Grandangolo - Aprile 2015

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IL VOLTO DELLA MISERICORDIA grandangolo UNO SGUARDO SULL’UOMO DI OGGI notiziario d’approfondimento a cura dell’ufficio diocesano per le comunicazioni sociali N.4 APRILE 2015 - Diocesi di Fano Fossombrone Cagli Pergola Numero in attesa di registrazione Il Giubileo straordinario indetto dal Papa

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Transcript of Grandangolo - Aprile 2015

IL VOLTO DELLA MISERICORDIA

grandangoloUNO SGUARDO SULL’UOMO DI OGGI

notiziario d’approfondimento a cura dell’ufficio diocesano per le comunicazioni sociali

N.4 aprile 2015 - Diocesi di Fano Fossombrone Cagli PergolaNumero in attesa di registrazione

Il Giubileo straordinario indetto dal Papa

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LA LENTE

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Due anni fa ricordavo che «cristiani si di-venta, non si nasce» come affermava Ter-tulliano6. Si diventa

cristiani grazie ad un dono (batte-simo, eucaristia…) che ti segna per tutta la vita. Oggi aggiungo che si diventa cristiani non solo attraverso il dono, ma anche attraverso il per-dono. Sempre due anni fa riferivo la storia narrata da Clemente Alessan-drino di un giovane affidato dall’apostolo Giovanni ad un vescovo della Chiesa e da questi poi battezzato. Dopo, però, il vescovo «allentò la cura e la sorveglian-za, dal momento che gli aveva affiffiancato il custode perfetto, il sigillo del Signore», avendolo fatto cristia-no attraverso il dono del battesimo-confermazione-eucarestia. Ben presto, però, il giovane fu traviato da cattive compagnie fino a diventare uno spietato ca-pobanda di criminali. In quel racconto si descriveva la situazione del peccatore come quella di uno «morto agli occhi di Dio». Giovanni non si dava per vinto e si metteva subito alla sua ricerca. L’incontro con l’apo-stolo fu sconvolgente per quel giovane. Gridava l’A-postolo: «Perché, figlio, fuggi me che sono tuo padre, inerme, vecchio? Abbi pietà di me, figlio, non temere: hai ancora speranze di vita. Io renderò conto a Cristo per te; se me lo chiedi, volentieri subirò la tua morte, come il Signore ha fatto per noi. Per te darò in cam-bio la mia anima. Fermati, credimi: Cristo mi ha man-dato!». La sua testimonianza sulla reale possibilità di salvezza, anche per chi aveva così gravemente pecca-to, spinse quel giovane alla conversione e a riprendere il suo cammino di credente «facendosi battezzare una seconda volta dalle lacrime». Giovanni, garantendogli il perdono del Signore, pregando e inginocchiandosi, lo ricondusse alla chiesa e, «implorando con preghiere

copiose, lottando con continui digiuni, con il fascino di discorsi variegati allet-tando la sua mente, se ne andò, come si dice, non prima di averlo messo a capo della chiesa». Dal peccato alla guida del-la Chiesa. Un percorso non raro, basti pensare a san Paolo, sant’Agostino, sant’Ambrogio. Tre storie molto diver-se, per quanto riguarda il peccato per-

sonale, ma tutte segnate profondamente dall’incontro con la misericordia di Dio in Gesù.

Il per-dono mi fa conoscere Dio-Amore

La remissione dei peccati è la ragione del mistero pa-squale, ma in quel perdono noi sperimentiamo, con una nuova efficace forza, l’Amore stesso di Dio; la Carità divina è causa ed anche, per noi, frutto del perdono: amiamo molto perché ci è stato perdonato molto (cfr. Lc 7,47). Se riconosco di essere stato per-donato, ho toccato ancora una volta l’Amore di Dio. Il perdono dei peccati è sempre una manifestazione dell’Amore di Dio. Chi vive dentro una relazione d’a-more «capisce che l’amore è esperienza di verità, che esso stesso apre i nostri occhi per vedere tutta la re-altà in modo nuovo, in unione con la persona amata. In questo senso, san Gregorio Magno ha scritto che […] l’amore stesso è una conoscenza, porta con sé una logica nuova. Si tratta di un modo relazionale di guardare il mondo, che diventa conoscenza condivi-sa, visione nella visione dell’altro e visione comune su tutte le cose»8. Felice colpa, canta la Chiesa nell’an-nuncio pasquale, affemando una verià assoluta: il per-dono è sacramento dell’amore di Dio, luogo originario della nostra esperienza del mistero. Il perdono che ti raggiunge innanzi tutto nel battesimo e che la Chiesa ti aiuta a custodire e a far rifioirire dopo il peccato.

DAL DONO AL PER-DONOEstratto da “La Chiesa madre di misericordia e di tenerezza”

DI ARMANDO TRASARTI VESCOVO

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SOMMARIO05 MISERICORDIOSI COME IL PADRE

Il Papa indice Il Giubileo straordina-rio della Misericordia

IN COPERTINA

38L’ORATORIO, TESORO PREZIOSO PER I NOSTRI GIOVANINe parliamo con don Steven Carboni, responsabile diocesano progetto Oratori

grandangoloUNO SGUARDO SULL’UOMO DI OGGI

NUMERO 04

APRILE 2015Diretto da

ENRICA PAPETTI

Realizzazione grafica

LUCA MISURIELLO

RecapitiTELEFONO 0721/802742EMAIL [email protected]

ATTUALITA’8 UNA NUOVA ECATOMBE NEL

MEDITERRANEONe parliamo con Mons. Gian Carlo Perego, direttore della Fondazione Migrantes

12 UN DOCUFILM SU PIO XII E GLI EBREINe parliamo con il curatore Antonello Carvigiani

DAL MONDO16 IL MASSACRO DI GARISSA

Intervista a Raffaella Nannini, direttrice L’Africa Chiama

03 LA LENTE

DALL’ITALIA26 SCOMPARSI NEL NULLA:

UN AIUTO ALLE FAMIGLIEIntervista a Giorgia Isidori presidente Associazione Penelope Marche

DALLA DIOCESI42 VEGLIA VOCAZIONALE

DIOCESANALe riflessioni dalla nostra diocesi

OBIETTIVO EXPO 2015

OBIETTIVO CULTURA66 UN “PRESENTE” DA CONDIVIDERE

FRA ATTORI E SPETTATORIConosciamo, da vicino, il Teatro del Canguro

20IL DISASTRO GERMANWINGS E GLI INTERROGATIVI APERTIIl punto con il pilota Luigi Alfredo Basagni

Dal dono al per-dono. Estratto da “La Chiesa madre di misericordia e di tenerezza”

30 INAUGURATO L’ANNO GIUDIZIARIO 2015 DEL TRIBUNALE ECCLESIASTICO REGIONALE PICENOCe ne parla don Paolo Scoponi nuovo vicario giudiziale

52 LA “RICETTA” DELL’ACCADEMIA ITALIANA DI CUCINA Intervista al presidente Giovanni Ballarini

56 “NUTRIRE IL PIANETA, ENERGIA PER LA VITA”Un contributo del movimento italiano del Commercio Equo e solidale

60 IL BOOM DI PROGRAMMI DI CUCINANe parliamo con la foodblogger Federica Gelso Giuliani

70 IL BIBLIOTECARIO, UNA PROFESSIONE IN CONTINUA EVOLUZIONENe parliamo con Danilo Carbonari e Valeria Patregnani

OBIETTIVO SPORT74 LA SCHERMA, UNO SPORT DAL

FASCINO SEMPRE ATTUALEIntervista a Giorgio Scarso, presidente Federazione Internazionale Scherma

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IN COPERTINA

MISERICORDIOSI COME IL PADREIl Papa indice Il Giubileo straordinario della Misericordia

[…]

Abbiamo sempre bisogno di con-templare il mistero della miseri-cordia. È fonte di gioia, di sere-nità e di pace. È condizione della nostra salvezza. Misericordia: è la

parola che rivela il mistero della SS. Trinità. Mi-sericordia: è l’atto ultimo e supremo con il qua-le Dio ci viene incontro. Misericordia: è la legge fondamentale che abita nel cuore di ogni persona quando guarda con occhi sinceri il fratello che incontra nel cammino della vita. Misericordia: è la via che unisce Dio e l’uomo, perché apre il cuo-re alla speranza di essere amati per sempre nono-

stante il limite del nostro peccato.Ci sono momenti nei quali in modo ancora più forte siamo chiamati a tenere fisso lo sguardo sulla misericordia per diventare noi stessi segno efficace dell’agire del Padre. È per questo che ho indetto un Giubileo Straordinario della Miseri-cordia come tempo favorevole per la Chiesa, per-ché renda più forte ed efficace la testimonianza dei credenti.L’Anno Santo si aprirà l’8 dicembre 2015, solen-nità dell’Immacolata Concezione. Questa festa liturgica indica il modo dell’agire di Dio fin dai primordi della nostra storia. Dopo il peccato di Adamo ed Eva, Dio non ha voluto lasciare l’uma-

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IN COPERTINA

nità sola e in balia del male. Per questo ha pensa-to e voluto Maria santa e immacolata nell’amore (cfr Ef 1,4), perché diventasse la Madre del Re-dentore dell’uomo. Dinanzi alla gravità del pec-cato, Dio risponde con la pienezza del perdono. La misericordia sarà sempre più grande di ogni peccato, e nessuno può porre un limite all’amore di Dio che perdona. Nella festa dell’Immacolata Concezione avrò la gioia di aprire la Porta Santa. Sarà in questa occasione una Porta della Miseri-cordia, dove chiunque entrerà potrà sperimentare l’amore di Dio che consola, che perdona e dona speranza.La domenica successiva, la Terza di Avvento, si aprirà la Porta Santa nella Cattedrale di Roma, la Basilica di San Giovanni in Laterano. Successi-vamente, si aprirà la Porta Santa nelle altre Basi-liche Papali. Nella stessa domenica stabilisco che in ogni Chiesa particolare, nella Cattedrale che è la Chiesa Madre per tutti i fedeli, oppure nella Concattedrale o in una chiesa di speciale signi-ficato, si apra per tutto l’Anno Santo una uguale Porta della Misericordia. A scelta dell’Ordinario, essa potrà essere aperta anche nei Santuari, mete di tanti pellegrini, che in questi luoghi sacri spes-so sono toccati nel cuore dalla grazia e trovano la via della conversione. Ogni Chiesa particola-re, quindi, sarà direttamente coinvolta a vivere questo Anno Santo come un momento straor-dinario di grazia e di rinnovamento spirituale. Il Giubileo, pertanto, sarà celebrato a Roma così come nelle Chiese particolari quale segno visibile della comunione di tutta la Chiesa. […]L’Anno giubilare si concluderà nella solennità liturgica di Gesù Cristo Signore dell’universo, il 20 no-vembre 2016. In quel giorno, chiudendo la Porta Santa avremo anzitutto sentimenti di gratitudine e di ringraziamento verso la SS. Trinità per aver-ci concesso questo tempo straordinario di grazia. Affideremo la vita della Chiesa, l’umanità intera e il cosmo immenso alla Signoria di Cristo, per-ché effonda la sua misericordia come la rugiada

del mattino per una feconda storia da costruire con l’impegno di tutti nel prossimo futuro. Come desidero che gli anni a venire siano intrisi di mi-sericordia per andare incontro ad ogni persona portando la bontà e la tenerezza di Dio! A tut-ti, credenti e lontani, possa giungere il balsamo della misericordia come segno del Regno di Dio già presente in mezzo a noi. […]L’architrave che sorregge la vita della Chiesa è la misericordia. Tutto della sua azione pastorale dovrebbe esse-

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re avvolto dalla tenerezza con cui si indirizza ai credenti; nulla del suo annuncio e della sua te-stimonianza verso il mondo può essere privo di misericordia. La credibilità della Chiesa passa attraverso la strada dell’amore misericordioso e compassionevole. La Chiesa «vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia». Forse per tanto tempo abbiamo dimenticato di indicare e di vivere la via della misericordia. La tentazione, da una parte, di pretendere sempre e solo la giu-stizia ha fatto dimenticare che questa è il primo passo, necessario e indispensabile, ma la Chiesa ha bisogno di andare oltre per raggiungere una meta più alta e più significativa. Dall’altra parte, è triste dover vedere come l’esperienza del perdo-no nella nostra cultura si faccia sempre più dira-data. Perfino la parola stessa in alcuni momenti sembra svanire. Senza la testimonianza del per-dono, tuttavia, rimane solo una vita infeconda e sterile, come se si vivesse in un deserto desolato. […]La Chiesa ha la missione di annunciare la misericordia di Dio, cuore pulsante del Vangelo, che per mezzo suo deve raggiungere il cuore e la mente di ogni persona. La Sposa di Cristo fa suo il comportamento del Figlio di Dio che a tutti

va incontro senza escludere nessuno. Nel nostro tempo, in cui la Chiesa è impegnata nella nuova evangelizzazione, il tema della misericordia esige di essere riproposto con nuovo entusiasmo e con una rinnovata azione pastorale. È determinante per la Chiesa e per la credibilità del suo annuncio che essa viva e testimoni in prima persona la mi-sericordia. Il suo linguaggio e i suoi gesti devono trasmettere misericordia per penetrare nel cuore delle persone e provocarle a ritrovare la strada per ritornare al Padre. […]Vogliamo vivere questo Anno Giubilare alla luce della parola del Signore: Misericordiosi come il Padre. L’evangelista ripor-ta l’insegnamento di Gesù che dice: «Siate mise-ricordiosi, come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6,36). È un programma di vita tanto impe-gnativo quanto ricco di gioia e di pace. L’impe-rativo di Gesù è rivolto a quanti ascoltano la sua voce (cfr Lc 6,27). Per essere capaci di miseri-cordia, quindi, dobbiamo in primo luogo porci in ascolto della Parola di Dio. Ciò significa recupe-rare il valore del silenzio per meditare la Parola che ci viene rivolta. In questo modo è possibile contemplare la misericordia di Dio e assumerlo come proprio stile di vita.

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ATTUALITA’

UNA NUOVA ECATOMBE NEL MEDITERRANEONe parliamo con Mons. Giancarlo Perego, direttore della Fondazione Migrantes

Non si possono leggere o ascoltare i racconti dei sopravvissuti senza le lacrime agli occhi. Vedere nei loro volti la speranza trasformata nella rassegnazione di chi, nell’at-

traversare il Mediterraneo, ha perso tutto. I 700 morti del naufragio nel Canale di Sicilia è solo l’ultima tragedia che, purtroppo, siamo abituati ad ascoltare dai mezzi di informazione. 700 cor-pi, 700 volti partiti con il sogno di un futuro mi-gliore, naufragato nelle acque del Mediterraneo. A pochi giorni da quella che è stata definita una delle più grandi ecatombe dal dopoguerra, abbia-mo intervistato Mons. Gian Carlo Perego Diret-tore generale Fondazione Migrantes.

Mons. Perego, i racconti dei sopravvissuti al naufragio nel Canale di Sicilia sono terribi-li. Dovrebbero essere, ogni volta, per noi un “pugno nello stomaco”, mentre la sensazione è quella che ci stiamo abituando a tragedie di questo tipo. Che cosa dicono queste morti al mondo e in particolare al mondo cattolico?Anzitutto queste morti raccontano un tassello di storia delle migrazioni oggi nel mondo, dettata non da ragioni economiche (una ricerca di un la-voro e di una condizione di vita migliore per sé e la propria famiglia), ma da ragioni forzate: le 21 guerre in atto, la disperazione e la persecuzione di dittature, i disastri ambientali e la costrizione a lasciare la propria terra, le persecuzioni religio-

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ATTUALITA’

UNA NUOVA ECATOMBE NEL MEDITERRANEONe parliamo con Mons. Giancarlo Perego, direttore della Fondazione Migrantes

se, il terrorismo violento). Nell’ultimo anno 51 milioni di persone nel mondo hanno lasciato la propria terra per queste ragioni: perdendo tutto, portando con sé solo il desiderio di salvare la pro-pria vita e quella dei propri figli. Di fronte a que-sto diritto di lasciare la propria terra per salvare la propria vita non può che corrispondere un dove-re d’accoglienza e di tutela nelle nostre comunità cristiane, provocando anche le istituzioni a forme e strumenti nuovi di tutela dei richiedenti asilo e rifugiati..

Papa Francesco, nell’Angelus di domenica 19 aprile, oltre ad esprimere profondo dolore per le vittime del naufragio, ha rivolto un accora-

to appello affinché la comunità internazionale agisca con decisione e prontezza, onde evita-re che simili tragedie abbiano a ripetersi. Che cosa può e deve fare in concreto la comunità europea?Parafrasando la costituzione apostolica Gaudium et spes, ripresa dal beato Paolo VI nell’enciclica Populorum progressio, di fronte a queste ripetute tragedie nate da un contesto internazionale se-gnato da guerre e povertà, “le nazioni sviluppate hanno l’urgentissimo dovere di aiutare le nazioni in via di sviluppo” (n.48). Un dovere di solidarietà che chiama in causa l’Europa, ma anche le poten-ze economiche del mondo, le organizzazioni in-ternazionali come l’ONU, sollecitando tre azio-

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ATTUALITA’

ni. La necessità immediata di un’azione navale europea e internazionale nel Mediterraneo, che sull’esempio di Mare nostrum, possa non solo li-mitarsi a presidiare i confini, ma a costruire veri e propri percorsi di salvezza, canali umanitari per le persone e i popoli in fuga. É vergognoso nascon-dersi dietro ai supposti costi di un’operazione per abbandonare a se stessi famiglie, giovani, donne e bambini alla morte. In secondo luogo, ali-mentare un piano so-ciale europeo che vada a rafforzare con risorse non solo l’accoglienza di chi chiede una pro-tezione internazionale nelle sue diverse forme, ma valuti anche forme nuove di riconoscimento in tempi brevi, che permettano una circolazione e una tutela dei richiedenti asilo in tutti e 28 i Paesi europei. In terzo luogo, ripartire da un’azio-ne internazionale congiunta che abbia l’obiettivo della pace e della sicurezza nel Nord Africa, nel Medio Oriente e nel Corno d’Africa, così che le persone, grazie anche a un efficace programma di cooperazione internazionale, possano ricostruire il proprio Paese e averne il diritto di viverci.

