Giorgio Falco - "Cauboi"

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Pubblicato nell'antologia "Radici e ali. Racconti a margine" (Terre di mezzo Editore)

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CauboiGiorgio Falco

Arrivava due volte all’anno. Alla fine di ottobre c’era la fiera della cittadina, gli agricoltori esponevano mucche, maiali, cavalli lungo il viale alberato, proprio di fronte alla stazione, allora andavo sotto gli ippocastani e da lì vedevo un film di cauboi, i cavalli nitrivano mentre il treno partiva sullo sfondo di cartone lambendo i palazzi beige della speculazione, i panni stesi e le luci delle cinque accese. La fiera durava tre giorni: venerdì, sabato, domenica, c’erano trattori e piccoli aratri, potevo salire su un John Deere accompagnato da mio padre, ero più alto di un cavallo da lassù, ero perfino più alto di mio padre.A marzo c’era la fiera di San Giuseppe, uguale a quella di ottobre, però alle cinque era ancora chiaro, si distinguevano le teste dei passeggeri del treno, stampate sul finestrino in direzione dei cavalli. Regalavamo un dopobarba o una bottiglia di liquore a mio padre, tastava la carta stropicciata con il fiocco rosso troppo arricciato urlando dopobarba! liquore!Le giostre erano nella piazza principale della cittadina, la ruota e gli uomini formica in basso, gli aereoplanini volavano ruotando su loro stessi, se abbattevi gli altri aereoplanini e atterravi per ultimo vincevi una corsa, perfino le montagne russe e la nuova attrazione Tagadà sfioravano le case della piazza, illuminavano i muri di macchie lampeggianti che svanivano e si ricreavano subito dopo. I piatti rimbalzavano da una mano all’altra dei venditori, mentre le donne della prima fila, con le mani appoggiate sulla mercanzia, contrattavano il prezzo di tovaglie e corredi matrimoniali, e mazzi di palloncini restavano legati alla bombola del gas.

Eravamo in quinta elementare. Entrò in classe, aveva ritagliata in faccia l’idea di un russo, i capelli a caschetto biondi, molto più giocatore di hockey su ghiaccio che non centravanti italiano. Salutate il vostro compagno, rimarrà con noi alcuni giorni, disse la maestra e noi in piedi fissammo i pantaloni di velluto e la camicia a scacchi bianchi e blu, il bidello con i baffi aggiunse un banco in prima fila, il bambino ringraziò e si sedette. La maestra spiegava geografia, noi fissavamo la nuca del nuovo arrivato, l’attaccatura dei capelli, il modo in cui inclinava la testa quando scriveva. Il nostro nuovo compagno di classe era figlio di giostrai, la maestra ce l’aveva detto il giorno prima. Si fermava una settimana in ottobre e una in marzo. Poi ripartiva con la famiglia, una nuova fiera in una nuova cittadina. Non sapevamo quale genere di giostra avesse, alcuni dicevano l’autoscontro, o i flipper con i cavalli elettrici, altri addirittura la

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nuova Tagadà. All’intervallo giocammo a palla nel cortile della scuola.Il bambino con la faccia da giocatore di hockey fissava il pallone.“I miei genitori hanno detto che sei uno zingaro” disse Franco.“È vero, sei uno zingaro” disse Paolo.“Sì, sì, zingaro zingaro” gli altri.Non sapevo cosa fare, non avevo detto zingaro ma neppure vieni qua e gioca con noi. Continuammo con la palla, il bambino si sedette a guardarci.Smisi di giocare, ma non mi avvicinai al bambino che ci guardava, dissi che avevo male alla caviglia.Suonò la campanella e rientrai in classe.

Ambientavo storie di soldatini Nordisti, Sudisti, giapponesi della Seconda Guerra Mondiale, indiani Sioux con o senza cavallo nella terra desolata del tappeto, mio padre l’aveva comprato al Giambellino da un collega, un pugliese affarista che aveva riempito le camerette dei figli dei manetta di mezza Milano. Nei film morivano sempre gli indiani, urlavano e cadevano da cavallo, io facevo morire pure i cauboi, facevo morire tutti, a parte le bestie, perché mi pareva non c’entrassero.Non potevo fare a meno di pensare a come avevamo accolto il nuovo compagno di classe. Una cosa del genere era capitata pure a me, nel 1974, all’età di sei anni.Avevamo cambiato casa, ci eravamo trasferiti nel nuovo quartiere. Abitavamo in un palazzo di nove piani con le tapparelle verdi, l’ascensore costava 10 lire, dal terrazzo vedevo tutta la cittadina, sfioravo il campanile. La strada non era ancora asfaltata, quando pioveva andavo a scuola con gli stivali di gomma. Il nuovo cortile era sempre pieno di bambini, un giorno mi avvicinai a un gruppo che stava giocando a palla avvelenata e chiesi: “Posso giocare?” “No, mio padre ha detto che i tuoi genitori sono terroni. Tu sei terrone”. “Non è vero, non sono terrone”. “Sì, sì, sei terrone”.“Non è vero”.“E invece sì. I terroni puzzano”.“Io non puzzo”.“Sei terrone”.“Io non puzzo, non sono terrone”.“I terroni puzzano, spuntano dalla terra, per questo li chiamano terroni”.“Io non sono spuntato dalla terra”.“Sei terrone. I miei genitori lo dicono sempre”.

