Gli amici dell’Istituto Luigi Sturzo, preoccupati della ... · APPELLO dell’Associazione Amici...

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Gli amici dell’Istituto Luigi Sturzo, preoccupati della situazione del Paese, propongono un appello a coloro che desiderano qualcosa per l’Italia.

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Gli amici dell’Istituto Luigi Sturzo, preoccupati dellasituazione del Paese, propongono un appello acoloro che desiderano qualcosa per l’Italia.

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APPELLOdell’Associazione Amici dell’Istituto Luigi Sturzo

Noi siamo convinti che l’Italia ha bisogno di ungrande Progetto, di un Progetto di ampio respiro, larga-mente condiviso, che sappia risvegliare in tutti il senso diappartenenza e ridare entusiasmo ai cittadini, soprattuttoai giovani; di un Progetto che indichi come l’Italia intendeinserirsi nel grande processo di globalizzazione in atto,che è pieno di rischi ma anche di grandi opportunità. Conla nostra inerzia, per ora, ne stiamo subendo solo i rischi.Dobbiamo impegnarci per coglierne le opportunità. E lodobbiamo fare in fretta, prima che sia troppo tardi, primache quello che potrebbe essere il nostro posto sia occu-pato da altri.

L’Italia non può andare avanti con «manovre di bilancio»

più o meno improvvisate che, se pur producono qualcherisultato a breve termine sul deficit di bilancio, aggravanoi problemi di fondo del nostro Paese e ne lacerano irri-mediabilmente il tessuto economico e sociale.

Questi dovrebbero essere gli argomenti al centro deldibattito politico. E invece oggi la politica discute su Ber-lusconi, sul suo governo, su un possibile cambio o allar-gamento della maggioranza e così via. Non neghiamol’importanza di questi temi. Ma la nostra prospettiva nonpuò limitarsi ai mesi che ci separano dalle elezioni e altipo di governo con il quale dobbiamo arrivarci. La que-stione principale per noi è un’altra: che cosa faremo a par-tire dai prossimi mesi? Non dobbiamo semplicisticamenteritenere che tutti i problemi del nostro Paese si risolvanocon l’uscita di scena di Berlusconi. Sarebbe un errore.Certo, a noi piacerebbe che il Presidente del Consiglio,consapevole che non riesce più ad essere utile al Paese,compisse un atto di generosità - del quale non potremmoche essergli grati - e si facesse da parte.

Ma non lo possiamo pretendere; e non lo preten-diamo. In una democrazia il rispetto delle regole è fon-damentale e mai deve venir meno. Le scorciatoie sonosempre pericolose e noi vogliamo sperare che non ven-gano usate.

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Il problema, dunque, è un altro: è il Progetto che vo-gliamo dare al Paese, il Progetto su cui chiamare gli Ita-liani a pronunciarsi nel 2013. Ne tracciamo di seguito lelinee essenziali; e lo facciamo al solo scopo di avviare ladiscussione, perché riteniamo che il Progetto debba es-sere largamente condiviso e debba nascere con l’operosocontributo di tanti. Ecco perché ci rivolgiamo a tutti co-loro che, in quest’ora difficile, vogliono fare qualcosa perl’Italia.

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Perché l’Italia non si spengaLinee di un Progetto

Reagiamo per ev itar e il d ec l ino

Quando ci interroghiamo sul futuro del nostro Paese,finiamo quasi sempre per trarre conclusioni pessimisti-che.

Non mancano certo elementi positivi ma questi nonribaltano la nostra valutazione. Semmai aumentano la no-stra amarezza per una deriva che sarebbe evitabile sol chelo volessimo, sol che risvegliassimo in noi il senso di ap-partenenza ad una Comunità ricca di storia e, per secoli,faro di civiltà. Amarezza tanto maggiore quando osser-viamo i molti talenti che si sprecano, i molti casi di per-sone che con abnegazione e fantasia lavoranosilenziosamente per migliorare le condizioni di vita dellaCollettività di cui fanno parte. Sono casi non sempre noti,che dovremmo far conoscere anche per la grande forzadi contagio che recano in sé.

Eppure il nostro Paese non va; cresce poco e male;perde vistosamente terreno; vede accentuarsi gli squilibrisociali; sembra irrimediabilmente incamminato sullastrada di un declino che è, al tempo stesso, economico,sociale, culturale ed etico. Sappiamo tutti che questi malivengono da lontano e sono imputabili solo in piccolaparte alla grave crisi iniziata nel 2008 e ancora in atto. Sic-ché quando l’Occidente uscirà in qualche modo da questacrisi, il nostro Paese si ritroverà con gli stessi problemi diprima, in qualche caso addirittura aggravati.

Sulle cause di questo stato di cose molto si dice e al-trettanto si scrive. Noi non vogliamo aggiungere un’altraprospettazione alle tante, più o meno plausibili, che cir-colano. Ci sembra più opportuno, invece, domandarci see come il nostro Paese può uscire dal pantano nel qualeè finito.

Che ne possa uscire non abbiamo dubbi. Ma non ab-biamo neppure dubbi sul fatto che non esistono ricettebell’e pronte, capaci di produrre effetti immediati. Nonesistono soluzioni miracolistiche. Di questo dobbiamo

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essere consapevoli e dobbiamo guardare con sospetto escetticismo a tutti coloro che ci vorrebbero far credere ilcontrario.

