Con gli occhi di Emily

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Sabrina Ferri, mainstream

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SABRINA FERRI

CON GLI OCCHI DI EMILY

 

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CON GLI OCCHI DI EMILY Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-483-3 Copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Febbraio 2013 Stampato da

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A Gero,

perché so che ci sei...

A tutti quelli che hanno perso le loro battaglie

e a chi sta ancora lottando.

Ai sogni e alle stelle, per esserci sempre.

Alla vita,

che è la cosa più bella.

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Ho aperto gli occhi e finalmente nel buio più oscuro ho scorto te. Troppe volte ti ho cercata invano dubitando della tua esistenza. Troppe volte hai visto il mio viso scavato, consumato dai giorni eterni e rigato dalle lacrime di un cuore affranto. Eppure ora sei qui, qui accanto a me. La tua mano stringe la mia; il battito del tuo cuore è il battito del mio cuore, il tuo respiro è il mio respiro… Ecco, adesso, lo so, sei entrata in me. Sento già che qualcosa sta nascendo mentre penso che da domani è un nuovo giorno. Eccoti, finalmente adesso ti possiedo ma ti prego non andare, non lasciarmi perché è solo al tuo fianco che io voglio camminare; continua a stringere la mia mano e io lotterò con te, Speranza.

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Parte prima

MARZO

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È notte. Il silenzio aleggia in una fitta coltre di oscurità, la paura sviscera l'anima e il dolore è una morsa stretta attorno al cuore. L’infermiera si è richiusa la porta alle spalle con un rumore quasi impercettibile, completando il regolare controllo per le stanze. È stato appena pochi istanti fa che ho sentito i suoi passi riecheggiare nel corridoio e fermarsi davanti alla mia camera. Ho percepito il suo volto sbirciare attraverso la fenditura scavata ad altezza occhi nella porta dipinta di un blu non troppo scuro. Poi la sua mano poggiarsi sul pomello. Clic. È entrata. Ho visto la luce della torcia vagare nel buio come impazzita, rimbalzando da una parete all’altra alla ricerca del mio corpo disteso su questo letto che non è il mio. Mi ha trovata. Un alone di calore si è fissato sul mio viso per qualche istante. Ho trattenuto il respiro e ho fatto finta di dormire, muovendo le palpebre come si fa nei sogni. L'ombra nera immobile al centro della stanza ha atteso qualche istante, illuminata solo dal flebile fascio di luce proveniente dall'andito, e, dopo aver spento la torcia, l'ho osservata uscire con gli occhi ridotti a una fessura. Ora sono di nuovo sola nel buio che mi circonda. Le tenebre mi avvolgono quasi a volermi cullare tra le loro grinfie. L'imponente vecchio armadio addossato alla parete restituisce la figura di un essere mostruoso pronto ad aprire i suoi artigli su di me. Singhiozzo. Un singhiozzo silente accompagna il mio pianto soffocato. Una lacrima scende lenta solcando il viso mentre avverto il gelo insinuarsi fin dentro le ossa. Cerco allora di afferrare i miei capelli sui gomiti, vorrei arrotolarli sulle dita e piantarli in bocca per placare la crisi di pianto. Ho sempre adorato il sapore dei capelli tra i denti, quel connubio perfetto tra saliva e gusto di ruggine. Le mani, però, sfiorano soltanto un lembo di manica della camicia da notte. Dimenticavo, i miei capelli non ci sono più. La testa poggiata su un collo emaciato è ridotta a una specie di cranio scarno e neonatale. Stringo le ginocchia al petto

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assumendo la tipica posizione fetale. Sono un essere anonimo adagiato in una branda. Né donna, né uomo, né infante. Abbasso le palpebre e, improvvisamente, mi lascio rapire da un fugace ricordo che, senza nemmeno chiedermi il permesso, si è già insinuato nella mia mente. Non si piace più. Da un po' di tempo si vede grassa. Pensa di avere le cosce grosse, troppo in carne per un'adolescente della sua età. Ha iniziato una dieta e non vede l'ora di dimagrire ancora. Non capisce come gli altri possano considerarla una bella ragazza. Deve perderli quei chili, deve scendere di peso, deve poter salire sulla bilancia ed esultare. Solo così potrà essere perfetta. Magra e affascinante. Afferra la spazzola fucsia sul lavabo e nota la scatola di assorbenti appoggiata in un angolo. Sua madre li ha sistemati lì, pronti nel caso dovesse tornarle il ciclo mestruale. Ma da tre mesi quel fastidio non la riguarda più. L'assenza di mestruazioni si chiama amenorrea e quel nome le batte la testa come un chiodo fisso. Ma a lei non importa dell'amenorrea. E non le importa nemmeno di tutte quelle stupide storie che le racconta la madre sull'infertilità. Lei ha un solo obiettivo e lo vuole raggiungere a tutti i costi. Sfrega energicamente la spazzola sui lunghi capelli biondi che le incorniciano il volto appuntito. A guardarsi nello specchio un senso di nausea la assale. Occhi grandi di un nero profondo. Lei ha sempre odiato gli occhi neri. Li avrebbe voluti avere azzurri come il mare e profondi come gli oceani, ma Madre Natura le ha dato un paio d'occhi anonimi e freddi che con il color dell'oro dei suoi capelli non c'entrano affatto. Quando ripone la spazzola accanto al rubinetto, sui dentini vede incuneate decine di ciocche. Sussulta e scuote la testa. Crede che quei capelli non le appartengano più ormai, lei ha smesso di essere donna. Semplicemente ha smesso di essere qualsiasi cosa. Non è nulla, non è niente, non è nessuno. In lontananza sente una sirena arrestarsi e quasi riesce a vedere i portelloni aperti e la barella che scende in strada. Non ha ancora molto tempo. L'ambulanza è arrivata per portarla lontano da casa. Sua madre le ha detto di andare in bagno a cambiarsi e poi ha vomitato sul pavimento perché si è sentita in colpa per aver chiesto il ricovero di sua figlia. Sua madre è una stronza. Sua madre è la sua nemica numero uno. Sua madre è la causa di tutto. Sorride all’immagine riflessa nello

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specchio. I denti ingialliti e graffiati la fanno sembrare una strega. Poi torna seria. Prende le forbici dalla scatola di ciarpame riposta sulla mensola del bagno e comincia a tagliare. Non ci pensa due volte. L'unica cosa che le viene da chiedersi è perché sua madre abbia lasciato le forbici in bagno dopo l'Inizio del Male. A ogni modo taglia, taglia via tutto fin quando non vede cadere anche l'ultima ciocca come l'ultima foglia che cade su un folto fogliame, lasciando il suo albero nudo e spoglio, e trasformandolo in un insignificante scheletro di rami svestiti. Rabbrividisco, ascoltando a pugni stretti i battiti del mio cuore. Li ascolto uno a uno. È un pulsare irrequieto che sa di malinconia. La testa, poi, è una bolla di pensieri e deliri vaneggianti. Parole e frasi che si ripetono, che non smettono di perseguitare il mio cervello. Peso, ossa, calorie, bilancia, grasso, cibo. Pensieri maniacali che non sono facili da scacciare via, soprattutto quando sono loro a imporsi e ad asfissiare ogni squarcio di pura razionalità. Non riesco a prendere sonno e a pensare ad altro. Mi sento vuota, essiccata di ogni emozione positiva. Si dice che in fondo, da qualche parte, ci sia una luce, ma io la mia luce in questo tunnel oscuro non riesco proprio a scorgerla. Penso a me, al corpo nel quale mi ritrovo a vivere, o forse a morire, e mi tormento chiedendomi se poi questa sia stata davvero una scelta voluta. Non lo so, non so niente, non so come sia successo. So solo quando tutto è iniziato. So anche che non si sceglie di odiarsi. Tuttavia io mi odio; odio quello che sono, odio il mio aspetto, odio la mia faccia, odio la mia vita. Odio ogni cosa del mio esistere. Per gli altri sono sempre stata un fantasma, persino per i miei genitori. Una timida introversa senza un briciolo di carattere. Mi sono sempre sentita diversa da tutti i miei compagni di classe perché a me bastava uno sguardo di un professore per farmi arrossire e sentire giudicata. A loro no. Loro erano sfacciati, disinibiti, senza timori. Ero io che vivevo rintanata nel mio guscio. Forse è per questo che alla fine sono scoppiata ed è accaduto tutto. Ora, oltre l'odio, dentro di me non rimane nient'altro che cenere. Ho smesso persino di sentire il mio corpo, di sapermi persona, e quasi stenterei a credere di essere viva se non ci fosse questo luogo in cui mi trovo adesso a rammentarmelo. C'è solo un'ultima parte che rimane estromessa da quell'odio. Quella parte che è il mio unico appiglio alla

