Gli occhi della fede
-
Upload
giovanni-stella -
Category
Documents
-
view
293 -
download
39
description
Transcript of Gli occhi della fede
rnonFi~
Pierre Rousselot "' _
Gli occhi della fede G~ Presentazione di
Ursicin G.G. Derungs
Il Jaca Book il
titdlo originale Les yeux de la foi
traduzione
Claudio del Ponte
edizione originale apparsa su Recherches de Science Religieuse, 1910
prima edizione italiana marzo 1977
in copertina Saint J oseph, scultura di Gislebertus,
XII secolo, particolare dell' «Adorazione dei Magi», cattedrale d' Autun
grafica e copertina ufficio grafico J aca Book
per informazioni sulle opere pubblicate e in programma e per proposte di nuove pubblicazioni ci si può rivolgere a
Direzione Editoriale Cooperativa Jaca Book via Saffi 19, 20123 Milano, telefono 897055-897088
Nota redazionale Introduzione
INDICE
Parte prima 1. Fede come atto e formula. Soluzioni da
7 9
scartare 31 2. L'ipotesi di una fede naturale «scienti-
fica» 3 7 3. Razionalità e soprannaturalità della fede 43 4. Priorità reciproca come soluzione 48 5. L'essere e fa grazia (Oggetto formale
naturale e soprannaturale) 53
Parte seconda 1. Certezza e libertà della fede 63 2. Visione tramite l'amore 70 3. L'amore dell'essere di fronte all'oggetto
di fede 74 4. Conoscenza per simpatia e fede 84 5. Evidenza valida personalmente o gene-
ralmente 92 6. Accordo attraverso la grazia 97 7. Conferma biblica 1O1 8. Ultime obiezioni 106
5
Nota redazionale
Lo studio cli Rousselot, che presentiamo per la prima volta ai lettori italiani, 1è ormai un classico della storia della teologia. Il testo, apparso in forma cli due articoli sulla rivista Recherches de Science Religieuse del 1910, viene qui riprodotto integralmente; ci siamo, tuttavia, permessi, per facilitare la lettura, cli introdurre dei titoletti interni che abbiamo desunto dalla traduzione tedesca curata da Hans Urs von Balthasar, traduzione che abbiamo costantemente tenuto presente nella traduzione dal francese e che ci è stata cli grande aiuto per la traduzione stessa.
7
Introduzione
Il messaggio cristiano del venturo regno di Dio in Gesù Cristo può essere reso intellegibile e comprensibile per l'umanità? E come si dovrebbe far ciò? Questa è la questione fondamentale della teologia e la questione della teologia fondamentale 1
•
I Teologia fondamentale, qui, va intesa non solo come rendiconto del fatto della rivelazione che ne mette in rilievo i motivi di credibilità (specialmente miracoli e profezie) che possono condurre all'atto di fede, ma, <li più, come rendiconto umano (non solo «razionale») del contenuto della rivelazione che mette in rilievo J motivi per i quali uno già crede, e che può quindi preparare anche la fede del non-credente. Interlocutori della teologia fondamentale sono la filosofia, la poesia, la realtà politica e, in generale, la cultura. Siccome la teologia fondamentale è ancora lontana dall'aver trovato la sua propria identità-dopo la sconfitta dell'apologetica tradizionale-il concetto qui accennato non è generalmente accettato, tanto p.iù che, per certi aspetti, sembra coincidere con il compito della dogmatica. Ed è stato proprio Rousselot ad aprire la strada ad una concezione della teologia fondamentale che si muove in CJIUesta
9
Ma la questione stessa si presta al fraintendimento, poiché «messaggio» implica il poter-comprendere; ossia: un messaggio è tale solo se può essere compreso; ciò significa, in più, che ha in se stesso una struttura razionale commisurata alla capacità di comprensione dell'uomo integrale. Tuttavia la forma della domanda posta all'inizio non è assurda, anche se è problematica: essa presuppone, infatti, che ci siano degli ostacoli che possono impedire la comprensione del messaggio e che questo possa anche essere frainteso. Presuppone, inoltre, l'intera lunga storia della teologia cristiana, che, secondo sempre nuovi -più o meno felici-modelli, ha cercato-all'interno di diversi ambiti culturali e di diverse prospettive filosofiche--<li sviluppare razionalmente--cioè proprio di rendere comprensibile-il contenuto del messaggio e che in ciò non è sempre stata capita. Il continuo tentativo di «traduzione» del messaggio nella teologia e neila vita della chiesa può aver con· tribuito al formarsi di un modello un po' superficiale e deviante del rapporto tra teologia e messag· gio: si avrebbe, da un lato, il messaggio testimoniato nella sacra scrittura (e al quale si crede), e, dall'altro, la teologia, che media in categorie di pen· siero e di linguaggio per uomini di diversi tempi e culture un messaggio che le è offerto (e che in tal modo viene saputo). Così, però, c'è il rischio che si verifichi una spaccatura tra fede e intelletto, tra
direzione. {Cfr. quanto dice H.U. von Balthasar, Gloria, vol. 1, Milano 1976, p. 159}.
10
messaggio e teologia. Ma il messaggio come tale è «teologia»; non solo in quanto sviluppa già in sé un intellectus fidei 2 (in questo senso, infatti, il messaggio in quanto formulato in un linguaggio comporta come tale l'elemento razionale proprio del linguaggio), ma, anche perché il messaggio pervenutoci è non un blocco monolitico, bensl una disputa tuttora viva per la comprensione del Cristo e, in definitiva, una disputa per la fede, condotta mediante delle strutture di sapere 3
• D'altro canto la teologia, in quanto sapere, ha in sé l'elemento del messaggio: è orientata alla prassi di fede e, nei suoi tempi migliori, è stata intesa come scientia e insieme sapientia.
Di che tipo è la comprensione propria del messaggio ed alla quale esso tende? Va osservato innanzitutto che la struttura del comprendere corrisponde a quella del messaggio da comprendere; vale a dire: il modo in cui risolviamo la questione del comprendere nel suo aspetto formale dipende dalla comprensione fattuale del messaggio nel suo aspetto contenutistico. L'analisi della struttura della comprensione lascia intravvedere qualcosa della comprensione che di fatto si ha del messaggio, e, viceversa, un certo modo di intendere il comprendere può ostaco-
Cfr. G. EbeHng, Theologie, in RGG vr, 21962, pp. 760 s.
Cfr. E. Fuchs, Jesus Christus, in Glaube ttnd Erfahung, Tiibingen 1965, pp. 447 s.
11
lare o favorire la comprensione del messaggio. Non è solo la fides quc1e a determinare la fides qua, maciò che è molto di pfo-vale anche il contrario: La fides quae non ci è mediata se non attraverso la fides qua. Questa è la ragione per cui il problema formale circa il tipo della comprensione propria del messaggio concerne intrinsecamente la questione da noi posta all'inizio. Si tratta dunque non solo di capire il messaggio cristiano, ma di capire lo stesso capire, affinché il tipo di comprensione non porti a fraintendimenti del messaggio. La comprensione del capire viene fornita dalla teologia della fede ( trattato de fide) e in tal contesto si inserisce il presente saggio di Pierre Rousselot. Poiché in realtà la comprensione di cui qui si tratta è ciò che viene denominato fede. Che cosa significa «credere»? Rinuncia alla comprensione? Accettazione di misteri che, in fin dei conti, sono imperscrutabili? Come si comprende credendo? Quale relazione intercorre tra credere e sapere, tra fede e amore, tra fede e libertà? Dedicarsi narcisisticamente all'atto di fede in luogo di rivolgersi al messaggio può sembrare, a prima vista, un'impresa pericolosa e patologica. Bisogna però dire che l'esercizio razionale compiuto sull'atto di fede appartiene alla riflessione secondaria che è sempre possibile e, in certe circostanze, anche necessaria senza detrimento per il movimento primario della fede. Tuttavia una riflessione esplicita e sistematica sulla struttura della comprensione di fede può appunto essere un segno di fraintendimenti esistenti al riguardo. Gli occhi della fede di Pierre
12
Rousselot cost1tu1sce un tale segnale d'allarme. Ma è, nello stesso tempo, di più: il suo trattato sulla fede è diventato orientamento e modello per l'ulteriore investigazione 4•
Prima di accostarci esplicitamente alla teologia della fede di Rousselot cerchiamo di vedere di quale natura sia la «comprensione» del messaggio, tratteggiandola liberamente dal punto di vir.ta della nostra prospettiva moderna. Nella comprensione del messaggio è sempre sottointesa-esplicitamente o implicitamente-una comprensione storica secondo il metodo storico-critico e le regole dell'ermeneutica generale. Un messaggio dato nella storia e contenuto in determinati documenti storici non può essere compreso se non in modo storico. Per la corretta comprensione del messaggio bisogna dunque far attenzione oltre che al senso letterario della Scrittura, rilevato dall'esegesi critica, alla storia stessa della fede vissuta nelle comunità cristiane: essa è, infatti, -in quanto storia degli effetti del messaggio di «allora»-interpretazione di esso e implica, quindi, la sua comprensione. Notiamo soltanto in margine che, così, l'analisi dell'atto di fede si allarga all'analisi della prassi di fede interpretante e comprendente. È importante qui tener per fermo che la tradizione è interpretazione e che l'interpretazione è comprensione. L'esegesi, la storia dei dogmi e la storia della chiesa cercano di rilevare questa tradizione. Ma la
H.U. von Balthasar, op. cit., p. 162.
comprensione del messaggio, dalla quale siamo partiti, non si esaurisce nella comprensione storica; ancor meno consiste nel solo prendere atto dell'annuncio proposto. Poiché, in primo luogo, come credenti di oggi, non stiamo al di fuori o al di sopra della storia degli effetti dell'evento di Gesù Cristo, bensl all'interno di essa; nella misura in cui questa storia è nuova, è nuovo anche il comprendere, e vivendo la fede-bene o male-, la interpretiamo e la capiamo-bene o male-. In secondo luogo le Scritture danno testimonianza di ciò che noi potremmo chiamare il «plusvalore sovrannaturale» del messaggio, per cui il «comprendere» che gli si riferisce non è paragonabile con una qualsiasi forma di conoscenza umana, ma si qualifica come fede. Questo si può almeno illustrare (seppure non spiegare del tutto) facendo il paragone con le relazioni interpersonali, in cui la comprensione 'è di più che la semplice «conoscenza». Per poter «comprendere» si deve aggiungere al conoscere il «plusvalore» dell'amore e dell'impegno per una persona, poiché a quest'ultima è proprio il plusvalore della individualità inconfondibile, ed essa, quale persona, non può essere compresa come una proposizione linguistica o una cosa. Lo specifico plusvalore del messaggio cristiano è segnalato da enunciati come per esempio «Figlio di Dio», «Vere Deus, vere homo», o, secondo modelli più recenti, da categorie tra le quali ad esempio la libertà di Gesù che ·è liberante (salvante) perché è «liberata» (cioè preesistente presso il Padre). Questo fa sl che nella giusta comprensione del messaggio
14
sia contenuto l'elemento della conversio (cioè dell'amore e della prassi di fede) verso Cristo che è il messaggio: senza tale conversio la figura del Cristo non viene vista 5
, anche se (o proprio perché), è analizzata molto bene. Il plusvalore cui si accennava più sopra può essere descritto teologicamente da più punti di vista: Hans Urs von Balthasar lo individua nel concetto biblico della gloria e signoria di Dio, che esprime lo splendore dell'amore indeducibile e della potenza di Dio nell'evento di rivelazione, splendore esistente, velato e svelato al-di-là-di e, insieme, in tutte le forme, immagini e figure. Da questo punto di vista il plusvalore del messaggio appare nella sua capacità di riconoscere miti, religioni, arte e fì. losofìa come figure della gloria di Dio, di raggiungere queste e sorpassarle senza essere soggetto alle loro analogie, cioè senza poter essere ridotto mitologicamente, filosoficamente o antropologicamente. L'evidenza obiettiva, in ultima analisi non deducibile, della figura della rivelazione determina ciò che è fede. Ed è proprio qui che si appunta la critica di Balthasar alla teologia della fede di Rousselot: Balthasar la valuta positivamente, ma vede in essa la fede ancora determinata e spiegata troppo a partire dal soggetto 6
• Più vicina all'approccio di Rousselot sta la teologia di K. Rahner, in quanto ambedue, a loro
s Cfr. il titolo del primo volume di Gloria di H.U. von Balthasar, La percezione della forma. Cfr. anche E. Kunz, Glaube-Gnade-Geschichte. Die Glaubenstheologie des Pierre Rousselot SJ, Frankfurt 1969, pp. 176 s. 6 H.U. von Balthasar, op. cit., p. 162.
15
modo, stanno nella scia di quella discussione tra la teologia neoscolastica e la filosofia di Kant e dell'idealismo tedesco, che è legata al nome di J. Maréchal. Senza fare una riduzione antropologica del messaggio cristiano Rahner dirige l'attenzione sulla possibilità di attingere la fede. Rahner individua tale possibilità nell'apertura trascendentale e nell'esistenziale sovrannaturale dell'uomo; in tale struttura il plusvalore della fede come atto ha la sua condizione di possibilità.
Gli occhi della fede di Pietre Rousselot SJ ( 1878-1915), apparso in forma di due articoli nel periodico Recherches de Science Religieuse del 1910 7 , si occupa, nel contesto della problematica di allora, ancor'oggi non del tutto superata 8
, della questione del rapporto tra fede e ragione, questione posta e riproposta dal tempo dell'umanesimo, e più ancora dell'illuminismo, fino ai nostri giorni, e che condusse alla formazione di una specifica disciplina teologica, l'apologetica o teologia fondamentale.
7 L'opera di P. Rousselot è stata presentata criticamente da vari autori. Basta qui ii1dicare l'opera fondamentale di R. Aubert, Le problème de l' acte de fai. Données traditionelles et résultats des controverses récentes, Louvain 21950, pp. 452-511. E. Kunz, op. cit., ha, a differenza dall'Aubert, consultato anche le opere inedite di Rousselot. Nel libro di Kunz si trova tutta la bibliografia in proposito. È utile, seppure breve, l'introduzione di J. Triitsch all'edizione tedesca dell'opera di Rousselot (Die Augen des Glaubens, Einsiedeln 1963, pp. 5-12). 8 Cfr. E. Kunz, op. cit., pp. 108-110.
16
I I I I I I I I I ' I I ~ I ~
i ~
I
I I I
1
,1
~ '
I!. ~
li
Il problema stesso può essere formulato in modi diversi. Come nasce la fede? Quale è la strada che conduce dal sapere al credere? Come, nell'atto di fede, sono tra loro mediati grazia, conoscenza dei motivi di credibilità e di fede, libertà e amore? Oppure: come si collegano tra di loro fede creduta e fede credente 9, messaggio e comprensione di esso? Quando Rousselot scriveva il suo trattato, il senso del divenire storico e del condizionamento culturale delle formule di fede, dei dogmi e delle istituzioni aveva incominciato a destarsi anche nella chiesa cattolica. E, di più: fatti storici considerati fino allora come sicurissimi, usati dalla apologetica tradizionale come fondamento per la difesa della pretesa natura rivelata della fede cristiana, vennero messi in discussione o negati. Così la vecchia domanda di G.E. Lessing: come, cioè, dei fatti storici casuali possano costituire la prova di verità necessarie della ragione si presentò con tutta la sua asprezza trascinando con sé la domanda del legame tra messaggio (storico) e fede (sovrannaturale e necessaria). ,Il movimento teologico che va sotto il nome di «modernismo» ha cercato di sciogliere il più possibile il legame tra la credenza soggettiva e la religiosità interiore da un lato, e i fatti storici e le formule storiche (dogmi}, dall'altro 10• Esso ha risolto il problema della mediazione tra messaggio e comprensione del messaggio intendendo quest'ultimo non come proveniente dal
Cfr. Gli occhi della fede, p. 33. 10 E. Kunz, op. cit., p. 80.
17
di fuori, ma come espressione della esperienza interiore religiosa considerata fonte di rivelazione e forza produttrice delle formule dogmatiche. In questo modo, però, una possibile tensione tra fede e sapere (storico o scientifico) era neutralizzata a priori, e la possibilità di comprendere il messaggio era spiegata indicando nella coscienza religiosa la fonte della rivelazione e della fede. Vediamo qui esemplificarsi come la spiegazione della comprensione del messaggio (cioè della fede) tocchi la sostanza stessa del messaggio che, cosl, nella sovraccennata interpretazione, veniva ad essere capita come voce non di Dio, ma di qualsiasi soggetto religioso.
Quando Rousselot scrisse il presente opuscolo, il modernismo era appena stato condannato dal magistero della chiesa con l'enciclica Pascendi del1'8 settembre 1907. Il problema della tensione tra fede e sapere, tra fede e storia, e la questione tendente a determinare di quale tipo sia la comprensione del messaggio e quale spazio abbia nella fede la conoscenza, era posto di nuovo, contro i tentativi di armonizzare fede e sapere nel sentimento religioso o di integrare l'oggetto di fede nell'ambito della ragione. Il saggio di Rousselot si voleva appunto inserire nella linea di tale problematica per contribuire alla sua soluzione. Già all'inizio del volume si fa cenno alla tensione tra interiore e esteriore, tra pietà e dogma, tra salvezza personale nella grazia di Dio e confessione di un Credo nato nella storia 11,
11 E. Kunz, op. cit., p. 82.
18
I I ~ i ill
I ;
I I I ~ § ~
I ~
I
I I I I I
I I I
accentuando l'elemento del «di fuori» nella genesi della fede (cfr. 1 Gv 4,6; Gv 16,37 e il detto: Fides ex auditu ).
È ovvio, per Rousselot, capire, conformemente alla tradizione, la fede come grazia. Egli parla della connaturalità delle grazie celesti con le formule cli fede esistenti. Ma quale spazio era da attribuire alla grazia nell'atto di fede? Dato che esiste un «di fuori» del messaggio cristiano, nel movimento di fede è contenuta anche la conoscenza di questo elemento «di fuori», ottenuta con l'aiuto dei metodi storici e dell'argomentazione razionale e dalla quale deriva la comprensione dei motivi di fede. Questa conoscenza (che è per così dire previa all'atto di fede) di ciò che deve essere creduto e dei motivi di credibilità è anche essa portata dalla grazia, o lo è solo l'assenso di fede stesso? Posta in questa forma, la questione non sembra essere molto fruttuosa; eppure la risposta è di grande importanza, perché si viene così a decidere, in linea di principio, se l'elemento di conoscenza sia interiore alla fede stessa (senza coincidere con essa) e il messaggio possa così essere umanamente credibile, oppure se la fede come atto specifico sia separata dalla conoscenza dei motivi di credibilità e sia così piuttosto aggiunta esteriormente alla conoscenza cli essi, e perciò, in ultima analisi, sia poco fondata o non lo sia affatto, nonostante i motivi di credibilità messi in evidenza. Si può porre la questione anche in questi termini: se il carattere sovrannaturale deila fede implichi o no il suo carat-
19
tere razionale, senza mettere in dubbio il plusvalore menzionato, anzi mettendolo proprio così in piena evidenza. Rousselot si è allontanato dall'immanentismo esagerato del modernismo, secondo il quale coincidono fede e sapere nel sentimento religioso, senza peraltro condividere l'estrinsecismo esagerato dell'apologetica che separa troppo fede e sapere. Di fondamentale importanza per sostenere il suo tentativo di superare entrambe le posizioni, fu la sua tesi di laurea (L'intellectualisme de Saint Thomas, Paris 1908) che gli giovò non solo per una più adeguata presentazione dell'aspetto conoscitivo nella fede, ma anche per una più ampia concezione della conoscenza stessa 12
• «Conoscenza» ·è, per Rousselot, non da identificare semplicemente con il conoscere concettualistico e razionalistico, ma è, bensì, la capacità di aprirsi all'altro, di capirlo ed abbracciarlo e di trovare, proprio cosl, se stessi. Questo «altro» è, in ultima analisi, il Tu di Dio, per il quale l'intelletto umano è fatto. Conoscere e desiderare (amare) hanno perciò qualcosa in comune: mentre nelle opere del 1908 essi sono ancora giustapposti, negli studi del 1910 li troviamo inviscerati l'uno all'altro 13
• Ogni conoscenza umana è animata da una
12 E. Kunz, op. cit., p. 11 (nota 3 ): «Pas de théorie de la fai sans théorie de l'intellection. Pas de progrès dans l'iclée qu'on se .fait de la liberté de !et fai, sans progrès dans la connaissance qu'on a du r6le de la volonté dans l'intellectualisme en général» (citato da un manoscritto di Rousselot). 13 E. Kunz, op. cit., p. 24.
