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Classe 5B Navezze
Il 27 gennaio del 1945 l’ Armata
Rossa entrava nel campo di
sterminio nazista di Auschwitz e
liberava i prigionieri superstiti: il
mondo così scopriva l’orrore
dell’Olocausto.
LA LIBERAZIONE
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Shoah è una parola ebraica che significa
«catastrofe»: Fra il 1939 e il 1945, durante la Seconda
Guerra Mondiale, moltissime persone furono
trucidate dai nazisti per il solo fatto di essere ebrei. Lo
scopo di questo regime era infatti quello di creare un
mondo ‘purificato’ da tutto ciò che non era
rappresentato da se stessi. Questo orrore partì dalla
Germania, ma si espanse via via invadendo Austria
e Polonia, Francia e Russia, Olanda, Grecia e poi
anche l’Italia.
SHOAH
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Il regime fascista nel 1939 aveva emanato una
legislazione contro gli ebrei. Le leggi razziali li
escludevano dalle scuole, da molte professioni, dalla
vita sociale.
In Italia c’era il fascismo con a capo Mussolini, in
Germania il nazismo con a capo Hitler; erano
movimenti politici dittatoriali.
1 settembre 1939 scoppiò la Seconda Guerra
Mondiale. La Germania invase la Polonia e l’Italia si
alleò con la Germania.
In Italia contro il fascismo nacque la resistenza: i
partigiani erano uomini che combattevano contro il
regime autoritario.
Il 25 aprile 1945 ci fu la liberazione dai tedeschi.
Il 1 settembre 1945 finì la guerra.
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Auschwitz, Dachau, Birkenau sono alcuni fra i nomi dei campi di sterminio. Qui
ogni giorno arrivavano treni merci carichi di persone. Nessuno veniva lasciato
in vita. Le camere a gas erano camuffate da docce: la gente era invitata a
spogliarsi e a entrare. In otto minuti circa arrivava la morte. Poi c’erano i forni:
la soluzione più ‘comoda’ per eliminare migliaia di cadaveri alla volta.
I CAMPI DI CONCENTRAMENTO
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Anche Mussolini accettò e firmò le leggi razziali per
emarginare gli ebrei. Ben presto anche in Italia
cominciò la caccia all’ebreo, non più soltanto per
emarginarlo, bensì per ucciderlo, catturarlo e
spedirlo nei campi di sterminio. Il campo di transito di
Fossoli, in provincia di Modena, divenne il luogo di
transito per questi tristi carichi umani. La Risiera di San
Sabba, invece, nei pressi di Trieste, fu un luogo di
morte.
IN ITALIA…
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DA ALCUNE TESTIMONIANZE DEI SOPRAVVISSUTI…
…ALLA REALIZZAZIONE DELLA
«Pellicola della vita dei deportati»
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ANDRA E TATI BUCCI
Quella notte di fine marzo 1944, erano da poco passate le nove. Lei, Andra, e il cugino
Sergio 7 anni erano già a letto. Il ricordo indelebile per entrambe è quello della nonna
Rosa che si mise a piangere e si gettò per terra, aggrappata ai cappotti di questi uomini.
Implorò i soldati di prendere lei. Di lasciare stare i bambini. Ma fu inutile. I nazisti li portarono
via tutti a bordo di un'auto. Iniziò un viaggio lungo quasi 1.000 chilometri. Arrivammo ad
Auschwitz. Con una fermata intermedia: la Risiera di San Sabba, il lager vicino a Trieste.
Appena arrivate al campo «ci fecero indossare vestiti grandi e sporchi». Poi «ci
marchiarono con il numero che ancora oggi portiamo sul braccio. E che non abbiamo
mai voluto cancellare». Nel lager vedemmo la morte.
Fummo scambiate per gemelle, a causa della nostra somiglianza
così marcata: quindi fummo tenute da parte insieme
ad altri bambini-cavia, perché proprio sui gemelli gli orchi
conducevano i loro feroci esperimenti.
