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Governi e decisioni difficili: la gestione dei conflitti interpartitici nelle coalizioni italiane Michelangelo Vercesi Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali Università degli Studi di Pavia e-mail: [email protected] Paper preparato per il XXVI Convegno annuale SISP Panel “Organizzazione e performance del governo italiano” Roma, Università Roma Tre, 13-15 settembre 2012

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Governi e decisioni difficili:

la gestione dei conflitti interpartitici nelle coalizioni italiane

Michelangelo Vercesi

Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali

Università degli Studi di Pavia

e-mail: [email protected]

Paper preparato per il XXVI Convegno annuale SISP

Panel “Organizzazione e performance del governo italiano”

Roma, Università Roma Tre, 13-15 settembre 2012

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Introduzione*

I governi dei sistemi parlamentari sono perlopiù governi di coalizione (Woldendorp, Keman e Budge 2000). Ciò

significa che, per operare, necessitano di una certa cooperazione tra partiti politici che forniscono loro il

supporto in parlamento e che competono per i voti nell’arena elettorale (Panebianco 1982). Studiare come questi

partiti si comportamento e come interagiscono tra loro assume dunque un’elevata importanza quale via per

comprendere in modo significativo alcuni aspetti salienti del funzionamento di molte poliarchie.

Un programma di ricerca avviato ormai più di un decennio fa (Müller e Strøm 2000b; Strøm, Müller e

Bergman 2008) ha evidenziato come sia possibile concepire la politica di coalizione intesa in senso lato come un

ciclo composto da più fasi connesse tra loro in successione: la nascita della coalizione, la sua governance e la sua

conclusione, da cui deriva una nuova coalizione. L’assunto alla base di questa impostazione teorica – che qui

faccio mia – è che le azioni partitiche dipendono sempre dagli accadimenti passati e che, in qualche modo, si

basano su una valutazione più o meno accurata degli scenari futuri. Come vedremo, ciò implica l’attribuzione ad

esse di un carattere strategico.

È inutile dire che ogni singola fase è almeno tanto importante quanto le altre per la determinazione delle

relazioni tra i partner coalizionali. Questo fatto non si è rispecchiato, nella scienza politica comparata, in una

focalizzazione uniforme sui singoli momenti. I lavori dedicati alla politica coalizionale si sono concentrati prima

di tutto su quello della formazione della coalizione, e in modo particolare sulla definizione della composizione

partitica. Il secondo settore di studi più sviluppato è quello riguardante i temi della caduta dei gabinetti e della

loro stabilità. Sempre inerente alla fase formativa delle coalizioni, è invece l’analisi dei processi di allocazione

delle spoglie ministeriali tra i membri coalizionali. Minore attenzione è stata rivolta alla problematica della

governance coalizionale, cioè dei processi decisionali e di gestione dei rapporti intra-coalizionali che portano alla

produzione degli outputs governativi1.

Tale deficienza conoscitiva si deve molto probabilmente alle difficoltà che presenta qualsiasi tentativo di

entrare in quella scatola nera che è la vita della coalizione. Nel contenitore concettuale della governance2 rientrano,

tra altre, tutte quelle relazioni interpartitiche che mirano a sedare i conflitti che spesso occorrono tra le forze

politiche al governo; come sottolineato da Andeweg e Timmermans (2008: 269), «la governance coalizionale implica

la gestione del conflitto». I conflitti interpartitici vanno a minare quella cooperazione necessaria, perlomeno per

mantenere vivo il rapporto coalizionale, che sta alla base di qualsiasi coalizione di governo. Müller e Strøm

(2000c: 586) mostrano che, relativamente a 331 governi presi in considerazione, i conflitti interpartitici su

questioni di policy sono la seconda causa più frequente di caduta degli esecutivi dopo le regolari elezioni politiche

* Ho lavorato in parte alla ricerca di cui questo lavoro fa parte durante periodi di ricerca al Center for the Study of Democracy (Zentrum für Demokratieforschung) della Leuphana Universität di Lüneburg (Germania), con il supporto di una fellowship del German Academic Exchange Service in collaborazione con l’Università Leuphana) e al Department of Government (Institut für Staatswissenschaft) dell’Universität Wien (Austria). Diversi sviluppi e aspetti sono stati presentati alla 3rd Graduate Conference della Società italiana di scienza politica (Università degli Studi di Torino, 23-25 giugno 2011); al Seminar für Dissertanten/innen dell’Institut für Staatswissenschaft (Università di Vienna, 17 Ottobre 2011); e alla 4th ECPR Graduate Conference (Jacobs University e Università di Brema, 4-6 luglio 2012). Ringrazio i partecipanti agli incontri per i loro utili commenti e in particolare i professori Ferdinand Müller-Rommel dello ZDEMO e Wolfgang C. Müller del Department of Government per il loro supporto e per i loro preziosi suggerimenti. Ringrazio inoltre il professor Francesco Battegazzorre per i commenti relativi alla parte definitoria e all’impianto teorico.

1 Un’ampia rassegna critica dei lavori teorici ed empirici dedicati alla politica coalizionale nei suoi vari aspetti è Vercesi (2012c). 2 Mi riferisco a Browne (1982: 5) e definisco la governance come «un problema negoziale per qualche insieme di attori che mirano a

massimizzare i loro benefici in una situazione strutturata di processo decisionale collettivo».

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(24.2 percento contro 27.8 percento). Se oltre ai conflitti in materia di policy si aggiungono quelli definiti da loro

personali (7.3 percento), ecco che il conflitto tra membri coalizionali diviene addirittura la prima causa di

terminazione delle coalizioni. Posta la frequenza di conflitti intra-coalizionali e il carattere fortemente esiziale di

alcuni di essi, i membri di una coalizione si trovano spesso davanti alla necessità di gestirli. «[G]eneralmente il

conflitto più serio nei sistemi parlamentari non giace principalmente tra un’arena istituzionale, il governo, e

un’altra, il parlamento. Il conflitto più serio giace generalmente invece tra partiti e frazioni partitiche che sono

rappresentati sia nel governo sia nel parlamento» (Huber 1996: 270).

A dispetto della rilevanza del tema, solo pochi lavori (Nousiainen 1993; Andeweg e Timmermans 2008)

se ne sono occupati3; e spesso, quando lo hanno fatto, hanno considerato la riflessione sulla problematica come

un corollario dello studio dell’impatto degli accordi di coalizione sui processi di governance (Timmermans 2003,

2006; Timmermans e Moury 2006; Moury e Timmermans 2008).

Con questo paper miro a fornire un contributo in merito. A tale scopo, avanzo dapprima alcune

precisazioni definitorie che sono premessa all’analisi. Successivamente, illustro brevemente il framework teorico

che ha informato quest’ultima, per poi passare all’esposizione delle ipotesi di ricerca e alla trattazione di alcune

questioni metodologiche. Chiudono la presentazione di alcuni dati riguardanti la conflittualità e la gestione del

conflitto interpartitico nelle coalizioni italiane del dopo-1994 e la discussione dei risultati.

1. Conflitto coalizionale e gestione del conflitto coalizionale: alcune precisazioni concettuali

Un elemento necessario ai fini di una buona ricerca è sicuramente una rigorosa definizione del suo oggetto

(Gerring 1999; Sartori 2011).

Detto questo, definisco il conflitto coalizionale estesamente come una relazione sociale di natura politica4 nella

quale due o più partiti politici rompono (o minacciano di rompere) reciprocamente una certa cooperazione per raggiungere scopi

partitici particolari, nell’ambito di una coalizione di governo5. Come ogni conflitto, può essere visto come un insieme di

(almeno due) azioni conflittuali (Clementi 1996: 382-3; cfr. North, Koch e Zinnes 1960: 357), cioè di azioni

unilaterali con le quali un dato attore infligge (o minaccia di infliggere) dei mali a un altro. Il conflitto scoppia

solo nel momento in cui, in risposta ad una azione conflittuale, l’attore che è stato bersaglio dà luogo ad

un’azione conflittuale di ritorsione (Stoppino 2001: 196-7).

La caratteristica peculiare dei conflitti coalizionali rispetto ad altri conflitti sociali è che essi prendono

forma in un contesto, quello delle coalizioni governative, in cui la cooperazione (Stoppino 2001: 198) è, molto

più che altrove, una parte essenziale e centrale del rapporto tra le parti e nel quale l’esplosione del conflitto

diventa un fenomeno alquanto rilevante perché va a minare le basi su cui poggia il legame coalizionale. In termini

generali, una coalizione è un tipo di unificazione di due o più attori (individuali o collettivi) che hanno scopi in

parte divergenti e che scelgono di convergere su alcuni obiettivi comuni non perseguibili singolarmente – o

comunque che lo sarebbero solo in maniera eccessivamente costosa – e di cooperare per il loro raggiungimento

3 Alcuni (Pappalardo 1976; Blondel 1989, 1999) si sono occupati della prevenzione dei conflitti, trascurandone la gestione. 4 Sulla nozione di conflitto politico si vedano Clementi (1997: 383) e Nevola (1994: 36-40). 5 La definizione trae spunto, modificandola, dalla definizione di conflitto avanzata in Clementi (1997: 382) Non è il caso di occuparsi

qui della nozione di partito politico. Una sua definizione ai fini della ricerca empirica sarà fornita più avanti.

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(Coser 1967: 163-6). In questa sede non è mio interesse guardare a tutte le coalizioni possibili, bensì solo a quelle

che reggono le sorti dei governi multipartitici nei sistemi parlamentari. D’ora in avanti, quando parlo di

coalizione, mi riferisco quindi alle sole coalizioni composte da partiti politici in parlamento che, forti della fiducia

parlamentare, governano in tali sistemi, avendo almeno un proprio esponente, appoggiato formalmente

dall’organo decisionale del partito stesso, inserito nel gruppo ristretto dei ministri del gabinetto (cfr. Barbieri e

Vercesi 2013). Escludo perciò dal novero dei membri coalizionali i partiti che occupano, ad esempio, tutt’al più

posti di ministro junior e i partiti che, pur fornendo il proprio sostegno all’esecutivo, non entrano a farne parte

con dei propri delegati6.

Si noti che i partiti possono adottare degli accordi di coalizione per facilitare i rapporti che intercorrono

tra loro e per stabilire alcuni degli obiettivi della coalizione, ma non prevedono, tramite essi, regole per

determinare chi vince e chi perde nel gioco coalizionale in generale e nel conflitto in particolare. Quest’ultimo è

un confronto in cui le parti sono libere, entro i generali limiti posti alla lotta per il potere in sede poliarchica, di

agire come meglio credono in vista dei propri scopi.

Per quanto riguarda invece il concetto di gestione del conflitto coalizionale, intendo con tale espressione

l’insieme di tutte le azioni con le quali due o più partiti in conflitto e, nel caso, altri membri della coalizione

mirano a temperare gli effetti collettivamente giudicati dannosi dello scontro in questione, al fine di evitare la

rottura totale del legame coalizionale quale sua conseguenza e di trovare una soluzione che sia accettata da tutti i

partner coalizionali, pur continuando a ricercare l’esito singolarmente preferito in termini di rapporto

costi/benefici attualmente e potenzialmente apportati dalla prosecuzione del conflitto stesso. Nella gestione si

trovano elementi cooperativi e negoziali (sulla negoziazione Stoppino 2001: 194-5). Con la gestione i partiti

segnalano a vicenda la propria disponibilità a cooperare e a raggiungere un certo accordo.

2. Coalizioni e gestione del conflitto: un framework teorico

2.1. Razionalità partitica e natura strategica della politica di coalizione

I partiti politici sono insiemi di individui che si organizzano per raggiungere un dato scopo. Essi non sono attori

unitari (Maor 1998; Mitchell 1999; Giannetti e Benoit 2009; Meyer 2012), ma piuttosto organizzazioni (Simon

1952) attraversate da spinte competitive. Nondimeno, è metodologicamente accettabile parlare dei partiti come di

attori collettivi (Boudon 1980; 1996), talvolta strutturati in frazioni, in cui agisce in maniera più o meno

coordinata una pluralità di attori individuali. E se di attori – anche se collettivi – si tratta, una qualche forma di

razionalità può essere loro attribuita (cfr. Arrow 2003). Assumo che i partiti siano mossi da una qualche

razionalità limitata (bounded rationality) strumentale (Simon 1957: parte IV; March e Simon 1979: cap. 6). Per dirla

6 Boston e Bullock (2012: 7) distinguono tra coalizione di gabinetto e coalizione esecutiva, che comprende anche i partiti con dei delegati presenti nell’esecutivo, ma fuori dal gabinetto. Si può parlare invece di coalizione parlamentare per indicare la coalizione composta dai membri di quella esecutiva e dai partiti che sostengono stabilmente il governo dall’esterno. L’esclusione del primo tipo di partiti dalla mia definizione di coalizione permette di evitare di conteggiare, tra i membri coalizionali, anche formazioni fortemente secondarie e poco rilevanti o addirittura assenti in parlamento (cfr. Luebbert 1986: 253), mentre quella del secondo è giustificata dalla volontà di creare, con questo lavoro, un framework teorico utilizzabile in sede comparativa. Se l’individuazione dei partiti che danno solamente un appoggio esterno al governo è operazione semplice per quei paesi, come l’Italia, in cui è richiesto un voto di fiducia esplicito prima che l’esecutivo possa divenire operativo, essa si caricherebbe di ambiguità qualora si guardasse ai casi di parlamentarismo negativo, cioè a quei paesi in cui non è richiesto alcun voto di tal genere e la fiducia si assume accordata fintantoché non viene espressamente sottratta (cfr. Bergman et al. 2006: 149).

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con Weber (2003a), l’agire partitico è razionale rispetto allo scopo (zweckrational), ossia «orientato esclusivamente

in base a mezzi concepiti (soggettivamente) come adeguati per scopi definiti in maniera (soggettivamente)

precisa».

Assumo che la politica di coalizione sia politica strategica (cfr. Arielli e Scotto 2003; Schelling 2006). La

politica coalizionale non si sviluppa in un vuoto politico-istituzionale. A limitare la libertà di manovra dei suoi

protagonisti ci sono sia vincoli esogeni alla coalizione sia vincoli endogeni (Müller e Strøm 2000a: 4). I partner

coalizionali, rappresentati dai rispettivi leader7, interagiscono in un contesto di questo tipo cercando

costantemente di ottenere uno dall’altro una certa conformità di comportamento che è essenziale per il

raggiungimento del fine comune della coalizione, ma anche dei propri obiettivi particolari. La situazione che si

viene così a creare è una situazione di mutua dipendenza e di scambio (il gioco non è a somma zero) (cfr. Cesa

2007).

Lo scambio di conformità può avere un carattere più o meno diseguale, e ciò dipende dalla forza

strategica degli attori coalizionali data dalle risorse il loro possesso (Stoppino 2001: 167). Le più rilevanti risorse

politiche che i partiti possono spendere nel gioco coalizionale sono, da un lato, il numero di seggi parlamentari

controllati e, dall’altro, la posizione occupata, rispetto alle altre forze partitiche presenti in parlamento, sulle

dimensioni di policy lungo cui si struttura la competizione interpartitica (Müller e Strøm 2000a: 7).

Il beneficio ultimo che spinge i partiti ad investire e a utilizzare queste risorse nel gioco di coalizione è la

possibilità di guadagnare in termini di pay-offs coalizionali (cariche di governo e politiche pubbliche) rimanendo al

governo. Tale prospettiva si scontra però con due principali problemi strategici: i) riuscire a mantenere in vita

l’accordo con gli altri partner e, contemporaneamente, ii) soddisfare i propri elettori attuali e potenziali. (Lupia e

Strøm 2008). Il complesso equilibrio tra le diverse esigenze è reso costantemente precario dalla più o meno

parziale divergenza degli interessi partitici e dalla incompletezza dell’informazione sulle possibili scelte altrui; i

partiti «nei gabinetti coalizionali affrontano l’incertezza, il rischio e il dubbio» (Browne e Franklin 1986: 479).

Il contrasto costante tra forze che spingono in direzioni diverse che scaturisce da tale situazione porta

spesso al conflitto interpartitico, il quale, come abbiamo visto, mette in pericolo – quando più quando meno –

l’esistenza stessa della coalizione. Se ai partiti appare più conveniente continuare a far parte della coalizione di

governo, essi cercheranno allora di «prevenire o ridurre i conflitti all’interno della coalizione, [… o si sforzeranno

di fare] in modo di massimizzare la capacità della coalizione di risolvere positivamente i rimanenti conflitti»

(Pappalardo 1976: 44-5).