Mons. Perego, lei ha affermato che è fonda-mentale un sistema di prima e seconda acco-glienza molto più strutturato. In che senso?L’Italia, con la sua storia straordinaria di solida-rietà, nonostante la crisi che segna anche i giovani e le famiglie italiane, non può rinunciare a condi-videre risorse per la tutela di un diritto e dovere

fondamentale verso chi oggi, disperato, si mette in viaggio. Non si può sacrificare alla ragion di Stato o a ragioni politi-che o elettorali il dovere della solidarietà, lascian-do alla discrezionalità di organismi e istituzioni l’esercizio di tale dovere. Oggi assistiamo al fatto

che il Molise accoglie una persona rifugiata ogni 400 abitanti, come in Germania, mentre la Lom-bardia o il Veneto ne accolgono una ogni 2500 abitanti. Come comunità cristiana non si può indebolire il dovere dell’ospitalità e la rete di ac-coglienza – che vede già accolte nelle parrocchie, nei seminari, negli istituti religiose, nelle case di accoglienza oltre 10.000 persone – a favore di chi ci mostra in maniera rinnovata il volto sofferente di Cristo, “la carne sofferente di Cristo” - come ci ha ricordato più volte papa Francesco, a par-

<<Non si può sacrificare alla ragion di Stato o a ragioni politiche o elettorali il dovere della solidarietà>>

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ATTUALITA’

tire dal suo discorso nella visita a Lampedusa -, valutando con coerenza e coscienza di rafforzare la stessa rete ecclesiale, sociale e familiare di ac-coglienza, segno anche di una sussidiarietà, fon-damentale valore sociale.

Il Mediterraneo – come ha lei stesso ha sotto-lineato – non può essere un muro. Le chiedo: quali sono le speranze di chi quel “muro” riesce ad oltrepassarlo?La speranza è che L’Europa riconosca nel Me-diterraneo il proprio mare, utilizzando risorse e forze dei 28 paesi per riprenderlo dalle mani e dal controllo dei trafficanti, per farlo diventare un limes, una strada, un canale umanitario attraverso il quale le persone possano in sicurezza abbando-nare situazioni drammatiche e tragiche e trovare accoglienza e sicurezza: la sicurezza di queste persone è la condizione della sicurezza dell’Eu-ropa. Le speranze di chi attraversa il Mediterra-neo, come ha ricordato papa Francesco al Regi-na Caeli di domenica 19 aprile – è la felicità. O l’Europa, le nostre comunità accolgono aiutano questo desiderio di felicità, diversamente, come già profetava Paolo VI nell’enciclica Populorum

progressio del 1971, il rischio è che “la rabbia dei poveri” ci travolga.L’Africa nei prossimi 30 anni passerà da un miliardo di persone a 2 miliardi di giovani e l’Europa perderà 50 milioni di perso-ne e sarà sempre più abitata da anziani. L’Italia

vede ogni anno dieci morti e nove nascite, mentre paesi da cui provengono i rifugiati vedono più nascite che morti: 47 nascite e 12 morti in Mali, 12 Morti e 43 nascite ogni mille abitanti in So-malia, 41 nascite e 13 morti in Nigeria. Di chi è il futuro e con chi si costruisce il futuro?

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ATTUALITA’

“LO VUOLE IL PAPA”Un docufilm su Pio XII e gli ebrei

Un pontificato lungo, una figu-ra controversa, un periodo sto-rico difficile. Mercoledì 1 aprile TV2000 ha trasmesso il docufilm “Lo vuole il Papa” curato da An-

tonello Carvigiani, regia di Andrea Tramontano, post-produzione Giuseppe Pasqual. Un prezioso documento sulla protezione che Papa Pacelli of-frì agli ebrei durante l’occupazione nazista.

Per conoscere meglio il “dietro le quinte” del documentario, abbiamo intervistato il curatore Antonello Carvigiani.

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ATTUALITA’

Un figura controversa e molto discussa nel-la storia. Da Papa di Hitler allo Schindler del Vaticano. Chi era davvero Papa Pacelli? Che ritratto ne emerge da questo docufilm?Il pontificato di Pio XII è molto lungo. Pacelli si trova a fronteggiare – dal ’39 al ’58 – un periodo molto complesso che va dagli orrori del nazismo, al dramma della guerra, al nuovo mondo spacca-to a metà tra paesi filo capitalisti e comunisti. Il docu-film, in realtà, punta l’obiettivo su una fase più ristretta: i terribili mesi dell’occupazione te-desca di Roma, dall’ottobre del ’43 al giugno del ’44. Di fronte alla persecuzione degli ebrei (ma anche degli oppositori politici e dei renitenti alla leva), a Roma, c’è una mobilitazione umanita-ri vastissima. Conventi, monasteri, parrocchie,

palazzi legati al Vaticano aprono le loro porte per nascondere i ricercati dai nazisti. Si calcola che almeno cinquemila ebrei trovano scampo in queste strutture. La questione è: il papa sapeva? Dagli anni ’60, infatti, una polemica fortissima investe Pio XII. Si sostiene: il Papa non ha fatto niente. La mobilitazione è stata spontanea. Nu-merosi studi hanno smontato in questi ultimi anni questa polemica, nata soprattutto con fini ideologici. Il nostro docu-film, aggiunge un altro tassello a questo mosaico storiografico. Nelle cro-nache di quattro case religiose femminili romane è chiaramente affermato che a chiedere di aprire le porte a chi si trovava in difficoltà è stato pro-prio Pacelli. Come è nata l’idea di mettere insieme quattro preziose testimonianze per farne un documen-tario proprio sulla figura di Papa Pacelli?

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ATTUALITA’

L’idea nasce dal mio interesse. Sono anni che mi occupo di questo periodo storico e, in particola-re di Pio XII. Per Tv2000, già nel 2009, ho rea-lizzato un documentario su Pacelli (“Pio XII. Il diplomatico di Dio”). Alla fine dello scorso anno, ho pubblicato un saggio sulla rivista Nuova storia contemporanea. Approfondendo questi studi, ho

pensato che sarebbe stato utile mettere insieme le quattro cronache in un unico percorso storico e narrativo.

Come mai la scelta di questo titolo “Lo vuole il Papa”?Il titolo nasce proprio da quello che viene rac-

contato nel docu-film. I do-cumenti, che facciamo vedere nei loro dettagli essenziali, ci raccontano questo. É Pio XII a chiedere alle religiose di nascondere i perseguita-ti. Si tratta di un lavoro che non ha intenzioni apologeti-che ma che mira a sottoporre all’attenzione del pubblico e – se possibile – a quella degli specialisti documenti inte-ressanti, che possano contri-buire ad un dibattito storico sereno e non ideologico.

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ATTUALITA’

Qual è stata la testimonianza che, da curatore del docufilm, ti ha colpito di più?Nel docu-film, oltre ai documenti, ci sono anche le testimonianze di due persone che si sono salva-te, nascondendosi proprio in quelle case religiose. All’epoca erano dei ragazzi o poco più. Ebbene, sentire raccontare da loro il dramma di quei gior-ni, è stato senz’altro il momento più emozionante e toccante. É come se – per il tempo dell’intervi-sta – si tornasse indietro, a quei tragici mesi.

Alcuni storici, mi riferiscono ad esempio all’i-sraeliano Krupp o al ricercatore tedesco Hese-mann, avevano già avevano già raccolto testi-monianze sulla protezione che Pio XII aveva garantito agli ebrei durante il regime nazista. Questo docufilm, quindi, va a inserire un altro tassello in questo percorso.Esattamente, è quello che spiegavo prima. Dal mio punto di vista, è un contributo fornito ad una discussione serena su quei terribili mesi, che aiuti storici ed opinione pubblica a confrontarsi sui fatti e sui documenti, lasciando da parte pre-concette e ormai logore posizioni ideologiche.

<<Nel docu-film, oltre ai documenti, ci sono anche le testimonianze di due persone che si sono salvate>>

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DAL MONDO

IL MASSACRO DI GARISSAIntervista a Raffaella Nannini, direttrice L’Africa Chiama

Alle 5.30 (ora lo-cale) del 2 aprile 2015 un gruppo di guerriglieri entra nel campus di Ga-

rissa, al confine con la Somalia, e inizia il massacro. 150 studen-ti uccisi solo per il fatto di esse-re cristiani. Negli occhi e nelle parole dei sopravvissuti la paura che tutto ciò possa ancora ripe-tersi. In queste terre, martoriate non solo dai conflitti ma anche da povertà e fame, opera l’Afri-ca Chiama. Abbiamo chiesto alla direttrice della Ong fanese, Raf-faella Nannini, di raccontarci la loro attività in terra africana.

Raffaella, è sotto gli occhi di tutti quello che è avvenuto in Kenya, nell’università di Garis-sa. 147 o forse di più i cristiani uccisi, ma in questi casi i nu-meri contano per ben poco poi-ché, dietro quelle cifre, ci sono persone, ognuna con la propria storia. Come avete appreso la notizia e che idea vi siete fatti di quanti accaduto?Abbiamo saputo della notizia attraverso internet e subito ci siamo messi in contatto con il nostro referente in loco, Ange-lo Valsesia. Attualmente sono impiegati presso il nostro centro Angelo, coordinatore di tutte le attività dell’associazione e presente in loco da

Dicembre 2014, e Sara Guiducci, volontaria di Fano che resterà per un mese per supportare il lavoro di Angelo e degli altri operatori africani.Angelo e Sara non sapevano ancora nulla dei fatti perché erano a Soweto, la baraccopoli alla periferia di Nairobi dove operiamo da circa 10

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DAL MONDO

anni, impegnati a svolgere visite alle famiglie be-neficiarie dei nostri progetti. Dopo pochissimo la notizia è arrivata come un tam tam in tutta la baraccopoli.

Il Kenya è uno degli stati africani in cui è pre-sente e opera la vostra associazione, soprattut-to per ciò che riguarda l’alimentazione, l’acco-glienza e la cura di alcune malattie. Temete che episodi di questo genere possano ostacolare o mettere a rischio i progetti che state portando

avanti in questi luoghi?I nostri progetti proseguono regolarmente nono-stante da ormai alcuni anni il Kenya sia teatro di atti terroristici e di violenza. Chiediamo ai nostri referenti espatriati in loco di fare molta atten-zione soprattutto negli spostamenti, ma oltre a questo sono poche le misure di precauzione che possiamo intraprendere.Episodi di questo genere ci spingono a fare an-cora di più e farlo sempre meglio e quindi a non fermarci. La causa di questi episodi di violenza estrema purtroppo è anche dovuta allo stato di grave povertà e disagio nel quale è costretta a vi-vere gran parte della popolazione locale. Quello che quindi cerchiamo di fare ogni giorno è ri-muovere le cause di tanta violenza, cercando di garantire cibo e cure mediche alla popolazione locale.

Nei giorni scorsi, a Nairobi, gli studenti kenia-ni sono scesi in piazza per chiedere maggiore sicurezza. Ti chiedo, quanto è difficile operare

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DAL MONDO

in questi contesti? Si teme davvero per la propria incolumità?Abbiamo scelto di vivere e lavorare all’interno di una baraccopoli alla periferia di Nairobi dove è ne-cessario muoversi sempre e comunque con molta attenzione. La popolazione locale ci conosce ed apprezza il nostro intervento, ma sono luoghi dove regna la criminalità nella quasi totale assenza di forze di polizia e dove quindi è necessario muo-versi con cautela. Continuiamo a vivere e lavorare proprio in questi luoghi perchè è proprio lì che è quanto mai necessario il nostro intervento e dove spesso non sono presenti ne organizzazioni ne lo stato.

Tante sono le testimonianze di giovani che, gra-zie alla vostra associazione, sono partiti come volontari in terra africana. Che cosa significa vi-vere questo tipo di esperienza? Ogni anno partono circa 20 persone, giovani e meno giovani. Ognuno di loro ha vissuto un’espe-rienza che porterà con se nel cuore per tutta la vita. Innanzitutto si tratta della possibilità di vedere con i propri occhi e toccare con mano una realtà davve-ro lontana dalla nostra quotidianità ed è l’occasione di potersi mettere al servizio degli ultimi. Tutti i volontari rientrano in Italia consapevoli del fatto che quanto hanno ricevuto da quest’esperienza molto di più di quanto hanno donato. E’ un’espe-rienza unica che tutti coloro che possono dovreb-bero fare.

Ogni anno organizzate alcuni incontri di forma-zione per chi vuole fare un’esperienza di volonta-riato in Africa, ma anche semplicemente per chi ha desiderio di conoscere più da vicino questa re-altà. Quanto è importante, in particolare in que-ste zone che vivono in perenne emergenza, non fare i “volontari fai da te”?E’ fondamentale innanzitutto per una questione di sicurezza come detto sopra. E’ inoltre importante per poter inserirsi con rispetto in una realtà e cul-tura profondamente diversa dalla nostra e per po-terla conoscere con profondità. Vivere quest’espe-rienza con un associazione ti permette di entrare “in punta di piedi” e di non invadere.Parlando di questo mi vengono in mente le bel-lissime parole di Don Oreste Benzi, fondatore dell’Associazione Papa Giovanni XXIII con cui L’Africa Chiama collabora da oltre 10 anni. Par-lando dell’Africa don Oreste diceva: “Prima di en-trare nella casa del povero, togliti i sandali perchè il terreno su cui stai camminando è santo!”

Ritornando ai vostri progetti, in Kenya, nella ba-raccopoli di Soweto, avete aperto un centro per bambini disabili che, di frequente, sono soggetti a emarginazione dalla loro stessa famiglia. Un progetto importante per arginare questo grave fenomeno. Puoi parlarcene nel dettaglio?Attualmente L’Africa Chiama si prende cura di oltre 60 bambini con disabilità, fisiche e cogniti-

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DAL MONDO

ve. A venti bambini viene garantito il supporto scolastico, pagando per loro le rette scolastiche e l’acquisto di materiale, mentre a circa 40 bambini viene garantito un percorso di riabilitazione mo-toria grazie all’impegno di una fisioterapista ken-yota. A tutti i bambini inoltre garantiamo cibo e cure mediche. Purtroppo la disabilità è ancora vi-sta come il frutto di una maledizione divina, qual-cosa di cui vergognarsi ed un peso per la società e per la famiglia. Il primo obiettivo per cui lavo-riamo ogni giorno è proprio quello di combattere la forte esclusione di cui sono vittime i bambini

disabili, emarginati dalla comunità, dalla scuola e spesso anche dalle stesse famiglie. Il secondo obiettivo è quello di migliorare le loro condizio-ni: capita spesso di vedere dopo solo poche sedu-te di fisioterapia vedere un bambino camminare. Purtroppo molte forme di disabilità si potrebbe-ro facilmente prevenire e da tante si può guarire con esercizi mirati, interventi o cure specifiche. Purtroppo molti rimangono i casi dove ormai non si può fare tanto, ma dove L’Africa Chiama può intervenire potenziando le famiglie e sem-plicemente affiancandoli nel cammino.

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DAL MONDO

Tanti sono gli interrogativi che na-scono in seguito a tragedie ina-spettate come quella che a fine marzo ha coinvolto il volo della Germanwings che, a causa del-

la presunta volontà del copilota, è stato fatto

schiantare contro le Alpi francesi. Dalla modalità di formazione e abilitazione dei piloti ai dispo-sitivi di sicurezza apparentemente insufficienti; dalla necessità di verificare a fondo la psiche e il passato dell’equipaggio ai dubbi sul rapporto qualità prezzo dei voli low cost.Per comprendere meglio il mondo di chi lavora sugli aerei adibiti al trasporto passeggeri, abbia-mo intervistato Luigi Alfredo Basagni, giovane

DI MATTEO ITRI

IL DISASTRO GERMANWINGS E GLI INTERROGATIVI APERTIIl punto con il pilota Luigi Alfredo Basagni

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IL DISASTRO GERMANWINGS E GLI INTERROGATIVI APERTIIl punto con il pilota Luigi Alfredo Basagni

che da quattro anni è impiegato come primo uf-ficiale presso una nota compagnia aerea. Innanzitutto partiamo dalla formazione. Qual è il percorso che deve intraprendere un civile per poter arrivare a pilotare un aereo di linea?«Fuori dalla carriera militare, un civile che ha fi-nito la scuola secondaria superiore, può frequen-tare una scuola di volo, come ho fatto io. Il corso

comprende una parte teorica, con degli esami scritti, e una parte pratica con i rispettivi test. Il tutto prevede circa 250 ore di volo e inizialmente si vola con aeroplani piccoli, come i Cessna».

Quanto dura questo percorso e chi sostiene tutte le spese?«Non c’è un tempo preciso della durata della scuola, in quanto il tutto dipende dalla disponi-

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bilità dell’apprendista pilota, così come avviene per il conseguimento di qualsiasi altro titolo di guida. In-dicativamente entro i due anni si può conseguire l’abilitazione al volo strumentale su aereo bimotore in qualità di pilota commerciale. Il costo è tutto a carico dello studente, cosa non di poco conto, visto che il tutto, com’è facilmente immaginabile, è piuttosto costoso».

Poi…«Dopo questo brevetto, c’è un ulteriore corso che prevede l’istruzione di volo assieme a un copilota, esattamente come accade durante i voli di linea con passeggeri a bordo, e sono voli che prevedo-no una mole di lavoro più intensa e che pertanto necessita di essere divisa su due persone.Da qualche tempo però, alcune compagnie ae-ree hanno iniziato ad assumere personale senza pregresse esperienze su aeromobili di linea; ov-viamente occorre comunque attraversare anche un colloquio che coinvolge sia aspetti tecnici, che psicoattitudinali, seguito dall’esame al simulato-re per verificare come viene gestito il volo nelle emergenze e come il pilota riesce a rapportarsi con un’altra persona. Quest’ultimo fattore viene sempre tenuto in grande considerazione perché, negli incidenti aerei, spesso è proprio il fattore umano che influisce maggiormente. Poi è la volta del line training, l’addestramento in linea, su volo

passeggeri. Tutta questa formazione può avvenire anche tramite dei corsi interni alle varie compa-gnie, che prevedono la formazione e l’affinamen-to del pilota.Al termine di un certo numero di tratte percorse, si riceve l’abilitazione a volare assieme ai passeg-geri, comunque sotto il controllo del comandan-te».

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Ci sono visite mediche o esami psicoattitudi-nali da superare?«Come categoria subiamo un’iniziale esame me-dico estremamente scrupoloso, che viene ripetuto ogni anno o, in base all’età, anche ogni sei mesi. Ripetendo il test, però, la prassi prevede che alcu-ni test non vengano ripetuti di volta in volta. Test di carattere psicologico, ad esempio, non vengono più ripetuti come all’inizio.Ogni anno vengono inoltre effettuati due nuovi test al simulatore e uno su un aereo vero e pro-prio: in pratica è come se una persona ogni anno ripetesse l’esame della patente tre volte, con tanto di visita medica».