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vita concreta, terrena, tangibile. È il mio razionale ed è una voce che posso ascoltare soltanto io perché lei fa parte di me, appartiene a me e a nessun altro. Si chiama Matilda e nonostante sappia che non esiste nessuna Matilda, continuo a parlare con lei come se ci fosse davvero, come se sentissi la sua vocetta bambinesca rimbombare tra i miei neuroni e non sapessi, invece, piuttosto, che è tutto frutto della mia stupida immaginazione. Eppure io la sento e non posso rinnegarla. Senza Matilda non potrei vivere, senza Matilda la follia si impadronirebbe di me e non mi lascerebbe alcuna via di scampo. Shhh, zitta. Taci e ascolta. Tendo le orecchie sbarrando gli occhi nel buio. “Cosa, cosa devo ascoltare, Matilda?” domando a labbra serrate, semplicemente interrogando il mio Io più profondo e ipotizzando che, forse, anche Matilda è un altro dei miei pensieri sommari. Questo grattare. Viene dall’altra stanza, ascolta. Qualcuno sta piangendo e bussando alla parete. Un mugolio soffocato si confonde a una serie di singhiozzi asmatici. “Lascia perdere. Non sono affari nostri.” Nascondo la testa sotto al cuscino. Non voglio ascoltare. Ho già il mio pianto da asciugare. Ma quel bussare è un bussare e grattare che va avanti da un po'. Si è fermato soltanto per qualche minuto, ma è ricominciato non appena l'infermiera di turno è uscita dalla mia stanza, la numero dodici, l'ultima in fondo al corridoio. So da dove viene questo rumore. Dalla camera di Amanda. Lei è nella Casa dei matti da oltre dieci anni. Sì, perché è così che la chiamano ed è così che la conoscono tutti. La Casa dei matti. Che nome buffo per un luogo tetro e infelice come questo. Qui vengono a starci solo i matti. È una clinica per malati mentali. Se io sono una malata mentale? Credo di sì, ma non come Amanda. Amanda è una pazza nel vero senso della parola. Meglio tenersi alla larga da quelle come lei. I matti. “Non mi importa di quella pazza di Amanda. Facciamo finta che non ci sia nessun rumore, nessun pianto, e tutto sarà più facile.” Sei nella Casa dei matti. Tu, agli occhi degli altri, non sei poi così diversa da Amanda. Perché ti ostini a rifiutare la realtà?

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Ho sentito tante volte la gente parlare di questo posto. In città la direttrice è una donna di fama. Tutti credono di conoscerla, anche se poi sono in pochi a conoscerla davvero. Lei non è un mito, al contrario, è una pazza. Ma per quelli che vivono là fuori è e resterà sempre un mito. Ben quarant'anni fa è stata lei a tirare su la Casa dei matti dopo il suicidio del fratello schizofrenico; è stata lei a offrire alle famiglie dei matti una flebile speranza e ad accogliere per prima i diversi e i reietti della società. Ma la direttrice non è una buona donna, anzi è la donna più malvagia che abbia conosciuto in tutta la mia vita. È una bestia umana, un mostro senza un briciolo di cuore. Mi stringo convulsamente al cuscino cercando di ricordare gli ultimi momenti spensierati della mia misera vita. Come sarebbe bello poter dormire ancora nel mio letto, alzarmi e scoprire tutto d’un tratto di aver fatto soltanto un brutto incubo. Ma la realtà purtroppo è un’altra. La realtà è che quando gli altri credono che tu sia matta, allora non puoi fare niente per opporti e, alla fine, finisci col dubitare di te stessa e di credere di essere caduta nella pazzia. All'inizio credevo di poter resistere, ma poi ho capito che non avrei potuto nulla contro di loro, contro la direttrice che ha in pugno la mia vita. Quando ti definiscono un caso difficile come tanti altri, quando parlano di te come di una malata, quando ti lanciano sguardi circospetti, allora è la volta buona che smetti semplicemente di esistere. Non più donna, non più materia umana, ma un'etichetta, un caso da studiare e risolvere. Loro pretendono di entrare nel mio universo inespresso e di aprire le porte della mia mente. Ma una pretesa non può essere la chiave solutiva. Sai come ti chiamano? L’Anoressica. È questo che dicono tutti di te. “Matilda, sai che odio quella parola. Smettila di pronunciarla in continuazione. Devi smetterla!” Maledizione, voglio essere lasciata in pace. Il mio è soltanto un modo di stare al mondo, una forma di Equilibrio Instabile dove non si sta né bene né male. Un punto morto in cui la mente comanda sul corpo, nel quale endorfine repulse si sprigionano a ogni milligrammo che se ne va. La mia felicità è tutta qui. Non ho bisogno di mangiare per vivere. E quando il cibo diviene una costrizione, allora la mia diventa una forma di sopravvivenza. In fondo sopravvivere è quello che ho imparato a fare in questo reparto. Si sopravvive alle mani degli infermieri che ti

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imboccano a forza fino a farti salire i conati di vomito, si sopravvive al senso di gonfiore che ti assale dopo, si sopravvive alle sedute degli strizzacervelli e a quelle del dietologo che, una volta ogni due giorni, ti aggiunge cibo alla dieta. Si sopravvive ai rudi comportamenti della direttrice, la bestia o Regina dei matti come la chiamo io, e persino agli altri matti che urlano e fanno cose insensate, che ti guardano con gli occhi cerchiati e si chiedono perché tu faccia tante storie per mangiare. Si sopravvive a tutto, anche quando si desidera la morte più di ogni altra cosa. Mi sveglio con la bocca impastata e con la sensazione di non aver dormito per niente. Quanto avrò dormito? Tre? Quattro ore al massimo? L’ultima cosa che ricordo è la voce di Matilda che mi aiutava ad addormentarmi intonando una nenia che mia madre mi cantava sempre da bambina. Faceva più o meno così Dormi, dormi mia stellina La notte si avvicina E i sogni, i sogni grandi e tanti Sarà d’oro e di diamanti Ricordo che avevo a malapena otto anni quando smise di cantarmela. Ero diventata grande. Anche se, mi sono sempre domandata, chi fosse mai quel ciarlatano che andò raccontando in giro che a otto anni si è già grandi. Per me si può vivere anche una vita restando piccoli e indifesi, pur diventando vecchi e zoppi. È lo spirito quello che conta, non il corpo. Lo spirito sopravvive agli anni, all'età, persino alla morte. Resto in silenzio a guardare la luce del giorno filtrare. I canti dei passeri, fuori, mi danno il buongiorno, vestendomi di una tristezza infinta. Tanti auguri a te, tanti auguri a te, cantano a squarciagola. Tanti auguri a te. Ripete Matilda schiamazzando. Già, lo avevo dimenticato. Oggi è il mio stupido compleanno. Davvero strano compiere gli anni in una simile realtà. Che significato dovrebbero avere questi miei sedici anni? Non significano assolutamente nulla. In questo tempo e in questo spazio i matti sono burattini e i burattini non hanno età. Oggi è solo un giorno come un altro del quale avrei fatto volentieri a meno. Lascio roteare gli occhi