2.2. La gestione dei conflitti coalizionali: attori e arene

I partecipanti

Un primo aspetto rilevante caratterizzante la gestione è il tipo di coinvolgimento degli attori in gioco. Nel nostro

schema teorico le parti sono, così come nel conflitto, i partiti politici. Qualora si voglia analizzare il processo in

profondità non ci si può però fermare a questa constatazione, ma occorre andare oltre isolando le azioni dei

7 Assumo che siano i leader gli attori chiave per la presa delle decisioni partitiche e quindi della politica coalizionale come la intendo qui.

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singoli individui che negli effetti vi si impegnano e le interazioni che tra di essi si concretizzano. A tal fine, una

volta individuati i partecipanti, bisogna comprendere se questi lo sono da protagonisti o da comprimari, se il loro

intervenire è impositivo o punta alla mediazione, capire il loro ruolo nel partito di riferimento, nella coalizione e

nel gabinetto.

Appare scontato che, trattandosi di gestione di conflitti in coalizioni di governo, un’attenzione

privilegiata vada rivolta al primo ministro, figura centrale del gabinetto e in molti casi esponente di spicco del

proprio partito (Vercesi 2012a, 2012c). Date certe condizioni potestative (Barbieri 2001), un primo ministro agirà

più da attivista o più da arbitro (Blondel 1989: 207-9, 1999: 205-9). A seconda delle circostanze il primo ministro

può partecipare alla gestione soprattutto in quanto attore governativo ovvero prima di tutto come attore partitico

(Rose 1962: 267-8).

Anche i ministri senior partecipano talvolta non come attori partitici, ma piuttosto in quanto capi di

dicasteri competenti su una particolare questione. Lo stesso lo si può dire dei ministri junior. In Italia, uno di essi, il

sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, ricopre tradizionalmente, per via della sua posizione, un ruolo

alquanto rilevante per le dinamiche decisionali, di coordinamento e di governo dei conflitti intra-governativi

(Cassese 1980: 187; Cotta 1997: 147: Barbieri 2003a: 146).

Ma in ogni gestione del conflitto coalizionale la categoria fondamentale è quella dei leader partitici. La

letteratura ne ha sottolineato l’importanza (Andeweg e Timmermans 2008; Barbieri e Vercesi 2013), la cui

spiegazione appare alquanto facile: se le unità confliggenti sono i partiti e il confronto si sviluppa lungo linee

prettamente partitiche, allora le prime ad esserne coinvolte saranno le persone che li guidano e da cui più

dipendono le loro decisioni. Un partito coeso e disciplinato (Hazan 2003) piuttosto che uno diviso da forti

contrapposizioni interne, ne aumenta le possibilità di incidere sul processo, per via di un più diffuso

riconoscimento di leadership da parte delle altre componenti del partito (Luebbert 1986: 46). Accanto a coloro i

quali occupano la singola posizione da cui si esercita effettivamente la leadership8, che può essere, a seconda del

partito, quella di segretario, di presidente, ecc., esiste una leadership partitica in senso lato più o meno monolitica

composta da alti esponenti partitici, che può affiancarli nella gestione9. Sia i primi che i membri di quest’ultima

possono ricoprire o non ricoprire posizioni differenti (primo ministro, vice primo ministro o semplice ministro)

nel governo.

Una carica extra-governativa che, quale che sia il proprio ruolo nel partito, in molte occasioni dà il

“diritto” alla partecipazione nel processo gestionale è quella di capogruppo (o leader) parlamentare10. I capigruppo

sono figure importanti, essendo l’anello di congiunzione tra le componenti partitiche extra-parlamentari e il

partito in parlamento (Longley e Hazan 2000), la cui disciplina nelle votazioni è essenziale per l’approvazione di

svariate misure di policy.

8 Ho in mente la definizione di leader partitici data da Müller (2000: 317), per il quale essi sono «quelli che interiorizzano l’interesse collettivo del partito e monitorano gli altri detentori partitici di cariche».

9 Se il partito è frazionalizzato (Boucek 2009) alcuni membri del gruppo di vertice possono essere anche rappresentanti delle diverse frazioni.

10 Anche i semplici parlamentari sono alcune volte coinvolti (vedi Müller e Strøm 2000c: 583).

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Le arene

In sintonia con Andeweg e Timmermans (2008), ripartisco le arene in arene11 interne, miste ed esterne. Il gruppo

degli attori “interni” è composto sia dai ministri senior sia da quelli junior12. Considero invece i civil servants come

attori “esterni” (cfr. Goetz 2003). In ogni caso, tutte le arene considerate sono interne rispetto alla coalizione e

dunque sono escluse quelle arene, come quelle parlamentari (Martin e Vanberg 2004, 2011; Kim e Loewenberg

2005), in cui possono essere presenti anche attori facenti parte di partiti che non fanno parte della coalizione

stessa.

Un’arena alla quale spesso viene fatto ricorso è quella (del contatto) bilaterale (Vercesi 2012a). Se stabili

nel tempo, le riunioni di un gruppo ristretto di attori influenti interni al governo segnalano l’esistenza di un vero

e proprio inner cabinet (Vercesi 2012a). In tale arena, comprendente tipicamente (almeno) primo ministro e vice

primo/i ministro/i, le discussioni riguardano qualsiasi tema che necessiti di essere affrontato, a seconda delle

esigenze del momento. Un ulteriore tipo di arena interna13 è quello del comitato di gabinetto (Mackie e Hogwood

1985). I comitati di gabinetto sono talvolta formali e talvolta ad hoc, la loro importanza in quanto sede per la presa

delle decisioni e la loro diffusione è variabile a seconda dei paesi e delle circostanze e il numero di partecipanti è

solitamente maggiore se confrontato a quello dei membri di un inner cabinet. Rispetto a quest’ultimo risultano

essere meno generalisti e più settoriali nelle competenze. Volgendo lo sguardo alla membership, notiamo che

l’arena interna più inclusiva è il Consiglio dei ministri (o full cabinet)14 (Blondel e Müller-Rommel 1997, 2001).

Svariate arene gestionali non sono interne, e ad alcune di esse, i comitati di coalizione, i partiti hanno fatto

ricorso in molte occasioni. Questi comitati sono solitamente stabili e vedono, tra i membri, leader e altri

importanti esponenti partitici, tra cui alcuni esterni al governo. La loro competenza è generale. Simili sono i

comitati che riuniscono membri della compagine governativa con i leader parlamentari15.

Il comitato di soli leader parlamentari è invece una delle due maggiori arene completamente esterne16.

Diversamente, la seconda, il vertice partitico, riunisce esponenti partitici di primo piano che non fanno parte del

governo17.

2.3. La conclusione del conflitto coalizionale

Una tassonomia dei possibili esiti dei conflitti coalizionali successivi a un tentativo di gestione può essere

avanzata.

11 Individuo le arene soprattutto sulla base dei saggi contenuti in Laver e Shepsle (1994); Blondel e Müller-Rommel (1997); Müller e Strøm (2000b). Seguo per gran parte Andeweg e Timmermans (2008: 271-3) per la loro trattazione. A quelle da loro prese in considerazione aggiungo due ulteriori arene: quella bilaterale e il Consiglio dei ministri.

12 Congiuntamente ai loro consiglieri personali. 13 Ovviamente è interna fintantoché non vi entrino attori che considero al di fuori del governo, come i funzionari pubblici (cfr.

Thiébault 1993: 86-7). 14 Ancora una volta, interna se non ci sono attori non facenti parte del governo con la possibilità di entrare sostanzialmente nelle

discussioni. Solo per fare un esempio, i leader parlamentari dei tre partner coalizionali furono invitati a partecipare ad alcune riunioni consigliari in Norvegia durante il governo Willoch II (Eriksen 1997: 216-7).

15 A cui si aggiungono talvolta normali parlamentari, come è avvenuto nelle “consultazioni della torretta” in Olanda (Timmermans e Andeweg 2000: 383).

16 Come nel caso precedente, anche qui possono entrare in ipotesi altri parlamentari senza che vengano meno i tratti dell’arena in questione.

17 Per una disamina più dettagliata si veda Vercesi (2012b).

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Il primo è quello della non-decisione. I partiti non riescono ad accordarsi su una qualsiasi modifica dello

status quo iniziale, ma trovano allo stesso tempo che la prosecuzione del confronto è divenuta per loro troppo

costosa o che con molta probabilità porterà alla fine dell’esperienza coalizionale, eventualità che vogliono

evitare18.

La seconda possibile conclusione di un conflitto coalizionale è la sua risoluzione, di cui possiamo

individuare tre tipi: i) la vittoria; ii); lo scambio; iii) il compromesso. Tutti sono più facili da raggiungere quanto

più le preferenze dei partiti sono tangenziali (Luebbert 1986). La vittoria comporta, per una parte, il

raggiungimento dello scopo così come era stato definito fin dal principio, senza che vi sia un accordo relativo ad

un guadagno compensativo per la controparte. Il perdente riconosce di non poter ottenere altro nel breve

termine19 senza uscire dalla coalizione e stima la sconfitta come un esito in ogni caso migliore rispetto a

quest’ultima eventualità. Un’apparente vittoria su una specifica issue nasconde a volte però uno scambio (cfr. Arielli

e Scotto 2003: 77-8) più o meno differito nel tempo tra le parti in cui la merce di scambio è spesso una carica (o

più cariche) o una policy (o più policies). Si tratta di un vero e proprio do ut des comportante, piuttosto che un

risultato a somma zero, un mutuo beneficio. Il compromesso è il tipo di conclusione a più alto tasso di complessità.

È l’unico per il cui raggiungimento occorre, da parte degli attori, un cambiamento in corso dei propri obiettivi. Il

campo degli esiti ritenuti accettabili deve essere ampliato fino al punto in cui si rende possibile il loro incontro

(Arielli e Scotto 2003: 78). Questo significa fare concessioni reciproche che portino dei vantaggi per ciascuno, più

di quanto non faccia la prosecuzione del conflitto o qualsiasi altro esito possibile (cfr. Simmel 1989; Quirk 1989:

910-2).

La terza e ultima forma di terminazione del conflitto coalizionale è la caduta del gabinetto. Essa si

concretizza quando almeno uno dei partiti in conflitto percepisce che l’uscita dal gabinetto e le sue conseguenze

sono meno costose del processo conflittuale (Warwick 2012), ma anche di qualsiasi accordo ritenuto verosimile

che potrebbe porvi fine, e dunque agisce in tal senso20. Il conflitto è cioè così severo da portare alla conclusione

dell’esperienza governativa.

18 Mi pare si possa annoverare tra le non-decisioni anche la scelta di demandare la decisione in arene extra-governative ed extra-coalizionali (cfr. Andeweg e Timmermans 2008: 294-5). Pappalardo (1978: 61) ha parlato al proposito di cooperazione passiva, ossia, «in parole povere, [… della] sospensione o [… del] rinvio delle decisioni controverse». Nulla impedisce un eventuale ripresentarsi in futuro della questione su cui verteva la controversia e un nuovo relativo conflitto.

19 Potrebbe invece pensare di avere le possibilità di “rifarsi” della sconfitta nel medio-lungo periodo. Per dirla con Sartori, «posta la disposizione a transigere data dalla diseguale intensità delle preferenze, esiste anche l’interesse a concordare dato dalla prospettiva di una contabilità globale che risulti, nel tempo, a somma positiva». (Sartori 1995: 403; cfr. Sjölin 1993: 128-31).

20 La relazione conflittuale, ad esempio su una certa policy, potrebbe continuare a sussistere, ma non si parlerebbe più di conflitto coalizionale. Diversa è la situazione in cui la caduta è causata da un primo ministro che non è leader partitico e che, a fronte di un conflitto coalizionale, decide autonomamente di dimettersi (si rammenti che, secondo i criteri che stabiliscono la fine di un governo e che enuncio più avanti nella nota 28, il primo ministro è l’unico attore ministeriale in grado, con le sue dimissioni, di far cadere il governo). In questo caso, l’azione non è intrapresa dai partiti (dai loro leader), vale a dire dalle unità del confronto e della sua gestione. Per questo, essa va esclusa dal nostro schema teorico.

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3. Ipotesi di ricerca, selezione dei casi e metodo

3.1. Research questions e ipotesi di ricerca

Le principali domande a cui voglio rispondere sono: 1) quali fattori influiscono in misura maggiore sul processo

di gestione dei conflitti coalizionali?; 2) in che modo lo fanno?; 3) quali sono i tratti tipici della gestione dei

conflitti coalizionali nell’Italia della Seconda Repubblica (cfr. Bull 2012)?

Dei due aspetti del processo che ho isolato, attori e arene, la letteratura si è rivolta quasi esclusivamente

sul secondo, mentre il primo resta ancora terra da esplorare. Nousiainen (1993) si è limitato a registrare la

variabilità cross-nazionale nell’utilizzo delle arene, ma, sostanzialmente, poco o punto è traibile dal suo lavoro, se

non che «il settore di policy non sembra essere un’importante variabile determinante» (Andeweg e Timmermans

2008: 275). Maggiormente ricco di spunti è invece il più volte ricordato saggio di Andeweg e Timmermans

(2008). Dai dati che riportano, emerge con chiarezza che il coinvolgimento di attori esterni al governo nella

gestione aumenta tanto più il conflitto pone una minaccia alla tenuta della gabinetto, ma anche che l’impatto

maggiore lo ha la posizione rispetto al governo dei vertici delle forze partitiche. Questi sono gli attori chiave del

processo di formazione delle coalizioni e della politica coalizionale in generale, e, più «partecipano anche nel

gabinetto, più le arene interne (o tutt’al più miste) saranno usate per gestire persino le questioni politiche più

divisive» (Andeweg e Timmermans 2008: 298).

A questi risultati, che costituiscono la base di partenza della mia indagine, mi pare sia possibile collegare

fruttuosamente la problematica dell’autonomia del gabinetto. Un gabinetto in cui non entrano i leader partitici è

istituzione di governo meno autonoma dai partiti di riferimento rispetto ad uno che vede la loro presenza al suo

interno. E una minore autonomia implica che la contrattazione partitica decisiva avvenga fuori dal governo

(Vercesi 2012c). I membri di quest’ultimo si riducono a meri delegati, spesso più esecutori delle direttive del

partito che non attori che perseguono l’interesse governativo. Il primo ministro, scelto dai leader della coalizione,

si avvicina al modello dell’arbitro primo tra pari.

L’ingresso stabile dei leader partitici capovolge la situazione: accresce l’autonomia del gabinetto,

rafforzandolo quale istituzione decidente21 (cfr. Huntington 2012). Per quanto riguarda il nostro fuoco

d’attenzione, comporta, a parità di altre condizioni, appunto

H1: una maggiore internalizzazione della gestione dei conflitti coalizionali.

Ma non solo. Esso si accompagna ad un calo della capacità di incidenza nel processo gestionale, posta

l’occupazione di una certa carica partitica, di coloro i quali, seppur intervenienti, sono fuori dal governo. In altre

parole, gli stimoli (partitici) esterni perdono di rilevanza. Allo stesso tempo

H2: il solo far parte della compagine governativa si dimostra, più di quanto non accada quando i governi sono incapaci di

agire autonomamente dai partiti, fonte di potere.

Inevitabilmente, questo mutamento tocca in modo particolare il primo ministro in quanto capo del

gabinetto, il quale si vedrà coinvolto in maniera più sostanziale nella gestione dei conflitti. Oltre alla

composizione del gabinetto, però, possiamo immaginare, sulla base di quanto detto in letteratura (Vercesi 2010;

21 Mi interessa qui parlare di debolezza e forza del gabinetto limitandomi a connettere i due concetti a quello di autonomia rispetto ai

partiti. È però cosa nota che la capacità decisionale di un governo dipende anche dalla presenza di molti altri fattori di natura politico-istituzionale (vedi Pritoni 2011).

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Vercesi 2012c per una rassegna) circa i processi decisionali del gabinetto (Blondel e Müller-Rommel 1993) e i

fattori che incidono sul potere del premier, che anche le risorse politico-partiche che sono a lui/lei in capo

occupano un ruolo di assoluto rilievo. È ipotizzabile che il peso del primo ministro sarà tanto più elevato nella

gestione così come nel processo decisionale quanto più la sua posizione partitica lo rende un attore chiave nella

coalizione:

H3: il solo essere leader della coalizione gli permetterà di guadagnare influenza così come

H4: l’essere leader (forte) del proprio partito, soprattutto se questo è il partner coalizionale principale.

