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Il piano dell'opera

Questa antologia, raccoglie in ordine cronologico di pubblicazione, tutti i ro-

manzi di Letizia.

Sono state eliminate tutte le illustrazioni e il testo è stato compattato per cui il

numero di pagine di ogni romanzo risulta essere inferiore.

I romanzi sono nove, ma le pubblicazioni sono invece undici.

Questa antologia è la mia dodicesima pubblicazione.

I due intrusi sono le due trilogie che raccolgono, ovviamente in gruppi di tre, i

sei romanzi dedicati espressamente a Tex Willer.

Espressamente?

Se avete già letto i romanzi sapete certamente perché.

Se invece non lo avete ancora fatto, lo capirete leggendo.

Ovviamente i romanzi compresi nelle due trilogie non sono ripetuti per cui, di

ogni trilogia è qui riportata solo la prefazione.

Inoltre può capitare che qualche riga vi rimandi a una illustrazione che qui

non è presente.

Niente di irreparabile.

Andare a consultare il testo originale non costa veramente nulla.

E veniamo al contenuto di questo tomo e ricordate che, in questa edizione digi-

tale, ci sono parecchi rimandi "elettronici".

Più comodo di così.

Si inizia con la

"Prefazione alla prima trilogia" dal titolo "I Navajo"

che comprende i primi tre capitoli di Tex.

Seguono quindi quattro romanzi.

Quattro?

Certamente.

Non vi avevo detto che i romanzi sono in ordine cronologico di pubblicazione?

Quindi, dopo il

"Capitolo 1" dal titolo "L'Aquila contro la Tigre",

eccovi uno strano

"Capitolo x" intitolato "Due amori".

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Letizia E finalmente gli altri due capitoli della prima trilogia

"Capitolo 2" dal titolo "La luce nelle tenebre"

e

"Capitolo 3" dal titolo "L'urlo del Falco".

Ci sarebbe da dire una cosa, in verità.

La trilogia "I Navajo", che comprende i tre romanzi citati, non può cronologi-

camente essere precedente ai romanzi che si trovano al suo interno.

Ovviamente ne è posteriore ma qui, poiché è riportata solo la prefazione, que-

sta compare prima dei tre romanzi.

La stessa cosa succederà anche per la seconda trilogia.

Ma andiamo avanti.

Arriviamo così al

"Capitolo 7" dal titolo "I due fratelli".

Sette?

Embeh, che c'è di strano?

Lo sanno tutti che non so contare.

Ma poi mi correggo subito perché, dopo la

"Prefazione alla seconda trilogia" dal titolo "Albuquerque"

arrivano in sequenza i tre romanzi che raccoglie:

"Capitolo 4" dal titolo "Il figlio di Tex",

"Capitolo 5" dal titolo "Lois"

e

"Capitolo 6" dal titolo "L'ultimo duello di Tex".

Poi un breve "commiato" nella

"Nota finale nella seconda trilogia" di "Albuquerque".

Chiude infine questa antologia il

"Capitolo 8" dal titolo "Il treno per Santa Fé".

Otto, sì.

Non saprò contare ma ricordo benissimo di aver già usato il sette.

Qualcuno mi ha fatto notare che dopo il sette viene il Fante, che a volersi fare

belli, potremmo anche chiamare Jack.

A pensarci bene, quasi quasi correggo...

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Protagonista indiscusso del romanzo 'L'Aquila contro la Tigre',primo romanzo della trilogia 'I Navajo', è Tiger Jack,l'amico e fratello di Aquila della Notte.

Ma è possibile che la 'Tigre' diventi nemico mortale del suo fratello di sangue?

Nello scenario del Grand Canyon del fiume Colorado, terra degli indiani Hualpai, nemici mortali dei Navajo, la vita di Tex è letteralmente appesa a un filo.

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Luca ama profondamente due donne...Romanzo un po' surreale in cui il protagonista (o dovrei dire i protagonisti?)si trova in una situazione assurda che gli cambierà la vita per sempre.

E' essenzialmente un romanzo d'amore dove il destino si diverte a prendersi gioco delle persone, e non una volta sola.

Prima di Luca, sballottato da un mondo all'altro.

Poi di Lara, una dei due suoi grandi amori, che si ritrova a vivere, quante vite? Due? Tre?

E infine il giovane Luca junior che... ma è meglio che non vi racconti altro.

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LETIZIA ALLEGRI 

DUE

AMORI

EDIZIONI  DIGITALI  LETIZIA 

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Un nemico invisibile minaccia i quattro pard attirandoli separatamente in trappola come un ragno nella sua tela mortale.

Il giovane Kit, diviso tra l'amore di due donne, è la preda più vulnerabile.

I nostri quattro eroi soccomberanno oppure troveranno il modo di sottrarsi al pericolo mortale che incombe su di loro?

Questo secondo romanzo della trilogia è permeato dalla presenza del sovrannaturale e al lettore è riservata una grande sorpresa finale e ci sarà'La luce nelle tenebre'.

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'L'urlo del Falco' è l'ultimo romanzo della trilogia.

E' il più intenso, e forse anche il più bello, dei tre romanzi.

Il dolore, la sofferenza, la collera, la vendetta, la distruzione, la morte, la rassegnazione sono i sentimenti onnipresenti nelle pagine.

Ma è anche un romanzo d'amore. L'amore di Kit per una bella Navajo, l'amore di Tex e Carson per il giovane Kit, l'amore di Tiger Jack (ma certo) per un ragazzo che per lui è sempre stato più che un figlio. E non manca naturalmente il sovrannaturale.

I Navajo scenderanno in guerra contro l'uomo bianco sotto la guida del loro grande capo Falco Nero, Mano di Sangue?

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La trilogia 'I Navajo' non è un romanzo vero e proprio.

E' l'insieme dei tre romanzi precedenti, preceduta da una presentazione e un breve cenno su quella che fu una grande nazione indiana.

I tre romanzi, pur essendo storie complete, si concatenano l'uno all'altro.

Il secondo inizia dove finisce il primo e il terzo dove finisce il secondo.

E' come se fosse un unico romanzo con un unico filo conduttore:

i Navajo.

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'I due fratelli' racconta la storia di una particolare famiglia americana che vive in un ranch, probabilmente situato nel New Messico, la cui vita tranquilla è sconvolta dalla 'Grande Guerra'.

Jack, il fratello più piccolo, è un tipo irrequieto, completamente diverso dal fratello maggiore che chiama scherzosamente 'Eagle'.

Saranno coinvolti entrambi in una delle più sanguinose battaglie della prima guerra mondiale.

Jack tornerà in America e, sconvolto dal rimorso, cercherà una vita di solitudine.

Ma una giovane indiana...

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Questo, che segue cronologicamente e continua l'ultimo romanzo della prima trilogia, è un romanzo 'cittadino'.

Mancano i Navajo e persino Tiger Jack.

Tex, suo figlio e Carson vanno a trovare un amico a El Paso dove si svolgono i 'Giorni della Frontiera', la 'fiesta' più importante di tutto il sudovest.

Dovevano essere giorni di riposo e di allegria e invece...

Il rapimento di una ragazza è l'inizio di un'avventura che finirà in tragedia.

La disperazione di un Tex come non avete mai visto toccherà i vostri cuori.

Che fine avrà riservato il destino a 'Il figlio di Tex'? 20

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'Lois', il quinto romanzo dedicato a Tex, narra le vicende che seguono quelle del precedente romanzo 'Il figlio di Tex'.

Aquila della Notte ha ceduto il comando dei Navajo al suo giovane figlio Kit, ribatezzato Falco Nero e si è dimesso da ranger e da agente indiano.

E' tornato ad Albuquerque per rivedere una donna che ha stregato il suo cuore, uno stimato avvocato che dimostrerà una notevole intraprendenza, al punto da rubare la scena al nostro eroe.

Morte, vendetta, eventi imprevedibili e colpi di scena vi terranno con il fiato sospeso fino all'ultima pagina.

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'L'ultimo duello di Tex', il sesto romanzo dedicato a Tex, narra le vicende che seguono quelle dei precedenti cinque romanzi.

Sembra proprio che sia l'ultimo dei romanzi che narrano le avventure di Tex perché Letizia questa volta fa proprio sul serio.

Ma cosa significa? Cosa succede al nostro eroe? E cos'è questa storia dell'ultimo duello? E contro chi sarebbe questo duello? Non sarà per caso una ennesima presa in giro?

Quante domande, perbacco. Se siete così curiosi, leggetelo. Ma poi non date la colpa a me se ci rimarrete troppo male.

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La trilogia 'Albuquerque' non è un romanzo vero e proprio, così come non lo è 'I Navajo'.

E' l'insieme degli ultimi tre romanzi, preceduta dalla solita presentazione e da un breve saluto.

I tre romanzi si concatenano l'uno all'altro esattamente come nella prima trilogia e si concatenano anche alla trilogia precedente.

Insomma, è un unico romanzo, diviso in tre parti, con un unico filo conduttore:

la città di Albuquerque.

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Finalmente un romanzo giallo!

Una rapina avvenuta tre anni prima, il ritorno di William ad Albuquerque, una famiglia americana che si riunisce (sì, proprio 'quella' famiglia)...

Sono gli ingredienti del nuovo romanzo 'Il treno per Santa Fé'.

Un 'intoccabile' svolge delle indagini che porteranno alla luce il mistero della prima grande grande rapina al treno del XX secolo.

E non cercate di scoprire il nome dell'assassino.

Non ci riuscirete mai.

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Prefazione prima trilogia I Navajo

La trilogia "I Navajo" racconta le vicende di Tex Willer e dei suoi pard, attra-

verso tre capitoli.

Sono tre romanzi che hanno una continuità tra il precedente e il successivo.

Ognuno racconta una storia completa, ma possiamo considerare la trilogia co-

me un unico romanzo diviso cronologicamente in tre parti.

Se non temessi un'accusa per abuso di aulicità, potrei dire che i protagonisti

sono:

le donne i cavalier l'arme gli amori.

Le donne.

Ci sono ben due donne e, a voler esser pignoli, ce ne sono addirittura tre.

I cavalier.

Sono loro, sono i nostri quattro eroi:

Tex Willer - Aquila della Notte

Kit Carson - Capelli d'Argento

Kit Willer - Piccolo Falco - Falco Nero - Mano di Sangue

Tiger Jack

A proposito, avete notato che Tiger è l'unico ad avere un solo appellativo?

E piuttosto inusuale tra i Navajo che non conoscevano la tigre che assunse, so-

lo molto tempo dopo, il nome di puma asiatico.

L'arme.

Quelle non mancano di certo.

Colt, winchester, coltelli, lance, frecce e persino howitzer e dinamite.

Gli amori.

Quelli sono sempre stati abbastanza ignorati e praticamente assenti nelle storie

di Tex.

Qui no.

Qui il giovane Kit ha gli ormoni che vanno a mille e, senza mai cadere nella

volgarità e nei doppi sensi, si sfiorano anche da lontano, da molto lontano, ar-

gomenti di natura sessuale.

I nostri quattro eroi sono molto diversi da come siamo abituati a leggerli.

L'unica somiglianza è la sottile ironia e lo spirito un po' goliardico e canzonato-

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Letizia

rio dei nostri.

Con l'unica esclusione di Tiger che naturalmente “è l'unica persona seria”.

I protagonisti qui sono più umani e poco assomigliano allo stereotipo del duro

eroe del west, con un centimetro di pelo sul cuore.

E crescono fino a raggiungere la loro maturità nell'ultimo romanzo.

Vi siete mai chiesto quanto grande fosse l'affetto di un indiano come Tiger ver-

so i suoi tre amici?

Un tipo taciturno che non esterna certamente i suoi sentimenti.

Ma ce l'ha davvero dei sentimenti?

Certo che ce l'ha.

E vi siete mai chiesto se l'affetto verso i suoi pard sia uguale per tutti o se in-

vece ci sia un preferito?

E, se si, chi é?

E Tex, il duro per eccellenza, l'abbiamo visto un sacco di volte stare in pena

per il proprio figlio.

Ma l'avete mai visto abbracciare il figlio a sé fino quasi a fargli male e trattene-

re a stento una lacrima?

E avete mai visto Tex e Carson disperarsi per le persone care?

No davvero.

I rudi uomini del west non piangono.

Le lacrime le lasciano alle squaw.

In questi romanzi l'umanità dei nostri eroi è forse un po' esagerata.

Ma questo li rende molto più simpatici, agli occhi del lettore, di quanto non lo

siano già.

"L'Aquila contro la Tigre" vede come personaggio principale il nostro Tiger e il

titolo lascia intendere che ci sia un conflitto tra lui e Tex.

"La Luce nelle Tenebre" invece non ha un protagonista o meglio, se proprio lo

vogliamo trovare, lo vediamo nel mistero, nelle forze del male, nelle tenebre,

come recita il titolo.

"L'Urlo del Falco" ha un protagonista indiscusso: il figlio di Tex.

L'ultimo episodio sembrerebbe una storia di guerra, morte e distruzione.

Ma è invece una storia d'amore, una dolcissima storia d'amore.

Perdonate la mia scarsa dimestichezza con la penna, ma si vede chiaramente

che questo non è il mio mestiere. 32

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I Navajo E che dire della ballata presente in terza di copertina di ognuno dei tre roman-

zi?

E' stupenda.

La musica, voglio dire, le parole sono solo sillabe messe una accanto all'altra.

Wikipedia

I Navajo o Navaho sono un popolo nativo americano stanziato nell'Arizona

settentrionale e in parte dei territori dello Utah e del Nuovo Messico.

Attualmente formano il gruppo etnico più consistente fra i nativi americani.

Il nome Navajo deriva dal termine Navahuu che in lingua Tewa, parlata da al-

cune popolazioni del sud ovest, significa “Campo coltivato in un piccolo corso

d'acqua”.

In lingua navajo si usa il termine Diné (talvolta citato nella letteratura come

Dineh) che significa “Il popolo”.

Dal punto di vista etnico, i Navajo appartengono al ramo athabaska meridiona-

le, originario dell'Alaska e del nord del Canada e in realtà appartengono all'in-

sieme delle nazioni Apache che intorno al 1500, provenienti dal nord, si stan-

ziarono in un vasto territorio che si estende dall'Arizona al Texas occidentale e

dal Colorado al nord del Messico entrando in conflitto con le popolazioni Pueblo

che vivevano in quei territori.

A differenza delle altre popolazioni amerindie, gli Apache non avevano una sola

identità di nazione o tribù, ma erano distinti in clan o gruppi familiari estesi,

fondati su base matrilineare (gli uomini andavano a vivere presso la famiglia

della sposa).

Ciascun gruppo si considera una nazione.

Dal punto di vista linguistico, la lingua navajo appartiene al gruppo delle lingue

athabaska della famiglia Na-dené, la stessa tipologia linguistica degli Athaba-

ska del nord e degli Apache in senso stretto.

I Navajo discesero dalle regioni fredde dell'America settentrionale e si insedia-

rono, poco prima del contatto con gli Europei nel bacino del San Juan, affluente

del fiume Colorado, intorno al 1500 in parte dei territori degli attuali Colorado,

Nuovo Messico e Arizona.

Da popolo di invasori si trasformarono in una nazione seminomade vivendo

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Letizia

principalmente di agricoltura e secondariamente di allevamento.

Col passare del tempo questa attività li distinse culturalmente dal resto degli

Apache, dal momento che le altre popolazioni indiane e gli spagnoli identifica-

vano i Navajo come una tribù di abili coltivatori.

Una prerogativa condivisa con il resto delle popolazioni Apache era il frequente

ricorso alla razzia ai danni di Europei e Pueblo allo scopo di incrementare la

proprietà in cavalli e pecore.

Contrariamente a quanto si racconta nell'epopea western, gli Apache e i Navajo

non avevano il culto della guerra e del coraggio e nella loro struttura sociale

mancavano associazioni assimilabili a società di guerrieri come nelle popolazio-

ni delle Grandi Pianure: i fatti di guerra consistevano in realtà in razzie e azioni

di guerriglia tese a sfuggire alle rappresaglie.

Il valore individuale nella cultura Apache e dei Navajo si misurava non nell'atto

di coraggio bensì nell'efficacia della razzia e nell'entità dei beni posseduti (ca-

valli e bestiame).

La guerra pertanto assumeva i caratteri di una tattica di guerriglia in cui si evi-

tava lo scontro fine a sé stesso, ma solo dettato dalla necessità di giungere ad

uno scopo economico.

La struttura sociale delle nazioni Apache e dei Navajo, polverizzata in gruppi

familiari estesi senza livelli di organizzazione di grado più alto, il rifiuto della

guerra aperta, il ricorso alla razzia come attività economica resero queste po-

polazioni avversari difficili per gli Stati Uniti e in effetti furono tra le ultime na-

zioni indiane ad arrendersi definitivamente.

In prossimità della Guerra di secessione americana, il governo degli Stati Uniti

per garantirsi l'appoggio dell'Arizona e del Nuovo Messico decise di porre fine al

problema delle razzie e di confinare le popolazioni più bellicose, in particolare i

Mescaleros e i Navaho a Bosque Redondo, una riserva del Nuovo Messico.

L'operazione con i Navajo, di cui fu incaricato il colonnello Christopher Carson,

si sarebbe dovuta svolgere pacificamente per mezzo di trattative, tuttavia la

difficoltà di trattare con un'organizzazione sociale polverizzata e dispersa in un

vasto territorio portò allo scoppio di una campagna di guerra durata quasi un

anno (1863-1864).

Il risultato fu una tragedia: agli oltre 1000 caduti durante la guerra si aggiunse

la deportazione a piedi di circa 8000 Navajo verso Bosque Redondo con una 34

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I Navajo marcia forzata di 300 miglia, nel corso della quale persero la vita le persone

più deboli.

Il confinamento a Bosque Redondo, durato 5 anni, è segnato come la pagina

più nera della storia dei Navajo.

La riserva era ubicata in un territorio malsano, quasi privo di vegetazione e po-

co adatto all'agricoltura.

I rifornimenti di vettovaglie da parte dell'esercito erano scarsi e di cattiva qua-

lità ed erano frequenti gli scontri con i Mescaleros, con i quali si condivideva il

confinamento.

Nel 1868 venne stipulato un trattato fra i Navajo e il governo degli Stati Uniti

che pose fine al confinamento a Bosque Redondo e definì i confini di una nuova

riserva posta a cavallo fra gli stati americani di Arizona, Nuovo Messico e Utah

che costituì la base della riserva Navajo definitiva, chiamata anche “Navajo Na-

tion”.

Il ritorno ai territori d'origine segnò una drastica mutazione nella storia dei Na-

vajo.

La popolazione tornò all'attività agricola ma intensificò l'allevamento, l'artigia-

nato (in particolare la tessitura e la lavorazione dell'argento) e cessò con le

razzie.

Diversi Navajo integravano il reddito, quando non era sufficiente, con il lavoro

salariale.

Il nuovo corso fu così favorevole che la ricchezza dei Navajo crebbe a livelli tali

da spingere il governo degli Stati Uniti a regolamentare l'incremento dei capi di

bestiame allevati a causa dell'eccessivo numero.

Il popolo dei Navajo conta oggi circa 250.000 persone e costituisce il gruppo

etnico più numeroso fra i nativi americani, stanziato in un territorio del nord

est dell'Arizona.

Il territorio dei Navajo, che supera in estensione ben 10 dei 50 stati degli USA,

gode di autonomia amministrativa e la nazione rappresenta uno dei pochi e-

sempi di conservazione di una forte identità amerindia all'interno della società

statunitense.

Pur mantenendo vivi i propri valori (lingua, cultura, tradizione), i Navajo si so-

no adattati al progresso nell'ultimo secolo organizzandosi in una struttura so-

ciale autonoma moderna e integrata come nazione all'interno di una nazione. 35

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Letizia

Uno degli elementi di vanto dei Navajo come cittadini americani fu l'uso della

lingua dei Navajo come codice di comunicazione durante la seconda guerra

mondiale e il fondamentale apporto dato ai risultati delle battaglie dell'esercito

americano contro i giapponesi da parte dei “code talker” Navajo (letteralmente

"coloro che parlano il codice").

La lingua navajo, una lingua complicata e a quel tempo praticamente scono-

sciuta in tutto il mondo al di fuori degli Stati Uniti, non fu mai decodificata dal

controspionaggio giapponese.

I Navajo di Aquila della Notte

I Navajo di Tex non sono poi tanto diversi dalla realtà.

Il Territorio della loro riserva è quello e persino la città “dei bianchi” Gallup,

che è una città reale, si trova nel solito posto, a poche miglia a est della riser-

va.

Forse l’unica differenza con la realtà è la riserva Hopi che si trova completa-

mente all’interno della riserva Navajo.

Questa notizia non è mai stata data in alcuna delle avventure di Tex e scom-

metto che molti di voi ignoravano questa informazione geografica.

Io almeno non lo sapevo.

E l’altra grande differenza con la realtà (peccato) è proprio lui, Aquila della

Notte, capo supremo di tutta la nazione navajo, agente indiano della riserva,

ranger, ecc. ecc.

E sono loro, i Navajo, i protagonisti di questa trilogia, di questi tre romanzi che

hanno come unico ambiente la riserva e alcune zone limitrofe.

Beh, chiamarli romanzi è un po’ riduttivo (per i romanzi, naturalmente).

Sono solo delle idee che mi ronzavano per la testa da un po’.

Chi non ha mai avuto nella testa qualche idea del genere.

«Mi piacerebbe proprio una bella storia così, così e così, dove i nostri eroi han-

no a che fare con questo o quel cattivo. E potrebbe anche succedere che…»

Chissà quante volte avete detto o pensato parole molto simili a queste.

Io ho solo preso queste idee, le ho riordinate un po’ e poi con carta, penna e

calamaio…

Scherzo, naturalmente.

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I Navajo Ah, come avrei fatto senza il mio caro e vecchio PC.

Mi piacerebbe dirvi di più sui Navajo presenti nelle pagine che seguono, ma

non vorrei privarvi del piacere della lettura che, lasciatemelo dire (o almeno la-

sciatemelo credere), ha tutta l’aria di essere appassionante.

E allora, mettetevi comodi e, soprattutto mettetevi gli occhiali.

L’avventura ha inizio.

Letizia

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Letizia

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Capitolo 1 L’Aquila contro la Tigre

E' ancora buio nel villaggio centrale della riserva.

Timidamente compaiono i primi deboli bagliori all'orizzonte, come se il sole fos-

se troppo pigro per sorgere.

Nessuno veglia. Solo qualche cane alza la testa al rumore del vento, ma subito

la abbassa rimettendosi a dormire.

Ma c'è luce nel wigwam di Nuvola Rossa e si odono delle voci.

Tiger Jack esce frettolosamente dalla capanna e corre verso il corral dove, sen-

za preoccuparsi dei finimenti, balza in sella al cavallo più vicino.

Non senza aver prima afferrato un arco con le frecce e, naturalmente, un buon

winchester.

«Fermatelo!» urla lo sciamano.

«Presto guerrieri, destatevi! Fermate Tiger Jack! Egli è un pericolo per Aquila

della Notte! Fermatelo! La morte aleggia sul capo bianco di tutti i Navajo! Pre-

sto!»

Ma il guerriero col nome della tigre è già lontano e scompare presto nel buio.

Un centinaio di longhorn è raggruppato nella prateria.

Accanto a questi, i fuochi di un bivacco navajo.

«Capelli d’Argento non ha sonno?»

«Mi sono svegliato da poco, Lupo Grigio. Le mie ossa mi stanno avvisando che

c’è qualcosa che non va.»

«Le tue ossa hanno visto troppe primavere ed è per questo che ti fanno male!»

«Matusalemme ballerino! Io non sono per niente vecchio e le mie ossa non mi

fanno male! Ho come un presentimento. Non so, non è niente di preciso. Ma

sento che qualcosa sta andando storto.»

«Cosa può esserci che non va? E’ andato tutto come doveva andare. Il bestia-

me è di ottima qualità, ci è stato consegnato senza ritardi e non abbiamo perso

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Letizia

neanche un capo durante il viaggio. E anche coperte e viveri sono molto buo-

ni!»

«Ed è anche una notte magnifica, lo so. Eppure...»

«Forse Capelli d’Argento non è contento che Aquila della Notte gli abbia dato

l’incarico di ritirare gli approvvigionamenti del Grande Capo Bianco per i Nava-

jo.»

«No di certo. So benissimo che Tex doveva occuparsi di tutti i problemi della

riserva, specialmente quelli delle tribù delle terre alte. E so che Tiger Jack non

poteva lasciare il villaggio centrale. Io ero l’unico che poteva occuparsi di que-

sta cosa.»

«Potevamo occuparcene anche io e Shato da soli. Tu potevi andare così con

Aquila della Notte e Piccolo Falco.»

«No. Se c’era da fare la voce grossa in caso di irregolarità, nessun altro era più

adatto di me. Ma per fortuna era tutto a posto. Beh, credo che mi farò

un’oretta di sonno.»

«Buon riposo, Capelli d’Argento!»

«Ben svegliato! Hai sentito il profumo del caffè? Forza, in piedi! E’ già giorno,

anche se su queste alture il sole non si è ancora fatto vedere!»

«Pa’, perché non mi hai svegliato per il mio turno di guardia?»

«Dormivi così bene! E poi non avevo sonno. Tieni un po’ di caffè, attento! E’

bollente.»

«Dammi anche un po’ di pemmican! Ho più fame di un lupo!»

«Più di un puma, direi!»

«Già, il puma! Quella belva ci sta dando un sacco di fastidi!»

«Vedrai che oggi riusciremo a stanarla e che non sarà più un problema per i

pastori di Orso Nero.»

«Finora ci ha fatto solo correre e spariva non appena si arrivava a tiro!»

«Non ci possiamo lamentare però! Tutto è andato a meraviglia. E specialmente

siamo riusciti ad appianare i dissidi tra le tribù delle terre alte!»

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L'Aquila contro la Tigre «E’ vero. Io però credo che Cervo Silente sia troppo giovane per fare il capo! E’

una testa calda e dovrebbe ascoltare di più gli anziani!»

«Testa calda, figliolo? Sei proprio tu a dirlo? Non ti sembra che tu gli assomigli

un poco? Solo un poco, naturalmente!»

«Io non sono una testa calda! Almeno non più di te quando avevi la mia età, a

sentire quello che racconta lo zio Kit! E poi io non sono capo della tribù!»

«Ma prima o poi lo sarai e avrai enormi responsabilità. Tutti i popoli della riser-

va dipenderanno da te. Ma ora basta chiacchiere! Hai mangiato e bevuto e i

cavalli sono sellati. Spegni il fuoco e andiamo!»

«Muy bien pa’. Ma se non riusciremo ad agguantare presto il puma, dovremo

lasciarli da qualche parte. Non riusciremo a farli arrampicare sui sentieri. Se

ben ricordo, solo una capra potrebbe percorrerli.»

«Una capra e noi! So già dove lasceremo i cavalli, se sarà necessario. E’ un po-

sto dove c’è un rigagnolo e anche un po’ d’erba. Non è molto ma sarà sufficien-

te. E poi non tarderemo a tornare.»

«Li vuoi lasciare in uno spazio così aperto e indifeso? E se il puma tornasse in-

dietro e li attaccasse?»

«E’ uno spazio aperto, come hai detto tu. Se ci sarà un pericolo, lo fiuteranno e

si allontaneranno al galoppo. E poi il puma non tornerà indietro. Noi lo ferme-

remo prima!»

Una lunga ombra davanti a lui corre con lui verso le terre alte.

Il suo cavallo, senza redini e morso, obbedisce docilmente alla pressione delle

sue ginocchia che sembrano chiedere il massimo risultato con il minimo sforzo.

Sa come trattare il suo cavallo che, tra i Navajo, è uno dei beni più preziosi.

Sa che tutto dipende dai suoi garretti, dalla sua resistenza e dalla sua velocità.

Ma non può permettersi di perderlo stremato dalla fatica.

E’ Tiger Jack, il più fedele amico di Tex, suo fratello di sangue.

Ma ora...

La giornata è serena ed il cielo non è mai stato così azzurro.

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Letizia Ma non c’è serenità nel suo cuore.

Il suo cuore è nero.

Nero come la morte.

Perché?

Perché Nuvola Rossa voleva fermarlo?

Perché ha detto che il suo più fedele amico è un pericolo per il capo bianco dei

Navajo?

Perché corre implacabile verso le terre alte in cerca di Tex?

Tiene a tracolla il suo terribile arco con il quale sa essere silenzioso, veloce e

mortale.

Impugna con la destra il suo winchester con cui sa dare sicura morte anche da

molto lontano.

E corre.

Al galoppo sul suo mustang che sembra instancabile.

Corre.

Cosa c’è alla fine della sua pista?

Corre e la sua ombra si accorcia sempre più davanti a lui.

«Strano!»

«Cosa c’è di strano?»

«Perché non ci sono venuti incontro a darci una mano? Ormai ci avranno sicu-

ramente visti! Facciamo un bel polverone!»

«Capelli d’Argento ha forse bisogno di aiuto? Le sue stanche ossa hanno biso-

gno di distendersi su una di quelle morbide coperte che sono sui carri?»

«Per la barba di Giosafatte! Stai parlando come quel tizzone d’inferno di Tex!

In realtà ho ancora nella testa quella sgradevole sensazione di ieri e temo an-

cora che ci sia qualcosa che non va!»

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L'Aquila contro la Tigre «Vedrai che invece tutto andrà bene. Tra poco vedremo la polvere sollevata dai

cavalli dei nostri compagni navajo che vengono a darci una mano per condurre

la mandria e i carri al villaggio!»

«Non dimenticare che parte dei longhorn, della farina, delle coperte e tutto

quello che sta sui carri va poi portata agli altri villaggi della riserva. E ci sarà

bisogno di molte persone per tutti questi viaggi. E’ per questo che viaggiamo

con più carri di quanti ne siano necessari. E Tex questo lo sa. E’ per questo che

trovo strano che nessuno si sia fatto ancora vivo. Avremo bisogno di aiuto per

evitare di perdere tempo. La roba sui carri è già divisa e sappiamo già quante

bestie vanno mandate ad ogni villaggio. Peste! Non ho mai fatto un discorso

così lungo in vita mia!»

«Se vuoi precederci sulla pista per andare incontro ad Aquila della Notte, va’

pure! Io e gli altri procederemo verso il villaggio e ci ritroveremo più tardi.»

«Forse hai ragione. Non si vede però ancora niente all’orizzonte. Dovrò farmi

una bella galoppata!»

«Se Capelli d’Argento è troppo stanco, andrò io incontro ad Aquila della Not-

te!»

«Gran Putifarre! Capelli d’Argento non è stanco! Le ossa di Capelli d’Argento

non hanno bisogno di morbide coperte! Capelli d’Argento è in grado di cavalca-

re al galoppo anche fino al tramonto! E anche oltre, se necessario!»

«Capelli d’Argento è un grande guerriero! Lupo Grigio lo sa!»

Il vecchio gufo non controbatte, sprona il suo mustang e si dirige velocemente

verso il villaggio centrale, mente i Navajo seguono lentamente la sua pista con

la mandria e i carri.

Ma nonostante abbia spronato il suo cavallo quanto possibile, Carson non in-

contra anima viva.

Il villaggio centrale si profila all’orizzonte, ma nessuno gli va incontro.

Un ultimo sforzo richiesto al suo mustang e, dopo poco tempo, il villaggio gli

appare più nitido.

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Page 44: TuttoLet - Altervistapecosbill.altervista.org/Romanzi/TuttoLetizia.pdfTex Willer - Aquila della Notte Kit Carson - Capelli d'Argento Kit Willer - Piccolo Falco - Falco Nero - Mano

Letizia Nel corral sembra non esserci neanche un cavallo e non vede i soliti movimen-

ti, i bambini che giocano, i cani che abbaiano, le donne e gli uomini dedicati al-

le loro faccende quotidiane.

Il villaggio sembra deserto.

Un ultimo colpo alle reni del mustang e arriva al wigwam di Nuvola Rossa, nel

centro del villaggio.

Lo sciamano è fermo sull’ingresso. Il suo volto è impenetrabile. Non c’è alcuna

espressione. E’ immobile come una statua e sembra lo stia aspettando da

sempre.

«Entra Capelli d’Argento» sono le sue uniche parole.

Seduti sulle pelli di bisonte all’interno, Nuvola Rossa racconta quello che è suc-

cesso.

La visita notturna di Tiger Jack, il suo comportamento, la sua decisione e la sua

fuga verso le terre alte e l’inseguimento di tutti i Navajo del villaggio centrale.

Tutto.

Carson ascolta in silenzio.

Il suo volto si fa sempre più scuro.

«Hai mandato staffette agli altri villaggi della riserva?»

«Sì.»

«Sai qual è l’ultimo villaggio che Tex doveva visitare?»

«Sì. Quello di Orso Nero.»

