Gli occhi della fede

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Che cosa significa credere? Questo volumetto di Pierre Rousselot è un testo che fa parte della storia della teologia ed è una pietra miliare per la comprensione del rapporto tra fede e ragione, tra natura e sopranatura.

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Pierre Rousselot "' _

Gli occhi della fede G~ Presentazione di

Ursicin G.G. Derungs

Il Jaca Book il

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titdlo originale Les yeux de la foi

traduzione

Claudio del Ponte

edizione originale apparsa su Recherches de Science Religieuse, 1910

prima edizione italiana marzo 1977

in copertina Saint J oseph, scultura di Gislebertus,

XII secolo, particolare dell' «Adorazione dei Magi», cattedrale d' Autun

grafica e copertina ufficio grafico J aca Book

per informazioni sulle opere pubblicate e in programma e per proposte di nuove pubblicazioni ci si può rivolgere a

Direzione Editoriale Cooperativa Jaca Book via Saffi 19, 20123 Milano, telefono 897055-897088

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Nota redazionale Introduzione

INDICE

Parte prima 1. Fede come atto e formula. Soluzioni da

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scartare 31 2. L'ipotesi di una fede naturale «scienti-

fica» 3 7 3. Razionalità e soprannaturalità della fede 43 4. Priorità reciproca come soluzione 48 5. L'essere e fa grazia (Oggetto formale

naturale e soprannaturale) 53

Parte seconda 1. Certezza e libertà della fede 63 2. Visione tramite l'amore 70 3. L'amore dell'essere di fronte all'oggetto

di fede 74 4. Conoscenza per simpatia e fede 84 5. Evidenza valida personalmente o gene-

ralmente 92 6. Accordo attraverso la grazia 97 7. Conferma biblica 1O1 8. Ultime obiezioni 106

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Nota redazionale

Lo studio cli Rousselot, che presentiamo per la prima volta ai lettori italiani, 1è ormai un classico della storia della teologia. Il testo, apparso in for­ma cli due articoli sulla rivista Recherches de Scien­ce Religieuse del 1910, viene qui riprodotto inte­gralmente; ci siamo, tuttavia, permessi, per facili­tare la lettura, cli introdurre dei titoletti interni che abbiamo desunto dalla traduzione tedesca curata da Hans Urs von Balthasar, traduzione che abbiamo costantemente tenuto presente nella traduzione dal francese e che ci è stata cli grande aiuto per la tra­duzione stessa.

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Introduzione

Il messaggio cristiano del venturo regno di Dio in Gesù Cristo può essere reso intellegibile e com­prensibile per l'umanità? E come si dovrebbe far ciò? Questa è la questione fondamentale della teo­logia e la questione della teologia fondamentale 1

I Teologia fondamentale, qui, va intesa non solo come rendiconto del fatto della rivelazione che ne mette in ri­lievo i motivi di credibilità (specialmente miracoli e profe­zie) che possono condurre all'atto di fede, ma, <li più, co­me rendiconto umano (non solo «razionale») del contenuto della rivelazione che mette in rilievo J motivi per i quali uno già crede, e che può quindi preparare anche la fede del non-credente. Interlocutori della teologia fondamentale sono la filosofia, la poesia, la realtà politica e, in generale, la cultura. Siccome la teologia fondamentale è ancora lon­tana dall'aver trovato la sua propria identità-dopo la scon­fitta dell'apologetica tradizionale-il concetto qui accennato non è generalmente accettato, tanto p.iù che, per certi aspet­ti, sembra coincidere con il compito della dogmatica. Ed è stato proprio Rousselot ad aprire la strada ad una conce­zione della teologia fondamentale che si muove in CJIUesta

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Ma la questione stessa si presta al fraintendimento, poiché «messaggio» implica il poter-comprendere; ossia: un messaggio è tale solo se può essere com­preso; ciò significa, in più, che ha in se stesso una struttura razionale commisurata alla capacità di com­prensione dell'uomo integrale. Tuttavia la forma del­la domanda posta all'inizio non è assurda, anche se è problematica: essa presuppone, infatti, che ci sia­no degli ostacoli che possono impedire la compren­sione del messaggio e che questo possa anche essere frainteso. Presuppone, inoltre, l'intera lunga storia della teologia cristiana, che, secondo sempre nuovi -più o meno felici-modelli, ha cercato-all'inter­no di diversi ambiti culturali e di diverse prospet­tive filosofiche--<li sviluppare razionalmente--cioè proprio di rendere comprensibile-il contenuto del messaggio e che in ciò non è sempre stata capita. Il continuo tentativo di «traduzione» del messaggio nella teologia e neila vita della chiesa può aver con· tribuito al formarsi di un modello un po' superfi­ciale e deviante del rapporto tra teologia e messag· gio: si avrebbe, da un lato, il messaggio testimo­niato nella sacra scrittura (e al quale si crede), e, dall'altro, la teologia, che media in categorie di pen· siero e di linguaggio per uomini di diversi tempi e culture un messaggio che le è offerto (e che in tal modo viene saputo). Così, però, c'è il rischio che si verifichi una spaccatura tra fede e intelletto, tra

direzione. {Cfr. quanto dice H.U. von Balthasar, Gloria, vol. 1, Milano 1976, p. 159}.

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messaggio e teologia. Ma il messaggio come tale è «teologia»; non solo in quanto sviluppa già in sé un intellectus fidei 2 (in questo senso, infatti, il mes­saggio in quanto formulato in un linguaggio com­porta come tale l'elemento razionale proprio del linguaggio), ma, anche perché il messaggio pervenu­toci è non un blocco monolitico, bensl una disputa tuttora viva per la comprensione del Cristo e, in definitiva, una disputa per la fede, condotta me­diante delle strutture di sapere 3

• D'altro canto la teologia, in quanto sapere, ha in sé l'elemento del messaggio: è orientata alla prassi di fede e, nei suoi tempi migliori, è stata intesa come scientia e insie­me sapientia.

Di che tipo è la comprensione propria del mes­saggio ed alla quale esso tende? Va osservato innan­zitutto che la struttura del comprendere corrisponde a quella del messaggio da comprendere; vale a dire: il modo in cui risolviamo la questione del compren­dere nel suo aspetto formale dipende dalla com­prensione fattuale del messaggio nel suo aspetto con­tenutistico. L'analisi della struttura della compren­sione lascia intravvedere qualcosa della comprensio­ne che di fatto si ha del messaggio, e, viceversa, un certo modo di intendere il comprendere può ostaco-

Cfr. G. EbeHng, Theologie, in RGG vr, 21962, pp. 760 s.

Cfr. E. Fuchs, Jesus Christus, in Glaube ttnd Erfah­ung, Tiibingen 1965, pp. 447 s.

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lare o favorire la comprensione del messaggio. Non è solo la fides quc1e a determinare la fides qua, ma­ciò che è molto di pfo-vale anche il contrario: La fides quae non ci è mediata se non attraverso la fides qua. Questa è la ragione per cui il problema formale circa il tipo della comprensione propria del messaggio concerne intrinsecamente la questione da noi posta all'inizio. Si tratta dunque non solo di capire il messaggio cristiano, ma di capire lo stesso capire, affinché il tipo di comprensione non porti a fraintendimenti del messaggio. La comprensione del capire viene fornita dalla teologia della fede ( trat­tato de fide) e in tal contesto si inserisce il presente saggio di Pierre Rousselot. Poiché in realtà la com­prensione di cui qui si tratta è ciò che viene deno­minato fede. Che cosa significa «credere»? Rinuncia alla comprensione? Accettazione di misteri che, in fin dei conti, sono imperscrutabili? Come si com­prende credendo? Quale relazione intercorre tra cre­dere e sapere, tra fede e amore, tra fede e libertà? Dedicarsi narcisisticamente all'atto di fede in luogo di rivolgersi al messaggio può sembrare, a prima vi­sta, un'impresa pericolosa e patologica. Bisogna pe­rò dire che l'esercizio razionale compiuto sull'atto di fede appartiene alla riflessione secondaria che è sempre possibile e, in certe circostanze, anche neces­saria senza detrimento per il movimento primario della fede. Tuttavia una riflessione esplicita e siste­matica sulla struttura della comprensione di fede può appunto essere un segno di fraintendimenti esi­stenti al riguardo. Gli occhi della fede di Pierre

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Rousselot cost1tu1sce un tale segnale d'allarme. Ma è, nello stesso tempo, di più: il suo trattato sulla fede è diventato orientamento e modello per l'ulte­riore investigazione 4•

Prima di accostarci esplicitamente alla teologia della fede di Rousselot cerchiamo di vedere di qua­le natura sia la «comprensione» del messaggio, trat­teggiandola liberamente dal punto di vir.ta della no­stra prospettiva moderna. Nella comprensione del messaggio è sempre sottointesa-esplicitamente o implicitamente-una comprensione storica secondo il metodo storico-critico e le regole dell'ermeneutica generale. Un messaggio dato nella storia e contenuto in determinati documenti storici non può essere compreso se non in modo storico. Per la corretta comprensione del messaggio bisogna dunque far at­tenzione oltre che al senso letterario della Scrittura, rilevato dall'esegesi critica, alla storia stessa della fe­de vissuta nelle comunità cristiane: essa è, infatti, -in quanto storia degli effetti del messaggio di «al­lora»-interpretazione di esso e implica, quindi, la sua comprensione. Notiamo soltanto in margine che, così, l'analisi dell'atto di fede si allarga all'analisi della prassi di fede interpretante e comprendente. È importante qui tener per fermo che la tradizione è interpretazione e che l'interpretazione è comprensio­ne. L'esegesi, la storia dei dogmi e la storia della chiesa cercano di rilevare questa tradizione. Ma la

H.U. von Balthasar, op. cit., p. 162.

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comprensione del messaggio, dalla quale siamo par­titi, non si esaurisce nella comprensione storica; an­cor meno consiste nel solo prendere atto dell'an­nuncio proposto. Poiché, in primo luogo, come cre­denti di oggi, non stiamo al di fuori o al di sopra della storia degli effetti dell'evento di Gesù Cristo, bensl all'interno di essa; nella misura in cui questa storia è nuova, è nuovo anche il comprendere, e vivendo la fede-bene o male-, la interpretiamo e la capiamo-bene o male-. In secondo luogo le Scritture danno testimonianza di ciò che noi potrem­mo chiamare il «plusvalore sovrannaturale» del mes­saggio, per cui il «comprendere» che gli si riferisce non è paragonabile con una qualsiasi forma di cono­scenza umana, ma si qualifica come fede. Questo si può almeno illustrare (seppure non spiegare del tut­to) facendo il paragone con le relazioni interperso­nali, in cui la comprensione 'è di più che la semplice «conoscenza». Per poter «comprendere» si deve ag­giungere al conoscere il «plusvalore» dell'amore e dell'impegno per una persona, poiché a quest'ultima è proprio il plusvalore della individualità inconfon­dibile, ed essa, quale persona, non può essere com­presa come una proposizione linguistica o una cosa. Lo specifico plusvalore del messaggio cristiano è se­gnalato da enunciati come per esempio «Figlio di Dio», «Vere Deus, vere homo», o, secondo modelli più recenti, da categorie tra le quali ad esempio la libertà di Gesù che ·è liberante (salvante) perché è «liberata» (cioè preesistente presso il Padre). Que­sto fa sl che nella giusta comprensione del messaggio

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sia contenuto l'elemento della conversio (cioè del­l'amore e della prassi di fede) verso Cristo che è il messaggio: senza tale conversio la figura del Cristo non viene vista 5

, anche se (o proprio perché), è analizzata molto bene. Il plusvalore cui si accennava più sopra può essere descritto teologicamente da più punti di vista: Hans Urs von Balthasar lo individua nel concetto biblico della gloria e signoria di Dio, che esprime lo splendore dell'amore indeducibile e della potenza di Dio nell'evento di rivelazione, splen­dore esistente, velato e svelato al-di-là-di e, insieme, in tutte le forme, immagini e figure. Da questo pun­to di vista il plusvalore del messaggio appare nella sua capacità di riconoscere miti, religioni, arte e fì. losofìa come figure della gloria di Dio, di raggiungere queste e sorpassarle senza essere soggetto alle loro analogie, cioè senza poter essere ridotto mitologica­mente, filosoficamente o antropologicamente. L'evi­denza obiettiva, in ultima analisi non deducibile, del­la figura della rivelazione determina ciò che è fede. Ed è proprio qui che si appunta la critica di Baltha­sar alla teologia della fede di Rousselot: Balthasar la valuta positivamente, ma vede in essa la fede an­cora determinata e spiegata troppo a partire dal sog­getto 6

• Più vicina all'approccio di Rousselot sta la teologia di K. Rahner, in quanto ambedue, a loro

s Cfr. il titolo del primo volume di Gloria di H.U. von Balthasar, La percezione della forma. Cfr. anche E. Kunz, Glaube-Gnade-Geschichte. Die Glaubenstheologie des Pierre Rousselot SJ, Frankfurt 1969, pp. 176 s. 6 H.U. von Balthasar, op. cit., p. 162.

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modo, stanno nella scia di quella discussione tra la teologia neoscolastica e la filosofia di Kant e del­l'idealismo tedesco, che è legata al nome di J. Ma­réchal. Senza fare una riduzione antropologica del messaggio cristiano Rahner dirige l'attenzione sulla possibilità di attingere la fede. Rahner individua ta­le possibilità nell'apertura trascendentale e nell'esi­stenziale sovrannaturale dell'uomo; in tale struttura il plusvalore della fede come atto ha la sua condi­zione di possibilità.

Gli occhi della fede di Pietre Rousselot SJ ( 1878-1915), apparso in forma di due articoli nel periodico Recherches de Science Religieuse del 1910 7 , si oc­cupa, nel contesto della problematica di allora, an­cor'oggi non del tutto superata 8

, della questione del rapporto tra fede e ragione, questione posta e ripro­posta dal tempo dell'umanesimo, e più ancora del­l'illuminismo, fino ai nostri giorni, e che condusse alla formazione di una specifica disciplina teologica, l'apologetica o teologia fondamentale.

7 L'opera di P. Rousselot è stata presentata criticamente da vari autori. Basta qui ii1dicare l'opera fondamentale di R. Aubert, Le problème de l' acte de fai. Données traditio­nelles et résultats des controverses récentes, Louvain 21950, pp. 452-511. E. Kunz, op. cit., ha, a differenza dall'Aubert, consultato anche le opere inedite di Rousselot. Nel libro di Kunz si trova tutta la bibliografia in proposito. È utile, seppure breve, l'introduzione di J. Triitsch all'edizione te­desca dell'opera di Rousselot (Die Augen des Glaubens, Ein­siedeln 1963, pp. 5-12). 8 Cfr. E. Kunz, op. cit., pp. 108-110.

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Il problema stesso può essere formulato in mo­di diversi. Come nasce la fede? Quale è la strada che conduce dal sapere al credere? Come, nell'atto di fede, sono tra loro mediati grazia, conoscenza dei motivi di credibilità e di fede, libertà e amore? Op­pure: come si collegano tra di loro fede creduta e fede credente 9, messaggio e comprensione di esso? Quando Rousselot scriveva il suo trattato, il senso del divenire storico e del condizionamento culturale delle formule di fede, dei dogmi e delle istituzioni aveva incominciato a destarsi anche nella chiesa cat­tolica. E, di più: fatti storici considerati fino allora come sicurissimi, usati dalla apologetica tradizionale come fondamento per la difesa della pretesa natura rivelata della fede cristiana, vennero messi in discus­sione o negati. Così la vecchia domanda di G.E. Les­sing: come, cioè, dei fatti storici casuali possano co­stituire la prova di verità necessarie della ragione si presentò con tutta la sua asprezza trascinando con sé la domanda del legame tra messaggio (storico) e fede (sovrannaturale e necessaria). ,Il movimento teologico che va sotto il nome di «modernismo» ha cercato di sciogliere il più possibile il legame tra la credenza soggettiva e la religiosità interiore da un lato, e i fatti storici e le formule storiche (dogmi}, dall'altro 10• Esso ha risolto il problema della media­zione tra messaggio e comprensione del messaggio intendendo quest'ultimo non come proveniente dal

Cfr. Gli occhi della fede, p. 33. 10 E. Kunz, op. cit., p. 80.

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di fuori, ma come espressione della esperienza inte­riore religiosa considerata fonte di rivelazione e forza produttrice delle formule dogmatiche. In que­sto modo, però, una possibile tensione tra fede e sapere (storico o scientifico) era neutralizzata a prio­ri, e la possibilità di comprendere il messaggio era spiegata indicando nella coscienza religiosa la fonte della rivelazione e della fede. Vediamo qui esempli­ficarsi come la spiegazione della comprensione del messaggio (cioè della fede) tocchi la sostanza stessa del messaggio che, cosl, nella sovraccennata inter­pretazione, veniva ad essere capita come voce non di Dio, ma di qualsiasi soggetto religioso.

Quando Rousselot scrisse il presente opuscolo, il modernismo era appena stato condannato dal magi­stero della chiesa con l'enciclica Pascendi del1'8 set­tembre 1907. Il problema della tensione tra fede e sapere, tra fede e storia, e la questione tendente a determinare di quale tipo sia la comprensione del messaggio e quale spazio abbia nella fede la cono­scenza, era posto di nuovo, contro i tentativi di armonizzare fede e sapere nel sentimento religioso o di integrare l'oggetto di fede nell'ambito della ra­gione. Il saggio di Rousselot si voleva appunto in­serire nella linea di tale problematica per contribuire alla sua soluzione. Già all'inizio del volume si fa cenno alla tensione tra interiore e esteriore, tra pie­tà e dogma, tra salvezza personale nella grazia di Dio e confessione di un Credo nato nella storia 11,

11 E. Kunz, op. cit., p. 82.

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accentuando l'elemento del «di fuori» nella genesi della fede (cfr. 1 Gv 4,6; Gv 16,37 e il detto: Fides ex auditu ).

È ovvio, per Rousselot, capire, conformemente al­la tradizione, la fede come grazia. Egli parla della con­naturalità delle grazie celesti con le formule cli fede esistenti. Ma quale spazio era da attribuire alla gra­zia nell'atto di fede? Dato che esiste un «di fuori» del messaggio cristiano, nel movimento di fede è contenuta anche la conoscenza di questo elemento «di fuori», ottenuta con l'aiuto dei metodi storici e dell'argomentazione razionale e dalla quale deriva la comprensione dei motivi di fede. Questa conoscenza (che è per così dire previa all'atto di fede) di ciò che deve essere creduto e dei motivi di credibilità è anche essa portata dalla grazia, o lo è solo l'assenso di fede stesso? Posta in questa forma, la questione non sembra essere molto fruttuosa; eppure la ri­sposta è di grande importanza, perché si viene così a decidere, in linea di principio, se l'elemento di conoscenza sia interiore alla fede stessa (senza coin­cidere con essa) e il messaggio possa così essere umanamente credibile, oppure se la fede come atto specifico sia separata dalla conoscenza dei motivi di credibilità e sia così piuttosto aggiunta esteriormen­te alla conoscenza cli essi, e perciò, in ultima analisi, sia poco fondata o non lo sia affatto, nonostante i motivi di credibilità messi in evidenza. Si può porre la questione anche in questi termini: se il carattere sovrannaturale deila fede implichi o no il suo carat-

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tere razionale, senza mettere in dubbio il plusvalore menzionato, anzi mettendolo proprio così in piena evidenza. Rousselot si è allontanato dall'immanenti­smo esagerato del modernismo, secondo il quale coincidono fede e sapere nel sentimento religioso, senza peraltro condividere l'estrinsecismo esagerato dell'apologetica che separa troppo fede e sapere. Di fondamentale importanza per sostenere il suo ten­tativo di superare entrambe le posizioni, fu la sua tesi di laurea (L'intellectualisme de Saint Thomas, Paris 1908) che gli giovò non solo per una più ade­guata presentazione dell'aspetto conoscitivo nella fe­de, ma anche per una più ampia concezione della conoscenza stessa 12

• «Conoscenza» ·è, per Rousselot, non da identificare semplicemente con il conoscere concettualistico e razionalistico, ma è, bensì, la ca­pacità di aprirsi all'altro, di capirlo ed abbracciarlo e di trovare, proprio cosl, se stessi. Questo «altro» è, in ultima analisi, il Tu di Dio, per il quale l'in­telletto umano è fatto. Conoscere e desiderare (ama­re) hanno perciò qualcosa in comune: mentre nelle opere del 1908 essi sono ancora giustapposti, negli studi del 1910 li troviamo inviscerati l'uno all'al­tro 13

• Ogni conoscenza umana è animata da una

12 E. Kunz, op. cit., p. 11 (nota 3 ): «Pas de théorie de la fai sans théorie de l'intellection. Pas de progrès dans l'iclée qu'on se .fait de la liberté de !et fai, sans progrès dans la connaissance qu'on a du r6le de la volonté dans l'intel­lectualisme en général» (citato da un manoscritto di Rous­selot). 13 E. Kunz, op. cit., p. 24.