20
interiore aspirazione 14• Si capisce che la fede, in re
lazione a questa concezione più globale e personale della conoscenza, non potesse essere da lui vista come del tutto estranea all'ambito della conoscenza. È noto che, nella apologetica tradizionale, la genesi della fede era esposta in modo tale che la conoscenza naturale della credibilità (della rivelazione in base a segni esterni) fosse considerata come antecedente alla fede sovrannaturale individuata celI'assenso di fede. Alla conoscenza del fatto della rivelazione seguiva il movimento volontaristico che induceva l'uomo a dire: credo. In questo modello-qui appena abbozzato-la fede si muoveva per così dire fuori dell'ambito della conoscenza. In tal modo conoscenza e fede non erano conciliate, ma divergevano più che mai. Si aveva da un lato la conoscenza naturale di credibilità, dall'altro la fede sovrannaturale; da una parte l'apologetica, che amministrava l'elemento razionale come presupposto della fede, dall'altra la dogmatica che spiegava, per gli iniziati, le formule di fede e i misteri di fede (Denzinger, Enchiridion10, 1796) sul presupposto di un atto di fede compreso in modo (troppo) autoritario (propter auctoritatem Dei revelantis ). Ma una apologetica del genere non «raggiungeva» il suo oggetto (o scopo); altrimenti si sarebbe dovuto presupporre un passaggio continuo tra conoscenza naturale di credibilità
14 Questa aspirazione non è identica con la decisione di libertà. Per tutta la problematica cfr. E. Kunz, op. cit., pp. 57 s.
21
e fede sovrannaturale. Capita cosl, l'apologetica arrivava sempre o troppo tardi (quando uno già credeva e non aveva bisogno di motivi di credibilità situati fuori dell'ambito dell'atto stesso di fede) o troppo presto (quando uno non credeva ancora e i motivi di credibilità situati fuori dell'ambito di fede non potevano perciò dire niente su questo stesso ambito di fede). In questo modo tale concezione proprio volendo assicurare la razionalità della fede mediante la dottrina della conoscenza previa naturale dei motivi di credibilità, rischiava di privare la fede della sua razionalità (carattere razionale) e della sua luce. È vero che anche Rousselot nei suoi primi scritti ha fatto precedere la conoscenza naturale di credibilità all'atto di fede posto dalla volontà, ma ne Gli occhi della fede, la sua intenzione è proprio quella di far coincidere conoscenza di credibilità e atto di fede. «Conoscenza di credibilità e confessione di verità sono un atto solo» 15
• Cosl la conoscenza è situata nell'atto di fede stesso: la fede ha scoperto i suoi occhi. Fede ·è, nello stesso tempo, assenso di fede e conoscenza di credibilità, e lo è in priorità reciproca: Crediamo perché abbiamo conosciuto la credibilità, e conosciamo la credibilità perché crediamo. E in ambedue le direzioni la fede è portata dalla grazia. Il legame 1sintetizzante i due elementi è il lumen fidei che Rousselot •spiega attraverso vari esempi: Se un ricercatore interpreta una serie di fenomeni come indizi di una legge, sono presupposte tanto la conoscenza dei
ts Gli occhi della fede, p. 50.
22
fenomeni per poter cònoscere la legge, quanto la conoscenza della legge (come ipotesi o intuizione) per conoscere i fenomeni come indizi. Un altro ricercatore, supponiamo, sta dinanzi agli stessi fenomeni, formula la stessa ipotesi, eppure non giunge alla conoscenza dei fenomeni come indizi della legge. Ciò che distingue i due non è l'oggetto della ricerca, ma la diversità della forza di conoscenza, che Rousselot denomina forza sintetica. La luce della fede è questa forza sintetica che non offre un nuovo oggetto alla conoscenza (poiché la determinatio fidei est ex auditu ), ma dà la comprensione della affinità tra legge e indizio, la sintesi, l'assenso. Perciò il giudizio di credibilità, il giudizio che dice: «devo credere» e l'assenso stesso sono uniti nella luce di fede e trovano la loro espressione adeguata e «sintetica» nella confessione dell'apostolo Tommaso: mio Signore e mio Dio.
I vantaggi di questo modello di fi,des qua, che Rousselot sviluppa ancora di più, sono numerosi: prima di tutto, forse, una più grande sincerità. Non viene suggerita l'impressione che sia possibile giungere per una strada puramente razionale alla soglia della fede. Eppure la fede non è irrazionale. Essa è capace di articolarsi, di dire qualcosa sui suoi motivi di credere, è capace di esprimere ciò che vede e di renderne conto a chiunque glielo chieda ( 1 Pt 3,15). Inoltre è noto come proprio la separazione troppo netta tra apologetica e dogmatica abbia reso entrambe meno efficaci. La dogmatica, in specie, nel-
23
la sua glorious isolation, rischiava di sviluppare il suo proprio intellectus fidei all'interno di una problematica o di un sistema razionale che aveva perso il contatto con un reale rendiconto della fede: in tal modo proprio essa, che avrebbe dovuto costituire la traduzione del messaggio biblico, ha dovuto negli ultimi decenni essere tradotta, facendo ricorso al messaggio biblico. Proprio il modello di teologia della fede di Rousselot rende possibile un avvicinamento tra le due discipline, avviando la dogmatica al compito di rendere credibile il contenuto della fede e liberando l'apologetica da un certo tipo di rendiconto razionale, che da nessuno ,è richiesto. Fatto e contenuto della rivelazione non si possono separare. La credibilità dell'uno è la credibilità dell'altro. La teologia di Rousselot mostra, inoltre, come la fede possieda la luce della conoscenza solo nell'impegno dell'amore, e come tale comprensione corrisponda proprio alla struttura del messaggio che parla dell'impegno di Dio per l'uomo.
Rousselot ha maggiormente sviluppato quest'ultimo punto nella seconda parte del suo saggio, quando parla della mediazione tra certezza e libertà nella fede. Egli ci presenta all'inizio due posizioni estreme: «Gli uni dicono: 'Credete prima ciecamente, e poi vedrete.' E gli altri: 'Prima dovete vedere chiaramente, e poi crederete'» 16
• In questa alternativa vediamo subito che l'apparente contraddizione tra certezza e libertà sta in connessione con quella tra
16 Gli occhi della fede, p. 64.
24
sovrannaturalità e razionalità della fede. Cosl si spiega anche la soluzione proposta dal Rousselot. La prima soluzione dell'alternativa da lui citata rinuncia alla razionalità e certezza in favore della libertà e del momento volitivo nell'atto di fede. La seconda, invece, fa precedere la razionalità e certezza e seguire la decisione della volontà e l'amore. Anche qui il Rousselot parla in favore della priorità reciproca. Entrambi gli elementi devono essere veri nello stesso tempo: «Solo perché l'uomo vuole, vede la verità. Solo perché vede la verità, vuole>P. Entrambi gli asserti sono veri: perché l'amore come espressione della libera volontà contiene in sé la sua luce e può condurre il credente a ragionare. È noto in quale misura l'amore, la passione e il desiderio cambino il mondo degli oggetti e determinino i giudizi su di essi. Ma questo fatto non ha forse in sé qualche cosa di pericoloso? Non finiamo cosl nell'irrazionalismo che si sottrae al controllo? Non è aperta così, in cose decisive di fede e salvezza, la porta all'arbitrarietà, al sentimento cieco e alla inclinazione qualunquistica, in modo che l'uomo sarebbe in stato cli incertezza e cli non-libertà prnprio quando si tratta della sua fede? Rousselot mette in bocca al suo avversario potenziale degli argomenti molto efficaci al riguardo 18
• Per la soluzione eia lui proposta ·è decisiva la sua metafisica del!' amore che egli congiunge intimamente con la metafisica della cono-
17 Gli occhi della fede, p. 69. 18 Gli occhi delta fede, pp. 75 ss.
25
scenza 19• Ogni conoscenza è espressione di un desi
derio e contiene perciò in sé qualche cosa di «pragmatico». Pensato fino alla fine, ciò significa che bisogna <<vedere nella forza conoscitiva stessa l'espressione di un desiderio-aspirazione essenziale verso la somma e sussistente verità» 20
• Ragione è amore per l'essere. In questa visuale approfondita, l'amore vede perché è ragionevole ed esclude, proprio nel giudizio di credibilità che-secondo Rousselot-coincide con l'atto di fede, motivazioni eterogenee. Ma '>olo quella aspirazione che non lega l'uomo a scopi contingenti e arbitrari, ma corrisponde a quel «comprendere» e a quel «vedere» l'essere infinito e il ~ommo bene che è connaturale alla natura spirituale dell'uomo, può essere luce per la fede. Questo implica nello stesso tempo che la conoscenza stessa, in quanto apertura a Dio, preceda, nella fede, l'amore con la sua luce.
Con questi pochi cenni certo non è esaurita l'opera del Rousselot: forse essi possono aiutare a seguirne le tracce e a comprenderne meglio l'impostazione generale.
All'inizio di questa introduzione ci siamo posti la domanda: il messaggio cristiano del regno di Dio venturo in Gesù Cristo può essere reso comprensibile per l'uomo? E come ciò dovrebbe accadere?
19 Cfr. P. Rousselot, «Amour spirituel et synthèse aperceptive», in Revue de Philosophie del 1° marzo 1910. 20 Gli occhi della fede, p. 77.
26
Rousselot pone, nel contesto della problematica del suo tempo, una domanda che è strettamente connessa con la nostra: <<Come una formula di fede, formatasi apparentemente nel giuoco della casualità storica, può essere il messaggio esclusivo di iDio agli uomini e l'espressione necessaria della buona volontà?» 21
• Nel paragone tra le due domande possiamo vedere che, insieme al messaggio stesso, dobbiamo esaminare anche il «comprendere il messaggio». Nel contesto teologico del tempo del Rousselot, condizione di possibilità per impostare correttamente la soluzione della prima questione era, necessariamente, il dedicarsi all'indagine relativa alla seconda. La sua risposta, che, nella fede, c'è posto anche per la conoscenza, che la conoscenza è guidata dall'amore e viceversa, fa vedere il Cristo (che è il messaggio di Dio) non come mistero intellettuale che, per essere creduto, richiede una luce razionale estranea, ma come impegno d'amore di Dio per il mondo, e la nostra comprensione come amore e vita. Il messaggio può essere reso comprensibile per gli uomini solo se è vissuto e amato.
Ursicin G.G. Derungs
21 Gli occhi dell11 fede, pp. 32.
27
Parte prima
Habet namque fides oculos suos
Sant'Agostino
1. Fede come atto e formula Soluzioni da scartare
Religione e ortodossia, pietà e dogma, fede e credo, coscienza e tradizione: nelle controversie di questi ultimi anni queste antitesi sono state discusse a sufficienza! Il cattolicesimo che riconosce, con certe riserve, una possibile dissociazione tra questi termini, afferma tuttavia la normale e naturale connessione della grazia divina e dell'adesione al suo Credo. In ciò consiste, per gli uomini contemporanei, lo scandalo del dogmatismo. Esso si esprime nelle conclusioni del simbolo Quicumque ed è stato proclamato dal tempo del vangelo: «Noi siamo da Dio. Colui che conosce Iddio ci ascolta», «Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce» 1
• Il problema centrale della fede è dunque questo: come mai una chiesa, che vista dall'esterno sembra una setta tra
1 Gv 4,6; Gv 18,37.
31
tante altre, è l'unica depositaria della verità? Come mai un credo, che pare essersi formato per una combinazione di circostanze storiche, è il messaggio esclusivo di Dio agli uomini e il necessario punto d'arrivo della buona volontà?
Il problema più ristretto dell'atto di fede, che non è affatto apologetico, ma puramente teologico, si pone in termini simili e il modo in cui viene risolto implica una filosofia della religione, cioè una teoria dei rapporti tra la natura e il soprannaturale. Il punto centrale è di nuovo, per usare un'espressione del linguaggio scolastico, la connaturalità della grazia celeste con un dato credo. Ma quel che occorre spiegare, per spiegare l'atto di fede, è il modo in cui si opera nel singolo credente la congiunzione dei due termini. Se la confessione dei dogmi della chiesa è l'espressione normale e naturale della nuova natura che Dio ha posto in noi, della vita della grazia, come trova espressione questa nuova natura? In che rapporto sta con le idee religiose che mutuiamo dal contesto sociale, come si salda con queste idee? Ecco la domanda 2 • San Tommaso definiva dunque molto giustamente i termini del problema quando scriveva: «Fides principaliter est ex infusione, et quantum ad hoc per baptismum datur; sed quantum ad determinatfonem suam est ex au-
2 Non si fa che rigirare il problema, quando ci si chiede che cosa distingue l'atto di fede del cattolico da quello dell'eretico o del maomettano, nei quali il processo psicolcr gico sembra del tutto 'simile.
32
ditu, et sic homo ad fidem per catechismum instruitur» 3
• Giustificazione e confessione: nei termini tecnici di habitus in/usus e di credibilium determinatio ritroviamo i due elementi che sembrano eterogenei e dei quali la chiesa continua ad affermare la naturale solidarietà. Come accade ciò? La grazia si trova infatti laddove c'è la buona volontà, ma le diverse formulazioni della fede nascono e si organizzano, o secondo le opinioni della ragione naturale, o secondo le circostanze della vita fenomenica.
La chiesa ha ristretto ulteriormente il campo delle nostre ricerche condannando, nel concilio Vaticano, le due spiegazioni estreme della congiunzione della fede oggettiva con la fede infusa, della fede credenda con la fede eredita. Queste due spiegazioni sono il razionalismo di Hermes e il sentimentalismo protestante. Hermes attribuiva alla ragione l'intera determinazione dei contenuti della fede, tutto c10 che è conoscenza nella fede 4
• La grazia era per lui
In 4 Sent., d. 4 q. 2 a. 2 sol 3 ad r. Gregorio XVI aveva già condannato questo principio di
Hermes: «rationem principem normam ac unicum medium esse, quo homo assequi possit supernaturalium veritatum cognitionem.» (.Breve Dum acerbis:;imas, del 26 settembre 1835. Denzinger, Enchiridion10, 1619). Si tratta, nella fattispecie, della ragion pratica. Hermes non ha mai detto che un assenso naturale possa essere un atto sal vifìco; ha affermato proprio il contrario, ed è il senso della sua distinzione tra fede di conoscenza e fede del cuore. Ma questa fede del cuore era un abbandono, un consegnare se stessi a Dio: la fede, in quanto conoscenza, era naturale, e la fede senza la carità, la «fede morta» non era una grazia. La sopranna-
33
giustificante, ma non si riusciva a capire come potesse mantenere, nella sua dottrina, la funzione illuminante. Il sentimentalismo preso di mira dal concilio, al contrario, faceva dipendere il riconoscimento delle dottrine da una testimonianza interiore della grazia sperimentalmente percepita 5• La condanna
turalità della fede non poteva dunque esserle intrinseca: es· sa proveniva totalmente dalla carità. La chiesa ha voluto evidenziare, condannandolo, che la fede, anche come conoscenza, è una grazia. È quanto risulta dalle note 14 e 17 allo schema dei teologi (col. 527 e 529 degli Acta Concilii Vaticani, al volume vn della Collectio Lacensis ). Non bi· sogna neppure credere che Hermes abbia concesso troppo alla ragione in questo senso, come se egli avesse creduto di poter dimostrare intrinsecamente i dogmi; poiché per quanto, anche in questo punto, egli abbia un po' esagerato, ha tuttavia insegnato che bisognava cercare la causa dell'assenso ai misteri della fede nella dimostrazione del fatto della rivelazione. Si possono consultare i passaggi ai quali rinvia Denzinger, Vier Biicher van der religiosen Erkenntniss, t. I, p. 246. Cfr. le concessioni di Petrone, accanito avversario dell'hermesianismo, nelle Démonstrations évangéliques di Migne, t. xrv, col. 960. s La dottrina dell'«esperienza interiore» e del!' «ispirazione privata» è stata condannata come eretica: 1) in quanto essa si presenta come lo schema universale e necessario della genesi della fede; 2) in quanto esclude i segni esteriori. Il primo di questi due punti è stato chiaramente evidenziato dalla storia del concilio: i Padri, correggendo la redazione originaria dei teologi e aggiungendo la parola debere, hanno voluto mostrare che essi prendevano pienamente in considerazione la possibilità del caso in cui lo Spirito Santo farebbe credere per mezzo di motivi puramente interiori (Acta 187 a, cfr. 164 a, 77 a. Cfr. Granderath, Constitutiones dog-
34
di Hermes vieta dunque di attribuire la determina· tio esclusivamente alla ragione naturale, rifiutandole ogni rapporto con l'habitus; la condanna del sentimentalismo impedisce di dire che l'habitus porta sempre con sé, nell'individuo che ha la grazia, una
matiette SS. oec. Cane. Vaticani explicatae, p. 98, n. 3; Vacant, Etudes théologiques sur !es constitutions du concile du Vatican, t. II, pp. 37-38). Il secondo punto emerge con sufficiente chiarezza dalla stessa forma del canone. Si quis dixerit, revelationem divinam externis signis credibilem fieri non passe ideoque sola interna cuiusque experientia aut inspiratione privata homines ad /idem moveri debere, anathema sit (Canone 3, De Fide}. Occorre evitare, sia di estendere indebitamente, sia di restringere all'eccesso la portata di questa condanna. La si restringerebbe eccessivamente, ·anzi la si annullerebbe, se si ammettesse come solo schema legittimo della genesi della fede, quello in cui l'uomo com· pirebbe nel suo cuore, e senza visione alcuna dei segni esteriori, l'atto di fede nella divina rivelazione, salvo dover poi riconoscere, per conformità con questa rivelazione interiore, la vera chiesa fra tutte le società storiche che si rifanno a Cristo. In questo caso, il concilio avrebbe condannato soltanto il solipsismo religioso, l'individualismo assoluto. Ora, il concilio ha certamente preteso di fare qualcosa di più, di escludere cioè certe concezioni dell'esperienza religiosa interiore che pure facevano giungere, in fine, al riconoscimento di una chiesa esteriore (cfr. i testi dei protestanti citati nelle note allo schema dei teologi, Acta, col. 528, note 1 e 2; cfr. anche Denzinger, Vier Biicher von der religiosen Erkenntniss, t. II, pp. 301 ss.; i teologi del concilio sembrano aver preso da queste pagine quello che dicono dei teologi protestanti; tutte le citazioni che essi fanno vi si trovano e del resto vi rimandano esplicitamente, Acta, col. 528, nota 2). Crediamo che non si sfuggirebbe alla condanna del concilio mantenendo la necessità di un fatto este-
35
certa coscienza sperimentale della determinatio. Restano escluse due soluzioni: quella che rifiuta alla grazia ogni attività conoscitiva e quella che afferma la necessità di una rivelazione interiore oggettiva percepibile in ogni uomo.