«Bene! Non c’è tempo da perdere, allora! Ho bisogno però di un cavallo fresco.

Il mio è troppo stanco e non resisterebbe neanche un’ora. Ma non ho visto

mustang nel corral!»

«Sono qui dietro. Sono due. Uno sellato e uno di ricambio. Nelle bisacce trove-

rai acqua e cibo. Tanto buon pemmican.»

«Ah! Hai proprio pensato a tutto! Ma, già, sapevi del mio arrivo e sapevi che

sarei partito subito! Diavolo di un Nuvola Rossa! Ma dove sono le donne, i vec-

chi e i bambini? Non ho visto nessuno al villaggio!»

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L'Aquila contro la Tigre «Stanno facendo i preparativi per la cerimonia propiziatoria al Grande Spirito

perché protegga Aquila della Notte.»

«Prima del tramonto arriverà Lupo Grigio e i suoi con i rifornimenti. Mettilo al

corrente e digli di seguirmi subito. Io lascerò dei segni.»

«Uhm.»

«Adios Nuvola Rossa!»

«Che Manito ti accompagni sul tuo cammino.»

«Questo dannato puma ci sta procurando più rogne del previsto, pa’! Sono tre

giorni che gli stiamo dietro! L’avremo visto al massimo quattro volte e ci è

sempre sfuggito!»

«Cinque! Ma vedrai che lo prenderemo presto!»

«Speriamo. Non vedo l’ora di ritornare al nostro villaggio!»

«Mi preoccupa il fatto che ci stiamo avvicinando troppo alle terre degli Hual-

pai!»

«Quelle teste calde non sono poi così pericolosi, pa’! E poi siamo ancora lontani

dalle loro terre. Ma se si facessero vedere avrebbero pane per i loro denti! Non

hanno fucili e noi siamo ben armati e abbiamo una grande quantità di cartuc-

ce!»

«Non commettere mai l’errore di sottovalutare l’avversario, Kit! Se gli Hual-

pai...»

«Pa’! Il puma, dietro di te!»

Il puma però è più veloce di Kit e il suo tiro non arriva a colpire la belva che si

è già dileguata.

«L’hai mancato! Devi essere meno precipitoso, figliolo. Hai agito con troppa

fretta e il puma ha visto le tue mosse. L’hai messo in guardia ed è scappato!

Dovevi agire lentamente e comportarti come se non l’avessi visto e...»

«Pa’, c’è qualcuno su quell’altura. Non vedo bene chi è, perché ho il sole negli

occhi. Vedo solo che è un indiano. Forse un Hualpai?»

«No di sicuro. E’ controluce, ma vedo che imbraccia un winchester!»

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Letizia

«Sarà un Navajo che è venuto a cercarci?»

«Poco probabile. Abbiamo sistemato tutto. L’unica grana rimasta è questo

dannato puma che continua a sfuggirci!»

«Potrebbe essere successo qualcosa al villaggio centrale. Lo zio Kit avrà incon-

trato qualche difficoltà con i rifornimenti. E’ già successo!»

«Non sono mai state grane grosse. Qualche ritardo, qualche bestia un po’ ma-

landata, ma niente che il vecchio gufo non possa risolvere da solo!»

«E allora chi... Pa’, mi sembra di riconoscere in lui Tiger Jack!»

« Tiger?»

«Sì, mi sembra proprio lui. Anzi, sono sicuro che sia lui!» e grida con quanto

fiato ha in gola agitando in aria il suo winchester ancora caldo «Tiger! Ehi Ti-

ger!»

«Non può sentirti Kit! E’ troppo lontano! E poi il frastuono delle rapide copre

ogni altro rumore! Ma sei sicuro che sia lui?»

«Sicurissimo, pa’! Non vedi come si muove! E poi la sagoma, non la vedi, è la

sua!»

Un colpo di fucile e Tex cade a terra. La sua gamba sanguina. L’ombra

sull’altura è sparita.

«Hokan, hai udito? Un colpo di arma da fuoco!»

«Sei sicuro? La voce dell’acqua tonante copre tutti gli altri rumori.»

«Il mio orecchio è molto buono e ha sentito uno sparo tra il fragore delle ac-

que.»

«Un’arma da fuoco! Solo i gringos ne hanno!»

«Ma anche i Navajo di Aquila della Notte!»

«I Navajo non si addentrano mai nei nostri territori!»

«Ma il colpo veniva da dietro quel pendio. E quello è ancora territorio dei nostri

nemici!»

«Andiamo a vedere.»

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L'Aquila contro la Tigre E la pattuglia di guerrieri, guidati dal loro capo, il feroce Hokan, si dirige cam-

minando veloce verso il ponte di corde sospeso tra le due sponde rocciose del

torrente che segna il confine tra le terre dei Navajo e quelle degli Hualpai.

«Correte pure senza badare al rumore! I nostri nemici non ci sentiranno perché

il rumore delle acque tonanti coprirà i nostri passi!»

«Penna di Falco! Due cavalieri stanno correndo dietro di noi e stanno seguen-

do la nostra pista... No, ora vedo meglio, è solo uno ed ha un cavallo di ricam-

bio.»

«Sì, ora lo vedo bene! E’ Capelli d’Argento! Ma con lui non ci sono gli altri guer-

rieri che sono andati con lui a ritirare i rifornimenti per l’inverno!»

«Tra poco ci dirà tutto! Correndo a quel modo non ci metterà molto a raggiun-

gerci!»

Infatti Carson arriva molto presto dai suoi amici navajo.

«Perché Capelli d’Argento è solo? Dove sono i guerrieri che erano con lui?»

«Sono rimasti indietro, ma ci raggiungeranno presto! Voi piuttosto, come mai

ancora qui? Credevo foste più lontani!»

«Abbiamo perso un po’ di tempo per ritrovare le tracce di Tiger Jack! Le ave-

vamo perse più volte nei terreni rocciosi e ci siamo divisi per ritrovarle. E ab-

biamo lasciato tracce per te e per tutti gli altri Navajo che Nuvola Rossa ha

mandato a chiamare!»

«Sì! Ho visto i vostri segni!»

«Andiamo allora! Se Aquila della notte non è ancora riuscito a trovare il puma,

so dove può aver lasciato i cavalli!»

«Puma?»

«Sì! Orso Nero non ti ha detto nulla?»

«Non sono passato per il suo villaggio! Ho visto dalle tracce che solo una picco-

la parte di voi ha deviato per il villaggio. La maggior parte ha proseguito per le

terre alte e ho seguito quelle tracce!»

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Letizia «Sì! Siamo andati da Orso Nero non solo per avere notizie, ma anche per avere

qualche mustang di ricambio!»

«Spero che Lupo Grigio e i navajo degli altri villaggi ci raggiungano presto per-

ché, se ci saranno guai con gli Hualpai, avremo bisogno di molti winchester!»

«Papà!»

«Sto bene Kit! E’ solo una ferita alla gamba! La pallottola è entrata e uscita!»

«Ma perché Tiger ti ha sparato?» e guarda verso l’altura da cui è partito lo spa-

ro.

Ma non vede nessuno.

«Non può essere stato Tiger Jack! E’ mio fratello di sangue! Mi fido di lui più di

me stesso!»

«Ti dico che era lui, pa’! Ne sono sicuro! Ma lascia che dia un’occhiata alla feri-

ta! Ti fa male?»

«Ho avuto ferite peggiori!»

«Se avessimo un po’ di whisky per disinfettare la ferita...»

«Nella bisaccia c’è un linimento per cavalli. Non è il massimo, ma andrà bene

per una vecchia quercia come me. E prendi anche un altro fazzoletto! Lo userò

con il mio per la fasciatura!»

Si allontana verso le bisacce gettando ancora uno sguardo verso l’altura che

sembra ancora deserta. Sempre in guardia, winchester in pugno e dita sul gril-

letto.

«Chissà perché Tiger ti ha sparato! Ha perso il lume della ragione? Sarà sotto

l’influenza di Mefisto? Maledetto vecchiaccio! Riusciremo mai a eliminarlo defi-

nitivamente?»

«Non credo che c’entri Mefisto! Tiger Jack ha una mira molto buona e, se vole-

va uccidermi... No, voleva solo ferirmi e in maniera non grave, anche se non

capisco perché!»

«Forse Mefisto ti vuole vivo per poterti...» e non finisce la frase perché una

clava di pietra lo colpisce alla testa.

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L'Aquila contro la Tigre «Kit! Kit!»

«Catturiamo Aquila della Notte! Lo voglio vivo! E’ ferito, ci sarà facile sopraffar-

lo. E tu, Mahua, uccidi Piccolo Falco e prendi il suo scalpo!»

Mahua si avvicina a Kit inanimato, il sangue che cola dalla sua fronte. Ma non

fa tempo ad alzare il tomahawk contro di lui che cade a terra fulminato da un

colpo di winchester.

Altri colpi seguono in rapida successione e molti Hualpai seguono la stessa sor-

te di Mahua.

«Attenti! C’è un cane navajo che spara da quell’altura! Mettetevi al riparo tra le

rocce e trascinate via con voi Aquila della Notte!»

Ma anche Tex, con le sue colt micidiali, abbatte i guerrieri che gli si avvicinano.

«Stai fresco se credi che sia facile catturarmi, anche se sono ferito!»

Ma gli Hualpai sono troppo numerosi e, anche se subiscono numerose perdite,

riescono ad avere ragione su Tex.

Lo colpiscono alla testa e Hokan, caricatoselo sulle spalle, se ne fa scudo e

fugge verso il ponte di corde insieme ai suoi guerrieri, alcuni dei quali conti-

nuano a cadere sotto il fuoco del micidiale winchester che, rabbioso, fa fuoco

contro di loro.

«Ecco i cavalli! Me lo immaginavo che li avrei trovati qui! Ci sono i due di Tex

e di Kit a cui si è aggiunto in seguito quello di Tiger Jack!»

«E’ vero, Capelli d’Argento. Due cavalli sono più freschi e riposati dell’altro.»

«Sì, ma il mustang di Tiger non è sudato! E’ qui da qualche ora! Lasciamo qui

anche i nostri cavalli. Da qui in avanti dovremo proseguire a piedi, Penna di

Falco!»

«Lascerò dei segni per i nostri guerrieri.»

«Prendete tutte le armi e tutte le munizioni! Peccato non avere qualche cande-

lotto di dinamite, avrebbe potuto farci comodo!»

«Quando eravate nella città degli uomini bianchi, potevate prenderne qualcu-

no. Ma non potevate sapere tutto questo. Neanche Tiger Jack lo sapeva!»

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Letizia

«Né tantomeno Tex e Kit! Peste! Ci sarebbero volute le arti magiche di Mefi-

sto!»

«Vieni, Capelli d’Argento. Prendi la mia mano. Ti aiuto a salire.»

«Per la barba di Matusalemme! Aiuta tuo nonno! Ce la faccio da solo. E meglio

di te!»

«Se prendi la mia mano, sarai più veloce e non stancherai le tue ossa!»

«Fulmini! Le mie ossa stanno benissimo e non mi dolgono! Né adesso né pri-

ma! Sei peggio di Lupo Grigio! Le mie ossa brontolavano solo perché avevo un

presentimento! E tutt’altro che ingiustificato, visto quello che è successo e che

sta ancora accadendo!»

«Pensi che riusciremo a salvare Aquila della Notte?»

«Grande Giosafatte! Certo che ci riusciremo! Non è la prima volta che Tex si

trova nei guai. E se l’è sempre cavata!»

Queste ultime parole escono dalla bocca di Carson più come un augurio che

come una certezza.

Forse è la prima volta che teme veramente per la vita di Tex.

Kit si riprende. Un forte dolore gli martella la testa e la sua vista è ancora un

po’ annebbiata.

Cerca di ricordare e di capire cosa è successo.

Quanto tempo è rimasto svenuto?

Suo padre è sparito e anche gli Hualpai.

Quelli vivi naturalmente, perché intorno a lui ne vede una dozzina caduti.

Ma perché l’hanno lasciato lì, svenuto e alla loro mercé.

Perché non l’hanno catturato o ucciso?

E perché non hanno preso le sue armi e le due bisacce?

E soprattutto si domanda:

«Papà sarà ancora vivo?»

E chi ha ucciso gli Hualpai e perché i caduti non sono stati portati via? 50

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L'Aquila contro la Tigre Suo padre non avrebbe potuto colpirne così tanti prima di essere sopraffatto.

E’ forse stato Tiger Jack?

Questo spiegherebbe il fatto che hanno abbandonato i loro morti.

Ma perché?

Si domanda ancora perché Tiger ha sparato a suo padre.

Perché è stato lui a sparare, ne è certo.

Raccoglie il fucile e si guarda ancora intorno.

Il ponte di corde sembra più traballante di prima.

Nota che le corde, che lo sostenevano nella sponda opposta, sono state taglia-

te e poi riparate alla meglio.

Cosa è successo?

Mentre nella sua testa ancora frastornata si formano tutte queste domande,

non si accorge che il puma, i cui passi sono resi ancora più leggeri dal rumore

delle rapide, è alle sue spalle.

Con un balzo gli è addosso.

Kit cade in avanti e il suo winchester gli sfugge dalle mani.

Con un altro balzo il puma è su di lui.

Kit si accorge che, nella caduta, le sue colt si sono sfilate dalle fondine e sono

cadute più avanti, lontano da lui.

E’ disarmato e sente la zampa della belva premere sul suo petto.

Quando Tex si riprende, si ritrova legato mani e piedi in una grotta, sorveglia-

to da una mezza dozzina di Hualpai.

Non ha gli stivali.

Forse gli Hualpai hanno scoperto la lama nascosta in un tacco o forse, per la

tortura, vogliono iniziare dalle piante dei piedi.

Il suo pensiero va a suo figlio che ha visto cadere colpito alla testa.

Ha visto gli Hualpai cadere intorno a lui colpiti da... Già, da chi?

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Letizia Da Tiger Jack? Possibile che Kit abbia visto giusto e che fosse veramente lui a

sparare?

Ma allora perché l’ha ferito?

Un fatto certo è che, se suo figlio è ancora vivo, lo deve a questo... Lo deve a

Tiger Jack?

Ma, per quante supposizioni faccia, non riesce a capire quello che è successo.

«Spero solo che non me l’abbiano ucciso» pensa «perché la mia vendetta sarà

terribile!»

Ma pensa anche che la situazione in cui si trova non è certo delle più felici!

«Anche se Tiger Jack venisse ad aiutarmi» continua a pensare «e a questo

punto non sono più sicuro di niente, sarebbe lui solo contro un’intera tribù di

fanatici scatenati che hanno più volte cercato di farmi la pelle!

E poi questi nodi sono maledettamente stretti. Hanno bagnato le strisce di cuo-

io che, asciugandosi, mi stringono sempre più i polsi, fino a lacerarmi le carni.

Uhm! Mi sono trovato in situazioni migliori!

Ma questi pazzi non si rendono conto di scatenare così l’ira di tutte le tribù Na-

vajo!»

«Aquila della Notte si è svegliato! Vai a cercare Hokan!»

«I cani Hualpai sono come le iene che attaccano il leone solo quando è ferito e

non può difendersi. E solo quando sono numerosi come le formiche!»

«Il cane bianco abbaia invano contro i valorosi Hualpai e presto si pentirà delle

sue parole taglienti!»

«Toglimi i legami e poi, anche se sono ferito, ti faccio vedere io quanto siete

valorosi, ma a suon di sberle!»

«Sono contento che il capo dei Navajo sia nel pieno delle sue forze! Resisterà

di più alle torture che lo attendono!»

Tex si volta verso la voce.

E’ Hokan, il capo degli Hualpai.

E solo allora si accorge che la sua ferita è stata curata e non sanguina più.

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L'Aquila contro la Tigre

Il puma gli è addosso, pronto a ghermirlo.

Kit non muove un muscolo.

Il puma, sospettoso, tasta il suo corpo come se volesse rendersi conto che la

sua preda non è più in grado di difendersi o di opporre resistenza.

Infine, sentendosi sicuro, avvicina le sue fauci alla gola della preda.

Ma Kit, con un gesto fulmineo e inaspettato, squarcia la gola della belva con un

coltello che è apparso nelle sue mani quasi per magia.

Poi, con un violento strattone, allontana dal suo corpo il puma, aiutandosi an-

che con le ginocchia usandole come leva.

La belva cerca di allontanarsi e un ruggito disperato di dolore esce dalle sue

fauci insanguinate.

Con il sangue che esce copioso dalla sua gola, sente che le forze la stanno ab-

bandonando e percorre pochi passi prima di cadere al suolo morente.

Kit raccoglie le sue colt e il winchester.

Si avvicina al ponte di corde e controlla che sia sufficientemente robusto da so-

stenere il suo peso.

Cautamente lo attraversa e, come aveva già notato, vede che le funi di soste-

gno erano state tagliate e che poi sono state riparate e rinforzate con alcune

corde più nuove delle altre.

Ci sono altri tre Hualpai caduti e questo gli conferma che non è stato suo padre

a sparare.

E’ stato sicuramente Tiger Jack.

Nella mente di Kit ritornano martellanti le domande che si era già posto senza

ottenere una risposta.

E non riesce a trovare neanche una supposizione che sia almeno logica.

Gli ritornano in mente le parole di suo padre “... voleva solo ferirmi e in manie-

ra non grave...”

E questa gli sembra l’unica cosa che abbia un senso: Tiger Jack non avrebbe

certo sbagliato mira e, se avesse voluto uccidere, lo avrebbe certo fatto! 53

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Letizia

Cerca qualche traccia degli Hualpai, ma il terreno roccioso non gli parla.

«Poco male.» pensa. «C’è un unico sentiero da seguire. Non posso sbagliare!»

Segue il sentiero che pensa porti al villaggio più vicino degli Hualpai.

«Chissà se anche Tiger ha seguito papà e gli Hualpai che lo hanno certamente

catturato!» dice Kit tra sé e sé «Perché papà è certamente vivo e quei cani

rabbiosi lo hanno portato al loro villaggio per riservagli una morte più dolorosa.

Ma hanno commesso un grave errore a lasciarmi in vita, perché, se papà

non...»

Nella sua mente la frase si interrompe quasi avesse paura perfino di pensarla.

«Io non avrò pace finché non vi vedrò tutti morti!»

Le sue ultime parole, urlate come se volesse farle udire a tutti gli Hualpai, ri-

suonano terribili tra le alture e sovrastano il rumore delle rapide.

Il suo fucile winchester è alzato minaccioso e il suo volto è scuro come la ven-

detta.

Carson è ora sull’altura da cui è partito lo sparo che ha ferito Tex.

Con lui ci sono Penna di Falco e i Navajo che si erano gettati subito

all’inseguimento di Tiger Jack.

Lupo Grigio non si è ancora visto.

E neanche i suoi Navajo né quelli degli altri villaggi, sparsi in tutta la riserva.

In basso vedono i corpi di numerosi Hualpai e, poco distante, quello del puma

coperto dal suo sangue.

Gli avvoltoi volano sempre più bassi.

«Scendere fin laggiù non sarà facile, Capelli d’Argento. E perderemo molto

tempo!»

«No, se ci caleremo con delle funi!»

«Ma nessuno di noi ne ha!»

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L'Aquila contro la Tigre «Io ho un paio di lazos! Guarda nella sella dell’altro mio mustang! Nuvola Ros-

sa deve aver visto anche questo nella sua visione! O semplicemente pensava

che ci sarebbero serviti!»

«Eccoli, Capelli d’Argento!»

«Bene! Cercate un solido appiglio e legate a quello il capo di un lazo!»

«Il costone è troppo alto. I lazos non sono abbastanza lunghi!»

«Non temere, Penna di Falco! Uniremo i due lazos con un nodo ben saldo e la

corda arriverà fino in fondo.»

La fune ottenuta con i due lazos uniti raggiunge infatti il basso e Penna di Falco

inizia per primo la discesa senza aspettare.

Carson e gli altri Navajo sono rimasti sull’altura.

Scenderanno uno alla volta per non appesantire la fune ed evitare che si spez-

zi.

«Aspettate a scendere!» urla Penna di Falco.

«Come hai detto? Con queste maledette rapide non si capisce una parola!»

«Ha detto di aspettare, Capelli d’Argento!»

«Aspettare? E perché? Sei sicuro di aver sentito bene?»

«Le mie orecchie hanno sentito bene, Capelli d’Argento!»

«Come diavolo hai fatto a capire? Io ho solo sentito urlare senza distinguere

però il significato delle parole!»

«Le tue orecchie hanno troppe primavere!»

«E dagli con queste primavere! Per tua norma, io non sono...»

«Ora potete scendere!» urla Penna di Falco, interrompendo Carson.

Mentre lassù, sull’altura, stavano parlando, lui aveva superato un crepaccio,

che lo separava dalla piccola radura, con un capo della fune legato alla cintura.

Ora sta tenendo la fune in modo che Carson e i Navajo, scendendo, si trovino

direttamente sulla radura senza dover attraversare il crepaccio.

Avrebbero guadagnato tempo.

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Letizia

E il tempo guadagnato poteva significare la salvezza di Tex.

Iniziano tutti a scendere, uno alla volta.

Carson per primo.

Appena sceso, si rivolge a Penna di Falco.

«Io vi precedo verso il villaggio Hualpai. Di’ agli altri che mi seguano uno alla

volta, senza perdere tempo. Quando saranno scesi tutti, seguimi anche tu.»

«Hokan, maledetto fanatico! Non ti sono bastate tutte le legnate che ti ho da-

to? A te e ai tuoi lupacchiotti Hualpai?»

«Il capo dei cani Navajo getta le sue parole al vento! Egli non può più evitare

la morte che lo attende quando il prossimo sole sarà alto nel cielo!»

«Così ho ancora qualche ora di tempo!» pensa Tex. «Anche se non vedo cosa

potrò escogitare questa volta!»

«La mia morte sarà la rovina per te e per tutti i tuoi cuccioli Hualpai! I miei

Navajo verranno nelle vostre terre a seminare morte e distruzione! Le vostre

donne piangeranno e a lungo si racconterà di quanto sia stata terribile l’ira dei

Navajo!»

«Gli Hualpai non hanno paura! Che vengano i cani Navajo! Troveranno la mor-

te che credevano di venire a portare!»

«I Navajo sono numerosi come le stelle in cielo e come i fili d’erba della prate-

ria! E hanno terribili armi da fuoco! E nulla potranno le vostre frecce e le vostre

lance!»

«Basta ora con le parole! Alla prossima alba prepareremo il luogo della tua tor-

tura! Nel frattempo le squaw cureranno ancora la tua ferita. Devi poter resiste-

re alla tortura per molte ore! La tua sarà una morte lenta e terribile, Aquila

della Notte!»

«Kit, vieni accanto a me e tieni giù la testa! Gli Hualpai potrebbero vederti!»

«Come fai a sapere che sono io? Non ti sei nemmeno voltato! E come hai fatto

a sentirmi? Sono stato più silenzioso di un...»

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L'Aquila contro la Tigre «Ti ho visto già da più di un’ora! E ti aspettavo! E stai giù, ho detto! Il villaggio

degli Hualpai è proprio qua sotto!»

«Non temevi che ti piantassi il mio coltello nella schiena?»

«E perché avrei dovuto temerlo?»

«E me lo domandi? Hai sparato a papà!»

«E mi avresti ucciso prima di sapere perché? E poi, sei sicuro che sono stato io

a sparare a tuo padre?»

«Sicurissimo! Ti ho visto anche se avevo il sole negli occhi! Eri tu! Sei stato tu

a sparare a papà! Prova a negarlo!»

«E perché dovrei negarlo? Lo sai che non ho mai mentito!»

«Ma perché? Perché hai cercato di ucciderlo?»

Kit non è molto convinto che Tiger avesse l’intenzione di uccidere.

Le parole gli sono uscite di getto, quasi senza pensarle.

«E’ tuo fratello di sangue. E’ mio padre! Ti ho sempre considerato come un se-

condo padre! Tutte le volte che lui non c’era, anche quando ero molto piccolo,

tu eri sempre con me! Perché allora?»

«Tu credi veramente che abbia cercato di uccidere tuo padre?»

«Cosa dovrei credere? Gli hai sparato!»

«Gli ho sparato, ma l’ho colpito alla gamba! Mi hai mai visto sbagliare un col-

po? Se avessi voluto ucciderlo, tuo padre ora non sarebbe prigioniero degli

Hualpai!»

«Dov’è ora? L’hai visto?»

«Non l’ho visto, ma so dov’è! Vedi quella grotta? C’è un gran movimento e ci

sono molte sentinelle! Ho visto le squaw con erbe ed unguenti. Tex è sicura-

mente là dentro! Gli Hualpai gli stanno curando la ferita del mio winchester. Lo

vogliono in forma perché resista il più a lungo possibile alle torture!»

«Cani maledetti! Scendiamo e avviciniamoci senza far rumore e...»

«No. Il rumore non lo sentirebbero perché le rapide lo coprirebbero. Ma ci ve-

dranno sicuramente. E, anche se riusciremo a farne fuori molti, sono sempre

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Letizia troppi! E tuo padre sarebbe la loro prima vittima! Aspettiamo un’occasione più

favorevole! I nostri Navajo non tarderanno ad arrivare e ci aiuteranno! E poi so

cosa vogliono fare gli Hualpai a tuo padre!»

«E come fai a saperlo? E non mi hai ancora detto perché gli hai sparato!»

«Già! Credo di doverti qualche spiegazione! Siediti! Ti racconto!»

«Capelli d’Argento è stanco? Vuole riposare un poco?»

«Sì che sono stanco! Sono stanco di essere considerato un vecchio come Matu-

salemme, Matusalemme Ballerino! E poi, anche se fossi stanco, non mi ferme-

rei neanche un secondo. La salvezza di Tex dipende da noi e dal tempo che

impiegheremo ad arrivare al villaggio degli Hualpai!»

«Penna di Falco lo sa. Ma mentre Capelli d’Argento si riposa, i nostri Navajo

continueranno il cammino e noi li seguiremo dopo.»

«No. Voglio essere io il primo ad arrivare. Credo che la vita di Tex dipenda dal

mio fucile!»

«Le prime luci si cominciano a vedere, dietro le montagne. Presto sarà giorno e

potremo camminare più veloci su queste rocce.»

«Già. Con questo buio è quasi impossibile vedere dove si mettono i piedi! Ed è

anche una notte senza luna!»

«Credi che i Navajo che erano con te e quelli degli altri villaggi siano ancora

molto lontani?»

«Non lo so, Penna di Falco. Io ho preceduto la carovana di qualche ora, ma a-

vevo due buoni mustang. Lupo Grigio e i suoi non hanno certo trovato cavalli di

ricambio al villaggio centrale! E gli altri Navajo arriveranno separatamente. I

loro villaggi sono molto distanti l’uno dall’altro!»

«Fino ad ora non abbiamo incontrato neanche un cane Hualpai. Lo avremmo

catturato e gli avremmo chiesto dove è stato portato Aquila della Notte! Penna

di falco sa come far parlare un nemico!»

Il suo coltello appare stretto nella sua mano e il suo volto si fa nero come se

avesse veramente un Hualpai tra le mani.

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L'Aquila contro la Tigre «Quei maledetti sono senza dubbio tutti al villaggio dove è stato portato Tex!

Ma non temere! Non avremo bisogno di cercarlo! Gli spari ci guideranno!»

Il racconto di Tiger Jack.

E’ ancora notte, ma nel wigwam dello sciamano non si dorme.

«Entra, Tiger Jack.»

«Nuvola Rossa non dorme?»

«Mi sono appena destato. Ho avuto una visione.»

«Anch’io ho avuto una visione. E’ per questo che sono qui.»

«Siedi e racconta, mentre io preparo le erbe della magia e le piccole ossa.»

«Aquila della Notte è in pericolo. Ho visto gli Hualpai che scagliavano frecce

contro di lui. Egli era legato e sospeso sulle rapide della Montagna Ruggente.»

Lo sciamano accende le erbe secche, che sprigionano un fumo azzurro, e di-

spone le piccole ossa in una ciotola.

«La mia visione era offuscata, ma anch’io ho visto il capo dei Navajo, ferito da

un’arma da fuoco, nelle terre degli Hualpai.»

«Nella mia visione Tex non aveva alcuna ferita. L’ho visto bene. Era nel pieno

delle sue forze e, se non fosse stato legato, molti Hualpai si sarebbero pentiti

di averlo catturato!»

«La ferita da arma da fuoco è l’unica cosa che ho visto nitida nella mia visio-

ne.»

«Ma come può essere? Gli Spiriti non mentono!»

«Non mentono, ma a volte i loro messaggi sono oscuri e noi non sappiamo ca-

pirli.»

«Vuoi dire che, se sono in tempo, posso cambiare il destino di Aquila della Not-

te?»

«Non so. Forse.»

«Gli Hualpai però non hanno armi da fuoco. Forse hanno preso i fucili di Aquila

della Notte e Piccolo Falco.»

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Letizia

«No. Chi ha ferito Aquila della Notte ha poi sparato anche agli Hualpai e molti

di loro sono saliti ai Pascoli del Cielo.»

«Ma chi può aver sparato a Tex? Hai avuto visioni su suo figlio?»

«Non ho visto il suo volto. La visione era annebbiata. Ma Piccolo Falco non cor-

re alcun pericolo. Lo dicono gli Spiriti che vedo muoversi nel fumo.»

«Cosa dicono le piccole ossa? Tex è stato ferito o no? E io... Un momento... Se

io...»

«Le piccole ossa dicono che il nostro capo è stato ferito da un colpo di fucile. E

dicono anche altro.»

«Sono stato io a ferire Aquila della Notte! Sono stato io! Ora capisco! Ma lo

raggiungerò, lo colpirò con il mio winchester e lo fermerò. Un colpo non morta-

le, alla gamba. La mia mira sa essere precisa.»

«No.»

«Sì, invece. Egli non sarà catturato dagli Hualpai perché io lo fermerò. E la mia

visione sarà spezzata. Tex ritornerà indietro con Piccolo Falco al villaggio di Or-

so Nero. E sarà salvo!»

«No, ti dico. Le ossa...»

Ma le sue parole cadono nel vuoto. Rimane solo nel suo wigwam mentre dà

un’ultima occhiata alle piccole ossa.

E’ ancora buio nel villaggio centrale della riserva.

Timidamente compaiono i primi deboli bagliori all'orizzonte, come se il sole fos-

se troppo pigro per sorgere...

«Ma allora, quando hai sparato volevi solo fermare mio padre e impedirgli di

proseguire verso le terre degli Hualpai!»

«Sì. E’ così!»

«Ma quei cani rabbiosi sono riusciti a catturarlo ugualmente!»

«Purtroppo! Non sono riuscito ad evitarlo. Erano troppi! Ma il destino di Tex è

già cambiato! Nella mia visione non era ferito. L’ho visto bene! E riusciremo

ancora a cambiarlo e lo salveremo!»

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L'Aquila contro la Tigre «Certo che lo salveremo! Ma siamo solo due! Come potremo affrontare l’intera

tribù degli Hualpai?»

«Dobbiamo solo prendere tempo! I nostri Navajo sono sulle mie tracce e arri-

veranno presto!»

«Evviva!»

«Non esultare troppo! Non so fra quanto saranno qui e dobbiamo assolutamen-

te fare in modo che gli Hualpai non uccidano tuo padre!»

«Non lo faranno! Lo zio Kit è con i nostri Navajo?»

«Quando ho lasciato il villaggio centrale non era ancora arrivato con i riforni-

menti. Ma la carovana non poteva essere molto distante e a quest’ora starà si-

curamente galoppando verso di noi! Ma non è su di lui che conto. I guerrieri

che erano al villaggio si saranno messi subito al mio inseguimento. Loro arrive-

ranno certamente prima di Carson!»

«Dovranno però lasciare i cavalli, magari dove li abbiamo lasciati noi e prose-

guire a piedi!»

«Sì! E troveranno anche il mio mustang, con i vostri.»

«Povero zio Kit! Dovrà seguire il nostro percorso e arrampicarsi come una ca-

pra!»

«Carson, anche se ha molte più primavere di te, è forte e robusto come un bi-

sonte e agile come una gazzella! Io spero solo che abbia raggiunto presto i

miei inseguitori, perché un buon fucile come lui sarà indispensabile per la sal-

vezza di Tex!»

«Ma i Navajo che sono partiti subito dopo di te sanno della gravità della situa-

zione! Non avranno perso un minuto e saranno qui tra poco!»

«Uhm! Poco probabile! Io sapevo esattamente quale strada percorrere mentre

loro dovevano seguire le mie tracce. Le avranno sicuramente perse almeno un

paio di volte!»

«Ma tu non potevi lasciare dei segni?»

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Letizia «Non ne avevo il tempo! E non potevo neanche deviare su terreni più favore-

voli per le tracce! Ogni minuto guadagnato poteva significare la salvezza di

Tex!»