3.2. La selezione dei casi di studio

Per l’eventuale corroborazione dei risultati della letteratura e per testare le ipotesi appena avanzate ho scelto di

concentrarmi su casi estrapolati dalla realtà italiana. Quest’ultima è molto interessante dal punto di vista della mia

ricerca e offre diversi spunti di riflessione. Con il venir meno del vecchio sistema partitico (Sartori 1982) e della

Prima Repubblica (Vassallo 1994; Calandra 1996; Cotta e Verzichelli 1996; Verzichelli e Cotta 2000) agli inizi

degli anni Novanta (Pasquino 2002: cap. 2), si è avviata, per la politica italiana, una nuova fase. A differenza di

prima, diverse coalizioni hanno assunto carattere pre-elettorale22 favorendo, da parte delle forze politiche, la

stipulazione di accordi coalizionali da presentare all’elettorato in campagna elettorale (Moury e Timmermans

2008; Moury 2011) e il gabinetto, di cui più frequentemente hanno fatto parte i vertici dei partiti, ha acquisito

maggiore centralità quale luogo per la rielaborazione delle domande delle forze sociali (Verzichelli 2009). Senza

ombra di dubbio, la figura primo ministeriale ha risentito dei cambiamenti. Il suo rafforzamento per via

amministrativa (Criscitiello 2004) è andato di pari passo con quello più propriamente politico (Calise 2007). La

natura pre-elettorale delle alleanze partitiche ha prodotto presidenti del Consiglio leader riconosciuti delle

coalizioni. Essi si sono presentati in campagna elettorale come candidati naturali alla premiership e hanno goduto

quindi, quando eletti, di una investitura di derivazione elettorale (Musella 2012).

La mia analisi riguarderà la gestione dei conflitti in due gabinetti: il Prodi I (1996-98) e il Berlusconi II

(2001-05). Nel ventaglio di esecutivi utilizzato per la scelta non ho fatto entrare per ovvie ragioni il governo Dini

di metà anni Novanta e l’attuale governo Monti, entrambi tecnici. Ma non ho neppure preso in considerazione il

periodo della premiership berlusconiana 2008-2011. Questo per via delle particolarità coalizionali e dell’ambiente

negoziale di riferimento nel contesto dell’Italia post-1994 (D’Alimonte e Chiaramonte 2010).

Con i due gabinetti si hanno due esempi di coalizioni pre-elettorali con un leader indicato

anticipatamente (Prodi I e Berlusconi II) e una coalizione pre-elettorale con un leader che è anche capo partitico,

nello specifico del partito di maggioranza della coalizione (Berlusconi II). Come vedremo, anche il livello di

presenza dei leader partitici nella compagine ministeriale muta significativamente da un gabinetto all’altro,

raggiungendo quasi il grado massimo nel governo Berlusconi e quasi quello minimo nel Prodi.

22 Nel precisare cosa è una coalizione pre-elettorale seguo Golder (2006: 12), secondo cui «è una collezione di partiti che non

competono indipendentemente in un’elezione, perché si accordano pubblicamente per coordinare le loro campagne, presentano candidati o liste congiuntamente, o entrano nel governo insieme a seguito delle elezioni».

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In accordo con la tesi secondo cui un gabinetto durevole è indicatore del fatto che la «gestione del

conflitto ha funzionato sufficientemente bene da assicurar[n]e la sopravvivenza» (Miller e Müller 2010: 343), ho

scelto i due gabinetti più longevi del periodo 1994-2008 (tabella 3.1).

Tab. 3.1. I gabinetti italiani dal 1994 al 2008 e la loro durata.

Numero del gabinetto Gabinetto Entrata in carica

(data del giuramento) Dimissioni formali Giorni di durata

1 Berlusconi 10 maggio 1994 22 dicembre 1994 226 2 Dini 17 gennaio 1995 11 gennaio 1996 359 3 Prodi 18 maggio 1996 9 ottobre 1998 874 4 D’Alema 21 ottobre 1998 18 dicembre 1999 423 5 D’Alema II 22 dicembre 1999 19 aprile 2000 118 6 Amato II* 25 aprile 2000 31 maggio 2001 401 7 Berlusconi II 11 giugno 2001 20 aprile 2005 1409 8 Berlusconi III 23 aprile 2005 2 maggio 2006 374 9 Prodi II 17 maggio 2006 24 gennaio 2008 617

* Amato aveva già guidato un governo tra il 1992 e il 1993.

Essi sono anche gabinetti temporalmente vicini. Dal momento che la letteratura ha rilevato una certa

continuità nell’uso delle arene da un governo coalizionale a quello successivo (Andeweg e Timmermans 2008:

287-8), questo porta ad escludere che eventuali effetti sostanziali sulla gestione vadano attribuiti a mutamenti di

“abitudini” di medio-lungo periodo. Anche l’adozione di un (esauriente) accordo coalizionale potrebbe influire sulla

gestione, in direzione di una maggiore internalizzazione del processo (Andeweg e Timmermans 2008). Da questo

punto di vista, i due governi non differiscono, avendo entrambi stipulato un patto coalizionale antecedente alle

elezioni. Un’altra variabile che la focalizzazione sui due gabinetti permette di mantenere fissa è quella della

distanza tra i partiti circa le posizioni di policy. Si potrebbe supporre plausibilmente, anche sulla base delle

premesse di alcune teorie coalizionali (Leiserson 1966; Axelrod 1970 de Swaan 1973), che più questa aumenta e

più la gestione (dei conflitti di policy) diventa complessa – con ripercussioni sensibili sugli aspetti a cui siamo

interessati – perché più difficile è raggiungere un accordo. Le nostre due coalizioni mostrano diametri ideologici

somiglianti quanto ad ampiezza23.

A questo punto occorre aprire una parentesi e chiarire come definisco, in termini operativi, un partito.

Intendo per partito qualsiasi gruppo organizzato con una leadership più o meno formalizzata, che pone i propri

candidati ai seggi parlamentari in un’unica lista. Se, successivamente alle elezioni, due o più partiti costituiscono

un gruppo parlamentare (Fraktion) in almeno uno dei due rami del parlamento distinto dagli altri e avente una

denominazione specifica, allora essi saranno conteggiati come un singolo partito fintantoché esiste tale cartello24.

Al contrario, un partito può anche dare vita a scissioni da cui nascono due o più forze di tipo analogo.

23 Nonché connessione tra i partiti. Il diametro della coalizione del primo gabinetto Prodi è di 4 punti; quello del governo Berlusconi II di 4.5. La scala a cui faccio riferimento va da 1 (estrema sinistra) a 20 (estrema destra). La nozione di diametro ideologico utilizzata denota la distanza tra i partiti della stessa coalizione più lontani lungo un asse sinistra-destra definito in senso lato, a cui sono ricondotte le posizioni partitiche su diverse dimensioni salienti di policy. Riprendo la concettualizzazione dell’asse e i dati da Benoit e Laver (2006) Le rilevazioni sono state condotte tra il 2002 e il 2004, soprattutto nel 2003. Ai partner coalizionali che erano nel frattempo scomparsi ho associato il valore attribuito alle formazioni in cui erano confluiti: Margherita per Rinnovamento italiano (Prodi I); Unione dei democratici cristiani e di centro per Cristiani democratici uniti e Centro cristiano democratico (Berlusconi II). Per il quadro completo della composizione partitica delle due coalizioni si veda più avanti. Sulle distanze tra i partiti italiani dopo il 1994 in termini di posizione di policy, vedi anche Conti (2008).

24 I partiti che non riescono ad ottenere i voti o il numero di parlamentari sufficienti per formare un gruppo autonomo, possono costituire un sotto-gruppo, mantenendo la loro identità partitica, all’interno del gruppo misto, che raccoglie anche i parlamentari indipendenti. Considero tali forze politiche come partiti indipendenti.

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Il grado di pericolosità dei conflitti la cui gestione ho analizzato sarà mantenuto costante. Abbiamo

infatti visto che quest’ultimo fattore, che esula dalle variabili di nostro interesse, può avere un impatto importante

sulla gestione. Una prima scrematura porterà a concentrarsi solo sui conflitti interpartitici più pericolosi. In

secondo luogo, prenderò in considerazione, tra questi, solo i conflitti coalizionali di policy, che, secondo i dati in

letteratura (Müller e Strøm 2000c: 586), sono i conflitti interpartitici che più spesso portano alla caduta del

gabinetto. Varierà invece tra i casi il campo di policy, il quale – come già detto – non costituisce un elemento

rilevante nel dar forma al processo gestionale.

3.3. Il metodo

I conflitti sono stati individuati tramite la lettura della stampa quotidiana italiana. Il quotidiano di riferimento per

una preliminare collezione quantitativa delle informazioni è stato La Stampa, di cui sono stati consultati tutti i

numeri dell’edizione nazionale. Ciò che ha spinto a preferirlo rispetto ad altri quotidiani aventi analoghe

caratteristiche è il fatto che solo esso possiede un archivio dei numeri consultabile on line che copre per intero i

periodi di mio interesse25. Il che ha reso possibile il reperimento dei dati senza affidarsi a più o meno

approssimative ricerche per mezzo di parole chiave inserite nei motori di ricerca che gli archivi storici dei

maggiori quotidiani mettono a disposizione (cfr. Miller e Müller 2010). Piuttosto, si sono potute compiere

osservazioni dirette delle pagine stampate più velocemente di quanto non potesse essere fatto consultandole sul

cartaceo, mantenendo comunque un equivalente livello di accuratezza e di affidabilità.

Gli archi temporali su cui mi sono concentrato vanno dal giorno di entrata in carica del governo al

giorno delle sue dimissioni (tabella 3.1). Ho rivolto l’attenzione a tutte le azioni conflittuali inerenti ad eventi

conflittuali in cui si riscontra uno scambio diretto o indiretto, da parte di attori governativi e/o appartenenti ad

uno dei partiti al governo, di messaggi contenenti minacce di rottura della cooperazione ovvero di comunicazioni

e/o altre azioni rivelatrici di una sua effettiva rottura reciproca (escludendo però quelli specificamente legati a

questioni di politica locale)26.

Ho assunto che i conflitti più pericolosi siano anche, al di là della materia trattata, i più rilevanti per la

tenuta del gabinetto e che i conflitti ad alta rilevanza, gli unici che ho rilevato, sono quelli che La Stampa ha

riportato in prima pagina27. L’idea è che, quando riportati in prima pagina, i conflitti raggiungono un grado simile

di pericolosità. I conflitti che sono stati menzionati esclusivamente nelle pagine interne non sono stati rilevati.

Dall’osservazione degli articoli ho escluso gli editoriali e le “opinioni”. Si presti attenzione al fatto che ciò che ho

25 La medesima possibilità, ma risalendo solo fino al 1° maggio 1998, è data dall’archivio della sezione rassegna stampa della Camera dei Deputati consultabile all’indirizzo internet http://rassegna.camera.it.

26 Si può facilmente immaginare le difficoltà che si incontrano quando si tenti di distinguere empiricamente, sulla base delle informazioni contenute sulla stampa quotidiana, tra le situazioni in cui c’è un vero e proprio conflitto e quelle in cui si ha solo un’azione conflittuale da parte di un’unità contro un’altra. Per questo, forse a costo di una piccola – ma non rilevante – perdita di precisione analitica e di trascurabile “rumore” nei dati, ho registrato anche tutte le situazioni in cui un attore ha chiaramente dato vita ad un’azione conflittuale e il bersaglio (o i bersagli) non ha (o hanno) tenuto comportamenti esprimenti esplicite intenzioni di non confrontarsi sulla materia, assumendo che fossero inserite nel contesto di un evento conflittuale.

27 Non tutte le azioni conflittuali finiscono per essere riportate dai giornali, ma è altresì probabile che, qualora un conflitto sia rilevante, vi sia almeno un minimo di copertura mediatica dello stesso. Ovviamente può accadere che eventi eccezionali o molto importanti, ad esempio riguardanti la politica estera, possano “oscurare” temporaneamente le notizie di politica interna. Nondimeno, mi pare che questo modo di procedere possa essere una via proficua per ottenere un affresco dei maggiori conflitti intra-partitici e intra-coalizionali.

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rilevato non sono i singoli conflitti, ma i riferimenti quotidiani ad essi. Talvolta, quindi, più rilevazioni di

avvenimenti legati al medesimo conflitto sono state compiute.

Ho classificato i conflitti in due categorie: quella dei conflitti intra-partitici (tra frazioni, singoli esponenti,

tra questi e il partito, ecc.) e quella dei conflitti intra-coalizionali (in cui sono coinvolti membri di due o più partiti

della coalizione). Questi, a loro volta, sono stati ripartiti in i) conflitti interministeriali/personali, ossia,

operazionalmente, conflitti tra due o più ministri tecnici ovvero provenienti da almeno due partner coalizionali

che agiscono indipendentemente dal partito o tra un ministro tecnico e un partito o più partiti28, e ii) conflitti

interpartitici (i conflitti coalizionali secondo l’accezione datane), nei quali le unità del conflitto non sono i

ministri, bensì i partiti della coalizione29. Una distinzione tra conflitti interpartitici per le cariche30 e conflitti

interpartitici di policy (Vercesi 2012b) è stata compiuta. Per rendere completa la mappatura dei conflitti, ho

introdotto anche la categoria residuale conflitti sui rapporti coalizionali, i quali non sono conflitti circa alcuni

obiettivi partitici (Sjöblom 1968; Strøm 1990; Müller e Strøm 1999), ma piuttosto meta-conflitti sui possibili

modi di prevenirli e risolverli (figura 3.1).

Una volta delineato il quadro completo, sono passato a selezionare un conflitto interpartitico di policy per

gabinetto, prestando attenzione al fatto che ci fosse stata, secondo quanto desumibile dalle prime pagine, una

gestione e che questa fosse stata sufficientemente lunga da potermi fornire dati significativi. Ho inoltre prestato

attenzione al fatto che, dalle informazioni in mio possesso, il primo ministro risultasse attore partecipante31. Il

processo gestionale dei due conflitti è stato poi analizzato in profondità tramite un’analisi qualitativa (Mahoney

2007) a partire dalla lettura di tutti gli articoli ad esso dedicati dall’edizione nazionale del Corriere della Sera, il più

diffuso quotidiano italiano, anch’esso privo di legami partitici specifici.

Il tutto sulla base del framework esposto nel capitolo precedente. Il fuoco è perciò caduto principalmente

sulle azioni degli attori ivi citati e sulle arene utilizzate, distinte tra interne, miste ed esterne. Ne sono emerse

ricostruzioni storiche tra loro comparabili, che presento di seguito.

28 Ne fanno parte anche quei conflitti in cui un ministro è in contrasto con la linea generale del governo (diversi esempi tratti dalla realtà tedesca sono riportati in Fischer e Kaiser (2009: 35). Empiricamente, la linea di demarcazione tra i due tipi di conflitto non è sempre tracciabile con precisione, ma, dal punto di vista teorico, possiamo distinguere i conflitti personali da quelli ministeriali per via del fatto che in essi i ministri si confrontano per ragioni che perlopiù non rimandano a questioni di interesse dicasteriale. Sebbene alcuni tratti di un conflitto interpartitico fossero presenti, la cosiddetta “lite delle comari”, avutasi in Italia durante il gabinetto Spadolini (parlo di un solo governo Spadolini e non di due, come dovrei fare in base al conteggio convenzionale, perché considero come nuovi gabinetti solo quelli successivi a a) cambio di primo ministro; b) mutamento della composizione partitica; c) elezioni politiche. Cfr. Laver (2003)), è un tipico esempio di conflitto personale. Per un breve resoconto si veda Calandra (1996: 385-6).

29 Per ragioni pratiche, ho considerato come conflitti coalizionali anche quei conflitti in cui un partito si confronta con il primo ministro (se non è attaccato da almeno uno dei membri della coalizione) o con un ministro partitico sulla sua linea politica. La seconda scelta è giustificata dal fatto che, negli effetti, un mancato appoggio esplicito del partner (o, se è attraversato da divisioni, di parte di esso) a cui il ministro appartiene al partito in questione può essere visto come uno implicito alle posizioni del suo “delegato”. Si noti che, sulla stessa materia, vi può essere contemporaneamente conflitto coalizionale e conflitto intra-partitico.

30 Un conflitto di questo tipo può nascondere certamente un tentativo di influenza anche sulle politiche. Resta il fatto che l’oggetto su cui si concentrano le parti del conflitto è una carica e non una politica pubblica. Vi rientrano anche quei contrasti relativi alle nomine che spettano all’esecutivo per posizioni extra-governative, come può essere quella di presidente di una banca nazionale, di un vertice militare o della televisione pubblica.

