo Kessel-ring, comandante tede-sco in Italia, un giorno

convoca Angelo Rizzoli e gli chiede un settima-nale umoristico per «sol-levare il morale della popolazione». Vorrebbe farlo dirigere a Guare-. schi, che sarebbe subito liberato. Ma Giovannino risponde fieramente no. Non ho voglia, fa, sapere, di sparare balle in testa alla gente.

GUALAZZINI 3 A PAGINA

n, i I a ei si fa crescere o per occuparsi di cualcosw,

Beppe Gualazzini

andbostel,il lager dove Guare-schi fu deportato per essersi troppo di-stinto a Czestochowa e a Beniaminovo, non era piú in territorio polacco, ma in Germania. E per capirlo bastava dare un'occhiata alle facce dei nuovi custo-di. Eran tutti vecchissimi soldati del Reich che portavano ancora gli elmetti dell'esercito del Kaiser. Alcuni di loro faticavano a stare diritti e non capiva-no bene se stavano sorvegliando pri-gionieri della prima o della terza guer-ra mondiale. Eppure, sentendosi a ca-sa loro, riuscirono a essere indifferenti a qualsiasi sentimento di pietà per chi non era tedesco e i regolamenti erano applicati alla lettera come sentenze di morte.

Il clima era questo. Tuttavia anche a Sandbostel, fatta salva ogni costrizione del regolamento, ai prigionieri era con-cesso trascorrere il tempo organizzan-do attività ricreative. A primavera un camion militare scaricò Guareschi su quelle sabbie. Gli si era aperta l'ulcera ma non c'erano più, come un anno pri-ma in Italia, medicinali per curargliela. Né analisi radiologiche per sorvegliar-la. Dovette affidarsi al digiuno. Invece di mangiare con gli altri quel poco che passavano i nazisti e che era cemento per il suo stomaco, si rifugiava in cuc-cetta e ci stava per ore raggomitolato e tremante. Era ormai sotto i 60 chili.

«Gli zigomi -- gcrisse -- sono riaffio-rati dall'epa che li affogava e movimen-tano piacevolmente le guance. IL mio volto possiede finalmente delle ombre: gli occhi sono diventati più grandi, si sono disincantati e vivono. I capelli si sono emancipati e si arruffano con di-screzione sulla fronte che pare più am-pia. Due buoni baffi, decisamente neri,

completano la nuova estetica». Si era infatti per la prima volta in vita sua fat-to crescere ibaffi. Gli servivano, mi rac-contò il suo compagno di lettO a castel-lo Arturo Coppola, per avere qualcosa a cui aggrapparsi quando lo stomaco vuoto e dolorante gli piegava le ginoc-chia.

Grazie, no Kesselring, che comandava sulla

piazza di Milano le truppe d'occupa-zione, un giorno chiamò Angelo Rizzo-li e gli spiegò che, per rialzare il mora-le alla popolazione, voleva fosse fonda-to un settimanale umoristico.

«Come il Bertoldo» specificò. Bertoldo è finito nel '43, sotto il

bombardamento di piazza Carlo Erba. Sono andati distrutti perfino gli archi-vi», rispose acido Rizzoli.

«In un nostro campo abbiamo Gua-reschi. libertà a patto che venga a Mi-lano a dirigere un settimanale che ri-spolveri il successo del Bertoldo» tagliò corto Kesselring.

E Guareschi disse ancora no. Si era rifiutato d'andare a Salò a sparare nel petto ai suoi fratelli italiani. Tanto più di andare a Milano a sparare balle in testa alla gente.

Gli giunsero lettere accorate dalla signora Ennia. Gli diceva di pensare che aveva moglie e figli, di pensare ai suoi vecchi che volevano rivederlo pri-ma d'andarsene, di tornare a Milano, in fondo si trattava solo di fare il suo la-voro. Guareschi le rispose con una let-tera di quattro facciate nelle quali, in calligrafia minuta e per centinaia di volte, era ripetuta solo la frase: «Io ho ragione! Io ho ragione! Io ho ragione!».

Continuò a lavorare. Mancava di vi-tamine, gli cadevano i denti, l'ulcera lo aggrediva furibonda, doveva combat-tere con cimici, pulci e pidocchi. La notte i topi gli camminavano sul petto.

Inno a Stalin Alla fine dell'agosto del '44, il campo

dì Sandbostel pareva un lazzaretto. Un contagio continuo di uomini e cose ca-duti in abiezione. Tuttavia sopravvive-vano isole di gente decisa a non abbru-tirsi. C'era da combattere contro il di-lagare di furti e risse, da far barriera contro chi già tentava di portare l'odio politico, da baracche in baracca. Incre-

dibilmente, c'era da battersi anche contro l'alcolismo perché alcuni riu-scivano a distillare roba del pozzo nero e ne facevano commercio.

Se crebbe lo sfacelo, crebbe però in proporzione il numero di coloro che al-lo sfacelo si opposero. Fiorirono inizia-tive. La chiesa, i concerti, mostre d'ar-te, assemblee regionali, sport, annunci economici e persino la borsa, la biblio-teca, e i corsi politici. Infatti un gruppo

di ufficiali, convinti della necessità a guerra finita di ingaggiare lotte prole-tarie e forti del fatto che in nessun'altra parte del inondo il proletariato era de-nominatore comune come in un lager, istituirono corsi marxisti clandestini.

Guareschi confidò a Carlo Martigna-go, uno dei suoi più cari compagni di prigionia, che gli sarebbe piaciuto tan-to sapere cosa mai si dicessero là den-tro, dove volessero arrivare istruendo-

11 generale Kesselring propose a Guareschi la libertà. a patto che fondasse un giornale umoristico per risollevare il morale della popolazione. Giovannino disse ancora no e in una lettera alla moglie che lo supplicava di accettare pensando alla famiglia e ai bambini scrisse quattro facciate fitte fitte, con una sola frase ripetuta centinaia di volte: «Io ho ragione, io ho ragione...»

si sul marxismo. Ma non poteva andar-ci di persona. ,

«E hai ragione —rispose Martignago — basta che qualcuno con lo stomaco più lungo del solito faccia una soffiata che le Ss fanno un macello».

Guareschi spiegò che non era tanto perle Ss, quanto peri marxisti che non lo avrebbero accettato. Diffidavano. Temevano che lui potesse usare ciò che facevano per sfotterli p oi nelle con-

versazioni del Bertoldo parlato. Non lo consideravano insomma un buoi,

cliente. Eppure lui ave-va bisogno di sapere. Sentiva che questa vol-ta i marxisti stavano fa-cendo sul serio. Si sta-vano preparando al do-p0. E che cosa avrebbe-ro fatto coloro che rnarxisti non erano, li a-vrebbero accettati? Li avrebbero combattuti?

«Ho capito. Vado io e poi ti racconto», decise Martignago.

Ma era davvero mol-to pericoloso.

Rischio per rischio alzò le spalle Martigna-go — il più 'grosso è che io torni comunista».

Si sorbì tutti i corsi. Con estrema, precisio-ne ripete le lezioni à Guareschi che lo ascol-tava ora critico, ora af-fascinato. Esaltazione e rifiuto. La strana febbre salì. Un giorno dal suo giaciglio allungò a Cop: pola un foglio zeppo di versi. Coppola diede

un'occhiata e si sporseper vedere se di sotto Guareschi stesse ridendo.

«Ma è un inno a Stabil!» gli disse. Guareschi annuì serissime. Era pro

prio un solenne, ispirato inno a Stalin. Quando i corsi però imboccarono a

rotta di collo vie diverse e dall'analisi dei mali che affliggevano la società passarono a insegnare machiavelli-smi, divisioni in classi, dittatura di u-na delle classi, ricorso alla rivoluzio-ne violenta, Guareschi tornò sui suoi passi. Riflette a lungo: lui non era co-me loro, • uno sconfitto. Nonostante tutto e tutti sapeva che sarebbe riusci-to a passare attraverso quel catacli-sma senza odiare nessuno. Solo così,' capì in profondità, si possono gettare le basi per una democrazia di galan-tuomini che non escluda nessuno. In quei corsi marxisti invece, gratta gratta, si insegnava l'odio e ron Si fon-da niente sull'odio. A parte l'odio. Dunque, concluse Guareschi: «Che è poi il comunismo se non un altro ismo totalitario?».

(13 — continua)

Page 5: Guareschi 10 25

Disegno di Guareschi, biacca su carta nera, dal titolo «profilo di ufficiale». Questo disegno probabilmente doveva essere pubblicato sul Bertoldo, ma rimase inedito (tratto dal volume «Guareschi e il Bertoldo» edito da Rizzoli). Anche in campo di concentramento Giovannino non smise mai di disegnare e vergava figure raffiguranti soldati nazisti su bisunti pezzi di carta che riusciva a recuperare

N9 Beppe Gualazzini

avvicinava il Natale del '44 e Guareschi era più che mai internato nel lager di Sandbostel. Che fare per i suoi pezzenti compagni di prigio-nia, divorati come lui da fame, pulci e nostalgia? Scrisse la Favola di Natale su gualciti e bisunti pezzi di carta e la illustrò con molti disegni. I nazisti o-ra sono lampionai in divisa del Reich e con • lunghissime aste spengono stelle nel cielo buio. Ora aggrottati censori che con timbri e inchiostri cancellano passeri e rondini. Diven-tano cattivi funghi di ferro, grosse cornacchie con l'elmo. Un poco di pietà per certi vecchi soldati con gli elmi ancora all'asburgica: nei dise-gni .tratto appena piú morbido, ma il grande chiodo al centro dell'elmo non ha la punta all'insù, ma ce l'ha al- , l'ingiú, che si conficca nel cervello.

I soldati tedeschi vivono in un mon-do dove tutto è vietato. C'è una fab-brica mostruosa e squallida. Le case sono fatte col meccano. Anche gli al-ben son di ferro e hanno sul tronco leve e ingranaggi per rallentare o ac-celerare la crescita. E le mamme te-desche, portando a spasso neonati armati di fucile, devono camminare col passo dell'oca. Ufficiali impettiti salutano a braccio teso. Rispondono a zampa tesa ciuchi che trascinano carri d'acciaio.

Le ultime parole che Guareschi pronunciò col pianto in gola leggen-do la Favola di Natale ai suoi compa-gni di prigionia: «E se non v'è piaciu-ta, non vogliatemi male, ve ne dirò u-na meglio il prossimo Natale, e che sarà una favola senza malinconia: c'era una volta la prigionia...».

Promessa mantenuta. L'anno se-

Stremato da guente Guareschi, il maestro Coppo-la e i sopravvissuti della compagnia rappresentarono la Favola nel Nata-le '45 all'Angelicum di Milano. Di-nanzi a un pubblico strabocchevole di ex internati e delle loro ritrovate famiglie poterono davvero comincia-re la Favola con «C'era una volta la prigionia...». Ma prima di giungere all'Angelicum, dovevano passare an-cora per l'ultimo e piú terribile giro-ne, il lager di Wietzendorf dove le SS spedirono, premio per le loro fatiche artistiche, gli irriducibili superstiti della Resistenza bianca.

Erano stremati: Guareschi già sta-va scendendo sotto i cinquanta chili. Eppure, nel cielo sempre grigio della Germania, a ben guardare c'erano nuovi presagi. «Cambia improvvisa-niente il tono di certe lettere da casa —O annotò Guareschi nel Diario Clan-destino — scrivono per esempio al capitano P.: siamo fieri della tua fer-mezza di carattere e apprezziamo la nobiltà del tuo sacrificio. Bravo! Tieni duro! In tutte le lettere precedenti, si diceva invece allo stesso capitano P.... e non fare l'imbecille! Torna in I-talia a ogni costo. Aderisci».

I lebbrosi Gli italiani nei campi concentra-

mento erano stati dimenticati dal mondo intero. La Croce Rossa inter-nazionale non poteva interessarsi perché la qualifica di Internati mili-tari non era contemplata. Nei due anni di lager, i volontari della Resi-stenza bianca dagli apparecchio ra-dio clandestini sentirono milioni di parole in ogni lingua, ma mai una per loro in italiano. Non solo erano igno-rati, ma dovevano essere ignorati. Che non si sapesse in Italia e all'este-ro che c'era un'immensa forza di pa-ce che senza imbracciare moschetti e mitra impegnava i nemici proprio in casa loro. Furono peggio che ab-bandonati.

Guareschi e gli altri irriducibili oc- cuparono il campo di Wietzendorf dai primi del gennaio '45. Vissero i

più terribili del loro interna- mento. I morti per fame e tubercolosi aumentavano giorno dopo giorno in progressione geometrica. Così i casi di pazzia. Alla fine di marzo Guare- schi s'era accorto di esser sceso a

quasi 40 chili. Sentì che ormaihasta-va l'assenza d'una sola caloria per ucciderlo. Si distese in stato quasi ca-talettico sul suo giaciglio e restò il più possibile immobile per mesi. L'unico movimento che si concedeva era vol-tarsi adagio ima volta al giorno su un fianco per orinare in uno scatolino

che teneva accanto. Poi tornava frn-mobile a. centellinare ogni respiro.