riore, ma ponendo, come legge necessaria e universale, la esigenza che esso possa essere riconosciuto solo dal fatto interiore conosciuto a parte e precedentemente. Si estenderebbe però indebitamente la portata della sentenza conciliare, facendole condannare la teoria che spiega la genesi della fede a partire dall'incontro tra 11 fatto interiore e il fatto esteriore, l'uno e l'altro essendo ugualmente necessari. Dal momento in cui il fatto interiore non è più inteso come la misura e la regola percepita precedentemente e sulla quale si giudica il fatto esteriore, si sfugge alla condanna dell'eresia. Questo incontro dei due fatti può allora essere concepito in modi diversi. Se si intende dire che alla conoscenza del fatto esteriore si unisce necessariamente quella del fatto interiore tanquam obiecti cogniti, non si merita, a mio avviso, la censura teologica; ma la spiegazione non mi pare conforme né all'esperienza né alla concezione cattolica in generale. Occorre dire, ed è la concezione che verrà difesa in questo lavoro, che una certa disposizione volontaria prodotta dalla grazia è indispensabile a ogni atto di fede legittimo e a ogni percezione certa della credibilità, non già come un fatto interiore visto, ma come degli occhi per vedere il fatto esteriore. Il «fatto interiore» è dunque «illuminante piuttosto che illuminato, intelligente piuttosto che intellegibile», per usare alcune eccellenti espressioni di Mallet (Qu'est-ce que la fai?, Paris 1907, p. 30. Altri modi di dire dello stesso autore, p. 29, p. 32, ci sembrano richiedere una coscienza espressa del fatto interiore, una percezione dell'inquietudine religiosa ut motivi cogniti, ma non so se le ho ben capite). L'amore soprannaturale suscitato dalla grazia (e che non è necessariamente l'amore santificante, l'a·
36
2. L'ipotesi di una fede naturale «scientifica»
Una volta posto il problema in questo modo, molti teologi moderni, per spiegare il rapporto tra la fede infusa (facoltà soprannaturale di conoscenza) e la fede dogmatica (insieme degli oggetti conosciuti), hanno fatto ricorso ad un termine medio, a una specie di «schematismo». Essi ammettono la possibilità, anzi, perfino la necessità della presenza, nel credente, della «fede scientifica» o, per usare un termine più generale e meglio rispondente al loro pensiero, di una fede acquisita naturalmente e legit· timamente certa 6• Essi pensano che la ragione possa
more di carità. Cfr. san Tommaso, De Veritate, q. 14, a. 2 ad 10) non è rappresentato coscientemente, gli occhi della fede non si vedono. Se ne ha coscienza in quanto si vede l'oggetto per mezzo di essi, in quanto li si apre, in quanto li si usa. Riassumerei dunque cosi la differenza tra la concezione protestante presa di mira dal concilio e la concezione cattolica, cosi come io l'intendo: la prima richiede una grazia percepibile e la seconda una grazia percipiente. Tutto dipende dalla differenza tra sensa perceptibilia e sensus perctptens. «Dedit nobis sens111n», dice san Giovanni (oÉowxev 'Ì}µ~v OLa\IOL!X\I ~va 'YL\IWCì'XW[J.E\I 't'Ò\I a'ì,l)0LV6V,
1 Gv 5,20). I teologi delle scuole più diverse convergono in questa
opinione. «Si è generalmente del parere, scrive Vacant, che non è impossibile all'uomo aderire alle verità rivelate dal· l'autorità di Dio, per mezzo di adesioni naturali, che non coincidono con la fede soprannaturale, ma che le assomigliano da molti punti di vista» (op. cit., t. II, p. 74). «Che ci possa essere, dice Bainvel, una fede puramente na· turale nella parola di Dio, è ammesso da tutti i teologi e
37
riconoscere da sola, senza la grazia, la determinatio delle verità da credere, per mezzo della dimostrazione della credibilità che mostra con certezza che occorre aderire alla chiesa di Gesù Cristo come all'in-
riconosciuto dal buon senso ... essa avrà una sicurezza, un abbandono, una certezza assoluta.» (La Poi et l'Acte de foi, Paris 21908, p. 159, cfr. p. 172). Nello stesso modo si esprime Gardeil: «Tutti i teologi ammettono che la fede naturale, la <<fede scientifica» nella verità rivelata, è l'esito normale, in sé possibile, della ricerca della credibilità» {La Credibilité et l'Apologétique, Paris 1908, p. 23). Parimenti si esprimono il P. Hilaire de Barenton, sostenitore della scuola francescana (in Etudes franciscaines, settembre 1908, p. 239) e Billot le cui affermazioni sono particolarmente chiare (De Virtutibus infusis 12, pp. 76-77). Anch'essi parlano, ed è logico, della possibilità di una dimostrazione puramente razionale della credibilità, intendendo con ciò, sia la possibilità di dimostrare il fatto stesso della rivelazione divina, sia la possibilità di dimostrare la legittimità dell'atto di fede (posto in virtù di un principio riflesso e per quanto il fatto dell'attestazione divina non sia rigorosamente provato. Cfr. i numerosi autori citati da Hugueny in Révue thomiste, maggio-giugno, 1909, pp. 275-298). Dimostrazione della credibilità (in senso stretto o lato) e possibilità della fede naturale certa, procedono di pari passo. In effetti, tutti riconoscono che gli enunciati rivelati presentano alla ragione naturale un senso intelleggibile: non si può dunque attribuire a questa ragione il potere di aderire al fatto della rivelazione e rifiutarle il potere di dare al suo contenuto un'adesione proporzionata.
È molto interessante, per conoscere l nessi filosofici di questo concetto di fede naturale, tracciarne le origini storiche. Lo faremo in una ricerca separata. Notiamo qui che la concezione in questione, nella sua forma più rigorosa, è penetrata nell'insegnamento corrente: tra i fedeli che hanno
38
viato da Dio sulla terra. La ragione presenterà cosl alla fede soprannaturale il .suo oggetto preparato.
Questa dottrina dei teologi moderni non è affatto l'hermesianismo. Essi sanno che la fede morta è una grazia. Se essi pensano, con Hermes, che la ragione possa giungere, per mezzo della dimostrazione di credibilità, a ritrovare la materialità dell'oggetto di fede, se talvolta giungono perfino ad ammettere la possibilità di una fede naturale non solo certa, ma del tutto simile psicologicamente alla fede soprannaturale 7
, essi non riducono a questo la conoscenza della fede. Essi doppiano soltanto, per così dire, la fede soprannaturale con una fede naturale che le è inferiore in dignità, in fermezza, in certezza, ma che le è, o le può essere, co-estensiva quanto all'oggetto.
Del resto questi teologi non pretendono di costringere lo Spirito Santo ad adeguarsi al loro schema. Dopo aver ·spiegato, quasi sempre con un'estrema finezza dialettica, spesso con rare qualità analitiche, quale è secondo loro, il meccanismo dell'atto di fe. de, essi aggiungono sempre che il loro sistema non
un po' di cultura, tra i ragazzi intelligenti, nei collegi cattolici, ecc., molti si rappresentano l'atto di fede come se rac· chiudesse in sé un atto di scienza naturale. «lo sono cattolico perché la divinità della chiesa è scientificamente provata dalle profezie, dai miracoli, dai documenti dell'Antico e del Nuovo Testamento.» («Lettera di un padre di fami· glia», citata in La Croix il 2 dicembre 1909, prima pagina, ultima colonna. Il corsivo non è mio.
Cfr. Billot, op. cit., pp. 76-77.
39
esaurisce la ricchezza dell'iniziativa divina: se, per alcuni, non è possibile giungere alla certezza naturale, la grazia saprà ben trovare il modo per supplire a questa debolezza 8
• Alcuni affermano questo .solo per inciso e dopo aver fatto tutti gli sforzi per estendere a tutti i casi immaginabili la loro spiegazione della certezza naturale 9• Altri sostengono espressamente una teoria di quelle che chiamano le supplenze gratuite della credibilità 10
• Ma quasi tutti continuano a ridurre il normale atto di fede a uno di questi due tipi: o l'atto di fede soprannaturale
8 Franzelin disse, nel discorso pronunciato 1'11 giugno 1870, davanti a ventiquattro delegati del concilio, a proposito dello schema dei teologi: «Tenendum etiam et gratiam Dei internam supplere id, quod pro huiusmodi hominibus (gli illetterati) deficit in propositione fìdei externa.» (Acta, 1623a). Le parole che ho messo in corsivo mostrano che, nel suo pensiero, il soccorso è accidentale; lo si vede ancor più chiaramente dal modo in cui egli si esprime altrove (De Traditione et Scriptura, II ed., p. 684). 9 D'altra parte, tutti sono d'accordo nell'affermare che, in pratica, è difficile, o moralmente impossibile, credere al cristianesimo con una fede puramente naturale. (Franzelin, op. cit., p. 688, Billot, op. cit., pp. 77-78). Ma allora, perché discutere su di una possibilità astratta quando ci si capisce sulla realtà dei fatti? Perché tenere tanto al fatto che si dica impotenza fisica e non soltanto impotenza morale? La discussione ha forse poca importanza per l'apostolo individuale, ma ne ha una considerevole per la teoria della conoscenza religiosa che, a seconda che ci si decida in un senso o in un altro, cambia totalmente aspetto. 10 Cfr. Gardeil nel suo libro chiaro e vigoroso La Credi-bilité et l'Apologétique, pp. 97 ss.
40
contiene virtualmente ed eleva un atto di fede naturale 11 o, perlomeno, esso è stato preceduto da una constatazione naturale del fatto della rivelazione.
È chiaro come una dottrina simile renda difficile da spiegare la fede dei bambini e degli ignoranti (in quanto, per ciò che riguarda i dotti, a molti la cosa sembra semplice! 12
). I documenti della chiesa esigono che la fede non sia cieca, ma ragionevole e tutti i teologi aderiscono al principio che san Tommaso ha formulato in questi termini: «Non crederemus, nisi videremus esse credendum». Ma come trovare nel piccolo contadino che studia il catechismo, la fede scientifica, la dimostrazione razionale, o perlomeno la perfetta certezza della credibilità, fondata su ragioni assolutamente valide? Come trovarla nel negro che crede sulla parola del missionario? Non basta affatto una spiegazione psicologica che chiarisca il meccanismo dell'atto di fede o della disponibilità a credere. Tale spiegazione si applicherebbe tanto alla fede del musulmano quanto a quella del cristiano. Se il bambino cattolico ha ragione di credere a sua madre e al suo parroco, il bambino protestante ha forse torto nel credere al suo pastore e a sua
li Desumo questa formula, che caratterizza in modo eccellente la teoria della fede scientifica, dal de Séguier, in Annales de philosophie chrétienne, dicembre 1897, 37, p. 276. 12 «Nulla difficultas quoad doctos.» (Mazzella, De Virtutibus infusis, III ed., p. 794; cfr. p. 394 ). Schiffini, De Virtutibus infusis, p. 262.
41
madre? Questo caso semplicissimo racchiude il nucleo essenziale del problema.
Quando dunque si risponde per mezzo delle «certezze rispettive» fondate all'uopo su dei «principi pratici riflessi» 13 non si elimina la difficoltà. I buddisti, gli scintoisti hanno delle «certezze rispettive» e Socrate si fondava proprio .su un «principio riflesso» per concludere che ogni uomo deve il culto agli dèi della sua città. Un assenso speculativo assoluto, anche di ordine naturale, esige come fondamento una perfetta certezza oggettiva. Indebolirei, traducendola, questa espressione di san Tommaso: «Proprium motivum intellectus est verum id quod habet infallibilem veritatem. Unde quandocumque intellectus movetur ab aliquo fallibili signo, est aliqua inordinatio in ipso, sive perfecte sive imper/ecte moveatur» 14
• È conveniente che sia un disordine a fondare o a introdurre alla fede?
13 «Equidem cum Lugo et aliis censeo, scrive Viva, non esse recurrendum ad illustrationem supernaturalem spiritus
sancti, ad hoc ut habeatur in pueris et rudibus sufficiens evidentia credibilitatis contradistincta a mera probabilitate ... ita quilibet intra se ... : Ego indoctus in rebus a me ignoratis, ac praesertim Religionis, stare debeo iudicio sapientum, et piorum; sed Parochus est sapiens, ac pius: ergo eius iudicio mihi standum est, et illa teneor credere quae mihi credenda proponit ... » (Viva, Damnatae theses, prop. XXI
di Innocenzo XI, n. 10). i<: la spiegazione comune, ripresa da un infinito numero di autori. Che fondamento debole per la fede soprannaturale! Dove è la differenza con l'infedele? E se il bambino preferisce il maestro al curato? 14 De V eritate, q. 18 a. 6.
42
3. Razionalità e soprannaturalità della fede
Pare dunque necessario fare ricorso alla luce della grazia; e che cosa c'è di più naturale quando si parla della fede? Alcuni pretendono espressamente di spiegare senza di essa la credibilità; altri, Suarez per esempio, non credono di potervi rinunciare, almeno quando si tratta della fede dei semplici e dei bambini.
Può stupire il fatto che questa strada non sia stata seguita da tutti i teologi e che si siano moltiplicate le ricerche e le ipotesi sottili per spiegare in modo puramente naturale la percezione delle ragioni di credibilità. 1Sembra che la ragione di ciò stia nel fatto che coloro che ricorrevano alla grazia non mostravano in modo sufficientemente chiaro come essa potesse creare una perfetta certezza senza sconvolgere il contesto psicologico del credente, senza portare con sé nuove nozioni, nuovi oggetti.
A quanto pare un pregiudizio filosofico ha sbarrato loro questa strada. Non ha fatto loro difetto né il senso della difficoltà, né l'attenzione ai fatti. Talvolta si ammira nei loro studi, con l'agilità dell'argomentazione, quel senso della psicologia concreta tanto apprezzato da Balzac negli esponenti del clero cattolico. Ma non si può fare a meno di fare un'altra constatazione. La maggior parte di questi teologi si limita ad analizzare lo stato di coscienza dei fedeli, tenendo conto solo degli elementi della rappresentazione e trascurando l'attività sintetica dell'intelligenza naturale o soprannaturalizzata. In lin-
43
guaggio scolastico si direbbe che essi considerano esclusivamente id quod repraesentatur e che non parlano mai del lumen, dell'id quod inclina! ad assensum. Senza dubbio, altri considerano le cose da questo punto di vista, ma quando, seguendo san Tommaso, parlano dell'assenso dato in forza di un'inclinazione, essi considerano questa inclinazione come se fosse destinata a supplire 15 i motivi esteriori piuttosto che a rischiararli; per essi si tratta di inclinazioni coscientemente sperimentate, di esperienze personali chiaramente rappresentate 16
• Cosl come i primi esaurivano tutte le risorse di un'ingegnosa invenzione nello scoprire, nella coscienza rappresentativa del bambino cattolico, degli elementi oggettivi che mancavano al piccolo protestante, questi ultimi riducono le prove della fede a un miscuglio di probabilità e di preferenze soggettive e concedono ai semplici di credere soltanto grazie a una beata leggerezza. Non si aveva mai l'impressione di vedere con sufficiente chiarezza come l'illuminazione soprannaturale si accordi con una reale efficacia dei segni esterni, di modo che questi due elementi integrino una stessa certezza. Il fatto è che, sia per gli uni
!5 Alcuni tuttavia, come Suarez, De Fide, disp. 4, sect. 5, nn. 9-10, concepiscono l'influsso della grazia come intrinseco, come complementare ai motivi di credibilità. 16 Giovanni di san Tommaso, Cursus Theologicus in uam
n"', De Fide, Disp. 3, a. 1, s. 2, n. 3: «Ex parte obiecti addit aliquam repraesentationem, non-quidem penetrando veritatem sed convenientiam obiecti ut moveat ad assensum». Il corsivo è mio.
44
che per gli altri, il modelJo della vera certezza intellettuale continua a essere il possesso, da parte dello spirito, di concetti rappresentativi che si possono scambiare tra di loro per mezzo di sostituzioni equivalenti 17
•
Ma, anche considerando solo la conoscenza naturale, si sa che una simile concezione rende conto in modo insufficiente dei fatti. Il movimento reale dell'intelligenza non ·è spiegato se non si vede in essa, prima di tutto, una facoltà attiva di sintesi.
Atteniamoci ai fatti più quotidiani e semplici: immaginiamo che due uomini stiano cercando insieme l'esatta legge di una serie di fenomeni misteriosi e che siano guidati, nella loro ricerca, da una medesima ipotesi; oppure immaginiamo due poliziotti che analizzano insieme il luogo di un delitto e i cui sospetti convergono su di un determinato individuo. Dal fatto che uno stesso fenomeno si manifesti ai
17 Sulla controversia menzionata è sorta una discussione tra due teologi molto autorevoli, Bainvel e Gardeil. (Revue pratique d'apologétique, maggio, giugno, agosto, novembre 1908). Non tento qui di riassumere le loro suggestive e sfumate spiegazioni; mi sia tuttavia concesso di dire qualcosa circa l'impressione che si riceve da queste controversie: essa mi pare confermare nettamente quello che dico nel testo. Bainvel stabilisce perfettamente la proposizione ch'egli enuncia come segue: «I semplici hanno delle ragioni per credere realmente sufficienti, per quanto non siano in grado di sistematizzarle. Quando si tratta della credibilità non è tanto... di 'supplenze soggettive' che bisognerebbe parlare, quanto piuttosto di aiuto per la percezione diretta e spontanea dei motivi realmente validi» (1° maggio, p. 188). Ri-
45
due scienziati o che uno stesso dettaglio sia notato nello stesso istante dai due investigatori, non consegue affatto un'uguale reazione: per uno potrà essere, di colpo, la certezza; per l'altro, l'oscurità come prima. Tuttavia, nella sua materialità o, che è lo stesso, nella sua individualità, il fatto nuovo è rappresentato in modo simile alle due intelligenze; ma la prima non lo ha percepito come fenomeno bruto e isolato; essa lo ha visto come indizio della legge o della conclusione ricercata, ha percepito il fatto nel suo rapporto con la legge, ha fatto la sintesi del fatto e della legge, affermata di colpo come vera. L'altro, al contrario, «non vede»: pur rappresentandosi sia la ipotesi proposta che il fatto nuovo con la stessa esattezza materiale del suo collega, perfino pensando, forse, la loro relazione, se quest'ultimo gliela spiega,
sulta allora, dall'argomentazione del suo avversario, che questa percezione non è certa senza la grazia (e Bainvel non contraddice a questo, per lo meno per la questione di fatto). Occorre dunque vedere come la grazia possa far percepire, con una certezza oggettiva e vera, delle ragioni che sarebbero solo probabili per l'intelligenza naturale lasciata alle sue proprie forze; occorre determinare alla grazia una funzione tra le due che spesso ci si limita ad attribuirle: la istruzione oggettiva o rivelazione (contraria all'esperienza), l'impulso soggettivo o affettivo (incapace di garantire una certezza). In questa prima parte si cerca di precisare questa funzione intermedia; nella seconda si affronterà la teoria tomista della conoscenza per attrazione, alla quale Gardeil rimanda tanto giustamente: si tenterà di determinare in quali condizioni queste attrazioni possono assumere la funzione qui definita, che è, non tanto di supplire, ma di operare la conoscenza, di far vedere, e non di dispensare dal vedere.