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interiore aspirazione 14• Si capisce che la fede, in re­

lazione a questa concezione più globale e personale della conoscenza, non potesse essere da lui vista co­me del tutto estranea all'ambito della conoscenza. È noto che, nella apologetica tradizionale, la genesi della fede era esposta in modo tale che la conoscen­za naturale della credibilità (della rivelazione in ba­se a segni esterni) fosse considerata come antece­dente alla fede sovrannaturale individuata celI'assen­so di fede. Alla conoscenza del fatto della rivelazio­ne seguiva il movimento volontaristico che induceva l'uomo a dire: credo. In questo modello-qui appe­na abbozzato-la fede si muoveva per così dire fuo­ri dell'ambito della conoscenza. In tal modo cono­scenza e fede non erano conciliate, ma divergevano più che mai. Si aveva da un lato la conoscenza natu­rale di credibilità, dall'altro la fede sovrannaturale; da una parte l'apologetica, che amministrava l'ele­mento razionale come presupposto della fede, dal­l'altra la dogmatica che spiegava, per gli iniziati, le formule di fede e i misteri di fede (Denzinger, En­chiridion10, 1796) sul presupposto di un atto di fe­de compreso in modo (troppo) autoritario (propter auctoritatem Dei revelantis ). Ma una apologetica del genere non «raggiungeva» il suo oggetto (o scopo); altrimenti si sarebbe dovuto presupporre un pas­saggio continuo tra conoscenza naturale di credibilità

14 Questa aspirazione non è identica con la decisione di libertà. Per tutta la problematica cfr. E. Kunz, op. cit., pp. 57 s.

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e fede sovrannaturale. Capita cosl, l'apologetica arri­vava sempre o troppo tardi (quando uno già credeva e non aveva bisogno di motivi di credibilità situati fuori dell'ambito dell'atto stesso di fede) o troppo presto (quando uno non credeva ancora e i motivi di credibilità situati fuori dell'ambito di fede non po­tevano perciò dire niente su questo stesso ambito di fede). In questo modo tale concezione proprio vo­lendo assicurare la razionalità della fede mediante la dottrina della conoscenza previa naturale dei motivi di credibilità, rischiava di privare la fede della sua razionalità (carattere razionale) e della sua luce. È vero che anche Rousselot nei suoi primi scritti ha fatto precedere la conoscenza naturale di credibilità all'atto di fede posto dalla volontà, ma ne Gli occhi della fede, la sua intenzione è proprio quella di far coincidere conoscenza di credibilità e atto di fede. «Conoscenza di credibilità e confessione di verità so­no un atto solo» 15

• Cosl la conoscenza è situata nel­l'atto di fede stesso: la fede ha scoperto i suoi oc­chi. Fede ·è, nello stesso tempo, assenso di fede e conoscenza di credibilità, e lo è in priorità reciproca: Crediamo perché abbiamo conosciuto la credibilità, e conosciamo la credibilità perché crediamo. E in ambe­due le direzioni la fede è portata dalla grazia. Il lega­me 1sintetizzante i due elementi è il lumen fidei che Rousselot •spiega attraverso vari esempi: Se un ricer­catore interpreta una serie di fenomeni come indizi di una legge, sono presupposte tanto la conoscenza dei

ts Gli occhi della fede, p. 50.

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fenomeni per poter cònoscere la legge, quanto la conoscenza della legge (come ipotesi o intuizione) per conoscere i fenomeni come indizi. Un altro ri­cercatore, supponiamo, sta dinanzi agli stessi feno­meni, formula la stessa ipotesi, eppure non giunge alla conoscenza dei fenomeni come indizi della leg­ge. Ciò che distingue i due non è l'oggetto della ri­cerca, ma la diversità della forza di conoscenza, che Rousselot denomina forza sintetica. La luce della fede è questa forza sintetica che non offre un nuovo oggetto alla conoscenza (poiché la determinatio fidei est ex auditu ), ma dà la comprensione della affinità tra legge e indizio, la sintesi, l'assenso. Perciò il giudizio di credibilità, il giudizio che dice: «devo credere» e l'assenso stesso sono uniti nella luce di fede e trovano la loro espressione adeguata e «sinte­tica» nella confessione dell'apostolo Tommaso: mio Signore e mio Dio.

I vantaggi di questo modello di fi,des qua, che Rousselot sviluppa ancora di più, sono numerosi: prima di tutto, forse, una più grande sincerità. Non viene suggerita l'impressione che sia possibile giun­gere per una strada puramente razionale alla soglia della fede. Eppure la fede non è irrazionale. Essa è capace di articolarsi, di dire qualcosa sui suoi mo­tivi di credere, è capace di esprimere ciò che vede e di renderne conto a chiunque glielo chieda ( 1 Pt 3,15). Inoltre è noto come proprio la separazione troppo netta tra apologetica e dogmatica abbia reso entrambe meno efficaci. La dogmatica, in specie, nel-

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la sua glorious isolation, rischiava di sviluppare il suo proprio intellectus fidei all'interno di una proble­matica o di un sistema razionale che aveva perso il contatto con un reale rendiconto della fede: in tal modo proprio essa, che avrebbe dovuto costituire la traduzione del messaggio biblico, ha dovuto negli ultimi decenni essere tradotta, facendo ricorso al messaggio biblico. Proprio il modello di teologia del­la fede di Rousselot rende possibile un avvicinamen­to tra le due discipline, avviando la dogmatica al compito di rendere credibile il contenuto della fede e liberando l'apologetica da un certo tipo di rendi­conto razionale, che da nessuno ,è richiesto. Fatto e contenuto della rivelazione non si possono separare. La credibilità dell'uno è la credibilità dell'altro. La teologia di Rousselot mostra, inoltre, come la fede possieda la luce della conoscenza solo nell'impegno dell'amore, e come tale comprensione corrisponda proprio alla struttura del messaggio che parla del­l'impegno di Dio per l'uomo.

Rousselot ha maggiormente sviluppato quest'ul­timo punto nella seconda parte del suo saggio, quan­do parla della mediazione tra certezza e libertà nella fede. Egli ci presenta all'inizio due posizioni estre­me: «Gli uni dicono: 'Credete prima ciecamente, e poi vedrete.' E gli altri: 'Prima dovete vedere chia­ramente, e poi crederete'» 16

• In questa alternativa vediamo subito che l'apparente contraddizione tra certezza e libertà sta in connessione con quella tra

16 Gli occhi della fede, p. 64.

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sovrannaturalità e razionalità della fede. Cosl si spie­ga anche la soluzione proposta dal Rousselot. La prima soluzione dell'alternativa da lui citata rinun­cia alla razionalità e certezza in favore della libertà e del momento volitivo nell'atto di fede. La secon­da, invece, fa precedere la razionalità e certezza e seguire la decisione della volontà e l'amore. Anche qui il Rousselot parla in favore della priorità reci­proca. Entrambi gli elementi devono essere veri nello stesso tempo: «Solo perché l'uomo vuole, ve­de la verità. Solo perché vede la verità, vuole>P. Entrambi gli asserti sono veri: perché l'amore come espressione della libera volontà contiene in sé la sua luce e può condurre il credente a ragionare. È noto in quale misura l'amore, la passione e il desi­derio cambino il mondo degli oggetti e determinino i giudizi su di essi. Ma questo fatto non ha forse in sé qualche cosa di pericoloso? Non finiamo cosl nell'irrazionalismo che si sottrae al controllo? Non è aperta così, in cose decisive di fede e salvezza, la porta all'arbitrarietà, al sentimento cieco e alla incli­nazione qualunquistica, in modo che l'uomo sarebbe in stato cli incertezza e cli non-libertà prnprio quando si tratta della sua fede? Rousselot mette in bocca al suo avversario potenziale degli argomenti molto efficaci al riguardo 18

• Per la soluzione eia lui propo­sta ·è decisiva la sua metafisica del!' amore che egli congiunge intimamente con la metafisica della cono-

17 Gli occhi della fede, p. 69. 18 Gli occhi delta fede, pp. 75 ss.

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scenza 19• Ogni conoscenza è espressione di un desi­

derio e contiene perciò in sé qualche cosa di «prag­matico». Pensato fino alla fine, ciò significa che bi­sogna <<vedere nella forza conoscitiva stessa l'espres­sione di un desiderio-aspirazione essenziale verso la somma e sussistente verità» 20

• Ragione è amore per l'essere. In questa visuale approfondita, l'amore ve­de perché è ragionevole ed esclude, proprio nel giu­dizio di credibilità che-secondo Rousselot-coinci­de con l'atto di fede, motivazioni eterogenee. Ma '>olo quella aspirazione che non lega l'uomo a scopi contingenti e arbitrari, ma corrisponde a quel «com­prendere» e a quel «vedere» l'essere infinito e il ~ommo bene che è connaturale alla natura spirituale dell'uomo, può essere luce per la fede. Questo im­plica nello stesso tempo che la conoscenza stessa, in quanto apertura a Dio, preceda, nella fede, l'amore con la sua luce.

Con questi pochi cenni certo non è esaurita l'ope­ra del Rousselot: forse essi possono aiutare a seguir­ne le tracce e a comprenderne meglio l'impostazione generale.

All'inizio di questa introduzione ci siamo posti la domanda: il messaggio cristiano del regno di Dio venturo in Gesù Cristo può essere reso comprensi­bile per l'uomo? E come ciò dovrebbe accadere?

19 Cfr. P. Rousselot, «Amour spirituel et synthèse aper­ceptive», in Revue de Philosophie del 1° marzo 1910. 20 Gli occhi della fede, p. 77.

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Rousselot pone, nel contesto della problematica del suo tempo, una domanda che è strettamente con­nessa con la nostra: <<Come una formula di fede, formatasi apparentemente nel giuoco della casualità storica, può essere il messaggio esclusivo di iDio agli uomini e l'espressione necessaria della buona volon­tà?» 21

• Nel paragone tra le due domande possiamo vedere che, insieme al messaggio stesso, dobbiamo esaminare anche il «comprendere il messaggio». Nel contesto teologico del tempo del Rousselot, condi­zione di possibilità per impostare correttamente la soluzione della prima questione era, necessariamente, il dedicarsi all'indagine relativa alla seconda. La sua risposta, che, nella fede, c'è posto anche per la co­noscenza, che la conoscenza è guidata dall'amore e viceversa, fa vedere il Cristo (che è il messaggio di Dio) non come mistero intellettuale che, per essere creduto, richiede una luce razionale estranea, ma co­me impegno d'amore di Dio per il mondo, e la no­stra comprensione come amore e vita. Il messaggio può essere reso comprensibile per gli uomini solo se è vissuto e amato.

Ursicin G.G. Derungs

21 Gli occhi dell11 fede, pp. 32.

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Parte prima

Habet namque fides oculos suos

Sant'Agostino

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1. Fede come atto e formula Soluzioni da scartare

Religione e ortodossia, pietà e dogma, fede e credo, coscienza e tradizione: nelle controversie di questi ultimi anni queste antitesi sono state discusse a sufficienza! Il cattolicesimo che riconosce, con cer­te riserve, una possibile dissociazione tra questi ter­mini, afferma tuttavia la normale e naturale connes­sione della grazia divina e dell'adesione al suo Credo. In ciò consiste, per gli uomini contemporanei, lo scandalo del dogmatismo. Esso si esprime nelle con­clusioni del simbolo Quicumque ed è stato procla­mato dal tempo del vangelo: «Noi siamo da Dio. Colui che conosce Iddio ci ascolta», «Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce» 1

• Il problema cen­trale della fede è dunque questo: come mai una chiesa, che vista dall'esterno sembra una setta tra

1 Gv 4,6; Gv 18,37.

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tante altre, è l'unica depositaria della verità? Come mai un credo, che pare essersi formato per una com­binazione di circostanze storiche, è il messaggio esclu­sivo di Dio agli uomini e il necessario punto d'ar­rivo della buona volontà?

Il problema più ristretto dell'atto di fede, che non è affatto apologetico, ma puramente teologico, si pone in termini simili e il modo in cui viene ri­solto implica una filosofia della religione, cioè una teoria dei rapporti tra la natura e il soprannaturale. Il punto centrale è di nuovo, per usare un'espres­sione del linguaggio scolastico, la connaturalità della grazia celeste con un dato credo. Ma quel che oc­corre spiegare, per spiegare l'atto di fede, è il mo­do in cui si opera nel singolo credente la congiun­zione dei due termini. Se la confessione dei dogmi della chiesa è l'espressione normale e naturale della nuova natura che Dio ha posto in noi, della vita della grazia, come trova espressione questa nuova natura? In che rapporto sta con le idee religiose che mutuiamo dal contesto sociale, come si salda con queste idee? Ecco la domanda 2 • San Tommaso defi­niva dunque molto giustamente i termini del pro­blema quando scriveva: «Fides principaliter est ex infusione, et quantum ad hoc per baptismum datur; sed quantum ad determinatfonem suam est ex au-

2 Non si fa che rigirare il problema, quando ci si chiede che cosa distingue l'atto di fede del cattolico da quello del­l'eretico o del maomettano, nei quali il processo psicolcr gico sembra del tutto 'simile.

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ditu, et sic homo ad fidem per catechismum instrui­tur» 3

• Giustificazione e confessione: nei termini tec­nici di habitus in/usus e di credibilium determinatio ritroviamo i due elementi che sembrano eterogenei e dei quali la chiesa continua ad affermare la natu­rale solidarietà. Come accade ciò? La grazia si trova infatti laddove c'è la buona volontà, ma le diverse formulazioni della fede nascono e si organizzano, o secondo le opinioni della ragione naturale, o secon­do le circostanze della vita fenomenica.

La chiesa ha ristretto ulteriormente il campo delle nostre ricerche condannando, nel concilio Vati­cano, le due spiegazioni estreme della congiunzione della fede oggettiva con la fede infusa, della fede credenda con la fede eredita. Queste due spiegazioni sono il razionalismo di Hermes e il sentimentalismo protestante. Hermes attribuiva alla ragione l'intera determinazione dei contenuti della fede, tutto c10 che è conoscenza nella fede 4

• La grazia era per lui

In 4 Sent., d. 4 q. 2 a. 2 sol 3 ad r. Gregorio XVI aveva già condannato questo principio di

Hermes: «rationem principem normam ac unicum medium esse, quo homo assequi possit supernaturalium veritatum co­gnitionem.» (.Breve Dum acerbis:;imas, del 26 settembre 1835. Denzinger, Enchiridion10, 1619). Si tratta, nella fatti­specie, della ragion pratica. Hermes non ha mai detto che un assenso naturale possa essere un atto sal vifìco; ha affer­mato proprio il contrario, ed è il senso della sua distinzione tra fede di conoscenza e fede del cuore. Ma questa fede del cuore era un abbandono, un consegnare se stessi a Dio: la fede, in quanto conoscenza, era naturale, e la fede senza la carità, la «fede morta» non era una grazia. La sopranna-

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giustificante, ma non si riusciva a capire come po­tesse mantenere, nella sua dottrina, la funzione illu­minante. Il sentimentalismo preso di mira dal con­cilio, al contrario, faceva dipendere il riconoscimen­to delle dottrine da una testimonianza interiore del­la grazia sperimentalmente percepita 5• La condanna

turalità della fede non poteva dunque esserle intrinseca: es· sa proveniva totalmente dalla carità. La chiesa ha voluto evidenziare, condannandolo, che la fede, anche come cono­scenza, è una grazia. È quanto risulta dalle note 14 e 17 allo schema dei teologi (col. 527 e 529 degli Acta Concilii Vaticani, al volume vn della Collectio Lacensis ). Non bi· sogna neppure credere che Hermes abbia concesso troppo alla ragione in questo senso, come se egli avesse creduto di poter dimostrare intrinsecamente i dogmi; poiché per quan­to, anche in questo punto, egli abbia un po' esagerato, ha tuttavia insegnato che bisognava cercare la causa dell'assenso ai misteri della fede nella dimostrazione del fatto della rive­lazione. Si possono consultare i passaggi ai quali rinvia Den­zinger, Vier Biicher van der religiosen Erkenntniss, t. I, p. 246. Cfr. le concessioni di Petrone, accanito avversario del­l'hermesianismo, nelle Démonstrations évangéliques di Mi­gne, t. xrv, col. 960. s La dottrina dell'«esperienza interiore» e del!' «ispirazione privata» è stata condannata come eretica: 1) in quanto essa si presenta come lo schema universale e necessario della ge­nesi della fede; 2) in quanto esclude i segni esteriori. Il primo di questi due punti è stato chiaramente evidenziato dalla storia del concilio: i Padri, correggendo la redazione originaria dei teologi e aggiungendo la parola debere, hanno voluto mostrare che essi prendevano pienamente in conside­razione la possibilità del caso in cui lo Spirito Santo fareb­be credere per mezzo di motivi puramente interiori (Acta 187 a, cfr. 164 a, 77 a. Cfr. Granderath, Constitutiones dog-

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di Hermes vieta dunque di attribuire la determina· tio esclusivamente alla ragione naturale, rifiutandole ogni rapporto con l'habitus; la condanna del senti­mentalismo impedisce di dire che l'habitus porta sempre con sé, nell'individuo che ha la grazia, una

matiette SS. oec. Cane. Vaticani explicatae, p. 98, n. 3; Vacant, Etudes théologiques sur !es constitutions du con­cile du Vatican, t. II, pp. 37-38). Il secondo punto emerge con sufficiente chiarezza dalla stessa forma del canone. Si quis dixerit, revelationem divinam externis signis credibilem fieri non passe ideoque sola interna cuiusque experientia aut inspiratione privata homines ad /idem moveri debere, ana­thema sit (Canone 3, De Fide}. Occorre evitare, sia di esten­dere indebitamente, sia di restringere all'eccesso la portata di questa condanna. La si restringerebbe eccessivamente, ·an­zi la si annullerebbe, se si ammettesse come solo schema legittimo della genesi della fede, quello in cui l'uomo com· pirebbe nel suo cuore, e senza visione alcuna dei segni este­riori, l'atto di fede nella divina rivelazione, salvo dover poi riconoscere, per conformità con questa rivelazione interiore, la vera chiesa fra tutte le società storiche che si rifanno a Cristo. In questo caso, il concilio avrebbe condannato sol­tanto il solipsismo religioso, l'individualismo assoluto. Ora, il concilio ha certamente preteso di fare qualcosa di più, di escludere cioè certe concezioni dell'esperienza religiosa interiore che pure facevano giungere, in fine, al riconosci­mento di una chiesa esteriore (cfr. i testi dei protestanti ci­tati nelle note allo schema dei teologi, Acta, col. 528, note 1 e 2; cfr. anche Denzinger, Vier Biicher von der religiosen Erkenntniss, t. II, pp. 301 ss.; i teologi del concilio sem­brano aver preso da queste pagine quello che dicono dei teologi protestanti; tutte le citazioni che essi fanno vi si trovano e del resto vi rimandano esplicitamente, Acta, col. 528, nota 2). Crediamo che non si sfuggirebbe alla con­danna del concilio mantenendo la necessità di un fatto este-