La strada è lunga e impegnativa. Sul piano più pro-priamente politico, dobbiamo superare quella sorta dicontrapposizione ideologica, latente nella nostra società,che avvelena i rapporti civili; ha già prodotto molti guastie, quel che è peggio, promette di produrne altri ancoramaggiori. Più che le nostre qualità, infatti, esalta i nostridifetti: spinge alla visione di breve periodo, alimenta l’il-lusione che tutti i problemi si possano risolvere, hic et nunc,

con un provvedimento normativo, con una riforma. Ecosì viviamo nell’attesa messianica «delle riforme», che il piùdelle volte si rivelano per quello che sono: riforme mal-fatte, riforme fallite, perché concepite in uno spirito dicontrapposizione e non di collaborazione e al di fuori diun coerente disegno complessivo.

L’Ita lia ha b i sogno d i una ve ra svol ta e non d i un in-

ce ssan te suss egu irs i d i manovr e

L’Italia ha bisogno di una grande svolta e di una forzapolitica che abbia al suo interno un gruppo di persone ca-pace di attuarla. Insistiamo su questo punto. L’Italia nonha bisogno di un improbabile leader carismatico, figlio di unaconcezione verticale e sostanzialmente sbagliata del po-tere. Stiamo vedendo che questo modello porta non adun’accelerazione dei processi decisionali, ma ad un vuotoe ad una paralisi proprio sul piano dei fatti e della strategia,che rivelano l’assenza di un’elaborazione collettiva dellepolitiche e l’esigenza di creare un gruppo dirigente.

Per questo riteniamo necessaria una forza politica cheabbia in sé un gruppo di persone che, dopo aver raccolto letante idee che circolano nella nostra società, sappia co-struire una «politica» di vasto respiro, sappia ottenere sudi essa un vasto consenso popolare e sappia infine rea-lizzarla.

Non possiamo più vivere alla giornata. Non possiamoandare avanti con «manovre» più o meno improvvisate,

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confezionate in fretta, alla bell’e meglio nel tentativo - ilpiù delle volte vano - di appagare le aspettative dei cosid-detti mercati; con manovre che lacerano sempre più il giàlacero tessuto sociale del nostro Paese, senza produrrealcun apprezzabile effetto in termini di sviluppo. Ormaiè chiaro che questo tipo di «manovre» non funziona. Il lorosusseguirsi a ritmo sempre più incalzante punta ad un pa-reggio del bilancio annuale che probabilmente non rag-giungeremo e se pur lo raggiungessimo, si tratterebbe pursempre di un equilibrio assai precario, perché ottenutosenza scalfire l’enorme moloch del debito pubblico esenza ridurre, anzi accrescendo, le difficoltà dei ceti eco-nomicamente più deboli.

Non possiamo più vivere alla giornata. Dobbiamodarci delle mete che abbiano il più alto consenso possibiledei cittadini.

Del resto siamo in epoca di globalizzazione e, se nonvogliamo soccombere, dobbiamo darci un ruolo nellanuova «divisione planetaria del lavoro» che è la naturale con-seguenza della globalizzazione. Dobbiamo abituarci apensare in termini di medio lungo periodo, che non è - siachiaro - una fuga dalle difficoltà dell’oggi e dalla durezzadei problemi che abbiamo di fronte; è piuttosto un modoper affrontare con metodo e coerenza questi problemi.Ricordiamoci che, per livello di reddito medio, noi italianisiamo nel primo 10-12% del mondo. Dietro di noi incalzal’88-90% dell’umanità. Se, in quella graduatoria, non vo-gliamo scivolare verso il basso - cosa che in realtà sta giàaccadendo - dobbiamo darci da fare; e molto. Dal cantonostro siamo convinti che in quella scala possiamo addi-rittura salire, perché abbiamo tutti i numeri per farlo. Madobbiamo impegnarci tutti con grande generosità, senzamiopi egoismi.

Pens iamo con co rag g io al l ’I tal ia che vogl iamo

Pensare in termini di medio lungo periodo significadisegnare l’Italia che vogliamo, l’Italia del futuro, l’Italianella quale debbono proiettarsi le nuove generazioni.

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E qui il ruolo dei giovani è fondamentale e ad essi fac-ciamo appello. Sono soprattutto loro che debbono con-correre ad indicare le mete cui dobbiamo tendere. E nelporsi queste mete, essi debbono essere coraggiosi, deb-bono avere ambizioni e forse anche un pizzico di teme-rarietà, senza farsi irretire e deprimere dalla meschinità edalla pochezza dei tempi che viviamo. Senza l’apporto deigiovani - che dev’essere ad un tempo apporto di pensieroe di azione - è vano sperare che l’Italia possa avere un fu-turo.

L’Italia che vogliamo è un’Italia che cresca in terminieconomici ma anche in termini di coesione sociale, cheriesca ad «includere» tutti i cittadini in un progetto il piùpossibile condiviso, che sappia dare opportunità di un la-voro appagante a tutti, che renda possibile e faciliti il ri-cambio sociale; che sappia riconoscere, coltivare epremiare il merito nell’interesse primario della Colletti-vità.