La «liberazione» Pomeriggio del 16 aprile '45. Arri-

vo degli inglesi preceduti da un in-tenso scambio di colpi d'artiglieria

con i nazisti ormai in fuga. Ore ter-rificanti. Tra le carte del coman-dante del lager c'era l'ordine di sterminio di tutti i deportati in caso i tedeschi avessero dovuto ritirarsi. Invece, sbrigativamente, i tedeschi per non sprecare munizioni e gua-dagnar tempo, regalarono i prigio-

o zucchero, men agli avversari. Allucinati, per-correndo quasi a tentoniruna deci-na di chilometri, gli uomini della Resistenza bianca uscirono dal lai ger preceduta da una bandiera dél-- la Croce Rossa e raggiunsero le li13 nee inglesi. Per risolvere il proble: ma di tutte quelle bocche da sfama-re, gli inglesi fecero sgombrare in mezz'ora la popolazione d'un inte-ro paese, Bergen, consegnandolo a-gli ufficiali italiani.

Cominciò il saccheggio. Guare-schi divenne improvvisamente pro-prietario della drogheria Hermann: Shoert e, spalancata la porta, sì' trovò al cospetto di sei quintali di zucchero, segno evidente che il si gnor Shoert era accaparratore e, borsaró nero.

«Era il 22 aprile '45 — scrive Gua-reschi nel Diario Clandestino — e ri-cordo che, giunto alla fine del terzo chilogrammo di zucchero, comin-ciai a sentire una fama tremenda».

Dopo pochi giorni gli inglesi rimi-sero in colonna, gli ufficiali italiani e i li reinternarono nei lager in attesa, di rimpatrio.

«Nonostante Churchill avesse det-,1 to che l'Italia aveva pugnalato allei spalle anche l'Inghilterra — ricordb poi Guareschi al microfono di una; radio installata nella baracca 90 de;; lager — sia detto ad onore della traL.i dizionale correttezza britannica, it rimpatrio degli italiani non subì un-; minuto di ritardo rispetto ai tempi prestabiliti. •

Furono infatti rimpatriati prima gli inglesi, poi gli americani, poi i francesi, poi gli ebrei, poi i russi, i belgi, gli olandesi, i polacchi, i ceco-slovacchi, i bulgari, gli ungheresi, it'c greci, gli jugoslavi, gli estoni, i lituaú ni e tutti i prigionieri tedeschi. Indi-3- sei cinesi venditori di perle rimastil bloccati ad Amburgo, poi un marií naio argentino che si era addorú-meritato nel porto di Brema, poi una-ì vacca svizzera dislocata nell'Han-i5 noverino e una gattina persina di45 morante a Norimberga, poi due pori_ canini d'India residenti a Monaco & una chitarra spagnola residente Francoforte, infine un narghilè túrifi C° internato ad Essen e gli ex inter21 nati italiani a scaglioni di sei al me-- il se». -

(14 _ continua

s ent, quarille arrivano gli alleati mangia tre e

Guarescht: 4 terribili mesi poi la liberazione dal Oager

nrono terribili gli ultimi quattro mesi trascorsi da Guareschi e dai suoi compagni nel lager di Wietzendorf. I morti per fame e tubercolosi aumentavano di

giorno in giorno, al pari dei casi di paz- zia. Alla fine del marzo '45 Giovannino pesava poco più di 40 chili: ogni caloria era indispensabile per sopravvivere e Guareschi si stese in stato quasi cata- lettico sul suo giaciglio e vi restò il più possibile immobile per giorni e giorni.

GUALAZZINI A PAGINA LI

Page 6: Guareschi 10 25

Guareschi: addio ai reticolati ma il rimpatrio è mi calvario

1111inalmente giunse l'ora del rimpa- u trio per i 40 mila deportati italiani 1 che scelsero la prigionia piuttosto che schierarsi contro i fratelli. I la- ger erano alle spalle, ma il viaggio

fu un calva,rio: l'Italia non riuscì a organiz-zare un viaggio decoroso per i suoi solda-ti. Giorni e giorni su carri bestiame, senza mangiare o bere, impossibile persino ri-posare. Giunti al confine, nessuno ad ac-cogliere quegli uomini ammassati come bestie e ancora vivi solo per miracolo.

GUALAZZIN1 12 A PAGINA ".1

Giovanitino eli reduci tornano a casa

haterenza generale

Beppe Gualazzini

li italiani furono gli ultimi a ,essere rimpatriati dai lager nazisti. S'andava ormai verso l'estate ma in Italia nessuna autorità si ricordava di loro, nonostante ormai il Paese non fosse più M guerra da fine apri-le. Guareschi studiò come distrarre la massa sempre piú turbolenta dei suoi compagni di prigionia. Ri-confortare i depressi. Soprattutto 'preparare gli illusi a quella che, già 's'avvertiva, sarebbe stata la delu-sione di un ritorno in patria ben di-verso da quello sognato durante la volontaria prigionia. Fondò con gli ;amici Radio Fs 90, la stazione radio della baracca 90. Furono installati con mezzi di fortuna un microfono,, 'un diffusore, quindi si iniziarono le trasmissioni. ; I programmi erano, rapide chiac-chierate orientative per dare o 'commentare le notizie captate via radio o fornite dagli inglesi. Piú. lo spoglio d'una piccola posta, scenet-te, racconti umoristici, musica. Fu Rovaglioli a far rischiare il linciag7 'gio a quelli di Radiò B 90 quando non fu chiaro nello spiegare se il cordone ideale che auipicava tra Nord e Sud d'Italia lo intendesse Messo verticale oppure orizzonta-le. Offesissimi i prigionieri meridio-nali marciarono sulla baracca 90 a ' entinaia guidati ad un invalido in

carrozzella ché urlava come un os-sesso che si doveva bruciare la sta-zione radio e, soprattutto, quelli che la facevano funzionare.

Li fermò Guareschi all'ultimo mo- - Mento narrando al microfono la toria d'un carro trainato da due avalli e rimasto senza padrone. E il

carro sbandava perché i due cavalli s'azzannavano tra loro, litigando su chi di essi fosse il migliore. All'im-provviso una frustata, una donna vestita di bianco, rosso e verde a cassetta e i cavalli riprendevano in-sieme il cammino per portare i mattoni che dovevano servire a ri-costruire la casa distrutta.

I meridionali si calmarono Non dettero più retta agli agitatori. Ca-pirono ciò che Guareschi intende-va, che aggiogati al carro dell'Italia ci sono due cavalli che a volte si comportano come asini. Per fortu-na, tirarono un sospiro di sollievo a Radio B 90, i meridionali la parte dell'asino dimostravano di non vo-lerla fare.

Una parte di lui rimase per sem-pre tra le sabbie dei campi di Cze-stochowa, Sandbostel, Beniamino-vo, Wietzendorf. Ed è ancora là. Sot-to quei cieli bigi accanto a coloro che non tornarono, che furono se-polti nelle fosse comuni accanto ai reticolati e, tranne dai loro compa-gni di prigionia, furono dimenticati. Come dimenticata, scostata con un piede come un barattolo vuoto, è la loro epica Resistenza bianca. Negli anni a venire proprio Guareschi a-vrebbe poi,ripetuto che no, non era mai ritornato tutto e del tutto: «C'è un Giovannino fatto d'aria e di so-gni che è rimasto laggiú tra i retico-lati: è il Giovannino democratico d'allora che non sa darsi pace di a-vere lasciato nei lager la vera de-mocrazia per dover sopportare in quest'altro mondo, che dicono libe-ro, una finta democrazia di finti de-mocratici».

Calvario italiano I quarantamila deportati italiani

che scelsero la prigionia volontaria piuttosto che schierarsi contró i fratelli, certo non chiedevano di rientrare in Patria camminando su tappeti rossi. Né si attendevano di essere portati in trionfo. Speravano però almeno che, dopo che gli in-glesi li avevano liberati dai tedeschi e gli americani dagli inglesi, gli ita-

,liani avrebbero trovato modo di of-frire un rientro decoroso. Da uomi-ni. Non da bestie.

Invece furono oltraggiati. Era or-mai settembre inoltrato quando Guareschi, Coppola e tutti gli altri di Radio B 90, ultimi tra gli ultimi a uscire dai reticolati, furono gettati

su carri bestiame e fatti scendere verso l'Italia. Viaggiarono per gior-ni attraverso la Germania. Tenuti senza da mangiare, per ore senza bere. Sballottati da convoglio in

convoglio, impossibile perfino ripo-sare. Guareschi, esausto, ai bordi della strada ferrata vedeva donne, vecchi, bambini intenti a rabbercia-re ponti, case, stazioni, a cancellare i disastri, guerra. Fiando a fianco dela' popolazione tedesca, soldati americani bianchi e neri la-voravano alla riCostruzione, unici a sorridere ai prigionieri italiani che rientravano in patria, a gridar loro paisà, a gettare pacchetti di siga-rette e cioccolata.

In quell'atmosfera di alacre lavo-ro Guareschi e gli altri già sentiva-no, gustavano, il sapore della pace. E certo sarebbe stato ben più dolce e forte in patria, tra lal loro gente ormai libera, sotto un cielo meno grigio. L'Italia libera: chissà come li avrebbe accolti subito dopo il confi-ne. Come avrebbe saputo ricambia-re quegli anni e il patire che le ave-vano donato!

E si accorsero d'essere in Italia al-l'improvviso: cominciarono a in-

Due vignette di Guareschi. A sinistra: Campi d'aviazione inglesi. «Ecco, siamo a posto: si è, alzata la nostra caccia», dal Bertoldo n.34 del 23 agosto 1940. Qui sotto: Fame in Russia, dal Bertoldo n.87 del 29 ottobre 1937

contrare stazioni completamente deserte, diroccate. Senz'anima viva che vi lavorasse attorno. Passarono tra paesi ancora intatti e la gente, vedendo la bandiera tricolore che ancora ornava il vagore di testa e le loro uniformi stracciate, voltava le spalle. Sembrava che nessuno stes-se tornando per quell'Italia ina-spettata Che li inghiottiva senza ve-derli.

Fu la beneficenza dei preti a rega-lar loro un pezzo di pane e una me-la. Dopo aver viaggiato sui carri be-stiame un altro lungo giorno senza che nessun altro desse loro da man-giare, giunsero a Pescantina, poco prima di Verona. La beneficenza privata li caricò su pochi camion a rimorchio e i reduci dovettero an-cora ammassarsi come bestie.

Il vecchio camion Coppola e Guareschi si strinsero

a lungo, in silenzio, la mano e si se-pararono. Coppolo proseguì per la sua Treviso, Guareschi per Parma. Il vecchio camion a rimorchio sul quale era stato messo con altri cin-quanta, viaggiò per interminabili o-re. C'era zeppo davanti ai caffé e la gente ballava. Stravolti da stan-chezza e fame, i reduci scoprirono un'Italia certo più gaudente che contrita. Scese la sera. Sulla motri-ce del camion, proprio sotto la ban-diera tricolore, c'era una ex depor-tata agonizzante, occhi già rove-sciati e ossa tutte in vista sotto la pelle trasparente.

La donna continuava a ripetere a denti stretti che non doveva, e non doveva, morire prima di rivedere casa sua. Guareschi la fissò per ore, angosciato: il volto di quella donna gli si stampò nell'anima. Negli anni seguenti lo avrebbe più volte dise-gnato dandolo alle sue Italie marti-rizzate da politicanti senza scrupo-li, da scandali, faide e odio. A parte i reduci, che proprio non potevano né sapevano che fare, nessuno tentò di aiutare la morente. La gen-te nelle strade continuò a voltare le spalle, indifferente al dramma di quegli straccioni in divisa grigio verde.

(15 — continua)

Page 7: Guareschi 10 25

Guareschi: il ritorno a casa dopo lluna notte di cammino

ceso dal camion a Parma, Guare-schi si avvia a piedi verso Marore. Sette chilometri percorsi nel buio quasi a tentoni con i polmoni che gli scoppiano. Dopo una svolta in-

travede ai primi chiarori dell'alba la cap-pelletta col sedile di pietra dove si ripo-sava da ba,mbino. Giunto di fronte a casa, Giovarmino si ferma e resta seduto sulla proda del frisso per aspettare che il sole si levi. Poi lancia un grido e dalle finestre appaiono le teste dei suoi familiari.

GUALAZZINI O A PAGINA

-.Gievannix 'onda il Candido, (corthetuto d

es4,-:a e da sinistra:

Doppe Gualazzini

uareschi giunse a Parma alle 2 di notte. Salutò quanti erano rimasti sul rimorchio del camion che, ammas-sati Come bestie, riportava a casa i re-duci dai lager, e saltò giù. Si trovò solo nel centro di Parma, ancora lontano da casa. Respirò profondamente l'aria della sua città. Cercò nel controluce il profilo dei palazzi. S'inoltrò per le strade piene d'ombra e silenzio e gli parve di non esser mai partito fmché non s'imbatte in case distrutte dai bombardamenti e sotto di esse c'erano molti dei Suoi ricordi giovanili.

Medaglia d'oro Com'era difficile, . Dio, ritornare.

Sentì che prima di avviarsi verso casa doveva adattarsi almeno un poco per non portare davanti ai suoi solo il fan-tasma di se stesso. Girovagò parlando a voce alta e si fermò a-nsimando sulla panchina di pietra del suo primo amo-re. Faticò a rialzarsi: la sacca da depor-tato gli spaccava la schiena anche se conteneva solo la carta dei suoi diari. Riprese a camminare verso la perife-ria in direzione di Marore. Sotto l'ulti-ma lampada affacciata sul buio della campagna trovò sdraiato un reduce che aveva viaggiato con lui sul rimor-chio.

«Mali! — sospirava l'ex deportato—. Io arrivo a casa, chiamo mia madre e magari mia madre è morta!».