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Ero terrone, mica lo sapevo. Mio padre, un emigrato siciliano degli anni cinquanta, guidava i pullman dell’Atm, tifava Juve e una volta all’anno ci portava in Sicilia caricando le valigie sul portapacchi della macchina; la nonna piangeva quando ci vedeva, i suoi baci erano appiccicosi, la faccia solcata da rughe scure. Mio padre somigliava moltissimo alla nonna, mangiava indossando una canottiera bianca da maggio a settembre, calciava con il sinistro, teneva le Stop in un borsello di pelle, usava il dopobarba che gli regalavamo a San Giuseppe e a tavola, quando non mangiavo distratto dalle bollicine del chinotto, sbatteva i pugni sul tavolo urlando: “mannaggia a Cristo, tornassero quindici giorni del quarantatrè”; soffrì la fame durante la Seconda Guerra Mondiale, mangiò arance e bevve latte direttamente dalla mucca, non lo vidi mai bere spremute o latte, concepiva la mucca solo come bistecca.Non raccontai ai miei genitori la storia del terrone, per fortuna il cortile era grande e c’erano altri bambini. Io non volevo essere come gli altri bambini, le nonne parlavano in dialetto milanese, nan, malnat, piscinin, piscinela, vada via al cu. Il peggio fu quando i miei nonni siciliani salirono al nord per qualche tempo, capitava che tornassero da una passeggiata, mi nascondevo per non farmi salutare in cortile davanti ai bambini che mi avevano chiamato terrone. Io non volevo essere un terrone, non volevo essere niente, volevo solo giocare. Spesso domandavo a mio padre perché non erano rimasti in Sicilia, se fossero rimasti in Sicilia io sarei nato in Sicilia, anche se magari sarei nato nel 1965 o nel 1971 chissà, però nessuno mi avrebbe chiamato terrone.Invece ero nato a Milano da genitori terroni che mi portavano ogni anno in Sicilia, ma quando giocavo per i vicoli che accerchiavano la casa della nonna, io non ero terrone, non dicevo unnè, talia, Cammelina Cammelì.

A mio padre non piacevano le macchine targate Pv, Pavia. Ogni volta che aveva davanti un’auto targata Pv sbuffava. “Non sanno guidare, sono lenti.”Suonava il clacson, imprecava.“Guidano bene solo a Milano. A Catania, Napoli e Roma guidano come i cani”.

Mia madre diceva che Roma è bella, bellissima, più di Milano. Peccato che è abitata dai romani. La prima volta che siamo andati a Roma abbiamo dormito da un parente di mio padre, un siciliano sposato con una romana. Stavamo mangiando l’insalata condita con moltissimo aceto.“Mia madre dice che Roma è bella, peccato che è abitata dai romani” dissi.

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Arrivò uno scappellotto da mia madre.“Non è vero, cosa ti inventi!”“Pensa a mangiare” disse mio padre.Affondai la faccia nell’aceto. “I bambini hanno una fantasia” mia madre disse alla signora romana. Mio padre continuò a ruminare, muoveva le mandibole come una mucca, una mucca terrona.