Il dubbio più o meno recondito in ognuno è

che i voli low cost siano più economici, ma an-che meno sicuri. È vero? Dove si risparmia per volare a costi ridotti?«La compagnia per la quale lavoro ha il vantaggio di avere la flotta di aerei più nuova di tutta Euro-pa, con la media di quattro/cinque anni di vita a velivolo. La nostra è anche una delle compagnie più intransigenti al mondo, che già da tempo, giusto per fare un esempio, prevede la presenza di due persone dell’equipaggio nella cabina di pi-lotaggio.Generalmente si risparmia sugli assistenti di volo e sui piloti. Questi ultimi, cosa che non ho detto prima, per entrare in servizio devono corrispon-dere un’ingente quota alla compagnia aerea che, così facendo, per un certo periodo è come se si

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trovasse ad avere piloti a costo zero. In sostan-za si risparmia sulla contrattualizzazione iniziale. Successivamente lo stipendio aumenta, il corri spettivo orario è buono, anche se spesso senza le garanzie abituali di un normale contratto, come la malattia, la tredicesima o i versamenti previ-denziali.Va da sé che il tutto viene gestito in maniera in-telligente, senza però gravare su manutenzione, procedure e carburante caricato. Sulla sicurezza non si risparmia mai, di questo sono estremamente sicuro».

Per quanto riguarda i dispositivi di sicurezza, cosa è stato intro-dotto dopo l’11 settembre e cosa cambierà dopo la strage aerea del marzo scorso?«Dopo l’11 settembre 2001, la ca-bina di pilotaggio è diventata come blindata. C’è un blocco elettronico, abbinato a un codice di sblocco a conoscenza dell’equipaggio, perio-dicamente cambiato dalla com-

pagnia. Il pilota, però, può bloccare la porta sia meccanicamente, che elettronicamente, vietando l’apertura della porta in qualsiasi modo da parte di esterni.Da oggi si radicherà un’abitudine già ben radica-ta presso alcune compagnie, ovvero l’obbligatoria presenza di due persone dell’equipaggio in cabi-na di pilotaggio. Questo anche solo per assistere il pilota nel caso avesse un malore, richiamando tempestivamente il secondo pilota in aiuto. Forse

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da oggi aumenteranno, a livello mondiale, anche i controlli di carattere psichico sul personale di volo, cosa che tra l’altro avveniva in modo scru-polosamente, anche mediante la somministrazio-ne di test DLR, presso la compagnia protagoni-sta della recente strage…Molto però è cambiato a terra, nella procedura di controllo dei passeggeri, così come pure dei pi-loti, che di sicuro è uno dei passaggi più delicati e importanti che viene sempre gestito in modo puntuale e preciso».

Come è possibile che un pilota ritenuto non idoneo sia stato rimesso in volo?«Non so dire che tipo di decisioni sono sta-te adottate a livello della gestione del persona-le. Probabilmente, dopo un periodo di malattia, la persona è stata reintrodotta normalmente. In questo lavoro si conta molto sul senso di respon-sabilità del singolo pilota, che dev’essere la prima a definirsi idonea o meno al volo.Se era evidente, avrebbero potuto decidere di la-sciare quel pilota a terra, magari impiegandolo al simulatore per formare altri piloti, visto che co-munque le capacità le possedeva».

Visti i precedenti di aerei fatti schiantare senza un apparente motivo, cosa succede nella testa del pilota? Questa apparente in-stabilità mentale che a volte si verifica può essere frutto di uno stress psicologico riferibile alla necessità di alternare continui momenti di elevata concen-trazione?«È risaputo che la depressione possa condurre a gesti estremi. Se ciò accadesse a un pilota, for-se anch’egli avrebbe potuto fare gesti sconclu-sionati, senza pensare troppo alle conseguenze. Voglio però dire che questi sono casi veramente

lontani dalla quotidianità: è logica comune infat-ti che uno qualsiasi di noi piloti darebbe la vita per portare a casa i propri passeggeri. Essere pi-

loti significa mantenere un certo stile di vita, sia perché rappresenti l’in-tera compagnia aerea, sia perché rappresenti una precisa categoria.

Oltre a ciò devi cerca-re di essere sempre al

100%, nonostante lo stress del mestiere. È una scelta di vita che richiede tanto, ma che ricom-pensa in termini di soddisfazioni anche persona-li, oltre che professionali, attraverso un mestiere che non cambierei con nient’altro al mondo».

<<Uno qualsiasi di noi piloti darebbe la vita per portare a casa i propri passeggeri>>

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SCOMPARSI NEL NULLA: UN AIUTO ALLE FAMIGLIEIntervista a Giorgia Isidori presidente Associazione Penelope

Quando parliamo di persone scom-parse, le prime immagini che ci vengono alla mente sono, sicura-mente, quelle d’oltreoceano. Basti pensare a serie tv come “Senza

Traccia” o “Missing People Unit” per farci ap-passionare a storie di detective che, con le più moderne tecnologie, cercano chi è scomparso nel nulla. La realtà, però, spesso è profondamen-te diversa e sicuramente più drammatica poiché spesso senza un lieto fine che si risolve nei 120 minuti di un film.Secondo la relazione 2014 del Commissionario Straordinario del Governo per le persone scom-parse, sono 29.763 le persone scomparse ancora

da rintracciare alla data del 30 giugno 2014, 558 in più rispetto al 31 dicembre dello scorso anno. Un dato sicuramente preoccupante è quello dei minori attestato su oltre 15.000 unità; sono, so-prattutto, minori stranieri non accompagnati che si allontanano repentinamente dai centri di ac-coglienza dopo essere sbarcati sulle nostre coste meridionali. “La società italiana attuale – si legge nella Relazione 2014 - è caratterizzata da un si-stema Paese che fatica a trovare soluzioni a pro-blemi ormai divenuti insormontabili: perdita del lavoro, impossibilità di pagare l’affitto o la rata del mutuo, debiti accumulati, stipendi non percepiti, tasse, bollette da pagare. L’Istituto Nazionale di Statistica rileva, infatti, che il reddito delle fami-

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glie italiane in valori correnti diminuisce in tutte le regioni italiane. Questa situazione è rinvenibile nella maggior parte delle denunce di scomparsa, quale viene riferita come motivazione agli organi di polizia. Molti degli scomparsi non rintracciati in prima battuta vengono ritrovati cadavere suc-cessivamente e dalle verifiche autoptiche disposte dai Pubblici Ministeri viene accertata la morte per suicidio. Tanti invece non vengono ritrovati perché le ultime tracce dello scomparso sono in-dividuabili nei pressi di fiumi, laghi o del mare. Vi sono stati casi di persone scomparse, i cui cor-pi sono stati “restituiti” dal mare anche dopo sette mesi”. Altro dato allarmante quello riferito alle donne: solo nell’anno 2012 sono scomparse due donne al giorno, in media, dal 1974, più di 200all’anno.Per conoscere più da vicino questo triste feno-meno, abbiamo intervistato Giorgia Isidori, pre-sidente dell’Associazione Penelope Marche che si occupa proprio di supportare le famiglie che hanno vissuto l’esperienza della scomparsa di un proprio congiunto.

Siamo nel 2015. Viviamo in una specie di

“Grande Fratello” quotidiano dove le nuove tecnologie riescono a spiarci e raggiungerci quasi ovunque. E allora mi chiedo: come è pos-sibile che vi siano ancora persone che scompa-iono nel nulla?Quando parliamo del triste fenomeno delle per-sone scomparse parliamo di minori, adulti e an-ziani. Le motivazioni per cui queste categorie di persone scompaiono sono diverse. Se parliamo di minori la motivazione con maggior numero di scomparsi è quella per allontanamento dagli isti-tuti e comunità di affido. Se parliamo di persone maggiorenni notiamo che la casistica di scom-parsa è quella degli allontanamenti volontari. Sempre fra i maggiorenni, ma nello specifico gli ultra sessantacinquenni, notiamo che a scompa-rire sono i malati di Alzheimer o persone affette da malattie neurologiche.

A volte si parla di allontanamenti volontari. E’ davvero così o meglio l’allontanamento volon-tario può essere la “spia” di problematiche gravi e più profonde?Anche dietro alla scomparsa volontaria c’è un motivo. Pensiamo ad esempio alla depressione

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dovuta alla perdita del lavoro e alla difficoltà a mantenere la famiglia.

Come opera l’Associazione Penelope Marche sul nostro territorio?La nostra associazione è affianco alle famiglie delle persone scomparse cui non si hanno più notizie. Il nostro primo approccio quando scom-pare una persona è proprio con i familiari. Il più delle volte ci rechiamo direttamente a casa dei familiari per offrire loro, non solo tutta la nostra

solidarietà e vicinanza nel periodo di assenza del loro caro, che può essere di giorni, di mesi e purtroppo anche di anni, ma principalmente per ascoltarli, supportarli, non abbandonarli e capi-re se nel caso in questione c’è bisogno di offrire loro un’assistenza legale, gratuita. L’Associazio-ne Penelope, inoltre, si costituisce parte civile nei processi penali. Teniamo contatti sul territorio con le Prefetture e con l’Ufficio del Commis-sario Straordinario del Governo per le persone scomparse. Abbiamo organizzato convegni, ab-biamo promosso sul territorio insieme alle fami-glie iniziative al fine di commemorare il ricordo dei loro cari scomparsi e non ritrovati, abbiamo supportato una famiglia mettendola in contatto con la squadra del SASM (Soccorso Alpino e Speleologico Marche) per continuare l’attività di ricerca di una persona scomparsa in zona mon-tana, in quanto le ricerche istituzionali da parte

delle Forze dell’Ordine si erano interrotte dopo soli tre giorni. Siamo attivi anche su facebook e abbiamo un sito Internet (www.penelopemarche.org) dove diffondiamo la notizia della persona scomparsa.

Dalla relazione 2014 del Commissario straor-dinario del Governo per le persone scomparse leggo che nell’ampia casistica di persone scom-parse a disposizione dell’Ufficio, il disagio mentale trova, purtroppo, ampio spazio. E’ così anche nella nostra regione?Nella nostra regione nel periodo di riferimento che va dal 1 gennaio 1974 al 30 giugno 2014 il maggior numero di persone scomparse cui non è conosciuta la motivazione è di 1.270. A seguire la motivazione dovuta ad allontanamento da istitu-to o comunità: 584. Per quanto riguarda l’allon-tanamento volontario sono 572 le persone ancora da rintracciare. 128 sono persone il cui allonta-namento è dovuto a possibili disturbi psicologici. 16 dovute a sottrazione da coniuge e 7 possibili vittime di reato.

“Chi dimentica cancella, noi non dimentichia-mo”. Una frase molto significativa che campeg-gia al centro della home page del sito dell’As-sociazione Penelope nata per sostenere chi vive il dramma della scomparsa sulla propria pelle. Alla luce di questo mi chiedo: è possibile conti-nuare a sperare di ritrovare una persona anche dopo 20-30 anni da cui non si hanno più noti-zie?Una famiglia finché non ritrova il proprio caro e non ha un corpo su cui piangere spera sem-pre. E’ la speranza che alimenta il coraggio nella vita del familiare che rimane in attesa di notizie e di indizi utili nell’andare avanti nella vita. E’ pur vero che anche il caso permette a volte di trovare i miseri resti delle persone, pensiamo alla povera Yara Gambirasio.

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Ci sono programmi televisivi, mi riferisco ad esempio alla nota trasmissione Chi l’ha visto?, che offrono anche un importante servizio nella ricerca delle persone scomparse. A volte, senten-do alcune storie, si ha come l’impressione che le famiglie di coloro che scompaiono, nella ricerca del loro caro, brancolino nel buio. E’ possibile o è solo impressione? O meglio, è possibile che i parenti più stretti della persona scomparsa non sappiano, a volte, dove cercarlo?E’ importante fare un distinguo sulla persona che scompare perché diverse sono le circostanze di scomparsa. Prendiamo ad esempio gli anziani spariti da casa o dalle case di riposo in cui sono ospiti. Il più delle volte sono persone che sof-frono di Alzheimer e queste scomparse, a volte culminano con il ritrovamento del cadavere della persona che non è stata ben cercata e ritrovata in tempo. La persona in questione che ha una pro-gressiva perdita di memoria ed è in uno stato di confusione non riconoscendo persone o luoghi e quindi impossibilitato a ricordare il proprio nome

e indirizzo dell’abitazione potrebbe essere ovun-que. In questo caso anche per un familiare che cerca il proprio caro è difficile poter sapere dove possa trovarsi e indicare specificatamente un luo-go. Spesso però le persone malate di Alzheimer che si perdono entrano in aree appartate e natu-rali, come i boschi, rimanendovi fino alla morte.

All’interno del Rapporto 2014 sulle persone scomparse, si fa riferimento anche ai minori 2.072 in più ancora da rintracciare alla data del 30 giugno 2014 rispetto al 31 dicembre 2013. Come mai questo dato è in aumento?L’attenzione sui minori scomparsi è sempre alta considerata la vulnerabilità della fascia d’età. Il dato in questione attiene perlopiù ai minori scomparsi, spesso stranieri, entrati irregolarmen-te nel nostro paese che vengono affidati agli isti-tuti e comunità e che dichiarano false generalità alle Forze di Polizia risultando più volte presenti, con nomi diversi, nel sistema informativo delle Forze dell’Ordine.

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INAUGURATO L’ANNO GIUDIZIARIO 2015 DEL TRIBUNALE ECCLESIASTICO REGIONALE PICENOCe ne parla don Paolo Scoponi nuovo vicario giudiziale

Il 18 marzo scorso è stato inaugurato l’an-no giudiziario 2015 al Tribunale Ecclesia-stico Regionale Piceno. Una giornata che ha visto la presenza di Mons. Luigi Conti moderatore del Tribunale, di Mons. Euge-

nio Zanetti Giudice del Tribunale Ecclesiastico Regionale Lombardo, Vicario Giudiziale della Diocesi di Bergamo, Responsabile del gruppo “La Casa” per l’accompagnamento spirituale e la consulenza canonica per persone separate, divor-ziate o risposate della Diocesi di Bergamo e di don Paolo Scoponi, vicario giudiziale del Tribu-nale Ecclesiastico Regionale Piceno. E proprio a don Paolo abbiamo chiesto di illustrarci, nel det-taglio, l’attività del Tribunale soffermandoci in particolare su alcuni aspetti della dichiarazione di nullità del matrimonio.

Qual è la differenza tra il divorzio civile o an-nullamento e la dichiarazione di nullità cano-nica?Il divorzio riconosce la validità del precedente matrimonio e ne stabilisce la fine; la dichiarazio-ne di nullità, invece, sancisce che, a livello giuri-dico, il matrimonio precedente non c’è mai stato, non viene annullato bensì viene dichiarato nullo sin dall’inizio. Per comprendere meglio la natura della pronuncia di nullità canonica, occorre con-siderare la realtà del matrimonio. Nel Codice di Diritto Canonico del 1983, nei cann. 1055-1057, il matrimonio è inteso come un patto coniuga-

le con cui un uomo e una donna stabiliscono tra loro la comunità di tutta la vita, per sua natura ordinato al bene dei coniugi e alla procreazione ed educazione della prole. Le sue proprietà es-senziali sono l’unità e l’indissolubilità. Tra due battezzati, poi, il patto coniugale è sacramento. Questa realtà matrimoniale sorge dal consenso delle parti, legittimamente manifestato, tra un uomo e una donna, giuridicamente abili. Il con-

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INAUGURATO L’ANNO GIUDIZIARIO 2015 DEL TRIBUNALE ECCLESIASTICO REGIONALE PICENOCe ne parla don Paolo Scoponi nuovo vicario giudiziale

senso è l’atto di volontà con cui l’uomo e la don-na, con patto irrevocabile, danno e accettano reci-procamente se stessi per costituire il matrimonio. Dal patto coniugale sorge una realtà indissolubile e, se il matrimonio è rato (valido) e consumato (completato dall’atto coniugale), non può esse-re sciolto da nessuna autorità. Esprime in modo chiaro questa realtà il Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 1640): «Il vincolo matrimoniale è

dunque stabilito da Dio stesso, così che il matri-monio concluso e consumato tra battezzati non può mai essere sciolto. Questo vincolo, che risulta dall’atto umano libero degli sposi e dalla consu-mazione del matrimonio, è una realtà ormai ir-revocabile e dà origine ad un’alleanza garantita dalla fedeltà di Dio. Non è in potere della Chiesa pronunciarsi contro questa disposizione della sa-pienza divina». Qualora, tuttavia, si presenti una situazione matrimoniale fallita, e «sorgano legit-timamente dei dubbi sulla validità del matrimo-nio sacramentale contratto, si deve intraprendere quanto è necessario per verificarne la fondatez-za» (Benedetto XVI, esortazione apostolica Sa-cramentum caritatis, n. 29). Il matrimonio, può “nascere” ed operare, infatti, in presenza di una serie di elementi e proprietà che sono struttu-rali, insiti nello stesso. Pertanto, quando uno di essi manca, il matrimonio non “nasce”. Quando un Tribunale Ecclesiastico emette una sentenza sulla nullità di un matrimonio, “dichiara”, quindi, che dalla celebrazione del matrimonio non è mai sorto un vincolo valido. Per tale motivo, non esi-ste un “annullamento di matrimonio” — sebbene questo termine sia diffuso — essendo piuttosto presente una “dichiarazione di nullità”, cioè un “riconoscimento di nullità”. Infatti, secondo la dottrina cattolica, il matrimonio è uno e indis-solubile, pertanto, non possono sussistere motivi di annullamento del matrimonio stesso, eccetto il caso di matrimonio non sacramentale o “non

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consumato”, a determinate condizioni. Se invece viene verificata, a seguito di un processo, la sus-sistenza di una causa di nullità, tale da viziare la validità del matrimonio contratto, il Tribunale ri-conosce la nullità del vincolo.

Quali sono i motivi che rendono nullo un ma-trimonio?I motivi di nullità del matri-monio riguardano la mancan-za della forma canonica, la presenza di impedimenti diri-menti non dispensati, un vizio o difetto del consenso.La presenza di un impedimen-to, al momento del consenso, in uno dei due contraenti ren-de nullo il matrimonio (cf. can. 1073), salvo dispensa dall’im-pedimento, quando questa è possibile. Gli impedimenti possono riguardare la capacità personale al matrimonio, avere origine da un comportamento delittuoso, sorgere da un vincolo familiare.• Impedimenti che riguardano la capacità per-

sonale: età (cf. can. 1083), impotenza assolu-ta e perpetua (cf. can. 1084), vincolo ancora sussistente (cf. can. 1085), ordine sacro (cf. can. 1087), voto pubblico perpetuo di castità emesso in un istituto religioso (cf. can. 1088), disparità di culto (cf. can. 1086).