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dall’alto in basso, da destra a sinistra e dopo uno sbadiglio megagalattico mi tiro su a sedere. La stanza è sempre la stessa di ieri notte, ma noto, con una punta di piacere, che l’oscurità si è finalmente dissolta. Ora timidi raggi di luce rischiarano gli angoli bui della camera trapassando attraverso piccoli spiragli. L’armadio a quattro ante, che fiancheggia la finestra, non è più un orripilante mostro a quattro teste. È solo un vecchio armadio graffiato e ammaccato. Il letto al mio fianco, invece, è il solito anonimo letto, con la sua inestricabile piega sulle coperte celesti. In due settimane e cinque giorni su quel letto non ho mai visto dormire nessuno. In ogni caso meglio stare soli che dormire con un matto come Amanda al proprio fianco. Faccio dondolare i miei piedi fini e bianchi come il latte prima di cacciarli nelle ciabatte e trascinarmi alla finestra. Appena sollevo la serranda, la luce forte del mattino mi investe attraverso le grate. In questa finestra si prospetta il mio sguardo sul mondo, uno sguardo occultato da una lastra in plastica infrangibile e una griglia al suo esterno costruita con corpulenti sbarre in ferro del tutto consunte dalla ruggine. Le regole della Casa non ci permettono di avere delle finestre da aprire e chiudere a piacimento ma soltanto degli oblò dalla forma quadrata. L'aria filtra attraverso degli speciali impianti che consentono il ricambio ogni due ore. Fisso lo sguardo sulla telecamera montata in un angolo del soffitto. Vorrei sputare in quel suo occhio nero e rotondo e poi prendere una mazza da baseball per ridurla in poltiglia. Ci controllano. Ogni nostro movimento viene registrato. Poggio una mano sull'oblò. Fuori, lontano, una melodia classica si confonde con il canto dei passerotti. È un ritmo lento, dolce, soave. L'ho già ascoltata altre volte senza mai capire davvero da dove provenisse. Guardo sotto. Il prato verde appare ricoperto da una distesa di margherite mentre, più in là, oltre gli arbusti decennali, oltre i loro rami ripiegati e intersecati cosparsi di un acceso vestito di foglie, oltre il muro di cinta che circonda l'edificio, scorgo l'ombra del Colosseo e dei turisti che si accalcano per guardare fuori dai suoi buchi-finestre. Perlomeno la Casa è un bel posto per ammirare Roma. Lascio volare la mente fino a immaginare l'altra parte del giardino, quella che affaccia sull'entrata e non sul retro, quella proprio accanto al cortile. A occhi chiusi osservo un paio di altalene che si muovono spinte dalla mano del vento, c'è il gazebo con i tendoni in plastica e la lunga tavola in legno al

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suo interno dove, alcune volte, gli infermieri ci fanno disegnare e dipingere. Una regola positiva della Casa è quella che prevede di far scendere i matti in giardino dalle nove alle undici di ogni mattino e per altri permessi speciali. Riapro gli occhi. In alto vedo il cielo di un celeste chiaro. Cavolo, che bello! A Matilda il cielo piace da morire e a vederlo così sembra proprio uno specchio di mare animato da nubi grigiastre. Anche a me piace il cielo, ma questo che vedo adesso non è lo stesso cielo che si vede da casa. No, non lo è affatto. A casa, nella mia casa, le finestre si possono aprire, l’aria e il vento possono entrare e incanalarsi nel mio respiro. Qui, invece, il mondo esterno è solo un acquario sopra e sotto i nostri piedi, ecco cos'è. È solo quando scendo in giardino, ogni mattina, che mi concedo di alzare il naso e fissarlo, il mio cielo, quasi potessi immortalare la sua immagine estesa, nitida nella mia mente. Spesso me ne resto lì, distesa su una panchina, accarezzata dal vento e sfiorata dal profumo inebriante dell'erba mentre gli altri matti si intrattengono in disegni e stupidi giochi sotto al gazebo. A volte mi capita di fissarmi a guardare a testa in giù anche gli alberi di foglie rosse sparsi per il giardino. Devono essere molto vecchi, forse molto di più di questo posto. Poi vedo il muro che divide la strada dalla Casa. C'è il cancello a due ante sovrastato da dieci punte di lance su cui affaccia l'intera ala destra della Casa. La mia stanza è proiettata sulla facciata sinistra ed è per questo che riesco a vedere l'altra parte del giardino soltanto quando scendo con gli infermieri. Però quando voglio posso vederla con la forza dell'immaginazione. Con la sola forza della mia mente so che posso vedere ogni cosa. Oltre il cancello, dritto per dritto c'è una discesa asfaltata che sfocia in via dei Fori Imperiali mentre, subito a sinistra, un sentiero boscoso e ripido conduce dirimpetto al Colosseo. Ma quella stradina si può percorrere solo a piedi poiché per raggiungere la Casa è necessario salire pioli massicci e stretti che non basterebbero a contenere due paia di gambe. C'è così poca distanza tra il dentro e il fuori... eppure un muro e un cancello bastano a dividerci. Da una parte ci siamo noi, i matti. Dall’altra c’è la libertà, e c’è la vita, quella vera. La vita di tanti altri sedicenni che vanno a scuola, fanno bravate, sognano ancora un futuro. Loro sì che possono sperare nei sogni. I sogni, in fondo, sono tutto, e finché ci saranno i sogni ci sarà sempre

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anche una speranza. Ma qui i sogni sono soltanto delle illusioni. A noi matti non è concesso sognare e poi chi vorrebbe mai realizzare il sogno di un matto? Non sei folle, Emily. E lo sai benissimo. Sussurra Matilda mesta. “Ti sbagli. Sono pazza! Se non lo fossi non mi troverei in questo marciume. Una clinica di neuropsichiatria infantile." Ma questo non significa che tu sia pazza. Puoi convincertene, certamente. Ma credimi, non è così. Gli altri magari lo possono pensare ma tu sei solo… “Solo cosa? Vedi, nemmeno tu sai che cosa sono. Se ci pensi sono proprio come te, Matilda. Un’anima smarrita senza identità.” La valigia con i vestiti è sotto al letto. Non mi piace tenere le mie cose in un armadio che non è il mio. La tiro fuori con un po' di fatica e Matilda mi aiuta a scegliere un maglione nero con tanto di jeans scuro. Un vestiario decisamente pesante per la stagione primaverile, ma comunque adatto come palliativo al freddo che sento nel corpo. C’è anche un beauty case incastrato di lato. Ci ho infilato dentro qualche trucco prima del ricovero. È successo poco più di due settimane fa, ma sembrano già trascorsi degli anni. È colpa sua, se ci ripenso, è tutta colpa sua. Mia madre ha chiamato il 118 e mi ha fatto trascinare a forza fuori dal bagno da due paramedici che hanno sfondato la porta. Mi hanno ritrovata con le ginocchia incrociate, un cumulo di capelli ammassato in un angolo e una testa completamente rasa. Tua madre l’ha fatto per il tuo bene. E se la tua famiglia non venisse a trovarti tutti i giorni, tu saresti già bella che defunta qui dentro. Pensaci, la tua famiglia ora, è l’unica certezza che hai. “Matilda, va al diavolo! Io li odio, capisci? Li odio come odio me. Come devo dirtelo? Non potrò mai perdonarli per quello che hanno fatto. Mai!” Un inconfondibile aroma di caffè si spande per tutto il corridoio mentre cerco di far avanzare i piedi infreddoliti. In lontananza riecheggiano le voci dei matti alle prese con la prima colazione. I matti si alzano presto al mattino. Alle nove vogliono essere già tutti pronti per scendere in giardino, per disegnare e mangiare qualche bolla d'aria. Sento Paride urlare come un bambino perché vuole andare a rubare un gelato. Le sue urla stridule echeggiano in ogni angolo del reparto. La voce pacata di Andrea, che si mormora sia qui per aver tentato di

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sterminare la sua famiglia, cerca di spiegare che i gelati non si rubano ma si comprano. Matti. «Emily?» Mi volto, è Charlotte. La sua espressione titubante e spaventata al tempo stesso stempera in due piccole fossette ai lati del viso. Charlotte ha origini marocchine e la sua pelle ha davvero un bel colorito caramello. Sua madre è nata e cresciuta in Marocco, ma ha sposato suo padre qui in Italia. La vedo corrermi incontro e saltarmi al collo euforica. «Sì, sono io! Ciao Charlotte. Che fai, anche tu destinazione bagno?» domando stringendo i vestiti al petto e improvvisando uno sbadiglio forzato. Charlotte è l'unica vera amica che sia riuscita a farmi in questo posto e, nonostante la sua deficienza, è probabilmente anche la più normale che sia riuscita a scovare. Con lei mi trovo bene e la sera, prima di coricarci, restiamo insieme, nella mia o nella sua camera, ingannando il tempo che sembra non voler trascorrere. Ma non ci tratteniamo mai oltre una certa ora. Alle dieci tutti i matti devono essere nei loro letti con le luci spente. Alle dieci e venti minuti esatti l'infermiere cui spetta il turno di notte passa con una torcia per tutte le stanze e se qualcuno è ancora in piedi con la luce accesa il giorno dopo gli viene tassativamente proibito di scendere in giardino. Chi viola le norme della Casa deve essere messo in punizione e non può muoversi dalla sua camera per l'intera giornata. È costretto a rimanere seduto con la faccia rivolta al muro per dodici ore di fila e se solo prova ad alzarsi, anche per andare al bagno, rischia di vedersi protratto il castigo per tutta la giornata successiva. I bisogni possono essere espulsi direttamente dentro i pantaloni, spetterà poi agli infermieri aiutare lo sventurato matto a ripulirsi e a indossare abiti puliti. Ovviamente nessuno al di fuori della Casa sa di questo. Quello che accade dentro non deve uscire fuori e naturalmente la paura ci impedisce di parlare. Tuttavia, nonostante i rischi, io e Charlotte ci intratteniamo fino alle dieci in punto. Il più delle volte sono io a parlare e Charlotte annuisce ripetendo a pappagallo tutto ciò che dico, proprio come farebbe una ragazzina di dieci anni che comincia a muovere i suoi primi passi nel mondo. Perché Charlotte è una decenne, o meglio una diciassettenne intrappolata nella mente di un infante. La sua malattia è molto strana. È come se la sua sfera psico - cognitiva fosse regredita improvvisamente