31 Secondo Nousiainen (1993), i conflitti che vedono il primo ministro coinvolto sono anche più “seri” degli altri.

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Fig. 3.1. La costellazione dei conflitti nelle coalizioni di governo.

Coalizione ABC

Conflitti intra-coalizionali

Conflitti coalizionali (interpartitici)

Meta-conflitti procedurali Conflitti interministeriali/personali Office Policy

4. Conflitti, conflittualità e gestione dei conflitti nel gabinetto Prodi I

Economista, Romano Prodi è stato un primo ministro apartitico, senza una base di supporto specifica, vicino al

centro cattolico, in particolar modo al Partito popolare italiano. Una figura come quella di Prodi, esterna rispetto

al mondo della politica ma al contempo non estranea ad essa, possedeva le caratteristiche per essere un efficace

elemento unificatore del centro-sinistra italiano (Diamanti 2007: 737-8).

La coalizione pre-elettorale da lui guidata che si presentò alle elezioni del 21 aprile 1996 comprendeva

due partiti maggiori, il Partito democratico della sinistra (il più grande, divenuto Democratici di sinistra-Ds

all’inizio del 1998) e il Ppi, e una serie di partiti minori, tra cui il partito centrista da poco creato dal primo

ministro uscente Lamberto Dini Rinnovamento italiano e la Federazione dei Verdi. I quattro partiti formarono

anche la coalizione di governo, l’Ulivo32. Al contrario, Rifondazione comunista, sebbene facesse parte della

coalizione elettorale, scelse di rimanere fuori dal governo, fornendo, insieme al partito La Rete e alle due forze

territoriali Südtiroler Volkspartei (Svp) e Union Valdôtaine (Uv), solo un supporto esterno33.

L’Ulivo ottenne al Senato la maggioranza assoluta dei seggi parlamentari, mentre alla Camera dei

Deputati, per la sopravvivenza del gabinetto, risultarono fondamentali i voti di Rifondazione, che si vide così

32 Dal più grande al più piccolo dal punto di vista dei seggi parlamentari: Pds, Ppi, Ri, Verdi. 33 Piccole formazioni aderirono invece ai gruppi parlamentari (nella Camera dei Deputati) dei principali partiti della coalizione: Unione

democratica e Alleanza democratica (confluita nel 1997 in Unione democratica) in quello dei Popolari; Movimento dei comunisti unitari e Sinistra repubblicana in quello del Pds, con cui, assieme ad altre formazioni, diedero vita ai Ds; Socialisti italiani (fuoriusciti poco dopo l’inizio della legislatura e fusisi nel 1998 con ciò che rimaneva del vecchio Partito socialista democratico italiano nel Partito socialista), Partito repubblicano italiano e Patto Segni in quello di Rinnovamento italiano (tre deputati del Patto Segni si distaccano nel dicembre 1996, costituendo un sottogruppo all’interno di quello misto. Dato che la maggioranza, cioè cinque deputati, restano nel gruppo di Ri, ho però continuato a considerare il Patto Segni come parte del gruppo dei diniani anche per quanto concerne il periodo successivo). Tranne Unione democratica, che ha espresso un ministro ed un sottosegretario, tutte hanno ottenuto solo posti di ministro junior. Ricordo che, in base alla definizione di partito che ho dato nel capitolo precedente, nessuna può essere presa in considerazione come partito, se non i Socialisti una volta che ebbero creato il loro gruppo autonomo.

Partito A Partito B Partito C

Conflitti intra-partitici A

Conflitti intra-partitici B

Conflitti intra-partitici C

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garantito un costante e significativo potere di ricatto sull’intera compagine governativa. Il nuovo gabinetto entrò

in carica il 18 maggio e vi rimase fino al 9 ottobre 1998, giorno in cui il governo rassegnò le dimissioni a seguito

del ritiro del supporto proprio di Rifondazione e della sconfitta in un voto di fiducia parlamentare.

Per quanto riguarda la struttura del gabinetto, ne facevano parte, alla data del giuramento, ventun

ministri, di cui diciassette di provenienza partitica. Prodi (Presidenza del Consiglio); Carlo Azeglio Ciampi

(tesoro, bilancio e programmazione economica); Flick (grazia e giustizia) e Di Pietro34 (lavori pubblici e aree

urbane) costituivano il gruppo dei ministri tecnici. Nella spartizione dei portafogli, la parte del leone la giocò il

Pds con nove ministri, tra cui il vice presidente del Consiglio Walter Veltroni. Seguiva il Ppi con quattro ministri

(di cui uno, Antonio Maccanico, ministro per le poste e telecomunicazioni, era un esponente di Unione

democratica (supra, nota 33)). Tre dicasteri andarono a Rinnovamento italiano, mentre i Verdi ottennero quello

per l’ambiente.

Tra i leader dei membri coalizionali, solo uno, Lamberto Dini, optò per una entrata nel gabinetto, a

differenza di quanto fecero Massimo D’Alema (Pds/Ds), Gerardo Bianco (Ppi), Carlo Ripa di Meana (Verdi) e i

loro sostituti (Franco Marini per il Ppi dal gennaio 1997 e Luigi Manconi per la Federazione dei Verdi dal

novembre 1996)35.

4.2. Conflitti, conflittualità e coinvolgimento partitico

I primi dati a cui guardare per avere un quadro generale del carattere più o meno diffuso dei conflitti nel primo

gabinetto Prodi riguardano la frequenza con cui sono stati citati. Più precisamente, possiamo osservare il numero

di giorni in cui si è avuta almeno una citazione, compiendo la distinzione tra tipi di conflitto a cui esse si

riferiscono (tabella 4.1). Si rammenti che tutti i dati quantitativi che riporto sono tratti dalle sole prime pagine de

La Stampa.

Come ci si poteva aspettare, le azioni conflittuali inerenti ai conflitti interpartitici risultano essere le più

frequenti. In quasi il 15 percento dei giorni in cui il gabinetto è rimasto in vita si è avuta, da parte di uno o più

partiti, almeno un’azione conflittuale36 riportata in prima pagina rivolta verso uno o più partner coalizionali. A

distanza seguono i comportamenti legati ai conflitti intra-partitici, con 56 giorni, pari a poco più del 6 percento

della vita della coalizione, e, in ultima posizione, le azioni ricadenti nell’ambito dei conflitti

interministeriali/personali, con un’incidenza, in termini di giorni, di poco meno del 4 percento. Se scomponiamo

il dato relativo ai conflitti interpartitici, notiamo poi che, in linea con quanto detto in precedenza, i conflitti per le

politiche sono di gran lunga più pervasivi di qualsiasi altro conflitto coalizionale. Su 129 giorni con una citazione

di almeno un conflitto in cui le parti sono partiti politici, 98 rimandano a comportamenti che riguardano conflitti

di policy, contro i 19 legati ai conflitti per le cariche37 e alle sole 12 citazioni di conflitti per la gestione dei rapporti

34 Antonio Di Pietro si dimise il 14 novembre 1996 a seguito di accuse giudiziarie a suo carico che risultarono in seguito infondate. Venne sostituito da un altro tecnico, Paolo Costa.

35 Sottolineo che Antonio Maccanico, ministro per le poste e le telecomunicazioni, era leader di Unione democratica, la quale però, per i motivi citati nella nota 33 del presente capitolo, non può essere considerato membro coalizionale.

36 Rimando alla nota 26 per i motivi per cui parlo anche di azione conflittuale e non solo di conflitto. 37 E solo in uno di questi è citato un conflitto per le cariche in senso stretto, cioè per posti ministeriali: quello per la carica di ministro

per i lavori pubblici, successivo alle dimissioni di Antonio Di Pietro, riportato il 19 novembre 1996.

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coalizionali (meta-conflitti). Se guardiamo alle cifre totali, notiamo che i giorni in cui c’è almeno una citazione,

quale sia il tipo di conflitto a cui si riferisce, costituiscono circa un quarto dell’intera esistenza del gabinetto.

Tab. 4.1. Giorni con almeno una citazione e relativo tipo di conflitto (gabinetto Prodi I).

Conflitti

intra-partitici

Conflitti intra-coalizionali

Totale

Conflitti interministeriali/personali

Conflitti coalizionali

Conflitti

per cariche Conflitti di policy

Meta-conflitti

Numero di giorni

56(58) 34(35) 19(20) 98(101) 12(13) 219(227)*

Totale 117(121) Totale 129(134)

Percentuale di giorni

6.41 3.89 2.17 11.21 1.37 25.05

Totale 13.38 Totale 14.75

* Si noti che lo stesso giorno potrebbe essere toccato da più di una categoria. Note: la percentuale dei giorni è calcolata sui giorni totali di vita del gabinetto così come indicati nella tabella 3.1. Tra parentesi è indicato invece il numero totale di rilevazioni, nel caso in cui in alcuni giorni se ne abbiano avute più di una, essendo riportate azioni inerenti a conflitti diversi. Nel periodo considerato La Stampa non è uscita in edicola 20 volte. Inoltre, tre numeri non sono stati consultabili on line.

Questo dato, ma soprattutto la bassa frequenza dei meta-conflitti coalizionali potrebbero far pensare ad

una situazione di conflittualità relativamente limitata. Il dato è però viziato dalla particolare composizione della

maggioranza parlamentare da cui dipendeva il governo. Molti scontri avvennero infatti tra uno o più membri

coalizionali e Rifondazione comunista. Se quest’ultima fosse stata presente nel gabinetto – e quindi fosse stata

parte della coalizione secondo la mia definizione –, il numero di citazioni crescerebbe sensibilmente. Per ben 166

giorni, almeno una azione conflittuale da parte di Rifondazione contro un ministro o un esponente della

coalizione o viceversa è stata eseguita. Prendendo in considerazione tutte le citazioni in cui è implicata Rc, ne

troviamo 17438. «Su quasi ogni issue socioeconomica cruciale, Rifondazione sottolineò la sua posizione peculiare e

forzò il governo a negoziare con lei. La stabilità del governo fu garantita principalmente dalla capacità di Prodi di

mediare con Rifondazione» (Ignazi 1997: 423). Spesso, dunque, i partiti della coalizione si trovarono a

confliggere con essa, provenendo da sinistra la minaccia maggiore alla sopravvivenza dell’esecutivo, e non

stupisce che il governo cadde per via di un contrasto in materia di bilancio proprio con tale partito.

Tornando a focalizzarsi sulla coalizione, vale la pena di illustrare altre interessanti informazioni. Come

detto, i conflitti che ci interessano per la nostra analisi sono quelli interpartitici, e soprattutto quelli di policy. Un

rozzo indicatore dell’andamento della conflittualità (Andeweg 1993) – ossia dell’innalzamento ovvero della

diminuzione della “temperatura” dei rapporti interpartitici – della coalizione per quanto riguarda questo tipo

particolare di conflitto può essere ricavato misurando la quantità di rilevazioni in determinati periodi. Come

prima cosa, osserviamo la conflittualità annuale, così da scoprire quale è stato l’anno “peggiore” e quale il più

“tranquillo” per la coalizione. Siccome solo nel 1997 il gabinetto è rimasto in carica per tutti i dodici mesi, non è

possibile utilizzare il numero assoluto di citazioni. Ho calcolato perciò la percentuale di giorni (non di

38 Rilevazioni sono state compiute anche per quanto riguarda i Socialisti italiani (cinque volte) e La Rete (due volte).

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rilevazioni39) in un anno in cui sono citate una o più azioni conflittuali inerenti ai conflitti coalizionali per le

politiche rispetto ai giorni totali in cui il governo è rimasto in carica in quello stesso anno solare.

Successivamente, ho invece creato un indice di conflittualità mensile, questa volta conteggiando il numero

assoluto di giorni, per ogni mese, con almeno un’azione riportata in prima pagina. Fino a tre giorni, ho assunto

un livello di conflittualità mensile nullo/basso40, tra quattro e sei un livello medio, da sette in su un’alta

conflittualità. I risultati sono mostrati nelle figure 4.1 e 4.2.

Fig. 4.1. Tasso di conflittualità interpartitica annua in materia di policy nel gabinetto Prodi I.

Note: valori in percentuale.

Fig. 4.2. Andamento dell’indice di conflittualità mensile nel gabinetto Prodi I per la durata in carica.

Note: i dati di maggio ’96 e di ottobre ’98 sono rilevati nei soli giorni in cui il governo è in carica.

Il primo grafico ci mostra che è stato il 1996 l’anno in cui più spesso la coalizione si è trovata di fronte a

situazioni di conflittualità interna legata a questioni di policy, mentre il 1998 pare essere quello meno conflittuale

dal punto di vista del tempo impiegato a confrontarsi. Il risultato è in sintonia con quanto illustrato nella figura

4.2. Notiamo infatti che è solo nei primi due anni solari di vita del gabinetto che l’indice di conflittualità mensile

raggiunge più spesso un livello medio e arriva talvolta ad uno alto. Nel 1998, la conflittualità interna mensile della

coalizione tocca livelli di medietà solamente in tre casi (gennaio, febbraio e settembre), mentre si attesta, nei

rimanenti mesi, su un livello basso o nullo.

39 Si ricordi che, in ogni caso, lo scarto tra il numero di giorni con la citazione di almeno un’azione e il numero effettivo di rilevazioni è di soli tre punti, e quindi di poco conto.

40 Si potrebbe obiettare che in assenza di articoli si dovrebbe parlare solo di livello nullo. Si tenga a mente però che, in prima pagina, sono citati solo le azioni/i conflitti rilevanti. Nulla vieta che ve ne siano di “minori”, a cui si fa riferimento solo nelle pagine interne. Per questo motivo preferisco ricorrere alla dizione più generica “nullo/basso”.

13,16

10,969,93

0

2

4

6

8

10

12

14

1996 1997 1998

Tas

so d

i con

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nua

0123456789

mag

-96

giu-

96

lug-

96

ago-

96

set-

96

ott-

96

nov-

96

dic-

96

gen-

97

feb-

97

mar

-97

apr-

97

mag

-97

giu-

97

lug-

97

ago-

97

set-

97

ott-

97

nov-

97

dic-

97

gen-

98

feb-

98

mar

-98

apr-

98

mag

-98

giu-

98

lug-

98

ago-

98

set-

98

ott-

98

N. g

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i

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Questi dati possono però confondere se non si tiene conto dello status minoritario che la coalizione

deteneva alla Camera. Rifondazione comunista, sebbene non facente parte della coalizione in senso stretto, era

parte della coalizione parlamentare da cui dipendeva l’esecutivo. E, come abbiamo visto, ebbe costantemente un

atteggiamento di scontro nei confronti della coalizione. Si può quindi supporre che il tempo investito nella

gestione dei conflitti in materia di politiche (e non solo) tra partiti supportanti il governo sia stato, per i membri

della coalizione, sensibilmente maggiore rispetto a quanto si potrebbe evincere dall’osservazione dei due grafici.

Il grafico 4.3 mette a confronto l’andamento dell’indice mensile di conflittualità coalizionale della figura 4.2 con

un ipotetico indice analogo che riguarda le sole azioni di confronto tra uno o più partner della coalizione e

Rifondazione (considerata come fosse un quinto partner) inerenti alle sole questioni di policy. La congettura è

confermata.

Fig. 4.3. Confronto tra la conflittualità mensile della coalizione e la conflittualità mensile dei rapporti tra la coalizione di gabinetto e Rifondazione comunista.

Note: i dati di maggio ’96 e di ottobre ’98 sono rilevati nei soli giorni in cui il governo è in carica.

Il numero di giorni in cui su La Stampa è comparso in prima pagina almeno la citazione di una o più

azioni conflittuali da o verso Rifondazione comunista spesso supera il numero di giorni associato ai

comportamenti conflittuali della sola coalizione di gabinetto. E, mentre l’indice di conflittualità coalizionale tocca

il livello massimo solo in tre occasioni, quello coalizione-Rifondazione comunista lo fa per ben dieci volte!

Appare inoltre, da un’osservazione impressionistica, che i picchi di conflittualità tra uno o più partner coalizionali

e Rifondazione coincidano con dei punti bassi toccati dalla conflittualità interna alla coalizione, quasi ad indicare

che, nel momento in cui la situazione, nei rapporti con la forza esterna da cui dipendeva la sopravvivenza del

gabinetto, diveniva più “calda”, la coalizione si compattava per gestire il problema, per poi confliggere quando

perdeva di pericolosità l’agire di Rifondazione.