L’Italia che vogliamo è un’Italia che, attingendo allasua storia, alle sue migliori tradizioni e alla sua cultura,sappia elaborare un suo stile di vita e ci risparmi lo spetta-colo avvilente di una rincorsa acritica di stili di vita chenon ci appartengono; che sappia conquistarsi o riconqui-starsi la stima e il rispetto dei grandi consessi internazio-nali.

L’Italia che vogliamo è un’Italia che sappia dire la suasui grandi problemi del mondo a cominciare da quelli del-l’emigrazione, della fame e degli insostenibili squilibri trale varie aree; è un’Italia che sappia elaborare idee, che sap-pia fare proposte ispirate a quel senso di umanità, di giu-stizia e solidarietà che costituisce il tratto tipico, perfortuna non ancora smarrito, della sua gente.

Al disegno dell’Italia che vogliamo deve accompa-gnarsi un grande e impegnativo Progetto che sia capacedi condurci alla meta. In quanto tempo? Non lo sappiamoe non azzardiamo una risposta. Sappiamo solo che iltempo sarà piuttosto lungo perché i nostri mali non sonosolo economici; sono più profondi e la loro cura è, tuttosommato, più difficile.

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Un grande Pr oge t to per l ’I ta l ia che vogl iamo con

al c en tr o l a pe rsona

Il progetto deve partire dall’uomo. Al suo centrodev’esserci la persona. Per due fondamentali ragioni; unadi principio e una contingente.

Innanzi tutto perché politica ed economia non sonofini in se stesse ma vanno poste al servizio dell’uomo edei suoi bisogni, a cominciare dal bisogno di lavorare: la-voro che a noi appare, al tempo stesso, come un doveree un diritto di ogni uomo. Produttività ed efficienza dellavoro sono cose essenziali che non possiamo trascurare,pena la nostra emarginazione e il nostro progressivo im-poverimento. Ma di esse non dobbiamo fare un feticcio,dobbiamo sempre armonizzarle con il rispetto e la dignitàdelle persone.

Noi non immaginiamo una società dei diritti, una societànella quale ognuno rivendichi qualcosa per sé e per il suo«gruppo». E ancor meno immaginiamo una società tribalenella quale è prioritario affermare l’inviolabilità di certi di-ritti individuali per sottrarli all’arbitrio di un potere ottusoe violento. Noi siamo in un Paese civile. E siamo convintiche, in un Paese civile come il nostro, i doveri vengonoprima dei diritti. Senza i doveri, i diritti diventano evane-scenti, mere enunciazioni prive di sostanza e di concre-tezza. I cosiddetti diritti di cittadinanza vanno precedutio, al massimo, accompagnati dai doveri di cittadinanza. Ilsenso di una società attenta all’uomo, di una società solidale

sta proprio nell’armonico integrasi di doveri e diritti dicittadinanza.

Vi è poi un’altra ragione per porre la persona al centrodel grande Progetto di cui parliamo. Una ragione per certiaspetti contingente ma non per questo meno importante.

A nostro parere, all’origine di molti nostri mali vi è unrapporto sbagliato, ambiguo, tra Stato e cittadino. Se os-serviamo la situazione del nostro Paese, ci rendiamoconto che là dove dovrebbero esserci collaborazione eamicizia, vi sono contrapposizioni e diffidenze.

Lo Stato, infatti, considera il cittadino poco più cheun suddito, da guardare sempre e comunque con

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sospetto. Dal canto suo, il cittadino ricambia: vede nelloStato una controparte esosa, esigente, debole e forte allostesso tempo, dalla quale è bene stare prudentemente lon-tani, riducendo al minimo i rapporti.

Ne deriva un cittadino sempre più chiuso nel suo «pri-

vato», sempre più disinteressato alla cosa pubblica; e unoStato che non si limita ai suoi compiti essenziali, alle suefunzioni naturali ma fa di tutto in tutti i campi, occupandospazi che dovrebbero essere lasciati alla libera iniziativadelle persone e delle loro organizzazioni. Di qui l’ineso-rabile crescita della spesa pubblica e delle imposte; e laconseguente inefficienza della Pubblica Amministrazione.

Solo riducendo questi compiti si possono ridurrespese e imposte. E solo riducendo questi compiti si puòaumentare l’efficienza della Pubblica Amministrazione eridurre, così, ulteriormente la spesa. Non possiamo an-dare avanti con «tagli» indiscriminati.

Siamo convinti che nel nostro Paese la spesa pubblicapossa diminuire, forse anche di molto. Ma può diminuiresolo a condizione che si riesaminino pazientemente l’or-ganizzazione dello Stato e il modo di produrre i servizi.È illusorio pensare di ottenere risultati duraturi senzamettere mano ai processi organizzativi. Del resto, la no-stra macchina statale ha più di 150 anni di vita. Neltempo, le abbiamo affidato sempre nuovi compiti e nonl’abbiamo mai sottoposta ad una vera revisione. È preve-dibile che in essa vi siano larghe aree di inefficienza.Come insegna l’esperienza delle grandi aziende di tutto ilmondo, le inefficienze non si eliminano con «tagli» indi-scriminati ma solo attraverso pazienti programmi di ri-strutturazione, costruiti per quanto è possibile con ilconsenso delle persone che ne sono toccate.