«Ma, anche se avranno perso un po’ di tempo per trovare le tue tracce, saran-

no lo stesso qui tra poco!»

«Avranno però perso altro tempo per deviare nei villaggi vicini per cambiare i

cavalli!»

«Ma tu avevi un solo cavallo! Come hai potuto correre così veloce senza sfian-

carlo?»

«Il mio mustang è un buon cavallo! Forse il migliore di tutta la riserva, ed io

sono un buon esperto di cavalli, non ti pare?»

«Il migliore! Ma cosa è successo? Io ricordo solo che ho preso una gran botta

in testa e poi più nulla!»

«Sono arrivati gli Hualpai! Sono loro che ti hanno colpito. Io ne ho colpiti una

decina e anche Tex, con le sue colt, si è fatto sentire. Ho impedito che facesse-

ro del male a te, ma non sono riuscito a impedire che lo catturassero. Erano

troppi, te l’ho detto. E uno di loro ha preso tuo padre sulle spalle e si è fatto

scudo con il suo corpo!»

«Cani maledetti!»

«Poi sono sceso dall’altura, ma ho perso del tempo. Non è stato facile scendere

fino a te. Quando sono arrivato, ho visto che eri solo svenuto e che la tua ferita

alla testa non era grave. E avevo fretta di inseguire gli Hualpai!»

«Hai fatto bene! Però non hai pensato che, così svenuto ero una facile preda

per il puma? A momenti non ci lascio la pelle! Dannato gatto!»

«Puma? Quale puma?»

«Già, tu non potevi saperlo! Stavamo dando la caccia a un puma che aveva

fatto strage delle pecore di Orso Nero!»

«Io sapevo solo che tu non eri in pericolo. Lo hanno detto gli Spiriti a Nuvola

Rossa. Tuo padre invece correva un grande pericolo!»

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L'Aquila contro la Tigre «E lo corre ancora! Ho visto che le corde del ponte erano state tagliate! Sei

stato tu a ripararle?»

«Sì! Gli Hualpai fuggendo, per evitare di essere inseguiti, hanno tagliato le cor-

de di sostegno del ponte che è caduto dalla vostra parte del torrente!»

«E come diavolo hai fatto a...»

«Ho visto che avevate un paio di lazos...»

«Sì, infatti! E, ora che ci penso, non c’erano più quando mi sono ripreso!»

«Mi sono calato dalla sponda del torrente e ho fissato un capo della corda al

ponte caduto. Poi ho attraversato le rapide, aiutandomi con l’altro lazo. Sulla

sponda opposta c’erano parecchi appigli. Sull’altra riva, ho unito i due lazos e

mi sono arrampicato fino al sentiero, tenendo uno dei capi legato alla cintura!»

«Già, poi, una volta arrivato in cima, hai tirato sul il ponte di corde e lo hai ri-

parato usando i due lazos! Bravo!»

«Sì, è così. Ma ora taci. Vedo del movimento nel pueblo degli Hualpai!»

E’ quasi giorno.

Al villaggio Hualpai Hokan impartisce le ultime disposizioni ai suoi guerrieri.

Uno di questi, Tagua, ha attraversato il torrente in un punto più a monte, dove

le rapide sono meno impetuose, e ha già raggiunto la sponda opposta a quella

in cui si trova il villaggio.

Non ci sono ponti.

E non ne servirebbero, perché sull’altra sponda non ci sono sentieri.

Solo rocce e qualche appiglio a cui Tagua, che sembra attendere qualcosa dai

suoi compagni, si aggrappa a fatica.

Sull’altra sponda, il guerriero di nome Minhas lega il capo di una fune ad una

lancia e poi la scaglia verso l’altro guerriero.

La lancia però, colpendo le rocce, rimbalza e cade giù nel torrente.

«Recupera la lancia, Minhas, e poi scagliala di nuovo.»

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Letizia Minhas obbedisce all’ordine del suo capo e prova ancora una volta, due, finché

la lancia non rimane impigliata fra le rocce e viene recuperata da Tagua, che

slega la corda e la tira verso di sé.

L’altro capo della corda è legato a una corda più grande e robusta, unta con

grasso d’orso e formata dall’intreccio di più corde, troppo pesante per poter es-

sere lanciata con successo fino all’altra sponda.

Quando la fune intrecciata arriva sull’altra sponda, Tagua la lega saldamente

ad una roccia sporgente e si assicura più volte che sia in grado di sopportare il

peso di due uomini.

«Tiger, quei cani maledetti stanno preparando la fune a cui appenderanno mio

padre?»

«Pare di sì, Kit»

«Papà non si vede ancora! Appena lo vedremo uscire da quella grotta comince-

remo a mandare all’inferno gli Hualpai e...»

«No! Troppo pericoloso! Ci saranno molti guerrieri intorno a lui. Non faremo in

tempo a ucciderli tutti e qualcuno avrà sicuramente modo di piantargli un col-

tello nella schiena!»

«E allora cosa proponi di fare?»

«Non lo so ancora. Vedremo cosa succederà e prenderemo una decisione al

momento giusto!»

«Queste dannate rapide! Con tutto il rumore che fanno, non potremo neanche

avvisare papà che siamo qui a dargli una mano. A dirgli di buttarsi a terra

quando apriremo il fuoco!»

«Non sarà necessario! Il rumore dei nostri winchester parlerà per noi!»

«Guarda, qualcuno sta uscendo dalla grotta!»

«E vedo anche che il guerriero sull’altra sponda sta arrampicandosi sulla fune.

Presto raggiungerà gli altri!»

«Intravedo papà ma c’è troppa gente intorno a lui! Che facciamo?»

Tex infatti sta camminando in mezzo ad un gruppo di Hualpai.

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L'Aquila contro la Tigre Gli hanno slegato i piedi ma è ancora scalzo e cammina a piedi nudi sulle rocce

taglienti.

I legamenti alle sue mani sono stati rinforzati ed è stato aggiunto un grosso

anello metallico, strettamente fissato alle corde di cuoio.

Tagua, che si era arrampicato sulla fune intrecciata, si è fermato a metà tra le

due sponde, in attesa.

Al villaggio intanto, alcuni guerrieri stanno togliendo la punta a numerose frec-

ce e mettono le loro estremità spuntate sulle braci dei fuochi che hanno brucia-

to per tutta la notte.

«Ma che diavolo stanno facendo?»

«Non hanno l’intenzione di uccidere tuo padre! Almeno, non prima di averlo

fatto soffrire fino al sopportabile! Le frecce con la punta carbonizzata penetre-

ranno nelle carni solo in parte, ma la punta arroventata sarà per lui una tortura

terribile!»

«Maledetti!»

Kit arma il winchester e sta per aprire il fuoco, cieco di rabbia.

Ma Tiger lo ferma.

«No! Non è questo il modo per salvare Tex! Sono troppi e gli stanno tutti intor-

no! Così lo uccideranno prima che noi si possa fermarli tutti!»

«E allora, cosa possiamo fare?»

«Dobbiamo aspettare che ci siano pochi guerrieri intorno a lui! Potremo così

ucciderli subito e poi occuparci di quelli che gli sono ancora troppo vicini. E

fermare così tutti quelli che lo prendono di mira, sperando che la maggior par-

te degli Hualpai si rivolga contro di noi!»

«E sperando che i nostri navajo arrivino presto, altrimenti...»

«Se il Grande Spirito ha deciso che questa sia la nostra ultima ora, sarà la no-

stra ora più gloriosa e molti nemici ci precederanno nelle Celesti Praterie!»

«Non ho paura di morire, mi dispiace solo che papà non sia qui con noi e che

non possa difendersi! E mi dispiace anche che zio Kit non sia qui! Quando sa-

prà...»

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Letizia

Ma si interrompe.

Non riesce a completare la frase.

«Cammina, Aquila della Notte! Svelto!»

«Come posso andare di fretta, testa di legno! Mi hai tolto gli stivali e su queste

rocce...»

«Taci, cane navajo! E non aumentare la mia collera!»

«E perché? Hai forse intenzione di accoltellarmi alle spalle, come siete soliti fa-

re tutti voi cani hualpai?»

«No! Non ti ucciderò subito! Dovrai soffrire mille volte prima di morire! Il cane

navajo urlerà e mi implorerà di ucciderlo subito!»

«Stai fresco giuggiolone! Io non urlerò! Io me la rido della tua tortura! Dalla

mia bocca usciranno soltanto le risa di chi sa per certo che la mia morte sarà

presto vendicata! Io riderò di te e dei tuoi cuccioli hualpai, perché vedo morte

e distruzione per voi e...»

«Taci! Hai già pronunciato le tue vane minacce! Gli Hualpai sono molto nume-

rosi e guai ai Navajo che oseranno entrare nelle loro terre! Ma ora cammina! E

vedremo se riderai davvero!»

E spinge avanti Tex verso la sponda sul torrente.

«Apritegli le vesti! Voglio vedere il suo sangue sul petto quando le nostre frec-

ce lo colpiranno!»

Un guerriero gli strappa la giubba e passa la fune intrecciata dentro l’anello di

metallo che è fissato alle corde che legano le sue braccia.

Un altro gli lega attorno alla vita due corde, ne afferra una saldamente in mano

e lancia la seconda a Tagua, ancora appeso alla fune sopra il torrente.

«Tiger! Lo stanno fissando alla fune per sospenderlo sul torrente! Dobbiamo in-

tervenire subito!»

«Ancora troppo pericoloso Kit!»

«Ma lo stanno per appendere! Dobbiamo impedirlo a qualsiasi costo!»

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L'Aquila contro la Tigre «No, Kit! Questa può essere la sua salvezza!»

«Salvezza? Ma cosa dici?»

«Sì, se tuo padre sarà appeso sul torrente, sarà troppo lontano per essere col-

pito. Lo potranno fare solo con una lancia o una freccia. E noi lo impediremo!

Elimineremo tutti quelli che sono a tiro e faremo in modo che nessuno si avvi-

cini per poter tirare! Ricorda: colpisci prima i più vicini e poi gli altri. Io mi oc-

cupo di quelli a sinistra e tu degli altri. Dovremo anche fare in modo da non in-

terrompere mai il fuoco. Quando avremo finito i proiettili, io caricherò il fucile e

tu continuerai con le tue colt. Quando avrai finito i colpi, ricarica il fucile. Io sa-

rò pronto con il mio!»

«Bene, Tiger! Faremo così! Ma ti confesso che non sono mai stato in pena per

papà come ora!»

Tagua, afferrata la fune legata alla vita di Tex, comincia a trascinarlo verso di

sé.

L’anello scorre facilmente lungo la fune unta di grasso e Tex raggiunge presto il

guerriero hualpai, che si arrampica con la fune verso la sponda opposta e la le-

ga ad una roccia sporgente.

La stessa cosa fa un guerriero con l’altra fune legata alla vita di Tex.

In questo modo l’anello che regge il prigioniero non può scivolare sulla fune né

verso una sponda né verso l’altra.

Intanto i guerrieri hualpai si radunano intorno a fuochi ormai spenti ma con le

braci ancora fumanti e, stringendo l’arco, afferrano ciascuno una freccia in at-

tesa che il loro capo dia l’ordine di iniziare.

Hokan, con le braccia aperte e rivolte verso il cielo, urla:

«Che il gran dio Manito guardi il valoroso popolo degli Hualpai e gli dia forza e

potenza! E che il sangue del capo dei cani navajo cada abbondante nelle acque

del Fiume Ruggente!»

Poi, rivolgendosi a Tex, gli dice:

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Letizia «Questa è la tua ultima ora, Aquila della Notte! Appenderò il tuo scalpo alla

mia cintura e tutti sapranno che il valoroso Hokan ha preso la vita del capo di

tutti i Navajo!»

E si appresta a dare ai suoi guerrieri il comando che attendono ansiosi.

«Questa volta sembra proprio che sia giunto al capolinea!» pensa Tex mentre

uno sparo echeggia tra i canyon!

O erano due?

Poi altri spari in rapida successione e si scatena l’inferno.

«Spari, Capelli d’Argento!»

«Sì, due fucili e anche due pistole! Tiger Jack deve avere incontrato Kit!»

«Gli spari dicono che i nostri fratelli sono vicini. Affrettiamo il passo!»

«Per mille fulmini! Qui bisogna mettere le ali! Tex è in grave pericolo!»

«Tiger Jack e Piccolo Falco hanno bisogno del nostro aiuto! Corriamo fratelli!»

E Penna di Falco corre dietro Carson, che è già sparito dietro un costone roc-

cioso, con un’energia insospettata.

E vedono i due Navajo che lontano, da una piccola altura, sparano verso il bas-

so contro gli Hualpai che però non sono ancora visibili.

«Presto! Presto! Tiger e Kit hanno bisogno di noi! E dobbiamo impedire che gli

Hualpai uccidano Tex!»

Tagua è uno dei primi a morire, nel vano tentativo di tagliare la fune intrec-

ciata a cui è appeso Tex.

«Per fortuna la maggioranza di quegli idioti si sta occupando di noi invece di

cercare di far la pelle a papà! Hai finito di ricaricare? Sto per finire i miei colpi!»

Senza neanche rispondere Tiger inizia a far fuoco sugli Hualpai mentre Kit, do-

po aver esploso un paio di colpi, ricarica a sua volta.

Insieme formano un’infernale macchina da guerra che ha già causato numero-

se vittime.

Gli Hualpai cadono come foglie in una ventosa giornata d’autunno. 68

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L'Aquila contro la Tigre «Ah!»

«Kit! Per il Grande Spirito, ti hanno colpito?»

«E’ solo una freccia nella gamba! Non ti preoccupare, posso ancora sparare! Tu

non ti fermare, pensa a papà!»

«Ma tu cerca di stare giù! Non esporti troppo!»

E continua con il suo tiro micidiale, mentre Kit ricarica il suo fucile e le colt.

«Attento!»

E fulmina un Hualpai che stava per colpire Tiger Jack alle spalle con il toma-

hawk.

E un altro ancora.

«Quei maledetti cominciano a farsi troppo vicini!»

Kit getta a Tiger, ormai senza colpi, il suo winchester e continua a sparare con

le due colt agli Hualpai più temerari che ormai sono a pochi passi.

Tiger afferra il fucile di Kit e lo scarica sui guerrieri che stanno minacciando Kit

sempre più da vicino.

Ma un Hualpai riesce a colpire il giovane Kit che, con un grido di dolore, rotola

verso il basso.

Ora giace immobile vicino ad una roccia.

Ha una freccia nel petto e un’altra, spezzata durante la caduta, in una gamba.

«Kiiit!»

Urla Tiger Jack mentre scarica rabbioso il winchester sugli Hualpai che accorro-

no sempre più numerosi.

Nel frattempo Hokan si fa largo tra i corpi dei suoi guerrieri caduti e si dirige,

armato di lancia, verso la sponda del torrente.

Si è accorto che dall’altura nessuno spara più verso di lui e vuole realizzare il

suo più grande sogno: uccidere Aquila della Notte.

Ormai ha rinunciato alla tortura delle frecce ed è ansioso di scagliare la lancia

nel petto del suo mortale nemico.

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Letizia

Nei suoi occhi si legge tutto l’odio verso di lui e dei suoi Navajo che hanno cau-

sato tanti morti tra gli Hualpai.

Avanza.

E stringe nel suo pugno la lancia dei suoi antenati.

Tiger Jack sta vuotando il suo winchester sugli Hualpai che stanno intorno a lui

quando vede Hokan che sta per scagliare la lancia verso Tex.

Fa fuoco immediatamente su di lui, ma il fucile scatta a vuoto: ha finito i colpi.

Si scaglia allora giù dall’altura, cercando disperatamente di portare il suo aiuto

al fratello di sangue.

Ma, proprio quando è vicino al corpo inanimato di Kit, è colpito da una freccia

nella schiena e cade accanto a lui.

Finalmente arriva sul luogo della battaglia anche Lupo Grigio.

Con lui ci sono tutti i Navajo di tutti i villaggi della riserva.

Gli Hualpai li vedono, numerosi come le formiche e terribili come leoni di mon-

tagna affamati.

E fuggono lasciando solo morti.

«Era ora che tu arrivassi, Lupo Grigio!»

«Capelli d’Argento sa che non ho perso neanche un attimo. E neanche i Navajo

degli altri villaggi.»

«Tu occupati di Piccolo Falco e Tiger Jack. Io penso ad Aquila della Notte!»

«E intanto dirò a tutti di sterminare i cani hualpai!»

«No, Lupo Grigio. Sono sicuro che è anche il volere di Tex!»

«Ma Capelli d’Argento! Hanno cercato di uccidere Aquila della Notte! Hanno uc-

ciso Tiger Jack e Piccolo Falco! »

«Non è detto che siano morti! Ho visto che si muovevano, tutti e due! Occupati

di loro, ti ho detto.»

Mentre il Navajo obbedisce a malincuore, Carson si dirige verso il torrente.

Intorno a lui neanche un Hualpai è rimasto in vita. 70

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L'Aquila contro la Tigre Tutti falciati dai micidiali colpi di Kit e Tiger Jack, ai quali si sono poi uniti i suoi

e quelli dei Navajo di Penna di Falco.

E infine quelli dei guerrieri di Lupo Grigio che hanno costretto gli Hualpai alla

fuga.

Raggiunta la sponda del torrente, spezza con un preciso colpo di winchester la

corda che era servita a Tagua per trascinare Tex al centro del torrente.

Poi afferra la corda che è legata alla vita del suo amico e lo tira lentamente

verso di sé.

Quando Tex è arrivato sulla sponda, lo libera tagliando i lacci di cuoio che ser-

ravano i suoi polsi.

«Scusa se ti ho un po’ tagliato, ma questi nodi erano talmente stretti che...»

«Mio figlio? E Tiger? Dove sono? Sono salvi? Stanno bene?»

«Sono feriti. Lupo Grigio si sta occupando di loro. Vieni!»

Con il cuore in gola, ansioso di conoscere le condizioni del figlio e di Tiger Jack,

Tex corre, precedendo Carson, verso una gruppo di Navajo che vede intorno

a...

Le ossa gli fanno male. Il fiato gli manca, a causa della prolungata e non certo

comoda posizione.

Ma corre come un forsennato.

Arriva da suo figlio e da Tiger.

Tutti i Navajo, che erano intorno ai due, fanno ala al loro capo che si avvicina.

«Dannato testone!»

La testa sembra scoppiargli.

Cerca di alzarsi, ma una fitta di dolore alla schiena lo costringe a rimettersi giù.

«Sta giù, maledetto testone!»

La voce gli sembra uscita dall’oltretomba.

«Carson, sei proprio tu? Kit! Dov’è Kit? E Tex...»

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Letizia

«Stai calmo, testone! Kit è ancora vivo! E’ malconcio ma vivo. E Tex sta sicu-

ramente meglio di te! A parte qualche taglietto ai polsi e qualche ammaccatu-

ra! E’ la solita quercia di sempre!»

«Piccolo Falco! L’ultima volta che l’ho visto aveva due frecce in corpo!»

«Sì. Una nella gamba, E quella gli è già stata tolta. Una cosa da niente, L’altra

invece nel petto. Per fortuna però nella parte destra. Però non è penetrata nei

polmoni. E’ stata deviata da una costola. Ma è sempre una cosa seria. Toglier-

gli la freccia non sarà uno scherzo.»

«E dov’è Tex?»

«E’ con Kit! E’ preoccupato per lui! E’ naturale! Ma anche lui è forte come una

quercia! Si salverà e si rimetterà presto!»

«E cosa è successo mentre ero privo di sensi?»

«Quando sono arrivato, ho visto un balordo di Hualpai che stava per scagliare

una lancia contro Tex...»

«Sì, l’ho visto anch’io. E’ Hokan, il capo di quei cani! Ho cercato di ucciderlo,

ma la mia arma era scarica e...»

«E ti sei gettato allo sbaraglio! Cosa credevi di fare? Ti sei solo preso una frec-

cia anche tu!»

«Tex stava per morire per mano di un codardo che si è sempre tenuto al riparo

dai miei colpi e Kit... credevo che fosse morto! Tu che avresti fatto? Ho cercato

la morte anch’io!»

«Meno male che quella simpatica signora non ha trovato nessuno di voi! E me-

no male che io sapevo cosa stava succedendo e che tu saresti rimasto senza

proiettili! E, soprattutto, meno male che sono arrivato in tempo!»

«Sapevi? Ma come...»

«Lo sapevo! Credi di aver parlato tu solo a Nuvola Rossa? Se tu ti fossi fermato

un solo istante, lo sciamano lo avrebbe detto anche a te, brutto testone! Ma tu,

no! Tu sei schizzato via come un fulmine! Non hai udito le sue parole? Non hai

sentito che ti gridava di fermarti?»

«Io sapevo solo che Tex era in pericolo e che io, io solo, potevo salvarlo!»

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L'Aquila contro la Tigre «Infatti l’hai salvato tu! Ma non come credevi di fare! Mi hai dato il tempo di

arrivare! E anche quando hai visto che non c’era più niente da fare, hai distrat-

to, con il tuo gesto disperato, quel tale Hokan che ha avuto un attimo di esita-

zione. E quell’attimo mi è servito moltissimo, perché mi ha dato modo di farlo

secco con una fucilata! L’avrei fatto secco comunque, ma Tex... Non ci voglio

neanche pensare!»

«E’ stata la mano del Grande Spirito a guidarmi allora. E ha guidato anche la

tua!»

«Già, ma se ti fermavi ad ascoltare quello che aveva da dirti Nuvola Rossa...

Ma forse hai ragione tu!»

«Ma adesso va’ a vedere come sta Piccolo Falco, poi mi racconterai quello che

è successo nel wigwam del nostro sciamano!»

«Tex, come va?»

«Ha la febbre alta! Si è svegliato e, prima di svenir di nuovo, ha avuto anche il

coraggio di dire che sta bene!»

«E ti meravigli? E’ tuo figlio!»

«Non gli si può estrarre la freccia ora. Lo stiamo curando con le medicine che

Nuvola Rossa ha dato a Lupo Grigio. Non le ha date a te perché le doveva an-

cora preparare. Quando la febbre sarà scesa, vedremo di togliergli quel male-

detto arnese. Ma non se ne parla prima di domani!»

«Ho già preparato il campo, Aquila della Notte. Ho mandato delle pattuglie per

tenere lontani gli Hualpai sopravvissuti e questa notte tutti i Navajo staranno di

guardia. In tutti i sentieri, in tutte le alture, in tutti le gole! Nessuno di noi

dormirà stanotte!»

«Bene, Lupo Grigio! E tu, vecchio cammello, dimmi: come sta Tiger?»

«Come vuoi che stia? Si è svegliato ed ha persino provato ad alzarsi. Ma ha un

buco nella schiena. Gli abbiamo tolto la freccia perché la sua ferita era più leg-

gera di quella di tuo figlio. Ma è sempre una bella ferita!»

«Ora non ne ho gran voglia. Ma domani mi racconterai cosa diavolo è succes-

so!»

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Letizia «Hai bisogno di qualcosa?»

«No, grazie. Ho solo bisogno di vedere mio figlio migliorare. Tu va’ a dormire

un po’, ne avrai bisogno! Buonanotte!»

«’Notte, Tex!»

E si allontana rimuginando tra sé «Come se avessi voglia di dormire!»

Nel campo preparato dai Navajo tutti i fuochi sono accesi.

Sono accesi anche su tutte le alture intorno!

Sembra quasi giorno.

Ma nessuno dorme.

«Ciao pa’!»

«Ciao, figliolo! La febbre è un po’ scesa! Stamattina ti estrarremo quella dan-

nata freccia. Ti senti pronto?»

«Certo che sono pronto, pa’!»

«Bevi questo infuso a base di peyote! Ti stordirà quel tanto che basta per sen-

tire un po’ meno il dolore! Purtroppo non abbiamo whisky per disinfettare la fe-

rita! Ma andranno bene anche gli infusi di Nuvola Rossa!»

«Io credo che un goccio di whisky gli farebbe bene anche nello stomaco!»

«Zio Kit ha ragione, pa’! Un po’ di whisky lo berrei volentieri!»

«Vecchio reprobo! Ci mancava solo il tuo cattivo esempio! E tu stai buono, al-

trimenti non ci andrò troppo cauto quando ti toglierò la freccia!»

«Ma papà, chissà tu alla mia età quante bottiglie avevi già vuotato!»

«Taci tu! Bevi l’infuso e poi stringi questa cintura tra i denti! Ti farò molto ma-

le!»

«Non mi serve la cintura, pa’! Non è la prima volta che ho una ferita! E non ho

mai fatto tante storie!»

Tex si allontana verso un fuoco per disinfettare la lama del suo coltello tra le

fiamme.

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L'Aquila contro la Tigre Sussurra, in modo da non essere udito dal figlio «Kit è molto orgoglioso, ma la

sua è una brutta ferita. E quell’intruglio attenuerà molto poco il dolore. Tu,

vecchio cammello, gli terrai fermo un braccio e tu l’altro, Lupo Grigio!»

Poi ritorna dal figlio.

Il coltello lavora nelle carni finché la punta della freccia esce dalla ferita.

La freccia finalmente è uscita e Kit, che non ha emesso un gemito, perde anco-

ra i sensi.

«Hai visto, Tex? Il tuo ragazzo non ha emesso neanche un lamento!»

«Piccolo Falco è un grande guerriero e Aquila della Notte deve essere fiero di

lui!»

«Non perdiamo tempo! Mettiamogli sulla ferita l’impasto medicamentoso che

ha preparato Nuvola Rossa!»

«Io mi sono sempre chiesto come facciano certi intrugli ad essere efficaci!»

«Non dimenticare che i Navajo, e anche tutti gli altri popoli degli uomini rossi,

si tramandano da generazioni e generazioni i segreti delle erbe. Sono secoli di

esperienze tramandate da padre in figlio! I cosiddetti ‘uomini civilizzati’ hanno

perso le conoscenze dei rimedi che la natura ci ha messo a disposizione!»

«Aquila della Notte dice il giusto, Capelli d’Argento! I nostri padri e i padri dei

nostri padri ci hanno sempre tramandato la loro conoscenza!»

«Bene! Ora non ci rimane che aspettare!»

«Ho fame!»

«Toh! Il cucciolo si è svegliato! Deve essere stato il profumo dell’arrosto a sve-

gliarlo!»

«Arrosto, zio Kit?»

«I nostri Navajo si sono dati da fare e sono andati a caccia! Certo non hanno

trovato dei longhorn, ma...»

«Qualsiasi cosa è buona, con la fame che ho! Ma dov’è papà?»

«Sta curando la ferita di Tiger Jack!»

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Letizia

«Tiger è ferito?»

«Sì! Quel mezzo matto, quando è rimasto senza munizioni e ha visto il capo

degli Hualpai che stava per uccidere tuo padre, è schizzato come una belva con

l’unico risultato di beccarsi una freccia nella schiena!»

«E adesso come sta?»

«Meglio di te sicuramente!»

«Allora è a posto! Io sto benissimo!»

«Sì, certo! Infatti tuo padre ha deciso che non ce ne andremo di qua fino al

tramonto di domani!»

«Ma perché? Ti ho detto che sto bene! E gli Hualpai? Non credete che vi daran-

no altre noie? Sono dei fanatici, lo sai! E vedono i Navajo come fumo negli oc-

chi!»

«Gli Hualpai se ne staranno buoni nelle loro tane! Sono fanatici ma non sono

stupidi! Su queste montagne ci sono tutti i guerrieri navajo! Non ne ho mai vi-

sto tanti tutti insieme in vita mia!»

«Ma perché rimanere ancora?»

«Perché tu e Tiger avete bisogno di riposo! E non siete in grado di arrampicarvi

per tornare al posto dove abbiamo lasciato i cavalli! Dovremo usare delle corde

e partire quando il sole è tramontato e il caldo comincia a diminuire. E’ il mo-

mento migliore!»

«Come sta il cucciolo?»

«Ringhia!»

«Immagino! Un paio di Navajo stanno aiutando Tiger a venire qui! Ci deve rac-

contare un sacco di cose. E anche tu, vecchio cammello!»

I quattro pard sono così finalmente riuniti e, mentre Kit divora un cosciotto

dall’aria molto appetitosa, Tiger racconta.

Racconta del suo sogno e delle sue visioni, della visita notturna nel wigwam di

Nuvola Rossa, della sua corsa disperata verso le terre degli Hualpai.

Kit non sembra molto interessato.

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L'Aquila contro la Tigre E’ tutto impegnato a disossare il suo arrosto.

E ne chiede dell’altro.

Ascolta con poca attenzione perché ha già udito il racconto di Tiger.

E anche Carson ne conosce una parte.

L’aveva sentita da Nuvola Rossa.

E la parte che non conosceva, l’aveva dedotta sommariamente da tutti i ‘segni’

incontrati nel suo cammino fino al campo degli Hualpai.

«Hai visto, pa’?» dice Kit dopo aver affondato i denti sul suo arrosto. «Avevi

ragione tu. Ci doveva essere una ragione validissima se Tiger ti ha sparato!»

«Già! Ma adesso tocca a te, vecchio cammello! Scommetto che devi aggiunge-

re qualcosa!»

«Beh! Stavo conducendo la carovana dei rifornimenti insieme con Lupo Grigio.

Le mie ossa mi avvertivano che c’era qualcosa che non andava. Uno strano

presentimento che...»

«E’ la vecchiaia, zio Kit! Le tue ossa ti fanno male perché...»

«Stai zitto tu, monello! E lascia che racconti!»

«Eh, i giovani! Non hanno più rispetto per...»

«...le persone anziane!»

«Kit!»

«Lascialo ringhiare, Tex! Dunque, dicevo... Ho preceduto Lupo Grigio e i suoi e

mi sono gettato al galoppo verso il villaggio centrale...»

Il racconto di Kit Carson.

Nel wigwam di Nuvola Rossa...

«No, ti dico. Le ossa mi dicono anche che Aquila della Notte sarà ucciso da una

lancia...»

Nuvola Rossa si ferma un attimo.

Poi riprende.

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Letizia «Gli Spiriti mi hanno svelato i loro disegni troppo tardi. Non ho fatto in tempo a

parlare con Tiger Jack. Ma posso ora parlare a te, Capelli d’Argento. Ci sarà

una lunga e terribile battaglia, ma infine Tiger rimarrà senza cartucce e non

potrà salvare Aquila della Notte. Dovrai farlo tu.»

Dopo un altro attimo di esitazione, come se volesse ancora inseguire visioni

che non arrivano «Tu dovrai fermare la lancia del capo degli Hualpai. Dovrai

spezzare la sua vita prima che lui possa prendere quella di Aquila della Notte.

Bada a salvare solo la sua vita. Tiger Jack e Piccolo Falco non corrono gravi pe-

ricoli. Gli Spiriti mi hanno parlato ancora, dopo. Ho visto che erano feriti ma

salvi. Non ho visto però altro su Aquila della Notte. Non so se arriverai in tem-

po a salvarlo o se lui morrà trafitto da una lancia.»

Si interrompe ancora, come se stesse pensando a come cambierà la vita dei

Navajo senza il loro capo.

«Ho interrogato ancora a lungo gli Spiriti. Invano ho chiesto di mandarmi

un’altra visione. Ma la loro voce è rimasta muta.»

Carson interrompe il racconto.

Ripensa a quei momenti in cui ascoltava queste terribili notizie.

Ma adesso il suo volto non è più scuro come allora.

E prosegue «Mi sono precipitato verso le terre alte e ho incontrato presto Pen-

na di Falco. Sono arrivato nel luogo dove gli Hualpai ti hanno catturato e dove

ho trovato numerosi cadaveri. E alla fine sono arrivato in tempo per vedere Ti-

ger colpito alla schiena e, soprattutto, per eliminare quel Hokan che stava per

infilzarti con il suo spiedo. Tutto qui!»

«Tutto qui? Voi tre avete rischiato mille morti per salvare me e tu dici ‘tutto

qui’?»

«Non preoccuparti, tizzone d’inferno! Ti manderemo il conto. E sarà molto sala-

to! Una tripla razione, a testa naturalmente, di bistecche alte tre dita con con-

torno di una montagna di patate fritte! E per finire un’intera torta di mele a te-

sta!»

Ridono tutti e quattro.

Ma quando smettono, la risata continua ancora a lungo. 78

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L'Aquila contro la Tigre E’ l’eco delle loro risa moltiplicato dalle montagne intorno?

Forse.

Ma la risata continua.

E si fa agghiacciante.

Quasi diabolica.

Si sentono osservati.

Ma intorno non ci sono Hualpai.

Solo Navajo.

E nessun altro.

E la risata continua.

Continua.

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Capitolo X Due amori

1. Parigi, sabato 3 maggio, ore 17:12

Parigi...

Parigi è una città meravigliosa e in primavera è qualcosa di sublime.

Sarà...