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certa coscienza sperimentale della determinatio. Re­stano escluse due soluzioni: quella che rifiuta alla grazia ogni attività conoscitiva e quella che afferma la necessità di una rivelazione interiore oggettiva percepibile in ogni uomo.

riore, ma ponendo, come legge necessaria e universale, la esigenza che esso possa essere riconosciuto solo dal fatto interiore conosciuto a parte e precedentemente. Si esten­derebbe però indebitamente la portata della sentenza conci­liare, facendole condannare la teoria che spiega la genesi della fede a partire dall'incontro tra 11 fatto interiore e il fatto esteriore, l'uno e l'altro essendo ugualmente necessari. Dal momento in cui il fatto interiore non è più inteso come la misura e la regola percepita precedentemente e sulla qua­le si giudica il fatto esteriore, si sfugge alla condanna del­l'eresia. Questo incontro dei due fatti può allora essere concepito in modi diversi. Se si intende dire che alla cono­scenza del fatto esteriore si unisce necessariamente quella del fatto interiore tanquam obiecti cogniti, non si merita, a mio avviso, la censura teologica; ma la spiegazione non mi pare conforme né all'esperienza né alla concezione cattolica in generale. Occorre dire, ed è la concezione che verrà di­fesa in questo lavoro, che una certa disposizione volontaria prodotta dalla grazia è indispensabile a ogni atto di fede legittimo e a ogni percezione certa della credibilità, non già come un fatto interiore visto, ma come degli occhi per ve­dere il fatto esteriore. Il «fatto interiore» è dunque «illu­minante piuttosto che illuminato, intelligente piuttosto che intellegibile», per usare alcune eccellenti espressioni di Mal­let (Qu'est-ce que la fai?, Paris 1907, p. 30. Altri modi di dire dello stesso autore, p. 29, p. 32, ci sembrano richiedere una coscienza espressa del fatto interiore, una percezione dell'inquietudine religiosa ut motivi cogniti, ma non so se le ho ben capite). L'amore soprannaturale suscitato dalla grazia (e che non è necessariamente l'amore santificante, l'a·

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2. L'ipotesi di una fede naturale «scientifica»

Una volta posto il problema in questo modo, molti teologi moderni, per spiegare il rapporto tra la fede infusa (facoltà soprannaturale di conoscenza) e la fede dogmatica (insieme degli oggetti conosciu­ti), hanno fatto ricorso ad un termine medio, a una specie di «schematismo». Essi ammettono la possi­bilità, anzi, perfino la necessità della presenza, nel credente, della «fede scientifica» o, per usare un termine più generale e meglio rispondente al loro pensiero, di una fede acquisita naturalmente e legit· timamente certa 6• Essi pensano che la ragione possa

more di carità. Cfr. san Tommaso, De Veritate, q. 14, a. 2 ad 10) non è rappresentato coscientemente, gli occhi della fede non si vedono. Se ne ha coscienza in quanto si vede l'oggetto per mezzo di essi, in quanto li si apre, in quanto li si usa. Riassumerei dunque cosi la differenza tra la con­cezione protestante presa di mira dal concilio e la conce­zione cattolica, cosi come io l'intendo: la prima richiede una grazia percepibile e la seconda una grazia percipiente. Tutto dipende dalla differenza tra sensa perceptibilia e sen­sus perctptens. «Dedit nobis sens111n», dice san Giovanni (oÉowxev 'Ì}µ~v OLa\IOL!X\I ~va 'YL\IWCì'XW[J.E\I 't'Ò\I a'ì,l)0LV6V,

1 Gv 5,20). I teologi delle scuole più diverse convergono in questa

opinione. «Si è generalmente del parere, scrive Vacant, che non è impossibile all'uomo aderire alle verità rivelate dal· l'autorità di Dio, per mezzo di adesioni naturali, che non coincidono con la fede soprannaturale, ma che le assomi­gliano da molti punti di vista» (op. cit., t. II, p. 74). «Che ci possa essere, dice Bainvel, una fede puramente na· turale nella parola di Dio, è ammesso da tutti i teologi e

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riconoscere da sola, senza la grazia, la determinatio delle verità da credere, per mezzo della dimostrazio­ne della credibilità che mostra con certezza che oc­corre aderire alla chiesa di Gesù Cristo come all'in-

riconosciuto dal buon senso ... essa avrà una sicurezza, un ab­bandono, una certezza assoluta.» (La Poi et l'Acte de foi, Paris 21908, p. 159, cfr. p. 172). Nello stesso modo si espri­me Gardeil: «Tutti i teologi ammettono che la fede natu­rale, la <<fede scientifica» nella verità rivelata, è l'esito nor­male, in sé possibile, della ricerca della credibilità» {La Credibilité et l'Apologétique, Paris 1908, p. 23). Parimenti si esprimono il P. Hilaire de Barenton, sostenitore della scuola francescana (in Etudes franciscaines, settembre 1908, p. 239) e Billot le cui affermazioni sono particolarmente chiare (De Virtutibus infusis 12, pp. 76-77). Anch'essi par­lano, ed è logico, della possibilità di una dimostrazione pu­ramente razionale della credibilità, intendendo con ciò, sia la possibilità di dimostrare il fatto stesso della rivelazione divina, sia la possibilità di dimostrare la legittimità dell'atto di fede (posto in virtù di un principio riflesso e per quan­to il fatto dell'attestazione divina non sia rigorosamente provato. Cfr. i numerosi autori citati da Hugueny in Révue thomiste, maggio-giugno, 1909, pp. 275-298). Dimostrazione della credibilità (in senso stretto o lato) e possibilità della fede naturale certa, procedono di pari passo. In effetti, tutti riconoscono che gli enunciati rivelati presentano alla ra­gione naturale un senso intelleggibile: non si può dunque attribuire a questa ragione il potere di aderire al fatto della rivelazione e rifiutarle il potere di dare al suo contenuto un'adesione proporzionata.

È molto interessante, per conoscere l nessi filosofici di questo concetto di fede naturale, tracciarne le origini sto­riche. Lo faremo in una ricerca separata. Notiamo qui che la concezione in questione, nella sua forma più rigorosa, è penetrata nell'insegnamento corrente: tra i fedeli che hanno

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viato da Dio sulla terra. La ragione presenterà cosl alla fede soprannaturale il .suo oggetto preparato.

Questa dottrina dei teologi moderni non è af­fatto l'hermesianismo. Essi sanno che la fede morta è una grazia. Se essi pensano, con Hermes, che la ragione possa giungere, per mezzo della dimostrazio­ne di credibilità, a ritrovare la materialità dell'ogget­to di fede, se talvolta giungono perfino ad ammet­tere la possibilità di una fede naturale non solo cer­ta, ma del tutto simile psicologicamente alla fede so­prannaturale 7

, essi non riducono a questo la cono­scenza della fede. Essi doppiano soltanto, per così dire, la fede soprannaturale con una fede naturale che le è inferiore in dignità, in fermezza, in certezza, ma che le è, o le può essere, co-estensiva quanto all'oggetto.

Del resto questi teologi non pretendono di co­stringere lo Spirito Santo ad adeguarsi al loro sche­ma. Dopo aver ·spiegato, quasi sempre con un'estrema finezza dialettica, spesso con rare qualità analitiche, quale è secondo loro, il meccanismo dell'atto di fe. de, essi aggiungono sempre che il loro sistema non

un po' di cultura, tra i ragazzi intelligenti, nei collegi cat­tolici, ecc., molti si rappresentano l'atto di fede come se rac· chiudesse in sé un atto di scienza naturale. «lo sono catto­lico perché la divinità della chiesa è scientificamente pro­vata dalle profezie, dai miracoli, dai documenti dell'Antico e del Nuovo Testamento.» («Lettera di un padre di fami· glia», citata in La Croix il 2 dicembre 1909, prima pagina, ultima colonna. Il corsivo non è mio.

Cfr. Billot, op. cit., pp. 76-77.

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esaurisce la ricchezza dell'iniziativa divina: se, per alcuni, non è possibile giungere alla certezza natu­rale, la grazia saprà ben trovare il modo per suppli­re a questa debolezza 8

• Alcuni affermano questo .so­lo per inciso e dopo aver fatto tutti gli sforzi per estendere a tutti i casi immaginabili la loro spiega­zione della certezza naturale 9• Altri sostengono espres­samente una teoria di quelle che chiamano le sup­plenze gratuite della credibilità 10

• Ma quasi tutti continuano a ridurre il normale atto di fede a uno di questi due tipi: o l'atto di fede soprannaturale

8 Franzelin disse, nel discorso pronunciato 1'11 giugno 1870, davanti a ventiquattro delegati del concilio, a propo­sito dello schema dei teologi: «Tenendum etiam et gratiam Dei internam supplere id, quod pro huiusmodi hominibus (gli illetterati) deficit in propositione fìdei externa.» (Acta, 1623a). Le parole che ho messo in corsivo mostrano che, nel suo pensiero, il soccorso è accidentale; lo si vede ancor più chia­ramente dal modo in cui egli si esprime altrove (De Tradi­tione et Scriptura, II ed., p. 684). 9 D'altra parte, tutti sono d'accordo nell'affermare che, in pratica, è difficile, o moralmente impossibile, credere al cristianesimo con una fede puramente naturale. (Franzelin, op. cit., p. 688, Billot, op. cit., pp. 77-78). Ma allora, per­ché discutere su di una possibilità astratta quando ci si ca­pisce sulla realtà dei fatti? Perché tenere tanto al fatto che si dica impotenza fisica e non soltanto impotenza mo­rale? La discussione ha forse poca importanza per l'apo­stolo individuale, ma ne ha una considerevole per la teoria della conoscenza religiosa che, a seconda che ci si decida in un senso o in un altro, cambia totalmente aspetto. 10 Cfr. Gardeil nel suo libro chiaro e vigoroso La Credi-bilité et l'Apologétique, pp. 97 ss.

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contiene virtualmente ed eleva un atto di fede na­turale 11 o, perlomeno, esso è stato preceduto da una constatazione naturale del fatto della rivelazione.

È chiaro come una dottrina simile renda diffi­cile da spiegare la fede dei bambini e degli ignoranti (in quanto, per ciò che riguarda i dotti, a molti la cosa sembra semplice! 12

). I documenti della chiesa esigono che la fede non sia cieca, ma ragionevole e tutti i teologi aderiscono al principio che san Tom­maso ha formulato in questi termini: «Non credere­mus, nisi videremus esse credendum». Ma come tro­vare nel piccolo contadino che studia il catechismo, la fede scientifica, la dimostrazione razionale, o per­lomeno la perfetta certezza della credibilità, fondata su ragioni assolutamente valide? Come trovarla nel negro che crede sulla parola del missionario? Non basta affatto una spiegazione psicologica che chiari­sca il meccanismo dell'atto di fede o della disponibi­lità a credere. Tale spiegazione si applicherebbe tanto alla fede del musulmano quanto a quella del cristia­no. Se il bambino cattolico ha ragione di credere a sua madre e al suo parroco, il bambino protestante ha forse torto nel credere al suo pastore e a sua

li Desumo questa formula, che caratterizza in modo ec­cellente la teoria della fede scientifica, dal de Séguier, in Annales de philosophie chrétienne, dicembre 1897, 37, p. 276. 12 «Nulla difficultas quoad doctos.» (Mazzella, De Virtu­tibus infusis, III ed., p. 794; cfr. p. 394 ). Schiffini, De Virtutibus infusis, p. 262.

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madre? Questo caso semplicissimo racchiude il nu­cleo essenziale del problema.

Quando dunque si risponde per mezzo delle «cer­tezze rispettive» fondate all'uopo su dei «principi pratici riflessi» 13 non si elimina la difficoltà. I bud­disti, gli scintoisti hanno delle «certezze rispettive» e Socrate si fondava proprio .su un «principio rifles­so» per concludere che ogni uomo deve il culto agli dèi della sua città. Un assenso speculativo assoluto, anche di ordine naturale, esige come fondamento una perfetta certezza oggettiva. Indebolirei, traducendo­la, questa espressione di san Tommaso: «Proprium motivum intellectus est verum id quod habet infal­libilem veritatem. Unde quandocumque intellectus movetur ab aliquo fallibili signo, est aliqua inordi­natio in ipso, sive perfecte sive imper/ecte movea­tur» 14

• È conveniente che sia un disordine a fon­dare o a introdurre alla fede?

13 «Equidem cum Lugo et aliis censeo, scrive Viva, non esse recurrendum ad illustrationem supernaturalem spiritus

sancti, ad hoc ut habeatur in pueris et rudibus sufficiens evidentia credibilitatis contradistincta a mera probabilitate ... ita quilibet intra se ... : Ego indoctus in rebus a me igno­ratis, ac praesertim Religionis, stare debeo iudicio sapien­tum, et piorum; sed Parochus est sapiens, ac pius: ergo eius iudicio mihi standum est, et illa teneor credere quae mihi credenda proponit ... » (Viva, Damnatae theses, prop. XXI

di Innocenzo XI, n. 10). i<: la spiegazione comune, ripresa da un infinito numero di autori. Che fondamento debole per la fede soprannaturale! Dove è la differenza con l'infedele? E se il bambino preferisce il maestro al curato? 14 De V eritate, q. 18 a. 6.

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3. Razionalità e soprannaturalità della fede

Pare dunque necessario fare ricorso alla luce del­la grazia; e che cosa c'è di più naturale quando si parla della fede? Alcuni pretendono espressamente di spiegare senza di essa la credibilità; altri, Suarez per esempio, non credono di potervi rinunciare, al­meno quando si tratta della fede dei semplici e dei bambini.

Può stupire il fatto che questa strada non sia stata seguita da tutti i teologi e che si siano molti­plicate le ricerche e le ipotesi sottili per spiegare in modo puramente naturale la percezione delle ra­gioni di credibilità. 1Sembra che la ragione di ciò stia nel fatto che coloro che ricorrevano alla grazia non mostravano in modo sufficientemente chiaro co­me essa potesse creare una perfetta certezza senza sconvolgere il contesto psicologico del credente, sen­za portare con sé nuove nozioni, nuovi oggetti.

A quanto pare un pregiudizio filosofico ha sbar­rato loro questa strada. Non ha fatto loro difetto né il senso della difficoltà, né l'attenzione ai fatti. Tal­volta si ammira nei loro studi, con l'agilità dell'ar­gomentazione, quel senso della psicologia concreta tanto apprezzato da Balzac negli esponenti del clero cattolico. Ma non si può fare a meno di fare un'al­tra constatazione. La maggior parte di questi teolo­gi si limita ad analizzare lo stato di coscienza dei fedeli, tenendo conto solo degli elementi della rap­presentazione e trascurando l'attività sintetica del­l'intelligenza naturale o soprannaturalizzata. In lin-

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guaggio scolastico si direbbe che essi considerano esclusivamente id quod repraesentatur e che non par­lano mai del lumen, dell'id quod inclina! ad assen­sum. Senza dubbio, altri considerano le cose da que­sto punto di vista, ma quando, seguendo san Tom­maso, parlano dell'assenso dato in forza di un'incli­nazione, essi considerano questa inclinazione come se fosse destinata a supplire 15 i motivi esteriori piut­tosto che a rischiararli; per essi si tratta di inclina­zioni coscientemente sperimentate, di esperienze per­sonali chiaramente rappresentate 16

• Cosl come i pri­mi esaurivano tutte le risorse di un'ingegnosa inven­zione nello scoprire, nella coscienza rappresentativa del bambino cattolico, degli elementi oggettivi che mancavano al piccolo protestante, questi ultimi ri­ducono le prove della fede a un miscuglio di proba­bilità e di preferenze soggettive e concedono ai sem­plici di credere soltanto grazie a una beata legge­rezza. Non si aveva mai l'impressione di vedere con sufficiente chiarezza come l'illuminazione sopranna­turale si accordi con una reale efficacia dei segni esterni, di modo che questi due elementi integrino una stessa certezza. Il fatto è che, sia per gli uni

!5 Alcuni tuttavia, come Suarez, De Fide, disp. 4, sect. 5, nn. 9-10, concepiscono l'influsso della grazia come intrinseco, come complementare ai motivi di credibilità. 16 Giovanni di san Tommaso, Cursus Theologicus in uam

n"', De Fide, Disp. 3, a. 1, s. 2, n. 3: «Ex parte obiecti addit aliquam repraesentationem, non-quidem penetrando ve­ritatem sed convenientiam obiecti ut moveat ad assensum». Il corsivo è mio.

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che per gli altri, il modelJo della vera certezza intel­lettuale continua a essere il possesso, da parte dello spirito, di concetti rappresentativi che si possono scambiare tra di loro per mezzo di sostituzioni equi­valenti 17

Ma, anche considerando solo la conoscenza natu­rale, si sa che una simile concezione rende conto in modo insufficiente dei fatti. Il movimento reale del­l'intelligenza non ·è spiegato se non si vede in essa, prima di tutto, una facoltà attiva di sintesi.

Atteniamoci ai fatti più quotidiani e semplici: immaginiamo che due uomini stiano cercando insie­me l'esatta legge di una serie di fenomeni misteriosi e che siano guidati, nella loro ricerca, da una mede­sima ipotesi; oppure immaginiamo due poliziotti che analizzano insieme il luogo di un delitto e i cui so­spetti convergono su di un determinato individuo. Dal fatto che uno stesso fenomeno si manifesti ai

17 Sulla controversia menzionata è sorta una discussione tra due teologi molto autorevoli, Bainvel e Gardeil. (Revue pratique d'apologétique, maggio, giugno, agosto, novembre 1908). Non tento qui di riassumere le loro suggestive e sfumate spiegazioni; mi sia tuttavia concesso di dire qual­cosa circa l'impressione che si riceve da queste controversie: essa mi pare confermare nettamente quello che dico nel te­sto. Bainvel stabilisce perfettamente la proposizione ch'egli enuncia come segue: «I semplici hanno delle ragioni per credere realmente sufficienti, per quanto non siano in grado di sistematizzarle. Quando si tratta della credibilità non è tanto... di 'supplenze soggettive' che bisognerebbe parlare, quanto piuttosto di aiuto per la percezione diretta e spon­tanea dei motivi realmente validi» (1° maggio, p. 188). Ri-

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due scienziati o che uno stesso dettaglio sia notato nello stesso istante dai due investigatori, non conse­gue affatto un'uguale reazione: per uno potrà essere, di colpo, la certezza; per l'altro, l'oscurità come pri­ma. Tuttavia, nella sua materialità o, che è lo stesso, nella sua individualità, il fatto nuovo è rappresen­tato in modo simile alle due intelligenze; ma la pri­ma non lo ha percepito come fenomeno bruto e iso­lato; essa lo ha visto come indizio della legge o del­la conclusione ricercata, ha percepito il fatto nel suo rapporto con la legge, ha fatto la sintesi del fatto e della legge, affermata di colpo come vera. L'altro, al contrario, «non vede»: pur rappresentandosi sia la ipotesi proposta che il fatto nuovo con la stessa esat­tezza materiale del suo collega, perfino pensando, forse, la loro relazione, se quest'ultimo gliela spiega,

sulta allora, dall'argomentazione del suo avversario, che que­sta percezione non è certa senza la grazia (e Bainvel non contraddice a questo, per lo meno per la questione di fatto). Occorre dunque vedere come la grazia possa far percepire, con una certezza oggettiva e vera, delle ragioni che sareb­bero solo probabili per l'intelligenza naturale lasciata alle sue proprie forze; occorre determinare alla grazia una fun­zione tra le due che spesso ci si limita ad attribuirle: la istruzione oggettiva o rivelazione (contraria all'esperienza), l'impulso soggettivo o affettivo (incapace di garantire una certezza). In questa prima parte si cerca di precisare questa funzione intermedia; nella seconda si affronterà la teoria to­mista della conoscenza per attrazione, alla quale Gardeil ri­manda tanto giustamente: si tenterà di determinare in quali condizioni queste attrazioni possono assumere la funzione qui definita, che è, non tanto di supplire, ma di operare la conoscenza, di far vedere, e non di dispensare dal vedere.