Rimanendo ai conflitti di policy e volendo conoscere qualcosa in più circa il coinvolgimento dei singoli

membri della coalizione, è possibile calcolare il numero di volte in cui un’azione conflittuale o uno scambio di

azioni conflittuali sono associati esplicitamente al nome di un partito della coalizione o ad un suo esponente

esprimente la posizione del partito o di una parte di esso (figura 4.4).

Il Pds/Ds è il partito più coinvolto con 73 citazioni, seguito dal Partito popolare con 53. A una distanza

quasi pari a quella che divide Pds/Ds e Ppi troviamo i Verdi e Rinnovamento italiano, posizionati

02468

10121416

mag

-96

giu-

96

lug-

96

ago-

96

set-

96

ott-

96

nov-

96

dic-

96

gen-

97

feb-

97

mar

-97

apr-

97

mag

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giu-

97

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97

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97

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97

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98

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98

mar

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98

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98

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98

ott-

98

N. g

iorn

i

Conflittualità coalizione Conflittualità coalizione-Rc

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sostanzialmente alla pari, con uno scarto di solo una citazione. La spiegazione di queste differenze potrebbe

risiedere nel ruolo dei quattro partiti all’interno della coalizione. I due partiti maggiori sarebbero anche quelli che

più confliggono su questioni rilevanti o che comunque lo fanno giocando la parte principale e venendosi così

citati, più degli altri due, sulle prime pagine del quotidiano. La chiara predominanza del risultato del Pds/Ds

potrebbe essere indicatrice di una centralità nelle interazioni interpartitiche in genere e, nel caso specifico, in

quelle conflittuali41. L’importanza del partito per gli equilibri coalizionali parrebbe confermata anche dalla

copertura che La Stampa ha dedicato ai confronti interni. Delle 57 rilevazioni legate ai conflitti intra-partitici, 44

denotano una divisione nel Pds/Ds42.

Fig. 4.4. Grado di coinvolgimento diretto dei partiti della coalizione nei conflitti di policy.

Concludo la panoramica sul tema dei conflitti e della conflittualità nella coalizione guidata da Prodi con

un resoconto dei campi di policy a cui si riferiscono tutte le rilevazioni. In questo modo, possiamo capire quali

sono i temi su cui i membri coalizionali si sono trovati più spesso a confliggere e, molto probabilmente, a

negoziare nell’ambito dei processi di gestione del conflitto interpartitico. Al proposito ho raggruppato le issues in

nove categorie tematiche (Tebaldi 2005: 273-4): a) politica delle istituzioni (tranne quelle giudiziarie. Rientrano

anche partiti, regole elettorali, rapporti tra coalizione e forze partitiche esterne); b) politica estera (anche rapporti

con il Vaticano e Unione europea); c) stato sociale (anche scuola e università); d) giustizia; e) difesa e ordine

pubblico; f) economia; g) territorio e trasporti; h) diritti civili (temi etici e promozione ovvero non estensione di

diritti civili a minoranze, gruppi particolari e fette della popolazione); i) attività culturali (anche sport). Le issues

che non rientrano in nessuna di queste categorie sono state inserite in quella residuale “altro” (tabella 4.2).

Tab. 4.2. Numero di rilevazioni concernenti comportamenti conflittuali riguardanti conflitti coalizionali per le politiche per settore di policy. Campo di

policy Politica

istituzioni Politica estera

Stato sociale

Giustizia Difesa e ordine

pubblico Economia

Territorio e

trasporti

Diritti civili

Attività culturali

Altro

N.

rilevazioni 38 6 10 19 / 17 4 / 4 3

41 I numeri relativi agli altri tipi di conflitto interpartitico sono troppo modesti per confermare in modo significativo quanto detto, ma, in ogni caso, va detto che anch’essi sembrano ricalcare, almeno in parte, la tendenza. Se guardiamo ai conflitti per le cariche, vediamo che il Pds/Ds mantiene il primo posto con 18 citazioni. Il Ppi scende però al terzo con 9 citazioni, preceduto dai Verdi con 10 e seguito da Ri con 4. Per quanto concerne i meta-conflitti coalizionali, Pds/Ds e Ppi sono quasi appaiati, il primo con 7 citazioni e il secondo con 6. Le citazioni che riguardano Ri sono 3; una sola quella dei Verdi.

42 Undici rimandano a Rinnovamento italiano, due al Ppi e solo una ai Verdi.

73

53

28 27

01020304050607080

Pds/Ds Ppi Verdi Ri

Gra

do d

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nvol

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ento

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La categoria che chiaramente spicca è “politica delle istituzioni”, mentre “giustizia” si posiziona al

secondo posto con l’esatta metà delle rilevazioni, con solo due punti in più di “economia”. Tutti gli altri temi

mostrano risultati di scarso rilievo, con un numero di citazioni al di sotto di 10, ad eccezione di “stato sociale”,

che raggiunge a malapena la soglia. La maggior frequenza delle interazioni conflittuali legate al campo alle

istituzioni può essere facilmente spiegata dall’attenzione particolare che venne data dalla politica italiana durante

gli anni del governo Prodi alla problematica della riforma delle istituzioni, che ebbe come risultato l’istituzione

della commissione Bicamerale per le riforme presieduta da Massimo D’Alema e di cui facevano parte anche

esponenti di partiti all’opposizione43. Allo stesso modo, si giustifica il fuoco sulla tematica della giustizia, altro

settore per cui ci si impegnò per una riforma all’interno della commissione44. Il terzo posto dell’economia non fa

che ribadire invece l’importanza intrinseca che possiede questa dimensione di policy per ogni governo (Curini

2011). Si rammenti poi al proposito la ricorrenza di azioni scontrose (e delle risposte) da parte di Rifondazione

comunista – un partito certo fuori dalla coalizione, ma comunque nella sua orbita – in tema di economia e

politica sociale a cui si è fatto cenno, le quali, se conteggiate, potrebbero far lievitare in maniera significativa i

dati.

Su questioni socioeconomiche si è concentrato un importante conflitto coalizionale occorso nel primo

anno di vita del gabinetto Prodi I, e più precisamente nel corso della preparazione della legge Finanziaria per il

1997.

4.2. La gestione dei conflitti coalizionali: il caso dell’intervento sulla spesa sociale (Finanziaria per il 1997)45

La preparazione della prima legge Finanziaria del governo Prodi fu tutt’altro che agevole per i partiti della

coalizione. Aspri contrasti in merito sorsero, andando ad aggiungersi a quelli con Rifondazione comunista.

L’oggetto del contendere fu un possibile intervento sulla spesa sociale, e più precisamente sui sistemi

pensionistico e sanitario; in quest’ultimo caso, derivarono dall’ipotesi di introdurre una normativa che avrebbe

previsto il pagamento di una somma (ticket) per le prestazioni sanitarie pubbliche. Le proposte rientravano nel

più ampio disegno di manovra finanziaria (De Giorgi e Verzichelli 2008) che il governo stava preparando per

permettere all’Italia di rispettare i parametri economici46 che il trattato europeo di Maastricht aveva indicato come

vincolanti per l’ingresso nel gruppo di paesi che avrebbero adottato l’Euro come moneta corrente47.

All’inizio del settembre 1996, la preparazione della Finanziaria era in atto. La delegazione che vi stava

lavorando alla Presidenza del Consiglio comprendeva, oltre ai membri del governo Ciampi; Micheli

(sottosegretario alla Presidenza del Ppi); Visco (ministro delle finanze del Pds) e Giarda (sottosegretario al tesoro

43 Un’aspra critica agli outputs della commissione è in Pasquino (1997). 44 Per un’agile rassegna delle issues di maggiore rilevanza per la politica italiana negli anni del primo gabinetto Prodi si veda Italy, di

Piero Ignazi, nei numeri del Political Data Yearbook dedicati del 1997, 1998 e 1999 nonché i volumi collettanei usciti negli stessi anni di Politica in Italia. I fatti dell’anno e le interpretazioni, editi da Il Mulino.

45 Il recupero delle informazioni è avvenuto leggendo le copie cartacee dei numeri del Corriere della Sera che vanno dal 1° settembre 1996 al 15 ottobre 1996.

46 È possibile trovare una loro specificazione all’Articolo 140 di Unione europea (2008). 47 Un obiettivo che sarà alla fine raggiunto dal gabinetto Prodi.

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tecnico), anche il ragioniere generale dello Stato Andrea Monorchio, un civil servant48. Il giorno 3 settembre, per

discutere dei tagli da apportare in campo economico, ci furono incontri a Palazzo Chigi, a cui partecipò anche il

ministro per il lavoro e la previdenza sociale Treu (Ri). Quest’ultimo si disse fermamente contrario a politiche di

contrazione dello stato sociale nel settore sanitario e in materia pensionistica, opponendosi a una revisione delle

pensioni di anzianità49. Chiedeva al contrario maggiore disponibilità di risorse, proponendo di aumentare il valore

della manovra o vendendo alcuni immobili pubblici. Forti opposizioni provenivano anche dal ministro per la

sanità Rosi Bindi (Ppi). Contrarietà e perplessità erano espresse poi dal collega di partito di Treu nonché

capogruppo al Senato Ottaviano Del Turco (ex segretario aggiunto del sindacato di sinistra Confederazione

generale italiana del lavoro-Cgil) e da membri del primo partito di maggioranza, come il sottosegretario al tesoro

Laura Pennacchi e la deputata Buffo. L’intenzione di Prodi e di Ciampi era quella di evitare scontri sui tagli.

Due giorni dopo, la palla passò più chiaramente ai partiti in occasione di una cena che vide la

partecipazione di tutti i leader della coalizione, durante la quale si parlò della Finanziaria, ma anche del tema

correlato dei rapporti con Rifondazione comunista. La linea propugnata dal presidente del Consiglio, che poi

venne accettata come linea della coalizione, fu quella del coinvolgimento del partito comunista nel processo

decisionale riguardante la manovra.

Nel frattempo, il leader di Rifondazione Fausto Bertinotti non stava a guardare e chiese a Prodi di

convocare un vertice di maggioranza (Criscitiello 1993, 1996) in cui fosse anch’egli presente. Il primo ministro –

secondo cui solo i singoli capitoli della manovra potevano essere cambiati, ma non i dati quantitativi50 – si disse

pronto. L’apertura di Prodi non piacque al Pds, che, seppur concorde sull’opportunità di coinvolgere il partito

comunista nella presa delle decisioni, escluse, per bocca del capogruppo alla Camera Mussi, l’eventualità di vertici

di maggioranza appositi, sostenendo la sufficienza a tal proposito degli incontri dei capigruppo, come quello

tenutosi il 9 settembre a Palazzo Chigi. Nello stesso giorno e nella stessa sede, un incontro misto governo-

Rifondazione, definito «utile […], ma interlocutorio»51 da Bertinotti, aveva visto riunirsi quest’ultimo, Prodi,

Micheli, Ciampi e Veltroni. Il leader di Rifondazione, categoricamente contrario a qualsiasi ipotesi di taglio della

spesa sociale e ai ticket, attribuì alla Finanziaria il 50% percento delle possibilità di essere approvata e dichiarò

pubblicamente, dopo aver escluso l’eventualità di ultimatum da parte del suo partito al governo, che non vi era

alcuna garanzia per la tenuta di quest’ultimo. Di lì a poco, lo scontro con Rifondazione era destinato ad assumere

caratteri di radicalità, andando ad aggiungersi ai conflitti interni alla coalizione che stavano per inasprirsi. Un

segnale fu la ferma richiesta indirizzata a Prodi da Diego Masi, capogruppo alla Camera per Rinnovamento

italiano, di porre da subito fine alle consultazioni con il partito di Bertinotti sulle singole decisioni e di impegnarsi

piuttosto in un negoziato sul programma complessivo.

A dispetto delle resistenze, la linea del vertice di maggioranza passò e si decise di convocarne uno

qualche giorno prima del Consiglio dei ministri da cui sarebbe dovuto uscire il pacchetto da presentare in

48 Nominato dal governo su proposta del ministro economico. La ragioneria generale dello Stato è un organo centrale di supporto e di verifica per il parlamento e il governo nelle fasi di policy-making. I suoi obiettivi principali sono la programmazione e il controllo della gestione delle risorse pubbliche.

49 Pensioni concesse sulla base del raggiungimento di una certa età anagrafica. 50 Il 7 settembre, in risposta al governatore della Banca d’Italia Fazio, Prodi aveva sottolineato che il governo non aveva intenzione di

agire come “partito della spesa”, bensì del risanamento. 51 Corriere della Sera, 10 settembre 1996, p. 7.

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parlamento52. Altri segnali distensivi verso gli oppositori della riduzione della spesa sociale provennero da una

frenata su pensioni e tagli del sottosegretario Micheli. Sul fronte degli incontri “tecnici”, il 10 settembre Prodi e

Ciampi si riunirono con i ministri Di Pietro, Bersani (industria, commercio, artigianato e turismo, Pds) e Ronchi

(ambiente, Verdi). Alle mosse concilianti del governo verso Rifondazione corrispose un contemporaneo

irrigidimento di Rinnovamento italiano. In risposta ad un’intervista in cui il ministro Visco presentava proposte

di misure fiscali, Masi dichiarò che non era la riforma del fisco ciò che ci si poteva aspettare e che, in tema di

Finanziaria, il partito non avrebbe potuto sopportare eventuali temute concessioni a Rifondazione.

In questo clima conflittuale, il primo ministro fissò e chiarì alcuni punti relativi alla manovra durante

l’annuale Fiera del Levante di Bari, in un contesto ad alta copertura mediatica. Prodi sottolineò la non intenzione

di intervenire sulle pensioni e di mettere a rischio la sanità pubblica, anche a fronte della necessità di redigere una

Finanziaria implicante alcuni sacrifici per i cittadini53. Il 18 settembre Prodi rettificò parzialmente quanto detto

alla Fiera pugliese, parlando, nel corso di un incontro con i capigruppo di maggioranza, della possibilità di un

intervento forte sulle pensioni. Secondo il presidente del Consiglio, il pericolo era quello di giocarsi l’entrata

nell’Unione monetaria europea, un timore condiviso da Ciampi, che, successivamente ad un invito del Fondo

monetario internazionale verso un risanamento dei conti pubblici, continuava ad impegnarsi per elaborare nuove

misure che potessero raggiungere gli obiettivi prefissati.

Nel frattempo, il quadro del conflitto si era ormai delineato abbastanza chiaramente: da un lato la linea

della Ragioneria generale dello Stato e del tesoro (anche del sottosegretario Giarda), che propugnava un agire che

riguardasse soprattutto le pensioni (e la sanità); dall’altra la linea meno rigorista enfatizzata da Verdi (e Rc) e

seguita dal Pds, dal Ppi (in particolare da Rosi Bindi) nonché da Treu, esponente del partito della coalizione che

forse più di tutti era disposto a seguire le indicazioni di Ciampi e la sua fermezza nel voler forzare i veti che

provenivano dalla sinistra partitica e dai sindacati.

La situazione di stallo che si era venuta a creare spinse D’Alema ad intervenire per cercare prima di tutto

una mediazione con Rifondazione: il 19 settembre, il leader del primo partito della coalizione incontrò a questo

proposito Bertinotti, trovandosi però di fronte alla chiusura di qualsiasi spiraglio di cooperazione in materia di

tagli. Nello stesso giorno, intanto, il governo, nelle persone di Prodi, Veltroni, Ciampi e Visco, si incontrò a

Palazzo Chigi per un pranzo di lavoro. Il primo ministro ebbe un faccia a faccia anche con una delegazione del

Ppi, durante la quale si sfogò, alludendo alla necessità di una maggiore flessibilità nelle richieste partitiche. La

riunione con i segretari di partito era ora prevista per il 23 settembre.

Nella serata del 20 settembre, Prodi si incontrò, alla presenza dei ministri economici, con i capigruppo

del Pds (Mussi e Salvi). L’incontro avvenne sul finire di una giornata alquanto tumultuosa per il governo. Il

premier ricercava costantemente il compromesso, ma, a dispetto dei suoi tentativi di ricucitura, il conflitto

continuava ad espandersi e a provocare non solo fratture intra-coalizionali, ma anche intra-partitiche. I Verdi si

erano nettamente schierati con Rifondazione; nel Pds e nel Ppi voci dissidenti favorevoli al rigore provenivano,

rispettivamente, dal vice primo ministro e dal ministro per la difesa Beniamino Andreatta. Pronto a fare da

52 Il governo italiano è tenuto a trasmettere alle camere la legge Finanziaria entro il 30 settembre di ogni anno. 53 Suscitando sentimenti di scetticismo tra le file di Confindustria, la maggiore rappresentanza del mondo industriale italiano.