Allora si lanciò a capofitto nel buio verso Marore. Sette chilometri, quasi a tentoni. I polmoni gli scoppiavano. I piedi lo facevano gemere di dolore. A una svolta intravide nei primi chiarori dell'alba la cappelletta col sedile in

pietra su cui sedeva da bambino, a po-che centinaia di metri da casa. Intonti-to. Voglia di crollare e dormire. Ma tirò avanti. A zig-zag, incapace di mante-nere la direzione.

Ne L'Italia provvisoria, raccolta di racconti poi pubblicati nel '47, ricordò quegli ultimi momenti prima di entra-re in casa: «Stava schiarendo. Rimasi seduto sulla proda del fosso e aspettai che il sole si fosse ben levato e intanto guardavo le finestre chiuse e soffrivo come non avevo mai sofferto neanche lassú, nei lager. Perché lassù si aveva un po' l'idea che tutto a casa nostra si fosse fermato e che soltanto al nostro ritorno la vita avrebbe ripreso il suo naturale corso. Poi, a un tratto, udii u-na voce gridare qualcosa ed era la mia e io ne fui terrorizzato ed attesi con gli occhi sbarrati che le finestre si apris-sero e contai le teste che spuntavano fuori: una, due, tre, quattro. Ne manca-va una, la più piccola. Allora lasciai il sacco in riva al fosso e corsi dentro e, sperduta in un enorme letto, trovai la signorina Carlotta che dormiva. E io dissi: cinque! Anche se la prima cosa che vidi non fu una testa, ma un sede-"in° rosa».

Luisa Viazzani, sindaco di Busseto, nell'80 ha ricevuto da Genova la lette-ra d'un colonnello deportato nei lager nazisti con Guareschi. Il colonnello ha invitato la sindachessa a proporre Guareschi per una medaglia d'oro della Resistenza quale riconoscimen-to di tutto quanto fece con i suoi com-pagni e per i suoi compagni di prigio-nia.

«A me sembra giusto. Non ho però i-dea di cosa possa dirne la famiglia», ha commentato la sindachessa.

La famiglia? Ma pensi invece la sin-dachessa a cosa potrebbe dirne la Sto-ria nel trovarsi all'improvviso trai pie-di una medaglia d'oro per una Resi-stenza che ancora non le lasciano rac-contare.

Aveva ancora impressa sul volto la patina grigio-giallastra della prigionia e le spalle scheletriche faticavano a so-stenere l'abito degli aiuti internazio-nali, trama e colore eguali per tutti.

«Credevo d'essere a terra io, ma tu strisci», gli disse Pietrino Bianchi, sbu-cando all'improvviso da dietro un an-golo e mettendosi a camminare a pas-settini veloci al suo fianco.

Guareschi puntò gli occhi febbrici-

tanti sul suo doppio cugino delle Fon-tanelle e continuò ad arrancare verso piazza Duomo. A un tratto chiese a Pietrino dove stesse andando l'Italia/

«Tutto rosso: va a sinistra». Pietrino ricordò poi per tutto il resto

della vita quel momento. «Storse un b —narrò poi Pietrino

mille volte — scosse la testa e mi disse: allora io vado dall'altra parte».

Guareschi aveva sotto il braccio una

cartelletta piena di scartafacci. Era giunto a Milano il giorno prima, dopo solo qualche settimana di convale-scenza. Un medico gli aveva detto che avrebbe -dovuto rimanere in assoluto riposo perlomeno per altri tre mesi. Ma al riposo per quei tre mesi avrebbe dovuto aggiungere ancora una volta l'assoluto digiuno. Tornando dal lager, s'era infatti accorto d'essere sul lastri-co. Senza una lira. Non aveva più casa,

Guareschi (nella foto Publifoto) si gusta un gelato in compagnia •di alcuni amici contadini sulla piazza di Roncole di Busseto. Sopra: uha vignetta tratta dal «Candido» del 9 marzo 1946. Il titolo è «ll reduce». ll rimpatriato commenta: «Ecco, tu torni dopo due anni di Germania e trovi uno che ha occupato il tuo posto!»

che gli era stata bombardata. Non po-teva certo pesare sui suoi vecchi. Do-veva riuscire a riportare con sé a Mila-no,anche la signora Ernia e i bambini.

E ancora Pietrino a narrare: «Svuo-tato, scoppiato, finito! dissi con un so-spiro guardandolo mentre si allonta-nava. Ma Guareschi udì e tornò indie-tro: veh Pietrino, m'aggredì, ho ripor-tato a casa la pelle anche se i nazisti hanno fatto di tutto per levarmela.

Non ho in tasca il becco d'un quattrino neanche per far ballare una scimmia. Ma ho ancora quel gran capitale che è la mia testa. Non sono scoppiato, né nullatenente: la mia ricchezza sta qui, e si puntò l'indice sulla fronte. E rac-contalo al Frust!, mi sfotté come sem-pre andandonese».

Guareschi ricominciò a collaborare a un paio di giornali, sceneggiò .I1 desti-no si chiama Clotilde e la Favola di Na-tale. Angelo Rizzoli lo richiamò e gli propose di far rivivere il Bertoldo. Guareschi accettò, ma a condizione che il nuovo settimanale si radicasse saldamente nella realtà politica italia-na abbandonando l'umorismo spiccio-lo che aveva caratterizzato la vecchia, edizione. Ne assunse la direzione con Giovanni Mosca. Decisero di chiamar-lo Candido. A uno a uno tornarono i vecchi del Bertoldo: Manzoni, Simili, Palermo, Mondaini. Il Candido costa-va 10 lire. Era intutto quattro facciate formato quotidiano delle quali la pri-ma era occupata per metà da un'unica vignetta. La sua Coscienza politica si collocò in una posizione subito molto difficile cominciando un'analisi della situazione italiana che tenesse le debi, te distanze dalle esasperazioni di sini-stra e di destra. E infatti ebbe il destino d'essere combattuto da ogni parte mentre cercava una via verso il gran-de sogno di Guareschi, un'Italia evolu-ta in vera democrazia di veri democra-tici. Quell'Italia onesta e progredita che tuttora non troviamo.

(16 — continua)

Page 8: Guareschi 10 25

il si schiera con il monarchici e perde la battaglia

Scrisse Guareschi (nella foto Farabola, a sinistra) preparandosi al nuovo corso: «Il bianco della nuova bandiera italiana è rimasto immacolato e ognuno cercherà di imporre il suo marchio a quel candore. Forse alla fine, si accorderanno per ricamarvi una R e una I, che potrarmo significare Repubblica Italiana, o Repubblica Dlusoria O Ricostruzione Italica».

Beppe Gualazzini

in dall'inizio sul Candido in pri-ma pagina campeggiarono tre rubri-che affiancate che anche per la loro collocazione grafica dimostravano gli intenti di Guareschi e Mosca: tenersi al centro non tanto per costruire un centro politico quanto per indicare che il buonsenso doveva avere ragio-ne delle esasperazioni diparte. La pri-ma rubrica, a siniatra, era appunto Vi-sto da sinistra: «/ partigiani autonomi (Cioè quei partigiani che fecero la Re-sistenza senza fazzoletti rossi al collo n.d.r.). I fasci cristoamericani, dunque, harmo fatto sfilare per Milano i cosid-detti partigiani autonomi e democri-stiani e, mai al mondo, si è vista accoz-zaglia più eterogenea di rappresen-tanti del regno animale. Li abbiamo guardati in faccia uno per uno: repub-blichini, ex brigate nere, ex Decima Mas, ex rastrellatori, monarchici, ex Ss. Abbiamo visto dei negri che grida-vano: io bardigianal II manicomio cri-minale di Reggio Emilia aveva inviato i suoi più bei rappresentanti. Frati e vescovi travestiti da uomo. Abbiamo visto anche un cavallo col fazzoletto azzurro al collo e a un lavoratore che urbanamente faceva notare la stra-nezza del fatto, un cardinale truculen-to rispondeva: Chi ti ha pagato, verme della terra, per diffamare il movimen-to partigiano indipendente? L'orda re-penante sfilò tra il disgusto della po-polazione, saccheggiando, violentan-do e incendiando sotto la protezione della Celere. (...) Firmato: Spartacus».

In risposta, a destra, ecco Visto da destra. «I partigiani autonomi. In una rovente atmosfera di italianità il po-polo milanese ha acclamato il passag-gio dei 30 mila partigiani democristia-

in e indipendenti. Quando i 40 mila, con passo urbano e marziale al tempo stesso, e cantando con bella voce limi di patria e di religione, sono apparsi, un fremito solo ha percorso l'immen-sa piazza incredibilmente gremita e una pioggia di fiori e tricolori è caduta sui 50 mila. Non mitra, non strumenti di morte nel pugno dei 60 mila, ma tu-lipani e convolvoli, impugnati con gra-zia e soavità. (...) Un mormorio di cor-tese, garbata disapprovazione s'è le-vato al passaggio della rappresentan-za comunista: armati fino ai denti, curvi sotto il peso di forti quantità di tritólo, i nemici di Dio, dell'Ordine, della Civiltà, della Democrazia, della Cultura e del Progresso, sono stati a un certo punto gentilmente invitati a fermarsi da un cittadino il quale, con garbata fermezza, ha rivolto loro rim-proveri sì toccanti che ben presto grosse lacrime (...) si son viste tremo-lare sul ciglio di quei pentiti. (...) Fir-mato: Caesar».

Nella rubrica centrale invece era ri-prodotta la testa del Candido con di-segnato sotto un ornino con baffi e cap-pello sulle ventitrè a simboleggiare l'i-taliano medio, pacifico, con una gran voglia di serenità interiore. La piccola borghesia italiana, insomma. La linea politica del settimanale affiorava di volta in volta in questa rubrica nella quale Mosca e Guareschi commenta-Vano i principali avvenimenti politici della settimana.

Il primo referendum I primi mesi di vita del Candido tra-

scorsero in un lampo. 11 settimanale ebbe immediato successo. Stava anco-ra aggiustando il tiro, quando piombò sull'Italia il referendum del 2 giugno '46, pro o contro la monarchia. Piú di 60 partiti si gettarono nella mischia. Il Candido si schierò apertamente con i monarchici. Era l'ultimo omaggio al giuramento fatto al Re che Guareschi si permetteva. E con i monarchici per-se la battaglia. Quando seppe che 10 milioni di italiani avevano votato per la monarchia e 12 per la Repubblica, pur tra tutti i dubbi di brogli elettorali e col sospetto che due milioni di voti fossero stati in qualche modo eliminati dai conteggi, Guareschi accettò la realtà politica di quel voto. Salutò comunque addolarato la bandiera per la quale a-

veva scelto volontariamente di resi-stere, a rischio della vita, nei lager na-zisti.

«Uno stemma è caduto — scrisse preparandosi al nuovo corso —, spazio disponibile. 11 bianco della nuova ban-diera italiana è rimasto immacolato e ognuno cercherà di imporre il suo marchio a quel candore. Alla fine, si accorderarmo per ricamarvi una R e una I che potranno significare sempli-cemente Repubblica Italiana, o Re-pubblica Blusoria, oppure Ricostru-zione Italica, o Rinnovamento Integra-le, perché l'avvenire è nelle mani di Dio».

Il Candido esplorò subito il nuovo panorama italiano. S'accorse che o-correva immediatamente difendere

la neonata Repubblica. Clima politico confuso e rissoso. La penisola ancora percorsa da brividi di violenza. No-stalgie fasciste. Vocazioni al totalitari-smo e un'ondata di convulso rosso i cui connotati stavano fra il fanatismo e il terrorismo. Guareschi, sbigottito queste convulsioi che pa-revano spingere il Paese ancora una volta verso il baratro della guerra civi-le quando gli scontri tra attivisti e te-ste calde si facevano pii violenti, quando le Volanti rosse compivano sanguinose scorrerie assassinando nei vari triangoli della morte preti e civili.

Aborriva il «dolce stil novo» di parte del giornalismo italiano che, invece d'infondere calma e buonsenso, pur

dicendo di preferire il fioretto alla clava si abbandonava poi a poleiniche furiose e sterili. Una, svoltasi a Milano tra i direttori di Milanosera e Uma-nità, finì a schiaffoni nelle sale del cir-colo Arlecchino. Un'altra tra i diretto-ri dell'Uomo qualunque e di Canta-chiaro raggiunse àpici d'isterismo e volgarità che ancora i piú feroci opi-nion leader di oggi non riescono ad e-guagliare.

A questi sgarbatissimi battibecchi si aggiungevano quelli tra i giornalisti e gli uomini di partito. Molti dei primi, travolti dalle polemiche, furono per-seguitati, minacciati, percossi. Mosca, Guareschi e gli altri del Candido si po-sero egualmente in prima fila. Il tema dominante era la moralizzazione e la

rappacificazione tra gli italiani. Infondere coraggio ai delusi, resi-stere ai totalitarismi di qualsiasi colore, opporsi ai compromessi.

Il Candido attaccò con eguale impegno qualunquisti, fascisti, comunisti, frontisti. Soprattutto le dubbie alleanze. Guareschi in-tuì che erano progenitrici di un consociativismo che avrebbe strozzato l'Italia. In una sua vi-gnetta, riferendosi a un discorso nel quale De Gasperi aveva detto «Siamo tutti in cordata» disegnò lo stesso che scalava in cordata con Nenni e Togliatti una parete a piombo: l'ultima della cordata, appesa per il collo come un'im-piccata, era l'Italia.