Più Stato o meno Sta to? No, uno Sta to d ive rso

Questo è un punto decisivo su cui va evitato ogniequivoco. Quando diciamo che lo Stato deve abbando-nare alcune funzioni, non è un modo come un altro perdire che lo Stato deve ridurre il suo impegno in campo

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sociale e tanto meno per mettere in discussione alcunegiuste conquiste sociali, vere e proprie conquiste di civiltà,che fanno parte ormai del nostro comune sentire. Tutt’altro.L’impegno dello Stato in questa direzione, semmai, deveaumentare. Occorre però renderlo ben più efficace: ciòche - realisticamente - si può fare solo coinvolgendo dipiù i cittadini e le loro organizzazioni piuttosto che ingi-gantendo, oltre misura, un apparato amministrativo pub-blico che è ai limiti della paralisi.

Un diverso rapporto, dunque, tra Stato e cittadino.Tocca allo Stato e quindi alla politica fare il primo

passo: incoraggiare il cittadino all’impegno sociale, farglisentire l’importanza della sua partecipazione, stimolare lasua capacità di autorganizzazione, porre le condizioni per-ché questa capacità possa esprimersi efficacemente.

La Politica deve muovere dalla constatazione che loStato non è in grado di svolgere tutta una serie di compitiche, forse troppo generosamente, si è assunto e deve af-fidarli (o riaffidarli) ai cittadini e al loro spirito d’iniziativa,nella convinzione che essi possono svolgerli meglio e acosti più bassi.

A questa consapevolezza debbono far seguito ade-guati provvedimenti - anche di carattere fiscale - per dif-fondere tra i cittadini questo nuovo spirito e per sostenerliin questo loro impegno.

Probabilmente dopo lunghi periodi di statalismo e didiffidenza reciproca non sarà facile ricostruire un rap-porto di fiducia, di amicizia tra Stato e cittadini. Ma nonc’è altra strada per dare una vera svolta al nostro Paese.E allora non resta che cominciare, ben sapendo - lo ab-biamo già detto - che i tempi sono lunghi, forse lunghis-simi.

Ci piacerebbe che politici credibili si rivolgessero atutti i cittadini chiedendo con semplicità e umiltà il loroaiuto e facendo all’incirca questo discorso: cari amici, tra

voi ci sono tante persone, che singolarmente o in apposite organiz-

zazioni, sono già impegnate con la propria operosità, con la propria

intraprendenza, con le proprie risorse finanziarie in tante iniziative

d’interesse generale e di aiuto a chi è in difficoltà. Il vostro impegno

spesso non dà i frutti sperati perché noi come Stato non vi

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sosteniamo, quando addirittura - senza volerlo - non vi ostacoliamo.

Da oggi intendiamo dare un segnale di attenzione al vostro impegno,

nella speranza che a voi si aggiungano tante altre persone che hanno

i vostri stessi sentimenti. Non chiedeteci soldi, perché ne abbiamo

pochi; vi possiamo sostenere con provvedimenti fiscali o di altra

natura.

Siamo convinti che un discorso come questo - soprat-tutto se accompagnato da adeguati provvedimenti di so-stegno fiscale dell’impegno dei cittadini in campo sociale- sarebbe compreso e apprezzato e avvierebbe una verae propria rivoluzione del rapporto Stato cittadino. Senzaquesta rivoluzione è vano pensare di uscire dalla profondacrisi in cui ci dibattiamo.

La d i f f i c il e art e del l a Pol it i ca t ra sv i luppo e sol ida-

r ie tà: l ’ in sos ti tuib il e r uo lo del l ’ impr esa e de l la com-

pe tiz ione……

Per realizzare l’Italia che vogliamo, occorre che la Po-litica sappia cimentarsi con successo nella difficile arte diarmonizzare sviluppo e solidarietà: due cose allo stessotempo distinte ma anche strettamente collegate. Se si ec-cettuano, forse, i primi anni del dopoguerra, la Politicafin qui non ci è riuscita; ora perché ha dato prevalentepeso alla seconda trascurando il primo, ora perché hafatto il contrario con i risultati deludenti che sono sottogli occhi di tutti.

Su questo punto occorre chiarezza. In tema di svi-luppo, in particolare, occorre ribadire con forza il ruolodell’impresa e dell’imprenditore che restano comunque ilmotore della crescita.

Si possono immaginare, certo, modelli di sviluppo di-versi da quello fondato sull’impresa. Lasciamo alla ricercascientifica il compito di idearli e di dimostrarne la validità.Ma finché non troviamo alternative migliori, non abban-doniamoci a pericolosi tentativi di ingegneria sociale e af-fidiamoci con convinzione e coerenza all’impresa. Il chenon significa naturalmente che l’impresa sia sempre e co-munque l’unica forma organizzativa della produzione. Vene sono altre - pensiamo al variegato mondo delle aziende

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non profit - ma l’impresa resta comunque al centro delnostro sistema economico.

Ecco allora la necessità di creare le condizioni affinchélo spirito imprenditoriale così diffuso nel nostro Paesepossa liberamente esprimersi, affinché le imprese possanoagevolmente nascere e, se ne sono capaci, crescere e svi-lupparsi.