46
gli sfugge fa connessione, non riesce a fare la sintesi. Cosl, la differenza tra colui che vede e l'altro non deve essere ricercata in qualche differenza degli elementi della rappresentazione, ma nella maggiore o minor potenza dell'attività intellettuale. «Ma-si obietterà-la differenza non è nella scienza acquisita o nell'esperienza accumulata?». Non necessariamente, poiché essa può essere nel solo talento naturale; ma, quand'anche fosse laddove si è detto, il nostro principio non verrebbe meno, in quanto colui che vede, nel nostro esempio, non pensa in questo istante all'insieme della sua scienza o della sua esperienza: la sua scienza è in lui percettiva e non percepita 18
, per cui si ritorna sempre a una differenza nella facoltà intellettuale.
La stessa cosa accade per la fede, per il lumen fidei, quando si percepisce la credibilità. Questa luce non dà affatto, a meno di miracoli, dei nuovi oggetti da conoscere: determinatio fidei est ex auditu. Le si deve invece la percezione della connessione, la sintesi, l'assenso. Queste tre cose che, come diremo, formano una cosa sola, non hanno nelle rappresentazioni la loro ragione sufficiente. Ammettiamo, dunque, che due persone si trovino in situazioni psicologiche press'a poco identiche: la presenza o l'assenza di una nuova facoltà percettiva è sufficiente per spiegare la luminosa certezza in uno e la persi-
18 Se la scienza è U!;~c:;, non deve essere qui considerata come un avere, ma come ciò che la scolastica intende con il termine habitus.
47
stente oscurità nell'altro. Inversamente, considerate due bambini ciascuno dei quali conosce soltanto la «religione dei suoi padri»: il loro assenso, anche se forse non presenta nessuna differenza all'analisi, non ha tuttavia lo .stesso valore: in uno si tratterà di legittima certezza, nell'altro di opinione falsa. Si noti, per quanto riguarda il primo caso, che l'incredulo può rappresentarsi esattamente ciascuna delle proposizioni attraverso le quali colui che vede si sforza di esporgli minuziosamente la connessione, di rendergliela intelleggibile, perfino di ridurla, nella misura in cui è possibile, in termini diversi ma equivalenti: questa esatta rappresentazione non è ancora l'assenso. Un personaggio di Loss and Gain dice a Charles Reding: «Riesco a immaginare le vostre argomentazioni, ma, sinceramente, non riesco a vedere come arriviate alla vostra conclusione». E il convertito rispose «Per me, Carlton, è come due più due fa quattro» 19
• La differenza di assenso di fronte a rappresentazioni simili non deve costituire per il teologo una seria difficoltà, poiché la teologia concepisce la fede come un'attività conoscitiva .soprannaturale.
4. Priorità reciproca come soluzione
Ma, dall'esempio molto semplice del quale ci siamo serviti, si può ricavare qualcosa di più. Oc-
19 Newman, Loss and Gain, parte terza, cap. 5, London 1916, p. 364.
48
corre notare anche la priorità reciproca tra !'affermazione della legge e la percezione del fatto che serve da indizio. I teorici contemporanei della logica induttiva hanno messo bene in luce questa proprietà. Non si percepisce prima la prova come tale e, in seguito, la cosa provata, ma si vede, contemporaneamente, la legge generale nell'atto di sussumere il caso particolare, che ne è, sotto diversi aspetti, la causa e l'effetto, la prova e l'applicazione, la conseguenza e l'indizio. Si vede la legge attraverso l'indizio, ma è solo nella legge che si vede l'indizio. Il fatto può essere conosciuto come indizio solo se si afferma la legge.
Se la nozione di questa reciprocità causale sembra strana a qualcuno, lo prego di considerare il caso in cui non si tratta tanto di scoprire una spiegazione o di verificare un'ipotesi, ma, come si suol dire, di entrare in un'anima, di cogliere l'armonia interiore di una psicologia. Io posso aver letto dieci volte Amleto e non aver capito Amleto. Riprendo il libro ed ecco che una parola, che fino ad allora avevo letto senza penetrarla veramente, suscita in me, di colpo, l'intuizione del carattere di Amleto come di un tutto intelleggibile, di una realtà che ha una sua consistenza. «1Eccomi ! Ci sono!» si esclama. La percezione di questa parola come indìzio, come significa!Pva, ·è, dal punto di vista temporale, simultanea alla percezione globale del carattere; essa le è razionalmente anteriore, in quanto ne è veramente la causa: è l'indizio che mi introduce in Amleto, che mi fa comprendere Amleto; da un altro
49
punto di vista, le è razionalmente posteriore, poiché la percezione di una parola come tratto di un carattere ha senso solamente se il carattere è già conosciuto.
Forse si obietterà che qui non si tratta di affermare o di negare, ma soltanto di comprendere; ma si farebbe, a torto, dell'assenso un atto più o meno volontario, distinto dalla sintesi dei termini. Riprendiamo il caso dell'affermazione di una legge naturale: percepire la connessione e dare il proprio assenso sono la stessa cosa 20
• Effettivamente, percepire la connessione, significa percepire l'indizio come indizio. Ma l'indizio non può essere percepito come indizio se non si percepisce contemporaneamente, per una necessaria correlazione e con la stessa modalità di conoscenza 21
, la cosa «indicata». Quest'ultimo punto è di grande importanza nella
teoria della fede. Esso ci fa infatti comprendere come nelle conoscenze soprannaturali di cui parliamo, non occorra affatto immaginare un «giudizio di credibilità» distinto dall'assenso di fede. La percezione della credibilità e la confessione della verità sono lo stesso atto 22•
20 In linguaggio scolastico: l'esse quod significat compositionem et divisionem intellectus non è, come l'essere predicamentale, una nota rappresentata, una nota d'essenza. 21 Ciò significa che se l'inizio è percepito come probabile, l'ipotesi che esso prova è affermata soltanto come probabile, ecc. 22 La credibilità percepita alla luce della grazia non è dunque affatto obiectum quod, cioè termine di conoscenza,
50
Se la percezione della credibilità forma una co· sa sola con l'atto di fede, cosl come la percezione del rapporto tra indizio e ipotesi forma una cosa sola con l'assenso a tale ipotesi, allora non c'è più alcuna difficoltà ad affermare, con san Tommaso, che è la luce della fede a far vedere che bisogna credere 23
• C'è circolo vizioso se si pretende di dimostrare una certa proposizione per mezzo di un'altra, ancora non provata e appoggiantesi sulla prima. Ma non c'è neppure l'ombra di esso se .si dice che una proposizione richiede, per essere affermata, il possesso della facoltà spirituale che manifesta il rapporto dei suoi termini, il possesso della facoltà sintetica che li unisce o, per parlare come gli antichi, della luce che li illumina. Accade così anche per il Credendum est, se se ne fa una condizione dell'affermazione di una verità soprannaturale o, che è lo stesso, se se ne fa una proposizione esplicitamente enunciata, ma creduta e non semplicemente affermata dalla ragione naturale.
Si concede con relativa facilità, una volta supposta la fede, che la sua luce possa far vedere la credibilità; ma non c'è motivo per spiegare in modo differente il primo atto di fede e per rifiutare di dire che la luce soprannaturale rischiara l'atto stesso per mez-
oggetto pensato, essa è quo, o sub quo, cioè condizione dell'oggetto. Gli autori antichi concepivano cosl la sua fun· zione, ma solo in alcuni casi. (Cfr. per esempio, Giovanni di san Tommaso, Cursus Theologicus in u•m u•0 , De Fide, Disp. 2, a. 3, n. 12 ss.). 23 u• u•e, q. 1, a. 5, ad 1; cfr. ibid., a. 4, ad 3.
51
zo del quale la si acqms1sce. L'indizio è realmente causa dell'assenso che si dà alla conclusione ed è tuttavia la conclusione percepita che rischiara l'indizio, che gli dà un senso. Cosl accade quando si crede: l'indizio percepito, in quanto rende ragionevole l'assenso, lo precede; in quanto è soprannaturale, lo segue. Ci sono due ordini, quello dell.l razionalità e quello della soprannaturalità: per ognuno di questi si può stabilire uno schema astratto. Si può dire: «lo vedo la virtù di un cristiano; ne concludo la santità divina della chiesa; confesso la fede». E si può anche dire: «lo ricevo dall'alto una nuova facoltà di vedere 24
; confesso la santità della chiesa; ne riconosco gli effetti, le tracce in quest'uomo». Queste due serie di riflessioni rappresentano soltanto degli aspetti del reale, veri e incompleti. Le loro verità sono unite, conciliate, nell'unità vivente dell'affermazione e non c'è affatto circolo vizioso. Ci sarebbe circolo vizioso, o salto nel buio, o affermazione arbitraria e indebita, solo se la verità affermata fosse assolutamente anteriore alla condizione della sua affermazione e non la suscitasse affatto con una causalità reciproca. Accade la stessa cosa nel caso di Amleto o nel caso della legge naturale:
24 Questa facoltà si acquisisce solo attraverso un atto di volontà, l'oboeditio fidei, il pius affectus credendi, come mostreremo nella seconda parte del nostro studio. La congiunzione qui indicata dei due oggetti è dunque lungi dall'esaurire la complessa realtà dell'atto di fede, che riunisce nella sua unità vivente ciò che troppo spesso si disperde in un gran numero di «giudizi» e di <<Comandamenti».
52
l'habitus istantaneamente acquisito, ciò che si può chiamare la scienza percettiva, precede e segue la scienza percepita.
5. L'essere e la grazia (Oggetto formale naturale e soprannaturale)
«Mio Signore e mio Dio!»; «Veramente quest'uomo era il figlio di Dio!». In questo grido del centurione convertito e dell'apostolo ritornato fedele, la tradizione ha sempre visto sia l'introduzione che la manifestazione della fede. Qui non c'è spazio per un «giudizio di credibilità» a sé stante. Ma queste parole riferite dal vangelo illustrano anche, molto felicemente, un altro carattere di questa induzione rapida e soprannaturale che a noi sembra spiegare la fede più felicemente di ciò che ordinariamente si intenda per «dimostrazione di credibilità». Ecco in che cosa consiste quest'ultimo carattere.
I segni esteriori che fanno vedere sono cli una varietà sorprendente: la santità di un buon prete, la guarigione di un malato, l'impressione lasciata da una festa religiosa, ecc. Ma un segno di questo genere è conosciuto sempre sia come un fatto certo, collocato all'interno dell'esperienza umana, sia come indizio di una nuova verità all'ordine della quale esso appartiene. Lo si conosce dunque sotto un nuovo aspetto, come facente parte di un altro mondo, il mondo soprannaturale. Molti teologi dicono in-
53
fatti che l'oggetto formale 25 della conoscenza è nuovo. L'oggetto formale dell'intelligenza naturale è l'essere naturale, proporzionato al fine naturale; l'oggetto formale della conoscenza di fede è l'essere soprannaturale, appartenente all'ordine della grazia, mezzo per condurre alla visione intuitiva.
Uno stesso essere può dunque appartenere sia all'ordine naturale della nostra esperienza che all'ordine soprannaturale della grazia, e la grazia interiore-1' abbiamo detto più di una volta-non fa conoscere dei nuovi oggetti, ma illumina un aspetto nuovo dell'oggetto già conosciuto. Cosl la soave disposizione della divina Provvidenza, senza traumi, senza rotture nella vita cosciente, senza urti, senza irruzioni violente, continua, attraverso l'illuminazione della grazia, le chiarezze della conoscenza naturale, e ci fa vedere, nell'orizzonte stesso degli oggetti ai quali ci interessiamo, degli indizi del mondo superiore. Riconoscere in essi una nuova natura, significa penetrare più chiaramente e più a fondo nella loro realtà. L'apostolo Tommaso «vide l'uomo e credette il Dio», come dicono giustamente i Padri; ma Dio e l'uomo era lo stesso Gesù Cristo. Ai nostri giorni molti hanno visto Roma, cioè un'istituzione magnificamente umana, sovranamente ragionevole e civilizzatrice, e hanno creduto la chiesa 26
, cioè la madre dei figli di Dio, la sposa di Cristo, la dispensatrice
25 Ratio sub qua. 26 Cfr. per esempio P. Loewengard, La splendeur catholique, Paris 1910, p. 163 ss.
54
della salvezza: le due conoscenze sono molto diffe. renti e la prima si trova, a volte, senza la seconda. Ciononostante Roma è la chiesa e la chiesa è Roma.
Una tale continuità delle due conoscenze è possibile solo a una condizione: occorre che i due oggetti formali, quello naturale e quello soprannaturale, non siano né opposti né disparati, ma che l'uno inglobi e superi l'altro, approfondendolo e perfezionandolo interiormente. Altrimenti la nuova fa. coltà di vedere sarebbe percepibile sperimentalmente, cosl come lo sarebbe la brusca acquisizione dì un sesto senso o come lo è l'infusione della contemplazione mistica nei suoi gradi superiori; l'esperienza mostra che per la fede non accade cosl. L'essere soprannaturale di cui parliamo è dunque l'essere naturale elevato. L'essenza dell'essere naturale consiste, in ultima analisi, nella sua essenziale attitudine a servire da mezzo, per gli spiriti creati, per giungere a Dio, loro fine ultimo; l'essenza dell'essere soprannaturale consiste nella sua attitudine a condurli a Dio, oggetto della visione beatifica. I due «oggetti formali» non sono né opposti né disparati, cosl come non lo sono i due fini 27
•
21 «Finis supernaturalis et finis naturalis non sunt fines disparati, et non differunt sicut duo apposita, sed solum sicut quod excedit et quod exceditur». (L. Billot, De Grafia Christi, Roma 1908, t. I, p. 46). Nessun altro teologo moderno ha dato tanto rilievo a questa idea essenziale quanto l'autore di questo notevole libretto. Quanti sono interes· sati alla questione della natura e del soprannaturale lo leggeranno con piacere e profitto, anche se non hanno ricevuto
55
D'altra parte, come l'intelligenza naturale può sbagliare a riguardo delle caratteristiche che si estendono al di là dell'essere, mentre non sbaglia mai a riguardo della ratio entis, che è il suo oggetto formale, in quanto solo questa ratio può muoverla, allo stesso modo e molto di più, la luce della fede è infallibile nel cogliere la manifestazione dell'essere soprannaturale 28
• Le ragioni per credere percepite alla luce della grazia sono necessariamente delle buone ragioni per credere 29
•
La solidità di queste ragioni è assolutamente indipendente dal potere della ragione discorsiva di stabilire, tra il fatto che serve da indizio e la credibilità della fede cristiana, una serie di argomentazioni sillogistiche. Lo Spirito Santo può manifestare questa credibilità all'anima, .sia illuminando per essa il rapporto che esiste tra la santità del curato della sua parrocchia 30 e la divina santità della chiesa, sia
una formazione scolastica. Se essi vogliono prendere contatto con le dottrine della Scuola, trarranno maggior profitto dall'incontro con uno spirito originale e potente (anche se il suo austero rigore può, a volte, sorprendere) che non dalla lettura di un manuale incolore che li annoierà con la sua saggia mediocrità. 28 Cfr. san Tommaso, In Boetium de Trinitate, q. 3, a. 1, ad 4. 29 Quando si dice che un uomo crede per una ragione che è solo probabile «in sé», o questa parola non ha senso, o essa significa: ragione incapace di generare legittimamente una probabilità nell'intelligenza umana, troppo debole per percepire a fondo la realtà del fenomeno di cui si tratta. 30 L'impossibilità di esprimere questa connessione in pa·
56
illuminando quello che esiste tra l'insieme della storia della chiesa e il suo essere condotta dalla divina Provvidenza: per questo è sufficiente che questo rapporto sia reale.
Occorre però procedere oltre: nella conoscenza naturale, più l'intelligenza è agile e penetrante e più le basta un indizio tenue per indurre con certezza una conclusione. Accade la stessa cosa nella conoscenza soprannaturale. Più l'anima è docile alle sollecitazioni dello Spirito Santo, più le sarà facile, per mezzo dei segni ordinari e quotidiani, e non «straordinari» o «miracolosi», giungere all'assenso di fede 31 • È per questo che un'incontestabile tradizione che risale al vangelo stesso loda coloro che non hanno bisogno di prodigi per credere. Non li si loda affatto per aver creduto senza ragioni: ciò sarebbe deplorevole; ma si vede in essi delle anime veramente illuminate e capaci, attraverso un minimo indizio, di cogliere una grande verità. D'altra parte l'esperienza mostra che quando lo Spirito Santo vi-
role e in concetti non impedisce affatto la sua certezza e la sua intellegibilità. Gli esempi di una simile impossibilità abbondano anche nell'esercizio naturale dell'intelligenza come facoltà induttiva. 31 Non c'è bisogno di credere che il segno della chiesa di cui parla il concilio Vaticano debba prendere necessariamente la forma di una considerazione sull'insieme della storia della chiesa o perfino sull'azione totale della chiesa nel mondo nel momento in cui viviamo. La «santità di una grande cristiana», o <d meravigliosi frutti della santa comunione», rientrano tutti nella «prova per mezzo della chiesa».
57
sita l'anima con la sua consolazione, questa non può più, per cosl dire, dubitare e vede in tutte le cose dei segni manifesti della verità. «Pensa a qualunque cosa, dice l' autore dell' Aiguillon d' amour, e vi troverai un grande motivo per amare il tuo creatore». Alcuni santi andavano in estasi alla vista di un filo d'erba. Lo stesso accade per la fede: quando la luce divina diventa sensibile per il credente, tutta la storia del mondo gli sembra provare la missione della chiesa, la parola o il fatto più quotidiano lo riempie di certezza e di pace. Queste cose sono inesprimibili in parole. Ma la chiesa, affermando che ci sono dei motivi di credibilità tratti dai segni esteriori, non ha mai detto che ci sono soltanto dei motivi esprimibili. Una volta espressi, i motivi di cui parliamo potrebbero sembrare spregevoli a chi non ha lo Spirito, ma, se uno ama, riconosce la Sposa «con una perla sola della tua collana» 32
•
<Dopo aver cosl delineato a grandi tratti il modo in cui, in determinati casi, ci si può rappresentare la percezione della credibilità attraverso la grazia, dobbiamo ora esaminare se è il caso di generalizzare questa spiegazione e di rinunciare, di conseguenza, all'idea della fede scientifica e della credibilità puramente naturale. L'indagine precedente non basta: per studiare l'atto di fede nei suoi elementi essenziali, occorre farsi un'idea chiara dell'attitudine della libertà umana, del pius credulitatis affectus. Mostrando che la piena libertà e la perfetta ragionevo-
32 Ct 4,9.
58
lezza del!' atto di fede possono conciliarsi soltanto nella e attraverso la sua soprannaturalità, penetreremo più profondamente nell'organizzazione interna di questo atto e preciseremo alcuni aspetti che la ricerca precedente ha dovuto necessariamente lasciare nel vago.