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MARTA ASCOLI
Mi chiamo MARTA ASCOLI… e ho rivisto la luce…
Ero là, privata di tutto, vestita di pochi stracci, sempre gli stessi, in tutte le stagioni,
con il caldo e il freddo, senza acqua per lavarsi, senza cibo, senza un nome, solo
un numero, e soprattutto senza dignità. Le malattie si diffondevano velocemente
nelle baracche sovraffollate. La denutrizione e l’assoluta mancanza
d’igiene facevano il resto: ogni giorno mi confrontavo con la morte, giovane
donna di soli diciassette anni che avevo sempre amato la vita e che nei sogni di
ragazza avevo spesso immaginato il futuro. Ma quel futuro, che ora per me
rappresentava il presente, era davvero inimmaginabile. Le giornate nel lager
trascorrevano tutte uguali, fra lavoro e punizioni. Ma se il lavoro non veniva
svolto bene ne seguiva la giusta punizione. Nel poco tempo che ci era concesso
per mangiare la zuppa, le SS che erano di turno, sceglievano le persone,
obbligandole a correre senza fermarsi avanti e indietro, o a inginocchiarsi a
lungo o a portare grosse pietre finché cadevano sfinite. Quando crollavano a
terra, i militi intervenivano con bastonate e ridevano tra di loro. Credo che
questo si possa definire con una sola parola: sadismo. Poi, ormai insperata,
giunse la liberazione: il 6 luglio 1945 seppi che sarei tornata a casa.
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PIERO TERRACINA Ci misero in 64 in un vagone. Fu un viaggio allucinante, tutti piangevano, i
lamenti dei bambini si sentivano da fuori, ma nelle stazioni nessuno poteva
intervenire, sarebbe bastato uno sguardo di pietà. Le SS sorvegliavano il
convoglio. Arrivammo dentro il campo di concentramento, dalle fessure
vedevamo le SS con i bastoni e i cani. Scendemmo, ci picchiarono, ci
divisero. Formammo due file, andai alla ricerca dei miei fratelli, di mia
madre, noi non capivamo, lei sì. Non l'ho più rivista. Mio padre, intanto,
andava verso la camera a gas con mio nonno. Noi arrivammo alla "sauna",
ci spogliarono, ci tagliarono anche i capelli. E ci diedero un numero di
matricola. "Dove sono i miei genitori?", chiesi a un altro sventurato. Lui alzo’
gli occhi. Quando siamo stati liberati, pesavo 38 chili. Io camminavo, ma
erano tanti quelli che non si tenevano in piedi. Dopo un po' crollai, dopo fui
portato dai russi in un ospedale militare. In seguito fui portato nell'ospedale
di Leopoli. Li' ripresi a piangere e presi coscienza di quello che era stato
perpetrato da persone normali ai nostri danni.
Raccontare del lager ha significato per me in parte rivivere quelle
situazioni, ma io volevo sembrare una persona come tutte le altre, non dico
"essere" ma almeno "sembrare". E così è andata: di giorno cercavo di fare
una vita più normale possibile e di notte molto spesso mi ritrovavo a fare i
conti con il mio passato nel lager. Sognavo continuamente di Auschwitz,
era una specie di doppia vita.
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SAMI MODIANO Giunti a Birkenau, superiamo la prima brutale selezione: il cenno a sinistra del
medico nazista, che giudicava a vista, voleva dire camera a gas e forno; il cenno
a destra indicava i “privilegiati”, risparmiati perché giudicati adatti ai lavori più
duri. In pochi giorni di internamento, quasi tutto diventa chiaro, anche nel mio
sguardo ancora innocente di ragazzino. La fugace e quotidiana visione di mia
sorella, oltre la cortina di ferro attraversata dalla corrente, mi conforta fino al
giorno in cui non la vedo più. Mio padre, prima di consegnarsi agli assassini, mi
impone di tenere duro. «Sami, tu sei forte. Devi farcela. Ce la farai!». E così resto
solo a combattere per la vita.