• Impedimenti che sorgono da comportamento delittuoso: ratto (cf. can. 1089) e crimine (cf. can. 1090).

• Impedimenti da vincolo familiare, che sorgo-no a seguito di: legame di consanguineità (cf. can. 1091), legame di affinità in linea retta (cf. can. 1092), legame di parentela legale (cf. can. 1094).

La forma canonica deve essere osservata, se al-meno una delle parti contraenti il matrimonio è

battezzata nella Chiesa cattolica o in essa accolta (can. 1117), salva la dispensa dell’Ordinario del luogo per gravi cause (cf. can. 1127; Decreto ge-nerale sul matrimonio canonico, n. 50). La forma canonica consiste nello scambio del consenso alla presenza dell’Ordinario del luogo o del parroco oppure del sacerdote o diacono delegati da uno di essi, i quali chiedono la manifestazione del con-

senso dei contra-enti e la ricevono in nome della Chiesa, alla pre-senza di due te-stimoni (cf. can. 1108).Vista l’importan-za del consenso mat r imonia l e , come elemento fondamentale e insostituibile per la costituzione del matrimonio,

<<I motivi di nullità del matrimonio riguardano la mancanza della forma canonica, la presenza di impedimenti dirimenti non dispensati, un vizio o difetto del consenso.>>

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i suoi vizi sono sempre stati molto considerati, potendo essi impedire un valido consenso. Nella maggior parte dei casi, poi, i capi di nullità del matrimonio riguardano possibili difetti e vizi del consenso (cf. cann. 1095-1099, 1101-1103). Essi possono sorgere da un’incapacità psichica (cf. can. 1095), da un difetto volontario, quale la simula-zione del consenso (cf. can. 1101 § 2) o da un vizio della libertà del consenso medesimo, quali la violenza fisica o il timore grave (cf. can. 1103), l’errore sulla persona (cf. can. 1097 §1), l’errore di fatto circa una qualità personale dell’altro con-traente (cf. can. 1097 § 2), l’errore doloso (cf. can. 1098), l’apposizione di condizioni al consenso (can. 1102). Per potersi avere nullità del matri-monio, essi devono essere presenti al momento dello scambio del consenso.

Quando nascono i Tribunali Ecclesiastici Re-gionali in Italia?Papa Pio XI, con il motu proprio Qua cura dell’8 dicembre 1938, istituisce diciotto Tribunali Ec-clesiastici Regionali italiani. Tra questi, vi è il Tri-

bunale Ecclesiastico Regionale Piceno, con sede a Fermo, avente competenza esclusiva per le cau-se di nullità matrimoniali, sull’intero territorio delle tredici diocesi marchigiane. Non tutti sono a conoscenza dell’esistenza dei Tribunali Eccle-siastici Regionali né che, ad esempio, chiunque può rivolgersi ad essi affinché sia accertata l’even-tuale invalidità del proprio vincolo matrimoniale. Il Tribunale Apostolico della Rota Romana è, es-senzialmente, un Tribunale di appello e giudica: a) in secondo grado, le cause definite dai Tribu-nali ordinari di primo grado e deferite alla Santa Sede per legittimo appello; b) in terzo ed ulte-riore grado, le cause trattate già in appello dal-la stessa Rota o da altro Tribunale ecclesiastico d’appello. Giudica, però, anche in prima istanza le cause espressamente ad essa riservate, quelle che vengono ad essa affidate da parte del Som-mo Pontefice o avocate dal Decano della Rota Romana. Il nome Rota deriva probabilmente dal recinto circolare in cui si adunavano o sedevano gli Uditori per giudicare le cause.

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I DATI PIU’ SIGNIFICATIVIsull’attività svolta nel 2014 dal Tribunale Ecclesiastico Regionale Picenoper le cause di nullità matrimoniale.

I dati delle cause presentateNel 2014 sono state presentate, presso il Tri-bunale Ecclesiastico Regionale Piceno, 94 cause, la maggior parte delle quali provengono da 5 delle 13 diocesi della Regione Ecclesia-stica Marche: Fermo (30), San Benedetto del Tronto-Ripatransone-Montalto (11), Ancona-Osimo (9), Fano (9), Macerata-Tolentino-Re-canati-Cingoli-Treia (8).La parte attrice, cioè il coniuge che introduce la causa di nullità matrimoniale, risulta essere donna, nel 63% dei casi.La donna, come parte attrice e come parte convenuta, ha un’età media di 41 anni, e svol-ge, maggiormente, le professioni di impiegata, operaia, artigiana, casalinga e insegnante, libera professionista.L’uomo, come parte attrice e come parte con-venuta, ha un’età media di 45 anni, e svolge, principalmente, la professione di impiegato e operaio, libero professionista, e disoccupato, meno frequentemente, quella di imprenditore

o commerciante.Risulta un numero doppio di disoccupati tra gli uomini rispetto alle donne.Dai dati statistici rilevati, emerge, inoltre, che, nelle 94 cause presentate, la maggior parte delle coppie (45) non ha avuto figli, 27 coppie hanno avuto un solo figlio, mentre ben poche sono più prolifiche.La durata media dei matrimoni esaminati è di quasi 8 anni: se da un lato ci sono molti ma-trimoni che finiscono entro i primi 7 anni, 14 hanno avuto una durata di oltre 15 anni.Tra i motivi addotti a fondamento della do-manda di nullità, i più ricorrenti sono: il grave difetto di discrezione di giudizio circa i dirit-ti e i doveri matrimoniali essenziali da dare e accettare reciprocamente, l’incapacità di assu-mere gli obblighi essenziali del matrimonio per cause di natura psichica, l’esclusione del bene della prole e l’esclusione dell’indissolubilità del vincolo.

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I dati delle cause deciseSono state decise 94 cause, delle quali 79, af-fermativamente (cioè a favore della nullità del matrimonio) e 10 negativamente; per le altre 4 è stato richiesto un ulteriore approfondimen-to. I capi di nullità maggiormente decisi sono quelli che riguardano l’incapacità consensuale (per grave difetto di discrezione di giudizio e per l’incapacità di assumere gli obblighi es-senziali matrimoniali); seguono l’esclusione dell’indissolubilità e l’esclusione del bene del-la prole; sono pochissimi i capi dell’esclusione della fedeltà, della sacramentalità, del bene dei coniugi, per timore grave incusso e per errore sulle qualità.Nello specchietto del lavoro svolto nell’anno 2014, si osservano i numeri relativi alle cause nelle diverse fasi processuali, distinte per anno di presentazione della pratica.La situazione attuale vede 244 cause pendenti, cioè, attualmente, in trattazione. Esse risulta-no dalle 258 pendenti all’inizio dell’anno 2014, con l’aggiunta delle 94 presentate durante l’in-tero anno, tolte le sentenziate (106) e le archi-viate (2).

Rispetto all’anno 2013, i dati relativi alle cau-se trattate dal Tribunale è rimasto, sostanzial-

mente, costante. C’è stata una diminuzione delle cause presentate; si è leggermente ristret-ta la fascia d’età di coloro che accedono al Tri-bunale; é aumentata, anche se non di molto, la “tenuta media” del matrimonio. Si è abbassato, il numero delle cause decise e di poco quello relativo alle cause sentenziate. Costanti riman-gono i capi di nullità maggiormente trattati circa l’incapacità consensuale e la simulazione parziale per esclusione dell’indissolubilità e del bene della prole. Si continua a registrare, per effetto della crisi economica, la difficoltà, per le parti che intro-ducono le cause matrimoniali, di sostenere le spese processuali. Numerose, perciò, sono le ri-chieste di una loro rateizzazione e di assegna-zione dei patroni stabili. Le cause presentate da questi ultimi, pertanto, continuano a superare la metà del totale.Infine, raffrontando le cause canoniche di nul-lità matrimoniale con i procedimenti di sepa-razione civile, iscritti presso la Corte d’Appello di Ancona e relativi a “Famiglia e Separazioni”, in numero pari a 2.341, si può concludere che il Tribunale Ecclesiastico Regionale Piceno intercetta, nella regione Marche, meno del 5% dei matrimoni non riusciti.

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SINTESI DEL VADEMECUM PER IL PROCEDIMENTO DI NULLITÀ MATRIMONIALE

Falsi luoghi comuni. Non è vero che: “un matrimonio non può essere dichiarato nullo perché sono già nati dei figli”; “il mio matri-monio è da annullare perché lui (o lei) mi ha tradito con un altro/a; “bisogna annullare il matrimonio quando uno o entrambi i coniu-gi non avevano voglia di sposarsi in chiesa”. Se una persona, animata essenzialmente da moti-vi di coscienza, desidera sollevare la questione dell’invalidità del proprio vincolo matrimonia-le, è auspicabile che ricerchi una consulenza specifica, rendendosi disponibile a riguardare dentro alla propria storia e alla propria espe-rienza coniugale, per un serio esame del con-senso nuziale prestato da lui e dal coniuge. Consulenza canonica. Il Tribunale ecclesia-stico garantisce una consulenza canonica pre-via e gratuita circa la propria situazione ma-trimoniale, mirata ad individuare le eventuali motivazioni che possano essere determinanti per l’avvio di un processo di nullità matrimo-

niale.Processo matrimoniale: l’indagine svolta per l’accertamento dell’eventuale invalidità di un matrimonio, attraverso la raccolta e l’analisi di prove circa la sussistenza o meno del capo o dei capi di nullità invocati.Patrono: l’Avvocato che assiste la parte nel processo. Si distinguono due figure: il Patrono stabile del Tribunale ed il Patrono di fiducia, quale libero professionista. In alternativa, i fe-deli possono rivolgersi ad un patrono di fiducia — scelto tra gli avvocati rotali e gli avvocati iscritti nell’apposito Albo del Tribunale — e chiederne l’assistenza, dietro corresponsione di un onorario, per il quale la Conferenza Epi-scopale Italiana, stabilisce gli importi minimi e massimi. Libello: documento con cui si chiede al giu-dice — da parte di uno o di entrambi i coniu-gi, qualora intendessero avanzare insieme la

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DALL’ITALIA

SINTESI DEL VADEMECUM PER IL PROCEDIMENTO DI NULLITÀ MATRIMONIALErichiesta di nullità — di prendere in esame la causa; esso tra l’altro deve contenere, anche se non necessariamente con parole tecnicamente precise, la ragione della domanda e cioè il capo o i capi di nullità per i quali il matrimonio è ritenuto invalido, indicando, almeno somma-riamente, su quali atti e su quali mezzi di prova l’attore si basa per dimostrare ciò che si asseri-sce.Fase istruttoria. È la fase della raccolta delle prove — costituite dalle risposte che le parti e i testimoni, sotto giuramento, danno al Giudice che li interroga — dai documenti acquisiti e da eventuali perizie. Testimoni sono coloro che conoscono bene ciò che riguarda il consenso difettoso emesso da uno o entrambi i coniugi. Possono essere parenti, amici, conoscenti, me-dici curanti, ecc..Fase decisoria. Riguarda la fase della riu-nione del collegio dei tre giudici, i quali pos-sono dichiarare la nullità del matrimonio solo se hanno raggiunto, almeno a maggioranza, la certezza morale della stessa, ossia quando resti del tutto escluso qualsiasi dubbio prudente po-sitivo di errore, tanto in diritto quanto in fatto, ancorché non sia esclusa la mera possibilità del contrario.Sentenza: l’atto del Collegio che conclude il processo, con la dichiarazione, motivata in diritto e in fatto, che consta o che non consta della nullità del matrimonio esaminato. Perché la sentenza di nullità possa permettere l’acces-so ad un nuovo matrimonio canonico occorre, ordinariamente, che venga confermata da un altro Tribunale, in un successivo grado di giu-dizio, e che non venga apposto — o, se inserito, che sia previamente rimosso dall’autorità ec-

clesiastica — un divieto di nuove nozze.Necessità della doppia sentenza confor-me. La prima sentenza a favore della nullità del matrimonio dovrà ottenere conferma da parte del Tribunale di secondo grado, al quale quindi la sentenza e gli atti di causa vengono trasmessi d’ufficio. Esso, per il nostro Tribunale Piceno, è il Tribunale Etrusco, con sede a Firenze, o il Tribunale Apostolico della Rota Romana, che è Tribunale d’appello ordinario per tutti i fedeli che da qualsiasi parte del mondo scegliessero di affidarne la trattazione della loro causa in secondo grado. La conferma della sentenza da parte del Tribunale d’appello può aver luogo al termine di un particolare procedimento ab-breviato; diversamente, la causa viene rinviata all’esame ordinario, durante il quale, solitamen-te, vengono acquisite nuove prove e al termine del quale il collegio giudicante emette la sen-tenza. Se il Tribunale di primo grado ha, inve-ce, emesso una sentenza negativa — nella qua-le, cioè, si dichiari che non consta della nullità del matrimonio — solo su iniziativa della parte che si sentisse gravata potrebbe esser interpo-sto appello al Tribunale di secondo grado. In un eventuale terzo grado di giudizio — qualora ci siano state due sentenze difformi, una pro nul-litate, cioè affermativa, e l’altra pro vinculo, cioè negativa — le cause giungono, ordinariamente, al Tribunale Apostolico della Rota Romana. Costi per le parti: i vescovi italiani hanno stabilito una normativa che permetta di venire incontro ai fedeli, che si rivolgono ai Tribunali Ecclesiastici Regionali per la dichiarazione di nullità del loro matrimonio, rendendo il meno oneroso possibile, sotto il profilo delle spese, l’accesso ai Tribunali medesimi.

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Un “tesoro prezioso”, “un luogo im-portante di aggregazione per i più piccoli”. Questo emerge dalla ricerca “L’oratorio oggi” condotta da Ipsos per conto degli Oratori

delle diocesi lombarde. Il 65% dei genitori inter-vistati considera l’oratorio un punto di riferimen-to per ragazzi e bambini. Ne riconoscono quindi il grande valore educativo. Anche nella diocesi di Fano-Fossombrone-Cagli-Pergola quella degli oratori è una realtà presente ed un valido aiuto nella formazione umana e cristiana dei nostri

giovani. Per conoscere più da vicino il mondo de-gli oratori, abbiamo intervistato don Steven Car-boni, direttore dell’Ufficio diocesano di Pastorale Giovanile e responsabile del diocesano Progetto Oratori.

L’oratorio proviene dalla tradizione. Che cosa è cambiato dal passato al presente e che cosa in-vece è rimasto intatto?Le nostre realtà marchigiane non hanno una tra-dizione forte e radicata dell’oratorio come la può raccontare l’Italia del nord, in particolare le par-

L’ORATORIO, TESORO PREZIOSO PER I NOSTRI GIOVANINe parliamo con don Steven Carboni responsabile diocesano del Progetto Oratori

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L’ORATORIO, TESORO PREZIOSO PER I NOSTRI GIOVANINe parliamo con don Steven Carboni responsabile diocesano del Progetto Oratori

rocchie della Lombardia. Rimane il fatto che il grande valore educativo dell’oratorio è ben rico-nosciuto anche nella nostra diocesi, e rimane in-tatto il senso di aggregazione, lo spazio al prota-gonismo del ragazzo e il desiderio di continuare a dare valore alla formazione umana e cristiana dei nostri giovani. Queste caratteristiche sono state ereditate e rimangono punti fermi. Oggi però l’oratorio deve “competere” con tanti altri spazi di aggregazione, ambiti sportivi e altri luoghi di tempo libero per i ragazzi, e per questo, a mag-gior ragione, non deve venir meno il suo specifico ed unico ruolo educativo e formativo.

Facendo riferimento, in particolare, alla no-stra diocesi quanti sono in linea di massima gli oratori presenti sul nostro territorio e quali gli obiettivi?Se parliamo di numeri, possiamo dire che la no-stra diocesi ha circa una ventina di realtà orato-riali, nati o rinati soprattutto grazie al Progetto Diocesano Oratori attivato in seguito alla Leg-ge Regionale 31/08 che ha riconosciuto il valore prettamente educativo degli oratori. Parlare di obiettivi vuol dire invece andare a co-noscere da vicino ogni singola realtà parrocchiale, individuando le figure educative che sono pronte a mettersi in gioco e le fasce d’età che si vogliono coinvolgere. Ogni singola parrocchia, sceglien-do di “fare” oratorio, o di aprire un oratorio, si domanda: “a chi ci rivolgiamo? Qual è il nostro campo di azione? “ Ecco allora che dietro la pa-rola “oratorio” non riconosciamo uno standard, perché là dove si punta all’aggregazione dei gio-vanissimi delle scuole superiori per i pomeriggi e le serate infrasettimanali, dall’altra parte si or-ganizza il doposcuola per i bambini della scuola primaria, e in un’altra ancora si guarda alle attivi-tà ludiche o teatrali per i preadolescenti. Obiettivo comune degli oratori parrocchiali ri-mane comunque esprimere nei fatti l’attenzione educativa nei confronti dei ragazzi e dei giovani che è e deve essere di tutta la comunità cristiana.

La realtà degli oratori può, in qualche modo, arginare il disagio sociale che sembra dilagare fra i giovani di oggi?Il disagio sociale dei giovani deve essere moti-vo di riflessione non solo delle nostre comunità cristiane e degli oratori, ma di tutta la comunità educante, in tutte le sue agenzie. Credo che l’ora-

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torio non deve preoccuparsi di arginare fenomeni di disagio ma essere segno concreto di speranza, punto luce che possa attrarre e parlare il linguag-gio dell’attenzione a tutti, spazio di libertà che non pretende di insegnare ma desidera accompa-gnare e farsi prossimo.