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a un'età bambinesca. A un certo punto ha smesso di crescere mentre il suo corpo, però, continuava a mutare. Charlotte alza le braccia al cielo e si stiracchia un po’. La camicia da notte azzurrognola le sale fin sopra le ginocchia scoprendo un paio di gambe lunghe e mulatte. «Stavo venendo a svegliarti, quando mi sono ricordata che…» Charlotte si interrompe e fissa un punto impreciso accanto alla mia spalla. La scruto attonita. Ci risiamo. Ancora quello stato catatonico cui non sono riuscita a trovare una valida spiegazione. È così che accade ogni volta. Un momento parli con Charlotte e il momento dopo lei sparisce, si annulla, è come se per qualche interminabile istante smettesse semplicemente di essere viva. Potrebbe caderle un masso accanto e lei rimarrebbe immobile con lo sguardo spento e la testa al mento. I medici dicono che, forse, questi improvvisi stati di in-attività potrebbero essere dovuti a vaghe reminiscenze che si insinuano nella testa di Charlotte e che lei potrebbe quindi in qualche modo ricordare qualcosa del suo passato, degli anni che la sua memoria ha cancellato, gli ultimi sette della sua vita. «Charlotte, tutto bene?» le chiedo avanzando verso di lei di uno o due passi e indagando i suoi occhi piccoli e scuri notevolmente distanziati l’uno dall’altro. «Charlotte è una stupida» sentenzia balbettando con una mano battente alla fronte nuda e riemergendo dal suo stato di in-attività. Mi avvicino. Provo a toccarla ma lei si fa indietro portando il pollicione alla bocca. «Perché dici questo? Non è vero.» «È una stupida. Ha dimenticato che oggi è un giorno speciale» fa lei con aria ingenua e puerile. Non è la prima volta che Charlotte parla di sé utilizzando la terza persona. Lo fa ogni qualvolta sa di aver commesso un errore e pensa di essere una bambina cattiva. Sento il cuore stringersi in una morsa di commiserazione. So a cosa si riferisce Charlotte. Proprio ieri le ho raccontato che oggi sarebbe stato il mio compleanno. «Un giorno speciale. Quando compi gli anni, si dice che è un giorno speciale» le ho detto. «E perché è un giorno speciale?» mi ha chiesto lei con gli occhi spalancati dall'emozione. «Perché si diventa grandi e si ricevono anche tanti regali. Tu ne hai mai ricevuti?» ho domandato.

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«Non so, non mi ricordo se mia madre me li ha mai fatti questi regali» ha risposto lei. Charlotte adesso si sente in colpa e scuote la testa rammaricata. «Emily compie gli anni e ho dimenticato il regalo. Nei giorni speciali si fanno i regali. Emily diventa grande e io no. Io sono una bambina cattiva!» «Charlotte, smettila!» È questo il problema. Charlotte sta per compiere diciotto anni e tra un mese sarà libera di poter firmare un paio di fogli e uscire una volta per tutte dalla Casa. A diciotto anni si può tutto, si è liberi di poter fare tutto ciò che si vuole, nessuno è costretto a restare per sempre. Soltanto la Regina dei matti può decidere di consigliare un eventuale prolungamento della degenza con un conseguente trasferimento ai piani inferiori, la parte più antica della Casa e il ricovero dei matti adulti. La Casa è infatti divisa in due piani. Al piano superiore ci siamo noi adolescenti mentre a quello inferiore ci sono i grandi. Ma in quel caso il ricovero non sarebbe assolutamente coatto perché dovrebbe essere Charlotte a volerlo e non certo i suoi genitori. A meno che la direttrice non pronunci la sua "sentenza" di interdizione mentale. Se per la Regina dei Matti si è incapaci di intendere e di volere, il ricovero diventa forzato e ribellarsi o reagire non servirebbe a nulla. Ma Charlotte la matta tutto questo non lo sa ancora. È convinta di avere dieci anni e di essere orfana. Crede che i suoi genitori siano morti quando era piccola. Me l’ha raccontato un giorno Rosa l'infermiera, quando ho visto per la prima volta Charlotte correre nel corridoio urlando che i suoi genitori erano morti, mentre i suoi genitori in realtà erano alle sue spalle che gridavano di essere lì, vivi e vegeti. Li ho visti una sola volta. Sua madre sembrava una pantera, slanciata e filiforme, suo padre, invece, era un bianco non troppo alto. Da quel giorno non sono più tornati. Ma non dimenticherò mai quella scena, le loro facce incredule e prive di ogni speranza. Forse è vero quello che dicono. Chi entra nella Casa è destinato a lasciare ogni speranza fuori. «Buongiorno Emily. Tantissimi auguri!» Rosa esce dal magazzino trainando un carrello con uno strano marchingegno integrato. Ha il solito camice blu e un’aria visibilmente trasognata. Due lunghe occhiaie si confondono con il colore dei suoi occhi tinti di grigio. Rosa è davvero una delle poche a ricordarsi sempre dei compleanni di tutti.

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La considero una delle migliori qui dentro. Lei sa sempre come strapparti un sorriso. «Grazie. Che c’è lì?» domando indicando il macchinario bislacco. Rosa scopre il telo verde che lo ricopre a metà. Rabbrividisco tenendo stretti i miei vestiti al petto. «Una cuffia bianca con ventose. Somiglia tanto a quelle cuffie che indossano i campioni di nuoto. Cos’è?» «Non temere, non è per te Emily, è per Charlotte. Serve per fare l’elettroencefalogramma. Per vedere che cos'ha in questa testolina.» Ma certo che non è per me. Probabilmente questo elettroencefalogramma è una cosa che possono fare solo i matti. I veri matti. E forse io non lo sono. Eppure quando vedo passare gli infermieri con tutti questi macchinari non posso fare a meno di tremare e scongiurare la paura. Come cancellare le sevizie subite nei miei primi giorni di ricovero? Dopo essere stata sballottata in clinica, sono stata sottoposta a decine di visite. Sono stata depositata su un lettino e invitata a sfilare ogni indumento, restando nuda di fronte alla direttrice, ai dottori e agli infermieri. Sono stata costretta a soffocare la paura mentre un ginecologo faceva il suo lavoro e alcuni paramedici mi posizionavano ventose sul petto scoperto. Sono stata spinta su un freddo piatto di bilancia nella stanza maledetta, il tugurio, una squallida camera angusta senza finestre e con formiche e altri insetti che camminano sul pavimento. E ho obbedito, ho fatto ciò che mi veniva chiesto, anche se dentro urlavo. «Non le farà male quest'elettrociframma, vero?» «Si chiama elettroencefalogramma. Ovvio che no. Stai tranquilla» sentenzia Rosa con le mani ai fianchi sottili. «Però adesso piccoletta vatti a vestire e corri a fare colazione. So che oggi ci sarà una bella festa. E tu, avanti, Charlotte. In camera.» Mi piace quando Rosa mi chiama piccoletta, anche se dovrei essere io a chiamarla così, data la sua piccola stazza. Anche Rosa sa che oggi ci sarà una festa, la mia festa. La Regina dei matti mi ha concesso uno di quei fatidici permessi speciali. Lancio un’occhiata a Charlotte mentre Rosa scompare in fondo al corridoio con l'affare per l'elettroencefalogramma. La stanza di Charlotte è proprio di fronte alla mia. «Charlotte, devi andare. Mi senti?».