59
Parte seconda
1. Certezza e libertà della fede
«Si quis dixerit, assensum fidei christianae non esse liberum sed argumentis humanae rationis necessario produci ... anathema sit» 1• Cosl come la fede è nello stesso tempo ragionevole e soprannaturale, allo stesso modo ·è certa e tuttavia libera. L'opera del teologo consiste nel mostrare come si accordino questi diversi caratteri. Ma questo accordo può essere concepito in due modi: o si considerano le note che sembrano escludersi come provenienti da principi differenti, e allora occorre operare tra di esse una conciliazione; oppure si mostra che queste note, a prima vista incompatibili, si richiamano in realtà reciprocamente, si generano reciprocamente in quel tutto complesso e indissolubile che è l'atto di fede. Nella prima parte, di fronte a un atto di fede che
1 Concilio Vaticano, canone 5 De Fide. (Denzinger, En-chiridionlO, 1814).
63
è contemporaneamente ragionevole e soprannaturale, abbiamo mostrato come si può derivare la sua ragionevolezza dalla sua soprannaturalità. Ora si tratta di riprendere un lavoro simile per la certezza e la libertà.
L'apparente antinomia tra questi due caratteri molto facile da cogliere. «0 vedete con certezza che Dio ha parlato,-ci vien detto-o non lo vedete con certezza. Nel primo caso, come può essere libero l'assenso? Nel secondo, come può essere legittimamente certo?». La semplicità di questo dilemma non deve farne misconoscere la forza.
Le spiegazioni comuni possono ricondursi a due schemi che hanno in comune la caratteristica di separare l'una dall'altra le due note che sembrano distruggersi,-libertà e certezza-per dare a una di esse la priorità temporale e reale. Gli uni dicono: Dapprima credete ciecamente, e dopo vedrete. Gli altri dicono Dapprima vedeteci chiaro, e dopo crederete. Ma i primi compromettono la legittima certezza e i secondi la libertà.
Il primo gruppo è quello dei volontaristi. Si renderebbe abbastanza bene l'idea che essi si fanno del credere usando le parole di un autore contemporaneo-che tolgo di proposito dal loro contesto 2-
2 Traggo queste parole, ctie mi servono per la spiegazione che chiamo volontarista, dallo studio J. Mmtin su Clemente d'Alessandria, in l'Apologétique ditionnelle (t. I, p. 69). Dovremo citare più avanti espressioni, molto felici e appropriate, dello stesso che invitano a non prendere secondo il rigore scolastico
64
dicendo che essa consiste nel «cogliere dapprima, e poiché lo si vuole, dò che in seguito sarà una convinzione conforme alla verità; .. .in altri termini, per avere la fede, si fa come se la si avesse». Sia che si inviti direttamente a sottomettere la ragione debole e superba alla dottrina che si dice rivelata, sia che, cambiando terreno con un movimento del tutto naturale e quasi impercettibile, si tenti di piegare la «macchina» (come dice Pascal) per mezzo della azione virtuosa, di persuadere i sensi e l'immaginazione (come dice Chateaubriand) attraverso l'abitudine allo stile di vita cattolico per mezzo dei riti e dei gesti, nell'uno e nell'altro caso si vuol conquistare il «cuore» prima dell'intelligenza 3
• Questo vo-
formule trascritte sopra, le quali, d'altra parte, non si presentano, nel suo testo, in questa brutale nudità. (Sono io a sottolineare le parole dapprima e in seguito). Martin ha, nei suoi tre volumi, messo eccellentemente in rilievo la necessità di una buona disposizione volontaria per vedere le prove della fede; per quel che vedo egli non parla in nessun luogo di una priorità reciproca tra l'illuminazione e la buona volontà, ma l'affermazione di questa reciprocità mi sembra essere il complemento del tutto naturale della sua dottrina.
:fl. praticamente la stessa cosa dire: «Incominciate a credere, e la luce verrà», e dire: «Fate come se aveste la fede e infine crederete». Se c'è una differenza consiste nel fatto che, nel pr1mo caso, si pretende di violentare direttamente l'intelligenza, mentre nel secondo caso si vuole sedurla e subordinarla: si persuade l'automa, la macchina, e si spera che la ragione vi si adegui. Ma nell'uno e nell'altro caso si sostituisce di fatto alla grazia un'attività naturale sregolata. Senza dubbio non si raccomanderà mai a sufficienza
65
lontarismo unilaterale conosce solo l'esortazione: «vogliate e vedrete, praticate e crederete, prendete dell'acqua benedetta e rimbecillite». Si vede molto chiaramente come la fede, in questo sistema, sia volontaria ma la libertà è salvaguardata solo a danno dell'intelligenza. Si può dire che l'assenso cosl ot-
a colui che cerca la fede, di obbedire in tutto alla sua coscienza, di fare tutto ciò che gli sembra bene, tutto ciò che gli sembra meglio; si può anche consigliargli delle pratiche specificamente cristiane, in quanto esse aiutano a vincere le resistenze della carne o dell'orgoglio. (Così la penitenza, così la confessione dei peccati: «si arriva spesso al Credo attraverso il Confiteor»). Ma tentare di strappare un atto di fede a colui che ancora non vede significa mancare di rispetto all'anima e a Dio. Al rispetto che si deve all'anima, perché l'onestà intellettuale è un dovere grave, soprattutto in problemi di tale importanza. Al rispetto che si deve a Dio: così come non si ba il diritto di dare il corpo di Cristo ad un positivista che desidera testimoniare la sua simpatia verso la chiesa cattolica attraverso il «gesto» della comunione, allo stesso modo non si ha il diritto, per quanto sta in noi, di mettere in possesso delle verità soprannaturali attraverso dei mezzi puramente naturali e meccanici colui al quale Dio, la cui misericordia è sempre libera, non ha ancora fat. to la grazia di vedere la verità. Voler far nascere la fede da un'abitudine materiale e inferiore è ciò cui si riduce il si· sterna dell' «acqua benedetta» (non intendo parlare qui del senso che questo detto ha in Pascal, il quale ha ben visto che occorre «far credere le nostre due parti»). Il pericolo qui segnalato non è puramente immaginario e può accadere che qualche uomo «praticm>, pieno di fiero disprezzo per le astrazioni dei teorici abbia talvolta dimenticato che la fede è, prima di tutto, una grazia, che non si può suscitarla prendendosi gioco del cattolicesimo, che non si può forzare lo
66
tenuto sia ancora <~conforme alla ragione» e non sia quell' «adesione cieca» che il concilio Vaticano condanna?
La maggior parte dei teologi si pronuncia per l'ordine inverso. Essi non subordinano la percezione della credibilità all'amore o alla volontà, ma distinguono un doppio movimento. Il primo, quali che siano le modalità contingenti, è essenzialmente intellettuale. Esso giunge alla conoscenza di ciò che bisogna credere, alla conoscenza del fatto della rivelazione, dell'origine divina della chiesa cattolica. Esso porta a concludere: «Ciò è credibile». Un secondo movimento, d'ordine volontario, fa dire: do credo». È chiaro, in questo secondo schema, come l'atto di fede sia ragionevole. Non si vede però come sia salvaguardata la necessaria libertà. Non si vede come un simile atto di fede sia volontario, per usare i termini di san Tommaso, «non solo quanto all'esecuzione dell'atto, ma anche quanto alla determinazione dell'oggetto» 4• Affinché i teologi che si
Spirito Santo. Occorre dunque procedere con estrema delicatezza e non dimenticare che l'attrazione divina può farsi sentire anche attraverso ciò che di più umano c'è nel culto e nella chiesa.
De Virtutibus in communi, a, 7. I teologi ammettono comunemente che non è sufficiente per la libertà della fede che l'uomo sia padrone di porre l'atto o di astenersene; una simile libertà esiste anche quando si tratta della scienza: ed è precisamente dalla scienza che il concilio, condannando la teoria hermesiana delle prove necessitanti, ha voluto distinguere la fede. Alla libertà «<l'esercizio» deve dunque aggiungersi, nel caso presente, la libertà «di specificazione».
67
rappresentano le cose secondo questo schema possano sottoscrivere la condanna di Pico della Miran· dola ad opera di Innocenzo vnr, occorre che essi interpretino con una sottigliezza forzata le parole della proposizione condannata: «Non est in potestate libera hominis credere articulum fidei esse verum, quando placet, et credere cum esse falsum, quando sibi placet» 5
•
s Denzinger, EnchiridionlO, 737. I teologi in questione hanno visto molto bene la difficoltà ed hanno pensato, per risolverla, a diverse spiegazioni, ma i limiti di questo articolo ci impediscono di discuterle dettagliatamente. Ne segnaliamo soltanto tre tipi principali. Alcuni (soprattutto coloro che concepiscono l'atto di fede sul modello di un sillogismo) ammettono che l'evidente conoscenza del fatto della rivelazione divina sopprimerebbe la libertà della fede. La fede libera richiede dunque quella che essi chiamano l'inevidentia attestantis: se la Vergine e gli apostoli avessero visto con evidenza che ciò che credevano era la parola di Dio, non avrebbero affatto creduto con questa fede libera di cui ci parlano i concilii. Questa strana conseguenza basta a rendere sospetta la spiegazione. Altri vogliono che dopo l'assenso certo credibile est o credendum est, l'assenso est o verum est, e che di conseguenza il credo rimanga ancora assolutamente libero. È dunque necessario per loro fare del giudizio di credibilità uno stadio obbligatorio e distinto dalla genesi della fede, e dire che pienamente af/ermabile non racchiude pienamente vero. Un terzo gruppo ammette esplicitamente che la ragione naturale possa giungere con le sue sole forze e attraverso una dimostrazione necessaria, a provare sia la credibilità che la verità dei dogmi insegna ti dalla chiesa; ma la libertà della fede resta, ai loro occhi, intatta, la fede consiste, cosi dicono, nell'affermare questi dogmi non perché se ne vede la verità, ma perché si vuol rendere
68
Le due opposte spiegazioni soffrono dunque di un vizio comune che impedisce loro di salvaguardare realmente e contemporaneamente le due proprietà che l'atto di fede deve riunire in sé, la libertà e la certezza. Da una parte e dall'altra si privilegia quella nota alla quale si attribuisce maggior valore. Ma da una parte e dall'altra sembra che si soffochi, nella nota privilegiata, l'altra, che pure la chiesa sottolinea allo stesso modo 6
•
Tuttavia l'una e l'altra nota sembrano richiedere, per essere, questa priorità. Come sarebbe certo l'atto di fede se l'amore non vi fosse condotto dalla ragione? Come sarebbe libero se le porte non fossero state aperte alla luce per opera dell'amore? In breve, affinché l'atto di fede risponda alle due condizioni poste dalla chiesa, occorre che le due proposizioni seguenti siano contemporaneamente vere:
l'uomo vede la verità perché vuole, l'uomo vuole perché vede la verità.
omaggio a Dio. Quest'ultimo sistema può sfuggire alle obiezioni che si levano contro gli altri due, ma i suoi sostenitori sono obbligati a introdurre una distinzione nella proposizione condannata da Innocenzo vm: essi ammettono che questa proposizione è sostenibile se si tratta di dare, alle verità rivelate, un'assenso naturale e scientifico; essa sarebbe condannabile e condannata solo se si trattasse di credere per obbedienza. 6 Leggendo le analisi degli autori si ha ordinariamente l'impressione che essi intendano parlare di una priorità sia reale che temporale. Ma servirebbe poco affermare la simultaneità temporale, se si mantenesse la priorità causale ed esclusiva di uno dei due elementi.
69
Se queste due proposizioni vengono isolate l'una dall'altra, contraddicono o alle esigenze del dogma o a quelle dell'esperienza, o addirittura ad entrambe contemporaneamente. Al contrario, si avrebbe una teoria dell'atto di fede dogmaticamente e psicologicamente soddisfacente se si giungesse a far vedere che queste due proposizioni sono vere simultaneamente.
2. Visione tramite !'amore
Colui che pensa che nell'atto di fede ci sia, tra l'illuminazione e la libertà, priorità e causalità reciproca, per spiegare come ciò sia possibile, deve mostrare semplicemente come, in questo caso, l'atto sia ragionevole.
In effetti non mancano, nella vita umana, delle circostanze in cui la volontà libera, per la stessa scelta che fa di una possibile alternativa, o più generalmente, di un bene, fa nascere o intervenire una nuova luce che modifica, per così dire, il colore degli oggetti e che, perciò, fa apparire ragionevole, non tanto la decisione presa, ma la decisione che si sta prendendo. È questa la storia dei nostri atti li· beri: il <'giudizio pratico» e la <'scelta volontaria», distinti per la ragione riflettente, ma fusi in uno stesso istante, si causano reciprocamente: ognuno di essi suscita l'altro come condizione della sua rea" lizzazione.
Può accadere qualcosa di simile per i giudizi spe
70
culativi. Senza dubbio un semplice comandamento della volontà non può, in virtù di chissà quale potere dispotico e arbitrario, far vedere, o credere, bianco in questo istante e nero l'istante successivo. La volontà non agisce in modo così estrinseco sull'intelligenza. Ma il cuore, o l'appetito sensibile, può sedurre, può affascinare la ragione. La realtà di questo influsso in campo speculativo, se sembra difficile da ammettere nel caso di un'improvvisa decisione della volontà, è innegabile perlomeno quando si tratta di un'inclinazione radicata nel soggetto. Un amore, una passione, un appetito, può colorare così a fondo l'intero mondo degli oggetti da influenzare potentemente o perfino da trasformare i giudizi sulle «cose in sé». Un uomo appassionato vede le cose con occhi nuovi, vi vede come un nuovo «oggetto formale». Non c'è bisogno di portare degli esempi di un fenomeno così banale. Inoltre si comprende facilmente che l'habitus affettivo in questione-e conseguentemente la visione d'amore che esso stabilisce-per quanto inevitabile e tirannico possa nverlo reso l'nbitudine, abbia potuto essere, nelb sun origine, libernmente accettato. Siccome un amore più intenso può conquistare l'anima in un tempo più breve, si potrebbe concepire, al limite, un'emozione cosl forte che comporta un'adesione talmente radicale da bastare a trasformare, in un unico istante, con la maniera di vivere, la maniera di vedere. In questo caso, in cui un atto di intensità eccezionale basta a radicare un habitus, la priorità è perfettamente reciproca: la visione d'amore
71
illumina la libera decisione e la libera decisione apre il passaggio alla visione d'amore. In questo spontaneo sgorgare di un'evidenza pienamente voluta, la totale certezza si unisce alla totale libertà.
Si consideri inoltre che nel fenomeno in questione non ci si è proposti espressamente di «colorarsi» l'intelligenza. La volontà non ha scelto liberamente una nuova conoscenza come tale, ma l'amore o la vita che necessariamente implica la nuova conoscenza. L'unità indivisibile dell'atto non confonde affatto, ma conserva distinte le «ragioni formali» del conoscere e del volere. Ciò che si sceglie liberamente è il bene, il fine, il modo di vivere e, solo attraverso di esso, il modo di vedere 7•
Applicando queste considerazioni all'amore del bene divino, del fine divino, non sarà difficile tracciare uno schema dell'atto di fede in cui le due proprietà dell'atto di fede, lungi dall'ostacolarsi, si sosterranno penetrandosi attraverso una specie di circuminsessione. C'è causalità reciproca tra l'omaggio che si sceglie di rendere a Dio ( oboeditio fidei, pius affectus credendi) e la percezione della verità soprannaturale. Contemporaneamente, l'amore 8 su-
Cosl come alcuni, scegliendo per esempio la professione militare o quella del commercio, dopo un certo tempo vedono le cose sotto l'angolatura propria dell'ufficiale o del commerciante, allo stesso modo l'atto di prendere una determinata decisione o cli accettare interiormente una passione violenta, può coincidere realmente con l'accettazione di nuovi prmc1p1, di nuove idee, cli nuovi occhi. 8 Non si tratta necessariamente dell'amore di carità, poi-.·
72
scita la facoltà di conoscere 9 e la conoscenza legittima l'amore. Senza un precedente «giudizio di credibilità», l'anima che crede istantaneamente può esclamare: «Mio Signore e mio Dio!». Decisione libera e conoscenza certa si uniscono in questo istante senza confondersi. La decisione riguarda infatti il bene divino, la vita e la via nuove che si scelgono e non direttamente la conoscenza come tale. D'altro lato, l'intelligenza, malgrado l'ardente atmosfera d'amore che forse l'avvolge, può percepire con piena chiarezza il carattere pienamente :.:agionevole e legittimo della scelta fatta. Quest'ultimo punto richiede ancora una spiegazione.
ché è un dato di fede definito che la fede può essere «informe», cioè non essere accompagnata dalla grazia santificante o dalla carità (Denzinger, EnchiridionIO, 1791, 1814). Cfr. san Tommaso, De Veritate, q. 14, a. 2, ad 10: «Voluntas determina! intellectum ad assentiendum his quae sunt fidei. Sed illa voluntas nec est actus charitatis, nec spei, sed quidam appetitus boni repromissi». ua uae, q. 5, a. 2, ad 2: «Fides quae est donum gratiae inclina! hominem ad credendum secundum aliquem affectum boni, etiamsi sit informis». Si può allora sostenere che la fede non è mai informe nella sua acquisizione, che l'amore di carità accompagna sempre il primo atto di fede. In ogni caso, come abbiamo già detto, non c'è motivo per spiegare il primo atto di fede in modo diverso dai seguenti. 9 J. Martin parla dunque molto giustamente della grazia della fede quando la chiama: «la grazia di trasformare la propria visione e di riconoscere il proprio errore». (L'Apologétique Traditionnelle, t. II, p. 3; e ancora ibid, p. 102: «se essi accettassero che si produca in essi la facoltà di giudicare rettamente»).
73
3. L'amore del!' essere di fronte alt' oggetto di fede
Non è molto difficile, anzi è abbastanza comune per gli Scolastici, stabilire, tra l'omaggio volontario reso a Dio nella fede e ciò che si chiama «giudizio pratico» (riguardante l'atto da compiere), delle relazioni di priorità reciproca. Ma noi ci occupiamo di un'altra cosa, in quanto pretendiamo di concentrare in un atto unico anche l'equivalente dei giudizi «speculativi» di «credibilità» (giudizi che normalmente sono concepiti come precedenti l'atto di fede, salvo poi conciliare in qualche modo questa certezza preliminare con l'autentica libertà di questo atto). Noi integriamo nell'atto di fede stesso questa interpretazione di un «segno», di un «indizio» preso dal mondo visibile, che abbiamo tentato di descrivere nella prima parte e che, stabilendo una connessione necessaria tra la verità naturale e la verità soprannaturale, legittima l'atto di fede agli occhi della ragione 10
• È per mostrare come il libe-
10 «Si quis dixerit, revelationem divinarn externis signis credibilern fieri non passe ... anathema sit» (Concilio Vaticano, can. 3, De Fide, Denzinger, Enchiridion10, 1812). Lo sforzo principale della teologia contemporanea, nel trattato sulla Fede-sforzo ben giustificato di fronte ai molteplici errori volontaristi e sentimentalisti-si è concentrato sulla dottrina contenuta in questo canone. Tutti presi dalla ragionevolezza della fede, gli scolastici contemporanei, disgraziatamente, l'hanno studiata separatamente dalla sua libertà e hanno lasciato sfruttare ad altri la teoria cosl feconda (e
74
ro atto di fede possa inglobare questa certezza che dipende dall'amore e che orienta verso l'essere, che noi abbiamo portato l'esempio degli amori sensibili o volontari, i quali, colorando in modo nuovo gli oggetti, dettano all'uomo anche dei giudizi speculativi.