Mi trattiene e mi conforta l’accorata imposizione di mio padre: “Devi farcela!”. Ci
riesco, almeno fino a quando, affamato, indebolito e ridotto a uno scheletro, non
riesco a superare la nuova selezione. Vuol dire camera a gas.
Il mio destino è segnato. Lo chiudono, assieme ad un gruppo di altri sventurati,
nell’anticamera della finta doccia dove le conduttore del letale Zyklon B sputano
veleno a getto continuo. Ma non succede nulla. Poi si spalanca una porta, ma
non è quella della camera a gas. Un ufficiale tedesco dà ordine di uscire
all’aperto, perché si è prodotta un’emergenza. Sono vivo grazie a un carico di
patate. Proprio patate, sissignore! Era infatti arrivato un treno carico di patate, ma
non vi erano abbastanza prigionieri per scaricarlo. Fummo condotti a scaricare le
patate, sistemandole a piramide su assi di legno.
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NEDO FIANO
Fui catturato insieme a mio padre e mio nonno nel maggio del 1944
deportato con lui ad Auschwitz. Siamo entrati nella quarantena, che era
comunque un luogo di morte, le razioni erano dimezzate rispetto al
campo, durava circa tre settimane e quando i prigionieri uscivano erano
ridotti malissimo. Mi ricordo che siamo entrati in una baracca, dove era il
momento della distribuzione della zuppa. Ad Auschwitz non c’erano né
forchette, né coltelli, né cucchiai. Dovevamo mangiare mettendo la testa
dentro nella ciotola.
Il mio nonno…il mio angelo Quando fummo dentro la baracca entrò subito dopo un sergente
maggiore delle SS, il quale disse: "Achtung", tutti scattarono in piedi, era un
ordine. Incominciò a guardarci. Io so cos’è uno sguardo nazista, uno
sguardo vitreo, freddo. Il nazista disse che aveva bisogno di qualche
interprete. "Chi parla tedesco?"chiese. Ero impietrito, immobile. E proprio
quando pensavo che questo esame fosse finito, ho sentito una spinta sulla
schiena, una mano che mi mandava avanti a offrire la mia disponibilità
d’interprete. Mi sono trovato davanti alla SS, che continuava a fissarmi con
lo stesso sguardo. A un certo punto mi chiese "Dove sei nato? ". Io risposi
senza guardarlo, con gli occhi verso un punto infinito :" A Firenze". Dopo un
monologo di dieci minuti mi ha selezionato per il corpo interpreti. Eravamo
dei privilegiati, e se io sono qui a parlare forse è anche per questo. Gli
interpreti lavoravano sulla banchina d’arrivo della stazione di Auschwitz –
Birkenau.
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IL GIARDINO DEI GIUSTI è un giardino dedicato ai Giusti, le donne e gli uomini che si sono
opposti con responsabilità individuale ai crimini contro l'umanità e ai
totalitarismi.
I GIUSTI sono semplicemente delle persone normali che posti di fronte
all’ingiustizia reagiscono sapendo opporsi anche a rischio della
propria vita. Sono i non ebrei che durante la Shoah salvarono la vita
di almeno un ebreo senza trarne alcun vantaggio personale. La loro
esistenza stessa dimostra che anche nelle situazioni peggiori, in cui
l’assassinio era diventato legge di stato e il genocidio parte di un
progetto politico, è comunque sempre possibile per tutti gli esseri
umani fare delle scelte alternative.
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IL GIARDINO DEI GIUSTI DI GERUSALEMME E IL MURO D’ONORE
Il primo Giardino dei Giusti, nato
a Gerusalemme nel 1962, è
dedicato ai Giusti tra le nazioni.