Venne la grande paura: i comu-nisti ben organizzati, attivi e rab-biosi si prepararono alle elezioni del '48 chiusi a quadrato nel Fronte popolare sotto il simbolo del volto di Giuseppe Garibaldi racchiuso in una stella a cinque punte. 11 Fronte popolare si delineò come un corpo solido e compatto pronto

ad attraversare la barriera gassosa di tutti gli altri partiti e partitini che fiori-vano un po' ovunque.

Era credibile che il Partito comuni-sta nel '48 fortemente stalinista e con dirigenti che in piazza urlavano che se il potere lo avessero avuto democrati-camente lo avrebbero preso — lo disse il 12 aprile '48 a Porretta Terme la mo-glie di Togliatti— con la forza, vincen-do le elezioni sarebbe riuscito a tenere l'Armata rossa fuori dalle frontiere i-taliane? L'Italia sentiva il fiato pesante di Stalin soffiare da dietro le Alpi e la gente aveva paura. Ciò anche se i co-munisti facevano di tutto per non incu-terla. Anzi: tra gli attivisti c'erano squadre che avevano gettato la ma-schera feroce e aggressiva per indos-sare umili panni d'agnello. Fecero, so-prattutto nel sud, una campagna elet-torale a base di santini, preghiere, Ma-donne, manifesti sui quali accanto al «Viva il Fronte democratico popolare» si univano «Viva Gesù e viva Maria ma- , che dei poveri». E c'erano giornali di si-nistra che lavoravano di buona lena e, come il settimanale «Don Basiglio» re-datto da bravi professionisti della pen-na e della matita, sapevano far presa sul pubblico quasi quanto Candido.

(17 - continua)

Guareschi: dasce il «Candido» e si schiera per la monarchia ---- in dall'inizio sulla prima pagina del l--i

I «Candido» campeggiavano tre rubri- che: «Visto da sinistra», «Visto da de- stra?) e, al centro, un commento scrit- to da Guareschi o da Mosca. ll nuovo

settimanale ebbe immediato successo e quando venne deciso il referendum per scegliere tra repubblica e monarchia, il giornale si schierò apertamente per que-st'ultima perdendo la battaglia. Nonostan-te le polemiche sul voto, Giovarmino ac-cettò la nuova realtà politica e continuò a opporsi ai totalitarismi di ogni colore.

GUALAZZINI w A PAGINA I IJ

Page 9: Guareschi 10 25

Guareschi inventa la vignetta cOn i comunisti «trinariciuti»

E i avvicina il 18 aprile 1948, data delle e-lezioni piúimportanti dituttala storia

. - d'Italia e la battaglia politica divampa furibonda. Sul «Candido» Guareschi inventa una nuova vignetta: i «Trinaii-

ciuti». Sono comunisti con tre buchinelnaso perché, come poi scrisse, Uteri° buco servi-va a scaricare tutto il fumo che avevano nel cervello. I «Trinariciuti» comparvero in deci-ne di vignette intitolate «Obbedienza pron-ta cieca assoluta». In ogni situazione compa-riva a un certo punto un portaordini del par-tito che gridava: «Contrordine, compagni!».

GUALAZZINI A PAGINA 11 "f.

• . ..... 000oOO CM MEI IM O O 0 I=

Giovannino inventa It «riinariciati» e Togliatti si arrabbia

Nella campagna elettorale per il 18 aprile 1948 Guareschi si schierò con forza contro il Fronte popolare e inventò manifesti che furono affissi a migliaia in tutto il Paese e incisero molto sull'animo degli italiani. Qui accanto uno dei manifesti più famosi e sopra una foto di Giovannino nella sua casa di Roncole di Busseto (Foto: Publifoto e Olympia)

Guareschi individuò nel comu- nismo il primo grande pericolo per la neonata prima Repubblica. Pericolo tanto più grande perla tendenza dell'e-lettorato non comunista a disperdere voti in troppe direzioni. Decise allora di lottare per contribuire a rafforzare un blocco che s'opponesse compatto al Fronte popolare. Combatté, ma tutta-via non perse mai un certo rispetto per l'elettorato comunista del quale rico-nosceva per prima cosa buona fede e compattezza. Attaccò invece con estre-ma durezza e disprezzo dirigenti e atti-visti; mistificatori e bugiardi i primi, vio-lenti o politicamente ciechi i secondi.

i Lo sfiatatoio / E inventò i «Trinariciuti», comunisti

con tre buchi nel naso poiché, scrisse, il terzo buco serviva a scaricare tutto il fumo che avevano nel cervello. I Trina-riciuti comparvero in decine di vignet-te intitolate Obbedienza pronta cieca assoluta. In esse gruppi di attivisti con tre narici esponevano, attaccandoli con mollette da bucato, i propri bambi-ni nelle edicole. Nuotavano sul marcia-piede attorno a industriali in cilindro. In ginocchio pregavano un cero bru-ciato a metà mostrando immagini di Stalin e copie de l'Unità. Armati di mi-tra facevano la guardia a una grossa torta, spaccavano a randellate i tega-mi, andavano per strade raccogliendo viti. In ognuna di queste curiose situa-zioni, interveniva di corsa un portaor-dini comunista che, affannato, gridava: «Contrordine, compagni! La frase pub-blicata da l'Unità contiene un errore di stampa e pertanto va letta: fate in mo-do che nelle edicole siano esposti solo i

vostri fogli, non figli. Bisogna fare il vuoto attornó agli industriali, non il nuoto. Convincere il cèto medio a veni-re con noi, non il cero medio. Ogni sede disponga di una guardia a,lla porta, non alla torta. Spezziamo ogni legame tra noi e i saragatiani, non ogni tegame. Fronte deve radunare almeno nove milioni di voti, non di viti. Era la sua e-sperienza di correttore di bozze alla Gazzetta di Parma che tornava a galla.

I Trina.riciuti, ovviamente, piacquero niente ai dirigenti comunisti. Palmiro Togliatti, persa la pazienza in un comi-zio a Bologna, con gli occhi fuori dalla testa si mise a gridare che Guareschi faceva tre buchi nel naso agli attivisti comunisti perché era tre volte cretino. A La Spezia rincarò: «Guareschi era tre volte idiota moltiplicato per tre».

«Il Trinariciuto o uomo delle tre na-rici — commentò Guareschi in un'in-tervista —sta ormai entrando nel par-lare comune in Italia e l'ho appunto creato io in un felice momento di estro satirico e, dico la verità, ne sono orgo-glioso perché riuscire a caratterizza-re il tipo dell'attivista comunista con un minuscolo tratto di penna di pochi millimetri è una trovata non cattiva. Funziona. Per questo a sinistra c'è chi non me la perdona».

Ma le vignette in realtà riuscivano a far ridere perfino parte dell'elettorato di sinistra. D'altronde erano più ge-niali ma non meno feroci di altre, furi-bonde, che occupavano le pagine dei giornali satirici di sinistra. Don Basi-lio attaccò con ben maggior cattiveria preti, Vaticano, simboli religiosi, ame-ricani, politici non schierati a sinistra e, quindi, fin da allora tutti «fascisti». I preti erano disegnati su Don Basilio come personaggi orrendi, gobbi, gri-fagni, volti da malandrino. Nei linea-menti somigliavano a De Gasperi o a Papa Pio XII, ma in versione tumefat-ta, feroce, diavolesca. Disegnatori bravissimi anche questi del Don Basi-ho e, nei loro scritti, sapevano usare con prontezza ed efficacia la satira,. Candido e Don Basilio si fronteggiaro-no a lungo e, diametralmente opposti nelle idee, non si risparmiarono colpi alti e bassi, ma pur sempre con una non celata sorta di rispetto e di ricono-scimento del valore dell'avversario.

Con l'avvicinarsi del 18 aprile, data prevista per le elezioni del '48, tuttora le più importanti e risolutive del seco-

lo, la battaglia degenerò furibonda. Mosca e Guareschi, convinti che il Fronte popolare potesse esser sconfit-to o, perlomeno, fermato solo concen-trando il maggior numero di voti su u-na sola compagine politica, scelsero di battersi per la Democrazia cristia-na. Scelta volontaria, dettata non solo dal rapporto matematico che avrebbe deciso quelle elezioni, ma anche dal volto popolare e democratico col qua-

le, bilanciato al centro e ossequiente verso la libertà di maggioranze e mi-noranze, quel partito si presentava compatto alle elezioni.

Dalle colonrie del Candido, sempre più diffuso e seguito, fu chiesto a tutti, monarchici, liberali, repubblicani, so-cialisti, agli stessi elettori comunisti di stringersi attorno allo scudo crociato per allontanare in un centro moderato il pericolo di un risorgente fascismo e

di un dilagante bolscevismo. Candi-do, toccando il mezzo milione di copie Vendute per ogni numero, divenne il giornale più letto d'Italia. Guareschi e Mosca furono i più efficaci opinion lea-der dell'epoca. E la loro opinione con-tava al punto che, in quei mesi, un'inin-terrotta processione di uomini politici e Capi di partito sfilò davanti a loro cer-cando e accettando consigli. Democri-stiani, liberali, monarchici, ma anche

esponenti degli altri partiti laici non marxisti, sollecitarono l'aiuto morale

e materiale del Candido, ne Sfo-gliarono attentamente ogni nu-mero nelle sezioni di partito per cogliere idee e suggerimenti per le loro campagne 'elettorali. Le stesse opposizioni adottarono metodi e sistemi di combatti-mento politico del Candido. An-che all'estero osservatori e poli-tici interpellarono Mosca e Man-zoni per conoscere la reale si-tuazione italiana e che cosa si dovesse fare. Come Cabot Lod-ge, l'ambasciatore americano, che andò da Guareschi inviato direttamente da Truman a chie-dere consiglio su quale atteggia-mento conveniva tenessero gli alleati nei confronti della prima Repubblica d'Italia.

Quel quarantotto Guareschi prestò la sua opera

anche al di fuori di Candido e lo fece gratuitamente. Lo muoveva pur sempre quella sua araba fe-nice: lavorare per costruire in Ita-lia una vera democrazia di veri democratici. Quando lo scontr9 elettorale imboccò la dirittura degli ultimi 40 giorni, inventò ma-nifesti che furono affissi a centi-

naia di migliaia in tutto il Paese e inci-sero profondamente nell'animo degli i-taliani. 'fra i tanti, ne preparò un paio con battute fulminanti che finirono sul-la bocca di tutti, comunisti e anticomu-nisti. Nel primo, diretto soprattutto ai potenziali elettori della Fronte popola-re, sotto l'immagine d'un operaio che sta votando, scrisse: «Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, Sta,lin no». Una battuta che poi fu ripresa qua e là da vari partiti nelle elezioni che segui-rono, compresa l'ultima. Nel secondo manifesto, ecco lo scheletro d'un solda-to italiano dell'Armir, scelto a simbolo delle decine di migliaia di soldati italia-ni caduti in mani russe e morti nei cam-pi di concentramento sovietici. Levan-dosi da dietro un reticolato indica, flut-tuante in un cielo nero, la triade dei simboli di falce martello, stella del-l'Urss e stella a cinque punte del Fronte popolare: «Mamma— dice lo scheletro —votagli contro anche per me!».

(18 - continua)

:119:19,1191NEMENIEFER.

Seppe Gualazzini

Page 10: Guareschi 10 25

Beppe Gualazzini

, u il manifesto con lo scheletro d'un soldato italiano dell'Armir che indica la stella a cinque punte del Fronte popolare, la stella dell'Urss e una falce e martello e dice:'«Mamma, votagli contro anche per me» a fare u-s.cire 'del tutto dai gangheri alcuni de-gli oppositori. A Foligno gruppi di atti-visti di sinistra per distruggere un'e-norme riproduzione di quel manifesto rischiarono di incendiare un palazzo. A Udine assaltarono una tipografia e diedero alle fiamme, alla maniera dei fascisticon le cooperative del '22, mi-gliaia di manifesti riproducenti lo stesso tema. In Lombardia, Piemonte, Veneto, Toscana, squadre di guastato-ri girarono per vie e piazze sostituen-do alla triade dei simboli comunisti quello della Democrazia cristiana. A Reggio Emilia, Modena, Bologna, i frontisti stamparono in tutta fretta u-na contraffazione del manifesto conio scheletro d'un soldato italiano sem-pre a indicare da dietro un reticolato il simbolo del Fronte popolare, ma con la frase: «Mamma vota anche per me, perché tutto non accada più, vota Ga-ribaldi!».

Braccati Guareschi sorrise di questo gesto

della contropropaganda. Guardò il disegno contraffatto dello scheletro e scrisse: «Si capisce subito che quello è un morto fasullo, basta guardarlo in faccia». Non aveva torto. Nel cartello contraffatto il teschio, non si sa se vo-lutamente o no da parte di chi l'aveva disegnato, aveva davvero una vivissi-ma espressione da tonto. ln coraggio di Guareschi, Mosca e

i G attivisti d degli altri del Candido rasentò l'inco-scienza quando cominciarono a pio-vere minacce per telefono e per lette-ra. Vi faremo fuori con mogli e figli. Ri-schiarono poi di essere aggrediti. Su-birono agguati. Il Cardinale Schuster offrì rifugio in Arcivescovado temen-do per la loro incoltunità. Rifiutarono

. non per spavalderia, ma perché pro-prio essi, ispiratori d'una campagna politica coraggiosa, tale qualunque sia il punto da cui la si osservi, non po-teva mostrare d'avere paura. Ma per settimane furono costretti a cambiare albergo ogni sera, ad andare a lavoro studiando itinerari sempre diversi e percorrendoli sempre in almeno più di due. Adesso sono in molti a ricono-scere che gli stessi comunisti trassero vantaggio dall'esito delle elezioni del '48. Perché sarebbe stato con la Rus-sia di Stalin e delle epuraziOni che a-vrebbero dovuto fare i conti per primi proprio i comunisti. Giovanni Mosca, ricordando Guareschi sul Corriere della Sera del '68 scrive: «Si accusa og-gi Guareschi di una satira troppo cat-tiva. Troppo faziosa. Ricordare i Tki-nariciuti. Ma non era davvero quello tempo di discussioni sulla delimita-zione della maggioranza. Perdere si-gnificava per Roma fare la fine di Bu-dapest e di Praga».