A questo fine non servono gli stucchevoli slogan, tipoquello che promette la semplificazione delle procedure fino alpunto di rendere possibile far nascere un’impresa in unsolo giorno. Serve piuttosto diffondere a tutti i livelli lacultura dell’impresa che è essenzialmente cultura del ri-schio e, in connessione, del profitto.

Sul profitto, nel nostro Paese, vi è stata sempre moltaambiguità. Tale ambiguità va superata. Il profitto non vané demonizzato né esaltato. Ne va riconosciuta l’insosti-tuibile funzione, ne va chiarita la genesi e in ogni casoesso va distinto nettamente dalle rendite parassitarie cheinvece debbono essere sempre energicamente contrastate.

Dobbiamo renderci conto che un’economia difficil-mente progredisce se non vi sono persone disposte adassumersi rischi; queste persone vanno incoraggiate e adesse va dato un adeguato «ruolo sociale». Allo stessomodo dobbiamo renderci conto che alla base dell’impresavi è la competizione: competizione tra idee, tra prodotti,tra processi, ecc..

La competizione ormai è, in alcuni casi, addiritturaplanetaria. Compito dello Stato è rendere possibile alleimprese del Paese di competere ad armi pari, senza vin-coli e appesantimenti, con imprese di altri Paesi. Ne de-riva che uno Stato non può imporre, alle imprese, le«regole» che crede più opportune, ma deve tendere ad uni-formarsi alle «regole» prevalenti in campo internazionale.

La verità è che in molti casi la competizione non èsolo tra le imprese ma anche tra gli Stati e i rispettivi or-dinamenti. Il che significa che, per rendere sempre piùcompetitive le imprese che vi operano, gli Stati a volte deb-bono effettuare cospicui investimenti in infrastrutture,soprattutto di tipo immateriale.

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……Ma non tu tto è compet iz ione

Nel mondo moderno, dunque, la competizione è ine-ludibile. Ma attenzione a non ridurre tutto a competi-zione, a costruire un modello di vita che faccia dellacompetizione ad oltranza il solo criterio di guida del-l’azione umana. Sarebbe un disastro. La vita non è, nonpuò essere solo competizione: non possiamo elevare lacompetizione a fine; essa è solo uno strumento, al qualecerto non possiamo rinunciare se vogliamo la crescitaeconomica, ma rimane pur sempre uno strumento. Delresto ci sono tante persone che senza loro colpa non reg-gono il ritmo della competizione e tante altre che nongradiscono lavorare in un ambiente fortemente compe-titivo e che - a costo di personali rinunce - aspirano a rea-lizzare anche nel mondo del lavoro relazioni improntateall’amicizia e alla solidarietà.

Ecco allora che una Società fatta per l’uomo e una Po-litica fatta per l’uomo debbono tener conto di queste per-sone, debbono saper dar loro una risposta convincente.E lo possono fare essenzialmente in due modi:- modellando opportunamente il sistema fiscale,- dando spazio e sostegno ad una maggiore partecipa-

zione dei cittadini che possa esprimersi anche nel-l’escogitare - in alcuni settori produttivi - modelliorganizzativi della produzione diversi dall’impresavolta al profitto.

I l s i st ema f i scal e: motor e d i s v iluppo di so l idarie tà e

di part ec ipaz ione

Lo strumento fiscale è certamente il mezzo più efficaceattraverso il quale la Politica può armonizzare sviluppo,solidarietà e operosa partecipazione dei cittadini alla vitadella Comunità e alla soluzione di alcuni suoi problemi.

Senza entrare nei dettagli, diciamo subito che il si-stema fiscale deve saper distinguere nettamente tra l’im-posizione sul reddito d’impresa e l’imposizione sulreddito delle persone fisiche.

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Sul reddito d’impresa l’aliquota dev’essere molto con-tenuta: intorno al 20% ma potrebbe essere anche infe-riore qualora la base imponibile fosse costituita dalreddito prima degli oneri finanziari: cosa per altro moltoutile ai fini della lotta all’evasione.

L’impresa va sostenuta con norme fiscali che incorag-gino la sua crescita e la separazione della sua economia dal-l’economia dei suoi proprietari, anche allo scopo di evitareopache commistioni tra spese aziendali e spese familiari.

Vanno respinti con forza i tentativi di risolvere, attra-verso le imprese, problemi di sicurezza e di protezionesociale, riversando surrettiziamente su di esse oneri e ap-pesantimenti burocratici. Va incoraggiato invece il liberocoinvolgimento delle imprese - anche con adeguati incen-tivi fiscali - in taluni problemi sociali che esse sono ingrado di risolvere in modo più efficace e a costi più bassi.Deve però trattarsi di scelte liberamente assunte dall’im-presa e non di costrizioni.

Per quanto concerne l’imposizione sul reddito dellepersone fisiche, vale il principio delle progressività che èla prima e più elementare forma di solidarietà tra i com-ponenti di una medesima collettività. Ma questo principiosi rivela una formula vuota se non viene adeguatamentepuntualizzato. Noi riteniamo che in concreto la progres-sività vada posta in relazione con il «minimo vitale» neces-sario ad ogni persona e famiglia per una vita dignitosa:«minimo vitale» che a sua volta dipende anche dalla condi-zione soggettiva delle persone o delle famiglie (numerodei figli minori, presenza in famiglia di portatori di han-dicap o di anziani non autosufficienti e così via).