“Torna presto e stai attento ad attraversare”.Uscii di casa e andai alla fiera, cercai la giostra del mio compagno di classe. I ragazzi accerchiavano il pugno di pelle marrone, prendevano una breve rincorsa e tiravano il cazzotto, le lancette giravano verso Superman che urlava travestito da sirena. Le nonne accompagnavano enormi batuffoli di zucchero filato, dietro i quali si nascondevano i nipoti. Franco e Paolo lanciavano le palline da ping pong verso il centro di un tendone, dove piccole vasche trasparenti, poste una accanto all’altra, contenevano pesci rossi di varie dimensioni. I pesci più piccoli sbattevano contro le pareti delle vasche, i pesci più grandi aspettavano senza fretta la razione di cibo o la mano che li sollevasse.La pallina da ping pong doveva entrare in una delle piccole vaschette. Se la centravi, tornavi a casa con un sacchetto di plastica trasparente. E un pesce.“Ciao”.“Ciao” disse Franco.“Adesso lo prendo” disse Paolo.“Posso fare un tiro?”“No, stiamo giocando noi”.“Un tiro solo. Se vinco vi lascio il pesce”.“No. Abbiamo messo noi i soldi” disse Franco.“Sei un terrone -gli dissi- terrone”.Franco si girò di scatto e mi guardò stringendo la pallina in mano.“Tu sei un terrone”.“Tu sei un terrone, tua nonna si chiama Marì” dissi.“Prova a dirlo ancora”.“Marì Marì Marì”.Mi spintonò e finii contro un ragazzino che stava lanciando la pallina. “Ehi” mi disse. La pallina finì nella vaschetta. “Bel colpo” disse il signore della giostra.“Visto che mira?” disse il ragazzino agli amici.“Sei terrone con le lentiggini. Terrone con le lenticchie” dissi a Franco.

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“Terrone tu” rispose. “Terrone”. “Terrone”. “Terrone”. “Vattene dal tuo amico zingaro” mi disse Franco.“Adesso basta, non voglio casino qua attorno” disse il signore della giostra.Me ne andai, davanti a me il ragazzino vittorioso con il sacchetto di plastica pieno d’acqua e il pesce rosso.“Ehi” disse agli amici “vediamo come muore”.“Seee, vediamo, vediamo”.Lo gettò nel retro di una giostra. Il pesce guizzò tra i fili neri della luce.

Lo vidi dietro il bancone del tiro a segno. I suoi genitori caricavano i fucili mentre il figlio leggeva il sussidiario in un angolo. Ero affascinato dalla sua vita, sempre in movimento, nuovi posti, nuove piazze, non come me che avrei visto Franco, Paolo e gli altri pure alle medie.Tutto questo mi sconfortava, soprattutto mi vergognavo per quello che era successo al mattino, volevo scusarmi, però temevo che avesse spifferato tutto ai genitori, magari avevano ragione i genitori dei miei compagni di classe, ero nei guai, mi avrebbero rapito e portato ad una fiera in Russia, avrei fatto il giocoliere per qualche monetina. Me ne stavo andando quando il bambino disse: “Ehi, ciao. Vieni qua”.Mi avvicinai.“Lui è un mio compagno di classe” disse ai genitori.“Non volevo” dissi spaventato.“Vuoi sparare?” domandò il padre.“Io? Non sono capace”.“Prova” disse la madre.“Costa tanto?” chiesi.“Tu non paghi” disse il bambino.“Certo che non paga” disse il padre.“Dai, coraggio” disse la madre.Imbracciai il fucile goffamente, come una canna da pesca. Chiusi l’occhio sinistro cercando di concentrarmi su ciò che avevo imprigionato nell’occhio destro aperto. Un topo di peluche, un orsacchiotto di peluche. Visto che mia nonna uccideva i topi in cantina, scelsi l’orsacchiotto. Mi dispiaceva per quel povero animaletto di peluche ma non potevo deludere la fiducia del mio compagno di classe. Il primo colpo finì smorzato dal tendone rosso che fiammeggiava alle spalle della vittima. “Più in basso” disse il padre. Riprovai. L’orsacchiotto mi guardava senza neppure

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chiedere pietà, sembrava del tutto disinteressato alla faccenda. Colpii ancora il tendone. “Non sono capace” dissi. “Riprova” disse la madre. L’orsacchiotto aveva il pelo bianco e rosso a chiazze, la luce di una lampadina verde evidenziava il suo deperimento. Sbagliai ancora. “Devi appoggiarlo di più alla spalla” disse il bambino. Ero una cosa sola, ero un fucile, avevo un grilletto al posto dell’indice. L’orsacchiotto stava ancora lì, sul ripiano di legno colorato di giallo. Così piccolo, dove era finita sua madre? Lo mancai. Riaprii l’occhio sinistro e faticai a rimettere a fuoco ciò che il destro aveva immaginato. Appoggiai il fucile sul panno del bancone, ringraziai il bambino e i suoi genitori e mi fermai alle spalle di un ragazzo che aveva appena imbracciato il fucile. Era in compagnia di amici, ridevano, dai Pier, fallo fuori, fallo fuori. Il ragazzo fece tutto quello che avevo fatto io ma con naturalezza, l’occhio, la spalla e tutto quanto, l’orsacchiotto cadde all’indietro tra le urla di gioia degli amici. Il mio compagno di classe appoggiò l’orsacchiotto sul bancone.“Dai, ancora Pier” dissero gli amici del ragazzo.

Tratto da "Radici e ali" (Terre di mezzo Editore, 2001)