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gli sfugge fa connessione, non riesce a fare la sintesi. Cosl, la differenza tra colui che vede e l'altro non deve essere ricercata in qualche differenza degli ele­menti della rappresentazione, ma nella maggiore o minor potenza dell'attività intellettuale. «Ma-si o­bietterà-la differenza non è nella scienza acquisita o nell'esperienza accumulata?». Non necessariamen­te, poiché essa può essere nel solo talento naturale; ma, quand'anche fosse laddove si è detto, il nostro principio non verrebbe meno, in quanto colui che vede, nel nostro esempio, non pensa in questo istan­te all'insieme della sua scienza o della sua esperien­za: la sua scienza è in lui percettiva e non perce­pita 18

, per cui si ritorna sempre a una differenza nella facoltà intellettuale.

La stessa cosa accade per la fede, per il lumen fidei, quando si percepisce la credibilità. Questa lu­ce non dà affatto, a meno di miracoli, dei nuovi og­getti da conoscere: determinatio fidei est ex auditu. Le si deve invece la percezione della connessione, la sintesi, l'assenso. Queste tre cose che, come dire­mo, formano una cosa sola, non hanno nelle rappre­sentazioni la loro ragione sufficiente. Ammettiamo, dunque, che due persone si trovino in situazioni psi­cologiche press'a poco identiche: la presenza o l'as­senza di una nuova facoltà percettiva è sufficiente per spiegare la luminosa certezza in uno e la persi-

18 Se la scienza è U!;~c:;, non deve essere qui considerata come un avere, ma come ciò che la scolastica intende con il termine habitus.

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stente oscurità nell'altro. Inversamente, considerate due bambini ciascuno dei quali conosce soltanto la «religione dei suoi padri»: il loro assenso, anche se forse non presenta nessuna differenza all'analisi, non ha tuttavia lo .stesso valore: in uno si tratterà di legittima certezza, nell'altro di opinione falsa. Si no­ti, per quanto riguarda il primo caso, che l'incredulo può rappresentarsi esattamente ciascuna delle propo­sizioni attraverso le quali colui che vede si sforza di esporgli minuziosamente la connessione, di render­gliela intelleggibile, perfino di ridurla, nella misura in cui è possibile, in termini diversi ma equivalenti: questa esatta rappresentazione non è ancora l'assen­so. Un personaggio di Loss and Gain dice a Charles Reding: «Riesco a immaginare le vostre argomenta­zioni, ma, sinceramente, non riesco a vedere come arriviate alla vostra conclusione». E il convertito ri­spose «Per me, Carlton, è come due più due fa quattro» 19

• La differenza di assenso di fronte a rap­presentazioni simili non deve costituire per il teolo­go una seria difficoltà, poiché la teologia concepisce la fede come un'attività conoscitiva .soprannaturale.

4. Priorità reciproca come soluzione

Ma, dall'esempio molto semplice del quale ci siamo serviti, si può ricavare qualcosa di più. Oc-

19 Newman, Loss and Gain, parte terza, cap. 5, London 1916, p. 364.

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corre notare anche la priorità reciproca tra !'afferma­zione della legge e la percezione del fatto che serve da indizio. I teorici contemporanei della logica in­duttiva hanno messo bene in luce questa proprietà. Non si percepisce prima la prova come tale e, in seguito, la cosa provata, ma si vede, contempora­neamente, la legge generale nell'atto di sussumere il caso particolare, che ne è, sotto diversi aspetti, la causa e l'effetto, la prova e l'applicazione, la con­seguenza e l'indizio. Si vede la legge attraverso l'in­dizio, ma è solo nella legge che si vede l'indizio. Il fatto può essere conosciuto come indizio solo se si afferma la legge.

Se la nozione di questa reciprocità causale sem­bra strana a qualcuno, lo prego di considerare il ca­so in cui non si tratta tanto di scoprire una spiega­zione o di verificare un'ipotesi, ma, come si suol dire, di entrare in un'anima, di cogliere l'armonia interiore di una psicologia. Io posso aver letto dieci volte Amleto e non aver capito Amleto. Riprendo il libro ed ecco che una parola, che fino ad allora avevo letto senza penetrarla veramente, suscita in me, di colpo, l'intuizione del carattere di Amleto come di un tutto intelleggibile, di una realtà che ha una sua consistenza. «1Eccomi ! Ci sono!» si escla­ma. La percezione di questa parola come indìzio, come significa!Pva, ·è, dal punto di vista temporale, simultanea alla percezione globale del carattere; es­sa le è razionalmente anteriore, in quanto ne è vera­mente la causa: è l'indizio che mi introduce in Am­leto, che mi fa comprendere Amleto; da un altro

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punto di vista, le è razionalmente posteriore, poiché la percezione di una parola come tratto di un carat­tere ha senso solamente se il carattere è già cono­sciuto.

Forse si obietterà che qui non si tratta di affer­mare o di negare, ma soltanto di comprendere; ma si farebbe, a torto, dell'assenso un atto più o me­no volontario, distinto dalla sintesi dei termini. Ri­prendiamo il caso dell'affermazione di una legge na­turale: percepire la connessione e dare il proprio as­senso sono la stessa cosa 20

• Effettivamente, percepi­re la connessione, significa percepire l'indizio come indizio. Ma l'indizio non può essere percepito come indizio se non si percepisce contemporaneamente, per una necessaria correlazione e con la stessa mo­dalità di conoscenza 21

, la cosa «indicata». Quest'ultimo punto è di grande importanza nella

teoria della fede. Esso ci fa infatti comprendere co­me nelle conoscenze soprannaturali di cui parliamo, non occorra affatto immaginare un «giudizio di cre­dibilità» distinto dall'assenso di fede. La percezione della credibilità e la confessione della verità sono lo stesso atto 22•

20 In linguaggio scolastico: l'esse quod significat compo­sitionem et divisionem intellectus non è, come l'essere pre­dicamentale, una nota rappresentata, una nota d'essenza. 21 Ciò significa che se l'inizio è percepito come proba­bile, l'ipotesi che esso prova è affermata soltanto come pro­babile, ecc. 22 La credibilità percepita alla luce della grazia non è dunque affatto obiectum quod, cioè termine di conoscenza,

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Se la percezione della credibilità forma una co· sa sola con l'atto di fede, cosl come la percezione del rapporto tra indizio e ipotesi forma una cosa sola con l'assenso a tale ipotesi, allora non c'è più alcuna difficoltà ad affermare, con san Tommaso, che è la luce della fede a far vedere che bisogna cre­dere 23

• C'è circolo vizioso se si pretende di dimo­strare una certa proposizione per mezzo di un'altra, ancora non provata e appoggiantesi sulla prima. Ma non c'è neppure l'ombra di esso se .si dice che una proposizione richiede, per essere affermata, il pos­sesso della facoltà spirituale che manifesta il rap­porto dei suoi termini, il possesso della facoltà sin­tetica che li unisce o, per parlare come gli antichi, della luce che li illumina. Accade così anche per il Credendum est, se se ne fa una condizione dell'af­fermazione di una verità soprannaturale o, che è lo stesso, se se ne fa una proposizione esplicitamente enunciata, ma creduta e non semplicemente affer­mata dalla ragione naturale.

Si concede con relativa facilità, una volta suppo­sta la fede, che la sua luce possa far vedere la credi­bilità; ma non c'è motivo per spiegare in modo diffe­rente il primo atto di fede e per rifiutare di dire che la luce soprannaturale rischiara l'atto stesso per mez-

oggetto pensato, essa è quo, o sub quo, cioè condizione dell'oggetto. Gli autori antichi concepivano cosl la sua fun· zione, ma solo in alcuni casi. (Cfr. per esempio, Giovanni di san Tommaso, Cursus Theologicus in u•m u•0 , De Fide, Disp. 2, a. 3, n. 12 ss.). 23 u• u•e, q. 1, a. 5, ad 1; cfr. ibid., a. 4, ad 3.

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zo del quale la si acqms1sce. L'indizio è realmente causa dell'assenso che si dà alla conclusione ed è tuttavia la conclusione percepita che rischiara l'in­dizio, che gli dà un senso. Cosl accade quando si crede: l'indizio percepito, in quanto rende ragio­nevole l'assenso, lo precede; in quanto è sopranna­turale, lo segue. Ci sono due ordini, quello dell.l razionalità e quello della soprannaturalità: per ognu­no di questi si può stabilire uno schema astratto. Si può dire: «lo vedo la virtù di un cristiano; ne con­cludo la santità divina della chiesa; confesso la fe­de». E si può anche dire: «lo ricevo dall'alto una nuova facoltà di vedere 24

; confesso la santità della chiesa; ne riconosco gli effetti, le tracce in quest'uo­mo». Queste due serie di riflessioni rappresentano soltanto degli aspetti del reale, veri e incompleti. Le loro verità sono unite, conciliate, nell'unità vi­vente dell'affermazione e non c'è affatto circolo vi­zioso. Ci sarebbe circolo vizioso, o salto nel buio, o affermazione arbitraria e indebita, solo se la verità affermata fosse assolutamente anteriore alla condi­zione della sua affermazione e non la suscitasse af­fatto con una causalità reciproca. Accade la stessa co­sa nel caso di Amleto o nel caso della legge naturale:

24 Questa facoltà si acquisisce solo attraverso un atto di volontà, l'oboeditio fidei, il pius affectus credendi, come mo­streremo nella seconda parte del nostro studio. La congiun­zione qui indicata dei due oggetti è dunque lungi dall'esau­rire la complessa realtà dell'atto di fede, che riunisce nella sua unità vivente ciò che troppo spesso si disperde in un gran numero di «giudizi» e di <<Comandamenti».

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l'habitus istantaneamente acquisito, ciò che si può chiamare la scienza percettiva, precede e segue la scienza percepita.

5. L'essere e la grazia (Oggetto formale naturale e soprannaturale)

«Mio Signore e mio Dio!»; «Veramente quest'uo­mo era il figlio di Dio!». In questo grido del centu­rione convertito e dell'apostolo ritornato fedele, la tradizione ha sempre visto sia l'introduzione che la manifestazione della fede. Qui non c'è spazio per un «giudizio di credibilità» a sé stante. Ma queste pa­role riferite dal vangelo illustrano anche, molto feli­cemente, un altro carattere di questa induzione ra­pida e soprannaturale che a noi sembra spiegare la fede più felicemente di ciò che ordinariamente si intenda per «dimostrazione di credibilità». Ecco in che cosa consiste quest'ultimo carattere.

I segni esteriori che fanno vedere sono cli una varietà sorprendente: la santità di un buon prete, la guarigione di un malato, l'impressione lasciata da una festa religiosa, ecc. Ma un segno di questo ge­nere è conosciuto sempre sia come un fatto certo, collocato all'interno dell'esperienza umana, sia co­me indizio di una nuova verità all'ordine della quale esso appartiene. Lo si conosce dunque sotto un nuo­vo aspetto, come facente parte di un altro mondo, il mondo soprannaturale. Molti teologi dicono in-

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fatti che l'oggetto formale 25 della conoscenza è nuo­vo. L'oggetto formale dell'intelligenza naturale è l'essere naturale, proporzionato al fine naturale; l'og­getto formale della conoscenza di fede è l'essere so­prannaturale, appartenente all'ordine della grazia, mezzo per condurre alla visione intuitiva.

Uno stesso essere può dunque appartenere sia all'ordine naturale della nostra esperienza che all'or­dine soprannaturale della grazia, e la grazia interio­re-1' abbiamo detto più di una volta-non fa cono­scere dei nuovi oggetti, ma illumina un aspetto nuo­vo dell'oggetto già conosciuto. Cosl la soave dispo­sizione della divina Provvidenza, senza traumi, senza rotture nella vita cosciente, senza urti, senza irruzio­ni violente, continua, attraverso l'illuminazione del­la grazia, le chiarezze della conoscenza naturale, e ci fa vedere, nell'orizzonte stesso degli oggetti ai quali ci interessiamo, degli indizi del mondo supe­riore. Riconoscere in essi una nuova natura, significa penetrare più chiaramente e più a fondo nella loro realtà. L'apostolo Tommaso «vide l'uomo e credette il Dio», come dicono giustamente i Padri; ma Dio e l'uomo era lo stesso Gesù Cristo. Ai nostri giorni molti hanno visto Roma, cioè un'istituzione magnifi­camente umana, sovranamente ragionevole e civiliz­zatrice, e hanno creduto la chiesa 26

, cioè la madre dei figli di Dio, la sposa di Cristo, la dispensatrice

25 Ratio sub qua. 26 Cfr. per esempio P. Loewengard, La splendeur catho­lique, Paris 1910, p. 163 ss.

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della salvezza: le due conoscenze sono molto diffe. renti e la prima si trova, a volte, senza la seconda. Ciononostante Roma è la chiesa e la chiesa è Roma.

Una tale continuità delle due conoscenze è pos­sibile solo a una condizione: occorre che i due og­getti formali, quello naturale e quello soprannatu­rale, non siano né opposti né disparati, ma che l'uno inglobi e superi l'altro, approfondendolo e per­fezionandolo interiormente. Altrimenti la nuova fa. coltà di vedere sarebbe percepibile sperimentalmen­te, cosl come lo sarebbe la brusca acquisizione dì un sesto senso o come lo è l'infusione della contempla­zione mistica nei suoi gradi superiori; l'esperienza mostra che per la fede non accade cosl. L'essere so­prannaturale di cui parliamo è dunque l'essere natu­rale elevato. L'essenza dell'essere naturale consiste, in ultima analisi, nella sua essenziale attitudine a servire da mezzo, per gli spiriti creati, per giungere a Dio, loro fine ultimo; l'essenza dell'essere sopran­naturale consiste nella sua attitudine a condurli a Dio, oggetto della visione beatifica. I due «oggetti formali» non sono né opposti né disparati, cosl come non lo sono i due fini 27

21 «Finis supernaturalis et finis naturalis non sunt fines disparati, et non differunt sicut duo apposita, sed solum sicut quod excedit et quod exceditur». (L. Billot, De Gra­fia Christi, Roma 1908, t. I, p. 46). Nessun altro teologo moderno ha dato tanto rilievo a questa idea essenziale quan­to l'autore di questo notevole libretto. Quanti sono interes· sati alla questione della natura e del soprannaturale lo leg­geranno con piacere e profitto, anche se non hanno ricevuto

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D'altra parte, come l'intelligenza naturale può sbagliare a riguardo delle caratteristiche che si esten­dono al di là dell'essere, mentre non sbaglia mai a riguardo della ratio entis, che è il suo oggetto for­male, in quanto solo questa ratio può muoverla, al­lo stesso modo e molto di più, la luce della fede è infallibile nel cogliere la manifestazione dell'essere soprannaturale 28

• Le ragioni per credere percepite alla luce della grazia sono necessariamente delle buo­ne ragioni per credere 29

La solidità di queste ragioni è assolutamente in­dipendente dal potere della ragione discorsiva di stabilire, tra il fatto che serve da indizio e la credi­bilità della fede cristiana, una serie di argomentazio­ni sillogistiche. Lo Spirito Santo può manifestare questa credibilità all'anima, .sia illuminando per essa il rapporto che esiste tra la santità del curato della sua parrocchia 30 e la divina santità della chiesa, sia

una formazione scolastica. Se essi vogliono prendere con­tatto con le dottrine della Scuola, trarranno maggior profitto dall'incontro con uno spirito originale e potente (anche se il suo austero rigore può, a volte, sorprendere) che non dal­la lettura di un manuale incolore che li annoierà con la sua saggia mediocrità. 28 Cfr. san Tommaso, In Boetium de Trinitate, q. 3, a. 1, ad 4. 29 Quando si dice che un uomo crede per una ragione che è solo probabile «in sé», o questa parola non ha senso, o essa significa: ragione incapace di generare legittima­mente una probabilità nell'intelligenza umana, troppo debole per percepire a fondo la realtà del fenomeno di cui si tratta. 30 L'impossibilità di esprimere questa connessione in pa·

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illuminando quello che esiste tra l'insieme della sto­ria della chiesa e il suo essere condotta dalla divina Provvidenza: per questo è sufficiente che questo rap­porto sia reale.

Occorre però procedere oltre: nella conoscenza naturale, più l'intelligenza è agile e penetrante e più le basta un indizio tenue per indurre con certezza una conclusione. Accade la stessa cosa nella cono­scenza soprannaturale. Più l'anima è docile alle sol­lecitazioni dello Spirito Santo, più le sarà facile, per mezzo dei segni ordinari e quotidiani, e non «straor­dinari» o «miracolosi», giungere all'assenso di fe­de 31 • È per questo che un'incontestabile tradizione che risale al vangelo stesso loda coloro che non han­no bisogno di prodigi per credere. Non li si loda affatto per aver creduto senza ragioni: ciò sarebbe deplorevole; ma si vede in essi delle anime vera­mente illuminate e capaci, attraverso un minimo indizio, di cogliere una grande verità. D'altra parte l'esperienza mostra che quando lo Spirito Santo vi-

role e in concetti non impedisce affatto la sua certezza e la sua intellegibilità. Gli esempi di una simile impossibilità abbondano anche nell'esercizio naturale dell'intelligenza co­me facoltà induttiva. 31 Non c'è bisogno di credere che il segno della chiesa di cui parla il concilio Vaticano debba prendere necessaria­mente la forma di una considerazione sull'insieme della sto­ria della chiesa o perfino sull'azione totale della chiesa nel mondo nel momento in cui viviamo. La «santità di una grande cristiana», o <d meravigliosi frutti della santa comu­nione», rientrano tutti nella «prova per mezzo della chiesa».

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sita l'anima con la sua consolazione, questa non può più, per cosl dire, dubitare e vede in tutte le cose dei segni manifesti della verità. «Pensa a qualunque cosa, dice l' autore dell' Aiguillon d' amour, e vi tro­verai un grande motivo per amare il tuo creatore». Alcuni santi andavano in estasi alla vista di un filo d'erba. Lo stesso accade per la fede: quando la lu­ce divina diventa sensibile per il credente, tutta la storia del mondo gli sembra provare la missione del­la chiesa, la parola o il fatto più quotidiano lo riem­pie di certezza e di pace. Queste cose sono inesprimi­bili in parole. Ma la chiesa, affermando che ci sono dei motivi di credibilità tratti dai segni esteriori, non ha mai detto che ci sono soltanto dei motivi espri­mibili. Una volta espressi, i motivi di cui parliamo potrebbero sembrare spregevoli a chi non ha lo Spi­rito, ma, se uno ama, riconosce la Sposa «con una perla sola della tua collana» 32

<Dopo aver cosl delineato a grandi tratti il modo in cui, in determinati casi, ci si può rappresentare la percezione della credibilità attraverso la grazia, dob­biamo ora esaminare se è il caso di generalizzare questa spiegazione e di rinunciare, di conseguenza, all'idea della fede scientifica e della credibilità pura­mente naturale. L'indagine precedente non basta: per studiare l'atto di fede nei suoi elementi essen­ziali, occorre farsi un'idea chiara dell'attitudine del­la libertà umana, del pius credulitatis affectus. Mo­strando che la piena libertà e la perfetta ragionevo-

32 Ct 4,9.

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lezza del!' atto di fede possono conciliarsi soltanto nella e attraverso la sua soprannaturalità, penetrere­mo più profondamente nell'organizzazione interna di questo atto e preciseremo alcuni aspetti che la ri­cerca precedente ha dovuto necessariamente lasciare nel vago.