Hanno capacità contributiva solo coloro che dispongonodi un reddito eccedente il «minimo vitale» e la base impo-nibile è costituita solo da quell’eccedenza. Al contrarionon hanno capacità contributiva, anzi debbono ricevereun sussidio coloro che senza loro colpa hanno un redditoinferiore al «minimo vitale». Si può certo discutere sulla de-terminazione del «minimo vitale» ma è innegabile che aldi sotto di una certa soglia (che potrà variare anche dazona a zona del Paese) esso non possa scendere. Cosìcome è innegabile che non si può razionalmente costruire

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uno schema di progressività fiscale se non si affronta laquestione del «minimo vitale».

Come si vede, pensiamo ad un sistema fiscale che in-globi in sé anche la funzione di prevenzione del disagiosociale: di qui l’ipotesi che ad alcuni cittadini o famiglienon solo non vengano richieste imposte ma vengano ac-cordati sussidi.

Un sistema fiscale che abbia anche funzione di pre-venzione dovrebbe portare ad escludere il permanere disituazioni di disagio. Eppure l’esperienza ci dice che nonlo possiamo escludere, ora perché il «minimo vitale» è fis-sato ad un livello troppo basso, ora perché si manifestanosituazioni limite non previste e non prevedibili. Per farfronte a queste situazioni più che interventi pubblici, ap-paiono adatte forme di autorganizzazione, basate sul princi-

pio di reciprocità, che aiutano gli uomini anche a vincere lasolitudine, vera malattia del nostro tempo. Queste formedi aggregazione vanno incoraggiate e sorrette in tutti imodi possibili, ivi comprese le incentivazioni fiscali a fa-vore di tutti coloro (cittadini, istituzioni umanitarie e fi-lantropiche, ecc.) che le aiutano.

A questo proposito, riteniamo che vada incoraggiatala costruzione e la gestione, ad iniziativa di privati, di unagrande infrastruttura sociale, una grande rete composta di mi-gliaia di piccoli «centri» di ascolto e monitoraggio, ingrado di coprire l’intero territorio nazionale. Una rete chesappia intercettare rapidamente le situazioni di disagio ele sappia rimuovere anche attraverso il coordinamentodelle tante iniziative filantropiche e umanitarie di matriceprivata, presenti dappertutto nel nostro Paese.

La part ec ipaz ione de i c i ttad ini

Per ottenere un’Italia in cui vi sia meno burocrazia epiù partecipazione dei cittadini, dobbiamo fare in modoche, ogni volta che sia possibile, le decisioni in materia dispesa pubblica vengano affidate ai cittadini piuttosto chealla burocrazia e alla politica. Dobbiamo fare in modoche vi sia più autorganizzazione dei cittadini perché siamo

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convinti che essi sanno curare i propri interessi molto me-glio di quanto siano capaci di fare la burocrazia e la poli-tica; perché siamo convinti che solo allargando la sferadei diritti doveri dei cittadini è possibile ottenere servizimigliori a costi più bassi.

La partecipazione, però, non basta volerla. Occorrepromuoverla. E per promuoverla occorre vincere la sfidu-cia e l’inerzia dei cittadini; occorre superare alcuni diffusiluoghi comuni, veri e propri tabù, tanto radicati quanto sba-gliati. Per citarne uno soltanto, pensiamo a quello secondoil quale nel campo dei servizi pubblici non vi siano alter-native efficaci alla gestione statale o degli enti locali: l’unicaalternativa essendo costituita dall’impresa privata la quale,in quanto mossa dalla logica del profitto individuale, finisceper essere una soluzione ancor meno desiderabile. Ora lecose non stanno in questi termini. È semplicistico pensareche l’impresa sia la sola alternativa alla gestione pubblica.

Pensiamo alla sanità. Siamo proprio convinti che l’at-tuale organizzazione non abbia alternative diverse dalla ge-stione privatistica, mossa unicamente dal profitto e deltutto indifferente ai bisogni delle persone?

Siamo proprio convinti che per avere una «sanità per

tutti» non vi sia altra strada che rassegnarsi ad un modellodi gestione costoso e insufficiente come quello attuale, che- tra l’altro - non sempre riesce a raggiungere gli obiettividichiarati, soprattutto nei confronti dei soggetti più deboli?

Noi siamo convinti che lo Stato possa rendersi «ga-

rante» di ultima istanza dei servizi sanitari, e più in gene-rale dei cosiddetti servizi pubblici, senza doverli produrredirettamente attraverso proprie strutture che fatalmentetendono a burocratizzarsi con le inevitabili conseguenzesulla qualità e sui costi.

Ecco, noi dobbiamo abituarci a distinguere l’«interesse

generale» che s’intende perseguire dagli strumenti e dalletecniche attraverso le quali tale interesse viene soddisfatto.Noi siamo convinti che lo Stato debba rendersi «garante

dell’interesse generale» ma debba lasciare ai singoli libertà diautorganizzazione e li debba in qualche modo sostenere nel-l’esercizio di questa loro libertà, per ottenere risultati mi-gliori a costi più bassi.