Quali sono le attività sui quali sarà impegnata l’equipe oratori per tutto il 2015?Anche quest’anno l’equipe oratori ha incontrato gli educatori e i direttori degli oratori nel consi-glio diocesano per presentare la formazione dio-cesana degli operatori e lanciare il lavoro di insie-me verso la formulazione del Sussidio 2015, da utilizzare primariamente nelle attività estive ma anche per chi riprende il cammino da settembre. Creare una mentalità diocesana non è stato facile e ancora stiamo solo crescendo. È forse l’obiettivo principale dell’equipe diocesana: aiutare ogni par-rocchia che sceglie di fare oratorio di non cam-minare da sola, ma nel rispetto della sua identità

e unicità, sentirsi parte della comunità diocesana. Ecco allora che il mettere insieme educatori di diverse parrocchie a preparare insieme i testi del sussidio a partire da un tema comune, richiede le sforzo di ascoltarsi, scambiarsi idee e iniziative, confrontarsi sulle diverse capacità educative, pro-ponendo insieme idee di fondo e obiettivi, atti-vità e giochi, domande di vita per i ragazzi e per gli educatori che poi lavoreranno all’attuazione pratica del sussidio è decisamente affascinante e costruttivo…anche se faticoso!Quest’anno il tema è tutto incentrato sulla FA-MIGLIA, in sintonia con gli orientamenti pasto-rali della nostra diocesi. A partire da alcune parole chiave, sulla sfondo di figure bibliche dell’Antico Testamento e dei Vangeli dell’Infanzia, abbiamo sviluppato 5 grandi temi che andranno a com-porre il testo del sussidio.

Che cosa significa, in particolare per le nuove generazioni, frequentare l’oratorio?

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“Frequentare l’oratorio”…è un’espressione che non esprime ancora un vero senso di appartenen-za! Ma forse è proprio così, perché l’oratorio è uno spazio di libertà, dove l’appartenenza cresce col tempo, ma prima di tutto in oratorio ci si deve sentire subito accolti, mai etichettati né omolo-gati. Un ragazzo dovrebbe sempre pensare dentro di sé: “frequento l’oratorio perché so che comun-que c’è sempre qualcuno che si può dedicare a me…perché trovo amici e non solo che mi fanno fare cose belle e sensate!”

Gli oratori sono stati definiti “palestre d’in-tegrazione” in quanto riflettono sempre più il carattere multiculturale della nostra società. E’ così anche nel nostro territorio?Da questo punto di vista, credo che l’oratorio abbia una carta vincente: anche se parrocchiale, non significa necessariamente “confessionale”…mi spiego. Si tratta infatti di quello spazio tra l’incontro e la proposta di fede, tra il farsi prossi-

mi all’altro così com’è e l’accompagnamento alla scoperta di Gesù, vero e grande educatore; è uno spazio privilegiato in cui prima ancora della pre-ghiera c’è un dialogo sincero con l’altro a cui pro-porre poi di poter pregare insieme; è un’oppor-tunità di vera integrazione, perché il linguaggio del gioco, dell’animazione, del mettere insieme i propri talenti è così trasversale nella vita delle persone (e in particolare dei ragazzi) che l’ora-torio non può lasciarsi sfuggire preoccupandosi solo di trovare le persone che aprono e chiudono quegli ambienti secondo un’orario stabilito (cer-to, ci vuole anche quello, e fatto bene!). Nel nostro territorio diocesano ci sono begli esempi di “palestre di integrazione”, soprattutto nell’esperienza di Cartoceto e Saltara in cui la co-munità cristiana si è messa in rete con le proposte della Caritas Diocesana e della Sala della Pace per proporre percorsi di educazione alla mondia-lità insieme con i ragazzi e le loro famiglie.

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VEGLIA VOCAZIONALE DIOCESANALe riflessioni dalla nostra diocesi

“Alla radice di ogni vocazione cristiana c’è questo movimen-to fondamentale dell’espe-rienza di fede: credere vuol dire lasciare sé stessi, uscire

dalla comodità e rigidità del proprio io per cen-trare la nostra vita in Gesù Cristo; abbandona-

re come Abramo la propria terra mettendosi in cammino con fiducia, sapendo che Dio indicherà la strada verso la nuova terra”. Queste le parole del Messaggio di Papa Francesco in occasione della Giornata Mondiale per le Vocazioni cele-brata lo scorso 26 aprile. Papa Francesco ha sot-tolineato come “ascoltare e accogliere la chiamata

TESTIMONIARE LA BELLEZZA DELLA CHIAMATA

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del Signore non è una que-stione privata e intimista che possa confondersi con l’emozione del momento; è un impegno concreto, rea-le e totale che abbraccia la nostra esistenza e la pone al servizio della costruzione del Regno di Dio sulla ter-ra”. Anche la nostra diocesi ha voluto celebrare questo importante appuntamento con la Veglia Vocazionale Diocesana che si è tenuta giovedì 23 aprile al mona-stero delle Benedettine di Rosciano. “Durante il cammino verso il monaste-ro – sottolinea don Filippo Fradelloni direttore del Centro diocesano per le Vocazioni - abbiamo ascoltato una bella storia di chiamata e rispo-

sta, raccontando la vicenda di don Salvatore Mellone, sacerdote pugliese ordinato da pochi giorni nonostante sia un malato terminale. E’ stato per lui il coronamen-to di un sogno inseguito da sempre, una gioia immensa pur nella consapevolezza di una fine imminente. E poi il silenzio lungo la salita del monastero, alla luce delle fiaccole, ascoltando la bellez-za di Dio che parla al nostro cuore. Un silenzio profondo che ci ha, poi, introdotto alla

veglia vera e propria toccati dalla bellezza di Dio nell’ascolto della Parola e nell’Adorazione euca-ristica. Commentando il racconto evangelico dei discepoli di Emmaus, il Vescovo Armando ci ha

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invitato a contemplare il Crocifisso risorto per capire pienamente cosa significa essere discepoli.In occasione della Giornata Mondiale per le Vocazioni abbiamo intervista-to la Madre Generale delle Monache Adoratrici Perpetue del Santissimo Sacramento.

La chiamata alla vita contemplati-va sembra, oggi come oggi, un po’ anacronistica in una società dove il silenzio appare quasi, passatemi il termine, un peccato mortale, dove lo spazio per la riflessione viene riem-pito da parole spesso vuote, prive di significato. E allora le chiedo, come può definire la vocazione alla clausu-ra?

Vorrei iniziare questa intervista col citare una frase del Vangelo: “Vigilate poiché non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino” (Marco 13,35). È questo il cammino della vita contemplativa.Spesso si ritiene che intraprendere il cammino per la vita monastica comporti un’esperienza par-ticolare, una “chiamata” che si “sente” e così poi si parte e si entra. La realtà è molto più complessa. Normalmente non c’è un modello prestabilito: ciascuno entra con la sua storia seguendo i segni, i tempi e i percorsi, unici e irripetibili, che Dio mette misteriosamente nella vita di ciascun indi-viduo, unico e irripetibile. In qualunque modo si entri in contatto con il monastero e la vita monastica, vi sono delle tap-pe molto graduali. Si può anche iniziare con una esperienza come ospite nella foresteria, ma pri-ma di poter condividere la vita con la comunità si deve avere almeno un colloquio con la Madre Priora nonché con una guida spirituale. Un even-tuale “aspirante” condivide un periodo all’interno della comunità, ma solo per qualche settimana. Nel caso la persona interessata chiedesse di ini-ziare il cammino di formazione monastica, le si

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chiede normalmente dapprima un periodo di “esperienza lunga” che varia di caso in caso, ma di solito non è mai più lunga di 3 mesi. Se l’aspirante persevera, inizierà il “postulato”: un periodo di condivisione del ritmo della vita mo-nastica che ha come segno un posto nel “coro” delle monache durante la preghiera comune, ma che non comporta nessun altro segno esterno nell’abito, né richiede alcun impegno.Segue il noviziato, che ha inizio con la “vestizio-ne”. Dopo due anni, se è ammessa dalla comuni-tà, la novizia farà la cosiddetta “professione sem-plice” ovvero prenderà per tre anni l’impegno dei tre voti: obbedienza, povertà, castità. Le verranno dati in questa occasione come segno dell’impe-gno preso, il Nome nuovo, il velo bianco, lo sca-polare rosso e la cappa bianca.Continuando le fasi di aggregazione alla comu-nità, la professa compirà il suo cammino allorché vorrà rendere definitivo il suo impegno e questa volontà verrà accolta definitivamente e in modo

pieno dalla comunità. Farà solo allora la “profes-sione solenne”. Le verranno infatti consegnati i segni di questa appartenenza definitiva: l’anello, il velo nero, la cocolla (si chiama così l’abito che si mette solo in coro per la preghiera, caratteriz-zato da larghe e lunghe maniche) e il libro della preghiera comune della chiesa.

Si parla spesso di crisi delle vocazioni. Quali sono, secondo lei, le cause? Che cosa oggi non attrae della vita contemplativa?Non credo si possa generalizzare, parlare di cri-si vocazionale della vita contemplativa. Al con-trario, oggi la vita contemplativa è in crescita, in ripresa ma certo non lo si può dire di tutti gli Or-dini o tutte le Congregazioni. Tutto è nelle mani di Dio e sempre Lui provvede alla sua Chiesa, come lo Sposo non fa mai mancare il necessario per la sua sposa. Perciò Lui chiama a sé quelli che vuole, e li chiama quando e dove vuole, come con gli Apostoli. Il Papa emerito Benedetto XVI ha

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più volte sottolineato che la Chiesa non si basa su grandi numeri, non attira le folle, ma guarda al cuore dell’uomo. C’è un’ansia di ricerca di assolu-to che si sta diffondendo sempre più, Dio conti-nua a parlare al cuore degli uomini oggi come ieri e sono certa che provvederà sempre vocazioni alla vita consacrata.

Il Papa, nell’udienza riservata alle suore dell’U-nione internazionale delle superiore generali, ha sottolineato come, la Chiesa senza di voi, mancherebbe di maternità, affetto e tenerezza. Che valore si sente di dare a queste tre parole?Credo che il Santo Padre abbia voluto esprime-re come la Chiesa è un corpo solo, sottolinean-do che la maternità è un aspetto fondamentale nella Chiesa. Volendo riferirci alle monache però, vorrei qui riportare stralci del discorso che Papa Francesco fece alle clarisse di Assisi il 4 ottobre 2013. In questo discorso il Papa illustra an-cor meglio cosa significhi mater-nità per una con-sacrata contem-plativa: “Le suore di clausura sono chiamate ad avere grande umanità, un’umanità come quella della Ma-dre Chiesa; uma-ne, capire tutte le cose della vita, essere persone che sanno capire i problemi uma-ni, che sanno perdonare, che sanno chiedere al Signore per le persone … E qual è il segno di una suora così umana? La gioia! E per questo è tanto bello quando la gente va al parlatorio dei monasteri e chiedono preghiere e dicono i loro

problemi. Forse la suora non dice nulla di straor-dinario, ma una parola che le viene proprio dalla contemplazione di Gesù Cristo … E la Chiesa vi vuole così: Madri! Dare vita. Quando voi pregate, per esempio, per i sacerdoti, per i seminaristi, voi avete con loro un rapporto di maternità; con la preghiera li aiutate a diventare buoni Pastori del Popolo di Dio.” In queste poche parole il Santo Padre ha descritto esattamente il valore e l’im-portanza della maternità della consacrata nella Chiesa. La vita contemplativa è, spesso, soggetta a pregiudizi. Mi piacerebbe che, anche solo vir-tualmente, potesse aprirci le porte di un mona-stero di clausura per farci comprendere la vita racchiusa all’interno di quelle mura austere. Ci racconti questa vita.

Come modello di vita monasti-ca, posso parlare dell’esperienza di vita di preghiera delle Adoratrici, che grosso modo non differisce da quella degli altri Ordini monastici.Vorrei qui ripor-tare una celebre frase che descrive la vita in Mona-stero: “Ascolta, o figlia, obbedienza senza esitazione. Qui si affretta chi

vuol vedere i cieli aperti, né lo distoglie dal santo proposito l’asperità del percorso. Sempre le cose eccelse si ottengono con grande fatica. La vita beata passa sempre per uno stretto sentiero.”La Liturgia delle Ore ci raccoglie comunitaria-mente sette volte al giorno, insieme ai turni di

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adorazione perpetua al SS. Sacramento, giorno e notte solennemente esposto ed adorato, e ai tem-pi di preghiera personale. Nel corso della notte le monache restano nella chiesa per l’Adorazione. Nei giorni di solennità la Comunità si riunisce la notte per l’Ufficio di Mattutino. Alla fine della giornata, esse si ritro-vano di nuovo in chiesa per il canto delle lodi della sera (Vespri) che invitano al raccoglimento e al riposo spirituale. Ogni giorno, la Messa conventuale è cantata. Gli altri uffici sono sempre celebrati in Comunità. Al suono della campana tutte pregano nel medesi-mo istante, facendo del monastero un’unica lode alla gloria di Dio. La monaca tende a offrire a Dio un culto ininterrotto. Nella sua vita, preghie-ra liturgica e preghiera solitaria si completano armoniosamente. La meditazione assidua della Scrittura, i tempi forti di preghiera personale, lo studio e il lavoro, creano in esse una disponibilità di ascolto nell’amore. Guidata poco a poco, dalla grazia dello Spirito, nelle profondità del suo cuo-re può allora amare Dio e aderire a lui con tutto il suo essere.

Sulle orme e sull’esempio della S. Famiglia di Nazareth, giorno dopo giorno, ora dopo ora, cia-scuna sorella scopre attraverso l’obbedienza alla propria Priora e ad una Regola di vita evangeli-ca, come lasciarsi attirare lungo l’intero percorso della sua vita, nell’intimità delle persone divine, attraverso l’Adorazione, il silenzio, la solitudine, la vita insieme alle sorelle, donatele da Dio, la ce-lebrazione della Liturgia della Chiesa, come es-sere fedele alla gioiosa tradizione “del rinunziare a sé stessa” e al “dono totale e gioioso di sé stessa per amore folle di Dio”.Per tutte, oltre al lavoro per le necessità della casa, vi è la possibilità di un lavoro artistico secondo i doni naturali ricevuti, come ad esempio la scrit-tura di ceri pasquali e icone secondo la scuola russa, o ancora il ricamo di paramenti sacri.Per il sostentamento quotidiano della Comunità e del Monastero, ogni monaca lavora tra le quat-tro e le cinque ore al giorno nel luogo o nel labo-ratorio assegnatole.Il lavoro artigianale non è solo un mezzo per guadagnare il pane quotidiano per ogni Comu-nità, ma anche un servizio alla Chiesa. Infatti,

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Mi chiamo Giuseppe, sono nato a Tivoli (Roma) e qui sono cresciuto e ho frequentato le scuole, tranne l’università, fre-quentata a Roma. Nel 2000

mi trasferisco a Pesaro, città natale di mia madre, e dove sin da bambino desidero vivere, ignaro che qui sarebbe avvenuta la mia conversione, prima, e la chiamata al sacerdozio poi.La mia conversione inizia a maggio 2001, pres-

GIOVANI IN CAMMINO VERSO IL SACERDOZIO

è bene che il popolo di Dio riceva il messaggio della fede e della pre-ghiera da coloro che Dio chiama ad abbandonare ogni cosa per vivere nella Adorazione di Lui, giorno e notte, nel silenzio e nell’amore fra-terno.Concludo con una frase di uno pa-dri del monachesimo, che descrive con questa espressione l’attesa del cuore di ogni monaco: “O sole per-ché mi disturbi? Ti levi così presto solo per strapparmi ai chiarori della vera luce!” Cassiano, Conf. 9, 31

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so una comunità carismatica, accompagnato da amici. Quando arrivo in tale comunità, sono completamente a digiuno di tutto ciò che pos-sa significare il cristianesimo e un rapporto con Gesù. Non posso definirmi ateo, in quanto ho sempre avuto coscienza dell’esistenza di Dio e del male ma, come si dice oggi, non frequento. Sin dai primi incontri di preghiera cui parteci-po faccio esperienza dello Spirito Santo e da qui comincia la mia conversione. Il Signore mi fa correre velocemente: mi avvicino ai sacramenti, alla Parola, al catechismo, fino a celebrare la con-fermazione il 25 novembre 2001 per le mani di S.Em. Card. Angelo Bagnasco. La mia vita cam-bia radicalmente: faccio esperienza del Cristo ri-sorto e della sua resurrezione e, così, da persona morta spiritualmente risorgo, come Lazzaro: di-vento una persona nuova, rinnovata e il tutto per dono, per grazia. Quando, dopo un anno di cam-mino, mi soffermo a pensare e a guardare quanto è successo nel frattempo, mi meraviglio di quanti cambiamenti siano avvenuti nella mia vita e nella mia persona. Sono profondamente diverso, di-rei un’altra persona e, questo, senza alcun sfor-zo, senza alcuna fatica, semplicemente lasciando a Dio la possibilità di intervenire nella mia vita, lasciandogli la porta del cuore aperta. La sete di Dio mi porta a volerlo conoscere sempre più. Le letture si susseguo senza sosta, come la partecipa-zione alle catechesi, agli incontri di preghiera, la preghiera personale e la meditazione della Parola. Presto nascono i dubbi vocazionali: perché me e perché me per stare vicino a persone sofferenti (ne avevo molte e importanti vicino allora come oggi)? Sorge la necessità di fare discernimento, di capire quale sia il progetto di vita per me: cosa vuole Dio che io faccia? La gioia di testimoniarlo è tanta e ogni volta che ho la possibilità di farlo e di parlare di Lui, di essere un suo strumento la felicità mi invade, mi riempie. Inizia il discer-nimento con persone competenti e illuminate che, in tempi e modi diversi, mi accompagnano

saggiamente. Sarò riconoscente per tutta la vita al cardinal Angelo Bagnasco, padre Sergio Co-gnigni, don Marco De Franceschi, don Massi-mo Regini, come alla comunità di Santa Maria del Porto che mi ha accolto e presso la quale è avvenuta una parte importante della mia crescita umana e spirituale. Accettare la possibile chia-mata al sacerdozio inizialmente è dura, una vera lotta in quanto ho altri progetti, altri sogni. La combatto e persino la rifiuto, ma alla fine Dio mi prende per amore facendomi sperimentare la sua dolcezza e, così, mi fa innamorare di Lui. In questo modo le mie durezze, le mie reticenze si sciolgono come neve al sole. Così, ora, grazie alla fiducia di S.E. Piero Coccia, sono in seminario e prossimo all’ordinazione diaconale, desideroso di essere presbitero, di portare le anime a Dio e Dio alle anime, di portare la bellezza e la gioia della salvezza al mondo intero.