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Parte seconda

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1. Certezza e libertà della fede

«Si quis dixerit, assensum fidei christianae non esse liberum sed argumentis humanae rationis neces­sario produci ... anathema sit» 1• Cosl come la fede è nello stesso tempo ragionevole e soprannaturale, al­lo stesso modo ·è certa e tuttavia libera. L'opera del teologo consiste nel mostrare come si accordino que­sti diversi caratteri. Ma questo accordo può essere concepito in due modi: o si considerano le note che sembrano escludersi come provenienti da principi differenti, e allora occorre operare tra di esse una conciliazione; oppure si mostra che queste note, a prima vista incompatibili, si richiamano in realtà re­ciprocamente, si generano reciprocamente in quel tutto complesso e indissolubile che è l'atto di fede. Nella prima parte, di fronte a un atto di fede che

1 Concilio Vaticano, canone 5 De Fide. (Denzinger, En-chiridionlO, 1814).

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è contemporaneamente ragionevole e soprannaturale, abbiamo mostrato come si può derivare la sua ragio­nevolezza dalla sua soprannaturalità. Ora si tratta di riprendere un lavoro simile per la certezza e la li­bertà.

L'apparente antinomia tra questi due caratteri molto facile da cogliere. «0 vedete con certezza che Dio ha parlato,-ci vien detto-o non lo vedete con certezza. Nel primo caso, come può essere libero l'assenso? Nel secondo, come può essere legittima­mente certo?». La semplicità di questo dilemma non deve farne misconoscere la forza.

Le spiegazioni comuni possono ricondursi a due schemi che hanno in comune la caratteristica di se­parare l'una dall'altra le due note che sembrano di­struggersi,-libertà e certezza-per dare a una di esse la priorità temporale e reale. Gli uni dicono: Dapprima credete ciecamente, e dopo vedrete. Gli altri dicono Dapprima vedeteci chiaro, e dopo crede­rete. Ma i primi compromettono la legittima certez­za e i secondi la libertà.

Il primo gruppo è quello dei volontaristi. Si ren­derebbe abbastanza bene l'idea che essi si fanno del credere usando le parole di un autore contempo­raneo-che tolgo di proposito dal loro contesto 2-

2 Traggo queste parole, ctie mi servono per la spiegazione che chiamo volontarista, dallo studio J. Mmtin su Clemente d'Alessandria, in l'Apologétique ditionnelle (t. I, p. 69). Dovremo citare più avanti espressioni, molto felici e appropriate, dello stesso che invitano a non prendere secondo il rigore scolastico

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dicendo che essa consiste nel «cogliere dapprima, e poiché lo si vuole, dò che in seguito sarà una con­vinzione conforme alla verità; .. .in altri termini, per avere la fede, si fa come se la si avesse». Sia che si inviti direttamente a sottomettere la ragione de­bole e superba alla dottrina che si dice rivelata, sia che, cambiando terreno con un movimento del tut­to naturale e quasi impercettibile, si tenti di piegare la «macchina» (come dice Pascal) per mezzo della azione virtuosa, di persuadere i sensi e l'immagina­zione (come dice Chateaubriand) attraverso l'abitu­dine allo stile di vita cattolico per mezzo dei riti e dei gesti, nell'uno e nell'altro caso si vuol conqui­stare il «cuore» prima dell'intelligenza 3

• Questo vo-

formule trascritte sopra, le quali, d'altra parte, non si pre­sentano, nel suo testo, in questa brutale nudità. (Sono io a sottolineare le parole dapprima e in seguito). Martin ha, nei suoi tre volumi, messo eccellentemente in rilievo la ne­cessità di una buona disposizione volontaria per vedere le prove della fede; per quel che vedo egli non parla in nes­sun luogo di una priorità reciproca tra l'illuminazione e la buona volontà, ma l'affermazione di questa reciprocità mi sembra essere il complemento del tutto naturale della sua dottrina.

:fl. praticamente la stessa cosa dire: «Incominciate a credere, e la luce verrà», e dire: «Fate come se aveste la fede e infine crederete». Se c'è una differenza consiste nel fatto che, nel pr1mo caso, si pretende di violentare diretta­mente l'intelligenza, mentre nel secondo caso si vuole se­durla e subordinarla: si persuade l'automa, la macchina, e si spera che la ragione vi si adegui. Ma nell'uno e nell'altro caso si sostituisce di fatto alla grazia un'attività naturale sregolata. Senza dubbio non si raccomanderà mai a sufficienza

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lontarismo unilaterale conosce solo l'esortazione: «vo­gliate e vedrete, praticate e crederete, prendete del­l'acqua benedetta e rimbecillite». Si vede molto chiaramente come la fede, in questo sistema, sia volontaria ma la libertà è salvaguardata solo a dan­no dell'intelligenza. Si può dire che l'assenso cosl ot-

a colui che cerca la fede, di obbedire in tutto alla sua co­scienza, di fare tutto ciò che gli sembra bene, tutto ciò che gli sembra meglio; si può anche consigliargli delle pratiche specificamente cristiane, in quanto esse aiutano a vincere le resistenze della carne o dell'orgoglio. (Così la penitenza, così la confessione dei peccati: «si arriva spesso al Credo attra­verso il Confiteor»). Ma tentare di strappare un atto di fe­de a colui che ancora non vede significa mancare di rispetto all'anima e a Dio. Al rispetto che si deve all'anima, perché l'onestà intellettuale è un dovere grave, soprattutto in pro­blemi di tale importanza. Al rispetto che si deve a Dio: così come non si ba il diritto di dare il corpo di Cristo ad un positivista che desidera testimoniare la sua simpatia ver­so la chiesa cattolica attraverso il «gesto» della comunione, allo stesso modo non si ha il diritto, per quanto sta in noi, di mettere in possesso delle verità soprannaturali attraverso dei mezzi puramente naturali e meccanici colui al quale Dio, la cui misericordia è sempre libera, non ha ancora fat. to la grazia di vedere la verità. Voler far nascere la fede da un'abitudine materiale e inferiore è ciò cui si riduce il si· sterna dell' «acqua benedetta» (non intendo parlare qui del senso che questo detto ha in Pascal, il quale ha ben visto che occorre «far credere le nostre due parti»). Il pericolo qui segnalato non è puramente immaginario e può accadere che qualche uomo «praticm>, pieno di fiero disprezzo per le astrazioni dei teorici abbia talvolta dimenticato che la fede è, prima di tutto, una grazia, che non si può suscitarla pren­dendosi gioco del cattolicesimo, che non si può forzare lo

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tenuto sia ancora <~conforme alla ragione» e non sia quell' «adesione cieca» che il concilio Vaticano condanna?

La maggior parte dei teologi si pronuncia per l'ordine inverso. Essi non subordinano la percezio­ne della credibilità all'amore o alla volontà, ma di­stinguono un doppio movimento. Il primo, quali che siano le modalità contingenti, è essenzialmente intellettuale. Esso giunge alla conoscenza di ciò che bisogna credere, alla conoscenza del fatto della ri­velazione, dell'origine divina della chiesa cattolica. Esso porta a concludere: «Ciò è credibile». Un se­condo movimento, d'ordine volontario, fa dire: do credo». È chiaro, in questo secondo schema, come l'atto di fede sia ragionevole. Non si vede però co­me sia salvaguardata la necessaria libertà. Non si vede come un simile atto di fede sia volontario, per usare i termini di san Tommaso, «non solo quanto all'esecuzione dell'atto, ma anche quanto alla deter­minazione dell'oggetto» 4• Affinché i teologi che si

Spirito Santo. Occorre dunque procedere con estrema deli­catezza e non dimenticare che l'attrazione divina può farsi sentire anche attraverso ciò che di più umano c'è nel culto e nella chiesa.

De Virtutibus in communi, a, 7. I teologi ammettono comunemente che non è sufficiente per la libertà della fede che l'uomo sia padrone di porre l'atto o di astenersene; una simile libertà esiste anche quando si tratta della scienza: ed è precisamente dalla scienza che il concilio, condannando la teoria hermesiana delle prove necessitanti, ha voluto di­stinguere la fede. Alla libertà «<l'esercizio» deve dunque ag­giungersi, nel caso presente, la libertà «di specificazione».

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rappresentano le cose secondo questo schema pos­sano sottoscrivere la condanna di Pico della Miran· dola ad opera di Innocenzo vnr, occorre che essi in­terpretino con una sottigliezza forzata le parole della proposizione condannata: «Non est in potestate li­bera hominis credere articulum fidei esse verum, quando placet, et credere cum esse falsum, quando sibi placet» 5

s Denzinger, EnchiridionlO, 737. I teologi in questione han­no visto molto bene la difficoltà ed hanno pensato, per risol­verla, a diverse spiegazioni, ma i limiti di questo articolo ci impediscono di discuterle dettagliatamente. Ne segnaliamo soltanto tre tipi principali. Alcuni (soprattutto coloro che concepiscono l'atto di fede sul modello di un sillogismo) ammettono che l'evidente conoscenza del fatto della rivela­zione divina sopprimerebbe la libertà della fede. La fede libera richiede dunque quella che essi chiamano l'inevidentia attestantis: se la Vergine e gli apostoli avessero visto con evidenza che ciò che credevano era la parola di Dio, non avrebbero affatto creduto con questa fede libera di cui ci parlano i concilii. Questa strana conseguenza basta a ren­dere sospetta la spiegazione. Altri vogliono che dopo l'assen­so certo credibile est o credendum est, l'assenso est o verum est, e che di conseguenza il credo rimanga ancora assoluta­mente libero. È dunque necessario per loro fare del giudizio di credibilità uno stadio obbligatorio e distinto dalla genesi della fede, e dire che pienamente af/ermabile non racchiude pienamente vero. Un terzo gruppo ammette esplicitamente che la ragione naturale possa giungere con le sue sole forze e attraverso una dimostrazione necessaria, a provare sia la credibilità che la verità dei dogmi insegna ti dalla chiesa; ma la libertà della fede resta, ai loro occhi, intatta, la fede consiste, cosi dicono, nell'affermare questi dogmi non perché se ne vede la verità, ma perché si vuol rendere

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Le due opposte spiegazioni soffrono dunque di un vizio comune che impedisce loro di salvaguardare realmente e contemporaneamente le due proprietà che l'atto di fede deve riunire in sé, la libertà e la certezza. Da una parte e dall'altra si privilegia quella nota alla quale si attribuisce maggior valore. Ma da una parte e dall'altra sembra che si soffochi, nella nota privilegiata, l'altra, che pure la chiesa sottoli­nea allo stesso modo 6

Tuttavia l'una e l'altra nota sembrano richiedere, per essere, questa priorità. Come sarebbe certo l'at­to di fede se l'amore non vi fosse condotto dalla ragione? Come sarebbe libero se le porte non fos­sero state aperte alla luce per opera dell'amore? In breve, affinché l'atto di fede risponda alle due con­dizioni poste dalla chiesa, occorre che le due propo­sizioni seguenti siano contemporaneamente vere:

l'uomo vede la verità perché vuole, l'uomo vuole perché vede la verità.

omaggio a Dio. Quest'ultimo sistema può sfuggire alle obie­zioni che si levano contro gli altri due, ma i suoi sosteni­tori sono obbligati a introdurre una distinzione nella propo­sizione condannata da Innocenzo vm: essi ammettono che questa proposizione è sostenibile se si tratta di dare, alle verità rivelate, un'assenso naturale e scientifico; essa sarebbe condannabile e condannata solo se si trattasse di credere per obbedienza. 6 Leggendo le analisi degli autori si ha ordinariamente l'impressione che essi intendano parlare di una priorità sia reale che temporale. Ma servirebbe poco affermare la simul­taneità temporale, se si mantenesse la priorità causale ed esclusiva di uno dei due elementi.

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Se queste due proposizioni vengono isolate l'una dall'altra, contraddicono o alle esigenze del dogma o a quelle dell'esperienza, o addirittura ad entrambe contemporaneamente. Al contrario, si avrebbe una teoria dell'atto di fede dogmaticamente e psicologi­camente soddisfacente se si giungesse a far vedere che queste due proposizioni sono vere simultanea­mente.

2. Visione tramite !'amore

Colui che pensa che nell'atto di fede ci sia, tra l'illuminazione e la libertà, priorità e causalità reci­proca, per spiegare come ciò sia possibile, deve mo­strare semplicemente come, in questo caso, l'atto sia ragionevole.

In effetti non mancano, nella vita umana, delle circostanze in cui la volontà libera, per la stessa scelta che fa di una possibile alternativa, o più ge­neralmente, di un bene, fa nascere o intervenire una nuova luce che modifica, per così dire, il colore de­gli oggetti e che, perciò, fa apparire ragionevole, non tanto la decisione presa, ma la decisione che si sta prendendo. È questa la storia dei nostri atti li· beri: il <'giudizio pratico» e la <'scelta volontaria», distinti per la ragione riflettente, ma fusi in uno stesso istante, si causano reciprocamente: ognuno di essi suscita l'altro come condizione della sua rea" lizzazione.

Può accadere qualcosa di simile per i giudizi spe

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culativi. Senza dubbio un semplice comandamento della volontà non può, in virtù di chissà quale pote­re dispotico e arbitrario, far vedere, o credere, bian­co in questo istante e nero l'istante successivo. La volontà non agisce in modo così estrinseco sull'in­telligenza. Ma il cuore, o l'appetito sensibile, può sedurre, può affascinare la ragione. La realtà di que­sto influsso in campo speculativo, se sembra diffi­cile da ammettere nel caso di un'improvvisa deci­sione della volontà, è innegabile perlomeno quando si tratta di un'inclinazione radicata nel soggetto. Un amore, una passione, un appetito, può colorare così a fondo l'intero mondo degli oggetti da influenzare potentemente o perfino da trasformare i giudizi sul­le «cose in sé». Un uomo appassionato vede le co­se con occhi nuovi, vi vede come un nuovo «og­getto formale». Non c'è bisogno di portare degli esempi di un fenomeno così banale. Inoltre si com­prende facilmente che l'habitus affettivo in questio­ne-e conseguentemente la visione d'amore che es­so stabilisce-per quanto inevitabile e tirannico pos­sa nverlo reso l'nbitudine, abbia potuto essere, nel­b sun origine, libernmente accettato. Siccome un amore più intenso può conquistare l'anima in un tempo più breve, si potrebbe concepire, al limite, un'emozione cosl forte che comporta un'adesione talmente radicale da bastare a trasformare, in un unico istante, con la maniera di vivere, la maniera di vedere. In questo caso, in cui un atto di inten­sità eccezionale basta a radicare un habitus, la prio­rità è perfettamente reciproca: la visione d'amore

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illumina la libera decisione e la libera decisione apre il passaggio alla visione d'amore. In questo sponta­neo sgorgare di un'evidenza pienamente voluta, la totale certezza si unisce alla totale libertà.

Si consideri inoltre che nel fenomeno in que­stione non ci si è proposti espressamente di «colo­rarsi» l'intelligenza. La volontà non ha scelto libe­ramente una nuova conoscenza come tale, ma l'amo­re o la vita che necessariamente implica la nuova conoscenza. L'unità indivisibile dell'atto non con­fonde affatto, ma conserva distinte le «ragioni for­mali» del conoscere e del volere. Ciò che si sce­glie liberamente è il bene, il fine, il modo di vivere e, solo attraverso di esso, il modo di vedere 7•

Applicando queste considerazioni all'amore del bene divino, del fine divino, non sarà difficile trac­ciare uno schema dell'atto di fede in cui le due proprietà dell'atto di fede, lungi dall'ostacolarsi, si sosterranno penetrandosi attraverso una specie di circuminsessione. C'è causalità reciproca tra l'omag­gio che si sceglie di rendere a Dio ( oboeditio fidei, pius affectus credendi) e la percezione della verità soprannaturale. Contemporaneamente, l'amore 8 su-

Cosl come alcuni, scegliendo per esempio la professione militare o quella del commercio, dopo un certo tempo ve­dono le cose sotto l'angolatura propria dell'ufficiale o del commerciante, allo stesso modo l'atto di prendere una deter­minata decisione o cli accettare interiormente una passione violenta, può coincidere realmente con l'accettazione di nuo­vi prmc1p1, di nuove idee, cli nuovi occhi. 8 Non si tratta necessariamente dell'amore di carità, poi-.·

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scita la facoltà di conoscere 9 e la conoscenza legit­tima l'amore. Senza un precedente «giudizio di cre­dibilità», l'anima che crede istantaneamente può esclamare: «Mio Signore e mio Dio!». Decisione li­bera e conoscenza certa si uniscono in questo istan­te senza confondersi. La decisione riguarda infatti il bene divino, la vita e la via nuove che si scelgono e non direttamente la conoscenza come tale. D'al­tro lato, l'intelligenza, malgrado l'ardente atmosfera d'amore che forse l'avvolge, può percepire con pie­na chiarezza il carattere pienamente :.:agionevole e legittimo della scelta fatta. Quest'ultimo punto ri­chiede ancora una spiegazione.

ché è un dato di fede definito che la fede può essere «in­forme», cioè non essere accompagnata dalla grazia santifi­cante o dalla carità (Denzinger, EnchiridionIO, 1791, 1814). Cfr. san Tommaso, De Veritate, q. 14, a. 2, ad 10: «Volun­tas determina! intellectum ad assentiendum his quae sunt fidei. Sed illa voluntas nec est actus charitatis, nec spei, sed quidam appetitus boni repromissi». ua uae, q. 5, a. 2, ad 2: «Fides quae est donum gratiae inclina! hominem ad creden­dum secundum aliquem affectum boni, etiamsi sit informis». Si può allora sostenere che la fede non è mai informe nella sua acquisizione, che l'amore di carità accompagna sempre il primo atto di fede. In ogni caso, come abbiamo già detto, non c'è motivo per spiegare il primo atto di fede in modo diverso dai seguenti. 9 J. Martin parla dunque molto giustamente della grazia della fede quando la chiama: «la grazia di trasformare la propria visione e di riconoscere il proprio errore». (L'Apo­logétique Traditionnelle, t. II, p. 3; e ancora ibid, p. 102: «se essi accettassero che si produca in essi la facoltà di giudicare rettamente»).

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3. L'amore del!' essere di fronte alt' oggetto di fede

Non è molto difficile, anzi è abbastanza comune per gli Scolastici, stabilire, tra l'omaggio volontario reso a Dio nella fede e ciò che si chiama «giudizio pratico» (riguardante l'atto da compiere), delle re­lazioni di priorità reciproca. Ma noi ci occupiamo di un'altra cosa, in quanto pretendiamo di concen­trare in un atto unico anche l'equivalente dei giu­dizi «speculativi» di «credibilità» (giudizi che nor­malmente sono concepiti come precedenti l'atto di fede, salvo poi conciliare in qualche modo questa certezza preliminare con l'autentica libertà di que­sto atto). Noi integriamo nell'atto di fede stesso questa interpretazione di un «segno», di un «indi­zio» preso dal mondo visibile, che abbiamo tentato di descrivere nella prima parte e che, stabilendo una connessione necessaria tra la verità naturale e la verità soprannaturale, legittima l'atto di fede agli occhi della ragione 10

• È per mostrare come il libe-

10 «Si quis dixerit, revelationem divinarn externis signis credibilern fieri non passe ... anathema sit» (Concilio Vati­cano, can. 3, De Fide, Denzinger, Enchiridion10, 1812). Lo sforzo principale della teologia contemporanea, nel trattato sulla Fede-sforzo ben giustificato di fronte ai molteplici er­rori volontaristi e sentimentalisti-si è concentrato sulla dot­trina contenuta in questo canone. Tutti presi dalla ragione­volezza della fede, gli scolastici contemporanei, disgraziata­mente, l'hanno studiata separatamente dalla sua libertà e hanno lasciato sfruttare ad altri la teoria cosl feconda (e

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ro atto di fede possa inglobare questa certezza che dipende dall'amore e che orienta verso l'essere, che noi abbiamo portato l'esempio degli amori sensibili o volontari, i quali, colorando in modo nuovo gli oggetti, dettano all'uomo anche dei giudizi specu­lativi.