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arbitro tra le diverse richieste, il premier era però fermo su un punto: il non poter «tollerare di essere il presidente

del Consiglio che non porta l’Italia nel club europeo»54. La sua costante opera di mediazione andava di pari passo

con quella di D’Alema.

L’atteso vertice ci fu, ma, dopo tre ore di riunione, i partecipanti dovettero ammetterne il fallimento. I

veti posti da Bertinotti e dai Verdi non vennero ritirati55. Oltre che dal premier e da Ciampi, il governo fu

rappresentato alla riunione dal vice premier, da Maccanico, Visco e dai sottosegretari alla Presidenza Micheli e

Parisi (tecnico). Al loro fianco e contro l’agire oltranzista di Rifondazione e Verdi si schierarono D’Alema,

Bianco e il rappresentante di Ri all’incontro, il ministro Fantozzi. Durante la riunione, i tentativi maggiori di

mediazione furono compiuti ancora una volta dal primo ministro e dal leader del Pds.

Il 24 settembre fu dunque il giorno delle valutazioni del fallimento del vertice nell’attesa di quello

previsto il giorno dopo, ultimo prima del full cabinet del 27 settembre da cui sarebbe dovuta uscire la Finanziaria.

D’Alema ostentò ottimismo per il giorno successivo. Rifondazione, insieme ai Verdi, ribadì la sua contrarietà alla

contrazione dello stato sociale, avanzando allo stesso tempo la proposta di tagliare le spese previste per la

costruzione delle linee ferroviarie ad alta velocità, alla quale si aggiunse quella del partito ecologista di agire in

modo analogo nel campo della difesa.

Forse allo scopo di evitare un secondo fallimento e dinnanzi all’insufficienza di risultati soddisfacenti, i

partiti decisero di rinviare il vertice di 24 ore. Esso fu dunque calendarizzato il giorno immediatamente

antecedente al Consiglio dei ministri. Il tempo stringeva e il conflitto non si placava56. Si arrivò al vertice decisivo

con Rc, i Verdi e la parte del gruppo parlamentare del Pds facente capo ai Comunisti unitari fermi

categoricamente su una posizione anti-tagli in materia di sanità e pensioni e alcuni altri esponenti del primo

partito della coalizione e del Ppi con un atteggiamento più morbido, ma comunque contrario a qualsiasi grosso

intervento in questa direzione.

Il 26 settembre, dopo una lunga trattativa protrattasi fino a tarda notte al Ministero del tesoro, l’accordo

venne trovato. Il vertice non vide la presenza dei rappresentanti di tutti i partiti in un unico consesso, bensì una

sua suddivisione in due tempi. Dapprima si ebbe la riunione con i leader dei membri coalizionali e solo in un

secondo tempo un incontro tra il presidente del Consiglio e il presidente e il segretario di Rifondazione, Cossutta

e Bertinotti. A quel punto, la natura del pacchetto finale dipendeva in buona parte dalle mosse di Prodi.

L’indirizzo fu quello comunque voluto da Rc e dai Verdi: i tagli previsti nel campo della sanità e delle pensioni

vennero ridimensionati fino quasi a scomparire57 e il peso della manovra si spostò sul lato delle entrate. Il primo

ministro si disse soddisfatto del risultato. Nella coalizione, lo stesso venne fatto ovviamente dai Verdi, ma anche

dai due principali partiti, i leader dei quali parlarono di compromesso tra Europa e supporto parlamentare.

Rinnovamento italiano accettò la soluzione, ma, dalle sue fila, provennero voci poco entusiaste. Secondo Masi, si

54 Corriere della Sera, 22 settembre 1996, p. 1. Significativo il fatto che Prodi pronunciò tale frase partecipando ad un incontro pubblico squisitamente partitico, ossia la Festa dell’Amicizia organizzata dal Partito popolare.

55 Anche i Comunisti unitari, facenti parte del gruppo parlamentare del Pds, appoggiavano i due partiti. 56 Il 24 settembre Prodi incontrò il presidente di Rifondazione comunista Armando Cossutta, il quale avvertì il primo ministro dello

stretto spazio di manovra, ribadendo l’intenzione del partito di non cedere sulla questione pensioni. 57 Si stabilì di prendere le ultime decisioni dopo un incontro previsto per il 28 settembre in mattinata con i sindacati.

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era concessa una vittoria a Bertinotti – e di questo se ne amareggiava58. Ma Fantozzi, sebbene non fosse del tutto

convinto della bontà di quanto deciso, replicò affermando che negli effetti nessuno poteva dirsi vincitore, se non

l’obiettivo europeo.

A questo punto apro una parentesi. Ovviamente, i tipi di conclusione del conflitto indicati dal framework

teorico esposto mostrano tratti tipico-ideali (Weber 2003b), e dunque, se misurati secondo i loro caratteri, i casi

empirici possono presentare caratteri di ambiguità. Nel nostro caso, comunque, possiamo affermare che l’esito a

cui più si avvicinò il conflitto è effettivamente quello della vittoria. Il confronto non portò infatti né alla rottura

del rapporto coalizionale né ad un congelamento della decisione, bensì ad una risoluzione in cui una parte – qui i

Verdi59, il più piccolo dei partner coalizionali – ottenne in gran parte ciò a cui mirava fin dall’inizio della relazione

conflittuale (la non contrazione della spesa sociale) e altri – Rinnovamento italiano – non ebbero nessun

guadagno compensativo significativo. Pds e Ppi, che erano oscillati tra l’appoggio esplicito ad alcuni alleati e il

tentativo continuo di mediazione (soprattutto il Pds) accettarono l’accordo. La parte sconfitta vide nella

decisione l’unica alternativa praticabile in quel momento per evitare il venir meno della coalizione, e preferì la

prima alla seconda60.

Il passo finale da compiere prima della presentazione della Finanziaria 1997 in assemblea rimaneva

l’approvazione in Consiglio dei ministri, che avvenne, secondo le previsioni, venerdì 27 settembre 1996. I lavori

del full cabinet si protrassero dalle ore 11 alle ore 21 e furono interrotti alle ore 19 per la conferenza stampa in cui

ci fu l’annuncio ufficiale del governo. Ciampi si disse «orgoglioso»61 del risultato; «[l]a manovra [, secondo Prodi,]

porta[va] l’Italia in Europa, [… era] equa e la maggioranza [… era] compatta»62, opinione, quest’ultima, condivisa

anche da Walter Veltroni63.

5. Conflitti, conflittualità e gestione dei conflitti nel gabinetto Berlusconi II

In modo simile a quanto avvenne nel 1996, i partiti che diedero vita al governo guidato da Berlusconi tra il 2001

e il 2005 si presentarono alle elezioni politiche del 13 maggio 2001 come membri di una coalizione pre-elettorale

(di centro-destra). Guidata da Berlusconi era stata denominata Casa delle libertà (Cdl). Di questa, facevano parte

Forza Italia, un chiaro esempio di partito personale (Calise 2000); la post-fascista Alleanza nazionale; il centrista

Biancofiore, Unione dei democratici cristiani di centro (Udc)64 dal 2002; Lega Nord, un partito regionalista posto

58 Masi, insieme ad altri due membri del gruppo di Rinnovamento italiano, non accettò l’esito del conflitto e lasciò il gruppo dei diniani (supra, nota 33).

59 Per inciso, i Verdi erano l’unico partner coalizionale a non aver ratificato l’accordo coalizionale per via di alcune perplessità circa le proposte in materia di politica ambientale in cui erano espressi gli obiettivi in materia di risanamento di finanza pubblica. Non ratificarono anche Patto Segni e Socialisti italiani, non concordando sulle proposte di riforme istituzionali (Moury 2011).

60 Significativo fu l’invito del Pds, in risposta alle polemiche di Ri, ad accettare l’indispensabilità dei voti parlamentari di Rifondazione comunista. In ogni caso, come evidenziato, l’unità/le unità perdenti potrebbero percepire di poter ottenere comunque vantaggi nel futuro. Potrebbe essere letta con questa lente la dichiarazione di Gerardo Bianco, secondo cui «il segretario di Rifondazione comunista vince come Pirro…». Corriere della Sera, 27 settembre 1996, p. 9.

61 Corriere della Sera, 27 settembre 1996, p. 3. 62 Corriere della Sera, 27 settembre 1996, p. 1. Due giorni dopo, alla Festa dell’Unità di Pisa, Prodi aggiungerà «dentro [alla Finanziaria]

c’è la mia anima». Corriere della Sera, 30 settembre 1996, p. 4. 63 Accenno ancora soltanto al fatto che l’approvazione della manovra in parlamento non avvenne senza che nuove questioni di merito

fossero sollevate. 64 Vi confluì, oltre ai partiti già uniti sotto l’etichetta Biancofiore Centro cristiano democratico e Cristiani democratici uniti,

Democrazia europea, una piccola formazione nata nel 2001 e presentatasi al di fuori sia della coalizione di centro-destra sia di quella di centro-sinistra alle elezioni del 2001.

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lungo il cleavage (Lipset e Rokkan 1967) centro-periferia; e il piccolo Nuovo partito socialista italiano. Alleato

elettorale, ma non componente della Cdl, l’altrettanto minuscolo Partito repubblicano italiano. Solo i primi

quattro entrarono a far parte della coalizione di governo65, alla quale i risultati elettorali consegnarono ampie

maggioranze sia alla Camera che al Senato. Il primo partito della coalizione risultò essere Forza Italia, forte di più

del 60 percento dei seggi coalizionali. An confermò il suo ruolo di secondo partito del centro-destra; staccati, il

Biancofiore e, in ultima posizione, la Lega Nord. Quest’ultima riuscì, durante gli anni di governo, a compensare

la sua scarsa rilevanza in termini di seggi controllati con la speciale relazione che la legava all’influente ministro

dell’economia Giulio Tremonti66 (di Fi), fatto che ha portato Diamanti e Lello a sostenere che i pilastri su cui

poggiò il gabinetto Berlusconi II furono principalmente i) la posizione predominante di Fi, che agì, simboleggiata

dalla leadership berlusconiana, da “centro di gravità” per la coalizione e da collante tra i partiti e ii) il cosiddetto

“asse del Nord” tra il primo ministro e la Lega (Diamanti e Lello 2005).

Come già illustrato, il gabinetto rimase in carica per quasi 1500 giorni (dall’11 giugno 2001 al 20 aprile

2005), divenendo ed essendo tuttora il più longevo della storia repubblicana. La sua conclusione avvenne in

modo relativamente poco traumatico, tramite un rimpasto ministeriale che portò nella compagine ministeriale

anche il Npsi e il Pri e diede vita al terzo esecutivo Berlusconi67, rimasto in carica fino a fine legislatura (2006).

Nel giugno 2001 questa era composta da venticinque ministri, venti partitici e cinque tecnici. Tra i primi,

dieci provenivano da Forza Italia, cinque da Alleanza nazionale, tre dalla Lega Nord e due dal Biancofiore. Ma

questa volta la presenza dei leader partitici fu molto più marcata. Esattamente in maniera opposta rispetto a

quanto avvenne per il primo gabinetto Prodi, solo un leader, Follini del Biancofiore68, scelse di rimanere fuori dal

governo, sebbene poi ne divenne parte nel dicembre 2004 come vice presidente del Consiglio69. Tale carica fu

invece affidata da subito a Fini (An) (anche ministro degli esteri dal novembre 2004), mentre Bossi divenne

ministro per le riforme istituzionali e devoluzione (carica lasciata al collega di partito Calderoli nel luglio 2004 per

motivi di salute e per un seggio al Parlamento europeo ottenuto alle elezioni europee di giugno 2004).

Vediamo ora come si è espressa la conflittualità interna alla coalizione.

5.2. Conflitti, conflittualità e coinvolgimento partitico

Come ho fatto nel capitolo precedente, parto dall’osservazione dei dati relativi ai giorni in cui le prime pagine de

La Stampa hanno citato almeno un’azione conflittuale/conflitto entro uno dei membri coalizionali o tra di essi

(tabella 5.1).

Prevedibilmente, risulta che gli accadimenti conflittuali più importanti sono il più delle volte quelli che

vedono agire i partiti come unità del conflitto. Se paragoniamo i risultati a quelli inerenti al governo di centro-

65 Npsi ottenne solo due cariche di ministro junior, Pri una. 66 Tremonti lasciò il gabinetto nel 2004 a seguito di un conflitto con il leader di An Gianfranco Fini (supportato da quello dell’Udc

Marco Follini) in merito alla politica economica da egli promossa. Il primo ministro chiese a Tremonti di rassegnare le dimissioni e, successivamente, conferì l’incarico all’allora direttore generale del Ministero del tesoro, il tecnico Domenico Siniscalco.

67 Tale rimpasto fu conseguenza di uno scontro tra An e Udc da un lato e Fi e Lega Nord dall’altro a proposito dell’eccessiva, a dire dei primi due partiti, influenza che la Lega aveva nella coalizione e della necessità di un segnale di discontinuità.

68 Il leader del cartello centrista formato da Ccd e Cdu durante la campagna elettorale era stato Pierferdinando Casini. All’indomani della vittoria del centro-destra, però, quest’ultimo divenne presidente della Camera dei Deputati e il suo posto venne preso appunto da Follini, il quale rimarrà leader anche al momento della nascita dell’Udc (cfr. supra, nota 64).

69 Berlusconi riuscì a convincere Follini solo dopo diversi inviti, allo scopo di limitare le continue critiche che il leader dell’Udc rivolgeva al gabinetto.

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sinistra, emerge che la percentuale di giorni sul totale della vita del gabinetto in cui qualche agire conflittuale è

inserito nel contesto di un conflitto interpartitico è maggiore sia in termini assoluti (25.05 percento contro 14.75

percento) sia in termini relativi rispetto alle percentuali rientranti nelle categorie dei conflitti intra-partitici e

interministeriali/personali. Queste sono minori in entrambe nel caso della coalizione di centro-destra, il cui fuoco

delle relazioni conflittuali è dunque, paragonato a quello dello schieramento guidato da Prodi, ancor più

indirizzato sui conflitti coalizionali. Tra questi, i più presenti sono ancora una volta quelli di policy, sempre seguiti,

rispettivamente, da quelli per le cariche70 e dai meta-conflitti sulla gestione della coalizione. In generale, la

coalizione guidata da Berlusconi risulta leggermente più conflittuale di quella al governo tra il 1996 e il 1998, un

dato, però, che non tiene conto dei frequenti confronti tra quest’ultima e Rifondazione comunista di cui si è

parlato.

Tab. 5.1. Giorni con almeno una citazione e relativo tipo di conflitto (gabinetto Berlusconi II).

Conflitti

intra-partitici

Conflitti intra-coalizionali

Totale

Conflitti interministeriali/personali

Conflitti coalizionali

Conflitti

per cariche Conflitti di policy

Meta-conflitti

Numero di giorni

52(60) 21(24) 50(51) 261(291) 42(45) 426(471)*

Totale 311(342) Totale 353(387)

Percentuale di giorni

3.69 1.49 3.55 18.52 2.98 30.23

Totale 22.07 Totale 25.05

* Si noti che lo stesso giorno potrebbe essere toccato da più di una categoria Note: la percentuale dei giorni è calcolata sui giorni totali di vita del gabinetto così come indicati nella tabella 3.1. Tra parentesi è indicato invece il numero totale di rilevazioni, nel caso in cui in alcuni giorni se ne abbiano avute più di una, essendo riportate azioni inerenti a conflitti diversi. Nel periodo considerato La Stampa non è uscita in edicola 29 volte. Inoltre, un numero non è stato consultabile on line.

A questo punto osserviamo la conflittualità annuale concentrandosi sulla sola categoria dei conflitti

coalizionali per le politiche (figura 5.1). Seguo lo stesso procedimento utilizzato per calcolare la conflittualità

annua della coalizione che fece capo a Prodi.

Fig. 5.1. Tasso di conflittualità interpartitica annua in materia di policy nel gabinetto Berlusconi II.

Note: valori in percentuale.