Tra il 1963 e il 2001 ne sono stati
commemorati circa 20.000 di cui
295 italiani. Il giardino ricorda i
Giusti non ebrei che hanno
salvato la vita a ebrei durante
la Shoah. La commemorazione
fino agli anni novanta era
effettuata piantando alberi in
onore dei Giusti tra le nazioni.
Oggi, non essendoci più spazio
per le piantumazioni, è stato
costruito nel giardino il Muro
d'Onore su cui ne vengono
scolpiti i nomi.
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Breve biografia di alcuni giusti italiani
A Budapest riuscì a salvare dallo sterminio nazista
migliaia di ungheresi di religione ebraica inventandosi un
ruolo, quello di Console spagnolo. Per cento giorni,
Giorgio Perlasca si finse (e fu, a tutti gli effetti), tutto quello
che non era: fu ambasciatore, medico, organizzatore della
resistenza, consolatore di singoli. Sempre creduto in
ognuno di questi ruoli. E gli oltre 5200 ebrei ungheresi
riuscirono a salvarsi, a sopravvivere. Era un ovvio bluff ma
nel clima di disfatta, confusione e di mancanza assoluta di
comunicazioni, funzionò.
GIORGIO
PERLASCA
Classe 5B Navezze
Trasportò documenti falsi da Assisi, dove c'era una
stamperia clandestina, al vescovo di Firenze che
poi li distribuiva agli ebrei per farli espatriare.
GINO BARTALI
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Inventò una malattia per salvare decine di ebrei
romani. Si chiamava “Morbo di K” (K come gli ufficiali
nazisti Kesselring e Kappler). Lui, allora medico del
Fatebenefratelli, nosocomio vicino al Ghetto e alla
grande Sinagoga, lo inventò insieme al primario
Giovanni Borromeo
Scrisse sulle false cartelle cliniche il nome della
malattia “contagiosissima” che scoraggiò i nazisti al
controllo dei nomi dei pazienti. Mentre nei sotterranei
una radio clandestina permetteva di comunicare
con i partigiani, nell’ospedale trovavano rifugio molti
romani. Il suo attivismo costò a Ossicini la prigione e le
violenze dei nazisti e dei fascisti. A 96 anni ricorda la
sua storia con un monito: «Bisogna sempre cercare di
essere dalla parte giusta…».
ADRIANO
OSSICINI
Classe 5B Navezze
Era un medico piemontese (padre di Piero Angela)
che nella sua clinica nascose ebrei facendoli
passare per malati.
CARLO ANGELA
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Contribuì alla salvezza di 105 ebrei accompagnandoli in
prima persona a Cernobbio dove, contando su
contrabbandieri sicuri e sul fedele appoggio di un paio di
guardie confinarie, riusciva a farli espatriare in Svizzera.
DON DANTE SALA
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Gam Gam è il titolo di una canzone scritta da Elie Botbol che riprende il quarto versetto del testo ebraico del Salmo 23 dell'Antico Testamento. Il brano è parte della colonna sonora del film Jona che visse nella balena. Nel film il canto viene insegnato dalla maestra a Jona e agli altri bambini nel lager. "Anche se andassi nella valle della morte non temerei male alcuno, perché tu sei sempre con me, perché tu sei il mio appoggio, il posto più sicuro per me. Al tuo cospetto io mi sento tranquillo".
Gam-Gam-Gam Ki Elekh
Be-Beghe Tzalmavet
Lo-Lo-Lo Ira Ra
Ki Atta Immadì
Gam-Gam-Gam Ki Elekh
Be-Beghe Tzalmavet
Lo-Lo-Lo Ira Ra
Ki Atta Immadì
Shivtekhà umishantekhà
Hema-Hema yenahmuni
Shivtechà umishantechà
Hema-Hema yenahmuni
Gam gam…
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Il contrario della pace
non è la guerra.
E’ l’indifferenza.
Il contrario dell’amore
non è l’odio,
ma l’indifferenza.
Il contrario della morte
è la memoria.