AI contributo dato da Guareschi e dal Candidò all'esito delle elezioni '48, giornali tedeschi, francesi, ingle-si, americani dedicarono pagine su pagine. Life, il più diffuso settimanale americano, scrisse che le elezioni e-rano state vinte da De Gasperi e Gua-reschi. In Germania ci furono giorna-li che uscirono col titolo «Un solo uo-rriti._ha messo con le spalle al muro il comilariao in Italia: Guareschi». Ri-conoscimeiti i-vonnero dai principali esponenti della -Democrazia cristia-naDe Gasperi, Scalba, Palla, An-dreotti sostennero che,Guareschi a-veva potentemente con o alla vitoria democristiana. Cosa che, a denti più o meno stretti, riconobbero anche molti giornalisti d'ogni colore. Ma più di tutti Leo Longanesi ed Enzo Biagi. Gli inviati venuti dall'estero e molti colleghi italiani lo inseguirono fino a Marore, dove si era rifugiato per sottrarsi a quella prima ondata di notorietà internazionale.

Quando ritornò a Milano, Guare-schi affrontò il problema del dopo aie-

zioni: la battaglia elettorale era finita, ricominciarono la battaglia. Ma erano gli ultimi passi che avrebbero fatto fianco a fianco perché, presto, nel '50 Mosca, fervente liberale, avrebbe scelto altre strade lasciando Guare-schi unico direttore del Candido. «E a-desso — scrisse Guareschi sotto la vi-gnetta di un industriale che s'accen-deva un sigaro davanti alle ciminiere della sua fabbrica — non far sì che l'o-

peraio si penta di non aver votato per il Fronte». Il grande trionfo della De-mocrazia cristiana per Guareschi era stato dovuto anche a quei liberali, mo-narchici, repubblicani, socialisti che, col rammarico di dover rinunciare al-le proprie posizioni politiche, aveva-no dato a quel partito il loro voto per oppore un blocco democratico al Fronte popolare. Così il 16 maggio '48, dopo la grande vittoria pubblicò in

Qui accanto uno dei manifesti più famosi che Giovarmino disegnò per la campagna elettorale del 18 aprile 1948. Si disse che l'immagine scheletrica del 'deportato in Russia avrebbe fruttato alla Dc un milione di voti. Sopra: Giovannino ha in mano una copia dell'Unità e sembra la tOgg.a\stracciare (Foto: Publifot&

prima pagina una vignetta in cui si ve-deva Alcide De Gasperi avviarsi cón passo deciso verso il Parlamento. Ma sulla porta lo fermava l'Italia, bella e sorridente con la corona turrita sul capo: «Distintivo in guardaroba, si-gnor Presidente!» diceva l'Italia indi-cando lo Scudo crociato all'occhiello di De Gasperi. Era un chiaro invito ri-volto al politico affinché fosse presi-dente del Consiglio di tutti gli italiani

E non era,no solo personaggi coni Don Camino e Peppone a tenere tal contegno. Ne comparvero altri sorr- denti e umanissimi. Sia sul Candi sia su Oggi, l'altro settimanale quale Guareschi collaborava. Ora 9à-3 rano il compagno Giuseppe, ora il cu gnetto Makò. Oppure pensionati, rera duci, bambini che, scampati all% guerra, si davano da fare per evitar-. m ne un'altra.

(19 - continu«

117411111ila 1-041(11,1_

c.(77,14-u9-- ,et ,qk

el Pci[ distruggonoTI mai il' esti elettorali' i lovanninq: . •• „b '

e si elevasse al di sopra dei partiti compresi il suo. Era già però anche un

prendere le distan-ze qualora non fosse accaduto. Guare-schi cercava di e-sprimere così desi-deri dell'italiano medio che, datosi un governo, doveva Mi- • ziare la vera rico-struzione'. Nón è che - credesse ciecamen-te in possibili loro avversari, basta guardare l'espres-sione dura e chiusa che disegnò sul vol-to di De Gasperi. Ma in fondo al cuore ci sperava. In pochissi-mi anni, o è meglio dire mesi, ogni spd-ranza gli fu frantu,- mata.

Arrivano i nostrii — Sentiva il bisog0 di alternare al furO.-- re delle battaglie pilitiche pause nellì quali dar sfogo ali sua vera indole. Air ricerca della pac

No, dell'accordo tra le diverse anim della nazione. Alla costruzione di ai'', gini Contro l'odio. A qualcuno suori ' strano e incoerente che, propri' mentre infuriava più duro lo sconti politico che egli stesso acpettava combatteva di gran lena, E propri dalle stesse roventi colonne del Ca dido, si alzassero per sua mano fin d Natale '46, le figure d'un sindaco c

un oo,

munista e d' prete ché, a dispetc dell'una e dell'altra barricata, pur essendo nemici irriducibili finivari sempre d'incontrarsi sulla via de ragione.

"kw

alg

Guareschi, fu anche merito suo la grande vittoria dc del '48'

«Mamma, votagli contro anche per me»: co-sí raccomandava — da manifesti diffusi in tutt'Italia (come quello pubblicato accanto) prima delle elezioni del 18 aprile del '48 — lo scheletro di un soldato dell'Armir, indicando la stella a cinque punte del Fronte popolare (l'alleanza Pd-Psi dell'epoca) e la stella del-l'Urss. Con questo e altri manifesti, oltre che con la sua attività giornalistica Guareschi contribuì alla storica vittoria elettorale della Dc. Lo riconobbero la grande stampa stranie-ra e gli stessi dc, a cominciare da De Gasperi.

GUALAZZINI 3 A PAGINA

Page 11: Guareschi 10 25

o

1

Qm sotto una vignetta del Candido dal titolo «Obbedienza cieca, pronta e assoluta», in cui il capo dice ai Iiinariciuti: «Contrordine compagni! La frase pubblicata sull'Unità "Il cane dev'essere nero per tutti"contiene un errore di stampa e pertanto va letta: "Il pane dev'essere nero per tutti"». A destra i nuovi governanti si interrogano: «E questa la lasciamo?» «No, bisogna informarsi prima di che bandiera si tratta»

Beppe Gualazzini

el novembre del '47 Guare-schi raccolse molti dei suoi racconti sull'Italia lacerata e pezzente del primo dopoguerra in un volume che Oggi i collezionisti delle sue opere sì disputano a caro prezzo: è l'Italia provvisoria, molto però piú d'ima raccolta di racconti questi infatti so-no 52, ma alternati a 64 sorprendenti tavole. Insieme formano un'insolita é rara rassegna storica degli avveni-menti che si susseguirono nel nostro Paese sconvolgendolo, Commuoven-dolo, divertendolo dal '40 al '47.

Nelle tavole soprattutto Guareschi eseguì un lavoro di cesello del costu-me italiano in involuzione ed evolu-zione con un collage di fotografie, ri-tagli di giornali, manifesti, docu-menti storici e curiosità dell'Italia in guerra e dell'Italia ancora'ferita e al-la ricerca della pace. Da quell'Il giu-gno '40 sul Corriere della Sera con «Popolo italiano corri alle armi!» a tutta pagina alla riproduzione del-l'ultimo numero del Popolo d'Italia, 26 lúglio '43 subito dopo la caduta del fascismo. Alle foto della fucilazione di Ciano, De Bono, Gottardi, Mari-nelli e Pareschi a Verona, condanna-ti per tradimento al Gran Consiglio fascista. ; E nelle tavole seguenti documenti

sulle atrocità nazifasciste, guerra d-i. Benito Mussolini, Claretta Pe- tacci e gli altri gerarchi fascisti inn-i piccati per i piedi in piazzale Loreto, fiicilazione di Starace e Farinacci ri-prodotte su Life.E le prime immagini dell'Italia degli stracci e degli strac-doni. I ritorni di reduci mutilati e se-Mipazzi. Il difficile calvario dell'im-mediato dopoguerra.

Ancora: il bandito Giuliano a ca-vallo e la strage di Portella Della Gi-nestra, i massacri delle Volanti ros-se, i referendum per la monarchia, l'esilio del re, la fragilità e l'entusia-smo ancora aperto della Prima Re-pubblica, l'assassinio di giornalisti, bambini affamati che alzano cartelli contro il governo, i 44 bambini morti in mare ad Albenga nel naufragio d'una motonave.

Continuo a sfogliare: gli scioperi contro il quarto gabinetto De Gaspe-ri, Stalin e la grande paura del '48, l'esodo istriano, l'agonia di Fiume, il gran ballo delle elezioni del 18 aprile e la sua retorica «vorrei baciar To-gliatti» a grandi lettere in un ritaglio di giornale, No pasaran, L'Uomo qua-lunque.

La gran scelta A questo appassionato ritratto, al-

tissimo grido di dolore e amore e fe-deltà all'Italia, Guareschi aggiunse una lunga premessa che intitolò La retorica del dopoguerra. E mise a nu-do il nocciolo, spiegò se stesso e ciò che sarebbe stato per sempre. A qualsiasi prezzo. La premessa era tratta da una conversazione tenuta in un teatro milanese nei primi mesi del '47, L'italiano non pensa mai solo. In essa Guareschi sottolineò che, ab-battuta la retorica dell'anteguerra, l'Italia stava subito costruendone un'altra nel dopoguerra.

La prima retorica non era stata so-lo imposta dal codice di comporta-mento fascista inventato e sempre aggiornato da Starace, recitato da Mussolini e del tutto degenerato sot-to la spinta nazista. Era stata anche la risposta sbagliata ai complessi di inferiorità di tutto un popolo che a-veva accettato, e sovente chiesto, di mascherare ignoranza e miseria con l'inutile pompa di fanfare, gagliar-detti, parate in camicia nera, salti nei cerchi di fuoco.

«Liberiamoci della parte peggiore di noi stessi — disse Guareschi Guardiamoci allo specchio e ridia-mo della nostra tracotanza, del no-stro barocco messicanismo, della nostra retorica. Guardiamoci allo specchio dell'umorismo. Così come ho fatto tante volte io, cittadino nien-

111,0V0 f te, che, quando mi specchio e vedo sul mio viso un truce cipiglio, scuoto il capo sorridendo e dico: «Giovanni-no, quanto sei fesso!».

Questa, già nell'anteguerra sul Bertoldo e su parecchi degli altri giornali coi quali collaborava era stata la dichiarazione di guerra fatta da Guareschi alla retorica e alle sue pericolose strutture. Combatterla e-ra sfida al materialismo, al potere fi-ne a se stesso, a tutti gli spudorati or-namenti coi quali si paludavano lo Stato, i politici, i cittadini che non sa-pevano essere orgogliosi di vivere come popolo e come gente onesta. Sulle prime, ai tempi del Bertoldo, non gli era stato ben chiaro il perché parte degli italiani respingessero l'umorismo. Ne fossero, anzi, acerri-mi nemici.

E tuttavia intuì di compiere sce-gliendo l'umorismo e opponendolo alla retorica una precisa e pericolo-sa scelta politica, tanto pericolosa da

portarlo per cominciare diretta-mente nei lager nazisti.

Due paralleli mossero la conversa-zione sulla retorica: nel '37 aveva pubblicato sul Bertoldo una vignetta raffigurante una ciurma di corsan che andavano al-l'abbordaggio d'un galeone spa-gnolo. Il Corsaro nero, spencolante da una sartia, con la spada sguaina-ta, lanciava l'urlo fatidico: Tigrotti della Malesia, al-l' arremb aggio ! Ma uno dei pirati rimaneva tran-quillo a fumarsi la pipa. Allora il Corsaro nero: e tu, perché non vieni all'arrem-

baggio? «Ma io non sono della Male-sia, io sono di Gallarate» rispondeva il filibustiere.

Credette d'aver pubblicato una vi-gnetta tutto sommato innocente. A

'parte quel corsaro vestito di nero co-me un avanguardista. Se non che, gli giunsero decine di lettere di prote-sta da cittadini di Gallarate e una ro-ventissima reprimenda dal podestà di quella città che, serissimo, gli spe-cificava che Gallarate aveva dato al-la Patria il tal numero di Caduti, di Volontari per l'Africa, di Martiri e mai un pirata. Dieci anni dopo la «scandalosa» vignetta, fatta in regi-me dittatoriale,

Guareschi nel '47, cioè già in pre-teso clima antidittatoriale, si era trovato a meditare sulle decisioni del sindaco di Milano che aveva rite-nuto naturale «democraticizzare» la toponomastica cittadina eliminan-do i nomi di Fiume, Carnaro, Ga-briele d'Annunzio. Era chiara dimo-strazione che da un estremismo si stava passando a un altro estremi-smo. Che la retorica dell'antiretori-ca finiva col mettere sullo stesso pia-no la Gallarate del '37 con la Milano del '47.