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Come possiamo aumentar e la partecipaz ione dei citta-

dini

Per stimolarne la partecipazione dei cittadini si pos-sono escogitare numerosi meccanismi. Ci limitiamo a in-dicarne due.

Il primo è di carattere fiscale. Esso consiste nell’ac-cordare un credito d’imposta (recuperabile con modalitàestremamente snelle) ai cittadini che donano risorse fi-nanziarie a soggetti che perseguono finalità ritenute d’in-teresse generale. Tali soggetti vanno iscritti in appositielenchi e vanno sottoposti a controlli rigorosi ma chiara-mente definiti.

L’entità del credito d’imposta può essere variamentedosata in funzione del «grado» d’interesse generale che ri-veste il soggetto beneficiario: può andare, ad esempio, dal20-25% fino al 95-98% dell’erogazione se questa è desti-nata a soggetti impegnati in attività che in ogni caso do-vrebbe svolgere lo Stato o che lo Stato ritiene comunquedi dover più o meno integralmente finanziare.

Valga un solo esempio: il finanziamento della politica. Sesi ritiene, come noi riteniamo, che il costo della politicadebba, entro certi limiti, far carico alla finanza pubblica èpreferibile adottare un meccanismo di questo tipo, chelascia ai cittadini la scelta e ne promuove il coinvolgi-mento nella vita dei partiti, piuttosto che affidarsi alle at-tuali procedure che, nella loro opacità, sembrano fatteapposta per allontanare sempre più il cittadino dalla po-litica.

Il secondo meccanismo riguarda il governo delle tanteaziende di pubblici servizi che hanno capo allo Stato oad Enti locali.

Come è noto, da più parti si invoca la privatizzazionedi queste aziende e il loro trasferimento al privato profit alloscopo di addurre risorse all’Erario e di accrescere la loroefficienza. L’idea di privatizzare sempre e comunque i ser-vizi pubblici non ci convince.

Da un lato, infatti, è di comune esperienza che, permolti servizi pubblici, la privatizzazione classica ha datorisultati deludenti. Dall’altro, sul piano più propriamente

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finanziario, occorre tener presente che le imprese verreb-bero vendute a prezzi che - considerato anche il redditoche, in molti casi, attualmente esse producono - avreb-bero effetti nulli se non addirittura negativi sul bilanciodell’Ente venditore.

A nostro parere, sarebbe preferibile inserire negli or-gani di governo delle imprese di pubblici servizi un certonumero di cittadini scelti non dalla politica ma con estra-zione a sorte tra tutti i residenti nel territorio di operativitàdelle imprese. Naturalmente la nomina verrebbe subor-dinata alla verifica che il sorteggiato abbia i requisiti ne-cessari quali: l’onorabilità e, ad esempio, un dato titolo distudio.

All’obiezione che i cittadini così scelti potrebbero nonavere la dovuta competenza, risponderemmo così: 1) nonsempre i politici scelgono persone dotate di specificacompetenza tecnico amministrativa; 2) nella gestione diaziende di pubblici servizi, un’adeguata competenza tec-nica è richiesta al management, non certo agli organi am-ministrativi, a cui spetta invece il compito di interpretare,con equilibrio e buon senso, l’interesse generale perseguitodall’azienda. E questo evidentemente non esige partico-lari competenze tecniche, tanto più che gli Statuti delleaziende dovrebbero prevedere norme che impongonol’equilibrio economico di gestione, restringendo così lasfera di discrezionalità degli amministratori in materia dicosti e di tariffe.

I l grande Pr oget to per l ’I tal ia e le r i so rse che non ci

sono……

Abbiamo tracciato le linee generali dell’Italia che vor-remmo e di un Progetto che ce la può dare. Ma dobbiamodirci con chiarezza che tutte queste cose rischiano di ri-manere solo idee, solo desideri se non disponiamo di ade-guate risorse.

Un Progetto di ampio respiro come quello delineatonon dà, infatti, frutti immediati. Al contrario, soprattuttonella fase iniziale, esso richiede investimenti non trascu-

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rabili per avviare un effettivo processo di crescita dellanostra economia che, negli ultimi anni, ha sofferto pro-prio di una drastica riduzione degli investimenti in infra-strutture materiali e immateriali: istruzione, formazione,ricerca scientifica, ecc..

Allo stato attuale il nostro Paese non ha risorse da de-stinare al Progetto e peccheremmo di colpevole ottimi-smo se pensassimo di ottenerle attraverso la lottaall’evasione fiscale, il recupero di efficienza della PubblicaAmministrazione, l’eliminazione degli sprechi, la ridu-zione dei costi della politica e così via. Intendiamoci: que-ste sono tutte cose da fare, da fare presto e bene. Ma dasole non bastano. Forse qualche risultato apprezzabile sipotrebbe ottenere, in tempi relativamente brevi, ridu-cendo i livelli di governo, che oggi appaiono obiettivamentesovrabbondanti e introducendo il c.d. federalismo fiscaleche - se ben fatto - può divenire anche fattore di effi-cienza e di sana emulazione tra le amministrazioni locali.