Ma qui si presenta una grave difficoltà. «Sono d'accordo, ci si dirà, che è possibile un'influenza del­l'appetito in materia speculativa e constato, anzi, che è fin troppo marcata; ma la deploro poiché con­testo che essa sia legittima. La ragione pura e di­sinteressata è in questo campo, sia da parte della natura che da parte di Dio, l'unico strumento ap­propriato, l'unico giudice competente. La volontà può certamente mettere in funzione la ragione; poi, però, ogni altro influsso volontario non può che gio­care un ruolo dannoso. Il senso comune, a dispetto di qualunque pragmatismo, dirà sempre che né i decreti della volontà né i desideri del cuore potran­no mai definire la verità. Qualunque giudizio de ve-

cosl tomista) della priorità reciproca delle cause. (Se Le Roy avesse scritto, a riguardo della fede, solo quelle pagine nelle quali è toccato questo punto {Dogme et Critique, II ed., pp. 327-332), non avrebbe affatto meritato tante giuste cri­tiche; gli si sarebbe rimasti debitori per aver esposto in modo così brillante, cosl suggestivo e moderno, una teoria che, fondamentalmente, è meno nuova di quanto forse egli pensa). L'esposizione tomista più recente che io conosca, per quanto riguarda la priorità reciproca nell'atto libero, è quella di Garrigou-Lagrange, in Intellectualisme et Liberté chez. saint Thomas, Kain 1910; la questione della fede è menzio­nata a p. 42.

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ro comandato, quanto alla sua specificazione, da un appetito, è un giudizio arbitrario la cui motivazio­ne, in ultima analisi, non è più che una pura opzio­ne individuale. Con la vostra teoria della priorità dell'amore libero in materia di conoscenza arrivate, di fatto, al coup d'état della volontà 11

, al salto nel

11 San Tommaso ha dato dell'atto di fede questa note­vole descrizione: «può avvenire che la volontà determini l'intelligenza e scelga come oggetto di adesione questo o quel giudizio precisamente per un motivo di ordine volon­tario e niente affatto intellettuale, cioè per la bontà, la con­venienza di questa adesione. È ciò che avviene, ad esempio, quando un uomo crede ad un altro uomo perché vede in ciò una qualche utilità o convenienza. Anche noi (cristiani) siamo portati a credere alla Parola perché ci viene promessa, se vi crediamo, la ricompensa della vita eterna: in man­canza di motivazioni intellettuali è questa ricompensa che porta la volontà a credere.» (De veritate, q. 14, a. 1 ). Molti hanno voluto vedere in questo passo la descrizione dello schema essenziale degli atti di fede, dello schema che spie­ga anche l'acquisizione della fede, ed è su questo testo che alcuni fondano la loro teoria di un «comandamento della vo­lontà, inteso nel senso di una mozione estrinseca e, come ha detto qualcuno, di un coup d'état. Ma sorge spontanea­mente un'obiezione molto semplice: questa vita eterna, la .. cui attrattiva muove l'anima, è conosciuta antecedentemente come reale sì o no? Se sì, ciò significa che si è già presa posizione (prima del primo atto di fede) sul fatto dell'at­testazione divina; allora, lungi dall'esserci bisogno di uri coup d'état, si può dire che la libertà è finita. Se no, allora o bisognerà affermare una priorità reciproca oppure l'ade. sione è irragionevole. (Così come è stato detto a Pascal c il suo sistema della scommessa proverebbe quella religi che inventasse il più spaventoso degli inferni, così si

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buio, alla volgare seduzione della ragione da parte del cuore. Se la vostra spiegazione ha qualche cosa di nuovo, ciò consiste nel fatto che voi esigete che la ragione sia talmente sedotta da non potersi nem­meno più accorgere di esserlo».

Espulsione di ogni influsso sentimentale, com­pressione degli appetiti, pura sottomissione all'og­getto: non è forse questa la regola ideale e moral­mente obbligatoria in materia di verità speculativa? Questo metodo, che ·è quello del buon senso, può oscurarsi agli occhi dello spirito solo nella misura in cui esso, pur presentendo che una grande verità si cela nel «pragmatismo», non sa tuttavia ancora dedurla con chiarezza. Questo metodo brilla però di una nuova chiarezza allorché, avendo spinto fino in fondo l'applicazione del principio pragmatista (se­condo cui ogni conoscenza esprime un appetito) si scopre nell'intelligenza stessa, l'espressione di un appetito naturale verso la Verità suprema e sussi­stente. Non soltanto ogni habitus affettivo definisce

trebbe dire al nostro teologo che il suo ragionamento con­clude in favore di quella religione che trovasse i colori più accattivanti per dipingere il suo paradiso.) Ma non si può giungere alla priorità reciproca senza aver assegnato, nell'at­to di fede, un ruolo a quel segno, a quell'indizio che la luce della fede rischiara per far vedere ea quae sunt fulez esse credenda. Io credo, per parte mia, che nel testo in questione san Tommaso abbia voluto semplicemente conside­rare il caso dell'adesione a un dogma particolare da parte di un uomo che sia già fermo nella sua risoluzione di essere cattolico. (Cfr. più avanti, nota 25).

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una visione d'amore ma, ancora di pm, ogni v1s10ne è visione d'amore ed è definita, nell'essere poten­ziale, attraverso un habitus appetitivo cosciente o incosciente. La ragione per così dire incantata, affa­scinata da quel Dio che l'ha fatta capace di abbrac­ciarlo, non è altro che un puro amore dell'essere 12

Quando ciò diventa chiaro, si comprende anche me­glio quell'infinito rispetto per il lume naturale cosl evidente, ad esempio, in sant' Agostino; appare qua­si una pretesa temeraria q•1ella di aiutare la ragione attraverso inclinazioni volontarie, quasi a voler lu­brificare, con un prodotto volgare, il già perfetto ingranaggio di questo puro diletto dell'essere che, nell'evidenza intellettuale, manifesta la verità. Dio ha fatto lo spirito dotato di una naturale simpatia verso l'essere come tale: non ci si può arrogare il diritto di modificare questo «meccanismo» divino aggiungendovi delle simpatie personali per esseri particolari. Cosl ogni sostituzione di una nuova vi­sione alla visione naturale, qualunque influenza di un'inclinazione volontaria sul giudizio speculativo, non sarà dunque un affinamento, ma una perversio­ne, una corruzione dell'intelligenza, una mancanza di rispetto a Dio e alla sua immagine. Di conseguen­za, quando si tratti di un giudizio con carattere di assolutezza, libertà e legittimità appaiono essere sem­pre incompatibili; ma se queste due proprietà devo-

12 Ho tentato di esporre questa concezione in un arti· colo della Revue de philosophie (1° marzo 1910} intitolato «Amore spirituale e sintesi appercettiva».

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ho essere riunite neli'assenso di .fede, è alÌora nè­cessario porre in luce una proprietà unica e singo­lare che distingua tale assenso da tutti gli altri giu­dizi definiti e regolati dall'appetito.

Per determinare questa proprietà cosl speciale consideriamo la radice comune dell'illegittimità di queste altre adesioni. Essa consiste nel fatto che qui l'intelligenza prende, come regola e misura del suo assenso, non tanto la verità prima, che pure è la sola norma legittima di un giudizio assoluto, ma un fine inferiore, limitato, particolare 13

• La verità pri­ma deve essere la sola norma dei giudizi assoluti perché in essi l'uomo non agisce come essere indi­viduale e corporeo, soggetto, tra i suoi simili, a questa o a quella limitazione, ma come uomo in quanto tale, che partecipa della natura intellegg1bi­le, immagine di Dio, spirito. Come tale è unicamen­te su Dio che deve regolarsi, poiché, seguendo la dottrina cara a sant'Agostino, «solo la Verità prima è superiore allo spirito». È dunque la stessa cosa sottomettersi ed ordinarsi ad un fine quanto all'in­telligenza speculativa (cioè in quanto si è esseri do­tati di ragione) e ordinarvisi totalmente, semplice­mente, come ad un fine ultimo (e questa è una pre­tesa che è legittima solo per Dio). È dunque il mas­simo disordine sottomettersi, in quanto spirito, al-

13 Si impiegano qui come sinonimi, seguendo lo spirito del linguaggio scolastico, i termini giudizio speculativo e giudizio assoluto; tuttavia non si pretende negare che al fondo di ogni giudizio pratico sia realmente implicato un giudizio assoluto.

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la creatura, permettere che la passione le dica: «Non c'è più né bene né male, né vero né falso, non ci sei che tu! ».

Ma, cosl come un fine pratico misura legittima­mente la verità della ragione pratica, allo stesso mo­do esso potrebbe legittimamente misurare la verità della ragione speculativa se tale fine fosse il fine ultimo dell'uomo. In effetti, essendo il fine ultimo, per definizione, quello cui nulla può sfuggire, se l'essere amato fosse realmente e veramente il be­ne totale dell'amante, esso misurerebbe anche la rettitudine della ragione stessa, il bene dello spirito in quanto spirito; la verità del giudizio assoluto gli sarebbe essenzialmente relativa. Si vede immediata­mente, d'altro canto, che un tale fine non può essere che la Verità suprema e sussistente, Dio ·solo, cui ogni uomo è interamente ordinato, non soltanto in quanto è un certo individuo determinato, ma anzi­tutto in quanto possiede la natura intellettuale. Co­sl tutta la rettitudine della nostra intelligenza, quan­do conosce con certezza, le viene dal fatto che Dio le ha ispirato un'inclinazione naturale verso la Ve­rità prima o, in altre parole, verso se stesso in quanto fine degli spiriti 14 ; in virtù di questa indi-

14 È esattamente la stessa cosa dire che Dio è Verità prima e che egli è fine ultimo degli spiriti. Ed è questa identità-detto di passaggio-che mostra come non ci si possa attenere, nella spiegazione dell'atto di fede, alla teo­ria della fede d'omaggio o di semplice autorità (distinta dalla fede scientifica) sostenuta dal Billot ed esposta in francese, con molta finezza, da Bainvel. Dopo il concilio

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nazione, l'intellezione ci è naturale e, quando la verità ci appare, ne proviamo piacere. Dunque, la prima ed essenziale condizione di legittimità per qua­lunque inclinazione l'uomo voglia accettare al fine di farne punto di partenza per giudicare assoluta­mente, è che essa lo inclini non verso un fine infe­riore e particolare, ma verso il fine ultimo della na­tura intellettuale.

Si intravede ormai come la teoria che concepisce l'intelligenza come inclinazione connaturale e sim­patia, come puro amore verso Dio e l'essere-teoria che rende, d'altra parte, più inflessibili le esigenze dell'intellettualismo rigoroso-apra la via ad una teoria naturale e coerente della certezza libera e le­gittima, perfino in materia di giudizio speculativo

Vaticano non si può più, come sosteneva Guglielmo d'Au­vergne, escludere espressamente dalla oboeditio fidei il pensiero della veracità divina. (Si deve credere Dio, egli diceva, «gratis et oboedienter, et non propter hoc, quia ve­rax est, aut quia verum est quod ipse loquitur, sic enim crederetur homini cuivis». De fide, cap. 1, ed. del 1674, t. I. p. 7. Si noterà la contraddizione tra questa concezione dell'atto di fede e la formula del catechismo: «Perché Voi siete la stessa verità» ecc.). Ma qualunque distinzione tra !'autorità del testimoniante e la veracità della testimonianza (V. Billot: De Virtutibus infusis, I, p. 214, n. 2) mi sem­bra assolutamente falsa qruando si tratta di un omaggio esigi to da parte di un essere intellettuale. Per noi non ci sono Persone adorabili tranne l'Essenza infallibile. La teo­ria della fede omaggio mi sembra tuttavia rappresentare un grosso progresso rispetto alla teoria della fede sillogistica, ma credo che la si debba spingere cosi a fondo da inte­grare nell'omaggio la stessa percezione della credibilità.

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assoluto. Se l'intelligenza è un'inclinazione, qualun­que inclinazione volontaria che voglia restringerla e che voglia attribuirle come misura qualche essere particolare, non potrà che essere una perversione, una corruzione della natura. Ma si può concepire an­che un'inclinazione che possa approfondire l'intelli­genza, dilatarla, renderla capace di penetrare meglio il suo oggetto, l'essere derivato e secondario, pro­prio mentre la rende più profondamente innamo­rata della Verità sussistente, il suo oggetto primo e il suo ideale. Questa trasformazione d'amore sarà allo stesso tempo un accrescimento di intelligenza, e la visione d'amore che si produce sarà conoscenza più perfetta, proprio nella linea dell'intellettualità.

Che ogni inclinazione seguendo la quale si vo­glia giudicare assolutamente debba essere un'inclina­zione al fine ultimo è una condizione necessaria del­la legittimità dell'assenso, ma non è affatto una con­dizione sufficiente, se non in quanto questa afferma­zione viene ulteriormente precisata. È chiaro, infatti, che non si può giudicare assolutamente a partire da un'inclinazione conseguente ad una qualunque idea che ci si sia fatta di Dio. Permettere che la ragione speculativa si regoli su qualunque inclinazione, qua­lunque emozione di questo tipo, significherebbe da­re spazio a tutti i fanatismi. Questo tipo di errore non lo si trova, peraltto, solo presso l'ebreo o l'ere­tico; vi sono stati dei santi indotti in errore da una. inclinazione devota. In questo caso si tratta di una inclinazione verso un Dio concepito, un Dio rappre• sentato (e cioè verso un oggetto in qualche modo

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particolarizzato) che regola il giudizio dell'intelli­genza. A queste tendenze affettive che aggiungono elementi ulteriori l'uomo non può senz'altro affidarsi come si affida alla sua ragione, naturalmente incli­nata da Dio verso Dio stesso. Perché egli abbia il diritto di affidarvisi assolutamente come o più che alla sua intelligenza, perché egli possa rivestirsi di questo amore volontario come di una nuova natura ed esprimere, a partire da questa, un giudizio asso­luto, bisogna che egli sappia che questo nuovo amo­re viene da Dio non meno della sua stessa ragione, bisogna che Egli testimoni a favore di questo nuovo modo di vivere con la stessa forza con cui testimonia a favore della natura che ci ha dato. E questa testi­monianza può essere manifestata solamente dalla percezione di un indizio che, mentre svela su di un punto particolare la saldatura del mondo natu­rnle con quello soprannaturale o, per meglio dire, l'inabitazione del secondo nel primo, faccia vedere che, se la fede non è vera, la ragione è ingannatrice e la realtà inconsistente. Una volta constatata, così, la divinità della religione, allora la stessa evidenza razionale non ha più diritto a guidare i nostri giu­dizi assoluti di quanto non ne abbia la volontà che vuole essere religiosa. Questa, condizionando quel­la, fornisce al nostro assenso la regola più legittima.

Nell'atto di fede, come l'amore è necessario al­la conoscenza, così la conoscenza è necessaria al­l'amore. L'amore, l'omaggio libero reso al bene su­premo, dona occhi nuovi. L'essere, reso più visibile, incanta colui che vede. L'atto è ragionevole poiché

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l'indizio percepito apporta alla nuova verità la testi· monianza dell'ordine naturale; l'atto è libero poiché l'uomo può respingere, se vuole, l'amore del bene soprannaturale. O, per presentare la stessa cosa in altri termini, la riflessione distingue nell'atto due serie causali che coesistono senza ostacolarsi né in­crociarsi. Da un lato l'uomo vuole un bene, vi si ordina e cosl riveste una nuova natura (che lo fa vedere). È l'ordine della volontà. D'altro lato lo spirito vede un fatto, lo interpreta come indizio e ne conclude una verità (che lo fa vivere). È l'ordine dell'intelligenza. Ma qui non ci sono assolutamente due processi realmente separabili: tutto ,è integrato nell'unità vivente di uno stesso atto.

4. Conoscenza per simpatia e fede

Il ruolo dell'indizio esterno o segno (tanto sot· tolineato dal concilio Vaticano) nonché l'identità di habitus affettivo e scienza percettiva si chiariranno ulteriormente richiamando al lettore quei testi dove san Tommaso, per spiegare l'assenso alla fede divi· na, rinvia a certe conoscenze di tipo speciale che sono procurate dall'habitus delle virtù. Come l'habi-. tus di una virtù, egli dice, fa conoscere ciò che con­viene a questa virtù, cosl l'habitus della fede fa co­noscere che si deve credere 15•

15 Vedi ua ua•, q. I, art. 4, ad 3; q. 2, art. 3, ad 2. D veritate, q. 14, art. 10, ad 10. Il Caetano nota con ragion

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San Tommaso, dunque, rileva l'esistenza di de­terminate conoscenze che egli chiama per modum naturae e che si possono più brevemente chiamare per simpatia. È facile comprendere il ruolo di tali conoscenze e come esse si distinguano da quelle che si costituiscono attraverso i concetti e il pensiero discorsivo. Si può conoscere la castità (e giudicare, in un caso determinato, ciò che le è nocivo o favo­revole) in due modi: o si è seguito un corso di mo­rale e si sono acquisiti dei principi e delle idee ge­nerali (sotto i quali si cercherà di collocare il caso in questione) oppure si è casti, e si prova interior­mente simpatia o avversione, attrazione o repulsio­ne (che permettono di giudicare, attraverso una ra­pida interferenza e quasi «istintivamente» se un og­getto dato favorisce o minaccia la virtù) 16

• L'espe­rienza quotidiana offre numerosi esempi di questa conoscenza, sia che si tratti di habitus virtuosi, sia che si tratti di altri comportamenti abituali. Quan­do mi si domanda l'ortografia di una parola, io scri­vo su un foglio le due grafie proposte, oppure me le rappresento nella mente; ed è attraverso la qualità dell'impressione prodotta dall'ortografia sulla mia

sul primo di questi passi: «Atte tor loquitur de videre ea quae sunt fidei, sub communi ratione credibilis... Et hanc esse mentem auctoris patet ex hoc quod in sequenti arti­culo in resp. ad 1 dicitur: Per lumen fidei videntur esse credenda ut dictum est, proculdubio hoc in loco». 16 Cfr. P. Rousselot, L'intellectualisme de saint Thomas, p. 74.

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«memoria» o «habitus» che io giudico se la parola è scritta in modo esatto 17

C'è, in simili casi, un rapido confronto tra la scienza percettiva (habitus, E~Lc;, «memoria») e un oggetto percepito; si giudica della «verità» dell'og­getto attraverso la sua convenienza o meno con la facoltà o l'habitus posto in gioco, si giudica secondo una reazione di tipo affettivo.

È forse cosl che ci si deve rappresentare quella conoscenza per simpatia che, secondo san Tommaso, è alla base del giudizio di fede? Se sl, allora l'atto cli fede dovrebbe comprendere necessariamente non solo una esperienza, ma anche una rappresentazione (certamente rapida e semplice, ma pur sempre una rappresentazione) del «fatto interiore» tanquam obiecti cogniti. Si dovrebbe avvertire, nel momento dell'approccio e quasi della messa in atto del «fatto esteriore» una profonda sensazione e cioè ci si do­vrebbe sentire così bene pensando al cristianesimo, si dovrebbero gustare cosl sensibilmente le armonio­se attrattive del cristianesimo, da dover concludere che essi sono fatti l'uno per l'altro. E su ciò biso­gna fare due annotazioni: anzitutto che, nonostante le apparenze, il cristianesimo verrebbe, in questo ca­so, affrontato attraverso la via della sua verità pen­sata (e cioè indotta attraverso un confronto); in se­condo luogo che il ruolo dei segni esteriori (parti-

17 Cfr. ciò che dice Bergson in Essai sur !es données im­médiates de la conscience, p. 96, circa le percezioni quali­tative immanenti alla conoscenza stessa della quantità.