Giuseppe Leone (Pesaro)

Mi presento: mi chiamo Michele ho 22 anni, sono nato a Fossombrone ma da sempre sono vissuto a Fano. A 20 anni, dopo due anni di tirocinio lavorativo da geometra, ho deciso di entrare nel Propedeuti-co (“anno zero”) del Seminario Regionale di An-cona per continuare, in maniera più strutturata, il cammino di sequela e discernimento dietro al Signore, per comprendere meglio il grande dono che mi stava facendo già gustare da anni.Cosa mi ha portato a fare questo passo a 20 anni? Nella mia parrocchia di San Paolo Apostolo di Fano, con don Benito Verdini e don Steven Car-boni, sono cresciuto nel servizio come educato-re ACR con i bambini delle elementari, e qui il Signore stava già abbondantemente seminando. Poi qualche responsabilità nell’AC diocesana mi ha aperto alla chiesa locale e a tutta l’Azione Cattolica Italiana, con varie esperienze e incontri, dove assaporavo la Bellezza di una Chiesa voluta

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e amata da Dio e vicina alla gente e ai piccoli. Un’altra occasione di discernimento è stata l’e-sperienza missionaria in Mozambico nel settem-bre 2013. Un viaggio che mi ha fatto scoprire l’essenzialità, che mi ha fatto conoscere persone che nonostante il poco che hanno vivono con una fede grandissima, facendomi capire l’importanza del tempo e della sua ordinarietà. Mi ha dato le motivazioni per continuare a credere nella Chie-sa, facendomi conoscere missionari e missionarie che servono il Vangelo con tanto coraggio e umil-tà e comprendendo quanto bisogno c’è di conso-lare e accompagnare il fratello nelle periferie tan-to care a Papa Francesco. Quindi, dopo un po’ di accompagnamento spirituale (con un sacerdote compagno e fratello maggiore nella fede e nella vita), nella preghiera, nel servizio e nel rivedere

la mia storia con uno sguardo di autentica fede, ho sentito che Qualcuno mi chiedeva qualcosa in più, un dono totale della mia povera umanità, del mio tempo e del mio essere, secondo la logica del Vangelo al servizio degli altri. Il Signore ha biso-gno di noi, di ciascuno di noi per una missione particolare e personale nella Sua chiesa. Accet-tare la Sua volontà nella propria persona, abban-donando le proprie certezze e comodità, non è per niente facile ma è il più bell’atto d’amore che possiamo fare a noi stessi. Il lasciar spazio a Dio nella nostra vita è il più bel dono che ci facciamo per vivere nella felicità autentica. Ed è il sogno d’amore di Dio per la mia persona. Quindi ora sono al primo anno di Teologia, gra-to al Signore per tutto quello che sta compien-do nella mia vita, grato alla mia famiglia per la pazienza e l’amore che mi dona, e riconoscente al vescovo S. E. Armando Trasarti per l’affetto paterno con il quale mi sta affianco… continuo a seguire il mio Pastore e Maestro, perché come dice Sant’Agostino “Colui che ci ha fatti sa an-che che cosa vuole fare di ciascuno di noi”.

Michele Montanari (Fano)

Mi chiamo Francesco, ho 20 anni e sono un se-minarista al primo anno di Teologia.Quando penso alla storia della mia vocazione, ri-fletto sempre sul fatto che io non ho una storia straordinaria da raccontare, ma una storia nor-male che poi è diventata straordinaria con Dio.Io sono abruzzese e vengo da Martinsicuro, un paesino costiero a confine con le Marche; ho vis-suto una infanzia felice e mi reputo molto fortu-nato per la mia famiglia, anche se non perfetta, sempre piena di amore. Mi ha sempre caratteriz-zato il mio essere “sognatore”; infatti fin da bam-bino ho sempre cercato “a modo mio” di inseguire qualcosa di grande nella vita.Dico “a modo mio”, perché - almeno fino ai pri-

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DALLA DIOCESI

mi anni delle superiori - non sono stato un gran credente e praticante; il mio riavvicinamento alla Chiesa è avvenuto in occasione della Cresima (14 anni), quando con la nascita di un “gruppo dopo-cresima” ho cominciato a partecipare alla messa domenicale.L’Esperienza, che mi ha segnato per sempre (conducendomi in seminario qualche anno più tardi), è stata un incontro di preghiera, in cui po-ter rimanere semplicemente in silenzio davanti a Dio per dirgli ciò che si voleva; a questo incontro ho sperimentato per la prima volta l’essere ascol-tato veramente da Qualcuno, da Dio. È un Espe-rienza che non si può spiegare a parole, ma che sconvolge, in quanto nel silenzio di una preghiera si ritrova un Padre che ascolta, ama, e si fida di te. Fiducia: questa è la parola che qualche anno più tardi mi ha condotto in seminario.Comunque durante i primi anni delle superiori, nonostante fossi tornato in Chiesa, non vivevo sempre ciò che dicevo di credere; ho continuato ad “avere il piede in due staffe” fino a quando, nel lasciare in modo vigliacco la mia ragazza, ho sperimentato di non essere capace di amare per il mio egocentrismo. Questa presa di coscienza ha dato il via ad un cammino per cercare di “rendere

puro il mio amore per gli altri” (nel caso, anche per una futura ragazza).In questa mia decisione, qualche mese più tardi si è intrufolata la vocazione: vivendo la fede con tutto il cuore, sentii ancora una volta che Dio si fidava di me e questa sensazione mi rese consape-vole del fatto che Dio non mi aveva mai abban-donato, neanche per un attimo, nonostante la mia ipocrisia. Questo, con forza sempre crescente, mi ha affascinato, fatto emozionare, fatto innamora-re di Dio, fino a farmi sentire nel cuore un invito: “Io mi fido di te, ti propongo un’avventura a cui non hai mai pensato finora.”Questo “passaggio” io non ricordo con precisione quando è avvenuto, ma ricordo che fu quasi im-mediato tanto era il mio entusiasmo! Oggi, dopo 4 anni, sono cambiate e maturate tante cose di me, Dio mi ha insegnato tanto con il suo amore; ma tutto è servito sempre a rendere più speciale questa avventura con Dio, e non cambierei niente di tutto quello che ho vissuto finora. Posso solo essere felice per la Vita che Dio mi sta donando!

Francesco Antenucci (San Benedetto del Tronto)

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LA “RICETTA” DELL’ACCADEMIA ITALIANA DI CUCINAIntervista al presidente Giovanni Ballarini

In occasione dell’imminente apertura di Expo 2015 e vista la tematica principale di questa grande manifestazione, abbiamo intervistato il professor Giovanni Ballari-ni, presidente dell’Accademia Italiana di

Cucina.

La data dell’apertura di Expo 2015 si avvicina. Il tema è sicuramente interessante e di grande attualità. Quale sarà il vostro apporto a questo grande evento?L’Accademia Italiana della Cucina, analogamen-te ad altre Accademie italiane di Agri-coltura e straniere di cucina e tra queste l’Académie In-ternationale de la Gastrononie, non partecipa in forma diretta all’EXPO 2015 per diversi motivi, non ultimo quello dell’impegno organizzativo e soprattutto economico al di fuori delle possibi-

lità di un’Accademia che si basa sul volontariato. In modo analogo non partecipano diretta-mente Università e in particolare Istituti Universitari che sotto diverso aspetto si occupa-no d’alimen-tazione. In questo quadro l’Accademia non solo ha stabilito accordi di colla-borazione con Istitu-zioni che saranno presenti all’EXPO (ad esempio Confagricoltura), ma sotto varia forma parteci-perà a manifestazione ed eventi che Università, Regioni e Provincie stanno organizzando a latere dell’EXPO nel periodo maggio – ottobre 2015.

Come si può conciliare, a tavola, l’amore per la tradizione, gli antichi sapori, con la modernità che, anche nel settore della cucina, avanza?Da sempre la cucina anche nei suoi aspetti di arte popolare e di gastronomia è espressio-ne di una cultura che evolve e capace di acquisire, inter-

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pretare e fare proprie novità, e su questa linea é stata accolta la melanzana, la patata ha sostituito la rapa, il tacchino il pa-vone e abbiamo avuto una serie di sostituzioni di fuochi, dalla legna al carboni, poi il gas e l’elettricità infine le micro-onde… La tradizione, anche in alimentazione, cucina e ga-stronomia non é un’urna di ceneri da venerare, ma un fuoco che va mantenuto acceso con la legna della attualità. Senza sottovalutare che non di rado gli “antichi sapori” sono spesso soltanto sogni di un passato mitizzato che non é più accettato, come dimostrano le sempre più diffuse “dimenticanze” alimentari, ad esempio le lunghe frollature, le cot-ture multiple, le paste scotte, i forti sapori…

La cucina è un patrimonio culturale per il no-stro Paese. Come si può tutelarlo e salvaguar-darne la qualità?Precisiamo che non esisteva una cucina italiana, ma che in Italia esistevano le cucine delle diver-se classi sociali e soprattutto delle diverse Patrie. Come esisteva una cucina dei conventi diversa da quella dei contadini, la cucina napoletana o sar-da non erano quelle del Veneto o del Piemonte. Con inizi a metà millesettecento e un progressivo

svi-luppo nel milleottocento, la classe borghese italiana ha sviluppato una cucina che ricupe-ran-do e interpretando elementi territoriali e di altre nazioni (soprattutto Francia) tende a un’unifica-zione che ha alcuni assi portanti e tra questi, ad esempio, le paste. Su questa linea anche i concetti di qualità si sono evoluti e stanno evolvendo (e continueranno a farlo). A parte la sicurezza (che non é qualità ma conditio qua non senza la quale un prodotto non é alimento!) la qualità é corre-lata alla cultura e allo stile di vita. Se un tem-po il baccalà era una triste necessità (e ancor oggi qualificare una persona “baccalà” é un insulto), oggi é divenuto una preziosità. Allo stesso modo un tempo la carne doveva es-sere grassa, ora ma-gra… In modo analogo anche il gusto sta evol-vendo, per gli alimenti e le loro trasformazioni come per il modo di vestire, abitare, fare spetta-colo e compiere riti religiosi (chi ha ancora il gu-sto dell’organo?). La qualità si tutela conoscendo-la e co-noscendone i legami che ha con la società, anche se questo é oggi sempre più difficile in una “società liquida” nella quale irrompe una comu-nicazione industriale che spesso strumentalizza e falsifica i valori che erano stati costruiti da una società scomparsa, strutturata in classi sociali ben

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definite e dove l’alimentazione dei contadini non era quella dei pescatori o degli artigiani urbani….

Torniamo a parlare dell’Expo 2015. Per sei mesi Milano diventerà una vetrina mondiale in cui i Paesi mostreranno il meglio delle pro-prie tecnologie per dare una risposta concreta a un’esigenza vitale: riuscire a garantire cibo sano, sicuro e sufficiente per tutti i popoli, nel rispetto del Pianeta e dei suoi equilibri. Mera utopia oppure dopo questo evento qualcosa potrà davvero cambiare?A parere degli esperti abbiamo già le conoscenze e le tecnologie per un cibo sicuro e vi é già cibo sufficiente per una popolazione di nove e anche dieci miliardi di persone. Il problema sta nella di-stribuzione e soprattutto nell’uso del cibo. Basta pensare che il nu-mero dei sottonutriti (circa un miliardo) é pari a quello dei sovranutriti (obesità e so-vrappeso), e che almeno un terzo del cibo prodotto é sprecato. La grande sfida é oggi quella di una corretta educazione alimentare, tremenda-mente difficile in una società dei consumi, obso-lescenza programmata e dello spreco, nella quale il cibo é “merce” e non cultura e valore. Ci riuscirà una manifestazione prevalentemente commer-ciale come EXPO? Forti dubbi.

Durante l’Expo i visitatori avranno la possibi-lità di assaggiare e conoscere le tradizioni e le eccellenze agroalimentari e gastronomiche di ogni Paese. Può la cucina essere o diventare un elemento importante di unione fra i popoli?“Nutrire il mondo nella diversità – Multicultu-ralità alimentare e la sfida della omologa-zione” é il titolo di un mio intervento che tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre sarà presentato in un convegno delle Università di Parma e Padova in àmbito EXPO, nel qua-le si sostiene l’impor-tanza del dialogo (non omologazione e coloniz-zazione) tra le diver-se culture alimentari (cucine e gastronomie). Un dialogo che ha anche impor-tanti riflessi sul mercato alimentare mondiale.

Come mai, oggi come oggi, c’è una così gran-de attenzione a tutto ciò che gravita intorno al cibo?Il cibo e soprattutto le sue trasformazioni culi-narie e gastronomiche sono identità. Io so-no quello che mangio, si dice spesso, ma non perché se mangio leone divento aggressivo e se mangio coniglio un pavido, ma perché io sono italiano perché mangio italiano e non dimentichiamo che il popolo ebraico ha mantenuto la sua identità nel

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corso di millenni sulla fede di un Dio, su un Li-bro e su Regole Alimentari.

Quali sono i prossimi impegni dell’Accademia Italiana di Cucina?

L’Accademia Ita-liana delle Cu-cina, in quanto Istituzione Cultu-rale della Repub-blica Ita-liana, é impegnata nella conoscenza dell’a-l i m e n t a z i o n e , cucina e gastro-nomia in Italia, con particolare riguardo alla sua evoluzione, e nella diffusione dei va-

lori culturali con-nessi al fenomeno alimentare umano, che non può assolutamente ridursi a una meccani-ca di sicurezza e di equilibri alimentari, solo conditio qua non e presupposti di base. Un particolare impegno sarà dato al fenomeno della mondializzazione alimentare, anche sulla espe-rienza del passato: cosa sarebbe la cucina dell’I-talia Meridionale senza il pas-sato, forte influsso arabo? Cosa può dare al mondo l’Italia con la sua cucina? Non si di-mentichi che nel mondo, com-plessivamente si mangia molta più pasta – inven-zione ita-liana su un’origine araba – che in Italia, che pur rimane il maggior consumatore pro ca-pite.

Leggo dal sito dell’Accademia una sua dichia-razione: Arte culinaria e piacere sono stret-tamente legati nella gastronomia, analizzati, studiati e discussi dalla critica gastronomica, argomento non facile da sviluppare in poche ri-ghe, se non per cenni, iniziando da un concetto basilare. La critica, anche gastronomica, deve

essere, per quanto possibile, oggettiva, e quindi non basarsi sul “mi piace” o “non mi piace”. Può spiegarci, in maniera più approfondita, questo concetto?La critica si basa su indagini indirizzate a cono-scere e valutare, sulla base di teorie e metodologie diverse, gli elementi che consentono la formula-zione un giudizio su un preparazione di cucina o di gastronomia, un menù, un’abitudine o rito alimentare per giungere a un giudizio di valore, sotto il profilo della bontà e della sua bellezza (non soltanto visiva!). Alla base di qualsiasi pre-parazione gastronomica vi deve essere la sua nu-trizionalità e compatibilità economica, ma anche etica, ivi compresa la tutela e il miglioramento delle tradizioni alimentari. La critica deve parti-re dall’accertamento dei dati che spiegano l’opera gastronomica senza determinarla, per analizzarla in rapporto al contesto sociale nella quale é inse-rita, per poi studiarla nei suoi elementi tecnici e formali di gusto e stile ed é di tipo strettamente gastronomico, arrivando a una sintesi critica. Mai come oggi l’attenzione e il lavoro del critico de-vono essere rivolti ai cambiamenti in atto nella cucina, con trasformazioni gastronomiche dif-fuse e rapide, per motivazioni interne e influssi esterni, che portano a scomparsa, sostituzioni e modifiche di tradizioni che parevano immutabili, se non consolidate. Più che piangere su un sup-posto paradiso (gastronomico) perduto, il critico gastronomico deve studiare i cambiamenti con i metodi della critica gastronomica, allo stesso modo nel quale avviene per altre attività artisti-che, anch’esse in profonda evoluzione. Il critico gastronomico deve farsi mediatore tra la cucina e l’opera gastronomica da una parte, e dall’altra i consumatori, rendendo a questi accessibili i si-gnificati e valori che un tempo erano connessi alle tradizioni, ora in rapido cambiamento e sostitu-zione, e orientandoli nei nuovi e per molti ancora inesplorati territori dell’innovazione alimentare.