La forza dell'umorismo La retorica, comprese allora Gua-

reschi, gonfia e impennacchia ogni vicenda. L'umorismo invece la sgon-fia e la disadorna riducendola con critica spietata all'osso. Che, poi, l'u-morismo è davvero tale quando non solo è critica, ma soprattutto auto-critica, capacità di saper ridere pri-ma di se stessi che degli altri.

Non ebbe più dubbi: l'umorismo è il nemico dichiarato dell'antiretori-ca. Un dittatore che sapesse ridere anche di se stesso, abdicherebbe piegato in due dalle risate, poche co-se al mondo possono suscitare ila-rità come i regimi imposti con le i buone o le cattive, ma senza titolo democratico.

Combattere la retorica è anche combattere la dittatura. L'umori-smo: quante volte Guareschi lo usò come sferza per se stesso e come da-va nelle polemiche: com'è debole l'uomo forte quand'è messo in ridi-colo, assunse tra le sue massime. E infine: anche l'odio è retorica. E anzi il prodotto finale di tutte le retori-che. E Guareschi era davvero un an-tiretorico: non riusciva a odiare.

(20 - continua)

od erra, questa volta contro la retorica

Page 12: Guareschi 10 25

Dalla penna di Giovamino prende vita Don Camillo

Beppe Gualazzini

Italia provvisoria, il volume d'in-dagine socio-politica su dopoguerra straccione italiano pubblicato da Gua-reschi, nell'intenzione doveva essere ri-stampato verso il '70. A partire dal '65 in-fatti l'autore aveva preparato numerose tavole per aggiornarlo di ben vent'anni eseguendo ancora collage di canzonet-te, nuovi inni, nuove teorie, annunci eco-nomici, ritagli di giornali, cartelle dipro-paganda che alternati proseguissero il discorso da lui iniziato nel '47 e riassu-messero non solo l'Italia provvisoria del dopoguerrama anche quella ancora più provvisoria degli anni seguenti. E su questa provvisorietà se fosse vissuto probabilmente avrebbe preparato altri libri.

Quale copertina poteva comunque immaginare Guareschi nel '67 per la riedizione dell'Italia provvi,soria?Al po-sto dello sgangherato mercatino ambu-lante avrebbe forse disegnato unabouti-que sul retro, invece di Vittorio Emanue-le e Mazzini che nell'edizione '47 guar-dano cornicciati da una nuvola la peni-sola, avrebbe messo Tog,liatti e De Ga-speri sottobraccio o, magari, Andreotti e Berlinguer in camporella. Morì prima di poter terminare l'aggiornamento.

Il suo mondo Verso la fine del '48, mentre in Italia

già erano vendute a centinaia di mi-gliaia di copie i volumi di Mondo piccolo e delle ristampe di volumi pubblicati in tempo di guerra come La scopertadiMi-lano, Guareschi uscì con Lo zibaldino, sempre edito da Rizzoli. Nella prefazio-ne avvertì i lettori: il titolo originale del volume era Lo zibaldone, ma poi qualcu-

no l'aveva informato che un tal Giacomo Leopardi gli aveva rubato l'idea e così a-veva dovuto cambiarlo inLo zibctldino.

Lo zibalclino è una raccolta di scritti non politici pubblicati un po' dappertut-to dal '38 al '48. Racconti della vita in fa-rniglia di Gyareschi. Storielle di guerra. Novellette . E il ritratto del Guareschi an-cora senza baffi o con i baffi voltati all'in-sú, in un SOITISO. Un Giovarmino apoliti-co e casalingo, davvero insolito in quel periodo di esasperate battaglie eletto-rali. Guareschi spiegò di averlo prepa-rato pensando che proprio in quei gior-ni cupi di gelido neovensmo, un piccolo bagno nella tinozza familiare, ultima frontiera serena in quel mondo sempre più nemico e strampalato, pur propo-nendo vecchi luoghi comuni poteva far bene. E poi quella era l'occasione ufficia-le per presentare la famiglia ormai al completo: Margherita e Albertino con l'ultimo acquisto, Carlotta, la Pasiona-ria.

«Ci ponemmo a tavola la sera della vi-gilia— ecco la famiglia riuni-ta in un racconto dello Zibal-dino -- ed io trovai le regola-mentari letterine sotto il piatto. Poi venne il momento solenne.

"Credo che Albertino debba dirti qualcosa", mi co-municò Margherita. Alberti-no non fece neanche in tem-po a cominciare i convenevo-li di ogni bimbo timido: la Pa-sionaria era già ritta in piedi sulla sua sedia e già aveva at-taccato decisamente: "Oh angeli del cielo, che in queste notti sante, stendete d'oro un velo, sul popolo festante". At-taccò decisa, attaccò prodi-toriamente, biecamente, vil-mente e recitò, tutto d'un fia-to, la poesia di Albertino.

«"È la mia!" singhiozzò l'in-felice correndo a nasconder-si nella camera da letto.

«Margherita, che erarima-sta sgomenta, si riscosse, si protese sulla tavola verso la Pasionaria e la guardò negli occhi.

«"Caina" urlò Margherita. «Ma la Pasionaria non si scompose e sostenne quello sguardo. E aveva solo quattro

anni, ma c'erano in lei Lucrezia Borgia, la madre dei Gracchi, Mata Hari, Geor-ge Sand, la Du Barry, il Ratto delle Sabi-ne e le sorelle Karamazov.

«Intanto Abele, dopo averci ripensato sopra, aveva cessato l'agitazione. Rien-trò Albertino, fece l'inchino e declamò tutta la poesia che avrebbe dovuto im-parare la Pasionaria. Margherita allora si mise a piangere e disse che quei due bambini erano la sua consolazione».

Ed erano anche la consolazione di Guareschi.

A destra: Giovaruii Guareschi con i figli Albertino e Carlotta,

detta da Pasionaria. Sotto: Femandel nei panni

di Don Camilló (Foto: Grazia Neri)

Il tavolo di lavoro di Guareschi era un mobile che più che una scrivania pare-va il banco d'un falegname. A partire dalla lima con cui faceva la punta al la-pis. Un giorno, seduto a quel tavolo, co-minciò a pensare a cosa mettere nelle prime pagine del libro che avrebbe rac-colto i primi 37 racconti suDon Camillo. Li aveva scelti e messi in ordine con cu-ra fra i tanti già pubblicati sul «Candi-do». Ora avevano una continuità, una loro umanità struggente, comicità, poe-sia, forza.

Prese della carta da giornale non ap-pena stampata, la piegò amo' di pagina di libro e lavorò. Dopo il titolo del volu-me, Monclopiccolo e, traparentesi sotto, Don Camino, voltò pagina e in bella cal-ligrafia, tenendosi in centro e con fre-quenti a capo, stilò la dedica: «Alla me-moria di mio zio materno, Olivier° Ma-ghenzani, che doveva essere prete mis-sionario, ma la morte lo prese a quindici. anni. Alla memoria di mio zio paterno, Umberto Guareschi, meccanico, morto a trent'anni a Rosario di Santa Fè, la cui

formidabile figura di gigante apparire un giorno nel cielo della mia lontanisg-ma fanciullezza e rapidamente dispar ve, ma rimase il bagliore di due occhi g-nesti». Chissà, pensò a quello zio noli tanto come Peppone, ma come Don " mino visto che subito dopo nella pa seguente prese a disegnare un pretori immenso dallo sguardo limpido, ma ac-, cigliato? Il lapis segnò sul foglio una m9- numentale macchina di carne e musco-li in marcia possente che pareva uriC, schiacciasassi. Gli camminavano da-vanti, spediti, due chierichetti portando una croce alta e sottile la quale, nono-stante la notevole altezza, arrivava però' appena poco più su del gomito del gi-gante. Ma era tesa in avanti e nitidissi-ma.

• ll lapis corse ancora e sulle faccette dei chierichetti apparve già respressio-ne dispettosa e combattiva del diavolet-to e dell'angiolino che sarebbero presto diventati il simbolo delle coscienze del capo comunista e del prete della Bassa.

Piú avanti, nel '52, cioè quattro anni dopo avrebbe provato ancora a fissare' in un'altra pagina la figura di Don Ca-mino. Disegnò sul muro d'una piazza u-na bacheca del Partito comunista con affisso un giornale murale sul quale spiccava il proclama di Peppone. Da-vanti alla bacheca, il prete: largo come, un armadio e di profilo. Dietro la schie-na teneva un grosso ombrello col mani-co d'osso. Ma più che un ombrello pare-va un'arma per menar legnate. L'altra mano del prete stavafinendo di compie: tare la parola «asino» accanto alla firma; di Peppone in un gesto più casuale che, voluto.

Ma, tornando ai primi disegni dél '48, quando il libro uscì non c'era pro- , prio nulla di ciò che era stato scritto,' e disegnato quella sera: e non conveni-va suggerire al lettore che faccia aves-se Don Camino, meglio se lo immagi- , nasse ognuno come voleva, e quella dedica a un seminarista morto giova-ne e a un meccanico morto a casa di: Dio era un po' troppo funerea e perso nale. E che Guareschi, insomma, si la7 ; sciasse consigliare, che il suo mestie-re -non era quello dell'editore. I dise-gni sarebbero comunque riapparsi, poi in una bellissima edizione specia-le delMondo piccolo.

(21 —continua) •

"*"'"*"•••••:"uI:::g:11::;:ggEhaligh:IBilligg.g:1:agg:j.98:.11011:Radigh

Page 13: Guareschi 10 25

31 o ■•• ommi■lt

r;

••••••••••••••

Dai Vaticano criAjc' e s(vere a Giovantho

te

CC>

Beppe Gualazzini

uareschi scrisse la prefazio-ne del primo volume del «Mondo piccolo» cucendo le tre «Storie del Boscaccio» pubblicate sul Corriere in tempo di guerra e facendole pre-cedere dalla frase lapidaria: «Qui con tre storie e una citazione si spie-ga il mondo del Mondo piccolo». In apertura di ogni capitolo fece com-parire due lazzaroni, diavoletto e angiolino, che combattono tra loro forca contro randello. Il diavoletto che scrive magari «buona Pascua» su una bomba. L'angiolino che in-cendia una vecchia bicocca o va a cacciare di frodo con la doppietta in spalla. Brevi squarci di Bassa: un ca-vallo che trascina nell'afa un biroc-cio sull'argine, i pali della luce che si inseguono lungo il ciglio delle stra-de diritte della pianura, la luna ton-da e grossa come una formaggia che s'alza tra le sterpaglie accanto al fiu-me che scorre vasto e solenne.

Tre in uno «Don Camillo — disse nel '52 Gua-

reschi a Renato Olivieri che lo inter-vistava per il Popolo Nuovo — è nato proprio per caso. E anche Peppone è nato per caso. Così lo Smilzo, il Bru-sco, Straziami e tutti gli altri. Gente che io ho conosciuto, a cui voglio be-ne, che vive in un posto che mi sono sempre portato dentro, al quale ho sempre pensato anche stando a Mi-lano o nei lager di Polonia e Germa-nia. Una decina di anni fa avevo scritto tre racconti che furono pub-blicati sul Corriere della Sera e già in quei tre racconti agivano personag-gi del Mondo piccolo. Quando tornai alla Bassa, a guerra finita, trovai gli argini e le case come in quei miei

primi racconti. Ma sulle case c'era-no dei manifesti».

Con le Mani tracciò nell'aria un'e-splosione. «La gente — continuò — faceva anche della politica. Capisci? Politica. Così, quando ripresi a rac-contare quelle storie, ci misi dentro anche quella novità Dalle mie parti, e in Occidente credo sia così un po' dappertutto, i comunisti battezzano i loro figli e si confessano in chiesa e difendono la loro proprietà preciso come gli altri che non fanno i comu-nisti. S'atteggiano a rivoluzionari e non lo sono. Peppone è un comuni-sta come questi, a modo suo, pieno di difetti per quelli del Cominform. Odi pregi, a seconda insomma se la faccenda la si vede da sinistra o da destra. Sai cosa mi hanno detto in Francia alcuni intellettuali, come si dice, di sinistra a proposito di don Camillo? E una mascalzonata, han-no detto, ma una mascalzonata in-telligente».

Continuò il discorso con Angelo Del Boca che, per la Gazzetta sera, gli chiedeva quale dei due personag-gi, parroco o sindaco, gli fosse più ca-ro. •Quei due sono qualcosa di più di

un'invenzione. Don Camillo e Pep-pone, in azione, sono la medesima persona. Sono io, la mia coscienza. A volte io sono Peppone, a volte don Camino. E, come Peppone o come don Camillo, corro contro questi o quelli perché mi rendo conto che nessuno dei due ha sempre ragione. Ma nessuno dei due ha sempre tor-to. E correndo come Peppone a testa bassa contro i don Camillo o come don Camillo lanciandomi contro i Peppone, ogni volta rischio una scelta drammatica, il distacco totale e ingiusto tra le due parti, la possibi-lità di convivere e di apprezzare ciò che di buono c'è su ogni sponda. Al-lora ecco che interviene il Cristo, il mio Cristo, e fa da mediatore per-ché, sempre dentro me, c'è la ragio-ne a dirmi che la politica è una cosa e la realtà un'altra. E se a volte la po-litica acceca, la realtà accettata con buon senso e coscienza a posto illu-mina. Ma forse la cosa è meno seria e hanno ragione gli altri: la mia è so-lo una trovatina. Però ha attaccato nel Pakistan come in Finlandia. Bi-sogna ammettere che è strano».