Ma da quando siamo qui non ha fatto altro che piovere.

E non si è trattato della pioggerellina primaverile che magari contribuisce a

creare quell'atmosfera un po' magica tipica di Parigi, ma di una pioggia forte e

fastidiosa che non era certo prevedibile quando abbiamo prenotato questa set-

timana di vacanza.

E domani ce ne andremo.

Una noia mortale: o rintanati in albergo o in giro con l'ombrello sempre aperto.

E ciliegina sulla torta, da ieri sera ho un mal di denti che mi rende molto ner-

voso.

Devo decidermi a prendere qualche porcheria che mi faccia almeno passare il

dolore e poi lunedì, rientrati in Italia, andrò, ahimè, dal mio dentista che,

scommetto, mi accoglierà a braccia aperte.

"Luca, che hai? Una bella carie?" mi dirà quella canaglia (che gli si possano bu-

care contemporaneamente tutte e quattro le gomme, anzi tutte e cinque, an-

che quella di scorta, tanto le pagherà con la mia parcella).

Siamo in un negozietto di chincaglierie nel Marais dove mia moglie ha visto un

ninnolo che le piace "da morire" e io, annoiato, guardo dalla vetrina la via con

il suo andirivieni e noto con piacere che almeno non piove più.

Mi giro per vedere se Lara ha finito, ma non la vedo.

E non vedo neppure la ragazzina che le ha fatto vedere praticamente tutti gli

articoli che ha nel negozio.

Vedo invece una vecchia signora che sta parlando con una ragazza molto gio-

vane e anche molto carina, almeno nel lato B, e una bambina che gironzola tra

gli scaffali.

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Letizia Ma da dove e quando sono entrate?

E più di mezz'ora che siamo qui e mi è parso che non ci fosse quando siamo

arrivati.

E non c'era neanche la vecchia signora.

E Lara dove si è cacciata?

Cerco dietro gli scaffali e torno per chiedere se qualcuna l'ha vista.

La giovane si gira verso di me e... che mi venga un colpo.

Non può essere lei.

Questa giovane non ha più di trent'anni e non può essere Letizia.

Mi sta guardando e mi dice: «Luca vieni qui un attimo, per favore».

Ommamma!

Mi ha chiamato per nome come se fosse la cosa più naturale del mondo, mi

conosce.

E' proprio lei.

E' Letizia.

Sono quasi dieci anni che non la vedo e i nostri rapporti ultimamente non sono

stati proprio dei migliori.

E ora mi sta guardando con quello sguardo che aveva quando era innamorata

di me.

E' bellissima.

«Allora Luca, vuoi venire? Devo farti vedere una cosa. Dimmi se ti piace» dice

mostrandomi un orecchino che appoggia sulla guancia.

Ha sempre chiesto a me di metterle gli orecchini, quasi che lei non ci riuscisse

da sola, ma in realtà era soltanto un vezzo e non ne metteva mai un paio se

non ero io ad aiutarla.

Letizia.

Ma come ha fatto a mantenersi così giovane dopo tanti anni?

E perché ora è qui a Parigi, nello stesso posto dove sono io?

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Due amori E come ha fatto a entrare senza che io la vedessi?

E, soprattutto, dov'è Lara?

«Papà, mi compri questo braccialetto? Dai, ti prego, compramelo. Ti prego ti

prego ti prego.»

La voce della bambina mi distoglie dai miei pensieri.

Papà?

Istintivamente mi volto per vedere a chi si sta rivolgendo.

«Lascia stare papà, Licia. Dopo vedremo, eh? Allora Luca, come mi stanno?

Vieni a mettermeli, per favore.»

Io sto uscendo pazzo.

Una bambina che non conosco mi chiama papà, Letizia che si comporta come

se fossi suo marito e Lara che è sparita.

Inoltre Letizia sembra più giovane di trent'anni, anzi è più giovane di trent'an-

ni.

Per non parlare poi della ragazza che stava servendo Lara e che è sparita an-

che lei e la vecchia signora che è apparsa come in un miracolo.

Mi do un pizzicotto per controllare se sono sveglio anche se non serve a niente

perché non ho mai sentito di qualcuno che abbia sognato di sognare.

Ma che cavolo sta succedendo?

Lara, dove sei?

Ora le do un colpo di telefono, penso mettendo la mano in tasca per prendere

lo smartphone.

Ommamma!

Frugo in entrambe le tasche e non lo trovo, eppure mezz'ora fa l'avevo e l'ho

anche usato per consultare le previsioni meteo.

E non ho neppure il portafoglio che sono sicurissimo di aver avuto quando sia-

mo entrati.

Il portafoglio che mi ha regalato Lara, con le carte di credito, i documenti, la

patente e il denaro, quattro soldi in verità.

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Letizia

Tutto sparito.

L'ho persi?

Ma come è stato possibile?

Ma come diavolo...

La bambina mi corre incontro e mi abbraccia.

Mi chino istintivamente e l'abbraccio a mia volta.

«Papà, dai, non fare l'avaro, comprami questo braccialettino. Guarda com'è

bello e come mi sta bene.»

La guardo senza rispondere, non saprei cosa dire, e osservandola meglio noto

che somiglia tantissimo a me quando avevo la sua età.

E abbracciandola provo una strana sensazione di tenerezza, la stessa che pro-

vavo quando stringevo tra le mie braccia i miei due figli quando erano piccoli.

Dio, ma è davvero mia figlia?

La figlia di Letizia?

E Letizia è davvero mia moglie?

Ma non ha alcun senso, la cosa è priva di ogni logica.

Mi viene il sospetto che sia tutto uno scherzo ben congegnato, anche troppo,

ma in un attimo il dubbio si rivela assolutamente infondato.

Mi alzo e il mio sguardo incontra casualmente uno specchio.

E quello che vedo mi lascia secco.

Immobile e senza parlare - se lo avessi fatto, l'unica cosa uscita dalle mie lab-

bra sarebbe stata un'imprecazione - guardo a lungo la mia immagine riflessa

allo specchio.

E solo allora mi accorgo che non ho più il mal di denti.

La persona che vedo riflessa nello specchio non sono io.

O meglio, sono io ma con "qualche" anno di meno, senza una ruga e con i ca-

pelli senza un filo di bianco.

Sono io, ringiovanito di... di quanto?

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Due amori Sembrerebbe che io non abbia più di... di trent'anni.

Trent'anni, come... come Letizia...

E anche gli abiti sono diversi.

Porto i jeans, sì, ma non sono i miei.

E poi io porto sempre i jeans.

Lara mi dice sempre che ci manca solo che li porti anche a letto.

E poi il maglione è di un altro colore e...

«Letizia, hai tu il mio portafoglio?», le chiedo inseguendo un pensiero, «me lo

dai un attimo, per favore?»

«Che ci devi fare? Perché me lo chiedi?» risponde frugando nella borsetta.

«Devo vedere una cosa» replico prendendo il portafoglio che mi sta porgendo.

Lo apro.

Qualche biglietto da 100 e da 50 franchi, qualcuno da diecimila lire, una "vec-

chia" carta di credito, la "mia" carta d'identità con la foto del ragazzo che ho

appena visto allo specchio e la "mia" patente, in carta telata, scaduta nel 1989.

«Ha il giornale di oggi, per cortesia?» chiedo alla vecchia signora esprimendomi

nel mio miglior francese possibile subito tradotto da Letizia che deve aver no-

tato la faccia stralunata della signora.

Lei risponde con un sorriso e io riesco solo a capire due cose: "madame" e che

il giornale ce l'ha, anche perché ho visto la sua mano sparire sotto il banco e

riapparire subito dopo con una copia che non deve essere ancora stata letta,

visto il suo buono stato.

Lo prendo sparando un grazie tante in perfetto francese - è una delle piccole

frasi imparate a memoria - e non guardo neanche di quale testata si tratti.

L'unica cosa che mi interessa è la data: sabato 3 maggio 1986.

Li mortacci!

Se mi avessero coperto di bastonate starei molto meglio di come mi sento a-

desso.

Sono talmente fuori di testa che non riesco neanche a fare un semplice calcolo.

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Letizia Ma poi ci arrivo: sono esattamente 28 anni fa ed è proprio sabato come... co-

me quando?

Come sarà tra 28 anni?

Ommamma.

Ma come ci sono finito nel '86?

E perché non sono con Lara?

Lei dov'è ora, o meglio dov'era, cioè no... insomma dov'è nel 1986?

L'unica cosa positiva in tutta questa maledetta faccenda è che adesso ho 35

anni.

Restituisco il giornale alla signora che mi guarda con due occhi severi chieden-

dosi probabilmente cosa le ho chiesto a fare il giornale se poi non l'ho neanche

aperto.

«Sai che fine ha fatto Lara?» chiedo a mia... a Letizia con noncuranza, quasi

distrattamente cercando di essere il più normale possibile.

Anche se tra me e una persona normale ora c'è un abisso.

«Lara? E chi è Lara?», risponde un po' infastidita Letizia, «ma che diavolo ti

prende oggi? Mi sembri un fantasma che si aggira nelle sale di un vecchio ca-

stello scozzese.»

Non sa chi è Lara.

La conosciamo dai tempi del liceo, da quando avevamo 17 anni, e lei non sa

chi è.

Ma come è possibile?

Ma oggi pare che tutto sia possibile.

«Sarà un'amica di papà» esordisce la bambina guardandomi con i suoi occhietti

furbi.

«Licia, a cosa stai pensando? Vuoi che ti molli una sberla?»

Ma poi mi pento subito di averlo detto anche prima che Letizia replichi.

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Due amori «Luca, ma che ti prende? Non hai mai nemmeno sfiorato tua figlia, neanche

quando lo meritava ampiamente. E ora... non sei più tu. Sembri un altro uomo,

non sembri lo stesso di questa mattina.»

Non sai quanto hai ragione Letizia, vorrei dirle, io non sono la stessa persona

di stamattina.

Sono un altro, non sono tuo marito né il padre di tua figlia, tu non ti sei mai

sposata e non hai figli.

Sono stato l'unico amore della tua vita e, dopo che ho sposato Lara, non sei

nemmeno mai uscita con un altro uomo.

Sei come un fiore che nessuno ha mai colto, uno splendido fiore che è appassi-

to piano piano.

Ti sei tutta buttata sul lavoro e ti sei dimenticata di vivere.

E la colpa è tutta mia.

Tu eri la mia fidanzata e io ti ho giurato amore eterno, ma poi mi sono innamo-

rato di un'altra.

Ma è colpa mia, non dovevo.

Lara non ha alcuna colpa, non mi ha mai cercato perché sapeva che tu mi a-

mavi ed eravate diventate amiche.

Sono io che ho perso la testa e l'ho cercata e per questo ti ho chiesto perdono,

e non una volta sola.

L'unico pensiero che avrebbe potuto farmi sentire un po' meno in colpa era il

fatto che non ti avevo mai toccata.

Questo vorrei dirti, ma come potrei?

E poi forse non è nemmeno la verità.

A questo punto non so più nemmeno io quello che è vero e quello che non lo è.

Ma quando torneremo in Italia, ti cercherò, Lara e ti troverò, Dio se ti troverò.

Devo trovarti.

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Letizia Poi ritorno alla realtà: «Va bene, ragazze. Oggi facciamo spese pazze. Alla mia

piccola peste il braccialetto e alla mamma i suoi orecchini. Vieni, tesoro, ti aiu-

to a metterli.»

Dio, da quanto tempo non chiamo più tesoro Letizia?

Mia figlia - sì diamine, mia figlia - mi salta addosso con una foga che mi quasi

fa cadere.

E' proprio vero che si trova più soddisfazione a dare che a ricevere.

Non sta nella pelle dalla contentezza ed è bastato così poco, un ninnolo da po-

chi euro.

Euro... franchi volevo dire.

Ommamma, ho perso la cognizione del valore del denaro.

Quanto valeva un franco nel '86?

Duecento lire?

E quant'erano duecento lire nel '86?

Ma chi se ne frega.

Soprattutto perché ho strappato un sorriso a Letizia che quando ride è ancora

più bella, se mai è possibile.

E soprattutto perché ora mi sta baciando sulla guancia e io ho una voglia matta

di baciarla sul serio.

2. Parigi, sabato 3 maggio, ore 17:12

Parigi...

Parigi è una città meravigliosa e in primavera è qualcosa di sublime.

Sarà...

Ma da quando siamo qui non ha fatto altro che piovere.

E non si è trattato della pioggerellina primaverile che magari contribuisce a

creare quell'atmosfera un po' magica tipica di Parigi, ma di una pioggia forte e

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Due amori fastidiosa che non era certo prevedibile quando abbiamo prenotato questa set-

timana di vacanza.

E domani ce ne andiamo.

Una noia mortale: o rintanati in albergo o in giro con l'ombrello sempre aperto.

Siamo in un negozietto di chincaglierie nel Marais dove mia moglie ha visto un

ninnolo che le piace "da morire" e io, annoiato, guardo dalla vetrina la via con

il suo andirivieni e noto con piacere che almeno non piove più.

Mi giro per vedere se Letizia ha finito, ma non vedo né lei né Licia.

E non vedo neppure la vecchia signora con quell'assurdo vestito rosso che le

ha fatto vedere praticamente tutti gli articoli che ha nel negozio.

Vedo invece una ragazza che sta parlando con una signora mentre stanno

guardando qualcosa.

Ma da dove e quando sono entrate?

E più di mezz'ora che siamo qui e mi è parso che non ci fossero quando siamo

arrivati.

E Letizia e Licia dove si sono cacciate?

Cerco dietro gli scaffali e torno per chiedere se qualcuna l'ha vista.

E c'è un dente che inizia a farmi male e, mannaggia, ci mancava solo quello.

«Scusate...» accenno.

La signora si gira verso di me.

Doveva essere una donna molto bella quando era più giovane: alta, slanciata,

capelli biondi di un biondo proprio come piace a me.

Ma adesso naturalmente saranno tinti, ma è sempre una bella donna e porta

molto bene gli anni che ha, qualunque sia la sua età.

«Cosa c'è, Luca? Ti stai annoiando? Ho quasi finito, pago e ce ne andiamo.

Guarda cosa ho preso.»

Luca?

«Mi conosce, signora?» domando meravigliato.

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Letizia

Che mi ricordi, non l'ho mai incontrata in vita mia.

Non la conosco.

«Luca, che ti prende? Se tu hai mal di denti, a me duole la testa e non ho af-

fatto voglia di scherzare.»

Mal di denti?

Come fa a sapere che ho mal di denti?

Fino a cinque minuti fa non lo sapevo nemmeno io.

«Mi scusi, signora, ma deve avermi preso per qualcun altro, io non la conosco.

Ero solo venuto da voi per chiedervi se avevate visto mia moglie e...»

«Tua moglie? Ah, cerchi tua moglie? Hai gli occhi foderati di prosciutto? E poi

perché continui a darmi del lei? Tesoro, ti ho detto che non ne ho voglia. Ades-

so cerchiamo una bella farmacia, prendiamo qualcosa per il tuo mal di denti e

per il mio dannato mal di testa. Poi ce ne torniamo un po' in albergo a riposa-

re.»

«Temo ci sia un malinteso. Io stavo solo cercando mia moglie Letizia e mia...»

«Ti sta dando di volta il cervello? Sono più di dieci anni che non vediamo Leti-

zia. E cos'è questa storia che sarebbe tua moglie? Sei diventato bigamo?»

«Lei conosce anche Letizia?»

«Luca, mi stai facendo preoccupare. Ti conosco troppo bene per pensare che

stai scherzando. Mi dici che diavolo sta succedendo?»

Il tono della sua voce è decisamente cambiato.

Pare che sia convinta che io sia suo marito ed è sinceramente preoccupata del

mio comportamento.

Certo che, se fosse vero, avrebbe pienamente ragione, il mio comportamento

sarebbe inspiegabile.

Ma io non sono suo marito.

Ho almeno vent'anni meno di lei.

Ma è possibile che suo marito mi assomigli così tanto e che si chiami Luca co-

me me?

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Due amori E poi conosce una Letizia, che non è certo mia moglie.

Possibile così tante coincidenze?

E Letizia dove diavolo si è ficcata?

E mia figlia Licia, possibile che non mi sia ancora capitata tra i piedi per con-

vincermi a comprarle qualche chincaglieria?

Dov'è anche lei?

«Senta, cerchiamo di chiarire la situazione, da persone adulte: sono entrato

mezz'ora fa, o poco più, in questo negozio con mia moglie Letizia e mia figlia

Licia, mentre la proprietaria, un'anziana signora vestita di rosso, stava serven-

do mia moglie e io me ne stavo a guardare, attraverso la vetrina, la gente che

passava nella via. Poi...»

«Ma la proprietaria sono io» mi interrompe la ragazza parlando un ottimo ita-

liano, velato da un leggero accento francese: «la signora vestita di rosso è mia

nonna che è morta dieci anni fa.»

«Ma io l'ho vista, proprio qui, ora.»

«E adesso dove sarebbe?» insiste.

«Non lo so, è sparita, così come sono sparite mia moglie e mia figlia, cavolo.»

«Lei è matto» l'ha detto in francese ma ho capito ugualmente, il significato era

più o meno quello.

«Ah sì? E come mai conosco sua nonna e so che indossava un vestito rosso? E

non era neanche un semplice vestito, era tutto... insomma era qualcosa di par-

ticolare. Come spiega tutto questo?»

«Semplice. Lei è già stato qui e ha visto mia nonna. E il suo vestito? Ha sem-

pre indossato vestiti rossi. E tutti particolari, come dice lei.»

L'ultima frase l'ha detta con un tono un po' seccato.

Sto per ribattere ma la signora mi precede.

Strano, non so neppure come si chiama.

«Impossibile. Siamo stati a Parigi in passato, ma è la prima volta che visitiamo

il Marais ed è la prima volta che mettiamo piede in questo negozio.»

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Letizia «Oh, meno male. Questo vuol dire che non sono matto e che...»

«Alt. Questo non vuol dire che tu non sei mio marito. E, nel caso tu non sia del

tutto convinto, cerchiamo di dimostrarlo. Così la faremo finita. Prendi il tuo

smartphone, per favore.»

«Il mio che? Ora ci sono anche i telefoni intelligenti?»

«Prendi il tuo smartphone. Ce l'hai nella tasca destra.»

Infilo meccanicamente la mano in tasca: c'è davvero qualcosa.

E tastandomi anche la sinistra sento che c'è qualcosa anche lì.

Prendo i due oggetti: uno è un portafoglio e l'altro è un coso strano e lucido

che non ho la più pallida idea di cosa sia.

Ma non avevo niente in tasca, troppo pigro e jeans troppo stretti, tiene tutto

Letizia nella sua borsetta.

Osservo quello che dovrebbe essere uno smartphone e noto solo allora che il

maglione che indosso non è quello con cui sono uscito.

Allora, ricapitoliamo: in tasca mi ritrovo due cose che non avevo e indosso dei

vestiti che non sono i miei, neanche i jeans che, guardandoli, sono simili ai

miei ma non lo sono.

Conclusione: sto sognando.

Oppure sono rimbecillito del tutto.

Delle due l'una.

«Ora guarda le ultime foto che hai scattato e, in particolare guarda il selfie che

ci siamo fatti.»

«Il che?»

«Oh basta.»

Mi prende il "coso" dalle mani, lo tocca due o tre volte e poi me lo fa vedere.

Ommamma.

Sulla superficie lucida ora c'è un'immagine che la ritrae insieme a... a me,

sembrerebbe.

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Due amori Ma molto più vecchio, con tutti i capelli bianchi e qualche ruga sul viso.

E la tiene stretta in atteggiamento più che affettuoso.

Ed entrambi ridono spensierati.

Ma sono veramente io?

Cerco il portafoglio e lo apro.

Ci sono delle strane banconote che non ho mai visto - non sono né franchi né

lire - due carte di credito intestate a me e due tessere di plastica con foto, la

stessa persona che ho visto nel, come si chiama?, nello smartphone.

Una si direbbe una carta d'identità e l'altra una patente.

Guardo la data di scadenza della patente e mi viene un colpo: 12 agosto 2019.

E poi, poiché un colpo evidentemente era poco, me ne viene un altro quando

per caso - o intenzionalmente? - il mio sguardo incontra uno specchio.

Sono un vecchio, come nelle foto, con gli stessi capelli bianchi - beh, diciamo

grigi - e tutto il resto.

E poiché sono masochista e, lo dice anche il proverbio: non c'è due senza tre,

vado in cerca del terzo colpo, sperando di non finire all'ospedale con un bell'in-

farto, visto che non sono un giovanotto.

Com'ero... un'ora fa.

«Signorina, ha per caso un giornale di oggi?» chiedo.

«Ma certamente» risponde la ragazza mentre prende un quotidiano da sotto il

banco.

Lo prendo sparando un grazie tante e non guardo neanche di quale testata si

tratti.

L'unica cosa che mi interessa è la data: sabato 3 maggio 2014.

Li mortacci!

Se mi avessero coperto di bastonate starei stato molto meglio di come mi sen-

to adesso.

Sono talmente fuori di testa che non riesco neanche a fare un semplice calcolo.

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Letizia

Ma poi ci arrivo: sono passati in un attimo esattamente 28 anni e oggi è pro-

prio sabato come... come quando?

Come 28 anni fa?

Ommamma.

Ho 63 anni, beh quasi, visto che sono nato il 7 settembre.

Ma sono sempre 62 e rotti.

Ma come ci sono finito nel 2014?

E perché non sono con Letizia?

Lei dov'è ora, o meglio dove sarà, cioè no... insomma dov'è nel 2014?

«Mi dai un attimo la tua carta d'identità» chiedo a... a mia moglie, perché quel-

la donna di cui non so neanche il nome è sicuramente mia moglie.

Mi secca che lei sappia che non conosco neanche il suo nome, anche se proba-

bilmente lo sa già.

«Cos'è», dice lei leggendomi nel pensiero, «non sai neanche come mi chiamo?

Ecco: qui, Lara Lentini, nata il 16 ottobre 1951 ad Arezzo» e mi porge il docu-

mento.

Lo guardo appena, guardo in realtà solo la foto: è ancora una donna molto bel-

la.

Chissà com'era quando era giovane.

Doveva essere bellissima.

E poi è bionda e io ho sempre avuto un debole per le bionde e Letizia invece ha

i capelli neri.

Letizia, la mia Letizia.

E Licia, la mia piccolina.

La voce di Lara interrompe i miei pensieri rivolti alle due donne della mia vita.

Chissà se le rivedrò.

«Quando saremo a Roma potrai richiedere un bel certificato di matrimonio così

sarai contento.»

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Due amori A Roma?

E così andrò ad abitare a Roma?

O meglio, abito a Roma, sì insomma, nel 2014 abito a Roma.

«No, Lara. Non ce n'è bisogno. Ho solo una gran confusione nella testa e non

ricordo un gran che del mio passato. Amnesia? Demenza senile? Non lo so. So

solo che ho bisogno del tuo aiuto.»

«E Letizia? Hai detto che era tua moglie. E che hai una figlia, come hai detto

che si chiama? Ah sì, Licia. Quella cos'è? Amnesia a rovescio? Non ricordi la tua

vita con me, non ricordi magari nemmeno i nostri due figli e ricordi invece cose

mai successe? Eh? Che mi dici in proposito?»

Lo dice arrabbiata e una lacrima le scende su una guancia.

Ommamma.

Ho due figli che non ho mai visto.

E lei sta piangendo.

«Lara...» le dico stringendola fra le mie braccia.

E lei si stringe a me scoppiando a piangere come una bambina.

Non sopporto di vederla piangere.

«Lara, mio Dio, Lara» e la stringo a me ancora più forte.

3. Parigi, ultima sera

Siamo ritornati in albergo.

Letizia, naturalmente, si deve cambiare, non può tenere lo stesso abito tutto il

giorno.

E poi, che diamine, un abito indossato per il giorno non è assolutamente adatto

per la sera.

Ma quanto guardaroba si è portata appresso?

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Letizia Lascio che sia lei a chiedere la chiave alla reception perché io non ho la più pal-

lida idea di quale sia la nostra camera e se il portiere me l'avesse chiesto sa-

rebbe stato un po' imbarazzante.

Ma avevo già pronto un "piano difensivo": l'avrei chiesto nel mio francese che

credo capiscano solo in Lapponia e sarebbe sicuramente intervenuta Letizia con

un sorriso dall'evidente significato "ma perché non impari quattro parole di

francese che non è poi così difficile".

Saliamo in camera e mi accorgo subito della consistenza del suo guardaroba:

vedo infatti due grosse valigie e non oso credere ai miei occhi quando lei apre

l'armadio.

Senza contare quello che ha portato per la bambina che, per fortuna, è allog-

giata in un'altra camera, che naturalmente è comunicante.

Non avrò così l'imbarazzo di dormire nello stesso letto con una bambina che,

se anche è mia figlia, l'ho vista oggi per la prima volta.

Già sarò abbastanza imbarazzato a dormire con Letizia e penso già alle pene

dell'inferno che dovrò sopportare per non toccarla.

Speriamo che non le vengano brutte idee e che sia troppo stanca per fare certe

cose perché io...

Non ho mai tradito Lara né ho mai avuto altre donne in tutta la mia lunga (pur-

troppo) vita e non mi sembra proprio il caso di cominciare proprio ora e proprio

con la mia ex fidanzata.

Fidanzata.

Ma adesso è mia moglie.

Cerco di ragionare su quello che è accaduto e rispolvero tutte le mie "cono-

scenze" sui viaggi nel tempo e su tutta la materia fantascientifica in generale.

Non sono un gran esperto e non ho neanche creduto, neppure da lontano,

all'esistenza di alieni vari o ai fenomeni paranormali, ma la materia mi ha sem-

pre appassionato e non mi sono perso neanche uno dei film di fantascienza.

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Due amori Sono sempre stato una persona molto razionale, con i piedi ben piantati per

terra, direbbe Lara, ma quello che mi è successo va ben oltre i limiti della ra-

zionalità.

Vediamo.

Sono stato catapultato indietro nel tempo di ben 28 anni esatti, ma non nel

"mio" tempo, ma in un "altro" dove sono sposato non con Lara, ma con Letizia.

Bene, anzi male, malissimo.

Si direbbe che sono capitato in un universo parallelo, ma non tanto parallelo se

ci sono 28 anni di differenza.

Ma che sciocchezze.

Però sono tornato indietro nel tempo, ma perché non sono rimasto com'ero?

Perché sono ringiovanito?

Non che mi dispiaccia, anzi, ma Lara non è insieme a me, non è ringiovanita

con me.

Sarebbe stato troppo bello: rivivere una seconda giovinezza con lei, ricomincia-

re tutto da capo...

Di nuovo giovani e innamorati... mio Dio.

Lara, dove sei?

Spero solo una cosa: di essermi sdoppiato in due e, mentre io sono tornato al

1986 e sono con Letizia, un altro me sia rimasto nel 2014 con Lara e che lei

continui la sua vita con lui... cioè con me, come sarebbe stato se non fosse

successo questo terribile impiccio.

Mi accorgo che tutte queste considerazioni sono talmente assurde che, se

qualcuno me le raccontasse, gli suggerirei un bravo strizzacervelli, ma temo

che non ce ne siano di così bravi da curare un tizio che racconta simili panza-

ne.

Ommamma.

E poi mi chiedo anche un'altra cosa, ma la domanda resterà purtroppo senza

risposta: perché?

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Letizia «Luca, il bagno è libero, vai a darti una rinfrescata.»

E' la voce di Letizia che sta uscendo dal bagno.

E' in sottoveste, una sottoveste trasparente e non porta il reggiseno.

L'esclamazione che sta per uscirmi dalla bocca è una parolaccia, ma c'è Licia

che sta giocando con i vestiti della madre e mi trattengo.

E non riesco a distogliere lo sguardo dai seni di Letizia.

«Allora Luca? Non vai in bagno? Ma che ti prende? Che è quella faccia da pirla?

E tu ragazzina vai in camera tua e preparati. Fra un quarto d'ora ti voglio pron-

ta per uscire.»

«Vado, vado. Faccia? Quale faccia?» accenno timidamente.

E dopo un quarto d'ora esatto siamo per strada.

«Papà, papà, andiamo in quel ristorante greco che abbiamo visto ieri, quello

dove spaccavano tutti i piatti?»

Sto per ribattere: sei proprio sicura di voler andare lì? E se poi la cucina greca

non ti piace?

Ma mi trattengo.

Solo ora mi viene in mente che non so nulla sulle loro abitudini, e anche delle

mie in fondo, che non so neanche se sono un architetto come nel 2014 e se

Letizia ha la sua casa di moda che però, ricordo, ha aperto solo nel 1987.

E Licia, che classe fa?

E' ancora alle elementari o è già alle medie?

Non so neanche quanti anni ha.

Devo assolutamente "documentarmi".

Le farò "parlare", ma devo stare attento a non fare domande.

Devo farle parlare degli argomenti che mi interessano e farle rispondere a do-

mande che io però non farò.

Semplice, no?

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Due amori Sono molto bravo a portare il discorso dove voglio io e a convincere il mio in-

terlocutore che invece è stato lui ad affrontare l'argomento.

E, con indifferenza, rispondo: «Devi chiederlo alla mamma e non a me. Oggi è

l'ultima serata a Parigi e comanda lei.»

«A me pare che comandi sempre lei e non solo oggi» replica Licia con un pizzi-

co di malizia e poi, rivolgendosi a Letizia: «Mamma, ci andiamo? Dai, andiamo-

ci.»

«E va bene. Ma non ti sembra di essere stata un po' impertinente con tuo pa-

dre? Lo sai che fa sempre quello che voglio solo perché mi vuole bene. Su, a-

vanti, chiedigli scusa.»

Licia mi allunga un bacio sulla guancia e mi dice: «Scusa papà. Ma lo sai che ti

voglio bene quanto tu ne vuoi a me e alla mamma.»

Ma che mi succede?

Possibile che un frugolo di bimbetta sia capace di scuotere un metro e novanta

di ultrasessantenne come me?

Sì, ultrasessantenne, perché il mio fisico avrà anche 35 anni, ma il mio cervello

ne ha 63.

Beh, quasi 63.

Eppure quel bacino e soprattutto quelle parole sono riuscite a grattare in pro-

fondità quella spessa crosta che mi ricopre il cuore.

E così ci incamminiamo verso quel ristorantino greco che hanno visto solo loro

perché io non c'ero.

O meglio, se c'ero, non ero io.

Che considerazione stupida.

4. Parigi, ultima sera

Siamo ritornati in albergo.

Siamo prima passati in farmacia dove Lara ha preso un analgesico per il mio

mal di denti e qualcosa per il suo mal di testa.

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Letizia Io mi sento come uno straccio e lei non è da meno.

Quel sorriso che aveva quando l'ho vista per la prima volta è sparito.

Dal suo viso traspare tutta quella tristezza che io ho provocato.

E appare ancora più bello.

Chissà perché due sentimenti così contrastanti come gioia e tristezza, sorriso e

dolore, rendano entrambi più bello il volto di una donna.

Non so cosa fare.

Darei l'anima per non vederla più soffrire così.

Mi avvicino a lei per stringerla e dirle qualche parola che possa almeno a con-

solarla un po', anche se non servirà certo a farle tornare il sorriso sulle labbra.

Ma lei mi respinge.

«Per favore, Luca.»

«Lara, non fare così, non peggiorare le cose...»

«Peggiorare? Peggio di così? Ah no, non è possibile. Mio marito non mi ricono-

sce, non sa di avere due figli, i miei figli, dice che è sposato con la sua ex fi-

danzata, dalla quale avrebbe avuto una figlia, sembra non abbia mai visto un

cellulare... c'è dell'altro? No, peggio di così non si può. Abbiamo toccato il fon-

do.»

«Io sono qui con te.»

«Capirai che soddisfazione. Che bell'acquisto.»

«Sei ingiusta. Io... io ti voglio bene.»

E non è una bugia, sento davvero di volerle bene.

La prendo tra le braccia e lei questa volta non mi respinge.

«Sai che facciamo? Adesso mi racconti tutto di te, come se non ci conoscessi-

mo.»

Il che, tra l'altro corrisponde al vero, ma lo penso senza dirlo.

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Due amori «Sono sicuro che sentirti raccontare i fatti della nostra vita non potrà che farmi

bene e che qualcosa riuscirò a ricordare. Comincia da quando ci siamo cono-

sciuti.»

E' una menzogna, ma cosa avrei dovuto dire?

E io devo sapere.

«Ci siamo conosciuti nel '68. Abitavo ad Arezzo allora. Poi mio padre è stato

trasferito a Cremona. E' stata una vera fatalità perché mio padre non doveva

essere trasferito. E' stato per caso.»

Suo padre è stato trasferito "per caso".

E se non fosse stato trasferito?

Non avrei mai conosciuto Lara.