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“NUTRIRE IL PIANETA, ENERGIA PER LA VITA”Un contributo del movimento italiano del Commercio Equo e solidale

La World Fair Trade Week – Set-timana Mondiale del Commercio Equo e Solidale – è il più importante evento internazionale del settore. La prossima edizione di questo evento

biennale si tiene a Milano dal 22 al 31 maggio 2015.Ovviamente la scelta di Milano è scaturita per dare maggiore visibilità a questo momento di incontro del Commercio Equo e Solidale ma soprattutto per far conoscere una realtà che da decenni concretizza nelle sue azioni l’utopia di un modo più giusto, in cui tutti hanno diritto non solo al cibo, ma a una vita dignitosa. Il tema di Expo2015 “Nutrire il Pianeta, Energia per la vita”, è dunque parte di questa nostra vocazione, e riteniamo di avere tutti gli elementi per affron-tare un tema così complesso. Sappiamo che le principali cause della fame che tuttora coinvolge quasi un abitante su 7 del pia-

neta ci sono povertà, sfruttamento ed esclusione sociale, tutti fattori che non sono frutto del de-stino, ma che sono spesso conseguenze di precise scelte politiche ed economiche. Riteniamo che questa constatazione sia il punto di partenza ne-cessario per elaborare qualunque strategia effica-ce sul tema che caratterizza Expo, e che dovrebbe affrontare. Al centro delle nostre preoccupazioni e del no-stro lavoro quotidiano c’è, in particolare, la crisi di lungo periodo delle economie contadine, che attraversa ormai gran parte del pianeta ed è frut-to dall’assommarsi storico di eredità coloniali, modelli di agro-esportazione speculativa, politi-che nazionali cieche e clamorosi squilibri com-merciali internazionali ingenerati dalle politiche neoliberiste di WTO, FMI e Banca Mondiale. Come conseguenza di tali processi, contadini e artigiani vivono oggi una crisi di proporzioni

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epocale a ogni latitudine. Una crisi cui concorrono molteplici fattori: la con-correnza sleale delle multinazionali nei confronti dei piccoli produttori locali, lo sfruttamento della mano d’opera nativa per opera di latifondisti e intermediari senza scrupoli, l’imposizione di prezzi d’acquisto sottocosto, l’accaparramento delle terre da parte di grandi corporations e fondi sovrani, la diffusione di bio-car-buranti, la zootecnia intensiva, i cambia-menti climatici, l’inaridimento dei suoli, il depauperamento delle falde acquifere. Il Commercio Equo e Solidale affron-ta da sempre queste difficili tematiche cercando innanzitutto di stabilire rela-zioni basate sulla cooperazione tra pari. Quindi relazioni in cui non ci sono rapporti di potere sbilanciati, ma in cui ciascuno è chiamato a dare il suo contributo con pari dignità, in un

esercizio di democrazia reale, spesso faticoso, ma indispensabile. Oggi la distribuzione ineguale del potere a livello globale si manifesta nei rapporti di forza tra i pochi grandi compratori dei paesi

ricchi e i molti piccoli produttori dei paesi poveri, che non hanno di fatto nessuna possibilità di esi-gere prezzi adeguati a remunerare il loro lavoro. La miseria, e la fame che ne consegue, sono frut-to innanzi tutto di questi rapporti di forza sbi-

lanciati e non potranno essere superate con nuove tecnologie o innovazioni nella produzione agricola (e/o energetica), ma solo se le scelte globali saranno decise in un quadro di maggiore partecipazione democratica alle decisioni e di reale co-operazione nella loro attuazione. Siamo convinti che sia necessario recuperare spazi di autodeterminazione e “sovranità alimentare” come precondizione per in-vertire la rotta fin qui seguita e davvero “nutrire il pianeta” con giustizia, equità e lungimiranza. Riguadagnare spazi di au-todeterminazione e sovranità alimentare vuol dire limitare le smisurate libertà di movimento di cui oggigiorno fruisce il capitale transnazionale; vuol dire porre

limiti stringenti alla possibilità di speculazione finanziaria sulle derrate agricole, così come alle possibilità di monopolio dei mercati da parte dell’industria agro-chimica o della grande distri-

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buzione organizzata; vuol dire introdurre su scala internazionale clausole di responsabilità sociale d’impresa e regole di commercio internazionale improntate a maggiore equità e trasparenza.Modificare le politiche agricole. A fronte di aiuti dispensati in modo da favorire quasi esclu-sivamente le grandi produzioni agricolo-indu-striali, stanno le richieste di eliminazione delle misure di protezione dei produttori locali, ri-chieste da FMI e Banca Mondiale nei loro piani di “salvataggio”. L’effetto di queste asimmetrie è la distruzione di capa-cità produttive locali e di sovranità alimentare che produce povertà e dipendenza dalle forni-ture alimentari di prove-nienza industriale. Una riduzione della fame nel mondo che avvenga non per via assistenziale o occasionale, ma tramite processi che ne elimini-no le cause e creino condizioni di vita dignitosa, richiede interventi precisi sulle politiche di soste-gno alla produzione agricola ed all’esportazione

praticati in occidente, e riequilibrio nei processi di liberalizzazione che devono vedere concreti vantaggi anche per i produttori del Sud del mon-do. Diritti sociali sui beni collettivi. Un altro aspetto fondamentale è la garanzia del diritto di tutti ad accedere ai beni indispensabili per una vita dignitosa. In questo quadro rientrano i diritti all’istruzione alla salute, ma anche il diritto di ge-stire democraticamente beni collettivi, spesso ag-grediti da logiche di mercato che ne vorrebbero la privatizzazione. L’esempio più eclatante è quello

dell’acqua, la cui priva-tizzazione mettereb-be nelle mani di pochi soggetti il diritto di ac-cesso al bene più essen-ziale per la vita umana. Ma riguarda anche la privatizzazione delle terre, che sottrae risorse agricole alle comunità e le priva di un essenziale potere di partecipazio-

ne collettiva alla gestione di questa risorsa. Salari e prezzi equi. Un reale riequilibrio dei rapporti di potere deve riflettersi in remunerazioni e salari

Una riduzione della fame nel mondo che avvenga tramite processi che ne eliminino le cause e creino condizioni di vita dignitosa.

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dignitosi per i produttori e i lavoratori dei Paesi poveri. I contadini che producono cibo devono, da una parte, affrontare costi fissi e spesso cre-scenti, dall’altra non hanno alcuna certezza del valore del proprio prodotto sul mercato al mo-mento di venderlo; il Fair Trade dimostra che ap-

plicare prezzi minimi fissi ai prodotti agricoli va d’accordo col commercio e con la produzione di qualità e offre i produttori delle certezze che mi-gliorano fortemente la qualità della loro vita. In Conclusione siamo convinti che qualsiasi solu-zione al problema riguardante il “Nutrire il Pia-neta” sia sempre, in prima istanza, una soluzione di ordine politico, e solo in seconda battuta un cambiamento legato a innovazioni tecnologiche (nuove sementi, nuovi concimi, nuovi macchina-ri) o a sostegni umanitari (nuovi aiuti). Per nutri-re il pianeta abbiamo bisogno di un rinascimento contadino globale e quindi abbiamo bisogno di garantire ai produttori primari accesso alla ter-ra, accesso al credito, accesso alla salute, accesso all’assistenza tecnica. Rinascimento contadino vuol dire valorizzazio-ne dei modelli di autogoverno locale delle risor-se comuni -pascoli, foreste, sistemi irrigui-; vuol dire tutela dei diritti d’uso comunitari, vuol dire difesa del diritto degli agricoltori a scambiarsi e riprodurre liberamente le sementi; vuol dire ri-scoperta dei saperi nativi e delle strategie adattive più efficaci durante le crisi ambientali; vuol dire preservazione delle risorse rinnovabili, della bio-diversità, dell’acqua. Solo a partire da tali presup-posti possiamo immaginare una nuova stagione di benessere umano generalizzato.

AGICES – EquoGarantitoWFTO – Europe – Brussels

Altra Qualità – Ferrara CTM Altromercato – Bolzano-Verona

Equomercato – CantùLibero Mondo – Bra

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Basta fare un po’ di zapping, a qualsi-asi ora del giorno o della notte, per accorgersi che non c’è canale che si rispetti senza un fornello acceso o un cibo da impiattare. In tv e in rete è

boom di programmi dedicati alla cucina. Solo per citarne alcuni, “Masterchef Italia”, la versione ita-liana, con i temutissimi giudici Barbieri, Bastia-

nich e Cracco, “Cucine da inclubo” con lo chef Antonino Canavacciuolo, ma anche “I menù di Benedetta” con le ricette pret a porter. Per l’occasione e, vista l’imminente apertura di Expo 2015 dedicato interamente al cibo, abbia-mo intervistato la foodblogger, fanese di nascita e cuneese di adozione, Federica Gelso Giuliani.

IL BOOM DI PROGRAMMI DI CUCINANe parliamo con la foodblogger Federica Gelso Giuliani

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In tv e non solo stanno spopolando program-mi di cucina e canali tematici dedicati al cibo. Come mai? C’è la voglia di ritornare alle tradi-zioni del passato, in particolare a quella della buona cucina di cui l’Italia ne è preziosa por-tatrice?In questi ultimi anni il mondo dell’enogastro-nomia ha visto, soprattutto in Italia, un vero e

proprio boom dovuto a una sempre crescente at-tenzione nei confronti delle migliaia di tradizioni che offre il nostro Paese. Se fino a qualche anno fa la cucina era vista come materia per pochi, oggi, grazie al web e alla diffusione massiccia di ricette attraverso innumerevoli blog e siti internet, è di-ventata di grande interesse e attenzione da parte di un numero sempre maggiore di appassiona-ti. Questo crescente interesse nei confronti della cucina può essere letto anche come una risposta alla crisi economica di questi anni e al fatto che in migliaia, ormai, preferiscano prepararsi con le proprie mani cene prelibate, dolci di alta pastic-ceria, o anche semplicemente il pane quotidiano, per abbattere i costi e per scegliere, allo stesso tempo, solo gli ingredienti migliori.

IL BOOM DI PROGRAMMI DI CUCINANe parliamo con la foodblogger Federica Gelso Giuliani

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Come si può creare cultura attraverso il cibo?E’ importante preservare le tradizioni culinarie della propria famiglia o della propria regione, continuare a preparare abitualmente i piatti dei nostri nonni e mettere nero su bianco le ricette di famiglia, spesso tramandate solo oralmente, di generazione in generazione, con un margine di errore e di interpretazione notevole, secondo la diffusa cucina del q.b. Le tradizioni culinarie fan-no parte della nostra cultura in un legame impre-scindibile, buona parte della nostra economia è basata proprio sulla produzione enogastronomica locale e sulle tradizioni da essa derivanti. Il cibo fa parlare di sé attraverso la spiegazione degli in-gredienti proposti, delle tecniche di cottura via

via più elaborate, dei giusti abbinamenti. Non si tratta semplicemente di preparare da mangiare, ma di essere consapevoli della scelta della materia prima, delle tecniche di coltivazione, degli ingre-dienti da utilizzare e quelli da evitare, di come rendere più gradevole una ricetta soffermandosi sull’impiattamento e lo studio della complemen-tarietà di colori e gusti. E qui si fondono capacità di scrittura, conoscenza dell’arte, della fotografia e della grafica, ma anche della chimica, della fisica e della biologia! Oltre alla divulgazione di ricette tramite programmi televisivi e giornali, svolgono un ruolo sempre più importante i migliaia di fo-odblogger esistenti in tutta Italia: preparando e fotografando una determinata ricetta, ne comu-

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nicano origini e passaggi fondamentali, con cenni storici laddove sono presenti e un costante e puntiglioso lavoro di ricerca su web, libri e riviste di settore. Le foto del passo - passo impreziosiscono il testo fornendo indicazioni ancora più precise e dettagliate per la buona riuscita del piat-to, mentre il confronto diretto attraverso chat e commenti live sui social è indice di attenzione nei confronti degli utenti e di affidabilità del sito.Qual è, secondo te, la forza di program-mi di cucina quali ad esempio Master-chef ma non solo? Sono davvero solo farina, uova, zucchero i principali pro-tagonisti?Non l’ho mai pensato. Non sono abituata a guardare questo tipo di programmi, ma mi è capitato di farlo, quindi posso dire di conoscerne le principali dinamiche. E’ molto palese il loro carattere prettamente televisivo volto alla creazione di uno o più personaggi che, pur essendo spesso neofi-ti in ambito culinario, proseguono il loro percorso perché funzionano a livello tele-visivo. Anche i conduttori stessi sembrano recitare una parte a loro assegnata da co-pione. Si tratta di scegliere se voler essere

spettatori di uno show o meno, in questo caso con una tematica precisa: la cucina. Al di là del vincitore, che si aggiudica una cospicua vincita e la pubblicazione, credo, di un libro di ricette, gli altri restano meteore che, di lì a poco, tenderanno a scomparire nel dimenticatoio.Parliamo per un attimo di te e della tua passio-ne che sta diventando sempre più il tuo lavoro. So che hai ereditato l’amore per la cucina da tuo nonno Olimpo. Ti chiedo: come è cambia-to il modo di cucinare in una società 2.0?

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Ormai la cucina è diventata a tutti gli effetti la mia professione: dopo il primo libro, nato come scherzo e scommessa, ho riscosso inaspet-tatamente molto successo e, per fortuna, una riconoscibilità tale da essere facilmente identificata sul web e al di fuori del web. Dopo i primi lavori retribuiti, Una blogger in cucina è diventata una ditta indi-viduale e ora, oltre ai corsi di cucina che tengo presso Fontana, uno storico negozio di Cuneo, e al secondo libro in uscita dal 26 aprile (Tu di che taglio sei, Araba Fenice Editore), ho cominciato a la-vorare a Milano presso gli studi di Giallo-Zafferano per un nuovo progetto che mi vedrà protagonista, tra le altre cose, di alcune video ricette. Certamente, dalla cucina tradizionale che portava sulla tavola mio nonno, oggi molto è cam-biato: innanzi tutto siamo influenzati dai media e dal web e sempre alla continua ricerca di nuove idee e ingredienti da sperimentare. La mancanza di tempo da dedicare alla cucina e alla spesa ci in-duce a consumare cibi pronti, i cosidetti junkfo-od, più poveri a livello nutrizionale, ma parados-salmente più calorici. Per quanto mi riguarda, tendo sempre ad osservare ciò che recita il det-to “Non acquistare nessun cibo che i tuoi nonni non riconoscerebbero come tale”, per questo evi-to prodotti industriali confezionati, semilavorati,

pre-cotti e tutto

ciò che contenga con-servanti, coloranti, additivi. Cerco,

anche se non è sempre semplice, di rifarmi alla filosofia di mio nonno, e di portare a tavola solo prodotti di stagione e a Km 0, semplici, salutari variando spesso gli ingredienti utilizzati e le tec-niche di cottura. Il 1 maggio Expo 2015 aprirà le sue porte. Il tema scelto è “Nutrire il Pianeta, energia per la vita”. Si parlerà di alimentazione, del pro-blema della mancanza di cibo in diverse parti del nostro pianeta e di educazione alimentare. Come si possono educare le nuove generazioni al rispetto per ciò che mangiamo e soprattutto

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a limitare lo spreco di cibo?Le sottotematiche affrontate in Expo 2015 sa-ranno molteplici e diversificate e solo il titolo riecheggia qualcosa di epico, fantastico e al mo-mento, per me, e anche per altri, un po’ nebuloso. In realtà ho paura che il Professor Berrino, epide-miologo e direttore del Dipartimento di Medici-na Preventiva e Predittiva a Milano, abbia ragio-ne a sostenere che se all’Expo si distribuiranno bevande zuccherate e si mangerà cibo dei fast food e alimenti conservati forniti dai main spon-sor dell’iniziativa, non ha molto senso poi parlare di “nutrire il pianeta”. Con cosa lo nutriamo, poi, il pianeta? I nostri figli non devono solamente essere educati al rispetto di ciò che mangiamo e a non sprecare il cibo, i nostri figli dovrebbero essere allontanati da quel tipo di alimentazione spesso decantata, dalle campagne pubblicitarie, come sana e nutriente. Tutto parte dalla disinfor-mazione dei genitori: basterebbe leggere qualche articolo in più per capire da soli che quel gene-re di alimentazione non è adatto né agli adulti, né tantomeno ai bambini. Cito Berrino che cita Papa Francesco e il paradosso dell’abbondanza: il paradosso per cui si produce una quantità enor-me di cibo che potrebbe nutrire dieci miliardi di persone e contemporaneamente avere ancora popolazioni che muoiono di fame a causa dell’i-nequità data dal sistema economico attuale. C’è ancora tanto da dire e da fare e mi auguro che con Expo 2015 avremo tutti materiale su cui riflettere ampliamente. Torniamo, per un attimo a parlare di te. So che hai alcuni importanti progetti in cantiere. Ci puoi svelare qualcosa in merito? Sono tre i grandi progetti per il 2015: il primo è un libro di ricette a cui sto lavorando da circa due anni in collaborazione con l’azienda Terraviva e il vignettista Danilo Paparelli. Si intitola “Tu di che taglio sei” ed è edito da Araba Fenice, con distri-buzione nazionale, un libro che propone 31 ricet-

te a base di carne bovina piemontese affrontando vari tagli e varie tecniche di cottura e che vuole essere un piccolo vademecum da tenere sempre a portata di mano, in cucina. Esce il 26 aprile ed è distribuito a livello nazionale. Il secondo grande progetto è quello in collaborazione con Giallo-Zafferano: sono infatti da poco entrata a far parte della redazione milanese dividendo i miei impe-gni tra Cuneo e Milano. Il progetto prevede la registrazione di alcune video ricette presso i fan-tastici studi di GialloZafferano. Il terzo progetto prevederà, invece, l’elaborazione di foto ricette e 16 videoricette per i supermercati Coop. Una domanda d’obbligo: se ti chiedessero di partecipare a Masterchef Italia accetteresti? Essendo una professionista, non potrei mai es-sere ammessa a reality di questo tipo e, a dire il vero, anche potessi, penso proprio che non accet-terei mai!

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UN “PRESENTE” DA CONDIVIDERE FRA ATTORI E SPETTATORIConosciamo, da vicino, il Teatro del Canguro

Da oltre trent’anni produce, rap-presenta e organizza spettaco-li per ragazzi e bambini, dando loro la possibilità di conoscere un mondo straordinario fatto di suo-

ni, colori, parole e tanto altro ancora. Stiamo par-

lando del Teatro del Canguro, Impresa di Pro-duzione Teatrale di Innovazione per l’Infanzia e i Giovani, diretto artisticamente da Lino Terra. Per conoscere, più da vicino, questa importante realtà presente nella regione Marche abbiamo in-tervistato Natascia Zanni organizzatrice e attrice

della compagnia Teatro del Canguro.

Da oltre trentacinque anni il Teatro del Can-guro produce, rappresenta e organizza spetta-coli teatrali per bambini e ragazzi. Come sono cambiati, nel corso del tempo, i gusti dei vostri spettatori?Innazitutto c’è in mezzo il passaggio di due ge-nerazioni, con tutto quello che comporta il na-turale processo evolutivo e di cambiamento della

società. I bambini di oggi ricevono altri e nume-rosi stimoli che arrivano da un bombardamento mediatico continuo e incontrollato e subiscono la ricaduta di una società che è sempre più di fretta e che ha poco tempo da dedicare a loro. La co-municazione ha subito un grande cambiamento: la trasmissione e lo scambio di conoscenze, che necessitano di un tempo per trasmettere, per rie-laborare, per sedimentare, hanno lasciato il posto ad una serie di informazioni da passare in forma

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di spot, e per fare questo si utilizza un linguaggio, non vorrei dire banale, ma comunque più sem-plificato. Indubbiamiente tutto questo influenza anche i gusti dei ragazzi e delle famiglie che pre-diligono (perchè sono abiltuati a farlo) spettacoli che sfruttano questo tipo di comunicazione “faci-

le” a “tempi veloci”. In più il pubblico ha sempre di più la necessità di partecipare, di “intervenire”: si è perso un po’ il gusto del silenzio e dell’ascolto, dello “spettatore” nel senso etimologico del ter-mine.