Ma qui si presenta una grave difficoltà. «Sono d'accordo, ci si dirà, che è possibile un'influenza dell'appetito in materia speculativa e constato, anzi, che è fin troppo marcata; ma la deploro poiché contesto che essa sia legittima. La ragione pura e disinteressata è in questo campo, sia da parte della natura che da parte di Dio, l'unico strumento appropriato, l'unico giudice competente. La volontà può certamente mettere in funzione la ragione; poi, però, ogni altro influsso volontario non può che giocare un ruolo dannoso. Il senso comune, a dispetto di qualunque pragmatismo, dirà sempre che né i decreti della volontà né i desideri del cuore potranno mai definire la verità. Qualunque giudizio de ve-
cosl tomista) della priorità reciproca delle cause. (Se Le Roy avesse scritto, a riguardo della fede, solo quelle pagine nelle quali è toccato questo punto {Dogme et Critique, II ed., pp. 327-332), non avrebbe affatto meritato tante giuste critiche; gli si sarebbe rimasti debitori per aver esposto in modo così brillante, cosl suggestivo e moderno, una teoria che, fondamentalmente, è meno nuova di quanto forse egli pensa). L'esposizione tomista più recente che io conosca, per quanto riguarda la priorità reciproca nell'atto libero, è quella di Garrigou-Lagrange, in Intellectualisme et Liberté chez. saint Thomas, Kain 1910; la questione della fede è menzionata a p. 42.
75
ro comandato, quanto alla sua specificazione, da un appetito, è un giudizio arbitrario la cui motivazione, in ultima analisi, non è più che una pura opzione individuale. Con la vostra teoria della priorità dell'amore libero in materia di conoscenza arrivate, di fatto, al coup d'état della volontà 11
, al salto nel
11 San Tommaso ha dato dell'atto di fede questa notevole descrizione: «può avvenire che la volontà determini l'intelligenza e scelga come oggetto di adesione questo o quel giudizio precisamente per un motivo di ordine volontario e niente affatto intellettuale, cioè per la bontà, la convenienza di questa adesione. È ciò che avviene, ad esempio, quando un uomo crede ad un altro uomo perché vede in ciò una qualche utilità o convenienza. Anche noi (cristiani) siamo portati a credere alla Parola perché ci viene promessa, se vi crediamo, la ricompensa della vita eterna: in mancanza di motivazioni intellettuali è questa ricompensa che porta la volontà a credere.» (De veritate, q. 14, a. 1 ). Molti hanno voluto vedere in questo passo la descrizione dello schema essenziale degli atti di fede, dello schema che spiega anche l'acquisizione della fede, ed è su questo testo che alcuni fondano la loro teoria di un «comandamento della volontà, inteso nel senso di una mozione estrinseca e, come ha detto qualcuno, di un coup d'état. Ma sorge spontaneamente un'obiezione molto semplice: questa vita eterna, la .. cui attrattiva muove l'anima, è conosciuta antecedentemente come reale sì o no? Se sì, ciò significa che si è già presa posizione (prima del primo atto di fede) sul fatto dell'attestazione divina; allora, lungi dall'esserci bisogno di uri coup d'état, si può dire che la libertà è finita. Se no, allora o bisognerà affermare una priorità reciproca oppure l'ade. sione è irragionevole. (Così come è stato detto a Pascal c il suo sistema della scommessa proverebbe quella religi che inventasse il più spaventoso degli inferni, così si
76
buio, alla volgare seduzione della ragione da parte del cuore. Se la vostra spiegazione ha qualche cosa di nuovo, ciò consiste nel fatto che voi esigete che la ragione sia talmente sedotta da non potersi nemmeno più accorgere di esserlo».
Espulsione di ogni influsso sentimentale, compressione degli appetiti, pura sottomissione all'oggetto: non è forse questa la regola ideale e moralmente obbligatoria in materia di verità speculativa? Questo metodo, che ·è quello del buon senso, può oscurarsi agli occhi dello spirito solo nella misura in cui esso, pur presentendo che una grande verità si cela nel «pragmatismo», non sa tuttavia ancora dedurla con chiarezza. Questo metodo brilla però di una nuova chiarezza allorché, avendo spinto fino in fondo l'applicazione del principio pragmatista (secondo cui ogni conoscenza esprime un appetito) si scopre nell'intelligenza stessa, l'espressione di un appetito naturale verso la Verità suprema e sussistente. Non soltanto ogni habitus affettivo definisce
trebbe dire al nostro teologo che il suo ragionamento conclude in favore di quella religione che trovasse i colori più accattivanti per dipingere il suo paradiso.) Ma non si può giungere alla priorità reciproca senza aver assegnato, nell'atto di fede, un ruolo a quel segno, a quell'indizio che la luce della fede rischiara per far vedere ea quae sunt fulez esse credenda. Io credo, per parte mia, che nel testo in questione san Tommaso abbia voluto semplicemente considerare il caso dell'adesione a un dogma particolare da parte di un uomo che sia già fermo nella sua risoluzione di essere cattolico. (Cfr. più avanti, nota 25).
77
una visione d'amore ma, ancora di pm, ogni v1s10ne è visione d'amore ed è definita, nell'essere potenziale, attraverso un habitus appetitivo cosciente o incosciente. La ragione per così dire incantata, affascinata da quel Dio che l'ha fatta capace di abbracciarlo, non è altro che un puro amore dell'essere 12
•
Quando ciò diventa chiaro, si comprende anche meglio quell'infinito rispetto per il lume naturale cosl evidente, ad esempio, in sant' Agostino; appare quasi una pretesa temeraria q•1ella di aiutare la ragione attraverso inclinazioni volontarie, quasi a voler lubrificare, con un prodotto volgare, il già perfetto ingranaggio di questo puro diletto dell'essere che, nell'evidenza intellettuale, manifesta la verità. Dio ha fatto lo spirito dotato di una naturale simpatia verso l'essere come tale: non ci si può arrogare il diritto di modificare questo «meccanismo» divino aggiungendovi delle simpatie personali per esseri particolari. Cosl ogni sostituzione di una nuova visione alla visione naturale, qualunque influenza di un'inclinazione volontaria sul giudizio speculativo, non sarà dunque un affinamento, ma una perversione, una corruzione dell'intelligenza, una mancanza di rispetto a Dio e alla sua immagine. Di conseguenza, quando si tratti di un giudizio con carattere di assolutezza, libertà e legittimità appaiono essere sempre incompatibili; ma se queste due proprietà devo-
12 Ho tentato di esporre questa concezione in un arti· colo della Revue de philosophie (1° marzo 1910} intitolato «Amore spirituale e sintesi appercettiva».
78
ho essere riunite neli'assenso di .fede, è alÌora nècessario porre in luce una proprietà unica e singolare che distingua tale assenso da tutti gli altri giudizi definiti e regolati dall'appetito.
Per determinare questa proprietà cosl speciale consideriamo la radice comune dell'illegittimità di queste altre adesioni. Essa consiste nel fatto che qui l'intelligenza prende, come regola e misura del suo assenso, non tanto la verità prima, che pure è la sola norma legittima di un giudizio assoluto, ma un fine inferiore, limitato, particolare 13
• La verità prima deve essere la sola norma dei giudizi assoluti perché in essi l'uomo non agisce come essere individuale e corporeo, soggetto, tra i suoi simili, a questa o a quella limitazione, ma come uomo in quanto tale, che partecipa della natura intellegg1bile, immagine di Dio, spirito. Come tale è unicamente su Dio che deve regolarsi, poiché, seguendo la dottrina cara a sant'Agostino, «solo la Verità prima è superiore allo spirito». È dunque la stessa cosa sottomettersi ed ordinarsi ad un fine quanto all'intelligenza speculativa (cioè in quanto si è esseri dotati di ragione) e ordinarvisi totalmente, semplicemente, come ad un fine ultimo (e questa è una pretesa che è legittima solo per Dio). È dunque il massimo disordine sottomettersi, in quanto spirito, al-
13 Si impiegano qui come sinonimi, seguendo lo spirito del linguaggio scolastico, i termini giudizio speculativo e giudizio assoluto; tuttavia non si pretende negare che al fondo di ogni giudizio pratico sia realmente implicato un giudizio assoluto.
79
la creatura, permettere che la passione le dica: «Non c'è più né bene né male, né vero né falso, non ci sei che tu! ».
Ma, cosl come un fine pratico misura legittimamente la verità della ragione pratica, allo stesso modo esso potrebbe legittimamente misurare la verità della ragione speculativa se tale fine fosse il fine ultimo dell'uomo. In effetti, essendo il fine ultimo, per definizione, quello cui nulla può sfuggire, se l'essere amato fosse realmente e veramente il bene totale dell'amante, esso misurerebbe anche la rettitudine della ragione stessa, il bene dello spirito in quanto spirito; la verità del giudizio assoluto gli sarebbe essenzialmente relativa. Si vede immediatamente, d'altro canto, che un tale fine non può essere che la Verità suprema e sussistente, Dio ·solo, cui ogni uomo è interamente ordinato, non soltanto in quanto è un certo individuo determinato, ma anzitutto in quanto possiede la natura intellettuale. Cosl tutta la rettitudine della nostra intelligenza, quando conosce con certezza, le viene dal fatto che Dio le ha ispirato un'inclinazione naturale verso la Verità prima o, in altre parole, verso se stesso in quanto fine degli spiriti 14 ; in virtù di questa indi-
14 È esattamente la stessa cosa dire che Dio è Verità prima e che egli è fine ultimo degli spiriti. Ed è questa identità-detto di passaggio-che mostra come non ci si possa attenere, nella spiegazione dell'atto di fede, alla teoria della fede d'omaggio o di semplice autorità (distinta dalla fede scientifica) sostenuta dal Billot ed esposta in francese, con molta finezza, da Bainvel. Dopo il concilio
80
nazione, l'intellezione ci è naturale e, quando la verità ci appare, ne proviamo piacere. Dunque, la prima ed essenziale condizione di legittimità per qualunque inclinazione l'uomo voglia accettare al fine di farne punto di partenza per giudicare assolutamente, è che essa lo inclini non verso un fine inferiore e particolare, ma verso il fine ultimo della natura intellettuale.
Si intravede ormai come la teoria che concepisce l'intelligenza come inclinazione connaturale e simpatia, come puro amore verso Dio e l'essere-teoria che rende, d'altra parte, più inflessibili le esigenze dell'intellettualismo rigoroso-apra la via ad una teoria naturale e coerente della certezza libera e legittima, perfino in materia di giudizio speculativo
Vaticano non si può più, come sosteneva Guglielmo d'Auvergne, escludere espressamente dalla oboeditio fidei il pensiero della veracità divina. (Si deve credere Dio, egli diceva, «gratis et oboedienter, et non propter hoc, quia verax est, aut quia verum est quod ipse loquitur, sic enim crederetur homini cuivis». De fide, cap. 1, ed. del 1674, t. I. p. 7. Si noterà la contraddizione tra questa concezione dell'atto di fede e la formula del catechismo: «Perché Voi siete la stessa verità» ecc.). Ma qualunque distinzione tra !'autorità del testimoniante e la veracità della testimonianza (V. Billot: De Virtutibus infusis, I, p. 214, n. 2) mi sembra assolutamente falsa qruando si tratta di un omaggio esigi to da parte di un essere intellettuale. Per noi non ci sono Persone adorabili tranne l'Essenza infallibile. La teoria della fede omaggio mi sembra tuttavia rappresentare un grosso progresso rispetto alla teoria della fede sillogistica, ma credo che la si debba spingere cosi a fondo da integrare nell'omaggio la stessa percezione della credibilità.
81
assoluto. Se l'intelligenza è un'inclinazione, qualunque inclinazione volontaria che voglia restringerla e che voglia attribuirle come misura qualche essere particolare, non potrà che essere una perversione, una corruzione della natura. Ma si può concepire anche un'inclinazione che possa approfondire l'intelligenza, dilatarla, renderla capace di penetrare meglio il suo oggetto, l'essere derivato e secondario, proprio mentre la rende più profondamente innamorata della Verità sussistente, il suo oggetto primo e il suo ideale. Questa trasformazione d'amore sarà allo stesso tempo un accrescimento di intelligenza, e la visione d'amore che si produce sarà conoscenza più perfetta, proprio nella linea dell'intellettualità.
Che ogni inclinazione seguendo la quale si voglia giudicare assolutamente debba essere un'inclinazione al fine ultimo è una condizione necessaria della legittimità dell'assenso, ma non è affatto una condizione sufficiente, se non in quanto questa affermazione viene ulteriormente precisata. È chiaro, infatti, che non si può giudicare assolutamente a partire da un'inclinazione conseguente ad una qualunque idea che ci si sia fatta di Dio. Permettere che la ragione speculativa si regoli su qualunque inclinazione, qualunque emozione di questo tipo, significherebbe dare spazio a tutti i fanatismi. Questo tipo di errore non lo si trova, peraltto, solo presso l'ebreo o l'eretico; vi sono stati dei santi indotti in errore da una. inclinazione devota. In questo caso si tratta di una inclinazione verso un Dio concepito, un Dio rappre• sentato (e cioè verso un oggetto in qualche modo
82
particolarizzato) che regola il giudizio dell'intelligenza. A queste tendenze affettive che aggiungono elementi ulteriori l'uomo non può senz'altro affidarsi come si affida alla sua ragione, naturalmente inclinata da Dio verso Dio stesso. Perché egli abbia il diritto di affidarvisi assolutamente come o più che alla sua intelligenza, perché egli possa rivestirsi di questo amore volontario come di una nuova natura ed esprimere, a partire da questa, un giudizio assoluto, bisogna che egli sappia che questo nuovo amore viene da Dio non meno della sua stessa ragione, bisogna che Egli testimoni a favore di questo nuovo modo di vivere con la stessa forza con cui testimonia a favore della natura che ci ha dato. E questa testimonianza può essere manifestata solamente dalla percezione di un indizio che, mentre svela su di un punto particolare la saldatura del mondo naturnle con quello soprannaturale o, per meglio dire, l'inabitazione del secondo nel primo, faccia vedere che, se la fede non è vera, la ragione è ingannatrice e la realtà inconsistente. Una volta constatata, così, la divinità della religione, allora la stessa evidenza razionale non ha più diritto a guidare i nostri giudizi assoluti di quanto non ne abbia la volontà che vuole essere religiosa. Questa, condizionando quella, fornisce al nostro assenso la regola più legittima.
Nell'atto di fede, come l'amore è necessario alla conoscenza, così la conoscenza è necessaria all'amore. L'amore, l'omaggio libero reso al bene supremo, dona occhi nuovi. L'essere, reso più visibile, incanta colui che vede. L'atto è ragionevole poiché
83
l'indizio percepito apporta alla nuova verità la testi· monianza dell'ordine naturale; l'atto è libero poiché l'uomo può respingere, se vuole, l'amore del bene soprannaturale. O, per presentare la stessa cosa in altri termini, la riflessione distingue nell'atto due serie causali che coesistono senza ostacolarsi né incrociarsi. Da un lato l'uomo vuole un bene, vi si ordina e cosl riveste una nuova natura (che lo fa vedere). È l'ordine della volontà. D'altro lato lo spirito vede un fatto, lo interpreta come indizio e ne conclude una verità (che lo fa vivere). È l'ordine dell'intelligenza. Ma qui non ci sono assolutamente due processi realmente separabili: tutto ,è integrato nell'unità vivente di uno stesso atto.
4. Conoscenza per simpatia e fede
Il ruolo dell'indizio esterno o segno (tanto sot· tolineato dal concilio Vaticano) nonché l'identità di habitus affettivo e scienza percettiva si chiariranno ulteriormente richiamando al lettore quei testi dove san Tommaso, per spiegare l'assenso alla fede divi· na, rinvia a certe conoscenze di tipo speciale che sono procurate dall'habitus delle virtù. Come l'habi-. tus di una virtù, egli dice, fa conoscere ciò che conviene a questa virtù, cosl l'habitus della fede fa conoscere che si deve credere 15•
15 Vedi ua ua•, q. I, art. 4, ad 3; q. 2, art. 3, ad 2. D veritate, q. 14, art. 10, ad 10. Il Caetano nota con ragion
84
San Tommaso, dunque, rileva l'esistenza di determinate conoscenze che egli chiama per modum naturae e che si possono più brevemente chiamare per simpatia. È facile comprendere il ruolo di tali conoscenze e come esse si distinguano da quelle che si costituiscono attraverso i concetti e il pensiero discorsivo. Si può conoscere la castità (e giudicare, in un caso determinato, ciò che le è nocivo o favorevole) in due modi: o si è seguito un corso di morale e si sono acquisiti dei principi e delle idee generali (sotto i quali si cercherà di collocare il caso in questione) oppure si è casti, e si prova interiormente simpatia o avversione, attrazione o repulsione (che permettono di giudicare, attraverso una rapida interferenza e quasi «istintivamente» se un oggetto dato favorisce o minaccia la virtù) 16
• L'esperienza quotidiana offre numerosi esempi di questa conoscenza, sia che si tratti di habitus virtuosi, sia che si tratti di altri comportamenti abituali. Quando mi si domanda l'ortografia di una parola, io scrivo su un foglio le due grafie proposte, oppure me le rappresento nella mente; ed è attraverso la qualità dell'impressione prodotta dall'ortografia sulla mia
sul primo di questi passi: «Atte tor loquitur de videre ea quae sunt fidei, sub communi ratione credibilis... Et hanc esse mentem auctoris patet ex hoc quod in sequenti articulo in resp. ad 1 dicitur: Per lumen fidei videntur esse credenda ut dictum est, proculdubio hoc in loco». 16 Cfr. P. Rousselot, L'intellectualisme de saint Thomas, p. 74.
85
«memoria» o «habitus» che io giudico se la parola è scritta in modo esatto 17
•
C'è, in simili casi, un rapido confronto tra la scienza percettiva (habitus, E~Lc;, «memoria») e un oggetto percepito; si giudica della «verità» dell'oggetto attraverso la sua convenienza o meno con la facoltà o l'habitus posto in gioco, si giudica secondo una reazione di tipo affettivo.
È forse cosl che ci si deve rappresentare quella conoscenza per simpatia che, secondo san Tommaso, è alla base del giudizio di fede? Se sl, allora l'atto cli fede dovrebbe comprendere necessariamente non solo una esperienza, ma anche una rappresentazione (certamente rapida e semplice, ma pur sempre una rappresentazione) del «fatto interiore» tanquam obiecti cogniti. Si dovrebbe avvertire, nel momento dell'approccio e quasi della messa in atto del «fatto esteriore» una profonda sensazione e cioè ci si dovrebbe sentire così bene pensando al cristianesimo, si dovrebbero gustare cosl sensibilmente le armoniose attrattive del cristianesimo, da dover concludere che essi sono fatti l'uno per l'altro. E su ciò bisogna fare due annotazioni: anzitutto che, nonostante le apparenze, il cristianesimo verrebbe, in questo caso, affrontato attraverso la via della sua verità pensata (e cioè indotta attraverso un confronto); in secondo luogo che il ruolo dei segni esteriori (parti-
17 Cfr. ciò che dice Bergson in Essai sur !es données immédiates de la conscience, p. 96, circa le percezioni qualitative immanenti alla conoscenza stessa della quantità.