I conti quadrano: suo padre NON è mai stato trasferito, io NON ho conosciuto

Lara e ho sposato Letizia, la mia fidanzata, che conosco da quando avevamo...

due anni?

Da sempre.

Eppure ora sono, chissà come, qui e Lara è mia moglie.

«Ci siamo incontrati al liceo, tu, io... e Letizia. Erano gli anni della contestazio-

ne giovanile e tu avevi i capelli lunghi. E mi sei subito piaciuto. E anche tu...

non ti ero del tutto indifferente. Ma eri fidanzato e Letizia è diventata la mia

migliore amica. Eravamo sempre insieme, tutti e tre, si studiava insieme, si

andava a ballare insieme... Letizia non era gelosa, era troppo sicura di te, del

tuo amore e, quando ci vedeva ballare insieme, anche i lenti, rideva perché tu

sei una frana e non si immaginava certo quello che ci stava succedendo. Ci

stavamo innamorando piano piano.»

«Io ho sempre avuto un debole per le bionde e Letizia ha i capelli neri» la in-

terrompo.

«E quando ne abbiamo avuto la certezza, quando non si poteva più tornare in-

dietro, non sapevamo come dirglielo. Ma non ce n'è stato bisogno. Lei lo ha

capito da sola. Ed è stato terribile per lei. Letizia ti ha sempre amato, fin da

quando eravate dei ragazzini, ti conosceva praticamente dalla nascita. Io mi

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Letizia sentivo uno straccio, la femmina maliarda che ruba i ragazzi alle altre, per poi

magari buttarli via. Ma io ti amavo. Ti amo. E ti ho sposato. Nella mia vita non

c'è mai stato nessun altro che te. E non ci sarà mai. Lei lo ha capito. Ha capito

quanto ti volevo bene e quanto mi dispiaceva di averle causato tutta quella

sofferenza e, dimostrando di essere la ragazza intelligente che è, ci ha perdo-

nato e se ne è fatta una ragione. Ma ha continuato ad amarti e non ha mai fre-

quentato altri ragazzi, anche se ce n'erano parecchi che le ronzavano intorno

dopo che tu... dopo che tu l'hai lasciata. Prima nessuno aveva mai neanche o-

sato, sapevano che c'eri tu, ma dopo... ma anche dopo non c'è stato niente da

fare per nessuno. Non si è mai sposata.»

Non si è mai sposata, mi ha sempre amato.

Ma come ho potuto farle questo?

Anche se Lara era sicuramente bellissima a 17 anni, io ero... sono profonda-

mente innamorato di Letizia.

Pazzo. Pazzo.

Come ho potuto?

«Dopo il liceo ci siamo iscritti all'università, tu hai scelto la facoltà di architettu-

ra, io quella di legge e Letizia economia e commercio. Ci siamo dati da fare tut-

ti e tre e, tra un esame e l'altro, tu hai trovato un'occupazione part-time nello

studio di un architetto, io in uno studio legale e Letizia in un atelier di moda.»

Per quanto riguarda me e Letizia è stato tutto come ha raccontato Lara: io ho

proprio iniziato a lavorare nello studio di architettura che poi ho rilevato insie-

me al mio socio Guerrini.

Socio per modo di dire, perché in realtà faccio tutto io.

I suoi progetti sono una frana e devo sempre intervenire per qualche modifica,

ma almeno mi fa il lavoro più "sporco".

E Lara continua: «Nel 1974, il 14 settembre, ci siamo sposati e Letizia ha tro-

vato la forza di venire al nostro matrimonio. Lei...»

«Ci siamo sposati il 14 settembre del '74? Ci volevamo sposare il sabato pre-

cedente, ma abbiamo prorogato di una settimana il matrimonio per non farlo

coincidere con il mio compleanno che è il 7 settembre.» 102

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Due amori Naturalmente sto parlando del mio matrimonio con Letizia.

Dio il matrimonio con Letizia è stato lo stesso giorno, mese e anno di quello

che Lara sta raccontando di aver celebrato con me.

Pazzesco.

«Stai cominciando a ricordare? Bene. Andiamo avanti allora» continua lei.

«Dopo la laurea tu hai rilevato lo studio dove hai fatto praticantato, insieme

con l'architetto Guerrini...»

«Paolo Guerrini» la interrompo.

«Sì, tesoro. Stai davvero ricordando. Non sai quanto mi fai felice.»

Povera cara.

Non sto ricordando proprio niente.

Mi sta solo dicendo che tutto quello che, per una serie straordinaria di coinci-

denze, è esattamente quello che è successo nella mia vita con Letizia.

L'unica differenza è proprio lei, sono proprio loro: Letizia e Lara.

«Io ho continuato a lavorare per lo stesso studio legale, finché ho aperto uno

studio mio. Mi sono specializzata nel penale. Letizia invece ha aperto una sua

casa di moda a Cremona e ora è una stilista affermata a Milano, proprio nel

quadrilatero della moda.»

Continua parlandomi dei nostri due figli, Matteo e Andrea, che ormai sono

grandi e si sono fatti una loro famiglia e di tutto quello che è successo dopo il

1986, tutte cose che naturalmente mi sono completamente nuove.

E lei se ne deve essere accorta perché il suo viso, che si era illuminato quando

le ho detto il nome di battesimo del mio socio, ora ha ritrovato quell'alone di

tristezza che aveva quando ha iniziato a raccontarmi la nostra vita insieme.

Maledizione.

E ora?

Che faccio, le dico tutta la verità?

E poi cosa le dico, che vengo dal passato e in un attimo mi sono ritrovato con

28 anni di più in un mondo che non è il mio?

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Letizia Ma andiamo, non mi crederebbe mai.

Non ci crederei neppure io e forse non ci credo neanche adesso.

Figuriamoci.

E poi la farei sicuramente soffrire di più.

E non voglio.

Eppoi, gliel'ho già detto, le voglio davvero bene.

«E se tuo padre non fosse mai stato trasferito a Cremona, cosa sarebbe suc-

cesso?» le chiedo senza pensare.

E mi pento subito di averglielo detto.

5. Ancora Parigi, ultima sera

La cena al ristorante greco è stata fantastica e Licia si è divertita da matti a

vedere con quale disinvoltura e menefreghismo il cameriere gettava i piatti per

terra mandandoli in mille pezzi.

Un modo molto originale per attirare i clienti che, incuriositi dal fatto un po' in-

solito, hanno riempito il locale in un baleno.

Sono pieno da far schifo.

Non mangio così tanto da... non me lo ricordo neanche più.

Con la gioventù mi è tornato anche l'appetito.

Ma Letizia non si è meravigliata per niente perché evidentemente mangio sem-

pre così tanto.

Almeno è così quando siamo in vacanza.

Ma anche lei non ha certo digiunato, ci ha dato dentro anche lei, non certo co-

me me, ma ci ha dato dentro.

E Licia?

Quel frugoletto tutto ossa, quanto ha mangiato anche lei.

Ma che siamo, una famiglia di lupi famelici?

Mah!

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Due amori Adesso però ci vuole una bella passeggiata per smaltire un po'.

L'aria si è intiepidita, ormai non piove più da qualche ora e il sole ha fatto timi-

damente capolino tra le nuvole prima di tramontare.

Ed è ancora presto, anche se forse non lo è per Licia, che però è sveglia e vi-

spa più di me e pare che non abbia alcuna voglia di andare a dormire.

Eppoi è primavera, diamine, ed è l'ultima sera, domani ce ne andremo.

Torniamo a Cremona e non a Roma dove... dove abito con Lara.

A Cremona, la mia città natale.

Ho scoperto anche dove abito, dalla mia carta di identità, naturalmente.

Ci ho dato un'occhiata senza farmene accorgere, Letizia era in bagno.

Abitiamo in un quartiere diverso da quello in cui sono nato io e anche da quello

in cui è nata Letizia.

Ed è anche diverso da quello in cui siamo andati ad abitare io e Lara.

Lara.

La prima cosa che farò quando saremo a casa sarà proprio cercarla.

Dovrebbe essere rimasta ad Arezzo.

Se suo padre, come immagino, non è stato trasferito, dovrebbe abitare ancora

nella sua città natale.

Lara mi ha più volte parlato di come suo padre, che doveva continuare ad A-

rezzo la sua carriera, per una serie di circostanze fortuite, direi fortunate per

noi due, era stato invece trasferito a Cremona.

Ma se questo non è avvenuto, lei ora abita ancora ad Arezzo e lì la cercherò.

A meno che non si sia trasferita lei, magari per lavoro, in un'altra città.

E allora trovarla sarà molto più complicato.

Beh, staremo a vedere, è inutile crearsi dei problemi, ne ho già fin troppi.

Sono riuscito a far "cantare" Letizia e mia figlia e ne ho tirato fuori un sacco di

informazioni utilissime.

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Letizia Specialmente Licia che, quando non era occupata a masticare, non teneva mai

la bocca chiusa e ha spifferato praticamente tutto sulla nostra vita.

E ho così scoperto che praticamente fino al 1986 non è cambiato praticamente

nulla, tranne il fatto che ho sposato Letizia e non Lara e di conseguenza non ho

figli maschi, ma solo una femmina, avuta naturalmente da Letizia.

Solo in studio la mia segretaria non è la ragazza che, a dire il vero, mi era sta-

ta suggerita da Lara, ma un'anziana signora Tina che non ho mai sentito nomi-

nare.

Non ne conosco il cognome perché non sono riuscito a far cantare Licia e non

ho potuto insistere perché Letizia stava cominciando a insospettirsi.

Non potevo tirare la corda.

E comunque quello che ho saputo mi basta.

Stiamo passeggiando tutti e tre per le stradine del quartiere latino.

Il cielo stellato e l'aria frizzantina ci fanno sentire che è primavera e che Parigi

è famosa per la sua primavera.

Letizia mi ha passato il braccio intorno alla vita e ha appoggiato dolcemente il

capo sulla mia spalla destra.

Ommamma.

Se mi sento così adesso, figuriamoci quando saremo in albergo, in camera, so-

li.

Mi vengono i brividi solo a pensarci, ma probabilmente è l'aria della sera che

ha cominciato a farsi un po' pungente.

Un cavolo.

Sono io che ho la pelle d'oca e la colpa è tutta di Letizia, mannaggia.

«E' ora di tornare in albergo» dice Letizia inconsapevole di aver piantato il col-

tello nella piaga.

«Ancora un pochino, mamma. Passeggiamo ancora un pochino. Non è tardi. E

poi non ho sonno e non sono neppure stanca.»

Meno male che interviene Licia in mio aiuto.

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Due amori Ma posso solo ottenere un rinvio, come un condannato a morte che ottiene di

essere accoppato un po' più tardi.

«E' inutile che insisti, signorina. Quindi non ci provare nemmeno. E' ora di an-

dare a letto. Punto e basta.»

Il tono della voce di Letizia è di quelli che non ammettono repliche.

Ma in fondo è meglio così.

Se devo togliere un dente non serve a niente rimandare.

Spero solo che Letizia non mi provochi.

E il bello è che non ho sonno, sono appena le dieci e mezza.

Farò finta di essere stanco.

Io amo Lara e non voglio che... insomma, non voglio e basta e saprò essere

forte e resistere alle tentazioni.

Devo.

Per Lara.

Certo è che ho amato Letizia per tanti anni e lei è rimasta sempre nel mio cuo-

re.

Non si può amare una persona per tanto tempo e poi dire "mi dispiace, non ti

amo più, arrivederci".

Ti ho sempre voluto bene, Letizia.

Anche quando mi sono innamorato di Lara.

Ommamma, siamo già arrivati in albergo.

Vado a prendere la chiave.

Stavolta mi faccio bello e sfoggio tutto il mio francese con il portiere, che non è

lo stesso di prima, e lui per fortuna mi capisce.

Saliamo e Licia si butta sul nostro letto, evidentemente non vuole andare a

dormire ma vuole stare ancora un po' con noi.

Letizia va in bagno e ritorna dopo pochissimo con la stessa sottoveste traspa-

rente.

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Letizia E naturalmente non ha il reggiseno.

Ma vuol farmi morire?

Non ho mai desiderato una donna così tanto come ora desidero Letizia.

Al diavolo tutti gli scrupoli.

Lei ora è mia moglie, è qui con me e io non sono un santo.

Lo sapevo che andava a finire così.

Lo sapevo.

Tutte le mie intenzioni di resistere a ogni costo erano soltanto ipocrisia.

A chi volevi darla a intendere, Luca?

Non ci avevi mai creduto.

«Licia, vai a letto ché io e la mamma dobbiamo parlare.»

La bambina, che aveva certamente notato come io guardavo Letizia, non mi la-

scia quasi finire la frase.

«Lo so io di cosa dovete "parlare" tu e la mamma.»

«Ma... Letizia, lo senti cosa dice questo demonietto?»

«Credi forse che sia stupida? Che creda ancora di esser nata sotto un cavolo?

O che l'abbia portata la cicogna?»

«Ma ha solo dieci anni» replico.

«Quasi undici» borbotta Licia.

«Un cavolo, undici anni li farai a novembre» dico arrabbiandomi.

«Vai a letto in camera tua, Licia» aggiunge Letizia.

E Licia le obbedisce.

Si avvicina alla madre e la bacia sulla guancia.

«Buonanotte, mamma. E buonanotte anche a te, papà» dice mollandomi sulla

guancia un bacino con lo schiocco.

E andandosene in camera sua, mi strizza l'occhio.

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Due amori E, prima che io possa aggiungere qualcosa, è già sparita nella sua camera

chiudendo la porta.

«Non essere severo con lei, quando avevamo la sua età noi eravamo già prati-

camente fidanzati.»

«E' vero, ma l'hai mai detto a tuo padre che amavi un bimbetto della tua età?»

«Certo che no. Ma sapevo già tutto sul sesso. E tu no? E poi non eri un bimbet-

to.»

Si avvicina a me, mi stringe e mi bacia.

A lungo.

E' il bacio che desideravo dal primo momento che l'ho vista in quel negozietto

nel Marais.

Mi sembra che sia passato un secolo invece che poche ore.

Poi si toglie la sottoveste e si stende sul letto.

Dio, com'è bella.

6. Ancora Parigi, ultima sera

«Se mio padre non fosse stato trasferito a Cremona, ti avrei conosciuto in

qualche altro modo, che so, una gita scolastica del tuo liceo ad Arezzo. Sai A-

rezzo è una bellissima città d'arte. Non si sfugge al proprio destino. E il mio

destino eri tu. Sei tu e lo sarai sempre.»

«Già.»

E' l'unica cosa che riesco a dire.

«Sai che ti dico? Non ho voglia di uscire. Che ne pensi di farci portare qualcosa

in camera? Qualcosa di leggero perché non ho molta fame. E tu? Tu hai fa-

me?»

Non avrei voglia di mangiare niente, ma il mio stomaco non è d'accordo.

«Un po'. Ma va bene così. Facciamoci portare qualcosa in camera. Ma è meglio

che ordini tu perché se lo faccio io chissà cosa ci portano.»

Lei sorride e non sa quanto mi faccia bene quel sorriso.

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Letizia Si è fatta portare un paio di pizze e un po' di frutta.

E un paio di bottiglie, una di acqua minerale frizzante e una di vino rosso.

Il vino è rimasto quasi tutto.

E forse ho fatto male.

Dovevo farla bere un po', sarebbe stato più facile confidarle tutto quello che ho

intenzione di dire.

Ma poi penso che sono uno stupido e che invece è meglio così.

«E se tuo padre non fosse mai stato trasferito a Cremona, cosa sarebbe suc-

cesso?» le ripeto la domanda e aggiungo: «E non parliamo di destino, per fa-

vore. Il destino potrebbe aver deciso altrimenti. Prova a immaginare come sa-

rebbe stata la nostra vita se non ci fossimo mai incontrati.»

Mi guarda con due occhi che sembrano chiedermi dove voglio andare a parare.

Come se volessero dirmi che non ha alcuna intenzione di ascoltare altre assur-

dità.

«Non riesco a immaginare la mia vita senza di te. Sei l'unico uomo della mia

vita, lo sai. E ora basta, ti prego. Credo proprio di aver sopportato abbastan-

za.»

Ma io ho deciso di andare fino in fondo.

«Ti saresti fatta una vita con qualcun altro, con qualche bravo ragazzo. Non

c'era qualcuno che ti piaceva ad Arezzo?»

«No. Non c'era. E se tu non avessi dimenticato tutto, lo sapresti.»

«Io avrei sposato Letizia», continuo freddamente, «lei era la mia fidanzata. Se

non avessi conosciuto te, se non mi fossi quindi innamorato di te, il mio desti-

no sarebbe stato quello.»

Mi prendo una pausa per osservare la sua reazione, ma lei si è ammutolita e

non riesco a trovare nel suo viso alcun cambiamento di espressione.

Vedo solo malinconia e tristezza.

Insisto.

«Tu avresti avuto dei figli tuoi. E io... io magari avrei avuto una figlia...»

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Due amori «Licia.»

Lo dice quasi assente, con un filo di voce.

«Ora basta, Lara. I casi sono due: o sono impazzito oppure quello che ti ho

detto e quello che sto per dirti, per quanto assurdo possa sembrare, è la veri-

tà.»

Lei tace.

«E non penso proprio che tu creda che io sia pazzo. Forse malato, ma non paz-

zo. Ma non sono né pazzo né malato. Sto benissimo, o meglio sto malissimo,

ma non fisicamente. Qualche acciacco dovuto all'età forse, ma tutto sommato

sono sano come un pesce. E non ho 63 anni, maledizione, ne ho solo 35. Sono

com'ero nel 1986. E invecchiato in un attimo di 28 anni.»

Sta per controbattere.

Ora ha un atteggiamento più bellicoso, direi che si sta arrabbiando davvero.

«No» la prevengo.

«Ora mi stai a sentire. Questo pomeriggio, alle cinque, ero con mia moglie Le-

tizia e mia figlia Licia nel quartiere di Marais, in una botteguccia di chincaglie-

rie. E' sabato 3 maggio 1986. Tuo padre non è mai stato trasferito a Cremona

e noi due non ci siamo mai incontrati. Non ti ho mai conosciuta.»

Prendo fiato un attimo.

«Poi, non so come e non so perché, mi ritrovo nel 2014. Ma non ho viaggiato

nel tempo, come in un vecchio film di fantascienza da quattro soldi. Sono in-

vecchiato. Indosso altri vestiti che non sono i miei. Mi ritrovo con un mal di

denti che un attimo prima non avevo. E che ora mi è anche passato. Ho in ta-

sca oggetti mai visti, un portafoglio che non avevo, con banconote sconosciute

e documenti con il mio nome e la mia foto. Sono io ma sono molto invecchiato.

Per non parlare poi di quel telefono tascabile, tecnologia che nel '86 non esi-

steva.»

Lei ha ascoltato ma sicuramente non ha creduto a una sola parola di quello che

ho detto.

E il bello è che la cosa non mi stupisce affatto.

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Letizia Non avrei creduto a una parola neanche io se fosse stato qualcun altro a rac-

contarmelo.

«Vengo da un'altra realtà, da un'altra dimensione, da un altro universo, fai tu,

io non lo so. So però che tutto questo corrisponde a verità, per quanto possa

sembrare assurdamente impossibile.»

Poi mi viene in mente una cosa.

Letizia andava spesso in palestra, ci teneva al suo fisico.

E naturalmente faceva una doccia prima di uscire.

Se Lara, in questa realtà, è diventata la sua migliore amica è molto probabile

che siano andate in palestra insieme.

«Sei mai stata in palestra con Letizia?» le chiedo a bruciapelo.

«Beh sì. Ma cosa c'entra questo. E poi...»

«L'hai mai vista nuda?» le chiedo interrompendola.

«Ma Luca, cosa ti salta...»

«L'hai mai vista nuda?» le ripeto bruscamente.

«Beh si. E' naturale. Sotto la doccia. Ma...»

«Bene. Benissimo» la interrompo di nuovo.

«Hai mai visto quella curiosa voglia che ha in un punto che non si vede nem-

meno indossando un bikini ridottissimo?» termino con un'aria trionfale simile a

quella che doveva avere Achille quando trascinò nella polvere il cadavere di Et-

tore legato alla sua biga.

Cavolo, ma che razza di paragone mi è venuto in mente.

«Come... come fai a saperlo? Te lo ha detto Letizia?»

«Eh beh, certo. Me la immagino proprio Letizia che mi dice: "lo sai Luca che ho

una voglia proprio lì? Beh, non proprio lì, un pochino più a sinistra." No Lara,

non me l'ha detto nessuno. L'ho vista con questi occhi, l'ho toccata...»

«Tu... tu... porco... traditore...»

Questa volta è lei che mi interrompe.

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Due amori «Lara...»

«Non osare dire una parola. Siete tutti uguali, voi uomini. Tutti. Ma da Letizia...

non me lo sarei mai aspettato.»

«Perché non la chiami al telefono, ora, con quell'aggeggio? Perché non le dici

quello che pensi di lei?» la sfido.

«Ma attenta. Se quello che ho detto è vero, lei non è la stessa Letizia alla quale

ho visto e toccato mille e mille volte quella voglia.»

Rafforzo il concetto della continuità e del reiterarsi del "reato" per convincerla

che non si è trattato, come lei pensa, di un tradimento occasionale.

«Lei non è la donna che io ho sposato. Qui io ho sposato te. E lei non si è mai

spogliata davanti a me. Qui io non ti ho mai tradito. Non sono il tipo. Quindi at-

tenta. Potresti fare una figuraccia e lei, diciamo, non la prenderebbe certo be-

ne. Ti manderebbe come minimo a quel paese.»

L'ho disorientata.

E' confusa.

Non sa più cosa pensare.

«Ebbene, perché non la chiami?» incalzo affondando il coltello nella piaga.

Ah, ora mi sento meglio.

Sto cominciando a credere anch'io a quel che ho detto.

Non che non ne fossi convinto.

Ma, che diavolo, quello che mi è successo è difficile da digerire, anche per me.

E Lara scoppia a piangere come una bambina.

Chissà perché le donne piangono sempre.

E allora la prendo ancora tra le braccia e la stringo teneramente.

E, al diavolo, scende una lacrima anche a me.

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Letizia 7. Il ritorno a Cremona

Il ritorno in Italia è stato lungo e noioso, specialmente il tratto in macchina fino

a Cremona.

All'andata abbiamo lasciato l'auto in aeroporto e così mi sono sciroppato io tut-

to il tragitto, come sarà sicuramente stato quando siamo partiti.

Letizia, come sospettavo, non ha la patente e l'auto non è ovviamente la mia

Jaguar nuova di zecca, ma una vecchia Lancia che però sa fare il suo dovere.

Beh, vecchia.

Non è poi così tanto vecchia.

Ma non ha il navigatore e neanche il cambio automatico.

Insomma, nessuna comodità.

E ho dovuto riprenderci la mano, o meglio il piede, non più abituato alla frizio-

ne.

Mi si è anche spento il motore in una partenza in leggera salita, come a un im-

branato principiante.

Che vergogna!

E dulcis in fundo, Licia mi ha pure ripreso un paio di volte dicendomi: «Ma che

fai, papa? Hai sbagliato strada» ma per fortuna Letizia sonnecchiava e non se

n'è accorta.

Arrivati all'estrema periferia della città, non ho più avuto problemi di orienta-

mento.

Conosco Cremona come le mie tasche, ci sono nato.

Ed è esattamente com'era quando mi sono trasferito a Roma.

E non c'è da meravigliarsi perché è successo proprio nel settembre del 1986.

E mannaggia, siamo nel '86.

Mi ci devo ancora abituare.

Naturalmente è la prima volta che vedo la casa in cui abito.

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Due amori Ho visto l'esterno, è ovvio, ci sono passato davanti chissà quante volte, ma

non ci avevo mai prestato attenzione.

Non ne avevo motivo.

L'appartamento non è piccolo, ma non è neanche un castello, perciò mi ci oriz-

zonto abbastanza facilmente.

Trovo subito la posizione degli interruttori della luce e individuo il bagno imme-

diatamente.

Forse perché Licia ci si è catapultata ancor prima che riuscissi a mettere un

piede oltre la soglia.

Sembra quasi che abbia sempre abitato lì.

Inoltre, a parte Licia che è sparita come un razzo, anche Letizia non presta

troppa attenzione a me e a quello che faccio.

Ha troppe cose da fare.

Quindi ho tutto il tempo di familiarizzare con l'ambiente.

Accendo il televisore più per curiosità che per altro, ma mi accorgo, sprofonda-

to in una comodissima poltrona, che non ascolto una parola.

Penso a Lara, dannazione.

E' il mio unico pensiero.

E' inutile che cerchi nell'elenco telefonico, ma ci provo ugualmente.

Non si sa mai.

E naturalmente il suo nome non c'è.

Nell'elenco neanche un Lentini.

E non è neanche il caso di chiamare la Telecom per avere il suo numero.

Troppo pericoloso.

Letizia non deve sospettare nulla.

Chiudo l'elenco e noto che la Telecom ora si chiama Sip.

Dopo un'oretta usciamo tutti e tre per andare a cena.

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Letizia Non abbiamo un granché in casa ma anche se avessimo avuto il frigo pieno,

Letizia non aveva voglia di cucinare.

Curioso, non so neanche se sa cucinare o no.

E' una bella serata, ma le mie due ragazze hanno un muso lungo così.

Licia perché domattina deve tornare a scuola e non credo che ne abbia molta

voglia.

Le vacanze hanno di brutto il fatto che finiscono troppo presto.

E Letizia deve ritornare al suo solito trantran in negozio e io vorrei tanto dirle

che deve pazientare ancora qualche mese.

Poi aprirà una sua casa di moda e avrà un successo strepitoso.

Le sue creazioni saranno richiestissime da tutta l'alta società femminile.

Ma non posso.

Tra l'altro non sono neanche sicuro di questo perché ha aperto l'atelier a Mila-

no dove si era trasferita un paio di mesi prima.

Ma era single allora, io ero il marito di Lara.

Cosa succederà qui?

Andrò a Milano con lei?

E Licia?

Andremo tutti a Milano e cambierà scuola?

Sono cambiate un po' di cose rispetto a quello che è successo nel "mio" mon-

do.

Mah, vedremo.

Non so neanche se dovrò rimanere qui per sempre o se è solo un fatto tempo-

raneo.

E non so cosa succederà quando e se troverò Lara.

E se fosse sposata?

Ommamma, la cosa mi fa impazzire.

Non sono mai stato geloso di lei.

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Due amori Mi amava.

Ma qui?

Qui non sa neppure che esisto.

«Andiamo da Guido o hai qualche altra preferenza?»

Guido?

Poi mi viene in mente che potrebbe essere un ristorante nei dintorni.

«No, Guido va benissimo, tesoro.»

Cinque minuti dopo siamo seduti al tavolo di un ristorantino dove non ero ma

stato.

Quando si ritorna a casa, Letizia mette a letto Licia che, stranamente è stanca

morta.

Sono molto stanco anch'io e mi butto subito sul letto.

Ma Letizia...

Se mai tornerò dalla mia Lara, avrò troppe cose da farmi perdonare.

8. Il ritorno a Roma

Il ritorno in Italia è stato penoso.

Lara e io ci siamo scambiati sì e no una dozzina di parole in tutta la giornata.

Ho cercato di farmi perdonare la brutalità con cui le ho parlato.

Ma in fondo le ho detto la verità.

Avrebbe voluto che le mentissi continuando con la storia dell'amnesia?

No di certo.

Lo ha anche ammesso.

Ma sta di fatto che mi sta trattando come se fossi un estraneo.

E in fondo ha ragione.

Sono un estraneo per lei.

A Fiumicino Lara mi conduce letteralmente al parcheggio dell'aeroporto.

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Letizia Non ho la più pallida idea di quale sia la nostra auto.

Prende dalla borsetta un mazzo di chiavi.

Insieme a quelle che sono evidentemente della nostra casa, ce n'è una che è

quella dell'auto.

E dal marchio vedo che è di una Jaguar.

Le Jaguar mi sono sempre state qui.

Quando avremo un po' più di denaro e potremo permetterci qualche spesa su-

perflua, me ne prendo una.

E' sempre stato il mio pensiero.

Da ragazzino sognavo la "Jaguar E" nera.

Chi non ha mai sognato la famigerata "Jaguar E"?

Lara preme un telecomando e una splendida Jaguar di color grigio metallizzato

accende i suoi quattro lampeggiatori.

In condizioni normali avrei passato almeno mezz'ora a guardarmela e riguar-

darmela.

Ma adesso...

Lara, senza dire una parola, mi porge le chiavi.

Come dire "guida tu che io non ne ho voglia".

Non so nemmeno se abbia la patente o no.

Il ragazzo che ci seguiva con un carrello sistema le nostre valigie nel bagaglia-

io.

Gli allungo una banconota e lui, con un sorriso così, esclama: «Grazie mille si-

gnore.»

Chissà quanto gli ho dato.

Entriamo in auto e a niente è servito l'averle aperto la portiera per farla acco-

modare prima di entrare a mia volta.

E' ancora nera e taciturna.

Non so dove abitiamo e mi trovo in "leggera" difficoltà.

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Due amori Ma lei mi aiuterà indicandomi la strada, se vuole arrivare a casa entro la fine

del mese.

La Jaguar è favolosa.

Cambio automatico , autoradio con un visore luminoso che assomiglia a quello

del telefono portatile che mi ritrovo in tasca.

E con mia enorme sorpresa noto che su quel visore è apparsa una mappa.

E' la mappa della zona di Fiumicino.

E c'è una punto luminoso che dovrebbe essere, a quanto ho capito, la nostra

posizione attuale.

Smanetto un po' con i pulsanti di questo coso e, dopo un po' vedo un elenco di

indirizzi tra i quali ce n'è uno che dice: casa.

Smanetto ancora un po' e riesco a evidenziare "casa".

Poi premo qualcosa e sento una voce femminile che dice: "Proseguire per due-

cento metri e poi svoltare a sinistra".

Oh cavolo.

La tecnologia del 2014 mi stupisce sempre di più.

Faccio per rivolgermi a Lara che mi previene: «Si chiama navigatore satellitare.

Ti dice quali strade devi prendere per andare a casa. Non lo sapevi? Hai dimen-

ticato pure questo?»

Il suo tono è sarcastico.

Ma ha ragione, almeno in parte.

Non sapevo cosa fosse, ma non l'ho dimenticato.

Non l'ho mai saputo.

E forse anche lei comincia a convincersi che sia davvero così.

Arrivare a casa è facilissimo.

Ha fatto tutto il navigatore.

Vai di qua, svolta di là, alla rotonda prendere la seconda uscita.

Comodo, perbacco.

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Letizia Arriviamo a una palazzina in un quartiere molto elegante, dove non sono mai

stato.

Sono stato naturalmente molte volte a Roma, ma qui mai.

E' un quartiere residenziale.

Non ci vai se non ci abiti o se non ci abita qualcuno che conosci.

Lara apre il portaoggetti della Jaguar e prende una specie di telecomando con il

quale apre il portellone di un box.

Nel frattempo si avvicina un signore in divisa.

Deve essere il custode dello stabile perché l'ho visto uscire da una guardiola al

piano terra che deve avere un suo appartamento annesso.

«Buon giorno, madame.»

Si rivolge a mia moglie con un leggero inchino.

Con il motore ancora acceso, scendo e mi accingo a prendere i bagagli.

«Lasci, architetto, faccio io» mi previene il custode.

«I signori salgano pure. Porterò su i loro bagagli appena avrò sistemato la Ja-

guar nel box.»

«Grazie, signor Martini» gli risponde Lara mentre si avvia verso il portone che

il custode ha lasciato aperto.

«Grazie» ripeto io.

Raggiungo Lara che ha già chiamato l'ascensore.

Saliamo fino al quarto piano, l'ultimo, e arriviamo al pianerottolo.

Ci sono solo due porte.

Una è la nostra e l'altra di un certo Carli.

Sulla targhetta in ottone cromato del campanello c'è scritto "Lorenzi - Lentini".

Lei apre la porta.

Ha un altro mazzo di chiavi, il suo.

Evidentemente quello rimasto nel quadro della Jaguar è il mio.

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Due amori Cavolo, la porta è blindata.

Sarà' spessa dieci centimetri ed è interamente d'acciaio rivestito con dei pan-

nelli di legno, forse noce.

L'appartamento è splendido.

Ma io non sono in vena di ammirarlo.

«Datti una rinfrescata mentre io ti chiamo un taxi. Nel portafoglio hai un po' di

euro e due carte di credito. Roma è piena di alberghi. Trovatene uno di tuo gu-

sto.»

9. Cremona, lunedì 5 maggio

Sono nel mio studio di architetto.

L'ho trovato subito perché sono andato a colpo sicuro.

E' lo stesso che avevamo io e Guerrini negli anni '80.

E ora siamo nel 1986.

Quindi.

Quando entro, incontro la signora Tina, la segretaria, quella che non conosco.