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colarmente dei miracoli, ricordati espressamente dal concilio Vaticano), se non è sempre e assolutamente superfluo, risulta tuttavia ridotto a proporzioni assai modeste.

Ma una riflessione più attenta mostra che ciò in cui consiste l'essenziale della conoscenza per simpa­tia non è una comparazione conseguente ad un'im­pressione. La vera conoscenza simpatetica è invece immanente alla stessa tendenza che porta l'anima verso l'oggetto o che la allontana da esso, cioè allo stesso movimento di desiderio o di avversione. Se si separa tale conoscenza dal sentimento di compia­cimento o di orrore che l'oggetto (per rimanere nel nostro esempio) risveglia nell'uomo casto, la si disco­nosce, si scambia per essa uno dei suoi effetti. Se invece la si prende cosl com'è, non separata dall'amo­re e dall'odio, e prima della mediazione di quella rapida riflessione che noi abbiamo supposto, essa si esprimerà naturalmente in termini di appetito: «Lo voglio! Non lo voglio! È meraviglioso! È insoppor­tabile! ecc.» 18• Si può rappresentare l'atto di fede come fondato su questa conoscenza per simpatia?

Lo si può fare senza dubbio, purché da una parte si intenda l'intelligenza come inclinazione ver­so la Verità sussistente, e dall'altra si comprenda che ciò che si è visto simpateticamente, nella fede,

18 Ma se è una facoltà intellettuale ad essere il soggetto della conoscenza per simpatia, il verbo stesso di questa co­noscenza sarà l'espressione della meraviglia e del fascino (o, al contrario, della ripugnanza): sarà un verbo d'amore.

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non è, per se loquendo, la determinazione dei diffe. renti dogmi 19

, ma la loro comune proprietà di «es­sere degni di fede», ea quae sunt fidei esse credenda.

19 San Tommaso sembra a volte riconoscere alla fede co­mune un tale potere di discernimento sperimentale: ~<Sicut

enim per alias habitus virtutum homo videt illud quod est sibi conveniens secundum habitum illum, ita etiam per ha­bitum /idei inclinatur mens hominis ad assentiendum bis quae conveniunt recta fidei, et non aliis». (rr•, u•e, q. 1, art. 4, ad 3 ). Tolta dal suo contesto .(cfr. nota 15, p. 84) e presa in un senso assoluto e universale, questa afferma­zione conduce alla teoria del discerniculum experimentale sostenuta da Antonio Perez e Pallavicini e ampiamente con­traddetta dall'esperienza. (Se ne può vedere un riassunto esatto, con le ragioni per le quali è comunemente rifiutata. in Schiflini, De virtutibus infusis, n. 148). Ciò che è uni­versalmente vero nell'affermazione di san Tommaso è che l'abitudine alla fede inclina ad assentiendum: tale è for­malmente il suo ruolo, come tentiamo cli spiegare nel te­sto. L'abitudine infusa è, come scrive molto es.attamente Ferrariensis, «quo iis quae credenda proponuntur, homo /ir­miter adhaeret et assentit, et quo illuminatur intellectus ad cognoscendum illa esse credenda» (In 3 CG 40), ma la co· noscenza di questa credibilità è assolutamente identica alla adesione, cosl come, nella conoscenza naturale, una certa conoscenza pratica dell'affermabilità è precisamente l'assen. so. Che se ora si tratta di un'inclit.azione non più formal­mente ad assentiendum ma ad discernendum num haec vel haec conveniant recta fidei, la risposta di san Tommaso ri­chiama le seguenti osservazioni. 1) questa inclinazione non è in tutti allo stato cosciente, ma, come nel caso delle al­tre virtù che danno simili conoscenze, bisogna che la virtù sia posseduta in un grado sufficientemente approfondito da aver già penetrato le inclinazioni naturali; 2) questa incli­nazione sentita sembra appartenere all'ordine delle grazie

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Accettare che l'intelligenza sia l'espressione di una appetizione, significa accettare che la presenza di un momento simpatetico nella conoscenza intellet­tuale non deve essere ristretta a certi casi particolari di intellezione, ma è la conseguenza necessaria di una legge generale dell'intelligenza 20

• Ciò significa ac· cettare che la ratio entis, su cui poggia la nostra in­telligenza, è conosciuta per modum naturae. Senza dubbio essa sembra imporsi all'intelligenza, e la sua percezione non risveglia in noi nessuna eco affettiva; e tuttavia il fatto che tale simpatia non emerga alla coscienza nulla toglie alla sua realtà. L'affermazione

gratis datae; non si dovrebbe dunque concludere, dalla sua assenza in qualcuno e dalla sua presenza in qualcun altro, che questi ultimi sono dotati di un grado maggiore di chiarezza: quando san Bernardo negava l'Immacolata Con­cezione, poteva non essere inferiore in chiarezza rispetto ad un immacolista, pur supponendo che quest'ultimo sen­tisse, attraverso degli istinti interiori di grazia, la bontà della causa che egli sosteneva; 3) sebbene l'esperienza di simili istinti sia una grazia, tuttavia la disposizione del sog­getto vi coopera. Un convertito dal protestantesimo con­serva a volte in sé certe tendenze che lo fanno inclinare verso posizioni che tendono a deviare dall'ortodossia; può avvenire che un uomo religiosamente abbastanza tiepido, ma che sia stato educato in un ambiente profondamente cri­stiano, possieda un «senso cattolico» che difetta invece ad un altro, magari molto mortificato e fervente, ma che si sia convertito tardi, ecc. 20 Mi permetto cli rinviare, per ciò che è detto in que­sto paragrafo, all'articolo segnalato più sopra (nota 12, p. 78) e anche a: «L'Essere e lo Spirito» in Revue de philosophie, 1 giugno 1910.

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dell'essere, che a volte sembra essere imposta dal­l'esterno, dagli oggetti, è in realtà l'espressione del nostro desiderio più intenso, l'espressione di quel fascino irresistibile attraverso cui Dio crea e con­serva l'anima intelligente in modo da attirarla e or­dinarla a sé. In questo caso il momento simpatetico è immerso nell'incoscienza ed è perciò che l'afferma­zione dell'essere sembra, alla coscienza superficiale, farsi semplicemente per modum rationis 21

Il desiderio intellettuale di Dio, sanato e trasfor­mato dalla grazia, è identico alla affermazione del­l'essere nella conoscenza di fede. Ma poiché questo nuovo fascino è liberamente accettato, poiché non ha forza costrittiva, il carattere di conoscenza sim­patetica è molto più visibile nella conoscenza di fe­de che nell'affermazione naturale. La differenza esi­stente tra queste due affermazioni è la stessa che c'è, ad esempio, in storia naturale, tra un organo che funziona all'interno di un corpo ed uno che ap­pare all'esterno. Cristo è conosciuto nella fede co­me il maestro che bisogna ascoltare, il mediatore cui si deve aderire, la via che si deve seguire solo se,

21 La conoscenza ideale e perfetta è quella in cui appare alla chiara luce della coscienza intellettuale non soltanto la scienza percepita, ma anche la scienza percettiva e la sim· patia radicale che unisce il soggetto all'oggetto. Questa per­cezione manca nell'evidenza che ci procura la categoria con­cettuale del!' ens concretum quidditati sensibili. Anche l'evi- ' <lenza della dimostraz.ione scientifica non pacifica totalmen­te lo spirito, ma solo provvisoriamente (cfr. san Tommaso: . Contra Genti/es, III, 39).

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nello stesso tempo, la volontà libera, accettando, co­me dice san Tommaso, «un certo appetito del bene soprannaturale», si sottomette al maestro, aderisce al mediatore, sceglie quella strada. Solo una tale di­sposizione volontaria suscita e mantiene la nozione sintetica del mondo soprannaturale, la quale permet­terà cli interpretare l'indizio 22

• Se la riflessione vuole, in seguito, tradurre in termini concettuali ciò che prima è stato percepito, non potrà renderlo se non dicendo: esse audiendum, esse credendum. Ma pro­prio questo: che bisogna ascoltare, che bisogna cre­dere, questo lo si vede i.i quando si fa latto cli fede;

22 Cfr. la prima parte, pp. 46-49. 23 Sembra che, nel primo atto di fede (non parlo qui della prima espressione esteriore e verbale) la verità sopran­naturale (signoria di Gesù, magistero divino della chiesa) sia direttamente affermata. Questa verità è creduta, e la «credendità» è vista, ma come è visto l' «lo penso» nella intellezione naturale. La «credendità» è una condizione del­la rappresentazione (ratio sub qua); come l'anima che si ri­sveglia alla vita intellettuale non dice esplicitamente Cogito, né Video, né Fidendum intellectui, così l'anima che si ri­sveglia alla vita della fede non dice esplicitamente Credo, né Deus dixit, né credendum est. Ma in ambedue i casi le tre affermazioni sono realmente e implicitamente conte· nute nell'asserzione che porta inunediatamente all'essere. Azione del pensare e azione del credere, appercezione e at· testazione divina, «bontà della ragione» e «Ctedendità», so· no affermate exercite. In seguito, la riflessione può isolarle e può perfino costruire una serie di argomenti logicamente legati che giungono all'affermazione della verità della fede. Ma il processo razionale rappresentato da questa concate­nazione di argomenti non rende che uno degli aspetti del-

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e così si verifìca alla lettera nel credente la parola evangelica: vedete bene (fate bene attenzione a) come ascoltate, B'Ném:-ce: TIG.lc; choue:-ce: 24

5. Evidenza valida personalmente o generalmente

Se la spiegazione qui proposta ha un merito, è quello di dare all'amore un ruolo essenziale nell'at-

l'atto. L'atto totale e reale richiede, come sintesi afferma­tiva, il nuovo amore ed i nuovi occhi: di questa novità non c'è traccia nel processo razionale. Molte spiegazioni del­l'atto di fede, per un'illusione tutta cartesiana, trasformano in giudizio distintamente e preventivamente pensato ciò che è in realtà una condizione dell'atto. 24 Abbiamo tentato di spiegare l'assenso universale alla fede cattolica, quello in cui si dice: «lo credo, o Dio, tutto ciò che Tu hai rivelato» o, più semplicemente; do credo, sono cristiano». Questo atto è l'incontro di una fede infusa con la confessione di una religione determinata: è a questo punto cruciale che noi abbiamo tentato di abbordare il problema della fede (Parte prima, pp. 32 s.). È molto più facile spiegare come un uomo che voglia restare cattolico aderisca ad un dogma deternùnato, ad esempio a quello dell'infallibilità pontificia. Ciò che muove la sua volontà è il desiderio della vita eterna già conosciuta: qui si applica senza difficoltà l'analisi di san Tommaso citata più sopra (cfr. nota 12). È chiaro che la volontà cli salvare la sua anima restando nella chiesa gli prescrive la specificazione del suo assenso; dare scientemente la propria adesione alla proposizione contraddittoria sarebbe perdere e la vita della. grazia e l'habitus della fede (ua uae, q. 5, art. 3). E tutta·. via l'atto è perfettamente libero perché l'uomo è libero d' · restare o meno cattolico.

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to di fede, senza detrimento alcuno per l'intellettua­lità più rigorosa. Il sentimento, per noi, non è af­fatto un seduttore dell'intelligenza; la libertà è ge­neratrice dell'evidenza. È piuttosto l'intelligenza, cor­rotta dal peccato, ad essere liberata dall'amore so­prannaturale: la grazia le dona la sua propria perfe­zione, che è cli vedere (vide re esse credendum ). Se è importante salvaguardare la perfetta libertà del credere, allora è pericoloso insistere esclusivamente sull'aspetto volontario dell'atto di fede; bisogna sot­tolinearne invece fortemente il carattere razionale nonché l'oggettività delle prove della fede, e ciò per non cadere in quegli errori antiintellettualistici 25 che l'autorità ha cosl decisamente condannati.

Pensiamo che si sia compresa la differenza es­senziale che distingue la nostra spiegazione dell'in­flusso della volontà dalla teoria del coup d' état. I sostenitori di questa teoria sono costretti a dire: «Nessuna verità vista muove l'intelligenza»; per noi, invece, l'amore dà occhi per vedere: lo stesso fatto che si ama fa vedere, crea per il soggetto amante un nuovo tipo di evidenza. Non bisogna credere, però, che questa evidenza, nel caso dei motivi di credibilità, sia, in quanto visione d'amore, cosl asso-

25 Dopo aver menzionato l'errore agnostico secondo cui non si può riconoscere Dio nel mondo e ne.ila storia, l'en­ciclica Pascendi aggiunge: «His autem positis, quid de ... motivis credibilitatis... fìat, facile quisque perspiciet. Ea nempe modernistae penitus e medio tollunt et ad intellec­tualismum amandant: ridendum, inquiunt, systema ac iam· diu emortuum». (Denzinger, EnchiridionlO, 2072).

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lutamente personale da essere totalmente incomuni­cabile.

Senza dubbio a volte è cosl: è il caso di talune motivazioni straordinarie date da uomini di grande interiorità e dai santi 26

; è, molto spesso, anche il caso delle motivazioni date dai semplici, se valgono le osservazioni che abbiamo fatto a loro riguardo nella prima parte. In questi casi la grazia illumina per il soggetto dei fatti che egli solo comprende nella loro complessità originaria; la conoscenza co­sl suscitata non è meno incomunicabile di quanto lo siano, nell'ordine naturale, le percezioni più per­sonali dell'illative sense (Newman). La radice della incomunicabilità della conoscenza sta nella sua stes­sa materia. Ma se è vero che lo Spirito di Dio su­scita nel segreto dei cuori tali evidenze percepibili solo «allo spirito dell'uomo che è nell'uomo» n, non per questo Egli perde il potere di illuminare dei fat­ti visibili a tutti: la vita di Cristo, la storia di Israele e quella della chiesa. Se Egli può far penetrare «la sua torcia negli angoli più segreti di Gerusalemme», può anche inondare di luce «la città costruita sulla montagna». I motivi di credibilità emergenti da fatti

26 Si dice nel breviario romano, alla quarta lezione del 31 luglio, che sant'Ignazio di Loyola soleva dire: <Si sacrae litterae non exstarent, se !amen pro fide mori paratum ex iis solutn, quae sibi Manresae patefecerat Domintts». Ma mai, per i santi, la prova presa dalla <pwvTi èl; oùpavov ÈvexOcicra toglie valore a quella presa dal Be6a"6"t'Epoç 1CpO(jl'YJ"t'"XÒ<; Myoç. (Cfr. 2 Pt 1,18 - 19}. 21 1 Cor 2,11.

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visibili a tutti possono poi essere messi in forma di discorso e di argomentazione e costituiscono l'og­getto della scienza apologetica. Questo fatto richie­de due osservazioni.

La prima: la fede di coloro che conoscono que­ste prove non è necessariamente più salda di quella di coloro che le ignorano. Si può anzi dire che la grazia rende la fede del carbonaio altrettanto ragio­nevole, nel senso pieno e vero della parola, della fe­de dello storico e del dottore 28

• Tuttavia il possesso di ragioni di credibilità suscettibili di essere espres­se, sviluppate e comunicate è, soprattutto per il suo valore sociale e catechetico, estremamente prezioso per la chiesa. Diffuse con la parola e con gli scritti, le prove della fede cooperano ovunque con la grazia e stimolano le anime di buona volontà con una pos­sibilità di diffusione superiore a quella che può ave­re l'azione individuale di un'anima pia. Sarebbe far

28 Ciò significa che nella nostra spiegazione non c'è po­sto per ciò che si intende normalmente con l'espressione certitudo respectiva, che dovrebbe essere sufficiente per un uomo semplice, ma non per un dotto e «in sé»; chi com­prendesse totalmente il contesto psicologico di un semplice che abbia veramente la fede, possederebbe, per ciò stesso, delle ragioni di credere legittime e valide per chiunque.­Le ragioni del parroco possono essere più comunicabili cli quelle del carbonaio; ma l'assenso pili ragionevole, nel sen­so pili pieno della parola, sta in quello, tra i due, che è maggiormente illuminato da una superiore luce infusa (cfr. Ferrariensis citato più sopra), poiché, per giudicare della in­tellettualità di un atto, la qualità deila luce intellettuale è più importante della natura degli oggetti illuminati.

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torto allo Spirito Santo e alla tradizione disprezzare queste esposizioni delle prove della fede. Curioso cattolicesimo, in verità, quello che disdegni non so­lo Apollo, ma anche Paolo, che pure si radicano am­bedue sulla Scrittura! 29

Tuttavia-e questa è la seconda osservazione-, dal fatto che le prove storiche ed esteriori della re­ligione possano essere espresse dal linguaggio, ridot­te in un discorso logicamente coerente e, sotto que­sta forma, proposte a tutti, non si ha il diritto di concludere che un uomo, senza l'illuminazione della grazia, possa percepirle sinteticamente come prove, dare loro un assenso veramente certo. Le prove del­la religione, siano esse individuali o comunicabili, hanno necessariamente bisogno di due condizioni per essere percepite: la presentazione dell'oggetto e il possesso di una facoltà spirituale che lo possa affer­rare 30 • In ambedue i casi un elemento non serve a nulla senza l'altro. E se il secondo elemento, nel ca­so delle prove della fede, è necessariamente un'illu-

29 At 17,2; 18,28. 30 Se si spiegano a qualcuno che ha già la fede delle prove che egli ancora ignorava, basterà, perché egli possa percepirle come prove, che esse gli siano sufficientemente proposte. Se le si spiegano a uno che non ha 1a fede, sarà necessario, in pili, che egli riceva dal cielo la pia volttntas credendi. Quanto poi alle ragioni individuali, esse non val­gono per tutti non tanto perché non siano rischiarate dalla luce della grazia, quanto perché esse non possono essere sufficientemente proposte: ciò che fa difetto, allora, è la presentazione dell'oggetto.

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minazione soprannaturale, allora non vi è contrad­dizione nel dire, sia che queste prove hanno un va­lore obiettivo pienamente soddisfacente, sia che la grazia è necessaria per percepirle, per affermarle. È esatto dire che «esse esigono l'assenso di ogni uomo ragionevole» solo in quanto però si aggiunga che non si può esprimere un giudizio veramente ragionevole su Cristo, la chiesa e la Scrittura se non con l'aiuto della grazia divina. È questa, appunto, l'autentica concezione presente nell'apologetica tradizionale: es­sa sviluppa le ragioni esteriori e storiche e le giu­dica, come ragioni, perfettamente sufficienti; ma non pensa affatto che esse agiscano ex opere operato. Essa è ugualmente convinta sia della loro assoluta legittimità, sia della loro sicura inefficacia se Dio non apre gli occhi all'anima 31

• Essa non richiede af­fatto dall'ascoltatore la riflessione sul «fatto inte­riore», ma il «fatto interiore» stesso, cioè questa buona disposizione volontaria che permette di com­prendere il «fatto esteriore».

6. Accordo attraverso la grazia

Lo si è gia capito: noi pensiamo non soltanto che, nella fede soprannaturale, la volontà di credere sia necessaria alla fede, ma anche che sia indispen-

31 mwfre liv 'fÌp.iic; 'TtO't'E, w &vopec;, \!E\!OY]XÉvm OUVY]frl\va.~

ÈV 't'IXL<:; ypaq>aLc; 't'IXU't'CI., d µ1] frek~µa't'~ 't'OU i}EÀlJO'Cl.\!'t'Oc; w'.ml. D.apoµev xapw 't'ov vof]O'a~. (Giustino, Dialogo con Trifone, n. 119).

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sabile, affinché l'atto di fede sia legittimamente cer­to, l'inclinazione simpatetica dell'intelligenza verso il mondo soprannaturale operata da una grazia 32

; in altri termini ci sembra che si debba rinunciare al concetto di «fede scientifica» o di «fede naturale» dei moderni teologi.