86
colarmente dei miracoli, ricordati espressamente dal concilio Vaticano), se non è sempre e assolutamente superfluo, risulta tuttavia ridotto a proporzioni assai modeste.
Ma una riflessione più attenta mostra che ciò in cui consiste l'essenziale della conoscenza per simpatia non è una comparazione conseguente ad un'impressione. La vera conoscenza simpatetica è invece immanente alla stessa tendenza che porta l'anima verso l'oggetto o che la allontana da esso, cioè allo stesso movimento di desiderio o di avversione. Se si separa tale conoscenza dal sentimento di compiacimento o di orrore che l'oggetto (per rimanere nel nostro esempio) risveglia nell'uomo casto, la si disconosce, si scambia per essa uno dei suoi effetti. Se invece la si prende cosl com'è, non separata dall'amore e dall'odio, e prima della mediazione di quella rapida riflessione che noi abbiamo supposto, essa si esprimerà naturalmente in termini di appetito: «Lo voglio! Non lo voglio! È meraviglioso! È insopportabile! ecc.» 18• Si può rappresentare l'atto di fede come fondato su questa conoscenza per simpatia?
Lo si può fare senza dubbio, purché da una parte si intenda l'intelligenza come inclinazione verso la Verità sussistente, e dall'altra si comprenda che ciò che si è visto simpateticamente, nella fede,
18 Ma se è una facoltà intellettuale ad essere il soggetto della conoscenza per simpatia, il verbo stesso di questa conoscenza sarà l'espressione della meraviglia e del fascino (o, al contrario, della ripugnanza): sarà un verbo d'amore.
87
non è, per se loquendo, la determinazione dei diffe. renti dogmi 19
, ma la loro comune proprietà di «essere degni di fede», ea quae sunt fidei esse credenda.
19 San Tommaso sembra a volte riconoscere alla fede comune un tale potere di discernimento sperimentale: ~<Sicut
enim per alias habitus virtutum homo videt illud quod est sibi conveniens secundum habitum illum, ita etiam per habitum /idei inclinatur mens hominis ad assentiendum bis quae conveniunt recta fidei, et non aliis». (rr•, u•e, q. 1, art. 4, ad 3 ). Tolta dal suo contesto .(cfr. nota 15, p. 84) e presa in un senso assoluto e universale, questa affermazione conduce alla teoria del discerniculum experimentale sostenuta da Antonio Perez e Pallavicini e ampiamente contraddetta dall'esperienza. (Se ne può vedere un riassunto esatto, con le ragioni per le quali è comunemente rifiutata. in Schiflini, De virtutibus infusis, n. 148). Ciò che è universalmente vero nell'affermazione di san Tommaso è che l'abitudine alla fede inclina ad assentiendum: tale è formalmente il suo ruolo, come tentiamo cli spiegare nel testo. L'abitudine infusa è, come scrive molto es.attamente Ferrariensis, «quo iis quae credenda proponuntur, homo /irmiter adhaeret et assentit, et quo illuminatur intellectus ad cognoscendum illa esse credenda» (In 3 CG 40), ma la co· noscenza di questa credibilità è assolutamente identica alla adesione, cosl come, nella conoscenza naturale, una certa conoscenza pratica dell'affermabilità è precisamente l'assen. so. Che se ora si tratta di un'inclit.azione non più formalmente ad assentiendum ma ad discernendum num haec vel haec conveniant recta fidei, la risposta di san Tommaso richiama le seguenti osservazioni. 1) questa inclinazione non è in tutti allo stato cosciente, ma, come nel caso delle altre virtù che danno simili conoscenze, bisogna che la virtù sia posseduta in un grado sufficientemente approfondito da aver già penetrato le inclinazioni naturali; 2) questa inclinazione sentita sembra appartenere all'ordine delle grazie
88
Accettare che l'intelligenza sia l'espressione di una appetizione, significa accettare che la presenza di un momento simpatetico nella conoscenza intellettuale non deve essere ristretta a certi casi particolari di intellezione, ma è la conseguenza necessaria di una legge generale dell'intelligenza 20
• Ciò significa ac· cettare che la ratio entis, su cui poggia la nostra intelligenza, è conosciuta per modum naturae. Senza dubbio essa sembra imporsi all'intelligenza, e la sua percezione non risveglia in noi nessuna eco affettiva; e tuttavia il fatto che tale simpatia non emerga alla coscienza nulla toglie alla sua realtà. L'affermazione
gratis datae; non si dovrebbe dunque concludere, dalla sua assenza in qualcuno e dalla sua presenza in qualcun altro, che questi ultimi sono dotati di un grado maggiore di chiarezza: quando san Bernardo negava l'Immacolata Concezione, poteva non essere inferiore in chiarezza rispetto ad un immacolista, pur supponendo che quest'ultimo sentisse, attraverso degli istinti interiori di grazia, la bontà della causa che egli sosteneva; 3) sebbene l'esperienza di simili istinti sia una grazia, tuttavia la disposizione del soggetto vi coopera. Un convertito dal protestantesimo conserva a volte in sé certe tendenze che lo fanno inclinare verso posizioni che tendono a deviare dall'ortodossia; può avvenire che un uomo religiosamente abbastanza tiepido, ma che sia stato educato in un ambiente profondamente cristiano, possieda un «senso cattolico» che difetta invece ad un altro, magari molto mortificato e fervente, ma che si sia convertito tardi, ecc. 20 Mi permetto cli rinviare, per ciò che è detto in questo paragrafo, all'articolo segnalato più sopra (nota 12, p. 78) e anche a: «L'Essere e lo Spirito» in Revue de philosophie, 1 giugno 1910.
89
dell'essere, che a volte sembra essere imposta dall'esterno, dagli oggetti, è in realtà l'espressione del nostro desiderio più intenso, l'espressione di quel fascino irresistibile attraverso cui Dio crea e conserva l'anima intelligente in modo da attirarla e ordinarla a sé. In questo caso il momento simpatetico è immerso nell'incoscienza ed è perciò che l'affermazione dell'essere sembra, alla coscienza superficiale, farsi semplicemente per modum rationis 21
•
Il desiderio intellettuale di Dio, sanato e trasformato dalla grazia, è identico alla affermazione dell'essere nella conoscenza di fede. Ma poiché questo nuovo fascino è liberamente accettato, poiché non ha forza costrittiva, il carattere di conoscenza simpatetica è molto più visibile nella conoscenza di fede che nell'affermazione naturale. La differenza esistente tra queste due affermazioni è la stessa che c'è, ad esempio, in storia naturale, tra un organo che funziona all'interno di un corpo ed uno che appare all'esterno. Cristo è conosciuto nella fede come il maestro che bisogna ascoltare, il mediatore cui si deve aderire, la via che si deve seguire solo se,
21 La conoscenza ideale e perfetta è quella in cui appare alla chiara luce della coscienza intellettuale non soltanto la scienza percepita, ma anche la scienza percettiva e la sim· patia radicale che unisce il soggetto all'oggetto. Questa percezione manca nell'evidenza che ci procura la categoria concettuale del!' ens concretum quidditati sensibili. Anche l'evi- ' <lenza della dimostraz.ione scientifica non pacifica totalmente lo spirito, ma solo provvisoriamente (cfr. san Tommaso: . Contra Genti/es, III, 39).
90
nello stesso tempo, la volontà libera, accettando, come dice san Tommaso, «un certo appetito del bene soprannaturale», si sottomette al maestro, aderisce al mediatore, sceglie quella strada. Solo una tale disposizione volontaria suscita e mantiene la nozione sintetica del mondo soprannaturale, la quale permetterà cli interpretare l'indizio 22
• Se la riflessione vuole, in seguito, tradurre in termini concettuali ciò che prima è stato percepito, non potrà renderlo se non dicendo: esse audiendum, esse credendum. Ma proprio questo: che bisogna ascoltare, che bisogna credere, questo lo si vede i.i quando si fa latto cli fede;
22 Cfr. la prima parte, pp. 46-49. 23 Sembra che, nel primo atto di fede (non parlo qui della prima espressione esteriore e verbale) la verità soprannaturale (signoria di Gesù, magistero divino della chiesa) sia direttamente affermata. Questa verità è creduta, e la «credendità» è vista, ma come è visto l' «lo penso» nella intellezione naturale. La «credendità» è una condizione della rappresentazione (ratio sub qua); come l'anima che si risveglia alla vita intellettuale non dice esplicitamente Cogito, né Video, né Fidendum intellectui, così l'anima che si risveglia alla vita della fede non dice esplicitamente Credo, né Deus dixit, né credendum est. Ma in ambedue i casi le tre affermazioni sono realmente e implicitamente conte· nute nell'asserzione che porta inunediatamente all'essere. Azione del pensare e azione del credere, appercezione e at· testazione divina, «bontà della ragione» e «Ctedendità», so· no affermate exercite. In seguito, la riflessione può isolarle e può perfino costruire una serie di argomenti logicamente legati che giungono all'affermazione della verità della fede. Ma il processo razionale rappresentato da questa concatenazione di argomenti non rende che uno degli aspetti del-
91
e così si verifìca alla lettera nel credente la parola evangelica: vedete bene (fate bene attenzione a) come ascoltate, B'Ném:-ce: TIG.lc; choue:-ce: 24
•
5. Evidenza valida personalmente o generalmente
Se la spiegazione qui proposta ha un merito, è quello di dare all'amore un ruolo essenziale nell'at-
l'atto. L'atto totale e reale richiede, come sintesi affermativa, il nuovo amore ed i nuovi occhi: di questa novità non c'è traccia nel processo razionale. Molte spiegazioni dell'atto di fede, per un'illusione tutta cartesiana, trasformano in giudizio distintamente e preventivamente pensato ciò che è in realtà una condizione dell'atto. 24 Abbiamo tentato di spiegare l'assenso universale alla fede cattolica, quello in cui si dice: «lo credo, o Dio, tutto ciò che Tu hai rivelato» o, più semplicemente; do credo, sono cristiano». Questo atto è l'incontro di una fede infusa con la confessione di una religione determinata: è a questo punto cruciale che noi abbiamo tentato di abbordare il problema della fede (Parte prima, pp. 32 s.). È molto più facile spiegare come un uomo che voglia restare cattolico aderisca ad un dogma deternùnato, ad esempio a quello dell'infallibilità pontificia. Ciò che muove la sua volontà è il desiderio della vita eterna già conosciuta: qui si applica senza difficoltà l'analisi di san Tommaso citata più sopra (cfr. nota 12). È chiaro che la volontà cli salvare la sua anima restando nella chiesa gli prescrive la specificazione del suo assenso; dare scientemente la propria adesione alla proposizione contraddittoria sarebbe perdere e la vita della. grazia e l'habitus della fede (ua uae, q. 5, art. 3). E tutta·. via l'atto è perfettamente libero perché l'uomo è libero d' · restare o meno cattolico.
92
to di fede, senza detrimento alcuno per l'intellettualità più rigorosa. Il sentimento, per noi, non è affatto un seduttore dell'intelligenza; la libertà è generatrice dell'evidenza. È piuttosto l'intelligenza, corrotta dal peccato, ad essere liberata dall'amore soprannaturale: la grazia le dona la sua propria perfezione, che è cli vedere (vide re esse credendum ). Se è importante salvaguardare la perfetta libertà del credere, allora è pericoloso insistere esclusivamente sull'aspetto volontario dell'atto di fede; bisogna sottolinearne invece fortemente il carattere razionale nonché l'oggettività delle prove della fede, e ciò per non cadere in quegli errori antiintellettualistici 25 che l'autorità ha cosl decisamente condannati.
Pensiamo che si sia compresa la differenza essenziale che distingue la nostra spiegazione dell'influsso della volontà dalla teoria del coup d' état. I sostenitori di questa teoria sono costretti a dire: «Nessuna verità vista muove l'intelligenza»; per noi, invece, l'amore dà occhi per vedere: lo stesso fatto che si ama fa vedere, crea per il soggetto amante un nuovo tipo di evidenza. Non bisogna credere, però, che questa evidenza, nel caso dei motivi di credibilità, sia, in quanto visione d'amore, cosl asso-
25 Dopo aver menzionato l'errore agnostico secondo cui non si può riconoscere Dio nel mondo e ne.ila storia, l'enciclica Pascendi aggiunge: «His autem positis, quid de ... motivis credibilitatis... fìat, facile quisque perspiciet. Ea nempe modernistae penitus e medio tollunt et ad intellectualismum amandant: ridendum, inquiunt, systema ac iam· diu emortuum». (Denzinger, EnchiridionlO, 2072).
93
lutamente personale da essere totalmente incomunicabile.
Senza dubbio a volte è cosl: è il caso di talune motivazioni straordinarie date da uomini di grande interiorità e dai santi 26
; è, molto spesso, anche il caso delle motivazioni date dai semplici, se valgono le osservazioni che abbiamo fatto a loro riguardo nella prima parte. In questi casi la grazia illumina per il soggetto dei fatti che egli solo comprende nella loro complessità originaria; la conoscenza cosl suscitata non è meno incomunicabile di quanto lo siano, nell'ordine naturale, le percezioni più personali dell'illative sense (Newman). La radice della incomunicabilità della conoscenza sta nella sua stessa materia. Ma se è vero che lo Spirito di Dio suscita nel segreto dei cuori tali evidenze percepibili solo «allo spirito dell'uomo che è nell'uomo» n, non per questo Egli perde il potere di illuminare dei fatti visibili a tutti: la vita di Cristo, la storia di Israele e quella della chiesa. Se Egli può far penetrare «la sua torcia negli angoli più segreti di Gerusalemme», può anche inondare di luce «la città costruita sulla montagna». I motivi di credibilità emergenti da fatti
26 Si dice nel breviario romano, alla quarta lezione del 31 luglio, che sant'Ignazio di Loyola soleva dire: <Si sacrae litterae non exstarent, se !amen pro fide mori paratum ex iis solutn, quae sibi Manresae patefecerat Domintts». Ma mai, per i santi, la prova presa dalla <pwvTi èl; oùpavov ÈvexOcicra toglie valore a quella presa dal Be6a"6"t'Epoç 1CpO(jl'YJ"t'"XÒ<; Myoç. (Cfr. 2 Pt 1,18 - 19}. 21 1 Cor 2,11.
94
visibili a tutti possono poi essere messi in forma di discorso e di argomentazione e costituiscono l'oggetto della scienza apologetica. Questo fatto richiede due osservazioni.
La prima: la fede di coloro che conoscono queste prove non è necessariamente più salda di quella di coloro che le ignorano. Si può anzi dire che la grazia rende la fede del carbonaio altrettanto ragionevole, nel senso pieno e vero della parola, della fede dello storico e del dottore 28
• Tuttavia il possesso di ragioni di credibilità suscettibili di essere espresse, sviluppate e comunicate è, soprattutto per il suo valore sociale e catechetico, estremamente prezioso per la chiesa. Diffuse con la parola e con gli scritti, le prove della fede cooperano ovunque con la grazia e stimolano le anime di buona volontà con una possibilità di diffusione superiore a quella che può avere l'azione individuale di un'anima pia. Sarebbe far
28 Ciò significa che nella nostra spiegazione non c'è posto per ciò che si intende normalmente con l'espressione certitudo respectiva, che dovrebbe essere sufficiente per un uomo semplice, ma non per un dotto e «in sé»; chi comprendesse totalmente il contesto psicologico di un semplice che abbia veramente la fede, possederebbe, per ciò stesso, delle ragioni di credere legittime e valide per chiunque.Le ragioni del parroco possono essere più comunicabili cli quelle del carbonaio; ma l'assenso pili ragionevole, nel senso pili pieno della parola, sta in quello, tra i due, che è maggiormente illuminato da una superiore luce infusa (cfr. Ferrariensis citato più sopra), poiché, per giudicare della intellettualità di un atto, la qualità deila luce intellettuale è più importante della natura degli oggetti illuminati.
95
torto allo Spirito Santo e alla tradizione disprezzare queste esposizioni delle prove della fede. Curioso cattolicesimo, in verità, quello che disdegni non solo Apollo, ma anche Paolo, che pure si radicano ambedue sulla Scrittura! 29
•
Tuttavia-e questa è la seconda osservazione-, dal fatto che le prove storiche ed esteriori della religione possano essere espresse dal linguaggio, ridotte in un discorso logicamente coerente e, sotto questa forma, proposte a tutti, non si ha il diritto di concludere che un uomo, senza l'illuminazione della grazia, possa percepirle sinteticamente come prove, dare loro un assenso veramente certo. Le prove della religione, siano esse individuali o comunicabili, hanno necessariamente bisogno di due condizioni per essere percepite: la presentazione dell'oggetto e il possesso di una facoltà spirituale che lo possa afferrare 30 • In ambedue i casi un elemento non serve a nulla senza l'altro. E se il secondo elemento, nel caso delle prove della fede, è necessariamente un'illu-
29 At 17,2; 18,28. 30 Se si spiegano a qualcuno che ha già la fede delle prove che egli ancora ignorava, basterà, perché egli possa percepirle come prove, che esse gli siano sufficientemente proposte. Se le si spiegano a uno che non ha 1a fede, sarà necessario, in pili, che egli riceva dal cielo la pia volttntas credendi. Quanto poi alle ragioni individuali, esse non valgono per tutti non tanto perché non siano rischiarate dalla luce della grazia, quanto perché esse non possono essere sufficientemente proposte: ciò che fa difetto, allora, è la presentazione dell'oggetto.
96
minazione soprannaturale, allora non vi è contraddizione nel dire, sia che queste prove hanno un valore obiettivo pienamente soddisfacente, sia che la grazia è necessaria per percepirle, per affermarle. È esatto dire che «esse esigono l'assenso di ogni uomo ragionevole» solo in quanto però si aggiunga che non si può esprimere un giudizio veramente ragionevole su Cristo, la chiesa e la Scrittura se non con l'aiuto della grazia divina. È questa, appunto, l'autentica concezione presente nell'apologetica tradizionale: essa sviluppa le ragioni esteriori e storiche e le giudica, come ragioni, perfettamente sufficienti; ma non pensa affatto che esse agiscano ex opere operato. Essa è ugualmente convinta sia della loro assoluta legittimità, sia della loro sicura inefficacia se Dio non apre gli occhi all'anima 31
• Essa non richiede affatto dall'ascoltatore la riflessione sul «fatto interiore», ma il «fatto interiore» stesso, cioè questa buona disposizione volontaria che permette di comprendere il «fatto esteriore».
6. Accordo attraverso la grazia
Lo si è gia capito: noi pensiamo non soltanto che, nella fede soprannaturale, la volontà di credere sia necessaria alla fede, ma anche che sia indispen-
31 mwfre liv 'fÌp.iic; 'TtO't'E, w &vopec;, \!E\!OY]XÉvm OUVY]frl\va.~
ÈV 't'IXL<:; ypaq>aLc; 't'IXU't'CI., d µ1] frek~µa't'~ 't'OU i}EÀlJO'Cl.\!'t'Oc; w'.ml. D.apoµev xapw 't'ov vof]O'a~. (Giustino, Dialogo con Trifone, n. 119).
97
sabile, affinché l'atto di fede sia legittimamente certo, l'inclinazione simpatetica dell'intelligenza verso il mondo soprannaturale operata da una grazia 32
; in altri termini ci sembra che si debba rinunciare al concetto di «fede scientifica» o di «fede naturale» dei moderni teologi.