Universalità In quei giorni il Vaticano lo bersa-

gliava con critiche severe, L'accusa principale era d'aver trattato con troppa bonomia il tema della lotta del comunismo contro la Chiesa. Nel don Camillo, secondo i cattolici più integralisti, si consumava una sorta di eresia perché troppi episodi

con alterne tregue tra don Camillo e Peppone sembravano voler dimo-strare che vi era la possibilità di far coesistere marxismo con religione cattolica. A un certo punto i giornali pubblicarono che il Vaticano aveva intenzione di mettere all'indice i li-bri su don Camino e di porre sotto censura i film. Non accadde. Il mi-

Sopra: Giovarmino Guareschi davanti alla sua casa di Roncole Verdi. A sinistra: Fernandel nei panni di Don Camillo nel film «Il ritorno di Don Camino» (Foto: Publifoto e Grazia Neri)

FORMNRIP:EgiggRIBMIffinginginit

nacciarlo fu più che altro un tentati-vo di correggere la traiettoria nar-rativa di Guareschi.

Le critiche più cattive e comuni a don Camillo, tanto comuni da essere ormai diventate banali, sono che Guareschi ha inventato personaggi di una favola che non ha aderenza con la realtà. Oppure che ha impo-

sto al pubblico una realtà dah teatro dei burattini. Da mondo delle mqachere fisse:

Ma tra queste due concezioni= c'è proprio la, realtà, L'Italia, se si escludono quattro o cinque can-41 Ori metropolitani, è proprio)à quella deIMondo piccolo perché." per il novanta per cento la realtà italiana è provinciale come nella Bassa, dove le case s'inseguono a-- trenta Metri una dall'altra e do- . ve dopo ogni campanile c'è una: casa di partito e dopo ancora u-na sagrestia. Ed è provinciale'-' anche la vita della maggior partet: dei quartieri nelle grandi cittt Che dove non la è, cominciano i42-v. solamento, squallore, violenza. 'M

E se chiedi a un meridionale?' se anche da lui, in Calabria o in": Sicilia, Ci sono dei don Camino e dei Peppone, ti risponde altro- i ché, in ogni casa, in ogni partitoi'í in ogrAL: parrocchia. E non è detto!" debbano per forza essere preti comunisti. Cé ne sono in Va1t3 d'Aosta e sui banchi dei consigli! comunali di Cinisello Balsamo:- ' O di Siena. Ma anche a Marsi-glia, Bucarest, Madrid, Mosca.',' Nell'Arkansas come in Polonia."-'' E discutendo forte, ma tentando' ' di non tradire la pace, allonta-; nano i malanni delle culture snobistiche è affaristiche che

.

guardanoalla semplicità delle . ) provincia con disprezzo. • , Personaggi di una favola, realtà da--='-• atro dei bni'attini? )

«I tipi sonaveri — risponde Guare- hi nella prefazione a un'edizione: nericana — e le storie sono tanto:_: rosimili che, piú d'una volta, urDV"., ese o due dopo aver inventato una-,̀' orla, il fatto accadeva realmente si leggeva sui giornali. Addirittura r,7:--j realtà aupérava la fantasia: per-,-",j é, quando io scrissi la storia di=f-izi ppone il quale, perhberarsi di uniu

aered che durante un comizio getta-T,A va manifestini avversari, tira fuori; dal pagliaio una mitragliera, non ar-rivai. a farlo sparare. "Andiamo nel-rii fanta,stico" dissi fra me. Due mesi do.';'5 po, a Spilimbergo, non solo i comuni-1nd sti spararono su un aereo che lancia.va manifestini anticomunisti, ma an-'2H che lo abbatterono». 3.5

(22 — continua)

"IRENSINERE1111'

per 'Jon Ca

Page 14: Guareschi 10 25

Guareschi, incompreso in patria, ottenne molti riconoscimenti e soddisfazioni all'estero. Solo in Francia vendette in due anni un milione di copie, e altrettante nég,li Stati Uniti. Qui lo vediamo in compagnia della figlia mentre cena a Parigi al ristorante «Don Camino», intitolato alla sua opera di maggior successo. In basso, una vignetta pubblicata sul «Candido»: allude alle insanabili incomprensioni tra Saragat e Nenni, che si richiamavano entrambi al nome del socialismo.

est seller mondiale critic: italiani sno uaresc 9,

Giovanni Mosca, incontran- doci alcune volte tra il '73 e il '75, mi narrò di quando Guareschi gli si se-dette di fronte torturandosi i baffi e gli chiese: «Cosa dici? E il caso che io raccolga o no in volume i racconti su Don Camino, sinceramente, se mi dici di non farlo io lascio stare». Sin-ceramente, rispose Mosca, ti invidio fin da adesso.

Il primo volume uscì nel '48. In po-chi mesi in Italia ne furono vendute 300 mila copie. Una piccola casa edi-trice americana di un oriundo pia-centino ebbe l'idea di farne tradu-zioni per gli Stati Uniti e il volume passò la frontiera. In un paio d'anno ne furono vendute un milion di copie ai francesi. Altrettante agli america-ni. Mezzo milione ai tedeschi, due-centomila agli inglesi. Così agli spa-gnoli e agli olandesi. Quindi centi-naia e centinaia di migliaia a danesi, finlandesi, norvegesi, svedesi, belgi, austriaci, portoghesi, irlandesi. E a-fricani, indiani, giapponesi, vietna-miti, coreani, australiani, canadesi. Esquimesi.

Successo planetario Non si erano ancora fermate le

vendite del primo volume quando nel '53 uscì il secondo, Don Camino e il suo gregge. Guareschi in una libre-ria di Milano in tre ore firmò le pri-me copie vendute: seicento autogra-fi. La prima edizione di trentamila copie fu esaurita in una settimana. In pochi solo in Francia, best seller assoluto, raggiunse ancora il milione di copie vendute.

La febbre crebbe con l'uscita dei film che in tutto il mondo spinsero altri milioni di lettori a comprare li-bri di Guareschi dopo aver visto Don Camillo e Peppone in azione sullo schermo. In America e Inghilterra furono fatte edizioni braille peri cie-chi. La Bbc di Londra prese a tra-smettere letture di capitoli tradotti in bulgaro e russo e una casa editri-ce londinese pubblicò i racconti in polacco, ceco e slovacco per i rifu-giati politici di quei Paesi e perché quelle edizioni potessero entrare clandestinamente oltre la Cortina di Ferro. A New York la Nbc trasmi-se quaranta racconti e dovette ripe-tere la serie tre volte. Sempre a ew York, un diffuso catalogo che se a-lava i migliori libri del mondo conti-nuò per mesi a tener Guareschi nei primi tre posti.

Per anni egli fu assediato da invia-ti di tutto il mondo. Dall'America la rivista Life, sei milioni di copie setti-manali, inviò in Italia il più famoso dei suoi giornalisti, Winthrop Sar-geant, e un fotoreporter fatto parti-re apposta da Tokio perché fosse spiegato in nove pagine il fenomeno Guareschi.

«Davvero siete afflitto da malumo.- ri, signor Presidente» chiese un giorno monsignor Giuseppe Roncal-li, nunzio apostolico a Parigi e futuro Papa Giovanni XXIII, a Vincent Au-riol, presidente della Repubblica francese «ebbene fate come me: te-nete sul vosto comodino il libro di Don Camino, leggetene qualche pa-gina ogni sera e ne avrete in dono la serenità». E gli regalò il volume del Mondo piccolo. Poi, sempre più en-tusiasta, ne diede una copia anche all'ambasciatore russo a Parigi per-ché conoscesse quale potenzial-mente era l'antidoto alla Guerra fredda.

In Germania, Francia, Inghilterra e Spagna si tennero simposi tra poli-tologi per discutere il «pepponismo» come dottrina. In Africa vescovi bianchi e di colore dedicarono lun-ghi seminari a don Camino e al suo Cristo. L'amico mio Giorgio Torelli narra che, quand'era inviato di Epo-ca, gli capitava di imbattersi in Gua-reschi alle latitudini e alle longitudi-ni più estreme: «Una volta ero in In-dia, una in Groenlandia, un'altra an-

cora in Sud Africa. E mi domandava-no di che parte del mondo fossi con esattezza, da che città italiana ve-nissi. Era difficile spiegarlo in termi-ni geografici. Parma, provai a dire, ma la risposta lasciò tutti indifferen-ti. Dov'è mai Parma, già così piccola dall'aereo per chi vive a diciotto, venti o più ore di jet dalla nostra re-gione bionda di frumento? Mi venne da aggiungere: Parma, the town of

Guareschi, la città di Guareschi. Su-bito i visi si allargarono nella più lie-ta delle comprensioni. Well, dissero tutti allo stesso modo, Don Camillo. I miei interlocutori erano tre: in India a Trivandrum, capitale del Kerala, un vescovo indiano in sandali esme-raldo. In Groenlandia un capitano danese della polizia reale móntata su slitta. In Sud Africa un alle vatore boero, pastore della Chiesa riforma-

ta olandese. Tra i loro libri avevano tutti e tre un Don Camillo e s'affan-narono a mostrarmelo. Quello in-diano era nei minuscoli, eleganti ca-ratteri della lingua malayalam, quello del capitano era in danese ri-legato in pelle di foca, quello del boero in afrikaan, dentro uno custo-dia di zebra. Lo conoscevano, Gua-reschi, anche fisicamente, baffi, na-no, gli occhi emiliani. Lo hanno ama-

to tre generazioni. Giovanni Guare-schi, l'unico italiano letto in tutti i meridiani, là dove i Moravia, i Calvi-no, i Pasolini, gli Arbasino sono to-talmente sconosciuti e non giunge-ranno mai, che cosa ha dato l'Italia? La cartella del Fisco, risponderebbe lui».

'Sette sordomuti Infatti gli unici che non si diverti-

rono, né si commossero davanti al Cristo, a Don Camillo, a Peppone e al grande fiume, furono i sette critici i! taliani ai quali la stampa quotidiana' affidava il compito di informare i. propri lettori sui libri che per ragio-ne d'arte o costume avesso noto-rierà.

‹Ma purtroppo — scrisse nel '53 Domenico P orzio in una sua cronaca letteraria — nel nostro Paese, dove si traducono migliaia di libri stra-nieri all'anno e dove il pubblico vie-ne aggiornato su ogni risciacquatu-ra d'oltralpe, non c'è tempo né posto per considerare non diciamo l'ope-ra letferaria di Guareschi, ma alme-no le ragioni per cui il volume ha in-teressato decine di milioni di lettori. Follia collettiva? Tutti pazzi questi giornalisti stranieri che scendono alle roncole a intervistare Guare-schi? Per quel che ce ne intendiamo, sappiamo che se narrare vuol dire diventare personaggi vivi e così vivi da diventare creature autonome, Don Camillo lo si incaselli nel gene-re letterario che più aggrada, ma appartiene alla nostra narrativa».

Fu una commissione- letteraria internazionale ad assegnare a Guareschi il primo e ultimo premio che ebbe in Italia come riconosci-mento alla sua attività di scrittore. Il 2 agosto '52, dove sei ore di di-scussione non voluta dagli stranie-ri che erano tutti d'accordo, la giu-ria presieduta da Raul Boch, addet-to culturale al consolato di Francia, assegnò al primo volume di Don Camillo la Palma d'oro. Con Gua-reschi fu premiato per il disegno u-moristico Raymond Peynet di Pari-gi. In Italia mi ignorano, mah! Si ve-de che si sbagliano all'estero, com-mentava Guareschi.

(23 — continua)

Beppe Gualazzini

Page 15: Guareschi 10 25

i

La madie va a l'arnia LI. Iscrl r,r vedere ur di GiovanninTh

Gioyannino Guareschi coi i figli Albertino Carlotta. A sinistra mia vignetta di Guareschi per le elezioni del 18 aprile 1948: sopra la stella del Fronte popolare spicca la faccia di Garibaldi, ma se si capovolge si vede Stalin (Foto: Publifoto)

1-1:( 1 )1 , I i)P,

Beppe Gualazzini

maestra Maghenzani e Pri- mo Augusto, genitori di Guareschi, si misero in fila senza far storie e mori-rono l'una e l'altro a distanza di un mese. Accadde nell'estate del '50.

La maestra Maghenzani era stata mandata in pensione nell'46, dopo 49 anni di cattedra. Era diventata una vecchietta magra magra, sempre ri-gida nel busto che portava dal tempo di guerra per correggere la scoliosi. Nascondeva il busto sotto vestitini a tinte vivaci, allegre, che tuttavia por-tava con estrema compostezza. Lo Stato le ordinò di scendere di catte-dra e lei obbedì. Ma non mangiava piú. E non parlava. E Guareschi capì che sarebbe morta di crepacuore se fosse rimasta fuori dalla classe.

Anche tutta la gente di Marore capì che la vecchia maestra, che ora gira-va come un'anima in pena cercando di far nido tra chiesa e orto, non ce l'a-vrebbe fatta a scampare con la matita rossa e blu chiusa in un cassetto. Così ci fn chi anelò per il paese a raccoglie-re firme. Tutti, dai bimbi ai vecchi, fir-marono una petizione nella quale chiedevano allo Stato che la vecchia Maestra tornasse subito in servizio.