«Buongiorno architetto Lorenzi» mi saluta appena mi vede.

«Buongiorno» rispondo un po' asetticamente.

Non so come chiamarla.

Non so il suo cognome, non so se l'altro me si rivolge a lei dandole del tu o del

lei e non so se lo fa confidenzialmente oppure no.

"Buongiorno" mi è parso più appropriato di un "ciao Tina".

«E' arrivato l'architetto Guerrini?»

«Non ancora, architetto» risponde.

E te pareva.

Quello è sempre in ritardo.

Puntualità è una parola che non esiste nel suo vocabolario.

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Letizia Vado nel mio ufficio e comincio a scartabellare tutti i documenti che trovo sul

tavolo.

Li riconosco tutti, qualcuno più, altri meno.

Ma è tutta roba "déjà vu".

Sbrigo qualcosa che so essere urgente e poi mi attacco al telefono.

Chiamo la Sip.

E inizia il calvario.

Nessuna Lara Lentini ad Arezzo.

Ho provato anche qualche altra città lì vicino e non solo in Toscana ma anche

in Umbria.

Niente

Mi interrompe due o tre volte la segretaria e poi non poteva mancare il mio

"socio".

Mi assilla con le mille stupide domande scontate che si fanno a chi è appena ri-

tornato da una vacanza.

Come sei stato, vi siete divertiti, com'era il tempo, scommetto che Letizia ha

speso un patrimonio in abbigliamento, e la bambina...

Mamma mia, che due marroni.

Poi mi porta un po' di scartoffie.

«Dacci un'occhiata, per favore. Se c'è qualche miglioramento che ritieni oppor-

tuno, fai pure. Non ti fare scrupoli. Lo sai che io non sono geloso dei miei pro-

getti.»

Che tradotto suona così: "Vedi un po' di correggere tutte le cappelle che ho

fatto."

Meno male che è tutta roba già vista perciò so dove mettere le mani e quali

correzioni devo fare.

Così non ci perdo troppo tempo.

Ma l'ora di pranzo arriva in fretta.

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Due amori Troppo in fretta.

E io non ho combinato niente.

Voglio dire, le miei ricerche su Lara non hanno dato alcun risultato.

Non so dove sbattere la testa.

Vado a pranzo nel solito ristorantino dove niente è cambiato.

I soliti camerieri, il proprietario che è diventato un amico e persino i clienti so-

no praticamente gli stessi.

Comincio ad averne le tasche piene.

Nel pomeriggio non cambia niente.

Continuo inutilmente le ricerche.

Letizia mi telefona un paio di volte per dirmi praticamente nulla.

Trovo solo un numero che probabilmente è quello di suo padre.

A dire il vero ne ho trovati tre.

Tre omonimi.

Sarà un problema.

I suoi genitori non mi conoscono, è ovvio.

Senza contare gli altri due che sono io a non conoscere.

E poi che gli dico?

Sono un amico di sua figlia Lara?

Se fosse sposata, come probabilmente sarà, non sarebbe certo una buona ide-

a.

E allora?

E all'improvviso mi viene in mente una cosa.

Dio, che stupido sono stato.

Ma dove ho il cervello?

Esco dal mio ufficio come una freccia.

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Letizia «Tina, io esco. Ho un impegno urgente. Se telefona mia moglie, le dica che la

chiamo io. Ci vediamo domattina.»

Non prendo l'ascensore.

Troppo lento.

Scendo gli scalini a quattro a quattro.

E sono in strada in dieci secondi.

Maledizione, mi hanno fregato la Jaguar.

L'avevo messa proprio qui, dove ora c'è questa...

Questa Lancia.

Mi sono proprio bevuto il cervello.

E' la mia Lancia.

Sono troppo agitato.

Mi devo calmare.

Non voglio provocare un incidente proprio ora.

In cinque minuti sono lì.

Sono passato con un rosso e devo aver superato tutti i limiti di velocità.

Alla faccia di essere calmo.

E poi, se dovesse arrivare qualche multa, chissenefrega.

Non me ne po' fregà de meno, come ho imparato a dire a Roma.

Il portone è aperto, sta uscendo una signora che mi pare di aver già visto.

L'ascensore non è al piano.

Ho ancora il fiatone perché il mio ufficio sta al quinto piano.

Ma non m'importa.

Salgo gli scalini a tre a tre.

Lei abita appena al secondo piano, ma non ce la faccio più svelto di così.

Suono il campanello.

Una volta, due, tre. 124

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Due amori Anzi non tolgo il dito dal pulsante.

Sento la sua voce: «Arrivo, arrivo. Un attimo.»

Apre e io la vedo, come un'apparizione celestiale.

Quasi la aggredisco.

La stringo tra le mie braccia, sollevandola.

E la bacio.

La bacio e non smetto più di farlo.

La bacerei per ore.

«Luca. Che sorpresa.»

10. Roma, lunedì 5 maggio

Non riesco a chiudere occhio.

Mi sono buttato sul letto senza neanche spogliarmi.

Non ho voglia di nulla.

Mi sono trovato un alberguccio nella zona di Termini.

E' un albergo dove sono già stato altre volte.

Non è più lo stesso.

Il personale non è più lo stesso.

Ma sono passati trent'anni, è naturale che sia così.

Sono le quattro quando squilla il telefono.

E' Lara.

«Vieni a casa» mi dice con un filo di voce.

E aggiunge: «Ti prego, vieni a casa.»

La tristezza nella sua voce mi fa stare peggio.

Peggio di così non credevo fosse possibile.

Quasi mi vergogno quando le dico: «Non ricordo neanche l'indirizzo di casa

tua.»

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Letizia Casa tua.

Avrei dovuto dire "casa nostra".

Ma non me la sono sentita.

Mi aveva scacciato.

In fondo è vero, è casa sua.

Non è mai stata casa mia.

Mi dice l'indirizzo che mi segno subito perché, con la testa che mi ritrovo, lo

dimenticherei senza alcun dubbio.

Arrivo in meno di venti minuti.

Per fortuna ho trovato subito un taxi nonostante l'ora.

L'unica luce accesa è la sua.

La vedo alla finestra, mi sta aspettando.

Sento lo scatto del portone che si apre.

L'ascensore naturalmente non è al piano e avrei voglia di fare le scale a piedi.

Ho troppa fretta.

Ma sono quattro piani e ci ripenso.

Lei è sull'ingresso che mi sta aspettando.

Mi getta le braccia al collo con le lacrime agli occhi.

«Perdonami» mi dice con la sua bellissima voce.

«Perdonami, ma ero fuori di me.»

«Non hai niente da farti perdonare. Sono io che sono un idiota.»

La stringo teneramente e mi rendo conto che un po' l'amo davvero.

Letizia non c'è, non esiste.

O meglio, non esiste la Letizia che ho sposato e che mi ha dato una figlia.

Qui c'è un'altra persona che però non è lei.

E, mio Dio, Licia non è mai nata.

Licia, la mia piccola Licia, quanto mi manca. 126

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Due amori Sono in un altro mondo.

Con Lara.

E la stringo ancora di più.

«Ti amo» le sussurro.

Lei si stringe a me ancora di più.

«E' ancora presto, andiamo a letto.»

Lo ha detto con una voce dolce, rilassata.

Le lacrime sono scomparse dal suo bel viso.

«Posso dormire sul divano, se vuoi» rispondo.

«Non voglio. Lo sai che non ho mai dormito sola in questo letto?» dice con de-

terminazione.

«Anche quando ti sei operato. Ho preso una camera in quell'hotel, vicino all'o-

spedale.»

Da come lo dice, credo che Luca, il "suo" Luca, non lo sapesse.

Non deve averglielo mai detto prima.

«Sai, un po' per poterti essere più vicina. E poi perché non mi andava proprio

dormire da sola nel nostro letto.»

Credo che mi ami di più di quanto mi amava Letizia, che pur mi amava tantis-

simo.

Mi accorgo di aver pensato a lei "al passato".

"Mi amava".

Lara ha ancora un bel fisico ed è già in sottoveste.

Apre un cassetto e mi porge un pigiama.

Non posso fare a meno di pensare che... che potrei...

Non devo assolutamente.

E poi non sono più un giovanotto, purtroppo.

Non so neanche da quale parte del letto dorme lei.

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Letizia Quindi aspetto che vada per prima e poi mi corico accanto a lei.

«Domani faremo un po' tardi al lavoro, ma non m'importa. Torniamo da una

vacanza da Parigi perdiana» aggiunge.

«Veramente dovrei dire oggi. Sono ormai le cinque.»

Si gira nel letto verso di me e mi abbraccia dolcemente.

Mi giro dall'altra parte ma le prendo la mano e gliela stringo.

Si addormenta quasi subito, ma io non chiudo occhio per tutta la notte.

11. Cremona, lunedì pomeriggio

La stringo e la faccio roteare come se fosse una bambina.

«Luca, mettimi giù. Mi fai girare la testa.»

«Mamma, oh mamma.»

Mia madre.

Mi ero completamente scordato di lei.

Siamo nel 1986 e lei è ancora viva.

E' viva.

Mio Dio.

E anche mio padre.

«Papa? Dov'è papà, mamma?»

«Luca, ma che ti prende? Lo sai che prima delle sei non torna a casa. Lui lavo-

ra, sai. Non è come te che ti trastulli tutto il giorno e fai fare tutto a quel pove-

raccio di Guerrini.»

«Guerrini. Se non ci fossi io, chissà cosa farebbe.»

Quel soggetto di Paolo è sempre stato simpatico alla mamma.

«Com'è che ora sei venuto a trovarmi? Ti sei ricordato di avere una madre? Sai

quando è stata l'ultima volta che mi hai telefonato?»

Non me lo ricordo infatti.

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Due amori Ma è passato troppo tempo.

Come potrei ricordarmi?

In realtà non sono mai stato attaccato alla gonnella di mia madre.

Da quando mi sono sposato non l'ho frequentata molto.

Ma anche prima, quando abitavo con lei e papà, non è che fosse meglio.

Praticamente stavo a casa solo per dormire.

«Mamma, lo sai che ti voglio un bene dell'anima. Anche se non mi faccio mai

vivo.»

«Solo a Pasqua e a Natale.»

«Ma non è vero mamma. Sì, non sarò...»

«Scherzavo Luca. Possibile che non te ne sei accorto? Di solito sei tu quello che

prende in giro gli altri. E' per questo che non capisci quando sono gli altri che

prendono in giro te.»

«Oh mamma.»

E la stringo e la bacio ancora.

«Ma che ti prende Luca? Sei così smanceroso.»

«Oh mamma. Ti prometto che ti verrò a trovare più spesso, magari tutti i gior-

ni.»

Lo dico con sincerità.

Sono stato così poco con lei. E con papà. Me ne sono reso conto solo quando li

ho perduti.

Ma mi è stata data la possibilità di rimediare.

E le cose cambieranno.

«Ah no, eh! Non ti voglio tra i piedi tutti i santi giorni» ride lei, come se fosse

sicura che non manterrò la promessa.

Forse non verrò tutti i giorni, forse lo farò solo i primi giorni, ma telefonarle,

quello sì.

Non farò passare un solo giorno senza chiamarla al telefono.

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Letizia E due o tre giorni alla settimana sarò da lei.

Sicuramente un salto lo farò tutte le domeniche.

E anche a Letizia farà piacere.

Ha sempre avuto una gran simpatia per mia madre quando eravamo fidanzati.

E anche per mio padre, per la verità.

E scommetto che alla mamma farà piacere vedere la sua nipotina.

Rimango a parlare con lei per più di un'ora.

Di piccole e insignificanti cose.

Cose che però sono le più importanti e che ti fanno capire quanto lei ti ama e

quanto tu ami lei.

Il tempo passa velocemente, troppo velocemente.

Quando sento la porta che si apre, mi sembra siano passati solo cinque minuti.

E' mio padre, mio Dio, è mio padre.

Mi alzo e gli vado incontro.

Faccio per abbracciarlo ma poi mi trattengo.

Mio padre non ha mai gradito le smancerie.

Ma poi, chissenefrega, gli butto le braccia al collo.

E' alto quanto me e mi viene un po' scomodo abbracciarlo.

L'ho sempre fatto con persone più basse di me e ora la cosa mi riesce un po'

"strana".

A parte il fatto che, da quando ho superato il metro e ottanta, non ho più ab-

bracciato papà.

Avevo, credo, quattordici anni.

«Che c'è Luca? Cosa sono queste smancerie? E com'è che sei qui? Hai forse bi-

sogno di denaro?»

«Papà, ma cosa vai a pensare! Non ho per niente bisogno di denaro. Ho solo

sentito il bisogno di venire a trovarvi. Era da un pezzo che non ci si vedeva.»

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Due amori Lui non sa e non può immaginare quanto sia vero.

Non lo vedevo da più di quindici anni.

Da quando...

Ommamma.

E ora è qui vivo e davanti a me.

Lo abbraccio di nuovo e gli dico: «Ti voglio bene papà» ricacciando indietro una

lacrima che fa di tutto per uscire.

«Non te l'ho detto da quando ero un bimbetto. Ma tu lo sai che ti ho sempre

voluto un bene dell'anima.»

Mi stacco da lui e vedo la sua faccia un po' stupita.

E anche quella di mia madre non lo è di meno.

«Ti voglio bene, papà» gli ripeto.

«Lo so» risponde lui perdendo il suo tono un po' burbero.

«E voglio bene anche a te mamma.»

Sono le sette passate da un pezzo.

E non ho chiamato Letizia.

Saluto la mamma e l'abbraccio.

Papà mi stringe la mano, con la sua stretta così forte che sembra me la voglia

stritolare.

«Ciao mamma, ciao papà. Ci vediamo domani.»

«Domani?» fa mio padre un po' sorpreso.

«Sembra che Luca abbia intenzione di mettere le tende qui» sorride mia ma-

dre.

La bacio di nuovo e poi corro giù per le scale.

Non voglio far stare in pensiero Letizia.

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Letizia 12. Roma, lunedì pomeriggio

Sono nel mio studio romano.

Non è stato difficile trovarlo.

Nel navigatore c'è memorizzato l'indirizzo dell'ufficio.

Così come c'è l'indirizzo del Palazzaccio.

So dov'è naturalmente, ma arrivarci sarebbe stato più complicato.

Quindi ho accompagnato Lara e poi sono arrivato qui senza fatica.

Lo studio, è grandissimo.

Ci lavorano tre architetti e due geometri.

Oltre a me naturalmente.

E due segretarie.

E' una perfetta macchina di efficienza.

Non ho ancora capito se gli architetti lavorano alle mie dipendenze o se sono

soci junior o come diavolo si dice.

L'ufficio è pieno di computer che fanno impallidire il mio vecchio e mastodonti-

co PC con il monitor a tubo catodico.

E avevo solo quello.

Qui invece non si contano.

Ho passato la mattinata a curiosare un po' sui progetti, e non solo i miei, ma

anche quelli dei miei collaboratori.

Geniali.

Ci sono un paio di idee, un po' azzardate, che mi attizzano un sacco.

Ma forse "erano" azzardate solo nel 1986.

E poi, quanto mi sono divertito a usare il mio smartphone.

Ma quello che mi ha tolto il fiato è stato internet.

Mamma mia quante cose si possono venire a sapere in un attimo.

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Due amori E' un'intera biblioteca e ci puoi trovare qualsiasi cosa, dai pettegolezzi alla

scienza.

Ho guardato un po' di tutto, ne avevo bisogno.

Le mie cognizioni si fermano al '86.

Tutto quello che è successo dopo, buio completo.

Ho ripercorso, un po' a spizzichi e bocconi, la storia di questi ultimi trent'anni.

Ogni volta che leggevo qualcosa, incontravo dei riferimenti che meritavano as-

solutamente di essere approfonditi.

Bastava un clic.

E saltavo di palo in frasca, perdendo poi il filo conduttore.

Ho fatto una gran fatica, ma ne è valsa la pena.

E più scorrevo le pagine, più scoprivo di essere ignorante.

So di non sapere.

Quanto aveva ragione Socrate!

Ma la mia non è "docta ignorantia" è proprio ignoranza allo stato puro.

Mi sembra di essere ridiventato un bambino che va a scuola.

Ma così è molto più divertente.

Comincia a piacermi questo secolo XXI.

A parte naturalmente la mia perduta gioventù.

Che non è una frase fatta e nostalgia della gioventù che se n'è andata con il

tempo.

Io l'ho proprio persa, maledizione.

Non l'ho proprio vissuta.

Almeno la seconda gioventù.

La prima, per fortuna l'ho avuta, almeno la prima fatemela fare.

E poi il cibo.

Mamma mia, quanto si mangiava meglio ai miei tempi.

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Letizia Sono già le quattro.

Magari do un colpo di telefono a Lara.

Lei però non è reperibile.

Al Palazzaccio mi dicono che non è nella sua stanza e che è molto occupata con

un caso.

Stamattina me lo aveva accennato.

Un tizio che ha menato la moglie fino a mandarla in ospedale, poveraccia.

Un vero delinquente.

Istintivamente penso a me stesso.

Non ho mai messo le mani su nessuno, è vero.

Ma ci sono tanti modi per far del male a una donna senza coprirla di lividi.

E io, a quanto pare, ci sono riuscito alla perfezione.

E non con una, ma con ben due donne.

Due donne meravigliose che non meritavano affatto di incontrare un tipo come

me.

Ero fidanzato con Letizia e l'ho mollata per Lara.

E, sì, all'amore non si comanda.

Ma Letizia?

Quanto ha sofferto per causa mia?

Sicuramente non poco.

Non si è mai sposata e credo sia ancora innamorata di me.

Ma praticamente non vuole più vedermi, così mi ha detto Lara.

La mia Letizia.

Possibile che possa essere diventato un simile mascalzone?

E poi Lara.

L'ho fatta piangere come una fontana.

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Due amori Certo non deve essere piacevole sentirsi dire dal marito con il quale è sposata

da ormai quaranta anni: "Non ti conosco e sono innamorato di un'altra".

Bella situazione.

Ma che ci posso fare?

Almeno del primo "crimine" sono innocente.

Non sono stato io a far soffrire Letizia, ma il mio "doppio".

E il secondo?

Cosa avrei dovuto fare?

Certo che mi fa un certo effetto avere un "doppio".

Ma sono proprio sicuro che sia così?

Non ho mai creduto a tutte quelle panzane degli universi paralleli.

Ho paura di esser colpevole anche di aver lasciato Letizia.

Sono io.

Sono sempre io.

Altro che "doppio".

Mi sento malissimo.

E non ho nessuna voglia di andare dal dentista.

Per ora vado avanti a forza di pillole e poi si vedrà.

Ho un dannato bisogno di parlare con qualcuno, di sfogarmi un po'.

Ma non conosco nessuno.

Non ho amici, i colleghi sono degli sconosciuti e mia moglie è occupata.

Non mi sono mai sentito così solo.

13. Cremona, lunedì sera

Sto tornando a casa.

Letizia sarà in pensiero?

Ma poi mi viene in mente una cosa.

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Letizia

E' una stupidaggine, lo so, ma è più forte di me.

Giro a sinistra e mi dirigo verso quella che è stata l'abitazione dei genitori di

Lara quando si sono trasferiti da Arezzo.

Non trovo parcheggio naturalmente e quindi lascio un attimo l'auto in seconda

fila.

Il portone è quello, non è cambiato.

Vado a leggere i nominativi nella pulsantiera.

Il nome Lentini naturalmente non c'è.

Cosa speravo?

Ritorno alla macchina e ci trovo il solito vigile dispettoso che sta guardando la

targa con il suo bel libretto in mano.

Ma va' a quel paese tu e la multa.

E non ho intenzione neanche di trovare le solite scuse tipo "sono arrivato un

attimo fa", anche se è la verità.

Mi faccia pure la sua maledetta multa.

Basta che faccia presto.

«Luca, ma sei tu?» mi apostrofa il vigile.

Per la miseria.

E' quel soggetto di Giulio, un compagno delle scuole medie che è sempre stato

innamorato di Letizia.

Ora fa il vigile urbano a quanto pare.

«Giulio!», esclamo, «quant'è che non ci si vede!»

«Che fai da queste parti? Chi ci abita in quel portone? Hai per caso un'aman-

te?»

Ci mancava anche questo con le sue passate stupide.

Ce l'ha con me perché, secondo lui, gli ho fregato la ragazza.

Letizia non lo ha mai potuto sopportare ma lui non ci ha mai creduto.

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Due amori Quando le capitava di dargli la mano per salutarlo, non vedeva l'ora di andare

a lavarsela.

E quando l'ho lasciata, è tornato alla carica più di una volta.

Letizia, che secondo me è troppo educata, non lo ha mai mandato a spigolare

come avrebbe dovuto.

Almeno finché non ha perso la pazienza e gli ha praticamente detto che le fa-

ceva schifo.

Ma lui, duro come l'acciaio, diceva che lei era sconvolta perché io l'avevo la-

sciata e che non pensava realmente quello cose che gli aveva detto.

«Certo che ho un'amante. Indaga pure e poi vai a riferire a Letizia. Sai che le

fa sempre piacere rivederti.»

E' talmente suonato che magari ci crede pure.

Affari suoi.

«Senti, ho piuttosto fretta. Letizia mi sta aspettando. Fammi pure la multa e

mandamela a casa.»

«Multa? Niente multa. Sei arrivato da pochissimo. Almeno potevi lasciare il mo-

tore acceso.»

Te possino...

Ora me lo dice.

Eh già, devo aver pronunciato la parolina magica, quando sente il nome di mia

moglie non capisce più niente.

Ma qualche appunto lo doveva fare.

Il motore acceso.

Che differenza c'era?

Ero in doppia fila, sosta o fermata che siano state.

«Bene, allora ciao. Speriamo di rivederci presto.»

Spero proprio invece di non rivederlo più, magari che lo trasferiscano in un pa-

esino, il più lontano possibile da Cremona.

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Letizia

Magari nel sud della Sicilia.

Ci sono dei posti bellissimi.

«Se vuoi ti accompagno fino a casa. Così magari saluto Letizia. Pensa, avrai la

scorta della polizia municipale.»

Per carità, ci mancherebbe solo questo.

Se le porto Giulio a casa Letizia mi uccide.

«Letizia non è ancora a casa. Non so quando tornerà.»

«Ma se hai appena detto che ti sta aspettando a casa.»

Potevo trovare un'altra scusa, ma lì per lì non mi è venuto in mente niente di

meglio.

«Ho detto che Letizia mi sta aspettando, non che mi sta aspettando a casa.»

Ho buona memoria e comunque lui è troppo imbranato per ricordarsi dei parti-

colari.

«Vado ad aspettarla a casa. Non mi piace che non mi trovi quando arriva.»

E poi ho un lampo di genio.

«A casa c'è sicuramente Licia e mia suocera che sta badando a lei.»

Non gli è mai andata a genio la madre di Letizia e non ha mai avuto in simpatia

neanche mia figlia che, secondo la sua testa bacata, poteva essere sua figlia

ma non lo è.

Ma soprattutto mia suocera l'ha sempre trattato come uno straccio e lui non

l'ha presa certo bene.

Praticamente la odia.

«Ah, fa nulla. Sarà per un'altra volta.»

Ha funzionato.

Chissà ora Letizia quante me ne canterà.

«Ciao tesoro.»

Lo dice senza neanche guardarmi.

Sta per arrivare la suonata.

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Due amori «Come mai sei andato dai tuoi?» aggiunge.

Mia madre deve averle telefonato.

Ah, la mamma.

Sapeva che Letizia sarebbe stata in pensiero e le ha telefonato.

Perché tutte e due evidentemente sapevano che avrei potuto essere dovunque,

tranne che lì.

«Mah!», rispondo io con una bella faccia tosta, «era un po' che non vedevo mia

madre e sono andato un po' a trovarla.»

«Ma se ci sei stato il giorno prima di partire per Parigi. Di solito lasci passare

anche un mese, tanto che tua madre mi telefona ogni tanto per sapere se sei

ancora vivo.»

Che figlio degenere.

Ma ha ragione.

«Inoltre mi ha anche detto che ti sei comportato in maniera un po' sospetta.

Hai addirittura abbracciato tuo padre e io naturalmente in un primo momento

ho creduto che la sua fosse solo ironia. Che ti succede?»

«Hai mai pensato che stiamo molto poco con i nostri genitori e che, quando

non ci saranno più, rimpiangeremo tutto il tempo che non abbiamo dedicato a

loro?»

«A parte il fatto che mia madre è di là con Licia e che sei tu che sei latitante

con i tuoi, ti accorgi solo ora di essere un figlio egoista?»

«Non dire così Letizia. Io sono sempre stato una persona, diciamo, indipenden-

te. Ma questo non vuol dire che non voglio bene a mia madre e a mio padre.»

«Non ho detto questo. Ma certe volte fa piacere sentirselo dire. Sono contenta,

devo dire, che tu sia cambiato riguardo a questo. Ma cos'è che ti ha aperto gli

occhi?»

«Mah, non lo so.»

Devo trovare una ragione plausibile, Letizia non è stupida.

Ma devo anche rimanere nel vago.

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Letizia

Proprio perché non è stupida.

«Forse è la primavera. Forse l'aver visto tutte quelle mamme a Parigi a spasso

con le carrozzine. Mi hanno fatto tenerezza e mi hanno fatto sembrare un ver-

me. Ho pensato alla mia di mamma e ho cercato di immaginarla quando porta-

va a spasso me con la carrozzina.»

«Uhm... sarà. Mi piacerebbe però sapere dove l'hai vista la primavera a Parigi.

Non ha fatto altro che piovere. Ma cambiamo discorso che è meglio. Cosa vuoi

per cena?»

«Cos'hai preparato di buono?»

«Preparato? Ma per chi mi hai preso? Ho ordinato le solite cose in rosticceria.

Se hai la memoria corta, apri il frigo, guarda cosa c'è e dimmi cosa vuoi che ti

scaldi.»

Ommamma.

«A meno che tu non voglia uscire e andare da Luigi».

Luigi?

C'è ancora il ristorante di quel farabutto?

«No no, va bene qualsiasi cosa. Scegli tu.»

Mi secca andare a vedere che diavolo c'è in frigo.

Poi, un po' di televisione, due coccole a Licia che non vuol andare a letto e ci

ritiriamo in camera anche noi.

Che giornata.

Se saranno tutte così...

Domani riprenderò le ricerche e spero che vadano meglio di oggi.

A letto mi avvicino teneramente a Letizia che però si gira dall'altra parte dicen-

do di essere troppo stanca.

Peccato.

Ci avevo fatto l'abitudine.

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Due amori 14. Roma, lunedì sera

Sta cominciando a imbrunire.

Non so cosa fare.

Lara non mi ha detto niente e io non so se andare a prenderla al Palazzo di

Giustizia o se andare direttamente a casa e aspettarla là.

Potrei telefonarle, ma sono sicuro di non trovarla.

Nel pomeriggio ci ho provato tre volte senza successo.

Sento bussare alla porta e non faccio neanche tempo a dire "avanti" che la

porta del mio ufficio si apre e appare Lara.

«Lara, tesoro.»

Mi alzo e vado velocemente incontro a lei.

La stringo fra le braccia.

«Quanto mi sei mancata Lara.»

«Ehi ehi ehi. Cosa ti succede? Siamo stati separati solo per poche ore.»

«Poche? Sono state dieci lunghissime ore.»

«Ah, bene. Vedo che hai avuto tantissime cose da fare. Il tempo deve esserti

volato.»

Sono talmente contento che lei è qui con me, che non colgo il senso ironico

della sua frase.

Non mi lascia il tempo di replicare.

«Preparati alla svelta. Andiamo in un posticino delizioso. Hai fame?»

«Sono pronto, prontissimo. Sono nato pronto.»

Lei ride.

«Inoltre ho una fame da lupi. Ieri non ho praticamente mangiato. E oggi a

pranzo... lasciamo stare, va'.»

La prendo sottobraccio e usciamo.

Saluto il geometra che è rimasto.

I tre architetti se ne sono già andati da un pezzo. 141

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Letizia Le segretarie sono rimaste ancora un po' e poi se ne sono andate anche loro

con uno dei due geometri.

Scommetto che hanno tirato a sorte la "penitenza" di rimanere in ufficio.

E scommetto anche che lo sfortunato geometra che è rimasto se ne andrà dieci

secondi dopo che avrà visto scomparire la mia Jaguar.

«Dammi le chiavi. Guido io» mi dice.

Meno male perché se mi dà un indirizzo e mi chiede di andarci non so proprio

come cavarmela.

Non ho ancora imparato a usare bene il navigatore e non voglio fare la figura

di non sapere neanche dov'è una via di Roma.

A parte che Roma è una città enorme e vorrei conoscere il tassista che sa dove

stanno tutte le sue vie.

E poi il navigatore.

Non ho avuto certo il tempo di vedere bene come funziona.

Ma non confesserò mai che l'ho cercato col computer in ufficio e, a grandi line-

e, so come funziona.

Ma guida lei e quindi niente problemi.

Scommetto però che ha voluto guidare lei per non mettermi in imbarazzo.

Lara è una donna molto intelligente.

E mi vuole molto bene.

«Hai mandato qualcuno sulla sedia elettrica oggi?» le chiedo sorridendo.

«Non fare lo sciocco. E' una cosa seria. Dovevi vedere come quel delinquente

ha ridotto quella disgraziata della moglie.»

«Spero non come io ho ridotto te» replico scherzando ancora.

«Oh Luca, sei impossibile. Hai sempre voglia di scherzare.»

«Ne vale la pena se riesco a strapparti un sorriso. Tu sei bellissima, ma quando

sorridi lo sei ancora di più, se è mai possibile. Te l'avevo mai detto?»

«Sì» risponde lei.

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Due amori E sorride.

Il ristorantino è davvero delizioso e si mangia davvero bene.

Chissà se lo ha scoperto lei oppure io.

Ma non glielo chiedo davvero.

Ho mangiato davvero bene.

E anche tanto.

E anche Lara ha fatto onore alla tavola.

Prima di tornare a casa passeggiamo un po' mano nella mano come due fidan-

zatini per i vicoli di Trastevere.

La serata è bellissima e io mi sento come un ragazzino al primo appuntamento

con la sua compagna di scuola.

Cerco la luna in cielo che, se ci fosse, completerebbe l'atmosfera magica che ci

avvolge e sono piuttosto fortunato.

La luna non è piena ma lo sarà fra pochi giorni.

E' bella grossa in cielo, però, e non c'è neanche una nuvola a coprirla.

«Guarda che bella luna» le sussurro all'orecchio, avvicinandola a me.

Le ho passato il braccio intorno alla vita e la stringo come se fosse la prima

volta.

E' strano, sembriamo due ragazzini ma abbiamo entrambi 62 anni e rotti.

Ma io mi sento come se ne avessi venti.

In realtà ne ho quasi 35, anche se non nel fisico, purtroppo.

Mi accorgo che siamo arrivati alla macchina.

Lara forse vuol andare a casa.

E infatti prende dalla borsetta le chiavi della Jaguar, me le porge ed esclama:

«Guida tu e andiamo a casa. Ormai lo sai dove abitiamo. E se non sai come ar-

rivarci, hai il navigatore.»

Se mi avesse dato una coltellata, avrei sofferto di meno.

Ma faccio finta di niente.

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Letizia

Lei però ha notato il mio disagio e mi stringe la mano.

Arriviamo a casa e Lara, come ieri, apre il box con il telecomando che sta nel

portaoggetti.

Il custode non si è fatto vivo, ma è molto tardi ed è logico che si sia già ritira-

to.

Parcheggio l'auto nel box mentre Lara va ad aprire il portone della palazzina.

In camera da letto troviamo la sua sottoveste e il mio pigiama ben piegati sul

letto.

Evidentemente viene una donna di servizio a riordinare la casa.

Lara si toglie il tailleur con disinvoltura, indossa la sottoveste e va in bagno.

Meno male perché ho una certa soggezione a spogliarmi di fronte a lei.

Indosso il pigiama in dieci secondi netti e ripongo i miei abiti dove ho visto che

Lara li ha messi ieri notte.

Anzi stamattina.

Ha ancora un bel fisico che quando era giovane era da mozzafiato.

Ho visto delle sue fotografie, anzi delle nostre fotografie, nel mio computer in

ufficio.

Ce n'era una in particolare dove lei indossava un bikini rosa ridottissimo.

E ho capito subito perché mi sono innamorato di lei.

Ma ho capito anche che non è stato solo per quello.

Lara è una donna meravigliosa.

Lara è già a letto quando io esco dal bagno.

Entro nel letto anch'io e... succede.

Come si fa a resistere quando una donna ti dimostra chiaramente che ti vuole?

Se non fosse mia moglie, ovvio che non ci sarebbe niente da fare.

Ma lei è mia moglie, perbacco!

Ma lo è per davvero?

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Due amori Penso a Letizia.

Ma è solo un attimo.