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«Emily, sì. Ma che mi succede? La mia testa, mi fa male» lamenta lasciando che una lacrima le scenda zigzagando giù per il viso. La stringo mentre la sento finalmente sciogliersi tra le mie braccia. «Va tutto bene. Adesso vai.» «Non voglio andare. Ho paura.» «Stai tranquilla. Non è niente.» Charlotte allunga le labbra in un ghigno rassegnato. «Ok.» Faccio per voltarmi e prendere la strada del bagno, ma, d'un tratto, il fiato pesante di Charlotte si pianta nel mio mentre una sua mano si inchioda saldamente al mio polso. «Aspetta, non lasciarmi da sola. Io l’ho visto, ho visto lei e ho tanta paura» bisbiglia con voce fioca inarcando le sopracciglia. «Ma che dici? Di che parli, Charlotte?» Charlotte è in confusione totale. Non l'ho mai vista così. La sua voce trema spasmodicamente. Poi la vedo allungare un dito e l'istinto mi trascina a guardare nella direzione del suo indice puntato. Inorridisco. La stanza di Amanda. «Amanda? Cosa c’entra Amanda, adesso?». «Shhh. Non alzare troppo la voce, lei è di là. Potrebbe sentirti.» «Lei? Ma a chi ti riferisci? Ad Amanda?» Rosa fischietta nervosamente dalla stanza di Charlotte. Sta preparando il letto a Charlotte per sottoporla all'esame. «Stanotte la ragazza col tatuaggio si è fatta male, tanto male. Poi c'era rosso e lei piangeva. Ho sentito urlare e sono uscita dalla stanza. L'ho vista. Sono entrata, ho acceso la luce e ho visto tutto. Il letto era rosso e lei dondolava avanti e indietro. Ho chiamato subito la signora col camice che sta di là.» «Rosa?» «Shhh... non posso parlare adesso.» La ragazza col tatuaggio. Amanda. Sangue. Il rosso è sangue. Inconsapevolmente la mente mi aiuta a dipingere la scena che Charlotte mi sta raccontando e un rigurgito di vomito mi sale fin sopra la gola. Deglutisco. Non può essere. Eppure quei rumori... li hai sentiti Emily. Non sarebbe la prima volta che Amanda tenta il suicidio. Dicono che è finita nella Casa proprio per aver tentato di uccidersi ben dieci volte. Ma qui dentro non ci ha mai provato. In fondo come avrebbe potuto in un posto dove sono banditi oggetti appuntiti, corde, coltelli da cucina,

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telefoni cellulari e persino spilli? Come avrebbe anche solo potuto tentare, con gli impianti di videosorveglianza installati ovunque e i controlli notturni degli infermieri? Penso tuttavia a quel persistente bussare e grattare, penso al pianto sottile e alla voce di Matilda che mi chiedeva di ascoltare in silenzio. Cosa è accaduto questa notte? Forse, stavo ascoltando la richiesta di aiuto di una potenziale suicida? Amanda la matta stava lanciando un grido che soltanto io potevo sentire davvero? Amanda stava chiamando me? “Non sono affari nostri” ho detto a Matilda. Charlotte lascia la presa del mio polso e fugge via piangendo. Vorrei seguirla ma una strana sensazione di debolezza mi assale. Centinaia di pallini grigiastri pullulano dinanzi ai miei occhi agitandosi freneticamente. Lascio cadere la pila di vestiti che ho in mano e il mio corpo indietreggia scivolando lungo la parete fredda mentre avverto la terra tremare sotto i miei piedi. Cerco di abbrancare il muro ma non riesco a sentire i miei arti, non riesco più a percepire il mio fisico ed è come se avessi smesso di appartenermi. Il pianto di Charlotte è sempre più distante, è quasi un insopportabile ronzio che continua a ronzare come fosse un disco incantato. Forse questa è la fine. Il destino ha scelto il giorno del mio sedicesimo compleanno per condurmi a una beata morte. Morire è tutto ciò che desidero. La signora Morte non sarà poi tanto più brutta di questo posto. «Emily, che succede? Mi senti?» Qualcuno mi chiama, forse Rosa. Ombre e voci confuse accorrono al mio cospetto. Ma oramai non vedo più niente. Matilda grida il mio nome. Tutto si fa sfocato, incerto. Infine il buio arriva senza preavviso. E vado via, scivolando giù in un sonno oscuro senza sogni. «Emily come ti senti?» Il dottor Miele è seduto al mio fianco e mi scruta aggiustandosi sul naso un paio di lenti bifocali arrotondate. La coperta mi copre fino all'altezza delle anche, la schiena è adagiata a una pila di cuscini. Ho la vista appannata e qualche brivido di troppo addosso, ma riesco perfettamente a distinguere i camici di Rosa e Rossana e la faccia strafottente di Alessandra Bignetti, la direttrice. Arrossisco. Otto occhi mi fissano minuziosamente. E gli occhi della Bignetti, poi, sono più taglienti che mai.

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«B…bene.» Un dolore lancinante mi percorre la schiena. Sfogo tutto in una smorfia ridicola. «Stai tranquilla. È stato soltanto un calo di pressione. Il dolore che senti è dovuto al fatto che sei caduta in malo modo. Ti riprenderai presto. Intanto ti ho somministrato un antidolorifico.» Mi stringo nelle spalle pensando ancora alle parole di Charlotte. La ragazza col tatuaggio si è fatta male, tanto male. Poi c'era rosso e lei piangeva. «Quindi sta bene, dottore?» chiede la direttrice issandosi dritta come un bastone. «Diciamo di sì.» «Perfetto. Mi basta. Emilia, a cosa stai pensando? Andiamo ragazzina…Alzati, non sei disabile. Forza, avanti, c’è la colazione che ti aspetta!». La Bignetti si rivolge a me usando il mio nome di battesimo e si avvicina battendo le mani ossute, strillando a squarciagola. Le gambe sottili si muovono sinuose sotto la gonna verde tirata fin sopra la vita e il seno, troppo abbondante per il suo corpo, spicca dietro una camicetta diafana sul cui colletto risalta una spilla a forma di libellula. Il camice che indossa deve essere di una o due taglie superiori. Nella Casa dei matti tutti rispondono ai suoi ordini e la sua presenza atterrisce persino il personale medico. Non c'è infermiere o dottore che non la tema. Nessuno è mai riuscito a tenergli testa. La Bignetti è un mostro, la Bignetti è la personificazione del diavolo, è la Regina dei matti. Matilda mi dice di farmi coraggio ma non è facile affrontare a pieno petto una donna crudele come lei. Tieni duro, Emily. Tengo stretti i denti per non darle la soddisfazione di vedermi piangere. Il sapore delle lacrime, però, è già sulle mie labbra. Non posso spostare un solo muscolo, non sono in grado di alzarmi e camminare da sola. Mi rivolgo con lo sguardo al dottor Miele, sperando che almeno lui possa capire. Ma nessuno sembra volermi aiutare. Scoppio in un pianto sonoro cullando il viso tra le mani. Non ho il coraggio di alzare il mento. E poi al solo pensiero della colazione mi sento mancare. "Perché Dio non ha voluto ascoltare le mie preghiere, Matilda? Perché sono ancora qui? Ho creduto di morire poco fa. L'ho addirittura sperato,

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ma Dio ha deciso che non è ancora giunto il mio momento. Forse non ho ancora provato abbastanza sofferenze? In più oggi dovrebbe essere quello che si dice essere un giorno speciale. Invece come vorrei che questo giorno non fosse mai arrivato". Non puoi parlare così. Oggi è il tuo compleanno e devi essere felice. “Possibile che non te ne accorga? La felicità fa parte del mio passato. Oramai non mi appartiene più”. Il dottor Miele mi pacca lievemente una spalla per poi alzarsi goffamente grattandosi le calvizie. Una scintilla di compianto attraversa furtiva il vetro dei suoi occhiali, ma è solo una scintilla che sparisce presto dietro la sua figura d'autorità. Non c'è modo per contestare la Bignetti. Tutto quel che dice deve essere fatto, giusto o sbagliato che sia. «Signora direttrice, io vado. Mi ritiro nello studio. Per qualsiasi cosa...» e fa un cenno col capo verso di me. La Bignetti annuisce arcignamente tamburellando le unghie affilate sulle ante dell'armadio. Avrà meno di sessant'anni ma le guance emaciate e i capelli ingrigiti la fanno apparire almeno dieci anni più vecchia. Esile, pazza e vecchia. «Non ce ne sarà bisogno» e mi rivolge uno sguardo tetro. «A proposito Emily, ti ho aggiunto due rossette di pane alla dieta. Una a pranzo e l'altra a cena. Ti aiuteranno a raggiungere prima il nostro obiettivo» aggiunge il dottore di spalle, con un piede già fuori nel corridoio, prima di sparire definitivamente dalla mia vista. Altre lacrime, altri singhiozzi mentre appallottolo il lenzuolo nei pugni delle mani. Due rosette significano calorie e calorie significano grasso. Cerco di rispolverare un po' di memoria per ripassare l'intera dieta che mi è stata assegnata. È davvero troppo e tutto per una stramaledetta perdita di sensi. Penso che morirò soffocata nel mio grasso ancor prima di riuscire a raggiungere quell'odiato obiettivo. Se avessi saputo prima che sarebbe stata così dura, non avrei mai accettato quel patto con Miele. Le sue parole riecheggiano nella mia testa: Emily, voglio farti una proposta. Ti chiedo di raggiungere i 40 kg e di mantenerti stabile su quel peso per una sola settimana consecutiva. Se ci riuscirai parlerò personalmente con la Bignetti per le tue dimissioni. Ma per riuscirci dovrai seguire minuziosamente la mia dieta e mangiare tutto quello che gli infermieri ti faranno mangiare.