Si potrebbero, intanto, sopprimere le province; nonquesta o quella ma tutte le province. La strada potrebbeessere un provvedimento che suoni press’a poco così: «I

consigli provinciali sono sciolti. I prefetti delle rispettive province

sono nominati Commissari. I prefetti, riuniti in collegio, formulano

proposte per l’attribuzione allo Stato, alla Regioni o ai Comuni

delle funzioni ritenute ancora necessarie. Essi, inoltre formulano

proposte per la sistemazione del personale esuberante». Questo èun modo efficace per tagliare immediatamente i costidella politica.

Insistiamo: le cose prima indicate, a cominciare dallalotta all’evasione fiscale, vanno fatte e vanno fatte nel piùbreve tempo possibile e con la dovuta determinazione.Ma da sole non bastano. Non bastano certamente perdare avvio al grande Progetto delineato, ma non bastanoneppure per sopravvivere alla bell’e meglio, senza preoc-cuparsi del futuro come stiamo facendo da qualchetempo.

Noi siamo convinti che in fondo alla strada che l’at-tuale maggioranza di governo si ostina a percorrere - fattadi slogan tipo: «non metteremo le mani nelle tasche degli italiani»

- c’è il baratro, il disastro economico e civile dell’Italia,

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l’uscita dell’Italia dal novero dei Paesi economicamente ecivilmente sviluppati. E invece, per usare quella bruttaespressione, le mani nelle tasche degli italiani bisogna met-terle. Certo, bisogna metterle con garbo e con equità; bi-sogna metterle nelle tasche di chi ha abbastanza e nonnelle tasche di chi ha poco o nulla, ma non si può nonmetterle se non vogliamo sprofondare nel baratro versocui ci siamo irresponsabilmente diretti.

…… Ma che c i pot r ebber o es se r e

Sarebbe, d’altra parte, paradossale che un Paese comeil nostro, con una ricchezza privata pari a 6-7 volte il de-bito pubblico non trovasse il bandolo della matassa, nontrovasse il modo di dare un taglio netto a questo debitopubblico che con il suo «servizio» - per rimborso e per in-teressi - ci sta letteralmente soffocando. Non solo; essoci espone costantemente al rischio di una vera e propriabancarotta che ci colpirebbe anche nella nostra dignità dicittadini.

Crediamo che tutti ci dobbiamo porre serenamente laseguente domanda: se il nostro Paese ha un debito cosìalto e noi italiani abbiamo nel complesso una ricchezzadi molto superiore al debito, ciò non può essere dovutoal fatto che in passato abbiamo pagato poche imposte?Si dirà che c’è stata molta evasione. È vero. Ma non puòanche darsi che le aliquote fossero un po’ basse rispettoai tanti compiti affidati allo Stato in materia di sicurezzae protezione sociale? Del resto un rapido conto ci fa age-volmente constatare che se a partire dagli anni ’70, aves-simo pagato un punto in più di imposte rispetto al PIL,oggi avremmo un debito inferiore a quello dei Paesi eu-ropei ritenuti più virtuosi.

Abbiamo il dovere di porci queste domande prima diripetere acriticamente tanti logori e frusti slogans e prima diopporre tanti scandalizzati dinieghi a qualunque ipotesi dichiamare i cittadini economicamente più fortunati a dareun contributo straordinario per riequilibrare i nostri conti.

Noi non ci associamo a chi cerca capri espiatori a cui

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addebitare la responsabilità all’attuale debito pubblico.E non lo facciamo, sia chiaro, non perché escludiamo chevi siano stati comportamenti superficiali, irresponsabili ea volte fraudolenti, ma perché ora è ben più importantetrovare qualche soluzione che valga a riportare il debitosotto controllo.

Una drastica riduzione del debito pubblico è indispen-sabile e l’unica strada realistica è chiedere un contributostraordinario ai cittadini più agiati. Un contributo chedovrà essere congegnato in modo che essi ne subiscanoil minor disagio possibile, prevedendo forme di paga-mento dilazionato e, all’occorrenza, molto differito. Èuna cosa inevitabile. Non vi sono altre strade per arrestarel’inesorabile declino dell’Italia. È un sacrificio per noitutti, ma non vi sono alternative. Parliamo di grande Pro-getto Paese perché, evidentemente, un tal sacrificio puòessere richiesto ai cittadini solo in presenza di un grandedisegno della nuova Italia, dell’Italia che vogliamo. Un di-segno largamente condiviso e che contenga in sé una seriedi accorgimenti - se occorre anche di tipo costituzionale- volti a garantirne, nel tempo, l’effettiva attuazione.

Parliamo di sacrifici. Ma forse il termine non è esatto.Probabilmente dovremmo parlare non di sacrifici ma diinvestimenti. Sì, perché salvare il Paese significa salvarenoi stessi e quel poco o quel tanto che ciascuno di noi ha.Chiuderci con ostinazione e ottusità nella difesa ad ol-tranza di ciò che abbiamo è illusorio. Alla fine perde-remmo molto di più di quel che ci rifiutiamo di pagareoggi. E in più con l’amarezza e la frustrazione di viverein un Paese emarginato e senza prospettive.

Il Presidente Pellegrino Capaldo

Associazione Amici dell’Istituto Luigi Sturzo

Palazzo BaldassiniVia delle Coppelle, 35 - 00186 Romatel: 06.6840421e-mail: [email protected]

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