Il vostro, possiamo definirlo, un pub-blico particolare. Le vostre produzioni si rivolgono principalmente alle nuove generazioni. E allora vi chiedo, quali va-lori sa e può trasmettere ancora oggi il teatro ai ragazzi?Il teatro è una forma di comunicazione e la comunicazione porta sempre con sè dei contenuti che possono essere ricono-sciuti o disconosciuti come “valori” .Sicuramente il valore peculiare di quest’ar-te così antica sta nella sua “forma”, nel “modo” di trasmettere dei contenuti. In questo caso possiamo riferirci in generale al teatro, non solo al teatro ragazzi. La sua particolarità è il fatto di avvenire dal vivo “qui” e “ora”, ed è in questo presente da

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condividere fra lo spettatore e chi sta sul palco, che si re-impara a riappropriarsi di uno spazio possiamo dire vitale e umano.A teatro c’è uno spazio fisico (la poltrona che concede un solo punto di vista) e temporale per guardare, porsi delle domande, per assistere al cambiamento che porta da una scena all’altra in un lasso di tempo dilatato in cui lo spettatore avanza e comprende per suggerimenti, finzioni, suggestioni, ipotesi. Qui è necessario decodifica-re, interpretare (lo fa l’attore, ma anche il pubbli-co) mettersi in discussione e mettere in discus-sione quello che ci appare.E pensiamo quanto questo possa essere impor-tante per i bambini e ragazzi di oggi, abituati in tal senso ad un mondo di comunicazione che parla per imposizione violenta di immagini ser-rate, in cui è lasciato poco spazio per assemblare i nostri puzzle metali ed in cui è concesso essere continuamente interrotti o in cui è possibile con-temporaneamente guardare, distrarsi, cambiare punto di vista, prospettiva.... Tutto questo mina sicuramente la capacità di concentrazione nel

momento presente, che dà senso e valore a tutti i nostri rapporti con gli altri e con le cose.

Quali sono gli spettacoli che i bambini e i ra-gazzi apprezzano di più?Con grande piacere constatiamo che i bambini e i ragazzi sono aperti a proposte anche molto dif-ferenti che vengono fatte loro, dal teatro d’attore a quello di figura e amano ancora farsi raccontare le storie. Il nostro modo di raccontare si esprime spesso con i pupazzi, con oggetti e tutto questo li affascina ancora.

Il teatro è sicuramente una forma di comunica-zione importante e preziosa. Come si possono educare le nuove generazioni, ma prima di tut-to gli adulti, a far sì che questa forma d’arte, di comunicazione possa essere valorizzata mag-giormente?Innanzitutto si dovrebbe dare ai ragazzi l’oppor-tunità di frequentare il teatro, di andare insieme agli spettacoli sia con le scuole che con le fami-glie. Imparare a conoscerlo, e riconoscerne i lin-

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guaggi e i codici. Poi il teatro lo si è declinato sotto mille aspetti, dall’utilizzo delle tec-niche teatrali per la didattica scolastica, ai laboratori per ragazzi, che sono utilissimi per una crescita personale dei ragazzi, perchè accanto al piacere contingente della par-tecipazione, hanno una rica-duta duratura nel loro modo di esprimersi e di porsi e di relazionarsi con gli altri. Un ruolo importante spetta anche alle istituzioni e agli enti che hanno la grande responsabiltà politica delle scelte per la propria comunità. Viviamo in un periodo di grande difficoltà economica ed è in-dubbiamente molto difficile reperire le giuste risorse per la realizzazione di progetti. Tuttavia è possibile e importante, in un momento come questo, scegliere di destinare una parte dei fondi alla cultura, al teatro, pensarlo come una risorsa e farlo vivere nelle nostre città.

Sul vostro sito leggo “Ma il Teatro del Canguro è anche tradizione. Quella del teatro di figura - fatto di pupazzi, oggetti animati, burattini e

ombre cinesi – dove anche l’attore-animatore interagisce in un contesto scenografico e dram-maturgico particolare”. Quanto è importante, in una società dove siamo educati fin da pic-coli ad “avere tutto e subito” non apprezzando quindi fino in fondo il valore delle cose, l’essere radicati alla tradizione?Conoscere la tradizione è conoscere la nostra sto-ria e le nostre radici. I fili che ci legano al passato sono quelli che ci raccontano del nostro presente. Non è detto che questi mondi siano così lontani. Ci si deve concedere il giusto spazio per ritrovarli.

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IL BIBLIOTECARIO, UNA PROFESSIONE IN CONTINUA EVOLUZIONENe parliamo con Danilo Carbonari e Valeria Patregnani

Il bibliotecario è una professione in con-tinua evoluzione. Lo sottolinea Dani-lo Carbonari, direttore della Mediateca Montanari, biblioteca multimediale situa-ta nel cuore della città di Fano. Al diretto-

re e alla responsabile dei servizi bibliotecari Va-leria Patregnani abbiamo chiesto di approfondire la figura del bibliotecario e i cambiamenti che ha subito nel tempo così come la fruizione delle bi-blioteche.

Secondo il Rapporto sullo stato dell’editoria a

cura dell’Ufficio studi dell’Associazione Italia-na Editori il mercato del libro si sta progressi-vamente trasformando. Quali sono secondo lei le cause di questo cambiamento?C’è una naturale evoluzione nel mondo del libro da sempre legato alle nuove tecnologie. Anche Gutemberg aveva portato una grande sconvolgi-mento nel mondo del libro inventando la stampa a caratteri mobili, un’invenzione mutuata dalle altre tecnologie del tempo. Quindi le nuove tec-nologie continuano a influenzare anche oggi il mondo del libro, il modo di leggere, le strategie di

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ricerca dell’informa-zione. Il mercato tiene conto di questi cam-biamenti e sta cercan-do con il digitale delle nuove fette di mercato. Il processo non è così scontato come potreb-be sembrare anche per-ché produrre un libro digitale non è sempli-cemente immettere sul mercato il pdf di un li-bro. E comunque l’incidenza economica è ancora, seppure in crescita, ancora marginale. Il mercato del libro in Italia non è mai stato particolarmente florido: siamo un Paese in cui non si è mai supe-rata la soglia del 50% dei lettori. Ora sappiamo che solo il 41,6 % degli italiani ha letto nel 2014 un libro in un anno per motivi non scolastici (in flessione rispetto al 2013)... Sono davvero pochi e gli stessi editori chiedono che si investa di più in programmi continuativi di promozione della lettura nel nostra Paese. Come sono cambiati i gusti dei lettori in questi ultimi anni?In realtà i gusti dei lettori non sono molto cam-biati negli ultimi anni, il problema è che dimi-nuiscono i lettori... Ce lo dicono anche le ultime indagini Istat uscite da poco e che riportano i

dati del 2014: la nostra editoria risponde alla richiesta di mercato e quello che viene mag-giormente richiesto è ancora la narrativa, il settore turismo e tutta l’editoria per bambini. C’è una curiosità verso il digitale ma ancora l’ebook non ha sosti-tuito il libro tradizio-nale. Ad essere curiosi

di questo nuovo modo di leggere sono soprattut-to i lettori forti, mentre ancora il digitale non è riuscito a raggiungere come si pensava (o come si sperava) quelle fasce di popolazione che non erano interessate al libro. Ma per noi bibliotecari “Un libro è un libro”, sia che sia un oggetto di carta sia che sia un file. La biblioteca viene ancora considerata come luogo di studio oppure sta cambiando anche il modo di fruire la struttura?Le biblioteche anche in Italia stanno suben-do grandi trasformazioni e questo è ancora più evidente se parliamo di biblioteche pubbliche. La biblioteca pubblica nel nostro Paese è uno strumento di attuazione della nostra Costituzio-ne in quanto assicura uguaglianza sostanziale e pari opportunità d’accesso all’informazione, alla

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conoscenza, alla cultura e alla libertà di ricerca scientifica. Ora la biblioteca pubblica viene con-siderata come piazza del sapere locale e un im-portante agente anche nel settore del welfare. Le biblioteche pubbliche in Italia stanno vivendo un momento di rinnovata attenzione dopo che per anni sono state ignorate da politici e ammi-nistratori e sono state vittime indirette dell’ide-ologia dominante che ha diffuso la percezione che la cultura sia una cosa “inutile”, le biblioteche oggi sono al centro di molte discussioni. Final-mente nuove strutture sono state costruite, anche se non in modo uniforme in tutto il Paese, sono stati organizzati nuovi servizi sempre più orien-tati al pubblico, e così la popolazione si è accorta che è piacevole passare del tempo in un bel posto

sfogliando una rivista, guardando un film o sce-gliendo il libro da leggere mentre magari i pro-pri bambini stanno ascoltando una lettura ad alta voce. Sì le persone che hanno avuto la fortuna di imbattersi nei nostri servizi sanno di essere sem-pre ben accolti e che ogni loro esigenza informa-tiva è per noi bibliotecari una priorità assoluta. Sono servizi che creano benessere nella vita delle persone e finalmente anche qualche amministra-tore se ne sta accorgendo. D’altro canto non può essere casuale il fenomeno, rilevato su base pro-vinciale, che vede in stretta relazione e con un

andamento omogeneo il numero di biblioteche, il reddito pro capite ed il tasso di occupazione. Come è cambiata, inoltre, la figura del biblio-tecario anche con l’avvento delle nuove tecno-logie?Il bibliotecario è una professione in continua evoluzione. I bibliotecari sono dei facilitatori della conoscenza e dell’informazione e oggi in-sieme ai cataloghi, ai repertori e agli strumenti più classici per la ricerca devono conoscere anche tutte le risorse che il web mette a disposizione e soprattutto essere in grado di riconoscere tra queste quelle valide e quelle no, aiutando l’uten-te ad individuare le informazioni più utili alle sue esigenze in un contesto di iperproduzione di

contenuti, spesso anche di qualità mediocre. Per questo diventa sempre più centrale la funzione di mediatore di contenuti e informazioni e necessa-ria una formazione permanente. Riferiamoci per un attimo alla Mediateca Montanari, chi sono i maggiori fruitori della biblioteca?Abbiamo un pubblico di famiglie che ci frequen-ta molto, ma non solo. Basta venire alla Memo per vedere tante persone in pensione che leggono il giornale, stranieri e giovani che usano i compu-

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ter, mamme e papà che leggono con i loro piccoli, adulti che curiosano tra gli scaffali e studenti che preparano i loro esami. Stando alle nostre stati-stiche la fascia di età più numerosa è quella dai 41 ai 60 anni, preceduta con uno scarto minimo da quella tra i 26 ai 40 anni. Sono per la maggior parte donne, confermando la tendenza italiana che ci dice che sono le donne a leggere di più.

Nella vostra biblioteca vi è un’attenzione par-ticolare ai bambini, mi riferisco ad esempio a Nati per Leggere. Quanto è importante creare nei più piccoli un interesse verso la lettura?Direi che è fondamentale. L’interesse per i più piccoli è abbastanza recente da parte delle biblio-teche italiane. Per molto tempo si è stati conside-rati lettori solo a partire dall’inizio del percorso scolastico. Grazie a Nati per Leggere abbiamo

recuperato una fetta importantissima di pub-blico, i bambini da zero a sei anni e con loro i loro genitori. Infatti in realtà NpL si rivolge ai genitori che con questo programma vengono in-formati dei vantaggi e dei benefici che la pratica della lettura portano allo sviluppo cerebrale dei loro bambini, allo sviluppo delle loro competenze e alla loro relazione. Quali sono i libri che vengono maggiormente richiesti nei prestiti?Gli utenti della Memo apprezzano moltissimo le riviste, i dvd e i libri per bambini: questi sono i materiali che circolano in assoluto di più. Il nu-mero di prestiti più alto tra le riviste lo hanno Pa-perino, Art Attack e la Cucina Italiana. I film più prestati sono Mary Poppins, Il mio vicino Totoro e Band of Brothers. Tra i libri i gialli di Lemony Snickets, Harry Potter e i Tre piccoli gufi. Gli adulti hanno letto moltissimo Evelina e le fate di Simona Baldelli, Non dirmi che hai paura di Ca-tozella e La vecchia di Cinzia Piccoli: di questi si può dire che certo i nostri lettori hanno premiato gli autori che hanno potuto conoscere personal-mente visto che tutti questi autori sono stati no-stri ospiti grazie al Festival Letteraria. In questo caso la sinergia con questa interessante realtà ha davvero pagato.

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LA SCHERMA, UNO SPORT DAL FASCINO SEMPRE ATTUALEIntervista a Giorgio Scarso, presidente Federazione Internazionale Scherma

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LA SCHERMA, UNO SPORT DAL FASCINO SEMPRE ATTUALEIntervista a Giorgio Scarso, presidente Federazione Internazionale Scherma

La scherma veniva praticata fin dai tempi degli antichi Greci. Come mai affascina ancora così tanti sportivi?Perché la scherma rimane uno sport i cui valori intrinse-ci si consolidano nel tempo. Il fatto di calarsi la maschera e poter incrociare le lame in maniera incruenta, cercando di colpire l’avversario, rispettando le regole che sono alla base del nostro sport, affascina sempre di più. I valori che la scherma trasmette in un mondo dove i “disvalori” tendono a prevalere, fa si che questo sport non perda fascino col pas-sare dei secoli. La scherma che dei valori ne fa una bandiera, risulta essere sempre più coinvolgente sia per l’atleta, sia per la famiglia che ne asseconda la pratica e per lo spettatore che ne segue le gesta.

Per i non addetti ai lavori, qual è la differenza fra scher-ma, fioretto e sciabola?Appunto per i non addetti ai lavori, la scherma come sport comprende fioretto, spada e sciabola; praticata da ambi i sessi, dai 9 ai 99 anni! Il fioretto rimane l’arma base e può considerarsi il “solfeggio” della scherma. Con questo si col-pisce solo di punta il tronco dell’avversario escluso il capo, gli arti inferiori e superiori. Il fioretto è un’ arma conven-zionale, ciò vuol dire che non basta toccare ma bisogna far-lo rispettando alcune regole. La sciabola, anch’essa un’arma convenzionale si differenzia dal fioretto in quanto può toc-

Le numerose medaglie conquistate dimostrano come la realtà della scherma italiana si sia affermata a livello mondiale e come la scuola italiana goda di numerosi riconoscimenti per gli innumerevoli traguardi raggiunti nel corso di tutta la sua storia.

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care oltre che di punta, di taglio e controtaglio. Il bersaglio della sciabola è tutto il corpo dalla cintola in su compreso capo e arti superiori. La spada, il cui colpo si può portare solo di punta, è l’unica arma non convenzionale. Il bersaglio dove è possibile portare la stoccata è tutto il corpo del-lo schermidore avversario.

A che età si può iniziare a praticare questo sport? Esistono particolari requisiti fisici per avvicinarsi a questa disciplina?L’età ideale per iniziare è intorno ai 7-8 anni e generalmente nelle palestre, che nella nostra di-sciplina si definiscono “sale scherma”, i bambini si accostano a questo sport abbinandolo all’attivi-tà motoria di base. La scherma, in considerazio-ne che fondamentalmente richiede intelligenza tattica, non è preclusa per nessuno, in quanto la differenza di statura, di velocità, di tempo, può essere annullata dall’avversario adottando l’azio-ne contraria: questo è il fascino della scherma.

Qual è l’allenamento tipo di un tiratore di scherma prima di una gara importante? C’è an-

che una dieta alimentare da seguire?Come tutti gli sport vi è la fase di avviamento seguita da un periodo di crescita tecnico-tattica, per poi passare all’applicazione agonistica. Per i ragazzi dai 9-10 anni ai 13-14 anni generalmente è sufficiente una frequenza di almeno 2-3 ore tre volte la settimana. Per i giovani dai 15 ai 20 anni quattro- cinque volte la settimana per circa 3-4 ore al giorno di cui un’ora è dedicata alla prepa-razione fisica, e il resto alla lezione individuale con il maestro e gli assalti con i compagni di sala. Per gli atleti della categoria assoluta che gravita nel giro della Nazionale, 6-7 ore al giorno per sei volte la settimana, alternando preparazione fisi-ca, lezione con il maestro, assalti (nella scherma si definiscono assalti gli incontri fra schermidori che sono a 15 stoccate, ciò vuol dire che vince lo schermidore che per primo arriva a 15). L’a-limentazione è sicuramente importante per una corretta crescita dei ragazzi e per un rendimento degli atleti di vertice.

Parliamo un po’ della federazione. Come è nata e quali sono le attività che sta portando avanti?

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La Federazione è nata il 3 Giugno del 1909 su input delle diverse scuole che nel XIX secolo si erano radicate nelle più importanti città italiane. La Federazione dà le linee guida per le attività di avviamento, di crescita e di formazione degli at-leti, vara il calendario di gare, organizza gli eventi più importanti e fondamentalmente gestisce le squadre nazionali dei cadetti, juniores, assoluti, maschile e femminile che partecipano ai Cam-

pionati del Mediterraneo, ai Campionati Euro-pei e ai Campionati del Mondo. Questi eventi sono propedeutici alla mission più impegnativa che è quella di partecipare alle Olimpiadi, ed è proprio grazie al lavoro dei club, maestri ed atleti, che la scherma ha portato all’Italia 121 medaglie olimpiche risultando lo sport più medaglia-to del Paese. La Fede-razione oltre a quanto sopra, è impegnata nella promozione dei valori più autentici dello sport dando vita a tutta una serie di ini-ziative che non sono prettamente agonisti-che ma di formazione, di coesione e di valori sociali. La Federazione si premunisce di segui-re gli atleti nel rendimento scolastico e a tal fine

ha dato vita ai progetti “Assistenza allo Studio” e “Incentivazione allo Studio”.

Leggo sul vostro sito che la FederScherma in-trattiene rapporti di scambio tecnico e di coo-perazione internazionale con altre federazioni internazionali. Un’occasione importante di ar-ricchimento non solo professionale, ma anche umano. Sicuramente la scherma risulta essere la Federa-zione Italiana col maggiore numero di protocolli d’intesa con i Paesi in via di sviluppo. Ad oggi ben 61 Paesi del Medio Oriente, Sud Est Asiati-co, Africa e America Latina, hanno siglato accor-di di cooperazione e collaborazione con l’Italia che fornisce assistenza tecnica, inviando maestri in quei Paesi e accogliendo atleti in Italia. Questi scambi consentono agli atleti dei Paesi emergenti di accrescere il loro potenziale tecnico, e agli atle-ti italiani di arricchirsi dal punto di vista umano.

Alcuni considerano la scherma uno “sport per ricchi” un po’ come l’equitazione o il golf. E’ un semplice luogo comune oppure effettivamente praticare la scherma non è poi così economico?Luogo comune o come dir si voglia “favola me-tropolitana”! La scherma oggi ha dei costi in

linea se non al di sotto di tante altre discipline sportive che vanno per la maggiore. Chi dice che la scherma è uno sport eli-tario è ancorato a vecchi concetti facilmente sfa-tabili: infatti la scherma è oggi un movimento sportivo che vede decine di migliaia di ragazzi, ap-partenenti a tutte le fasce sociali, frequentare le 350

sale operanti in tutta Italia, dal Sud al Nord, da Est a Ovest.

<< La scherma oggi ha dei costi in linea se non al di sotto di tante altre discipline sportive che vanno per la maggiore. Chi dice che la scherma è uno sport elitario è ancorato a vecchi concetti facilmente sfatabili.>>

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