70 Sono 26 i giorni che possiedono una citazione riguardante cariche ministeriali.

9,36

15,89

23,5620,77 20

0

5

10

15

20

25

2001 2002 2003 2004 2005

Tas

so d

i con

flitt

ualit

à an

nua

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Il primo anno in carica è anche quello in cui più raramente i membri della coalizione si sono scontrati tra

loro in modo rilevante su questioni di policy. La conflittualità sale a partire dall’anno successivo, raggiungendo il

suo picco nel 2003 e mantenendosi ad un livello di poco più basso negli anni successivi. C’è stata una citazione in

prima pagina riguardante un conflitto interpartitico per le politiche, da parte de La Stampa, per circa un quarto

dell’anno più conflittuale. Nel 2004 e nel 2005, ciò è avvenuto in un quinto dei giorni di vita del governo.

Il quadro diviene più preciso se spacchettiamo i dati annuali e osserviamo le variazioni mensili dell’indice

di conflittualità (figura 5.2).

Fig. 5.2. Andamento dell’indice di conflittualità mensile nel gabinetto Berlusconi II per la durata in carica.

Note: i dati di giugno ’01 e di aprile ’05 sono rilevati nei soli giorni in cui il governo è in carica.

Da questo grafico appaiono chiaramente due picchi di conflittualità molto marcati, in corrispondenza del

periodo estivo del terzo e quarto anno di operato della coalizione. A differenza di quanto non è avvenuto per la

coalizione presa in considerazione nel precedente paragrafo, qui la conflittualità interpartitica mensile interna in

materia di policy raggiunge, nella grande maggioranza dei casi (32 volte), livelli medi (16 volte) o alti (16 volte); su

47 mesi, solo 15 sono caratterizzati da un una conflittualità bassa/nulla. E, in sintonia con i risultati sulla

conflittualità annuale, il livello minimo viene toccato soprattutto nel primo anno, e in particolare in sei mesi su

sette.

Restano da vedere il grado di coinvolgimento dei partiti della coalizione e, infine, i temi su cui più si sono

concentrati i conflitti coalizionali per le politiche così come si è fatto per la nostra altra coalizione. Riguardo al

primo punto, i risultati sono riportati graficamente nella figura 5.4.

Si palesa uno scenario opposto rispetto a quello mostrato nel capitolo sesto. Mentre il dato più elevato è

quello associato al partito più piccolo della coalizione, la Lega Nord con 200 citazioni, è il primo partito, Forza

Italia, a risultare il meno implicato, con 122. Di poco superiori a quello del partito di Berlusconi, i numeri di

Alleanza nazionale e del Biancofiore/Udc, posizionatisi a pari merito con 133 citazioni71. Il frequente

coinvolgimento della Lega ben si accorda con il suo carattere di partito “di lotta e di governo”, impegnato

costantemente a supportare il presidente del Consiglio contro i due altri alleati minori, spesso in disaccordo in

tema di politiche da perseguire. Questa capacità di distinguere, all’interno della coalizione, tra “amici” e “nemici”

71 I dati ricalcano sostanzialmente lo stesso andamento per quanto riguarda i meta-conflitti interpartitici per la gestione dei rapporti coalizionali: la Ln è sempre al primo posto con 33 citazioni; il Biancofiore/Udc con 25 e An con 21 si situano nel mezzo; mentre Fi chiude con 18. Le cose cambiano se si rivolge l’attenzione ai conflitti per le cariche. Al proposito, il partito più citato è il Biancofiore/Udc con 35 citazioni, seguito da An con 29, Fi con 27 e Ln con 23.

02468

101214161820

giu-

01

lug-

01

ago-

01

set-

01

ott-

01

nov-

01

dic-

01

gen-

02

feb-

02

mar

-02

apr-

02

mag

-02

giu-

02

lug-

02

ago-

02

set-

02

ott-

02

nov-

02

dic-

02

gen-

03

feb-

03

mar

-03

apr-

03

mag

-03

giu-

03

lug-

03

ago-

03

set-

03

ott-

03

nov-

03

dic-

03

gen-

04

feb-

04

mar

-04

apr-

04

mag

-04

giu-

04

lug-

04

ago-

04

set-

04

ott-

04

nov-

04

dic-

04

gen-

05

feb-

05

mar

-05

apr-

05

N. g

iorn

i con

cita

zion

i

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ha permesso al partito di avere, da parte di Berlusconi, carta bianca nel «fare dichiarazioni controverse e persino

offensive» e, in ultima analisi, «di rispettare la [… sua] identità populista di “outsider” regionalista mostrando di

avere al contempo ascolto presso il primo ministro e, con esso, influenza sulla politica governativa» (Albertazzi,

McDonnell e Newell 2011: 478; Albertazzi e McDonnell 2005). La differenza di posizionamento dei due primi

partiti delle coalizioni prese in considerazione – Pds/Ds da un lato e Forza Italia dall’altro – può essere spiegata

dal fatto che il primo non espresse il capo del governo. Il suo leader rimase al di fuori del gabinetto, e dunque più

libero di far pesare il peso del proprio partito e, contemporaneamente, di agire conflittualmente più di quanto lo

fosse il leader forzista. Un ruolo importante è da attribuire inoltre alla presidenza di D’Alema della commissione

parlamentare Bicamerale per le riforme, un’arena in cui sorsero diversi conflitti con i partner coalizionali. I dati

relativi a Forza Italia tornano in linea con quelli del Pds/Ds dal punto di vista delle rilevazioni di contrasti interni.

L’esatta metà (30) di esse concerne infatti il primo partner coalizionale; staccante di 13 punti Alleanza nazionale e

di 23 il Biancofiore/Udc; chiude la Lega con sei citazioni.

Fig. 5.4. Grado di coinvolgimento diretto dei partiti della coalizione nei conflitti di policy.

Non ci resta che guardare ai temi su cui più ci si è scontrati a livello interpartitico (tabella 5.2).

Tab. 5.2. Numero di rilevazioni concernenti comportamenti conflittuali riguardanti conflitti coalizionali per le politiche per settore di policy. Campo di

policy Politica

istituzioni Politica estera

Stato sociale

Giustizia Difesa e ordine

pubblico Economia

Territorio e

trasporti

Diritti civili

Attività culturali

Altro

N.

rilevazioni 69 17 36 42 38 48 8 6 14 13

“Politica delle istituzioni” rimane il tema citato più volte, un risultato che non stupisce nel momento in

cui si pensa alla strenua promozione della riforma federale (Roux 2010) da parte della Lega e all’opposizione che

a questo provenne spesso dal Biancofiore/Udc. L’economia si conferma uno dei primi settori per rilevanza e per

confronti tra i partner coalizionali. Accanto a “giustizia” e “stato sociale”, si inserisce poi, tra i temi più caldi,

anche “difesa e ordine pubblico”. Al proposito, la spiegazione risiede in buona parte ancora nel ruolo della Lega

200

133 133 122

0

50

100

150

200

250

Ln An Biancofiore/Udc Fi

Gra

do d

i coi

nvol

gim

ento

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e alla sua attenzione, che la portò spesso a confliggere all’interno della coalizione, verso l’issue immigrazione

extra-europea (Avanza 2010; Albertazzi, McDonnell e Newell 2011)72.

È arrivato il momento di entrare nella scatola nera dei processi di governance e di osservare in profondità i

casi di gestione selezionati.

5.3. La gestione dei conflitti coalizionali: il caso della riduzione dell’imposta sul reddito73

Il secondo conflitto di cui analizzo la gestione tocca il tema dell’economia, e in particolare del mutamento del

sistema fiscale italiano. Il suo sviluppo si ebbe nella parte conclusiva del 2004, uno dei tre anni più conflittuali per

la coalizione, e si affiancò a quello dello legge Finanziaria per il 2005. Evidenzio che, nel periodo preso in

considerazione, uno dei membri della coalizione, la Lega Nord, si trovava con il leader già fuori dal gabinetto e

momentaneamente ai margini della vita politica per gravi motivi di salute.

Al momento della preparazione della legge Finanziaria, l’intenzione di Berlusconi era quella di

proseguire, come fatto già in estate, nel tentativo di riduzione delle imposte sul reddito. Dati i vincoli di bilancio,

l’idea che ormai circolava anche all’interno del suo partito non era più quella delle due aliquote indicate dal

Contratto con gli Italiani (Ricolfi 2006; Moury 2011) – 23% e 33% –, bensì di portare il loro numero a tre e di farlo

già dall’inizio dell’anno successivo. Se ne sarebbe aggiunta, in base all’idea di Forza Italia, una del 39% destinata

ai redditi più alti. Questa era la situazione al momento dello scoppio del conflitto.

Il presidente del Consiglio fece della riforma del sistema fiscale uno dei suoi cavalli di battaglia,

inserendola in agenda come priorità e sostenendo che su quella si giocavano i destini del governo e della

coalizione.

L’intesa che venne raggiunta tra il capo del governo e il ministro del tesoro in un incontro tenutosi

lunedì 21 settembre nella residenza romana del primo prevedeva lo scorporamento della legge Finanziaria, la cui

preparazione era in atto, dal pacchetto fiscale. Nell’accordo erano contenute, tra altre, misure per il passaggio alle

tre aliquote già dal 2005 (come chiedeva il leader di Fi), diminuzione delle imposte per le imprese e assegni più

consistenti per le famiglie. Le prime discussioni avvennero mercoledì 23 settembre in un colloquio a cui

parteciparono, oltre al capo del governo, Follini per l’Udc e il deputato e alto esponente di An Ignazio La Russa e

in un incontro tra Siniscalco e i gruppi parlamentari di Fi, Ln e Udc. Emerse, tra le altre, l’idea di imporre, come

aliquota più alta, una del 43% e non del 39%74. Con i partner di Forza Italia decisi a non opporsi in modo

radicale alla proposta berlusconiana, lo scontro si fece a quel punto più strisciante e si spostò sulla copertura

finanziaria della manovra, con An (tramite il responsabile per il fisco Maurizio Leo), Udc (nella figura del

senatore Ivo Tarolli) e Lega (con Paglierini) d’accordo nel rifiutare l’ipotesi allora circolante di recuperare le

risorse colpendo le categorie dei lavoratori autonomi.

72 Come ho fatto per il governo Prodi I, rimando agli articoli dedicati all’Italia del Political Data Yearbook dello EJPR inerenti agli anni del secondo governo Berlusconi e agli annali di Politica in Italia. I fatti dell’anno e le interpretazioni usciti nello stesso periodo per una breve panoramica delle issues salienti per la politica italiana dal 2001 al 2005.

73 Ho reperito gli articoli del Corriere della Sera tramite la ricerca per argomenti effettuabile dall’archivio della sezione rassegna stampa del sito della Camera dei Deputati (http://rassegna.camera.it). La ricerca è stata effettuata inserendo come periodo di riferimento 1° settembre 2004-30 novembre 2004 e come argomenti “Prima pagina”; “Bilancio dello Stato e legge Finanziaria” e “Politica economica in generale” (entrambi sotto-argomenti di “Bilancio, tesoro e programmazione”); “Sistema fiscale e tributario” e “Ipotesi di riforma” (sotto-argomenti di “Finanze”); “Attività del governo” e “Partiti, movimenti e raggruppamenti politici” (sotto-argomenti di “Politica interna”).

74 L’aliquota maggiore prevista in quel momento dal sistema fiscale italiano era del 45%.

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Intanto, l’europarlamentare e soprattutto consigliere economico del premier Renato Brunetta sottolineò

come la riduzione a tre aliquote, già pensata da Tremonti, fosse «una linea invalicabile»75, essendo già la terza una

concessione ad An e Udc. Quest’ultima, per bocca di Volontè, espresse la ferma contrarietà, condivisa dal partito

di Fini e dalla Lega, a un pacchetto che non prendesse in considerazione la tutela delle fasce meno abbienti della

popolazione, con un occhio di riguardo a famiglie e imprese.

Berlusconi, intanto, continuava a ribadire che il taglio ci sarebbe stato sicuramente e che sarebbe stato

attivo dal 1° gennaio 2005. Il suo obiettivo era chiaro e non mancava di ribadirlo. La netta presa di posizione

berlusconiana produsse un’escalation (Arielli e Scotto 2003: 69-76) del conflitto fin lì relegato a bassi livelli di

radicalità: il 7 ottobre si riunì la consulta economica di An, dalle quale emersero preoccupazioni, e l’Udc ribadì la

sua indisponibilità a negoziare in assenza di misure specifiche – volute anche dalla stessa An – a favore dei nuclei

famigliari monoreddito e, inoltre, del Sud Italia (ad esempio cancellando l’imposta sulle imprese per quella

zona)76. Il tutto mentre il presidente del Consiglio continuava ad incontrarsi con Siniscalco per definire il

pacchetto secondo le sue intenzioni.

Il partito del vice premier non si limitò alle richieste di cui sopra, e preparò un piano alternativo che

prevedeva un innalzamento della terza aliquota dal 39% al 43%. Tale mossa non fece però indietreggiare

Berlusconi. Anche per il leader di Forza Italia, però, una questione rimaneva aperta: “come” tagliare le imposte.

E anche su questo le posizioni tra i membri della coalizione rimanevano distanti nonostante gli incontri bilaterali

di Siniscalco77 con Follini e Lega Nord.

Sabato 16 ottobre, a pochi giorni da un vertice di maggioranza fissato per la settimana successiva, Fini

non sembrò voler assolutamente cedere sulla necessità di dare priorità agli interventi a favore dei ceti più deboli,

riprendendo, tra l’altro, quanto esposto da Follini il giorno prima al ministro del tesoro.

Martedì 19 ottobre il vice presidente del Consiglio, sottolineando di voler evitare un provvedimento che

potesse apparire favorevole ai più abbienti, alzò il tiro proponendo l’introduzione di una quarta aliquota per i

redditi più alti. In quel momento, le posizioni tra i membri della coalizione erano distanti: An e Udc

continuavano a porre l’attenzione sulle famiglie, in particolare, il partito centrista, su quelle monoreddito; la Lega

aveva cominciato a chiedere un’area di esenzione fiscale differenziata su base regionale. Tutte e tre concordavano

poi sulla necessità, rispetto a quanto stabilito dal partito di Berlusconi, di aumentare i fondi per gli sgravi alle

imprese. Dal primo ministro provenne un segnale distensivo il 22 ottobre durante un comizio elettorale per

elezioni suppletive quando affermò che, sebbene egli fosse propenso ad una terza aliquota del 39%, era pronto a

discutere di una del 42%, su cui rimaneva ferma An. In ogni caso, una cosa era chiara: non si toccava la

tripartizione delle aliquote e l’attivazione degli effetti della manovra a partire dal 1° gennaio 2005.

L’atteso vertice di maggioranza si tenne martedì 26 ottobre. Il giorno precedente il ministro per le

politiche agricole e forestali nonché uno dei massimi esponenti di Alleanza nazionale Gianni Alemanno aveva

ribadito la posizione del partito sulla terza aliquota, affermando che addirittura era pronto a sostenerne una non

75 Corriere della Sera, 26 settembre 2004, p. 27. 76 In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera e pubblicata il 9 ottobre, il sottosegretario all’economia dell’Udc Gianluigi Magri avvertì

Berlusconi con questa dichiarazione: «sia chiaro: sulla famiglia l’Udc non farà sconti». Corriere della Sera, 9 ottobre 2004, p. 11. 77 Il 14 ottobre si diffusero voci di dimissioni da parte del ministro del tesoro, subito smentite dal ministero e da Palazzo Chigi.

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del 42%, bensì del 43%. Il vertice non fu risolutivo e anzi rese ancora più difficile un incontro tra gli obiettivi dei

partner coalizionali. Il primo ministro tornò sostanzialmente alle sue idee originarie, affermando di non aver

alcun intenzione di proporre aliquote superiori al 40%; An insistette, in tutta risposta, per l’introduzione di una

quarta aliquota; l’Udc, addirittura, propose di alleggerire il carico fiscale delle famiglie percorrendo strade

alternative alla riduzione delle aliquote dell’imposta sul reddito. Lo scontro spinse Berlusconi a dichiarare,

durante la riunione, di voler lasciare la carica di primo ministro nel caso in cui non fosse riuscito a mantenere le

promesse elettorali (proposito ribadito in occasione di un intervento pubblico il giorno successivo) e di non

volere «più freni e distinguo»78 sul tema del taglio delle tasse. Nemmeno la ripresa del vertice mercoledì 27

ottobre produsse una de-escalation del conflitto. Per questo motivo e per via dell’assenza all’incontro di Siniscalco

e, per impegni personali, di Follini, sostituito da Volentè, un nuovo vertice fu messo in calendario a sette giorni

di distanza.