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Una nuova fitta di dolore mi invade in pieno petto facendomi emettere un rantolo soffocato. «Emilia, smettila di fare la vittima. Voi, fatela muovere da quel letto! Subito!» grida la Bignetti rivolgendosi alle infermiere. Rossana mi invita ad alzarmi passandomi un braccio sotto le ascelle vuote. Una costola scricchiola, ma la sua delicatezza nei gesti e il suo profumo inconfondibile di vaniglia mi aiutano a riprendermi un po’. Anche Rosa accorre a sorreggermi aprendo e subito richiudendo le labbra accese di un rosso porpora. Pianto i piedi a terra eppure il peso del corpo sembra essere davvero insostenibile e le ginocchia non fanno che tremare vistosamente sotto la camicia da notte. «Lasciatela. Deve andare da sola!» Rosa si volta verso la Bignetti scura in volto. Non riesce a concepire tanto egoismo e brutalità e i suoi occhi si inumidiscono nel silenzio della stanza. Anche lei è una pedina al servizio della direttrice. Per la Bignetti non esiste la parola sentimento. Non c'è emozione nella sua persona, niente che possa davvero farla somigliare a un essere umano. Una bestia come lei non dovrebbe avere nulla a che fare con un posto come la Casa. «Non vede che non ce la fa?» «Ce la fa, ce la fa. Vuoi contraddire i miei ordini?» Rosa si asciuga le lacrime e aggrottando le bionde sopracciglia si rivolge alla Bignetti con fare accusatorio. «Certo che no. Ma non può chiedermi di restare a guardare questo supplizio.» «Sei una debole! Un pivello qualunque! Vergognati, sono quasi quindici anni che lavori qui dentro e non hai ancora capito come ci si comporta! Vedi di toglierti quello sguardo compassionevole! Non lo capisci?» canzona la Bignetti beffarda. «Questi sono soltanto dei matti senza cervello. Delle fecce umane che non meritano le lacrime di nessuno. Loro sono proprio come quello schizofrenico di mio fratello. Un pazzo che credeva di parlare con gente che non esisteva. Una mente malata che meritava solo la morte. Pensa, i suoi amici immaginari gli volevano così bene che l’hanno aiutato a impiccarsi.» Rosa indietreggia affondando le dita nella chioma sbarazzina. Rossana mi stringe a sé accorata, cercando di tranquillizzarmi e io mi aggrappo al suo camice con le forze che mi restano in corpo. «Tu sei pazza!» urla Rosa contro la Bignetti con tutto il fiato che le rimane in gola.

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«Infermiera Rosa, non ti permetto di parlarmi a questo modo e con questo linguaggio informale. Devi darmi del Lei, come tutti qui dentro.» «Rosa ti prego.» Rossana è preoccupata. Con Rosa hanno davvero un rapporto speciale e la sua amica adesso si sta spingendo troppo oltre. Rossana lo sa. La Bignetti non gliela lascerà passare liscia. Ma lei non le dà ascolto, ora vuole affrontare la sua battaglia. Una battaglia fin troppo personale. «Ascolta la tua amica infermiera, sarà meglio. Oppure dovrò ritenermi obbligata a prendere seri provvedimenti.» «Ti piacerebbe, vero? Vedermi uscire da quella porta e non tornare più. Beh non lo farò soltanto perché non lascerò che tu distrugga questi ragazzi. Vuoi che me ne vada? Dovrai uccidermi prima.» Vorrei correre incontro a Rosa, essere io una volta tanto a rassicurarla, ma la presa di Rossana è troppo forte e il mio corpo troppo debole per riuscire a muoversi senza cadere. No, non ce la faccio a stare in piedi. Mi butto di peso a terra e il freddo del pavimento è subito a contatto con le mie ginocchia nude. «Che fai, ragazzina pelle e ossa?» domanda la Bignetti tirandomi per un orecchio. «Tirati su. Così non otterrai un bel niente. So che tra poco verranno i tuoi a trovarti per il tuo stupido compleanno. È solo merito mio se oggi ti ho concesso un permesso speciale. Beh, vedi di andare di là e finire tutto entro mezz’ora altrimenti sarò costretta a procedere con Altro. E sai bene a cosa mi riferisco!» Le flebo. Le flebo sono l’Altro a cui si riferisce la Bignetti. È dal primo giorno che non fanno che ripetermelo. Devo stare al loro gioco e mangiare tutto entro mezz'ora, altrimenti il piatto finisce nella spazzatura e io finisco nel mio letto con una flebo conficcata nel braccio. Ma pur di evitarmi un simile supplizio spesso sono gli infermieri a infilarmi i bocconi nella gola. Credo lo facciano per non dovermi vedere riversa su un materasso con degli aghi piantati nelle vene. Così io mi lascio imboccare come un automa mentre osservo le mie mani assumere un colore cianotico e diventare rigide. Credo che quella sia la paura della morte perché per me il cibo è solo freddo e morte. Con i palmi in terra sostengo lo sguardo della direttrice, con sfida, mordendomi il labbro inferiore fino a che il sapore del sangue mi invade pienamente la gola.

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«Smettila! Smettila!» urla lei austera. Lo schiaffo arriva pesante e caldo sulla guancia eppure non basta a farmi cedere. Rimango impassibile, accovacciata sul pavimento, con il sangue sui denti. Rido nella disperazione sgusciandolo via con il dorso della mano. Rosa fugge disperata, quasi fosse lei ad aver ricevuto il ceffone. La Bignetti mi sferra un calcio nello stomaco mentre i matti, incuriositi, arrivano subito alla mia porta. Tossisco ma non demordo. Sputo un pezzo di dente sulle mattonelle che cominciano a macchiarsi di un rosso denso e scintillante. Sto vomitando il mio stesso sangue. «Perché Emily piange?» Charlotte corre a stringermi e a carezzarmi mentre come un invertebrato mi dimeno in preda allo strazio. «Dannazione! Charlotte, lasciala perdere! Tu, infermiera dei miei stivali, portale una stramaledetta sedia a rotelle. Se non può muoversi con le gambe, potrà almeno farlo con le braccia!». Rossana esce e rientra con una sedia cigolante. «Eccoti servita!», dice la Bignetti con sarcasmo. «Muoviti! Alzati da terra e sali su questa sedia!» Charlotte si tappa le orecchie e bisbiglia qualcosa di incomprensibile piantando i gomiti alle ginocchia incrociate. I matti sulla soglia mi osservano. Sento i loro occhi invadenti penetrarmi nella schiena ricurva in avanti. "Non può finire così! Non può averla vinta lei, Matilda!" Eppure il mio corpo si muove da solo e io non sono capace di opporre resistenza. Mi lascio trasportare, lentamente mi alzo con fatica, facendo forza sulle sole braccia, per lasciarmi ricadere sulla sedia mobile. Charlotte scuote la testa in modo convulso, lasciando che i capelli intessano una danza vorticosa attorno al suo viso dai lineamenti irregolari. «No! No! No! Emily non deve piangere!» «Charlotte, ti prego» le dico atona perforando i suoi impercettibili occhi neri. La voce flebile che esce dalle mie labbra è quasi quella di una sconosciuta. «Vedo che cominciamo a ragionare.» La Bignetti si scansa per lasciarmi quel tanto di spazio che basta per aggirare il letto e catapultarmi fuori dalla stanza. «Dopo aver finito di là, tornerai nella tua stanza e con l'aiuto di Rossana ripulirai tutto da questo obbrobrio che hai lasciato. E lo farai in fretta. Prima che il sangue si incrosti e sprigioni un'ondata di fetore. Dopodiché Rossana potrà accompagnarti