Poi stringo Lara tra le mie braccia e la bacio con passione.

15. Cremona, martedì

Oggi avevo intenzione di continuare con le telefonate e stavo già pensando che

alla fine sarei stato costretto a chiamare i tre Lentini di cui la Sip mi ha dato i

numeri.

Ma, dannazione, non è giornata.

Sembra che tutto il lavoro si sia concentrato per farmi perdere tempo.

Ma poi penso che questo è il mio lavoro e che non si tratta per nulla di perdita

di tempo.

Anzi, direi che ne ho risparmiato perché la mia maggior esperienza mi ha av-

vantaggiato e ho risolto facilmente tutti i problemi e molto in fretta.

Un cliente poi se ne è andato particolarmente soddisfatto.

E' venuto perché il progetto che gli era stato presentato non gli piaceva e chie-

deva delle variazioni, che in realtà erano del tutto improponibili.

In realtà il progetto originale non era poi il massimo.

Non ricordo assolutamente di aver fatto qualcosa del genere e quindi deve es-

sere farina del sacco di Guerrini.

Le modifiche "futuristiche" che ho suggerito sono molto piaciute al cliente che

ha sgranato gli occhi come se avesse visto il progetto della piramide di Cheope

con i particolari dei cunicoli e delle camere segrete.

Futuristiche per modo di dire perché ho realizzato qualcosa di simile già una

decina d'anni fa, nel 2004 (o era il 2003?).

Ma poi penso che siamo nel 1986 e quindi l'aggettivo ci sta, è appropriato.

Si fa ora di pranzo che non me ne accorgo neanche.

Rimpiango quello che ho mangiato ieri sera e butto giù due spaghi al pomodoro

con una bistecca che deve essere cuoio in graticola.

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Letizia

Il pomeriggio le cose sono un po' più tranquille e le cose che ci sono da fare

posso comodamente passarle a quell'impiastro del mio collega e al geometra.

Dopo qualche tentativo a vuoto, mi rassegno a telefonare al primo dei tre Len-

tini.

Non so cosa diavolo dirgli e sto facendo mente locale per trovare un motivo

abbastanza plausibile per evitare che mi butti il telefono in faccia senza che io

riesca a capire se è il padre di Lara o no.

Ma poi mi viene in mente una cosa.

Come si chiamava quel sacerdote di cui mi ha parlato Lara?

Don Guarino?

O don Martino?

Ah no, don Marino, si chiamava don Marino.

Speriamo che sia ancora vivo.

Chiamo la Sip per avere il numero e, dopo un po' di tentativi, l'impiegata, gen-

tilissima e fin troppo paziente, riesce a trovare il numero.

E' stata veramente in gamba perché le informazioni che le ho fornito erano

molto scarse, non sapevo neanche la parrocchia.

Comunque ora ho questo benedetto numero.

Agguanto il telefono, faccio il prefisso di Arezzo, che ormai conosco a memoria,

e il numero della parrocchia dove posso trovare questo don Marino.

Mi risponde un altro sacerdote che gentilmente lo va a chiamare.

Mentre aspetto al telefono, il silenzio assoluto viene interrotto dall'eco di un

suono di campane.

Guardo istintivamente l'orologio: sono le cinque.

«Pronto?»

La voce al telefono è calma e profonda e ha un bel timbro.

Se si fosse dato alla lirica, sarebbe un ottimo basso.

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Due amori «Buon giorno, don Marino. Mi chiamo Luca Lorenzi e telefono da Cremona. Lei

non mi conosce ma io conosco lei. Avrei bisogno di parlarle con urgenza.»

«Va bene, figliolo. Dimmi.»

«Non al telefono, padre. Vorrei venire lì da lei e parlarle di persona. Possibil-

mente il più presto possibile.»

«Di cosa si tratta, figliolo?»

«Preferirei parlarne con lei di persona, padre. E' una cosa molto delicata.»

«Va bene. Vieni pure quando vuoi. Io sono sempre qui in parrocchia.»

«Se per lei va bene, verrei domani.»

«Benissimo. Ma sei sicuro che non ti conosco? Il tuo nome non mi giunge nuo-

vo.»

«Non credo, padre. Non sono mai stato ad Arezzo.»

«Forse ti confondo con qualcun altro. A domani allora.»

«Arrivederci, padre.»

Il più è fatto.

Ora devo trovare una scusa per Letizia.

Povera ragazza. Le sto mentendo in continuazione.

Per la verità non le ho mai detto una bugia.

Ma nasconderle la verità non è come mentire?

Ma se le dicessi la verità... come la prenderebbe?

Ma prima o poi dovrò pur farlo.

Deciderò quando tornerò da Arezzo.

Ma ora, che scusa posso trovare per andarmene?

E poi, quanto starò via?

Se tutto va storto starò via solo un giorno.

Ma tutto dipende da Lara e da come si comporterà.

E poi cosa le dirò.

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Letizia

Che pasticcio.

La scusa con Letizia penso di averla trovata.

Non posso certo dirle che vado ad Arezzo.

Che ci andrei a fare?

Le dirò invece che andrò a Roma per parlare con un architetto famoso che è in-

teressato ai miei lavori e che vorrebbe prendermi come socio.

Che tra l'altro è proprio quello che avverrà.

Le dirò che starò via due o tre giorni.

Naturalmente la chiamerò io perché non sarò certo nell'albergo di Roma che le

dirò di aver prenotato.

Ed è la prima volta che sento la mancanza del mio cellulare.

Lei non fa obiezioni, anzi è contenta perché ha sempre desiderato vivere a

Roma e ha già contattato un atelier che sarebbe disposto ad averla come col-

laboratrice.

Credo che sia in via Frattina o giù di lì.

Povera Letizia.

Mi sento veramente una carogna e ho una paura tremenda che, quando verrà

a sapere la verità, la prenderà molto male.

Ma la mia paura più grande è che lei non voglia più saperne di me.

Ne morirei.

Ommamma.

Non ho chiuso occhio tutta la notte e il viaggio in treno è stato interminabile.

In sacrestia don Marino mi accoglie cortesemente.

Non è poi così vecchio, deve avere più o meno la mia età.

O meglio deve avere l'età che avevo... oh insomma, deve avere poco più di 60

anni.

Gli dico il motivo della mia visita, omettendo naturalmente le circostanze as-

surde in cui mi trovo.

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Due amori Non mi crederebbe e mi manderebbe via.

Gli dico solo che sto cercando una persona che lui conosce molto bene.

«Si chiama Lara Lentini, padre. Lei l'ha battezzata e cresimata e forse l'ha an-

che sposata.»

«Lara?», risponde lui, «sì, è vero. La conosco da quando è nata. Perche la cer-

chi figliolo?»

Bella domanda.

«Padre, Lara non mi conosce, ma io conosco molto bene lei. Mi sono innamora-

to di lei appena l'ho vista. Ma, le assicuro, non sono venuto qui per sconvolger-

le la vita. Le voglio troppo bene per farlo. Non le farò del male. Voglio solo ve-

derla e parlarle. Potrà anche parlarne al marito senza timori.»

«Al marito?»

«Non è sposata, padre? Lei mi ha detto...»

«Ho celebrato io le sue nozze, certo.»

Per un attimo ho pensato, e ho sperato, che fosse ancora nubile.

«Non credo di poterti aiutare, figliolo. Lei potrebbe non voler parlare con te.»

«Le dia un colpo di telefono, padre. Le dica che c'è una persona che le vuole

parlare. Le spieghi tutto quello che vuole, ma mi ci faccia almeno parlare al te-

lefono. Se Lara lo vorrà, naturalmente.»

Mi guarda un po' perplesso.

«Mi scusi» mi dice sollevando la cornetta.

Mi allontano un po' mentre lui fa il numero.

Lo sento parlare, ma parla sottovoce e non capisco cosa le sta dicendo.

«Venga» mi dice porgendomi il telefono.

Prendo il telefono e lentamente lo avvicino all'orecchio.

Sto tremando.

Tra poco sentirò la sua voce, una voce che conosco da ben 46 anni.

«Lara, sono io, Luca. Ciao.»

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Letizia

«Non credo di conoscerla, signore. Non crede che possa avermi confuso con

qualcun'altra?»

Capisco che, se voglio vederla, devo "scuoterla" un po'.

«No Lara. Cerco proprio te. Ti ricordi quello che è successo il 12 dicembre del

1963? Era il giorno prima di santa Lucia. Tu avevi 12 anni e tornavi da scuola.

Era da poco passata l'una. E' una cosa che non hai detto a nessuno. Nemmeno

ai tuoi genitori.»

Segue un lungo silenzio che mi fa dubitare che voglia buttare giù il telefono.

«A... a cosa si sta riferendo? Io... io...»

«Tu non l'hai mai detto a nessuno. L'hai detto solo a me. E neanche io l'ho mai

detto a nessuno. E non voglio parlarne proprio ora. C'è don Marino qui con me.

Te lo dirò di persona, se vorrai vedermi. E ti dirò anche come e quando me lo

hai detto.»

«Ma io non la conosco e non le ho mai detto niente.»

«Sì invece. E so anche molte altre cose di te. Praticamente tutto. E magari so

anche delle cose di te che nemmeno tu sai. Ti conosco forse meglio di quanto

tu conosca te stessa.»

L'ho impaurita e l'ho incuriosita.

«Vuole proprio incontrarmi?»

«Sì» rispondo senza esitare.

«Dove ci possiamo vedere?»

«Dove vuoi tu. Non conosco Arezzo. Vengo da Cremona. E sono venuto solo

per te.»

«Io ora sto lavorando. Ho molto da fare e tra poco andrò a pranzo con un cli-

ente. Ci possiamo vedere verso le cinque, qui nel mio ufficio.»

«Dammi l'indirizzo e alle cinque sarò lì. E anche prima.»

Mi dà l'indirizzo e lo scrivo su un foglietto che don Marino mi porge con una

penna.

«Ciao allora.»

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Due amori «Ciao» mi risponde lei.

Non ha detto "buongiorno".

E questa sera la vedrò.

Non sto più nella pelle.

16. Roma, martedì

Mi sveglio e non trovo Lara accanto a me.

Mi prende subito un ingiustificato senso di panico.

Poi la vedo entrare nella stanza completamente vestita.

E' pronta per uscire.

«Pigrone, alzati. Lo sai che ore sono?»

Prendo l'orologio dal comodino.

Sono le dieci.

Ommamma.

«Lara, ma sono le dieci. Perché non mi hai svegliato? E tu, come mai sei anco-

ra qui? Il tuo lavoro? E il mio?»

Non credo di aver mai fatto tante domande tutte in una volta.

«Buono, buono. Oggi io non ho impegni e mi sono presa la giornata libera. Ve-

ramente ne ho prese due. E ho telefonato al tuo studio avvisandoli che per un

paio di giorni non ci andrai. Credo abbiano fatto salti di gioia. Scommetto che

sei un gran rompitasche e anche un po' negriero.»

Ommamma.

Che intenzione avrà Lara?

Non avrà mica l'intenzione di rimanere a casa due giorni?

Io non credo di farcela.

Ommamma, ho più di 60 anni e, a dire il vero, abbiamo 125 anni in due, man-

naggia.

Ma è proprio vero che... 151

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Letizia Mi viene in mente solo ora che non ho mai tradito Letizia e che è la prima volta

che vado con un'altra donna.

Che situazione pazzesca.

Ho avuto solo due donne in tutta la mia vita, sono tutte e due mia moglie (o

dovrei dire mie mogli?) e il bello è che non sono bigamo.

E neanche vedovo.

«Allora, sei pronto?»

E' Lara che mi chiama.

«Che intenzioni hai?» accenno timidamente.

«Ce ne andiamo un paio di giorni in luna di miele. Lo so, due giorni sono un po'

pochi, ma è tutto quello che posso permettermi. Tu potresti stare anche di più,

ma io giovedì, caschi il mondo, devo essere in tribunale.»

«Luna di miele?» le domando un po' stupito.

«Certo. Non siamo sposati che da tre giorni, non ricordi? Esattamente da saba-

to pomeriggio. E non abbiamo ancora avuto la nostra luna di miele. E abbiamo

"consumato" solo ieri sera.»

Che mi venga un colpo.

Sta dicendo sul serio.

E il bello è che è la verità.

Il colpo non mi è venuto, ma ci è mancato poco.

Crede a tutto quello che le ho detto.

E' per questo che non ha chiamato uno strizzacervelli per darmi una trapanata

nel cranio per accertarsi se il cervello c'è ancora.

Si è accorta del mio stupore.

«Cosa credevi? Che io pensassi che eri impazzito? La tua storia era talmente

assurda che non poteva che essere vera. Un pazzo non avrebbe mai saputo in-

ventarsi qualcosa del genere. E poi, Letizia...»

«Letizia?» la interrompo io.

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Due amori «Letizia non sarebbe mai stata capace di venire a letto con te, neanche quando

eravamo solo fidanzati.»

Tace per un attimo.

«Letizia non avrebbe nemmeno mai pensato di cercare di riconquistarti. La co-

nosco troppo bene. Era la mia migliore amica.»

Tace ancora, ma solo per un attimo.

«E poi tu, Luca. Ti conosco da 46 anni. Non saresti mai stato capace di una co-

sa del genere. Ti saresti ucciso piuttosto che farmi del male. Solo una persona

che viene... che viene da dove dici di venir tu... potrebbe averlo fatto. Ma non

sarebbe mai stato un tradimento. Tu eri sposato con Letizia.»

Mio Dio.

Si è rassegnata e mi deve amare davvero tanto se si accontenta di una "copia"

di me.

Ama anche me, la "brutta copia" di me stesso.

E ora vuol festeggiare l'inizio del suo "secondo" amore.

Due amori.

«Dove andiamo?»

«Non ti preoccupare. Decido io. Tu non ti ricordi. Non puoi ricordare.»

Usciamo.

Ha deciso di guidare lei.

Io non saprei dove andare.

E non mi interessa dove stiamo andando.

Mi interessa solo il fatto che Lara è con me.

Mi interessa solo sapere che mi ama.

Come io so di amare lei.

E sto bene.

Sto molto bene.

Sento dentro di me una gran pace, una serenità assoluta.

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Letizia

Abbiamo appena lasciato Roma e credo che stiamo percorrendo l'Appia antica.

Verso l'una arriviamo a una stupenda trattoria immersa nel verde.

Credo proprio che ci siamo già stati anche se io, è ovvio, non lo posso sapere.

Ommamma.

Ho quasi 63 anni e sono in luna di miele.

17. Arezzo, mercoledì pomeriggio

L'ufficio dove lavora Lara è imponente.

L'atrio spazioso rivela tre porte in legno pregiato.

Dietro una di queste c'è lei.

La segretaria mi accoglie gentilmente.

Evidentemente Lara le ha già annunciato la mia visita.

Chissà cosa le avrà detto.

Un amico, un conoscente?

Ma è più probabile che le abbia detto che sono un cliente.

Si apre una porta e vedo uscire una bambina.

Ommamma.

E' la copia esatta di Lara quando era bambina.

Sua figlia, è sua figlia.

«Lucia.»

Lo dico quasi istintivamente.

Non so nemmeno io perché l'ho chiamata così.

«Mamma!», esclama lei, «c'è il signore che aspettavi.»

Forse si domanda come faccio a sapere il suo nome.

Ma poi si chiama veramente Lucia?

Se però avesse un altro nome mi avrebbe corretto.

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Due amori E quindi penserà che sua madre mi ha parlato di lei.

Lara deve aver sentito la mia esclamazione perché la prima cosa che mi dice

quando entro è: «Come fa a sapere che mia figlia si chiama Lucia?»

«Non lo sapevo. Non sapevo neanche che avevi una figlia. E' una bellissima

bambina, sai? E immaginavo che si chiamasse Lucia perché è il nome che tu

desideravi per una figlia tua. E lei è sicuramente tua figlia perché è esattamen-

te come eri tu alla sua età.»

L'espressione di meraviglia, che doveva avere quando le ho parlato al telefono,

scommetto che ora si è moltiplicata.

Credo si stia domandando: "ma chi è questo sconosciuto e come sa queste co-

se?".

«Lara, so a cosa stai pensando. Non mi conosci e sembra invece che io ti cono-

sca bene.»

Lei mi osserva e forse vorrebbe farmi mille domande. Ma io la prevengo.

«Io non ti conosco bene. Ti conosco molto di più. Io so tutto di te. Te l'ho già

detto stamattina al telefono. Ricordi? Il giorno prima di santa Lucia so esatta-

mente quello che è successo. Me lo hai detto tu.»

«Io non le ho detto un bel niente. E' la prima volta che la vedo.»

«Oh sì, invece. Avevi dodici anni. Tornavi da scuola ed era da poco passata l'u-

na. Tu non l'hai mai saputa trattenere. Era molto freddo e questo ha contribui-

to. Hai bagnato le mutandine. Eri rossa dalla vergogna. Avevi paura dei tuoi,

specialmente di tuo padre. Non tanto perché temevi un rimprovero, ma solo

per la vergogna.»

Lei mi sta guardando come se venissi da Marte.

E io incalzo.

«A casa sei corsa in bagno accennando appena un "ciao mamma, ciao papà". E

le hai nascoste tra la biancheria sporca da lavare. Non ne hai prese un paio pu-

lite perché tua madre se ne sarebbe accorta. Lo hai fatto dopo, quando tuo pa-

dre è ritornato al lavoro e tua madre era occupata in cucina. Non lo hai mai

detto a nessuno. Solo a me e dopo che...»

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Letizia

Stavo per dirle "dopo che ci siamo sposati", ma capisco che non è il caso.

Non ancora, almeno.

«Tu... tu non puoi sapere queste cose. Non le ho mai dette a nessuno. A nes-

suno. Neanche a mio marito.»

Suo marito.

Sentirlo è stato come ricevere una coltellata nel petto.

La mia Lara sposata con qualcun altro.

Lo sapevo già, è vero, ma sentirlo dalla sua voce... mi ha fatto molto male.

Mi riprendo.

«Tuo marito è una persona molto fortunata.»

«Mio marito? Ma... non lo sai?»

«Cosa non so?»

«Mio marito... non c'è più... un incidente d'auto. Sei anni fa. Sono vedova...»

Sento nella sua voce un groppo che le sta salendo.

E' vedova.

«Scusami. Non lo sapevo... mi dispiace...» balbetto.

Sono rimasto senza parole.

E quello che è più terribile e che mi fa vergognare di me stesso... è che sto

pensando che, stando così le cose, cambia tutto.

Lei è vedova.

Non avrei nemmeno pensato di strapparla a suo marito.

Ma così...

E' terribile, sto giocando con la vita di una persona.

E non solo con la sua, ma anche con quella di Letizia e di Licia.

Maledizione.

Non sarei mai dovuto venire.

«Non lo sapevi. E poi ormai l'ho superato. Almeno credo.»

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Due amori Un velo di tristezza compare nel suo viso bellissimo.

«Ma ora credo che tu debba spiegarmi un po' di cose. Chi sei e come fai a sa-

pere...»

«Mi chiamo Luca Lorenzi e sono un architetto. Vivo a Cremona. Ricordi che tuo

padre, quando avevi 17 anni doveva trasferirsi proprio là per lavoro e poi inve-

ce, per una serie di circostanze fortuite, è rimasto ad Arezzo? Non credi che se

lui si fosse trasferito avremmo potuto incontrarci?»

«Non lo so, forse.»

Non mi chiede neanche come so di suo padre, ma credo che ormai si sia rasse-

gnata al fatto che uno sconosciuto sappia di lei praticamente tutto.

E' solo impaziente di sapere come e perché.

«No, non forse. Certamente, Abbiamo la stessa età, io andavo al classico a

quei tempi e tu lo stesso. Ci saremmo incontrati per forza. Era il '68, ricordi? Il

famigerato '68. Tu eri bellissima allora. E lo sei ancora adesso. E io mi sarei si-

curamente innamorato di te.»

L'espressione del suo viso è indecifrabile anche per me che la conosco molto

bene.

Ma so che è turbata perché sa che la cosa è probabile.

E c'è di più.

Io le piaccio molto, lo so, mi ha sposato.

Gli occhi però le brillano dalla curiosità.

E io infierisco.

Senza dirle niente di me, del nostro matrimonio e del fatto che io mi trovi in un

mondo non mio, le snocciolo tutto quello che so di lei.

I suoi gusti, i suoi desideri, le cose che non sopporta, tralasciando per ora solo

i particolari, diciamo, un po' "piccanti".

Lei sgrana sempre più gli occhi.

Scommetto che molte delle cose che dico non le conosceva neanche il marito.

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Letizia Non so che rapporti avesse con lui e fino a quale punto lo amasse, ma so che

noi due eravamo una cosa sola.

Non c'era una cosa che facessi senza farla partecipe e così lei mi raccontava

tutto.

«Va bene. Sai tutto di me. Mi conosci meglio di quanto io non conosca me

stessa. Ma adesso mi devi spiegare come sai tutto questo e perché. Inoltre io

non so niente di te e finora hai sempre parlato di me e mai di te.»

«Se tu fossi venuta a Cremona a 17 anni, cosa sarebbe successo?»

Adesso viene il bello.

«Proviamo un po' a immaginarlo. Così, come per gioco.»

Ma non è un gioco, penso.

«Ora. Tu vieni a Cremona e ti iscrivi al mio stesso liceo. Ci incontriamo. Io ho

già una ragazza che, ammettiamo, si chiama Letizia. Lei è molto bella, ma tu lo

sei di più e c'è qualcosa in te che non mi fa dormire la notte. Sei simpatica,

dolce e il tuo sorriso... Dio come mi piace quando sorridi!.»

Lei non capisce.

Non può capire, almeno non ancora.

«Mi innamoro di te come una pera cotta. E anche tu ti innamori di me. Io ti

piaccio e non solo fisicamente. Vedi in me le stesse cose che io vedo in te. E

cadi anche tu come una pera cotta.»

Il suo volto diventa sempre più serio.

Starà sicuramente pensando: "Dove vuole andare a parare, questo?"

«Ci fidanziamo. Finito il liceo io mi iscrivo alla facoltà di architettura e tu a

quella di legge. Inizio a lavorare subito nello studio di un architetto e tu in uno

studio legale. Nel 1974, il 14 settembre, ci sposiamo. E abbiamo due figli ma-

schi, Matteo e Andrea. Letizia non ha preso molto bene il nostro matrimonio e

si è buttata tutta sul lavoro. Ha iniziato a lavorare in un atelier di moda e non

si è mai sposata.»

«Il 14 settembre del 1974 è la data in cui ho sposato Alberto. Ma tu sicura-

mente lo sai già. Sai tutto di me.»

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Due amori No, non lo sapevo.

Che strana coincidenza.

Ma ho imparato a non stupirmi più di niente.

E così suo marito si chiama Alberto.

Proseguo il mio "racconto" e questa volta lo arricchisco con mille particolari.

Ho sempre raccontato tutto a Lara e questa volta voglio superare me stesso.

Le racconto anche quante volte vado dal barbiere a farmi i capelli.

«Tu... tu stai raccontando queste cose come se le avessi vissute veramente.

Vissute con me... ma è assurdo. Tu non puoi... Io non ho... non sono...»

«E' vero, Lara. Questa non è una storiella. E' la verità. Tu sei mia moglie.»

Aspetto una sua reazione, aspetto che mi dica qualcosa.

Ma lei tace, incapace di aprire bocca.

E allora proseguo e le racconto tutto, a partire da quel maledetto sabato a Pa-

rigi.

E questa volta le assicuro che si tratta della realtà, che è tutto vero.

«Non so cosa sia successo in realtà. So solo che mi trovo in un mondo che non

è il mio. Dove tutto coincide perfettamente fino al giorno in cui ti ho conosciu-

ta. Da quel giorno in poi, qui non ci siamo mai incontrati e tutto è cambiato

nella nostra vita, tranne l'università, il lavoro e qualche piccola coincidenza

come quella della data dei nostri matrimoni che è la stessa.»

Lei è impallidita.

Non ha creduto una parola di quello che le ho detto e forse ora ha paura di me.

Pensa forse che sono un folle scappato da chissà quale manicomio.

Ma sa certamente che, se fosse vero, tutto avrebbe un senso, un senso che al-

trimenti sarebbe inspiegabile.

Ha dei dubbi.

Chi non li avrebbe?

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Letizia «Non aver paura di me, Lara. Non ti farei mai del male. Non te ne farò. Morirei

piuttosto.»

Ma mi sto accorgendo che invece le sto già facendo del male.

«Ci sono altre cose che so di te e di cui non ho ancora parlato. Conosco tutti i

tuoi punti erogeni. E in particolare hai un punto nella schiena che, quando lo

accarezzo, ti provoca addirittura delle fitte che non riesci a sopportare. Sono

contrazioni simili ai crampi, ma assolutamente indolori. Ma a te danno fasti-

dio.»

«Ma non è assolutamente vero. Io non ho mai avuto crampi. E poi alla schiena.

Ma dai!»

«Sicura?»

«Sicurissima.»

«Vogliamo provare?»

«Stai lontano da me. Non mettermi le mani addosso.»

«Non temere, non voglio certo approfittare di te. Hai la mia parola che mi limi-

terò al minimo indispensabile. Sarà come se fosse una visita medica.»

«Ma neanche per sogno. Te lo scordi.»

Mi avvicino a lei lentamente.

Lei non indietreggia e non dice nulla.

Le prendo le spalle con le mani e la tiro verso di me.

Poi la stringo e la bacio.

A lungo.

E, mentre lei si abbandona completamente, le infilo la mano su per la schiena,

sotto la camicetta che sono riuscito a sfilare dalla gonna.

Le accarezzo, con le dita leggerissime, un punto in mezzo alla schiena, un po' a

sinistra e lei si stacca immediatamente da me.

«Scusa, non volevo baciarti. Non dovevo.»

Lei si accomoda la camicetta e si sistema i suoi meravigliosi capelli biondi.

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Due amori E' turbata e ha sentito le contrazioni.

«Io... tu...» balbetta.

Io la prendo di nuovo tra le braccia e la bacio di nuovo, a lungo.

Il telefono squilla e ci interrompe.

E' un classico, ma forse è meglio così.

E' l'interfono.

Deve essere la segretaria che, indovino, le chiede se può andarsene.

Lara infatti risponde: «Sì, non si preoccupi, chiudo io l'ufficio.»

Poi preme un pulsante per avere una linea esterna e chiama casa.

«Ho molto lavoro da fare, mamma. Bada tu a Lucia. Io non so a che ora verrò

a casa. Può darsi che debba rimanere in ufficio anche tutta la notte.»

Ommamma.

Poi viene verso di me e mi chiede: «Davvero tu, in un'altra vita, sei mio mari-

to?»

«Sì, Lara» rispondo.

Lei si alza in punta di piedi, mi butta le braccia al collo e mi bacia.

18. Roma, mercoledì sera

Stiamo tornando a casa.

Con Lara ho passato due giorni d'incanto nei dintorni di Roma, in posti stupen-

di immersi in più di venti secoli di storia.

Se dovessi fare un elenco delle cose che abbiamo visto e che per me erano

un'assoluta novità, ne dimenticherei almeno la metà.

E tutto mi sembrava ancora più bello perché ero con lei.

Non sento neanche il bisogno di vedere i miei figli perché mi basta lei.

Lara riempie tutta la mia vita e credo che senza di lei non saprei più vivere.

Ormai un'idea del XXI secolo me la sono fatta, non sono più imbranato come

quattro giorni fa. 161

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Letizia

Quattro giorni.

Mi sembra che sia passato un secolo.

Teoricamente sarebbero passati 28 anni, ma in realtà sono solo quattro giorni.

Che però mi sembrano un'eternità.

Sono cambiato.

Perbacco, sono cambiato moltissimo.

Letizia sembra quasi il ricordo di un tempo che non c'è più.

In realtà non c'è mai stato.

E mia figlia Licia, che è sempre nel mio cuore, in realtà non è mai nata.

Dio, quanto mi manca.

Lara è una persona fantastica, dolce e soprattutto molto intelligente.

In questi due giorni abbiamo anche parlato di Letizia ed è stata lei a convin-

cermi che vederla di persona sarebbe stato meglio per tutti.

Io non ne ero così convinto.

Avevo paura di rivederla così, invecchiata e inacidita.

Preferivo ricordarla com'era e preferivo associare la sua immagine a quella di

Licia.

Lei non mi hai mai perdonato, ha del risentimento verso di me.

Non credo proprio che sia arrivata a odiarmi, Letizia non ha mai odiato nessu-

no.

Ma sono dieci anni che non ci vediamo.

O meglio, così ha detto Lara, perché veramente non la vedo da solo quattro

giorni.

E questo la dice lunga sui sentimenti che ora prova per me.

Anche se in fondo io credo che mi ami ancora.

Vederla mi farà sicuramente molto male e ne farà anche a lei.

«Stai pensando a Letizia?»

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Due amori Lara sta leggendomi nel pensiero, a quanto pare.

«Beh, a dire il vero, sì.»

«E hai il terrore di incontrarla.»

Cavolo, è proprio in simbiosi con me.

«Mi conosci molto bene, vedo. Ma ce la farò.»

Ce la farò certamente.

Sarà dura, ma ce la farò.

«Sei stanca? Vuoi che ti dia il cambio nella guida?»

«No, non c'è bisogno. Fra meno di un'ora saremo a casa. Non c'è molto traffico

stasera. Devi vedere com'è invece la domenica sera.»

Sonnecchio un po', sono davvero stanco.

Non so come faccia Lara.

E' davvero di ferro.

Se qualcuno mi viene a dire che il sesso forte siamo noi...

Oh, sicuramente abbiamo più muscoli ma, per quanto riguarda la resistenza al-

la fatica, arriviamo sicuramente secondi.

Però, ricordando una vecchia freddura, le donne arrivano penultime.

Rido dentro di me come uno sciocco.

Lara ha notato il mio timido sorriso.

«Vedo con piacere che è sparita quella tua faccia da funerale.»

«Tutto merito tuo. Sei un angelo.»

Arriviamo a casa, come previsto, in poco più di tre quarti d'ora.

Mi schiaffo sul letto, distrutto.

Lara invece è fresca come una Rosa.

Ma come diavolo fa?

«Ah no, poltrone. Via dal letto. Non hai una telefonata da fare?»

«Adesso? Non è meglio domani mattina?»

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Letizia

«No. Letizia Lavora fino a tardi e non la troveresti fino a domani sera. Quindi la

chiami ora.»

Il suo è un tono che non ammette repliche.

E pensare che sabato sera avrei pagato non so cosa per chiamare Letizia e

sentire la sua voce.

Ora invece...

Pare che io sia un altro uomo e, sotto certi aspetti, lo sono davvero.

«Hai il suo numero?»

«No davvero. E neanche tu. Dovrai cercarlo sul cellulare.»

I rapporti fra noi tre si sono davvero raffreddati se non abbiamo neanche il suo

numero.

Roba da era glaciale.

«Sul cellulare?», domando un po' stupito, «ma non ho il suo numero in elen-

co.»

«Guarda nelle Pagine Bianche. E' una App che ti permette di trovare tutti i nu-

meri fissi di tutta Italia. Lo sai.»

Già, avevo dimenticato che con il cellulare si fa quasi tutto, tranne il caffè.

Cerco il numero.

Letizia Larini, Milano.

Eccolo qui.

La chiamo.

Il telefono squilla cinque o sei volte e infine sento la sua voce.

E' lei.

Ommamma.

«Pronto?»

«Letizia, sono io, Luca.»

Un lungo silenzio.

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Due amori «Luca, cosa vuoi?»

Il suo tono è freddo e distaccato e suona come "stai rompendo le scatole".

«Letizia, ho bisogno di vederti. Ti devo parlare.»

«Non abbiamo più niente da dirci, non trovi? Sono dieci anni e due mesi che

non ci vediamo.»

Si ricorda con precisione quando ci siamo visti l'ultima volta.

«Senti, lo so. Sono inopportuno. Ma ti devo parlare, devo vederti. E' una cosa

della massima importanza.»

«Luca, sono molto impegnata. E poi, se lo vuoi proprio sapere, non ho affatto

voglia di parlare con te né tantomeno di vederti.»

«Non riattaccare, ti prego. Lo sai che sono duro come la roccia. Non ti mollerò

finché non mi dirai di sì.»

«Lo so. Ma sai che io sono più dura di te. Non voglio vederti. E' chiaro?»

«Tu mi ami, Letizia. Io lo so. E anche tu sei sempre nel mio cuore.»

«Ti prego, Luca, lasciami stare.»

«Sai cosa sarebbe successo se io non avessi mai incontrato Lara?»

Gioco la mia ultima carta.

Una carta pericolosa perché, se riattacca ora, è tutto finito.

«Ti avrei sposato. Saremmo stati insieme per tutta la vita. Avremmo avuto dei

figli. Tu desideravi tantissimo una femminuccia. E l'avremmo chiamata Licia...»