Uno dei massimi picchi della radicalizzazione del conflitto (Nevola 1994: 88 e ss.) venne raggiunto nel

pomeriggio del 29 ottobre, prima che la “temperatura” del confronto scendesse poi in serata. Il portavoce di An

Landolfi rilasciò una nota avvallata da Fini con cui si definiva «errore macroscopico»79 il piano di Berlusconi per

la riduzione delle imposte e ci si riferiva al primo ministro sul piano personale, sostenendo che non sarebbe stato

giustificabile un provvedimento che avrebbe garantito allo stesso presidente del Consiglio un elevato vantaggio

fiscale. La risposta a caldo di Berlusconi e quella ufficiale del suo portavoce furono dure. Fini, dopo il Consiglio

dei ministri, riunì i ministri del suo partito e si ventilò l’ipotesi di minacciare la coalizione promuovendo un

appoggio esterno al governo. Il conflitto aveva subito un’ulteriore escalation. A dispetto di ciò, due ore dopo la

riunione di An, il leader di Forza Italia, forse inaspettatamente, segnalò l’intenzione di cooperare pur volendo

comunque andare avanti sul taglio alle imposte e sulla previsione di un’aliquota massima che fosse inferiore al

40%, sminuendo l’importanza dello scambio di azioni conflittuali che aveva caratterizzato fin lì la giornata.

Berlusconi concluse il processo di de-escalation riferendosi alla nota di An come a un avvertimento costruttivo

circa possibili argomenti utilizzabili dall’opposizione. In serata, ci fu una cena dal presidente della Camera Pier

Ferdinando Casini (Udc), che agì da mediatore. Tra i partecipanti, anche Follini e Letta. A mezzanotte, il

presidente del Consiglio parò di «accordo pieno»80.

La soluzione del conflitto non era però in realtà ancora avvenuta. Fu in questa situazione di stallo che

intervenne il sostituto di Bossi alla carica di ministro per le riforme, Roberto Calderoli. Lunedì 1° novembre,

presentò a Berlusconi una proposta di compromesso elaborata con Molgora (Ln), Leo (An) e Volontè (Udc). La

Lega Nord, dunque, assumeva il nuovo ruolo di parte mediatrice tra An e Udc e Forza Italia, il cui leader

sembrava sempre più propenso a cedere ed ad accettare l’ipotesi di una quarta aliquota del 41% che si sarebbe

affiancata alla terza del 39%. Solo due giorni prima, il sottosegretario all’economia forzista Giuseppe Vegas aveva

ancora difeso le tre aliquote. Il piano di Calderoli prevedeva un accordo a metà strada tra le posizioni in

contrasto: le tre aliquote (23%, 33% e 39%) sarebbero rimaste, mentre la quarta non sarebbe stata permanente,

bensì in vigore per soli due anni. La sua definizione sarebbe derivata dall’applicazione di un contributo

78 Corriere della Sera, 28 ottobre, 2004, p. 9. 79 Corriere della Sera, 28 ottobre, 2004, p. 10. 80 Corriere della Sera, 30 ottobre 2004, p. 11.

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aggiuntivo del 3% sulla terza, per finanziare gli sgravi per i redditi più bassi o per le imprese. La proposta

incontrò la disponibilità alla negoziazione del primo ministro.

Incassata quest’ultima, Calderoli si incontrò per una discussione in merito con il ministro del tesoro la

mattina successiva insieme agli esperti economici di An (Maurizio Leo) e dell’Udc (Gianluigi Magri). Il piano era

in via di definizione: si cominciò a parlare di un contributo non più del 3%, ma del 4% e il problema più spinoso

divenne la copertura finanziaria. Siniscalco, prima dell’incontro, vide sia Fini sia Follini. Berlusconi, dal canto suo,

cominciò a parlare di un possibile rimpasto ministeriale di cui si discuteva da tempo che avrebbe visto assegnare

al leader di An il ministero degli esteri e a Follini la vice presidenza del Consiglio (supra, nota 69) (fino a quel

momento rifiutata) come di una “merce” di scambio per raggiungere un accordo sulle imposte.

L’ipotesi venne sottoposta agli alleati dal premier, prima con un incontro con delegati leghisti e poi via

telefono a Fini e a Follini. In tali colloqui – tenutisi giovedì 4 novembre – il leader di Forza Italia evidenziò la sua

disponibilità a rinunciare al legame del ministero degli esteri con il suo partito81 purché ci fosse un impegno della

coalizione verso il taglio delle imposte. Forte della contropartita messa sul piatto, Berlusconi ribadì la posizione

forzista per cui non qualsiasi taglio sarebbe stato accettato, bensì solo una riduzione che avrebbe riguardato tutti,

dai percettori di redditi bassi ai ceti più abbienti. Al contempo, Forza Italia si rese disponibile all’introduzione

della quarta aliquota temporanea del 42%. Ma di fronte ai dati tecnici sulle possibili coperture preparate da

Siniscalco, An e Udc si allontanarono ancora. Il piano su cui poggiavano le divergenze tra le unità del conflitto

era quindi mutato. Il divario non riguardava più valori82, ma la credenza nella possibilità di realizzarli date le

risorse disponibili. Un vertice di maggioranza che, secondo Berlusconi, sarebbe stato «decisivo»83 era previsto per

martedì 9 novembre.

Da questo, ne uscì effettivamente un accordo. Oltre alla issue riduzione delle imposte, venne discussa

anche quella reshuffle. Nel primo caso i partecipanti furono Bondi e Cicchitto, rispettivamente coordinatore e vice

coordinatore di Fi; Calderoli e un altro alto esponente del partito, il ministro per il lavoro e le politiche sociali

Roberto Maroni, per la Ln; Fini per An; Follini e il ministro per le politiche comunitarie e presidente del partito

Rocco Buttiglione per l’Udc; nonché i due leader dei partiti esterni alla coalizione che occupavano solo posizioni

di ministri junior, Nucara per il Pri e De Michelis per il Npsi. Solo Berlusconi, Fini, Follini e Letta prolungarono

l’incontro anche dopo l’accordo per negoziare il rimpasto ministeriale che avrebbe portato, di lì a poco, ai

cambiamenti previsti.

Il conflitto di policy che aveva diviso la coalizione per circa due mesi si concluse con una risoluzione sotto

forma di un compromesso sbilanciato a favore degli oppositori agli obiettivi di Berlusconi e di Forza Italia. Il primo

ministro ottenne la riforma, ma dovette rinunciare alla sua attivazione già a partire dal 2005 e accettare un taglio

applicabile dal 2006 (anno delle successive elezioni politiche) e l’introduzione di tre aliquote (23%, 33% e 39%)

più una quarta presentata come “contributo etico” del 3% oltre la terza. Gli alleati guadagnarono dal canto loro

la dilazione, ma anche la previsione di interventi mirati a favore di famiglie e imprese. A far cedere il leader di

81 In quel momento, il dicastero era guidato da Franco Frattini. Frattini, deputato di Fi, era destinato a divenire, come poi accadde, commissario europeo per la giustizia, la libertà e la sicurezza della prima commissione Barroso.

82 Attribuisco qui un’accezione larga al termine valore, intendendo con esso qualsiasi fine desiderato. 83 Corriere della Sera, 6 novembre 2004, p. 3.

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Forza Italia, il richiamo del ministro del tesoro ad una mancanza di copertura finanziaria e la fermezza dei

rappresentanti dei membri minori della coalizione nel non voler recedere dalle loro richieste84.

6. Discussione dei risultati e prospettive di ricerca

Riferendosi al framework teorico, interessanti inferenze possono essere tratte dai casi di gestione analizzati. Prima

di tutto, comincio con il notare che entrambe le coalizioni sono state coalizioni conflittuali, litigiose,

«“finalizzate” a vincere le elezioni, e non a governare» (Diamanti 2007: 757). La figura del leader coalizionale –

non partitico nel caso di Prodi, partitico in quello di Berlusconi – ha costituito un elemento più o meno efficace

di unificazione per coalizioni caratterizzate dalla presenza di partiti il cui agire ha provocato spesso spinte

centrifughe più che centripete, dando vita ad una tensione tra partiti e “presidenti” (Calise 2006). E, come

abbiamo visto, se la coalizione di centro-sinistra appare leggermente meno conflittuale di quella guidata dal leader

di Forza Italia, ciò lo si deve molto al fatto che per buona parte della sua vita il conflitto era con un partito –

Rifondazione comunista – esterno, ma determinante per la sua sopravvivenza. Sia i dati quantitativi, soprattutto

per quanto riguarda il centro-destra, sia i dati qualitativi ci hanno mostrato un sensibile coinvolgimento dei partiti

minori nelle dinamiche conflittuali intra-coalizionali. Questi risultati sono in sintonia con il fatto evidenziato dalla

letteratura che tali partiti «non si sono limitati ad occupare le cariche e a preservare influenza e risorse per i loro

leader […]. A dispetto dei pay-offs a loro concessi in termini di cariche pubbliche come posti ministeriali, essi sono

andati ben oltre un approccio office-seeking e hanno esercitato un forte potere di veto sulle politiche» (Conti 2010:

57). L’azione dei Verdi nel primo caso di gestione analizzato è emblematica, così come l’attivismo proattivo della

Lega Nord a cui si è accennato.

Volgendo lo sguardo alle nostre ipotesi di ricerca, notiamo che esse sono confermate, con una eccezione.

H1: lo studio qualitativo dei casi di gestione ha confermato il nesso tra presenza dei leader partitici nel

gabinetto e spinte all’internalizzazione del processo gestionale. Il loro ruolo rimane fondamentale, e, nei momenti

di più alta tensione, sono gli attori più coinvolti. La loro partecipazione alla gestione avviene perlopiù tramite

contatti bilaterali soprattutto con il primo ministro o con i ministri competenti verso la materia in discussione e,

una volta preparato il terreno, collettivamente in vertici di maggioranza che vedono il coinvolgimento anche di attori

interni, su tutti le figure appena menzionate. Nella misura dunque in cui i leader partitici non sono membri del

gabinetto, le arene tenderanno ad essere esterne. Le arene utilizzate per le discussioni di carattere più tecnico sui

provvedimenti tendono invece all’internalizzazione (avvicinandosi quindi all’ideal-tipo dei comitati di gabinetto),

se non per il coinvolgimento che talvolta tocca i civil servants. Tali arene, comunque, sono più che altro arene

preparatorie per le riunioni dei leader partitici. Il gabinetto Prodi, più che quello Berlusconi, ha mostrato una

tendenza verso il coinvolgimento dei capigruppo (in comitati che riuniscono membri del governo con leader

84 Secondo la mia definizione di evento conflittuale, possiamo considerare il confronto come concluso. Così come però la materia era già stata oggetto di altro conflitto coalizionale prima dello scoppio di quello la cui gestione ho analizzato, mi preme evidenziare velocemente che, pochi giorni dopo la risoluzione, sorse un nuovo conflitto in merito. Berlusconi, non soddisfatto dell’esito, decise di dar vita ad una nuova relazione conflittuale che vide questa volta la Lega – su indicazione di Bossi – chiaramente al suo fianco e ancora una volta An e Udc contro. Il primo ministro decise di assumere un comportamento di contrapposizione dura e di fornire meno concessioni a ipotesi cooperative e di accomodamento. Questo nuovo conflitto si concluse con una sua imposizione e dunque con una vittoria di Fi e della Ln che portò, diversamente da quanto previsto dal compromesso di cui ho parlato, alla riduzione delle imposte a partire dal 2005 e non dal 2006.

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parlamentari) e a una esternalizzazione verso di essi, ma, come si è visto, nel momento in cui la radicalità del

conflitto sale, il loro ruolo perde di importanza. Per riprendere lo schema presentato, sono miste le arene più

utilizzate dalle coalizioni italiane, e, in particolare, sono comitati di coalizione.

H2: i dati reperiti non ci permettono invece di confermare la seconda ipotesi. Non pare che una maggior

presenza dei leader partitici nella compagine ministeriale porti ad una maggiore influenza di chi fa parte di

quest’ultima per la sola ragione di essere “dentro”. Anzi: si è accennato al fatto che, anche in un contesto in cui i

leader erano quasi tutti entro il gabinetto (Berlusconi II), l’unico rimastone fuori, Follini, fosse restio ad entrarvi.

Il motivo era che il rimanerne fuori gli forniva una maggiore libertà di manovra e di smarcamento dal governo.

Se Berlusconi guadagna in termini “difensivi” rispetto agli alleati con l’entrata di Follini, è solo perché è

quest’ultimo a perdere potere di ricatto. E qualora un attore governativo riesca ad esercitare un’elevata influenza, questo lo si

deve non tanto alla presenza o alla non presenza dei leader partitici nel gabinetto, bensì alla sua particolare carica ministeriale, come

può essere quella di ministro del tesoro (Larsson 1993).

H3 e H4: la terza e la quarta ipotesi sono confermate, sebbene alcuni punti vadano evidenziati. Sia Prodi che

Berlusconi, per via del loro ruolo di leader coalizionali, sono punti di riferimento imprescindibili della gestione del conflitto

e per il raggiungimento dell’accordo. Il primo, però, privo di risorse partitiche e di una base di supporto specifica, tende,

più del secondo, all’accomodamento e alla mediazione continua e non tenta, se non con qualche dichiarazione blanda, di forzare il

conflitto. Al contrario, Berlusconi spende la leadership del primo partner coalizionale e cerca di imporre (Barbieri 2001) il suo

volere. Come è stato notato, «sulla difesa e sul richiamo ad aspetti specifici del programma di governo, coma la

riduzione della pressione fiscale, [… tentò] in alcuni frangenti […] di impostare una linea di condotta più vicina a

quella del vertice di un governo monopartitico che non al comportamento del presidente mediatore tra le componenti

della coalizione» (Circap 2005: 24). I vincoli coalizionali spingono però anch’egli a piegarsi di fronte ai suoi

partner coalizionali quando non trova alleati tra di essi e a cercare di stemperare le tensioni per non mettere

eccessivamente a rischio la tenuta della coalizione. Ma ancor più Prodi, «non essendo il capo di nessun partito,

[…] ebbe grandi difficoltà a guidare la coalizione il cui azionista di maggioranza, Massimo D’Alema, e il cui

azionista di minoranza, Franco Frattini, rivendicavano un ruolo più visibile per i partiti di cui erano segretari,

rispettivamente, il Pds e i Popolari» (Pasquino 2002: 162). Nello specifico, D’Alema risulta essere un attore

coalizionale che non solo “affianca” il primo ministro nella gestione, ma tende talvolta addirittura a sostituirlo nel

suo ruolo di mediazione, quasi come fosse lui il vero leader della coalizione.

In sintesi, Berlusconi è riuscito a far fruttare più di Prodi – non solo nel processo decisionale in senso

stretto, ma anche nell’ambito specifico della gestione dei conflitti interpartitici – la sua leadership coalizionale

(cfr. Vassallo 2007: 703) tramite l’accumulazione con la leadership partitica. Resta il fatto che entrambi, quando si

sono dovuti confrontare con membri coalizionali fermi nelle loro posizioni e disposti ad imporre veti (Tsebelis

2004) nel processo decisionale, sono dovuti entrambi talvolta indietreggiare dai loro propositi; e Prodi avendo

anche meno possibilità di tentare, finché possibile, lo scontro.

La nostra conoscenza di questi salienti aspetti della governance del governo italiano nella Seconda

Repubblica può essere ulteriormente migliorata e rafforzata muovendosi in due direzioni. Da un lato, è possibile

muoversi verso altre analisi qualitative di casi significativi di gestione dei conflitti coalizionali legati alle coalizioni

qui prese in esame. Si pensi ad esempio al caso del conflitto tra Lega Nord e Alleanza nazionale circa l’estensione

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del diritto di voto amministrativo agli immigrati o a quello sull’intervento americano in Iraq del 1998 che ha

attraversato la coalizione guidata da Prodi. Una seconda via sarebbe invece il confronto dei risultati emersi con

quelli derivabili da analoghe analisi su governi del medesimo periodo, ma vicini, da un punto di vista di delle

modalità di formazione e della composizione ministeriale, a quelli della Prima Repubblica. Un interessante caso

sarebbe quello delle coalizioni supportanti i gabinetti D’Alema, per il quale la letteratura ha sottolineato come, se

paragonato ai primi ministri “pre-elettorali”, egli fosse più prudente nel forzare le situazioni, spesso mediatore, e

operante quasi sempre a stretto contatto con un ministro o con un altro (Barbieri 2003b).

La ricerca presentata in questo paper, costituisce un primo passo e ci fornisce dei risultati pronti per un

impiego comparativo.

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