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giù in giardino, dove ci saranno i tuoi genitori ad aspettarti. Ma guai a pronunciare anche una sola parola su quello che è appena accaduto. Non una parola! Ci penserò io.» Inspiro profondamente e abbasso le palpebre per un istante. Succhio il sangue che continua a uscire dalle labbra. Cerco di annullare ogni pensiero e l'atroce dolore. Adesso voglio esistere solo io, io e nessun altro. Così lascio semplicemente che il cigolio della sedia, le facce dei matti e il viso basico della Bignetti scompaiano, diventando particolari inesistenti. Poi, spiego le braccia in avanti, impugnando con forza le ruote senza alcuna esitazione, e la sedia va, si muove scivolando sul lucido delle piastrelle grigiastre. Mi faccio largo tra i matti appena esco nel corridoio. Paride ride e batte le mani sbavandomi su un ginocchio, e il suo alito puzzolente mi invade come una coltre di fumo. «Voglio il gelato! GE-LA-TO!» «Sta zitto, brutto malato di mente!» schiaffeggio Paride con parole taglienti quanto lame. Lui, per tutta risposta declina la testa di lato e voltandosi comincia a parlottare con il muro. Ride e salta, salta e ride, e non si rende conto di essere nelle viscere dell'inferno. Gli altri matti lo guardano scuotendo la testa. Sono davvero tutti qui fuori i matti. Eppure lei no. Amanda non c'è e non è nemmeno nella sua camera. La porta azzurra è spalancata ma il suo letto è vuoto e il materasso è stato rivoltato in un angolo. Qualcosa di inquieto e sinistro si aggira nel suo dormitorio. Passo oltre, e ritrovarmi di fronte al mio celeberrimo nemico è un attimo. Il cibo. Ma questa volta voglio sbrigarmi e scopro che ingurgitare in pochi minuti dà molta meno sofferenza che stare le ore a rigirarsi la forchetta nel piatto, rischiando peraltro di essere imboccata a forza. Senza costatare odori o percepire sapori trangugio due insipide fette biscottate con un bicchiere ricolmo di latte, mentre avverto un retrogusto di sangue piantarsi nel palato. Il ticchettio delle scarpe della Bignetti mi fa sobbalzare il cuore e la sento fermarsi dietro di me. Divorata dall'odio, stringo i pugni fino a far sbiancare le nocche. Me l'ha fatta. Ha vinto lei. Ho ceduto ai suoi ricatti. Certo, ho scampato le flebo ma l'acido in bocca, il freddo pungente che si infittisce nel mio corpo, e soprattutto la coscienza di aver ingerito miliardi di calorie in pochi minuti è una Bestia implacabile nel mio cervello.

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Brava Emily. Hai fatto vedere chi sei. Continua così e ti cacceranno presto da questo brutto posto. «Complimenti! Hai fatto tutto da sola, Emilia. Questa volta non c'è stato bisogno di imboccarti» dice alle mie spalle, avvicinandosi per sparecchiare la tavola. «E comunque siete proprio bizzarre. Nel mondo le persone muoiono di fame e voi ridete di loro!» "Io non rido proprio di nessuno!" vorrei dirle, ma le parole mi muoiono sulle labbra. Mi volto con il viso paonazzo annaspando nell'aria, mentre un dolore lancinante mi colpisce il fondoschiena. Mi chiedo quanto ancora ci vorrà prima che l'antidolorifico cominci a fare il suo effetto. Accecata dalla rabbia incontro gli occhi gelidi della Bignetti e intanto le facce incredule dei matti fanno capolino da dietro gli stipiti. Finalmente hanno un teatrino cui assistere, un modo di svagare dalla monotonia dei giorni. «Certo, certo» canzona con un tono gutturale la Bignetti alzando e abbassando il mento allungato come se mi avesse appena letto la mente. «Non guardarmi così, ragazzina! Anche io ti odio, sai? Odio te e tutte quelle come te!» e sposta la sua attenzione su Marcella che, in piedi accanto agli altri matti, si stringe nel suo vestito nero facendosi più sottile di quanto non lo sia già. Marcella è l'ultima arrivata ed è come me, eppure è il mio opposto. Lei è scostante, tratta male chiunque le si avvicini e passa il suo tempo a leggere libri su libri. Dice che la Casa non è un posto per lei e che presto troverà un modo per fuggire lontano. Sua madre, anche lei, è una tipa strana. Ogni volta che viene a trovare sua figlia la rifornisce di lassativi e pillole dimagranti. Ovviamente in modo del tutto segreto e lontano dal raggio di visione delle telecamere. Ma io lo so perché le ho sentite parlare più volte, ho perfino visto con i miei stessi occhi Marcella prendere la scatola di lassativi e infilarla sotto la gonna, dentro le mutande. «Patetiche!» fa la direttrice alzando gli occhi al soffitto. «Adesso resta ferma qui e non muoverti per i prossimi quaranta minuti» aggiunge. «Voi matti, invece, filate nei bagni a lavarvi! Puzzate come mele marce! Lo spettacolo è finito, avanti!» Un lieve mormorio di dissenso lascia posto a un nuovo silenzio. La direttrice si ritira nel suo studio, che è proprio davanti alla sala da pranzo e accanto al bagno, lasciando la porta spalancata, e io rimango a

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osservare un punto fisso nel centro della tavola. Rossana soggiunge vacillando con il telefono cellulare stretto in un palmo. «Tutto bene? Dov'è andata Rosa?» le chiedo massaggiando le tempie per cercare di placare il dolore che mi ha invaso anche la testa. Passo la lingua sulla ferita. Finalmente il sangue sembra essersi rappreso. «Ho provato a chiamarla, ma il telefono è staccato.» «Mi dispiace. È colpa mia» sostengo a viso basso, depredata dal senso di colpa. «Non dirlo. Non è colpa tua e non è colpa di nessuno. È così e basta». Rossana mi invita ad alzare il mento e a perdermi nell'azzurro dei suoi occhi intagliati a mandorla. C'è umanità nel suo sguardo e, nonostante il naso storto e la bruttezza, in lei sussiste qualcosa di davvero meraviglioso. «Rossana stai tenendo d'occhio la furbetta? Prova a farla avvicinare al bagno e ti ricorderai questo giorno come il peggiore dei tuoi incubi!» urla la malefica voce della Bignetti. «Non mi muovo, non mi muovo, stai tranquilla, brutta cornacchia» dico in un sussurro talmente accennato da far fatica io stessa a sentirmi. Rossana però mi sente e sorride amaramente sedendosi sul divano. Quaranta minuti, penso, quaranta minuti e sarò libera. Quaranta minuti immobile, sotto stretto controllo. È questa la sorte che tocca a me e Marcella dopo aver mangiato. Quaranta minuti sono il tempo giusto perché il cibo venga davvero digerito e non rischi di essere rigettato fuori. Ma quel tempo sembra non trascorrere mai e ogni volta l'attesa si trasforma in un vero tormento. «Quanto è passato?» «Dieci minuti.» «Ti prego Rossana, almeno tu fammi andare in camera mia. Io non sono come quelle che si tappano le ore in bagno e si ficcano due dita in gola per rigettare pura l'anima. Perché tenermi qui? Voglio andare a vestirmi. Oggi è il mio compleanno.» Non che poi mi dispiacerebbe scorticarmi il cavo orale e stuzzicarmi fino a rigettare tutto. Sarebbe un buon rimedio per espellere le calorie. Ma quello lo fanno solo le bulimiche, lo fa Marcella, ma io non ho abbastanza fegato per farlo, preferisco soffrire come un cane piuttosto, tenendomi il gonfiore e tutto il resto. In fondo non l'ho mai fatto prima e mai lo farò. Anche se più di una volta ci ho provato e mi sono