Ciò risulta, peraltro, già dall'insegnamento positivo della chiesa laddove si tratta della libertà della fede. Se il mio credere alla fede cattolica è veramente libero quanto alla sua specificazione, come potrebbe essere compatibile con una fede scientificamente certa, puramente naturale, che non dipendesse affatto dalla volontà? Resta dunque solo l'ipotesi di una fede naturale che sia essa stessa insieme certa e libera. Ma il supplemento affettivo, la porzione d'amore, condizione indispensabile della libertà, rende illegittimo, in questo caso specifico, un giudizio
32 Non diciamo che non vi possono essere atti di fede certi e legittimi senza la grazia santificante, ciò che sarebbe eretico {Denzinger, Enchiridion 10, 1791). Non diciamo neppure che non vi possano essere, senza grazia-anche senza grazia attuale-atti di adesione alla dottrina cattolica che siano soggettivamente, ma illegittimamente, certi: ciò si accorderebbe male, forse, con l'esperienza. Milioni di uomini aderiscono con fermezza soggettiva assoluta a religioni false, per esempio all'Islam, e io non vedo come sia necessario dire, malgrado l'altezza e la difficoltà dei nostri misteri, che la nostra religione appare, alla ragione naturale, più improbabile di quelle. Se il caso si presenta, allora si tratta di quella fides acquisita che è, per parlare come san Tommaso, semplice opinione, opinio fortificata rationibus (Prolog. sent. a. 3 sol. 3).
98
speculativo assoluto. Poiché questa porzione d'amore impedisce che si agisca in forza di quel puro amore dell'Essere che, solo, ha il diritto di farci pronunciare simili giudizi. L'azione morale libera-si potrà obiettare-affina l'intelligenza. Sì, ma il suo valore morale è permanentemente misurato dalla luce della ragione naturale che si possiede, e il suo affinamento non garantisce affatto che ci si lanci in quella adesione totale reclamata dal cristianesimo, cioè da una dottrina che vuol giudicare dall'alto gli stessi principi della moralità.
Bisogna dunque far ricorso necessariamente a un habitus affettivo infuso che, inclinandoci all'essere soprannaturale, mentre ci stabilisce nell'amore libero di un bene desiderabile, suscita in noi anche una nuova facoltà di visione. Ma è poi indispensabile, per provare la necessità di questa inclinazione soprannaturale, compiere questo lungo itinerario che passa per la libertà come nota caratteristica dell'atto di fede? È legge generale di qualunque atto conoscitivo che sia necessaria una natura comune al soggetto e all'oggetto. In termini scolastici si dice che l' «oggetto formale» di una facoltà definisce tale facoltà e non può essere afferrato da nessun'altra; in parole più attuali ciò significa che ogni scienza percepita richiede una scienza percettiva corrispondente; o ancora che il soggetto deve in qualche modo percepirsi come tale per formarsi l'idea dell'oggetto come tale; o ancora che in ogni conoscenza rappresentativa di un oggetto si nasconde o si mostra una conoscenza dell'oggetto per attrazione, per
99
simpatia, attraverso il sentimento di una qualità. La applicazione di questo principio al nostro argomento può prendere la forma del seguente sillogismo: L'uomo non può vedere le cose sotto la ragione formale dell'essere soprannaturale 33 che attraverso una facoltà soprannaturale. Ora, non si può aderire con fede certa agli oggetti della rivelazione se non conoscendoli sotto la ragione formale dell'essere soprannaturale. Dunque è necessaria una facoltà soprannaturale per aderire con fede certa agli oggetti della rivelazione. La maggiore discende immediatamente dal principio che abbiamo posto. La minore si prova così: la specificazione dell'oggetto formale di ogni intellezione implica essenzialmente l'espressione del rapporto dell'essere con il fine ultimo (poiché l'in
telligenza è precisamente appetito della Verità suprema, fine ultimo dello spirito). Dunque, aderire
agli oggetti della rivelazione sotto la ragione formale
dell'essere naturale è affermare implicitamente che
essi appartengono all'ordine naturale e, di conse
guenza, significa non intenderli affatto; in termini
più semplici: affermare le verità della fede senza
essere stati toccati dal fascino delle realtà celesti si-
33 Si comprende bene che qui si tratta non della conoscenza riflessa dell'essere soprannaturale come tale (che è una nozione tecnica), ma della sua conoscenza spontanea (tanquam rationis sub qua) alla quale bisogna paragonare, nella intellezione naturale, non l'idea di essere considerata dai filosofi, ma quella impiegata dall'uomo comune, capace o meno di sapienti astrazioni.
100
gnifica prendere queste verità in un senso che non è quello in cui Dio le afferma 34
•
Concludiamo dunque dicendo che, come per vedere ci vogliono gli occhi, come per percepire le cose sotto il punto di vista dell'essere ci vuole questa simpatia naturale con l'essere totale che si chiama intelligenza, così per credere bisogna avere questa simpatia spirituale con l'oggetto della fede che si chiama grazia soprannaturale della fede.
7. Conferma biblica
Sia permesso ora, dopo tante discussioni teoriche, ricondurre un istante l'attenzione sulle parole e i racconti evangelici. Senza dubbio la teologia speculativa non è la teologia biblica, e non è certo in pochi paragrafi che si può pretendere di dare un'idea
34 La questione scolastica dell' «oggetto formale» delle virtù soprannaturali è una di quelle controversie che si potrebbe essere tentati di trascurare come sottile e sprovvista di interesse reale, mentre, al contrario, essa pone in termini strettamente tecnici il problema capitale della conoscenza della fede, mettendone a nudo il punto centrale. Io credo che si debba dire, sull'oggetto formale della fede, che, considerando precisamente la rappresentazione come tale, non vi sia, per se, differenza, tra le nozioni che hanno dei nostri misteri un incredulo e un credente; ma che, se si considera la rappresentazione con l'assenso, la facoltà soprannaturale definisce un nuovo oggetto formale. Ora, in colui che ha la virti:1 della fede, purché ci sia presentazione sufficiente, la rappresentazione non è mai senza l'assenso.
101
completa della concezione della fede nei sinottici e in Giovanni. Piuttosto è giusto invitare il lettore a ravvivare l'impressione d'insieme che, su questo argomento, gli ha lasciato lo studio dei vangeli e a giudicare dentro di sé quale delle dottrine dibattute in queste pagine gli sembri presentare l'interpretazione più esatta di quei fatti normativi. È per questo che non sarà fuori luogo una breve ripresa di qualche parola e di qualche episodio a tutti noti.
È forse esagerato dire che negli evangelisti non si trova traccia di una concezione della verità o della credibilità secondo cui essa abbia luogo semplicemente a partire dalle facoltà naturali e, in seguito, con un atto libero, venga trasformata in adesione soprannaturale? Non solo la teoria della fede che emerge chiaramente nel quarto vangelo, ma anche l'insieme delle concordanze che si possono rilevare nei sinottici possono riassumersi nelle seguenti tre idee: la vita terrena di Gesi.1 Cristo è la rivelazione di Dio agli uomini; secondo la carne, buoni e cattivi possono ugualmente percepire le parole e le opere di Cristo; ma l'intelligenza di queste parole e di queste opere, la conoscenza che, trapassando la carne, va fino allo spirito, la scoperta del Figlio di Dio nel Figlio dell'uomo non è di tutti: essa è appannaggio di coloro che hanno buona volontà. Coloro che hanno buona volontà, poi, sono quelli che fanno la volontà del Padre celeste, o-che è lo stessocoloro che il Padre attira per darli al Figlio. La libertà è più accentuata nei sinottici, la gratuità in Giovanni.
102
Nel vangdo, quando uno non crede, è perché non vede (che bisogna credere). Davanti al fatto miracoloso si evidenziano due atteggiamenti: o si crede, con una fede salvifica lodata da Gesù (dunque con fede soprannaturale), oppure si resta «senza comprendere»: ciò significa che, pur avendo visto verificarsi un evento prodigioso, non lo si interpreta come un indizio della missione divina di Cristo. Dopo la moltiplicazione dei pani e il passaggio di Cristo sulle acque i discepoli «erano enormemente stupiti in se stessi perché non avevano capito il fatto dei pani, essendo il loro cuore indurito» 35
• Per questo viene loro detto «Non intendete e non capite ancora? Avete il cuore indurito? ... Non capite ancora?» 36
• L'atteggiamento che si rimprovera loro non è quello di chi, pur comprendendo il miracolo come indizio di una forza divina, rifiuta di sottomettere la propria volontà; è quello di chi, spettatore di un fatto meraviglioso, tuttavia non si spinge più a fondo, ma resta alla semplice constatazione del fatto. Gli manca ciò che in linguaggio tecnico chiamiamo percezione dell'indizio, sintesi, assenso 37
:
è un difetto di intelligenza quello che si rimprovera loro.
Infatti nel Vangelo, quando uno non vede, è colpevole di non vedere. È per «durezza di cuore»
35 Mc 6,52. 36 001.0; voe~-ce: oùoe cruvle1:e:; ... 001.w cruvle-ce; (Mc 8, 17.21). lì Parte prima, pp. 46 ss.
103
che non si può comprendere il miracolo. «Neanche se uno risuscitasse dai morti-leggiamo in Lucasaranno persuasi». E in Giovanni: «Sebbene avesse compiuto tanti segni davanti a loro, non credevano in lui» 38
• Questo stato di visione materiale e di cecità spirituale è attribuito, sia da Giovanni che dai sinottici, a quell'indurimento di cuore già predetto da Isaia, cioè al difetto di grazia, come diremmo in linguaggio teologico. «E non potevano credere, per il fatto che Isaia aveva detto ancora: Ha reso ciechi i loro occhi e ha indurito il loro cuore, ecc.» 39
•
«Ve l'ho detto-leggiamo ancora nel quarto Vangelo-non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio queste mi danno testimonianza, ma voi non credete perché non siete mie pecore. Le mie pecore ascoltano la mia voce»40
• L'ultimo testo, come è noto, è uno di quelli sui quali si basano coloro che parlano di «determinismo giovanneo»; quale che sia l'esagerazione di questa teoria, tuttavia non si può negare, e anzi un cattolico deve essere il primo a riconoscerlo, che vi è, secondo Giovanni, una differenza, che potremmo chiamare fisica, tra i figli del maligno e coloro che sono nati da Dio. È ciò che si chiama la filiazione, l'elezione divina; è una nuova natura: la grazia santificante che ci fa credere, cioè vedere, nel mondo visibile, segni del mondo soprannaturale.
38 Le 16,31; Gv 12,37. 39 Gv 12,40; dr. Mt 13,14; ;\k .:1,12; Le 8,10. 40 Gv 10,25-27.
104
Secondo il vangelo, inoltre, un nonnulla dovrebbe essere sufficiente a far vedere e, che è lo stesso, a far credere. Questo è il fondamento scritturistico di quanto dicevamo più sopra 41
: quanto più l'amore di Dio è vivo in un'anima, tanto più a quest'ultima basta un tenue indizio per discernere la verità.
In Matteo, come in Giovanni, vengono biasimati coloro che vogliono miracoli 42
• Ciò non significa che i miracoli non provino la missione di Cristo; signi
fica piuttosto che, se gli uomini fossero meglio disposti, potrebbero riconoscerlo da segni più tenui e sottili: tali sono i «segni dei tempi» 43
; tale è la dottrina stessa che Gesì.1 predica; solo quando essa non è più sufficiente a persuadere, Egli rimanda ai miracoli 44
• Chi è puro non ha che da agire con pu
rezza per comprendere che Cristo dice il vero 45•
La colpa dei giudei è dunque consistita in ciò: che, spettatori della vita umana del Cristo, non han
no voluto vedere che egli era il Figlio di Dio: se Gesù non fosse venuto nella carne, se essi non avessero avuto questo meraviglioso spettacolo, «essi non
41 Parte prima, pp. 50 ss. 42 Mt 12,39: «Una generazione perversa e adultera pretende un segno!». Cfr. 16,4 e Mc 8,12. Gv 4,48: «Se non vedete segni e prodigi, voi non credete». 43 Mt 16,3; dr. Le 12,56. 44 Gv 14,11. 45 Le 12,57: «E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?»; Gv 7,17: «Chi vuol fare la sua volontà, conoscerà la (verità della) dottrina».
105
avrebbero colpa»46• Al contrario, coloro che sono il
luminati, coloro che credono, non si fermano alla visione carnale, ma riconoscono il Figlio di Dio. Come dice Giovanni, coloro che vedono lui vedono Colui che lo ha mandato: vedendolo essi vedono il Padre 47
• Perché essi vedono? Perché hanno ricevuto dal cielo una nuova intelligenza: oÉoWXEV ·fiµi:v oLci:
voLcw. Senza questa celeste facoltà sembra impossibile credere. Essi non possono credere, dice esplicitamente l'evangelista 48
• Su questo punto san Paolo gli fa eco 49
• Ma non possiamo qui neppure sfiorare la dottrina della fede del grande apostolo. E tuttavia quali conferme ci porterebbe, dal celebre passo sul «velo» che copre gli occhi dei giudei 50 fino alla parola, divinamente vera, su coloro che si perdono «per non avere accolto l'amore della verità!» 51
•
8. Ultime obiezioni
La concezione puramente razionale della fede ha gettato tra noi radici così profonde che perfino coloro che potrebbero condividere la dottrina tracciata
46 Gv 15,22; cfr. 9,39-41 fino a 12,40. 47 Gv 12,45; 14,9. 48 «Non potevano credere» (Gv 12,39). 49 l Cor 2,14.16: «L'uomo naturale... non è capace di intendere ... Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo». 50 2 Cor 3,13 ss. 51 2 Ts 2,10: «Con ogni sorta di empio inganno per quelli che vanno in rovina, perché non hanno accolto l'amore della verità».
106
in queste pagine, coloro che vedrebbero con favore la teologia abbandonare una concezione così poco conforme alla ragione e alla esperienza, sentono nascere in sé obiezioni e apprensioni. Terminiamo dunque prevenendo alcune obiezioni.
Spero che non ci venga rimproverato, per aver affermato che la ragione naturale è incapace di percepire con certezza le prove della fede, di aver detto che la fede non ha prove. Abbiamo insistito a sufficienza sul ruolo degli indizi estrinseci. Alla chiesa non mancano i segni, anzi ne possiede moltissimi; tutto nel mondo prova la chiesa. Ciò che manca alle prove sono piuttosto le intelligenze, e si può riprendere qui ciò che sant' Agostino diceva commentando una pagina evangelica: Nihil igitur vacat, omnia innuunt, sed intellectorem requirunt 52
•
Sl In Joannem, Tr. 24 n. 6, PL 35, 1595. Cfr. Tr. 18, n. 11, ibid. 1543. Non è qui il caso di invocare, per mostrare che la dimostrazione deve poter essere fatta attraverso il solo lume naturale, la proposizione che Bautain dovette sottoscrivere: «Qttamvis debilis et obscura reddita sit ratio per peccatum originale, remensit tamen in ea tam claritatis et virtutis, ut ducat nos cum certitudine ad existentiam Dei, ad revelationem ... » {Denzinger, Enchiridion 10, 1627). Si potrebbe a priori rispondere che, essendo qui il tradizionalismo l'errore condannato, il termine ra,~ione è opposto qui a tradizione e non all'illuminazione interiore e soggettiva delle anime. C'è di più: i documenti positivi appoggiano questa interpretazione. La successiva dichiarazione che Bautain sottoscrisse nel 1844 per ordine della sacra congregazione dei vescovi e dei religiosi, distingue le verità natutali, come quella dell'esistenza di Dio, delle quali essa di-
107
Ma, potrebbe dire qualcuno spingendo il discorso all'estremo per una lodevole preoccupazione di chiarezza, supponiamo che un profeta resusciti un morto per provare che le sue parole possiedono la garanzia divina; l'intelligenza degli spettatori non sarà forse naturalmente convinta che essi sono in presenza di un'attestazione del Dio infallibile?53
• L'esempio è chiaro e molto adatto a mettere in luce ciò che ci separa da quei teologi che ci permettiamo di contraddire. Non abbiamo bisogno di ricorrere, come molti hanno fatto ingegnosamente 54
, alle molte ragioni di dubbio che la pigrizia e la leggerezza umana potrebbero accumulare in un simile caso; troviamo invece il nostro motivo per negare la possibilità di un reale assenso nel carattere soprannatu
rale della verità annunciata. Ma, si potrebbe obiettare, niente manca all'assenso: né l'intelligenza dei
termini né la certezza della connessione! Manca però un soggetto atto a vedere, una facoltà capace di ope-
ce che possono essere conosciute «con la sola ragione ... con il solo lume della retta ragione», dai motivi di credibilità, a proposito dei quali essa non impiega alcun termine così esclusivo (cfr. Denzinger, op. cit., p. 434, nota). Infine, tra le tesi sottoscritte da Bonnetty, vi è una esplicita aggiunta: «Rationis usus fìdem praecedit et ad eam hominem ope revelationis et graliae conduci!». (Op. cit., 1651 ).
53 Cfr. Gardeil: La Credibilité, pp. 73-96, e Diction1111ire de theologie catholique alla voce Credibilité, coli. 2215 ss. s4 Lugo: De virtute fidei divinae, disp. II, sect. 1, n. 22 ss., 47 ecc. Hugueny: Revue thomiste, maggio-giugno 1909, e altri.
108
rare la sintesi, e perciò manca tutto. La sintesi è irriducibile agli elementi sintetizzati. Quale strada prenderà lo spirito sviato davanti al prodigio che stiamo considerando? Un dubbio sul fatto? Una preferenza per l'esperienza ordinaria e acquiescente rispetto al fenomeno eccezionale e stimolante? L'affermazione temeraria di una verità capovolta? Lo ignoro, ma poco importa. Comunque una via gli è preclusa: quella dell'affermazione legittima.
Bisogna infine osservare che la necessità di un aiuto spirituale e gratuito per la percezione di cui stiamo parlando riguarda l'uomo nella sua vita terrena intesa come prova, come «pellegrinaggio». Daemones credunt, et contremiscunt! La conoscenza propria di uno spirito nell'eternità, quando possiede una coscienza diretta del suo rapporto con il fine ultimo, non deve essere concepita come «libera» allo stesso modo della nostra. ma come tutta permeata di affezione. L'angelo o il beato vede Dio così come lo ama 55
• Il demone crede 56 in quanto, tendendo a Dio con tutta la sua natura, sente però che tutta la sua persona ne è respinta. Il soprannaturale lo penetra, ma egli lo sente, come è stato eletto, nel vuoto. Così
55 Cfr. san Tommaso, r, q. 12, art. 6. 56 Si tratta qui di fornire la ragione dell'assenso come tale, e non quella della conoscenza dei differenti dogmi determinati. Su quest'ultimo punto non mi sembra vi sia nulla da aggiungere a ciò che dice san Tommaso (ua uae, q. 5, art. 2). Ma le due questioni sono distinte in questo caso così come nel caso studiato pi11 sopra (Cfr. p. 88 e nota 19).
109
questo dibattito sulla «fede dei demoni» che può sembrare così arcaico e stravagante, serve anch'esso a far risaltare la differenza tra le due concezioni della conoscenza che necessariamente si scontrano lungo tutta la storia del trattato della fede. Per gli uni l'intelligenza si correda di un doppio intelleggibile de.1le cose, e tali rappresentazioni non sono intrinsecamente modificate dal dinamismo globale del soggetto; per gli altri, ciò che vi è di più conoscente nella conoscenza, dipende essenzialmente dal rapporto del soggetto con il suo fine ultimo.
110