Ciò risulta, peraltro, già dall'insegnamento posi­tivo della chiesa laddove si tratta della libertà della fede. Se il mio credere alla fede cattolica è vera­mente libero quanto alla sua specificazione, come potrebbe essere compatibile con una fede scientifica­mente certa, puramente naturale, che non dipendes­se affatto dalla volontà? Resta dunque solo l'ipotesi di una fede naturale che sia essa stessa insieme cer­ta e libera. Ma il supplemento affettivo, la porzione d'amore, condizione indispensabile della libertà, ren­de illegittimo, in questo caso specifico, un giudizio

32 Non diciamo che non vi possono essere atti di fede certi e legittimi senza la grazia santificante, ciò che sarebbe eretico {Denzinger, Enchiridion 10, 1791). Non diciamo nep­pure che non vi possano essere, senza grazia-anche senza grazia attuale-atti di adesione alla dottrina cattolica che siano soggettivamente, ma illegittimamente, certi: ciò si ac­corderebbe male, forse, con l'esperienza. Milioni di uomini aderiscono con fermezza soggettiva assoluta a religioni false, per esempio all'Islam, e io non vedo come sia necessario dire, malgrado l'altezza e la difficoltà dei nostri misteri, che la nostra religione appare, alla ragione naturale, più impro­babile di quelle. Se il caso si presenta, allora si tratta di quella fides acquisita che è, per parlare come san Tommaso, semplice opinione, opinio fortificata rationibus (Prolog. sent. a. 3 sol. 3).

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speculativo assoluto. Poiché questa porzione d'amo­re impedisce che si agisca in forza di quel puro amo­re dell'Essere che, solo, ha il diritto di farci pronun­ciare simili giudizi. L'azione morale libera-si potrà obiettare-affina l'intelligenza. Sì, ma il suo valore morale è permanentemente misurato dalla luce del­la ragione naturale che si possiede, e il suo affina­mento non garantisce affatto che ci si lanci in quel­la adesione totale reclamata dal cristianesimo, cioè da una dottrina che vuol giudicare dall'alto gli stessi principi della moralità.

Bisogna dunque far ricorso necessariamente a un habitus affettivo infuso che, inclinandoci all'essere soprannaturale, mentre ci stabilisce nell'amore libe­ro di un bene desiderabile, suscita in noi anche una nuova facoltà di visione. Ma è poi indispensabile, per provare la necessità di questa inclinazione so­prannaturale, compiere questo lungo itinerario che passa per la libertà come nota caratteristica dell'at­to di fede? È legge generale di qualunque atto co­noscitivo che sia necessaria una natura comune al soggetto e all'oggetto. In termini scolastici si dice che l' «oggetto formale» di una facoltà definisce tale facoltà e non può essere afferrato da nessun'altra; in parole più attuali ciò significa che ogni scienza percepita richiede una scienza percettiva corrispon­dente; o ancora che il soggetto deve in qualche mo­do percepirsi come tale per formarsi l'idea dell'og­getto come tale; o ancora che in ogni conoscenza rappresentativa di un oggetto si nasconde o si mo­stra una conoscenza dell'oggetto per attrazione, per

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simpatia, attraverso il sentimento di una qualità. La applicazione di questo principio al nostro argomento può prendere la forma del seguente sillogismo: L'uo­mo non può vedere le cose sotto la ragione formale dell'essere soprannaturale 33 che attraverso una fa­coltà soprannaturale. Ora, non si può aderire con fede certa agli oggetti della rivelazione se non cono­scendoli sotto la ragione formale dell'essere sopran­naturale. Dunque è necessaria una facoltà sopranna­turale per aderire con fede certa agli oggetti della rivelazione. La maggiore discende immediatamente dal principio che abbiamo posto. La minore si prova così: la specificazione dell'oggetto formale di ogni intellezione implica essenzialmente l'espressione del rapporto dell'essere con il fine ultimo (poiché l'in­

telligenza è precisamente appetito della Verità su­prema, fine ultimo dello spirito). Dunque, aderire

agli oggetti della rivelazione sotto la ragione formale

dell'essere naturale è affermare implicitamente che

essi appartengono all'ordine naturale e, di conse­

guenza, significa non intenderli affatto; in termini

più semplici: affermare le verità della fede senza

essere stati toccati dal fascino delle realtà celesti si-

33 Si comprende bene che qui si tratta non della cono­scenza riflessa dell'essere soprannaturale come tale (che è una nozione tecnica), ma della sua conoscenza spontanea (tanquam rationis sub qua) alla quale bisogna paragonare, nella intellezione naturale, non l'idea di essere considerata dai filosofi, ma quella impiegata dall'uomo comune, capace o meno di sapienti astrazioni.

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gnifica prendere queste verità in un senso che non è quello in cui Dio le afferma 34

Concludiamo dunque dicendo che, come per ve­dere ci vogliono gli occhi, come per percepire le co­se sotto il punto di vista dell'essere ci vuole questa simpatia naturale con l'essere totale che si chiama intelligenza, così per credere bisogna avere questa simpatia spirituale con l'oggetto della fede che si chiama grazia soprannaturale della fede.

7. Conferma biblica

Sia permesso ora, dopo tante discussioni teori­che, ricondurre un istante l'attenzione sulle parole e i racconti evangelici. Senza dubbio la teologia spe­culativa non è la teologia biblica, e non è certo in pochi paragrafi che si può pretendere di dare un'idea

34 La questione scolastica dell' «oggetto formale» delle vir­tù soprannaturali è una di quelle controversie che si po­trebbe essere tentati di trascurare come sottile e sprovvista di interesse reale, mentre, al contrario, essa pone in termini strettamente tecnici il problema capitale della conoscenza della fede, mettendone a nudo il punto centrale. Io credo che si debba dire, sull'oggetto formale della fede, che, con­siderando precisamente la rappresentazione come tale, non vi sia, per se, differenza, tra le nozioni che hanno dei no­stri misteri un incredulo e un credente; ma che, se si con­sidera la rappresentazione con l'assenso, la facoltà sopran­naturale definisce un nuovo oggetto formale. Ora, in colui che ha la virti:1 della fede, purché ci sia presentazione suf­ficiente, la rappresentazione non è mai senza l'assenso.

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completa della concezione della fede nei sinottici e in Giovanni. Piuttosto è giusto invitare il lettore a ravvivare l'impressione d'insieme che, su questo ar­gomento, gli ha lasciato lo studio dei vangeli e a giudicare dentro di sé quale delle dottrine dibattute in queste pagine gli sembri presentare l'interpreta­zione più esatta di quei fatti normativi. È per que­sto che non sarà fuori luogo una breve ripresa di qualche parola e di qualche episodio a tutti noti.

È forse esagerato dire che negli evangelisti non si trova traccia di una concezione della verità o del­la credibilità secondo cui essa abbia luogo semplice­mente a partire dalle facoltà naturali e, in seguito, con un atto libero, venga trasformata in adesione soprannaturale? Non solo la teoria della fede che emerge chiaramente nel quarto vangelo, ma anche l'insieme delle concordanze che si possono rilevare nei sinottici possono riassumersi nelle seguenti tre idee: la vita terrena di Gesi.1 Cristo è la rivelazione di Dio agli uomini; secondo la carne, buoni e cat­tivi possono ugualmente percepire le parole e le ope­re di Cristo; ma l'intelligenza di queste parole e di queste opere, la conoscenza che, trapassando la car­ne, va fino allo spirito, la scoperta del Figlio di Dio nel Figlio dell'uomo non è di tutti: essa è appan­naggio di coloro che hanno buona volontà. Coloro che hanno buona volontà, poi, sono quelli che fan­no la volontà del Padre celeste, o-che è lo stesso­coloro che il Padre attira per darli al Figlio. La li­bertà è più accentuata nei sinottici, la gratuità in Giovanni.

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Nel vangdo, quando uno non crede, è perché non vede (che bisogna credere). Davanti al fatto miracoloso si evidenziano due atteggiamenti: o si crede, con una fede salvifica lodata da Gesù (dun­que con fede soprannaturale), oppure si resta «senza comprendere»: ciò significa che, pur avendo visto ve­rificarsi un evento prodigioso, non lo si interpreta come un indizio della missione divina di Cristo. Do­po la moltiplicazione dei pani e il passaggio di Cri­sto sulle acque i discepoli «erano enormemente stu­piti in se stessi perché non avevano capito il fatto dei pani, essendo il loro cuore indurito» 35

• Per que­sto viene loro detto «Non intendete e non capite ancora? Avete il cuore indurito? ... Non capite an­cora?» 36

• L'atteggiamento che si rimprovera loro non è quello di chi, pur comprendendo il miracolo come indizio di una forza divina, rifiuta di sotto­mettere la propria volontà; è quello di chi, spetta­tore di un fatto meraviglioso, tuttavia non si spinge più a fondo, ma resta alla semplice constatazione del fatto. Gli manca ciò che in linguaggio tecnico chiamiamo percezione dell'indizio, sintesi, assenso 37

:

è un difetto di intelligenza quello che si rimprovera loro.

Infatti nel Vangelo, quando uno non vede, è colpevole di non vedere. È per «durezza di cuore»

35 Mc 6,52. 36 001.0; voe~-ce: oùoe cruvle1:e:; ... 001.w cruvle-ce; (Mc 8, 17.21). lì Parte prima, pp. 46 ss.

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che non si può comprendere il miracolo. «Neanche se uno risuscitasse dai morti-leggiamo in Luca­saranno persuasi». E in Giovanni: «Sebbene avesse compiuto tanti segni davanti a loro, non credevano in lui» 38

• Questo stato di visione materiale e di ce­cità spirituale è attribuito, sia da Giovanni che dai sinottici, a quell'indurimento di cuore già predetto da Isaia, cioè al difetto di grazia, come diremmo in linguaggio teologico. «E non potevano credere, per il fatto che Isaia aveva detto ancora: Ha reso cie­chi i loro occhi e ha indurito il loro cuore, ecc.» 39

«Ve l'ho detto-leggiamo ancora nel quarto Van­gelo-non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio queste mi danno testimonianza, ma voi non credete perché non siete mie pecore. Le mie pecore ascoltano la mia voce»40

• L'ultimo testo, co­me è noto, è uno di quelli sui quali si basano co­loro che parlano di «determinismo giovanneo»; qua­le che sia l'esagerazione di questa teoria, tuttavia non si può negare, e anzi un cattolico deve essere il primo a riconoscerlo, che vi è, secondo Giovanni, una differenza, che potremmo chiamare fisica, tra i figli del maligno e coloro che sono nati da Dio. È ciò che si chiama la filiazione, l'elezione divina; è una nuova natura: la grazia santificante che ci fa credere, cioè vedere, nel mondo visibile, segni del mondo soprannaturale.

38 Le 16,31; Gv 12,37. 39 Gv 12,40; dr. Mt 13,14; ;\k .:1,12; Le 8,10. 40 Gv 10,25-27.

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Secondo il vangelo, inoltre, un nonnulla dovreb­be essere sufficiente a far vedere e, che è lo stesso, a far credere. Questo è il fondamento scritturistico di quanto dicevamo più sopra 41

: quanto più l'amo­re di Dio è vivo in un'anima, tanto più a quest'ulti­ma basta un tenue indizio per discernere la verità.

In Matteo, come in Giovanni, vengono biasimati co­loro che vogliono miracoli 42

• Ciò non significa che i miracoli non provino la missione di Cristo; signi­

fica piuttosto che, se gli uomini fossero meglio di­sposti, potrebbero riconoscerlo da segni più tenui e sottili: tali sono i «segni dei tempi» 43

; tale è la dottrina stessa che Gesì.1 predica; solo quando essa non è più sufficiente a persuadere, Egli rimanda ai miracoli 44

• Chi è puro non ha che da agire con pu­

rezza per comprendere che Cristo dice il vero 45•

La colpa dei giudei è dunque consistita in ciò: che, spettatori della vita umana del Cristo, non han­

no voluto vedere che egli era il Figlio di Dio: se Gesù non fosse venuto nella carne, se essi non aves­sero avuto questo meraviglioso spettacolo, «essi non

41 Parte prima, pp. 50 ss. 42 Mt 12,39: «Una generazione perversa e adultera pre­tende un segno!». Cfr. 16,4 e Mc 8,12. Gv 4,48: «Se non vedete segni e prodigi, voi non credete». 43 Mt 16,3; dr. Le 12,56. 44 Gv 14,11. 45 Le 12,57: «E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?»; Gv 7,17: «Chi vuol fare la sua volontà, conoscerà la (verità della) dottrina».

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avrebbero colpa»46• Al contrario, coloro che sono il­

luminati, coloro che credono, non si fermano alla visione carnale, ma riconoscono il Figlio di Dio. Co­me dice Giovanni, coloro che vedono lui vedono Co­lui che lo ha mandato: vedendolo essi vedono il Pa­dre 47

• Perché essi vedono? Perché hanno ricevuto dal cielo una nuova intelligenza: oÉoWXEV ·fiµi:v oLci:­

voLcw. Senza questa celeste facoltà sembra impossi­bile credere. Essi non possono credere, dice esplici­tamente l'evangelista 48

• Su questo punto san Paolo gli fa eco 49

• Ma non possiamo qui neppure sfiorare la dottrina della fede del grande apostolo. E tuttavia quali conferme ci porterebbe, dal celebre passo sul «velo» che copre gli occhi dei giudei 50 fino alla pa­rola, divinamente vera, su coloro che si perdono «per non avere accolto l'amore della verità!» 51

8. Ultime obiezioni

La concezione puramente razionale della fede ha gettato tra noi radici così profonde che perfino colo­ro che potrebbero condividere la dottrina tracciata

46 Gv 15,22; cfr. 9,39-41 fino a 12,40. 47 Gv 12,45; 14,9. 48 «Non potevano credere» (Gv 12,39). 49 l Cor 2,14.16: «L'uomo naturale... non è capace di intendere ... Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo». 50 2 Cor 3,13 ss. 51 2 Ts 2,10: «Con ogni sorta di empio inganno per quelli che vanno in rovina, perché non hanno accolto l'amo­re della verità».

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in queste pagine, coloro che vedrebbero con favore la teologia abbandonare una concezione così poco conforme alla ragione e alla esperienza, sentono na­scere in sé obiezioni e apprensioni. Terminiamo dun­que prevenendo alcune obiezioni.

Spero che non ci venga rimproverato, per aver affermato che la ragione naturale è incapace di per­cepire con certezza le prove della fede, di aver det­to che la fede non ha prove. Abbiamo insistito a sufficienza sul ruolo degli indizi estrinseci. Alla chie­sa non mancano i segni, anzi ne possiede moltissimi; tutto nel mondo prova la chiesa. Ciò che manca al­le prove sono piuttosto le intelligenze, e si può ri­prendere qui ciò che sant' Agostino diceva commen­tando una pagina evangelica: Nihil igitur vacat, om­nia innuunt, sed intellectorem requirunt 52

Sl In Joannem, Tr. 24 n. 6, PL 35, 1595. Cfr. Tr. 18, n. 11, ibid. 1543. Non è qui il caso di invocare, per mo­strare che la dimostrazione deve poter essere fatta attraverso il solo lume naturale, la proposizione che Bautain dovette sottoscrivere: «Qttamvis debilis et obscura reddita sit ratio per peccatum originale, remensit tamen in ea tam claritatis et virtutis, ut ducat nos cum certitudine ad existentiam Dei, ad revelationem ... » {Denzinger, Enchiridion 10, 1627). Si potrebbe a priori rispondere che, essendo qui il tradizio­nalismo l'errore condannato, il termine ra,~ione è opposto qui a tradizione e non all'illuminazione interiore e sogget­tiva delle anime. C'è di più: i documenti positivi appog­giano questa interpretazione. La successiva dichiarazione che Bautain sottoscrisse nel 1844 per ordine della sacra congre­gazione dei vescovi e dei religiosi, distingue le verità natu­tali, come quella dell'esistenza di Dio, delle quali essa di-

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Ma, potrebbe dire qualcuno spingendo il discor­so all'estremo per una lodevole preoccupazione di chiarezza, supponiamo che un profeta resusciti un morto per provare che le sue parole possiedono la garanzia divina; l'intelligenza degli spettatori non sarà forse naturalmente convinta che essi sono in presenza di un'attestazione del Dio infallibile?53

• L'e­sempio è chiaro e molto adatto a mettere in luce ciò che ci separa da quei teologi che ci permettiamo di contraddire. Non abbiamo bisogno di ricorrere, co­me molti hanno fatto ingegnosamente 54

, alle molte ragioni di dubbio che la pigrizia e la leggerezza uma­na potrebbero accumulare in un simile caso; tro­viamo invece il nostro motivo per negare la possi­bilità di un reale assenso nel carattere soprannatu­

rale della verità annunciata. Ma, si potrebbe obiet­tare, niente manca all'assenso: né l'intelligenza dei

termini né la certezza della connessione! Manca però un soggetto atto a vedere, una facoltà capace di ope-

ce che possono essere conosciute «con la sola ragione ... con il solo lume della retta ragione», dai motivi di credibilità, a proposito dei quali essa non impiega alcun termine così esclusivo (cfr. Denzinger, op. cit., p. 434, nota). Infine, tra le tesi sottoscritte da Bonnetty, vi è una esplicita aggiunta: «Rationis usus fìdem praecedit et ad eam hominem ope revelationis et graliae conduci!». (Op. cit., 1651 ).

53 Cfr. Gardeil: La Credibilité, pp. 73-96, e Diction1111ire de theologie catholique alla voce Credibilité, coli. 2215 ss. s4 Lugo: De virtute fidei divinae, disp. II, sect. 1, n. 22 ss., 47 ecc. Hugueny: Revue thomiste, maggio-giugno 1909, e altri.

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rare la sintesi, e perciò manca tutto. La sintesi è ir­riducibile agli elementi sintetizzati. Quale strada prenderà lo spirito sviato davanti al prodigio che stiamo considerando? Un dubbio sul fatto? Una pre­ferenza per l'esperienza ordinaria e acquiescente ri­spetto al fenomeno eccezionale e stimolante? L'af­fermazione temeraria di una verità capovolta? Lo ignoro, ma poco importa. Comunque una via gli è preclusa: quella dell'affermazione legittima.

Bisogna infine osservare che la necessità di un aiuto spirituale e gratuito per la percezione di cui stiamo parlando riguarda l'uomo nella sua vita ter­rena intesa come prova, come «pellegrinaggio». Dae­mones credunt, et contremiscunt! La conoscenza pro­pria di uno spirito nell'eternità, quando possiede una coscienza diretta del suo rapporto con il fine ultimo, non deve essere concepita come «libera» allo stesso modo della nostra. ma come tutta permeata di affe­zione. L'angelo o il beato vede Dio così come lo ama 55

• Il demone crede 56 in quanto, tendendo a Dio con tutta la sua natura, sente però che tutta la sua persona ne è respinta. Il soprannaturale lo penetra, ma egli lo sente, come è stato eletto, nel vuoto. Così

55 Cfr. san Tommaso, r, q. 12, art. 6. 56 Si tratta qui di fornire la ragione dell'assenso come tale, e non quella della conoscenza dei differenti dogmi de­terminati. Su quest'ultimo punto non mi sembra vi sia nulla da aggiungere a ciò che dice san Tommaso (ua uae, q. 5, art. 2). Ma le due questioni sono distinte in questo caso così come nel caso studiato pi11 sopra (Cfr. p. 88 e nota 19).

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questo dibattito sulla «fede dei demoni» che può sembrare così arcaico e stravagante, serve anch'esso a far risaltare la differenza tra le due concezioni della conoscenza che necessariamente si scontrano lungo tutta la storia del trattato della fede. Per gli uni l'intelligenza si correda di un doppio intelleggi­bile de.1le cose, e tali rappresentazioni non sono in­trinsecamente modificate dal dinamismo globale del soggetto; per gli altri, ciò che vi è di più conoscente nella conoscenza, dipende essenzialmente dal rapporto del soggetto con il suo fine ultimo.

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