Gente così La petizione fu consegnata a Gua-

reschi che si diede a consultare furio-samente testi di legislazione scolasti-, ca, direttori didattici, funzionari del Provveditorato agli studi e al fine compilò una perentoria richiesta al capo dello Stato affinché la vecchia maestra fosse riammessa in servizio. Andò a Roma e tanto disse e fece che,

nella primavera '47, il ministero in-vitò la maestra-Maghenzani a risalire in cattedra, dividendo a mezzo il ser-vizio con la maestra che le era succe-duta.

La nuova maestra era la Mimma ed era fidanzata con Gianni Rastelli, timo amico della famiglia Guareschi. E poi anche la Minania, come tutti a Marore, aveva per la vecchia maestra un gran amore e un gran rispetto. Non si lamentò. Anzi preparò una fe-sta e le parve di toccare il cielo con un dito cedendole mezza cattedra.

Nell'estate del '49, Gianni Rastelli, è lui stesso a raccontarmelo, si mise in paziente attesa davanti alla chie-setta di Marore e, quando la vecchia maestra ne uscì camminando rigida come un legnetto, le si affiancò e la in-vitò al cinema. La vecchia maestra e-ra ormai un mucchietto d'ossa, ma a-veva occhi fermi e severi sotto i capel-li bianchi come la neve e, sé alzava il dito ossuto, sapeva ancora far sogge-zione.

«La porto a Parma a vedere un film di quvannino. La storia l'ha scritta lui. E stato Giovannino con una te-lefonata da Milano a dirmi di portarla a vedere il film Quattro pedalate e siamo a Parma. Quattro pedalate e siamo indietro».

Lei neppure rispose e Rastelli con-siderò chiusa la faccenda poiché sa-peva che far cambiare idea alla vec-chia Maghenzani era peggio che spingere un mulo giù dal burrone. In-vece, alle sette e mezzo, col vestito di seta buono ei capelli ravviati, lei era pronta, seduta rigida sulla panca da-vanti alla porta di Rastelli: «La deposi con infinite precauzioni sulla canna della bicicletta — racconta Rastelli — raggiungemmo il cuore di Parma ed entrammo all'Ariston. Aveva il cipi-glio dei giorni di compito in classe. Restò impassibile fino al'inizio della proiezione. Poi trasfigurò. ll film nar-rava d'un paesino di montagna. Un paesino di contrabbandieri con la complicazione di una maestrina pro-gressista e di un matrimonio in extre-mis. Si muoveva su uno sfondo dea-micisiano, in un'atmosfera accorata e soffusa di malinconia. La vecchia Ma-ghenzani piangeva e rabbrividiva. Continuò a piangere piano anche sul-la via del ritorno, accoccolata sulla canna della bicicletta. Forse mai co-

me quella sera madre e figlio, anche se lui era lontano; fw uno così vicini. E poi, léi cominciava a dirgli addio.

Perché sape-va di avere un brutto male».

Allegorie Primo Au-

gusto, il pa-dre: Primo Augusto negli ultimi anni

• della sua vita passò il tempo inven-tando stramberie e certo non gli

mancò la fantasia. In tempo di guerra s'era messo a girare con u_na biciclet-ta senza gomme trascinandosi a guinzaglio un gatto e, quando arriva-va in città, i cerchioni facevano un tal fracasso sull'acciottolato da far cor-rere alla finestra la gente. Il vecchio diceva che si trattava di un'allegoria dell'Italia di domani. «Il mondo è un immenso manicomio di criminali e pazzi furiosissimi!» ripeteva poi.

Nel giugno '50, Guareschi andò a trovare padre e madre a Marore. Li vide sfiniti sotto i colpi d'un gran cal-do scoppiato all'improvviso. Decise di portarli con sé a Mila,no. Aveva una di quelle giardinette dalle portiere in legno. Davanti tolse il sedile e, con al-cuni cuscini, formò un giaciglio per il padre. Fece accomodare sui sedili posteriori la madre e lei si sedette tranquilla. Solo un po' d'affanno men-tre la macchina partiva e la scuola re-stava a rimpicciolire nella campagna di Marore. , A Milano i due vecchi si sistemaro-no in una camera, naufraghi su una zattera nel mare della metropoli che non può, per gente così, che essere nemica. Presero a discorrere insie-me, come non facevan da decenni.

La vecchia maestra spirò il 13 luglio '50. Se ne andò come era vissuta. In grande dignità. Come se, anziché partire per l'Aldilà, avesse dovuto prepararsi per andare a scuola e sali-re in cattedra. Il suo funerale sfilò magro per qualche strada di Milano e, alla fine, la cassa s'immerse in un punto imprecisato dello sterminato cimitero Monumentale. Ma Guare-schi non accettò quella sepoltura a-nonima, Fece dissotterrare la bara e la portò a Marore.

La camera ardente fu allestita in un'aula della scuola elementare, ac-canto alla cattedra. Sfilarono tutte le generazioni di Marore e poi la cassa, fu portata a spalla da ex scolari fino alla chiesa e al piccolo cimitero. Era avvolto in quella bandiera sabauda che la maestra Maghenzani non ave-va mai cessato di amare.

Primo Augusto la seguì un mese dopo. Recitò piano il brano dei Pro-messi Sposi nel quale Rènzo e Lucia lasciano in barca la loro terra e si as-sopì Lottando contro il dolore. Spirò.

Guareschi seppellì a Marore anche suo padre, a fianco della maestra Ma-ghenzani. Se sua madre gli aveva in-segnato ordine e dignità, su padre gli aveva dato fantasia e quel tanto di pazzia che serve per osare. Se sua madre gli aveva indicato Dio, lui gliel'aveva spiegato. Pochi altri come i suoi vecchi non andando d'accordo erano riusciti a essere la sintesi d'un accordo perfetto. Che possano litiga-re in pace per sempre.

(24— continua)

Page 16: Guareschi 10 25

Qui sopra una vignetta apparsa sul Candido del 29 gennaio 1950, dal titolo: «De Gasperi e ... la sua croce». A sinistra Fernandel nei panni di Don Camino (Foto G.Neri). A quel tempo Fernandel era l'attore francese Più in voga, accettò di interpretare il burbero prete di campagna dopo qualche ora di riflessione e disse: «Sento che questa è la parte più importante della mia carriera»

i. n nessuno degli scritti di Guare-

schi, che pure Sovente hanno toni a-marissimi e dolenti, si incontra l'o-dio. È un sentimento che rifiutava e al quale non lasciò mai spazio. Sempre, tranne una volta, in un brano dédica-to alla madre.

E una lettera aperta alla vecchia maestra, pubblicata poi tra i racconti di Vite in famiglia e nel Corrierino delle famiglie. Tra le righe esplode u-na dichiarazione d'odio così esplicita e violenta da assumere la forza di un giuramento. E per Guareschi i giura-menti erano davvero sacri.

Nell'ottobre del '51, a dieci mesi dalla morte della maestra Maganza-ni sua madre, era giunto dal ministe-ro il diploma di benemerenza che permetteva alla defunta di fregiarsi della medaglia d'oro per quarant'an-ni di «buon servizio». A parte che lei ne aveva fatti 49 di lodevoli.

«... io trasudo — scrisse Guareschi — veleno per me e per tutti coloro cui la triste ignavia statale, cui la sordida indifferenza burocratica avvelena gli ultimi giorni di una faticosissima vita spesa nell'onesto lavoro a beneficio della comunità. Anche voi, mezze maniche ministeriali che impiegate dieci mesi per far arrivare un diplo-ma di benemerenza da Roma a Mila-no, un giorno vi troverete vecchi e mi-serabili e lo Stato vi caccerà via a pe-date: allora comprenderete il valore d'un foglio come quello che l'è arriva-to oggi. Allora forse il mio odio non ~seguirà più. Ma fino a quel giorno io vi odierò tenacemente. Anche se a-vete rubato un solo secondo della vita di mia madre: anche se, semplice-niente le avete tolto un sorriso.

«Sono uno solo, ma il mio odio è im-menso come l'amore che ho per mia madre. Scaldatevi pure al sole di Ro-ma non curandovi dell'omuncolo che trasuda veleno tra le nebbie del Nord: un giorno il sole di Roma non riuscirà piú a scaldare le vostre ossa ormai vecchie e scassate e allora an-che l'odio dell'omuncolo vi peserà sulle spalle come un sacco di sabbia.

«Vi pagano poco? Anche mia ma-dre era pagata poco e non si stancava mai di lavorare. Stai tranquilla signo-ra maestra: non ti preoccupare per me, il mio odio è più forte di tutti i Mi-nisteri messi assieme. Piuttosto, se puoi, rispondimi nel sogno. Ma, per carità, non venire a spiegarmi che è indegno di un animo nobile quello che ho detto. Il mio odio non cerca forme di vendetta ma è e sempre sarà soltanto un pensiero racchiuso nel mio cervello.

«Non venirmi ad insegnare che debbo amare il prossimo mio come me stesso: me l'hai già insegnato e lo

' so. Io amo me stesso soltanto quando so di aver fatto ciò che alla luce dei tuoi insegnamenti e del tuo esempio ritengo sia il mio dovere. Quando so di non averlo fatto mi detesto.

‹<Metterò il Diploma in cornice e lo appenderò al muro al quale è appog-giato il mio tavolo di lavoro e ogni tanto lo guarderà. Fin che avrò negli occhi un po' di quella luce che tu mi hai dato, approfittando di un giorno di vacanza. Tuo figlio».

Francesi a Brescello Julien Duvivier era un freddo. Por-

tava il basco alla francese perché francese era, ma aveva la flemma ar-cigna di uno scozzese. E che gesti sec-chi, che nessuno aveva gesti secchi come lui. Con una mano tagliava l'a-ria e riusciva a zittire all'istante una piazza intera di comparse.

La produzione del primo film su Don Camino era italo-francese. Inva-no i produttori avevano tentato di af-fidare la regia a un italiano. De Sica e Camerini avevano rifiutato per timo-re di finire invischiati in questioni po-litiche. Fu inutile pregarli di leggersi bene la sceneggiatura: magari i co-munisti, o forse i preti, e chissà chi al-tri, dissero l'uno dopo l'altro i registi

italiani, renderanno la vita difficile al film fin dalla lavorazione, c'è di che u-scirne schedati come reazionai i. Co-me • quel reazionario .di Guareschi, appunto.

Si parlò allora d'affidare la regia a Frank Capra che aveva girato pelli-cole come La vita è meravigliosa mo-strando una straordinaria sensibilità nel comporre sullo schermo atmosfe- ,

re di piccola pro-, -Vincia e perso-naggi sanguigni, ma amssum.

Frank Capra era un lettor di Guaré-schi e accettò con entusias o. Ma, al-l'ultimo momento, la casa cinernato-grafica statunite4e, alla \ quale era legato da un contyatto che pareva il Patto dell'Asse, lo 'costrinse a rifiuta-re.

Si cercò infine in Francia., Accetto Duvivier, che tra i registi francesi era un principe. Vecchia volpe, gusto per

i paesaggi • sfilati, lunghi orizzonti a perdita d'occhio. Ricerca accurata del gesto giusto sulle parole giuste.

Guareschi andò in Francia per co-noscerlo

«Oui, il a le physique du role» bor-botto Duvivier osservandolo a occhi semichiusi. I francesi, ancor più che in Italia, trovavano in Guareschi una sorprendente somiglianza con Sta-lin. Lo Stalin quarantenne che com-pariva con il braccio alzato nei ritrat-ti ufficiali. Baffoni ad ali di rondone, capelli ad attaccatura piena con

qualche lingua in vol Guareschi su se stes non la pensava allo ste - So modo. Ma sì, forse coi la faccia da contadino rW voluzionario c'eravama) Ma un rivoluzionario ali) Zapata, alla Pancho . la, con occhio tondo e lif-• ci inquiete. Non , freddi come una, lama W dal taglio mongolo. Ma era nel '51 e Stalin, ero' dei popoli, nessuno anli coni lo aveva guardatb' ben bene negli occhi.

i Le Fernand d'Elle u!

La mezza idea di tra.- sformare per lo schermo' Guareschi in Peppone, Duvivier l'avrebbe rima-cinata in Italia quando VI sarebbe sceso per girarè gli esterni del film. Nel

frattempo scelse Don Camillo. Volle l'attore p popolare in Francia. Non scelse solo perché era famoso, ma per' averlo diretto in uno degli episodi di Carnet di ballo e si era accorto che in quell'uomo dalla faccia da cavallo sta-va maturando,ben altro che il genere comico col quale s'era caratterizzato.

:Fernandel accettò dopo qualche o-ra di riflessione. Aveva già letto i rac-conti su Don Camino. Il prete della Bassa non era affatto incomprensibi-le per un francese. Era anzi un tipo comune nelle campagne di Francia. Aveva 48 anni. Cinque più di Guare-schi. Era marsigliese. Il suo vero no-me era Fernand Contandin. Quando , si fidanzò, la madre della fidanzata prese a chiamarlo per scherzo le Fer-nand d'Elle, il Fernand di lei, Fernan-del. La parte di Don Camino lo elet-trizzò. Abbandonò la risata cavallina che lo aveva reso famoso. 'Si ricompa-se. Si concentrò.

«Sì, son diventato serio — disse ai giornalisti appena giunse in Italia se sgarrassi Duvivier mi strappereb-be di dosso la tonaca e òmi lascereb-be in mutande sul sagrato della chie-sa di Don Camino. Infine, sento che Don Camino è la parte piú importan-te della mia carriera».

(25 - continua)

Pappe Gualazzini

De Sica e Came it i .paura tif-ieutano la regia di Don Camillo,