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ritrovata inginocchiata, faccia a faccia con la tavoletta del water. Il risultato è stato una serie interminabile di conati di vomito. «Mi dispiace, Emily, sai che se potessi lo farei, ma per la Bignetti siete tutte uguali. E questi sono gli ordini. E comunque prima dobbiamo ripulire la camera. Ma non ti preoccupare» aggiunge in un bisbiglio «lo farò io al posto tuo.» Ordini. Certe volte mi domando se valga davvero la pena di vivere quando sono gli altri a dirci quello che si deve o non si deve fare. Porto il mento tra le mani sbuffando. Se davvero esistesse un modo per fuggire come dice Marcella… Ma questa è una topaia tempestata di trappole. L'aria funziona con il ricambio automatico degli aeratori, non ci sono finestre, non c'è via d'uscita. La Casa è una prigione alla quale non si può scampare. E se anche si riuscisse a scappare all'esterno, in ogni caso ci sarebbe il muro, quel muro che nessuno è mai riuscito a valicare. I quaranta minuti fatidici trascorrono in un tempo interminabile ma, come sempre, trascorrono. Rossana, accasciata sul divano, è tra il sonno e la veglia, pronta a smuoversi a ogni movimento sospetto. Io sono sulla sedia a rotelle, mentre fisso il vuoto e penso. Penso che la schiena mi fa ancora troppo male, penso che non riuscirò a muovere nemmeno un muscolo. E mentre mille pensieri mi attraversano la mente, quasi non percepisco la figura che arriva furtiva alle nostre spalle. È soltanto quando entra trascinandosi ingobbita su se stessa che Rossana sobbalza sussultando. Osservo la sua espressione assonnata mutare in un'espressione di sgomento. «Amanda! Mi hai spaventata!» Amanda si traina al tavolo con il viso che è un cencio, i polsi bendati da due fasciature ben spesse e la fronte corrugata sopra un paio di sopracciglia rasate. Tra le labbra stringe una sigaretta spenta. Charlotte aveva ragione. Amanda ha tentato di nuovo il suicidio. «Com'è andato il colloquio con la dottoressa Ferrucci?» «Quella? Come vuoi che sia andato? Non abbiamo nulla da dirci io e quella strizzacervelli da strapazzo!» Amanda allarga un angolo del viso in un sorriso amaro. Lascia scivolare la sigaretta da una mano all'altra, lanciando lo sguardo fuori dal vetro della finestra mentre un passerotto si alza in volo agitando le sue piccole ali freneticamente. Torno a concentrarmi su Amanda e sulle sue dita che vacillano nervose attorno alla cicca. Accade, però, qualcosa

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di bizzarro perché d'un tratto la cicca assume le sembianze di un coltello affilato e uno strano fetore di sangue si dipana tutt'intorno. Lo sento insinuarsi fin dentro le narici, farsi più forte e diventare insopportabile. Ho la sensazione che ci sia sangue ovunque. So che è il passato che lotta per riemergere a galla, quel passato in cui il Male ha avuto inizio. La lama affonda nella sua carne. Sta soffrendo, ma stringe i denti. È seduta in terra accanto al water sul quale ha appena provato a vomitare. Ma vomitare non le piace, non è mai riuscita a farlo. Eppure vorrebbe. Così come vorrebbe lacerare lo stomaco con quella stessa lama che ora sta incidendo le carni del braccio. E più affonda e più crede che stia uccidendo proprio lui. Quel maledetto bastardo! Inspiro aggrappandomi ai braccioli della sedia e, sbattendo ripetutamente le palpebre, mi sforzo di allontanare ogni ricordo. A poco a poco costruisco la sensazione di rinvenire da un brutto incubo. Sotto gli occhi increduli di Rossana, Amanda tira fuori un accendino dalla tasca e avvicina il posacenere che è sul tavolo. Osservo incantata i suoi capelli lunghissimi, la fronte scoperta, quel paio d'occhi socchiusi e labbra rosee volte a ingigantire ancor di più il fascino del mistero che la avvolge in un’aura oscura. Amanda. Amanda che piange, Amanda che gratta la parete, Amanda che si taglia le vene nel cuore della notte. La scruto attonita boccheggiare nell'aria, nel tentativo di scorgere il seme della follia nascosto negli abiti di una giovane diciassettenne. Eppure quella pazzia che invano sto cercando non c’è. Tutto quel che scorgo è un automa che apre e chiude la bocca per fumare. Un tatuaggio a forma di rosa le risale lungo il collo, arrivandole fin dietro l'orecchio. La ragazza col tatuaggio. È così che la chiama Charlotte. Non ho mai visto nessuno portare un tatuaggio del genere, eppure il suo è di un’inspiegabile bellezza. Lo contemplo estasiata, ripercorrendo le linee contorte. Le spine si confondono con il colore delle vene mentre i boccioli suggeriscono un senso di pace e dolcezza. In fondo anche i fiori hanno le loro spine. Non riesco a toglierle gli occhi di dosso e temo che lei possa accorgersi del mio sguardo insistente. Ma lei sta male, troppo male per rendersi

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conto di quello che le sta davvero accadendo intorno. O forse no. Il suo sguardo si alza da terra, per un singolo attimo si volge verso di me. So cosa hai fatto. I nostri occhi si incrociano e, per quanto assurdo, si dicono più di quello che dovrebbero. C’è comprensione, c’è sgomento, c’è dolore. C’è forse un pizzico di follia condiviso e la voglia irrequieta di cessare di esistere. L'ascensore arriva al pianterreno con un tonfo. Tengo le mani incastonate l'una nell'altra mentre Rossana spinge la carrozzella fuori. Ho paura, paura di quello che potranno pensare i miei vedendomi ridotta in queste condizioni. Chissà se la Bignetti avrà loro comunicato qualcosa, qualcosa che possa giustificare le mie condizioni. Ha detto che ci avrebbe pensato lei. Sì, deve averci pensato per forza. L'aria aperta mi scuote improvvisamente, il sole basso in lontananza emana un lieve tepore lasciando il cortile del giardino illuminato solo per metà. «Eccoli là» esclama Rossana con tono grave. Li vedo in lontananza, le loro espressioni miste tra dolore e sconfitta ma celate, inequivocabilmente, dietro sorrisi ipocriti. Devono sorridere per me, perché oggi è il mio compleanno e come sempre bisogna essere felici. Scorgo i nonni a braccetto che arrivano vacillando e mi accorgo che sembrano invecchiati di anni, anche se sono trascorse poco più di tre settimane dall'ultima volta che li ho visti. Anche ai miei manca qualcosa, forse quella gioia di vita che poteva esserci quando eravamo ancora una bella famiglia. «Auguri, amore!! Come stai? La direttrice ci ha chiamati e ci ha detto tutto. Ma come è potuto accadere? Ci ha detto che sei svenuta e che hai battuto la schiena!» mi stringono fortissimo, mi riempiono di baci e di carezze. "Certo, peccato che abbia omesso un piccolo particolare." Mio padre mi bacia la fronte, mia madre si abbassa cingendomi le spalle e quasi avverto il senso di riluttanza che la invade nel momento in cui le sue mani scorrono le mie scapole sporgenti. Al solo vederla mi monta una collera insopprimibile. Non sopporto le sue braccia enormi toccarmi, non sopporto guardare la sua vita larga rimboccata in vestiti da teenager, non sopporto osservare la sua ciccia ballonzolare a ogni movimento. Mi vergogno di lei e del suo aspetto da balena cicciona.

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Scuoto la testa disgustata da quell'ammasso di lardo che è mia madre. La odio. Restia, la allontano dal mio petto, sforzandomi però di sorridere a testa bassa nel rivedere mio fratello Alessio che, con le mani in tasca e i jeans abbassati fin sotto gli slip, si avvicina toccandomi il cranio semi privo di capelli. Forse lui è l'unico che possa ancora considerare famiglia. Anche con mio padre non ho mai avuto un brutto rapporto. Lui è un tipo introverso, uno che si fa sempre gli affari suoi, una persona squisita e buona dentro. Con mia madre, invece, è sempre stato diverso. Penso che una parte di lei mi ami, e anche io, in qualche strano modo, credo di amarla. Ma l'astio nei suoi confronti è troppo forte per lasciare spazio all'amore. Non so nemmeno se ci sia una ragione vera a quest'odio. In ogni caso, da quando sono nata fino a oggi, non ricordo una sola volta nella quale sia riuscita a ricambiare un suo abbraccio o un suo bacio, nonostante spesso ci confidassimo come due sorelle. La odio perché mi ha sempre fatta sentire diversa, la odio perché ha sempre preteso che andassi bene a scuola, la odio perché ha sempre voluto che facessi quello che non aveva fatto lei, la odio perché so che leggeva i miei diari segreti, la odio perché non mi ha mai lasciato libera di agire. Tutto quello che ho fatto nella vita l'ho fatto perché lo ha voluto lei. Sempre. «Sta bene. Il dottore le ha somministrato un antidolorifico. Potrà tornare a muoversi sulle sue gambe già da domani», chiosa Rossana massaggiandomi le spalle. «Si è trattato solo di un piccolo incidente.» «È perché non mangia, vero? E poi perché ha le labbra spaccate? La direttrice non ci ha detto che si era anche fatta male a un labbro» chiede mia madre apprensiva. Questo poi è proprio ciò che non tollero della sua personalità. Il suo continuo battere chiodo, il suo persistere, il suo mettere il naso nella mia vita. Quello che non capisce è che la vita è soltanto mia e, poiché mi appartiene, ne faccio quel che voglio. Non aspettare. Dì loro della direttrice. Dì che ti ha picchiata, dì quello che ti ha fatto. Denuncia una volta per tutte quella pazza. Falla marcire in galera. FINE ANTEPRIMA.CONTINUA...