«Ti prego, Luca, smettila. E poi che ti viene in mente? Licia è un nome che non

mi piace per niente.»

«Non è vero. Tu adori quel nome. Ti è sempre piaciuto. Ora dici così perché ce

l'hai con me. Vuoi cancellare tutto quello che ti ha legato a me. Perfino tutti i

tuoi desideri che in qualche modo ti riconducono a noi due.»

Lei tace come se pensasse a come sarebbe stata la sua vita con me.

«Sarebbe stata bella come te. E sarebbe stata identica a te. Ricordi quanto eri

bella quando eri una bimbetta che mi tirava i sassi? E io l'avrei amata come ho

amato te.»

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Letizia

Mi scende una lacrima su una guancia.

«Luca, ti prego...»

«Devo parlarti, Letizia. Devo. Devo vederti. Almeno una volta. Poi ti lascerò in

pace per sempre. Ti prego. Solo un'ultima volta.»

Un altro lungo silenzio.

«E va bene, Luca. Ci vediamo sabato mattina. Prima non posso.»

«Va benissimo.»

Il cuore mi batte così forte che lo sento nelle tempie.

«Sarò a Termini sabato mattina. Ti chiamerò per dirti l'orario del treno.»

«Il treno? Perché non prendi l'aereo? Faresti molto prima. Ti verrei a prendere

all'aeroporto e...»

«Sai che ho paura di volare. Ti richiamo. Ciao e salutami Lara.»

«Sì, certo. Ciao Letizia.»

Paura di volare?

Ma se abbiamo preso l'aereo da Parigi proprio quattro giorni fa.

Dimentico sempre che è un'altra Letizia.

«Verrà. Ci vedremo alla stazione Termini sabato mattina» dico a Lara timida-

mente.

«Benissimo. Sabato non è una giornata lavorativa per noi» risponde lei.

«E' tutto a posto, Luca?»

«Sì certo, Lara.»

«Sicuro?»

«Sì.»

Mi conosce troppo bene e sa che non è vero.

Sto malissimo.

Non riesco a credere che un incontro con Letizia mi provochi tanta angoscia.

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Due amori 19. Vacanze romane

Incredibile.

Ho passato tutta la notte con Lara, nel suo ufficio.

Non lo avrei mai immaginato.

Se qualcuno me lo avesse detto, come minimo gli avrei riso in faccia.

Oppure avrei chiamato la neurodeliri.

Ho passato tutta la notte con una Lara che non è mai stata mia moglie e che

mi conosce da meno di un giorno.

E' vero che io la conosco da 46 anni e che sono sposato con lei da quasi 40.

Ma lei no.

Io però ho giocato sporco.

Ma non erano quelle le mie intenzioni.

Nemmeno quando ho saputo che è vedova, ragione di più per non approfittare

di lei.

E' una donna che ha sofferto molto e che è rimasta senza l'affetto di un uomo

per troppo tempo.

E sono una carogna anche perché sapevo che lei si sarebbe innamorata subito

di me.

Per lei era già stato amore a prima vista e non c'era motivo di pensare che non

sarebbe successo di nuovo.

E non mi giustifica neanche il fatto che è stata lei a volerlo, perché in fondo

sono stato io a cominciare.

L'ho baciata e non dovevo.

Letizia.

E' la prima volta che tradisco mia moglie.

E il fatto curioso che ho tradito mia moglie, che non è mia moglie, con una

donna che non è mia moglie, ma che invece è mia moglie.

Che cosa complicata.

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Letizia

A pensarci bene, non ci capisco niente neanche io.

Ho avuto per fortuna la presenza di spirito di telefonare a Letizia per dirle,

mentendo, che ero arrivato a Roma e che ero già in albergo.

Fortuna?

Chissà se veramente è stata fortuna.

Che devo fare adesso?

Non posso certo continuare con il piede in due staffe.

Non mi piace per niente avere un'amante.

E devo scegliere tra il grande amore della mia vita e una donna, che mi ha

sposato e che ha una figlia mia.

In entrambi i casi farò soffrire qualcuno.

Nell'altra vita ho già fatto soffrire Letizia.

E adesso?

Continuo a infierire su di lei o cambio bersaglio?

Solo una cinica carogna come me poteva partorire simili pensieri.

«Luca, tesoro. E' ora che io torni a casa. Poi mi prenderò un po' di giorni di ri-

poso. Sono anni che non faccio una pausa, a parte le tre settimane estive in

cui porto Lucia al mare.»

«Mare? Hai sempre odiato il mare.»

«E' vero, ma lo faccio per mia figlia. Datti una rinfrescata in bagno ed esci per

primo. Poi uscirò io. La segretaria viene ad aprire l'ufficio tra meno di un'ora.

Bisogna sbrigarci.»

«Ma poi dove ci ritroviamo?»

«Scrivimi in un biglietto il nome e l'indirizzo del tuo albergo. Mi metterò io in

contatto con te. Ci vediamo lì appena posso.»

«Va bene.»

Poi mi viene in mente una cosa.

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Due amori «Perché non ce ne andiamo qualche giorno a Roma? Io e te da soli. Una se-

conda luna di miele.»

Poi mi accorgo che il termine "seconda" assume per lei un significato molto di-

verso da quello che è per me.

«Già. Tu dovresti essere là adesso. I classici due piccioni con una fava.»

C'è un velo di amarezza nelle sue parole.

«Stai pensando a Letizia?»

Naturalmente ieri sera le ho raccontato che qui ho una moglie e una figlia.

«Già. Che cosa pensi di fare?»

«Non lo so. Lo decideremo insieme.»

«Ti raggiungo al tuo albergo con le valigie. Ma ora vai. Ciao.»

«Ciao.»

Poco dopo sono in strada.

Il mio albergo è vicino e lo raggiungo a piedi.

Ho bisogno di prendere un po' d'aria.

Salgo in camera, mi faccio una velocissima doccia, mi rado e sono giù in strada

in meno di mezzora.

Ciondolo davanti all'albergo come un cretino e il tempo non passa mai.

Lei non arriva.

Poi penso che Lara possa aver telefonato e mi precipito alla reception per chie-

dere se qualcuno aveva chiesto di me.

«No, nessuna telefonata» mi dice gentilmente il portiere.

Dopo un "grazie mille" torno in strada a ciondolare.

Ommamma.

Stai a vedere che ci ha ripensato e non viene più.

E' stata fuori tutta la notte.

Avrà probabilmente delle cose da spiegare alla madre che deve essere stata

insieme a Lucia. 169

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Letizia

Non so neanche se la madre abita con Lara.

Guardo l'orologio, è passata poco più di un'ora da quando ci siamo lasciati.

Dalle tempo, perbacco.

Sono troppo nervoso.

Il tempo sembra essersi fermato e lei non si vede ancora.

Ormai non viene più.

Sta arrivando un taxi. E' lei.

L'amore della mia vita, la donna con la quale ho passato così tanti anni.

O solo poche ore?

«Ciao. Attendi qui un attimo con il taxi. Arrivo subito.»

Corro nella hall a prendere la mia valigia, saluto e torno in fretta da Lara.

Non vedo l'ora di essere a Roma con lei e dimenticare tutto il mondo.

Solo io e lei, come se fossimo gli unici abitanti della terra.

Senza passato, senza pensare al futuro.

Solo il presente.

Solo noi due.

Ma i giorni felici passano in fretta e il ritorno alla realtà è duro.

Ho deciso di dire tutto a Letizia.

Lara non era d'accordo.

Le sarebbero bastati quei pochi giorni di felicità passati con me.

Poi sarebbe sparita portandosi un pezzo di me chiuso nel suo cuore.

Non voleva assolutamente mettersi tra me e Letizia.

E Licia.

Ma io sono irremovibile.

Non so quello che succederà e non so nemmeno cosa sperare che succeda.

So solo che Letizia deve sapere.

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Due amori Ha il diritto di sapere.

Le dirò tutto, a partire da quel maledetto sabato che ha completamente scon-

volto la mia vita.

Non mi crederà, ovviamente.

Penserà che è una storia assurda per spiegare in qualche modo questo tradi-

mento.

Ma mi conosce troppo bene per sapere che non inventerei una storia così inve-

rosimile solo per dirle che amo un'altra.

Che amo anche un'altra, a dire il vero.

Perché amo anche lei.

L'ho amata fin da quando avevo i pantaloni corti e l'ho amata anche adesso,

qui, in questo assurdo presente.

E poi, che sia quel che deve essere.

Che si decida della mia vita.

Ormai ci ho fatto l'abitudine.

Non sono più io a decidere della mia vita.

Sono stato scaraventato da un futuro, che per me era il presente, a un presen-

te, che per me è stato un passato.

Da un mondo a un altro, da una vita a un'altra.

Ora basta.

Sono stanco.

Scopriamo le carte e stiamo a vedere.

Temo però che non ci saranno vincitori, ma solo vinti.

E ora Lara e io siamo a Termini ad aspettare Letizia.

Le ho chiesto di venire perché ho una grande notizia da darle.

E lei, carogna che sono, pensa che ho trovato un accordo con quell'architetto e

che presto ci trasferiremo a Roma.

E non starà nella pelle per la contentezza.

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Letizia

Non credo che ce la farò a sopportare il suo sguardo quando mi vedrà con La-

ra.

Anche se, in un primo momento, penserà che lei è la segretaria o l'assistente

dell'architetto che mi vuole come socio.

Letizia metterebbe la mano sul fuoco per me.

Sa che non l'ho mai tradita e che non lo farei mai.

Ma io non sono il Luca che lei crede che io sia.

Ommamma.

E ora mi vengono in mente i miei genitori.

La mamma, papà.

Cosa penseranno quando verranno a sapere di questa maledetta storia?

Il loro figlio adorato, il loro unico figlio, che combina questa mascalzonata.

Abbandona la moglie e una figlia piccola per correre dietro a una sottana.

E cosa penseranno di Lara?

Mi sento male solo a immaginarlo.

E mi sento ancora peggio quando vedo Letizia scendere dal treno.

Un portabagagli la aiuta con la valigia e lei corre verso di me.

Lara è accanto a me.

20. Due amori

Incredibile come tre giorni possano passare così in fretta.

Mi sembra ieri quando ho sentito Letizia per telefono.

E tra pochi minuti la vedrò.

Non so se ce la farò.

E lei?

Cosa dirà?

Come mi tratterà?

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Due amori E devo dirle veramente tutto quello che è successo?

Non lo so, non lo so.

Lara è accanto a me e io le stringo la mano come se fosse un'ancora di salvez-

za.

Lei, come se fosse dentro la mia testa, dice: «Coraggio, Luca. Vedrai, sarà più

facile di quanto tu creda.»

Sarà, ma io sto malissimo.

E lei peggiora le cose aggiungendo: «Credi che io non mi senta a disagio a ve-

dere Letizia dopo così tanto tempo e in questa circostanza?»

Eccoti servito, Luca.

Un bel modo il suo per farmi coraggio.

«Se credi che te lo abbia detto per metterti più paura di quella che hai già, ti

sbagli di grosso. Ti devi svegliare, Luca. Non stai andando verso la sedia elet-

trica, perdiana.»

«Lo so bene, Lara. Ma il punto è un altro. Io non ho paura di Letizia. Lei, che è

stata il mio grande e unico amore in un altro tempo, qui è soltanto una cara e

vecchia persona a cui, è vero, io ho fatto del male...»

«Noi abbiamo fatto del male...» mi interrompe Lara.

«Ma è passato molto tempo. E il tempo cura tutte le ferite. E, strano a dirsi,

non mi sento per niente in colpa, perché non le ho realmente fatto del male io,

ma l'altro Luca, tuo marito.»

Mi pento subito di averlo detto.

L'altro Luca.

Questo le ricorda che io non sono veramente il Luca che lei ha sposato e con il

quale ha vissuto quasi mezzo secolo.

E ora sì che sto facendo del male.

Ma non a Letizia.

A Lara, dannazione.

Sono proprio un cretino e ho la sensibilità di un elefante.

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Letizia

Faccio finta di niente e proseguo.

«Ho invece paura di me. Mi è già capitato di rivedere una persona dopo tanti

anni. Non è più lei. E' cambiata, come sono cambiato io. Ma io sono cambiato

lentamente, giorno per giorno, senza accorgermene. Lei no. E' invecchiata in

un attimo rispetto a com'era nei miei ricordi.»

«Già. E' capitato anche a me.»

«Ho paura di rivedere Letizia. Lei nei miei ricordi non ha neanche 35 anni. E

ora la vedrò che ne ha quasi 63. Non è mai piacevole uccidere così i propri ri-

cordi.»

Mi vengono i brividi.

«E poi non credo che lei sarà molto contenta quando le racconterò tutto. Se lo

farò.»

Non ho ancora deciso, non so cosa fare.

«Credo che lei abbia il diritto di sapere la verità, anche se questo potrebbe far-

la soffrire» mi suggerisce Lara con un tono per la verità non molto convinto.

«Ne soffrirà certamente. La conosco troppo bene. Sapere che da qualche parte

c'è un'altra Letizia che è diventata mia moglie... e che ha avuto una figlia da

me... la farà sicuramente star male. E' come far vedere una bella torta a un

bimbo e poi dirgli che non potrà mangiarla perché lo ha già fatto in sogno.»

E' una similitudine un po' colorita e altrettanto assurda, ma rende l'idea.

E siamo punto e a capo.

Non ho ancora deciso cosa le dirò.

E, a un tratto la vedo scendere dal treno.

Un portabagagli la aiuta con la valigia e lei avanza verso di noi.

Lara è accanto a me.

Ommamma.

Immaginavo quello che avrei provato, ma non credevo che il colpo sarebbe

stato così tremendo.

Letizia è un'altra persona.

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Due amori Invecchiata e più magra.

Sempre elegante, indossa un vestito che, sarà anche bello, ma è nero.

Il nero non è mai stato il suo colore preferito.

Ha sempre amato abiti più vivaci.

La sua ultima collezione è un'esplosione di colori che ricordano l'estate, il suo

sole e il suo cielo, il mare e la schiuma bianca delle onde che si rifrangono sugli

scogli.

Così ha detto lei quando li ha presentati.

Ma quella era la "mia" Letizia.

Questa invece è un'altra persona.

La malinconica tristezza del suo viso che, man mano che si avvicina a noi si fa

sempre più evidente, contribuisce a rendere il suo aspetto ancora più... più...

Ommamma, come sto male.

Sembra il fantasma di quella che era 28 anni fa.

Possibile che si sia sciupata così tanto?

A Lara non è successo.

Ho visto le fotografie di quando era ragazza e vedo com'è adesso.

Certo non è bellissima com'era quando era giovane, ma è ancora una bella

donna.

Tra la Letizia che conoscevo io e l'anziana signora che sta venendo verso di me

c'è veramente un abisso.

Ma io l'ho amata.

E l'amo ancora, dannazione.

Ho amato solo lei.

Lara è con me da soli quattro giorni.

Amo anche lei però.

Come è possibile amare contemporaneamente due donne?

Eppure è così. 175

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Letizia Nonostante Letizia sia molto cambiata e invecchiata, io l'amo ancora.

E vado verso di lei con il desiderio incontenibile di stringerla tra le braccia.

21. Roma, stazione Termini, sabato 10 maggio

Mi allontano da lei per correre incontro a Letizia.

La raggiungo e la stringo a me.

La sollevo da terra e la faccio roteare come ho fatto spesso con Licia.

«Luca, mettimi giù. Mi fai girare la testa.»

«Oh Letizia, quanto mi sei mancata.»

«Ma sono stati appena tre giorni.»

«Lo so. Ma mi sono sembrati tre anni. Ho una sorpresa per te.»

«Stiamo per trasferirci a Roma? Hai raggiunto un accordo con quell'architetto?

Ti prende in studio come socio?»

«Birbantella. Non ti si può nascondere nulla.»

La bacio teneramente mentre i passanti si girano a guardarci.

«Lunedì 6 ottobre 1986. Segnati questa data. E'il giorno in cui inizierò a lavo-

rare qui a Roma con il mio nuovo socio. Socio alla pari. Sono riuscito a ottene-

re quello che volevo. Lui ha ceduto perché sa che sono in gamba e ha bisogno

di uno come me.»

«Oh caro, come sono felice. Vedrò di far coincidere la data in cui aprirò l'atelier

a Roma. Ho già un paio di occasioni e ho tutto il tempo di organizzarmi.»

«E per Licia non ci saranno dei problemi con la scuola. Certo sarà tutta un'altra

vita per lei. Avrà nuove amicizie e non risentirà troppo di quelle che perderà. E'

ancora molto giovane e avrà tutto il tempo anche di farsi qualche amichetto.»

«Luca, ma cosa dici? Non ha ancora undici anni.»

«Tu alla sua età eri già innamorata pazzamente di me. Dovrai tenerla d'occhio,

temo.»

«Dovresti tenerla d'occhio tu invece. Tu sei il padre.»

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Due amori Ridiamo insieme.

Ci avviamo verso l'uscita per cercare un taxi.

Sono troppo felice.

Ma c'è qualcuno che non lo è, purtroppo.

Passando accanto a una bella ragazza bionda, non posso fare a meno di notare

una lacrima che le scende su una guancia.

22. Roma, stazione Termini, sabato 10 maggio

«Letizia, sei sempre più bella.»

Mi avvicino a lei, la stringo tra le braccia e la bacio sulla guancia.

«E' vero. Luca ha ragione. Sei proprio uno splendore. E questo delizioso abito

nero...»

«E' l'ultima mia creazione, sai. Non ha ancora sfilato e volevo che voi foste i

primi a vederlo.»

Letizia è proprio radiosa.

Ed è sempre la solita mia cara e vecchia Letizia.

Vecchia.

Mica poi tanto vecchia.

Se potesse leggermi nel pensiero, sarei un uomo morto.

E' una donna straordinaria.

Dopo che io e Lara ci siamo sposati, un'altra si sarebbe lasciata andare.

Lei no.

Non so come abbia fatto.

Siamo rimasti ottimi amici.

Peccato però che non si sia mai sposata.

Ha sempre detto che uno come me non l'avrebbe mai trovato.

Credo che in fondo non abbia mai smesso di amarmi.

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Letizia

Poi prende una busta dalla sua borsetta e la porge a Lara.

«E' l'invito per la mia prossima sfilata qui a Roma. Questo è il primo invito che

do e naturalmente è riservato a voi.»

Lara lo apre e lo legge.

E ride.

Che diavolo c'è scritto nell'invito?

«La sfilata sarà fra una decina di giorni. Naturalmente vi ho riservato i posti

migliori.»

Poi prende Lara a braccetto e si allontana con lei.

Prendo l'invito dalle mani di Lara e lo leggo: "Signora Lara Lentini e Consorte".

Letizia non perde occasione per prendermi in giro.

Ma in fondo ha ragione.

Letizia presenta solo abiti femminili e quindi l'invitata è lei.

Io sono solo il "Consorte".

Poi leggo la data.

Martedì 20 maggio 2003.

Fra dieci giorni esatti.

23. Lieto fine

E così questa storia ha avuto il suo lieto fine.

Ma cosa è successo?

Tutto ha avuto inizio quando due universi, dimensioni spazio temporali, realtà,

mondi, chiamateli un po' come volete, si sono incontrati coinvolgendo una per-

sona, Luca, che si trovava in entrambe le parti, nello stesso spazio, la botte-

guccia nel Marais parigino, nello stesso giorno della settimana, sabato, lo stes-

so giorno e lo stesso mese, 3 maggio e alla stessa ora, le 17 e rotti.

Qualche maligno superstizioso potrebbe dire le 17 e 17 minuti e magari anche

17 secondi.

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Due amori Ma giuro che il fatto non era affatto intenzionale.

Ma può anche essere che io menta spudoratamente.

Solo gli anni erano diversi.

Ma non si può certo pretendere che simili eventi cosmici avvengano a piacer

nostro.

E così è successo che il Luca del 1986 e quello del 2014 si siano "scambiati di

posto".

Ma non nel corpo, ovvio.

Non vorrete mica farmi intendere che credete a tutte quelle panzane sul tele-

trasporto, vero?

Per trasportare una persona da una parte all'altra ci vuole un bel mezzo di tra-

sporto, bicicletta o aereo che sia.

O magari le gambe, comodissime per trasporti brevi.

E non sono per niente ingombranti.

Ve le potete portare dappertutto, anche a letto.

E soprattutto ci vuole del tempo.

Ci sono anche delle belle formule che regolano tempo, spazio e velocità.

Quindi niente scambi di corpi.

Non è possibile se non nelle avventure di fantascienza.

La realtà è ben diversa.

Lo spirito, l'anima, la mente, dategli il nome che volete, quello sì che può spa-

ziare qua e là, sì che può vagare nel tempo e nello spazio.

Provate anche voi, e facilissimo.

Chiudete gli occhi e, voilà, siete sulla luna.

Ed è quello che è successo a Luca, poverino: la sua mente è passata in un at-

timo da un corpo a un altro, da un tempo a un altro, ma nello stesso spazio.

Ma come è potuto succedere e perché?

E io che ne so?

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Letizia

Se lo sapessi ve lo direi, non vi pare?

E successo.

E sono cominciati i guai.

Ma poi il fatto si è ripetuto in grande stile.

Luca, Lara e Letizia si sono ritrovati nelle stesse circostanze.

Tutti e sei, quelli del 1986 e quelli del 2014, si sono ritrovati nello stesso spa-

zio, la stazione Termini a Roma, nello stesso giorno della settimana, sabato, lo

stesso giorno e lo stesso mese, 10 maggio e alla stessa ora, le 10 circa.

Non facciamo i pignoli.

E c'è stato un movimento di spiriti che sembrava di essere a Chicago in una di-

stilleria clandestina al tempo del proibizionismo.

E le cose sono ritornate com'erano.

Beh, non proprio.

Luca e Letizia, i giovani sposini si ritrovano insieme nel 1986.

Luca non ricorda di essere stato nel 2014 e di aver conosciuto Lara.

Letizia non ricorda le stranezze di suo marito, e così pure Licia.

Tutto a posto, no?

Gli anziani sposi Luca e Lara si sono ritrovati, un po' meno anziani, anzi direi

due ragazzi, nel 2003.

Invece che nel 2014, con undici anni di meno.

Non sono poi così tanti, ma tutti ci metterebbero la firma di sicuro.

Chissà, forse non erano in sei ma in nove a Termini, in quel momento.

Forse c'erano anche Luca, Lara e Letizia del 2003.

Resta inspiegabile però che fine abbiano fatto quelli del 2014.

Sono spariti, si sono volatilizzati?

Si sono fusi con gli altri tre e ha avuto la prevalenza il 2003 sul 2014?

Ma allora non avete proprio capito.

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Due amori Non lo so, non ne ho la più pallida idea, non ho mica la sfera di cristallo.

Eppoi, anche se lo sapessi, perché dovrei dirvelo?

Non è che vi divertirete di più a fare congetture vostre?

Dunque le coppie di sposini si sono sistemate.

Ma l'altro amore di Luca?

Letizia nel 2003 non è l'amore abbandonato e un po' depresso che si è buttato

nel lavoro, ancora innamorata del suo Luca fedifrago e traditore.

L'abbiamo tutti immaginata sempre con il suo vestito nero, con una faccia che

non l'avrebbero voluta neanche ai funerali per non peggiorare le cose e per e-

vitare suicidi di massa.

No.

Letizia non è così.

E' una persona simpatica e stravagante, ironica e divertente.

Conoscete già, per caso, una persona così?

Beh, magari non di persona, ma scommetto di sì.

E Lara?

La dolce Lara, rimasta vedova ancora troppo giovane con la sua dolcissima Lu-

cia, che fine ha fatto Lara?

L'abbiamo lasciata alla stazione, dove è rimasta attonita nel vedere il suo nuo-

vo amore abbracciare teneramente e baciare la moglie Letizia.

Cosa è successo a Lara?

Ma questa è un'altra storia.

FINE

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Letizia

a) Lara, Roma, stazione Termini

[N.d.A.: Ma no, era tutta una finta. Non vi posso lasciare con l'amaro in bocca]

Luca sta venendo verso di me con quella che deve essere sua moglie Letizia.

La tiene stretta e la bacia.

Sembra che si sia completamente dimenticato di me.

Luca, ma cosa ti prende?

Io sono qui, dove vai, perché ti comporti così?

Luca.

Mi sento uno straccio.

E non riesco a trattenere una lacrima.

Quando arriva a un metro da me, non mi degna neanche di uno sguardo e pro-

segue parlando e ridendo con sua moglie.

Sono qui a Roma, da sola, innamorata di un uomo che conosco da soli tre gior-

ni.

E che se ne sta andando con un'altra donna dopo avermi detto che mi ama e

avermi convinta che, in un'altra vita, era stato mio marito.

«Luca.»

Mi accorgo di aver pensato ad alta voce.

Lui si gira verso di me e si gira anche sua moglie.

«Dice a me signorina?»

Poi si corregge, ha visto la fede che ancora porto di mio marito.

«Ci conosciamo, signora?»

Mio Dio.

Cosa sta succedendo?

«No, mi scusi. L'avevo scambiato per una persona a me molto cara. Ma ora

che la osservo meglio, vedo che mi sono sbagliata. E mi scusi anche lei, signo-

ra. Non volevo disturbare.»

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Due amori «Nessun disturbo, ma le pare? La cosa strana è che mi chiamo Luca anch'io. E'

per questo che mi sono girato. Luca è il nome di suo marito?»

«No. Io... io sono vedova...»

Mi trema la voce e lui se ne accorge.

«Mi spiace, non sapevo. Ma si sente bene, signora? La vedo molto pallida.

Venga, si sieda un attimo» mi dice prendendomi dolcemente sottobraccio.

E ci dirigiamo tutti e tre a un bar lì vicino.

«No, sto bene. Glielo assicuro. E' stata solo un po' di stanchezza. Oggi è una

giornata tremenda.»

«Venga, cara. Si sieda qui.»

E' Letizia che, mentre Luca chiama un cameriere, mi avvicina una sedia.

Luca non sa chi sono ed è sincero, ho imparato a conoscerlo in questi pochi

giorni.

Ma come è possibile?

Meno di mezz'ora fa lui era accanto a me, innamorato.

Doveva parlare di me a sua moglie e io mi sentivo male al solo pensiero di sfa-

sciare una famiglia.

Lui mi aveva detto di avere una moglie e una figlia della stessa età della mia

Lucia.

E io avevo combattuto a lungo con lui perché non volevo distruggere la vita di

due persone innocenti.

Ma era riuscito a convincermi che non c'era altra soluzione.

E gli è stato fin troppo facile perché io lo amo, lo amo da impazzire.

E stavo per commetterla, questa pazzia.

Ma il destino, il maledetto destino che mi ha tolto mio marito quando non ave-

vo ancora trent'anni lasciandomi con una figlia ancora troppo piccola, adesso

mi toglie di nuovo l'uomo che amo.

Dopo solo tre giorni.

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Letizia

Perché allora me lo ha fatto incontrare?

Perché mi ha fatto innamorare di lui?

E perché lo devo perdere così?

Lui non ricorderà i tre giorni meravigliosi che abbiamo passato insieme.

Perché... perché?

«Le ho ordinato un tè, l'ho chiesto molto caldo. Ma se vuole qualcos'altro...

vuole mangiare qualcosa?»

«No, Luca. Grazie. Non c'era bisogno. Ora sto molto meglio.»

Mi accorgo che l'ho chiamato per nome.

«L'ho chiamato Luca, mi perdoni. Ma non so altro di lei.»

Mento.

So benissimo come si chiama.

So praticamente tutto di lui.

«Non c'è niente da perdonare. Anzi, mi perdoni lei. Non mi sono neanche pre-

sentato. Mi chiamo Luca Lorenzi e lei è mia moglie Letizia.»

«Io mi chiamo Lara. Lara Roncati. Veramente questo è il nome di mio marito,

io mi chiamo Lentini.»

«Lara. Bellissimo nome. Come la persona che lo porta. Ma non facciamoci sen-

tire da mia moglie. E' molto gelosa.»

Ride e ride anche Letizia.

Se non avessi il cuore in pezzi, riderei anch'io.

Ma il riso è contagioso e poi... lui è così bello quando ride.

E allora rido timidamente anch'io.

«Avrei voluto incontrarvi in circostanze migliori. Siete veramente una bellissi-

ma coppia.»

Sono sincera, stanno veramente bene insieme.

E Letizia è veramente una bella donna.

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Due amori Sono contenta in fondo che sia andata a finire così.

Mi sarebbe dispiaciuto moltissimo farle del male, non se lo merita.

E in fondo avrei fatto del male anche a lui.

Si sarebbe sentito in colpa per tutta la vita e ne avrebbe sofferto.

E non lo merita neanche lui.

Senza contare sua figlia che, per colpa mia, sarebbe cresciuta senza un papà.

E io sarei stata la persona che avrebbe sofferto più di tutte.

Quattro esistenze rovinate.

Meglio così.

Loro sono felici e io in fondo ho avuto tantissimo.

Ho conosciuto l'amore e mi sono stati donati tre giorni che rimarranno nel mio

cuore per sempre.

Stiamo ancora un po' a chiacchierare e ci raccontiamo quali sono le nostre oc-

cupazioni, i nostri cari e infine ci salutiamo.

«Vuoi che ti accompagnamo da qualche parte?»

Siamo passati dal lei al tu senza quasi accorgercene.

«No grazie, Luca. Il mio albergo è qui dietro, a due passi. E' stato bello chiac-

chierare con voi. Ciao. E grazie per il tè.»

Mi avvicino a lui per stringergli la mano, ma lui mi bacia sulla guancia.

«Ciao, Lara.»

Poi mi bacia anche Letizia.

«Allora ciao.»

«Ciao» rispondo io mentre un groppo mi sale in gola.

b) Lara, Roma, albergo

Il mio albergo è veramente dietro l'angolo.

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Letizia

Ci arrivo in cinque minuti, immersa nei miei pensieri che hanno un solo nome:

Luca.

Alla reception c'è un portiere che non ho mai visto.

«Mi dà la tre zero sette?» domando.

«La tre zero sette?» ripete lui con stupore.

«E' proprio sicura? La tre zero sette è occupata da una coppia in viaggio di

nozze. Sono appena saliti.»

«Prego? Temo di non aver capito. La 307 è la mia camera. Sono qui da tre

giorni con...» mi interrompo.

A parte che non sono affari suoi, non so neanche più se Luca era veramente

qui con me, in questo albergo.

«Vuol dirmi il suo nome, per cortesia? Controllo subito il registro.»

«Lara Lentini» rispondo.

Sto cominciando a spazientirmi.

«Mi dispiace, signora. Il suo nome non risulta. Lei non è cliente di questo al-

bergo.»

«Come sarebbe a dire? Non sono cliente dell'albergo? Ma che storia è questa?»

Ho alzato involontariamente la voce e i clienti nella hall si sono girati tutti.

«Cosa succede qui?»

E' la voce di uno che deve essere il direttore o qualcosa di simile, visto la defe-

renza con cui gli si rivolge il portiere.

«La signora insiste nel dire che è una nostra cliente e...»

Lo interrompo.

«Io vorrei tanto non essere una vostra cliente e state certi che questa è la pri-

ma e ultima volta. Ma purtroppo alloggio qui ora, la mia camera è la 307.»

Oggi non è giornata e, se vogliono farmi incavolare, non chiedo di meglio per

sfogarmi un po'.

«Vediamo.»

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Due amori Il direttore, molto compassato, sembra un manichino mentre consulta il regi-

stro.

«Dunque, vediamo. Come si chiama la signora?»

«Lara Lentini.»

Io e quell'altro manichino del portiere pronunciamo il mio nome all'unisono.

«Signora, lo confermo. Lei non è cliente del nostro albergo. E, a conferma di

quello che dico, le assicuro che non l'ho mai vista nell'hotel.»

Adesso urlo.

Ma poi mi trattengo.

Sono successe troppe cose impossibili oggi.

E non solo oggi, se devo credere a quello che mi ha raccontato Luca.

E questi due pinguini potrebbero aver ragione.

Potrei essere stata qui, ma non in questo tempo.

Oh Dio, che assurdità.

E allora, al diavolo l'albergo, al diavolo i due pinguini, al diavolo la mia valigia

che è rimasta nella 307 insieme a quella di Luca.

Al diavolo anche quell'abito azzurro che mi piaceva un sacco.

Al diavolo tutti quanti.

Me ne vado senza dire neanche una parola.

Senza salutare.

Al diavolo, che pensino pure che sono matta.

Tanto l'avranno già sicuramente pensato.

Al diavolo loro e questo stramaledetto albergo che mi ha regalato i tre più bei

giorni della mia vita.

Al diavolo.

Me ne torno ad Arezzo.

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Letizia

c) Lara, Arezzo, ufficio

Sono finalmente arrivata.

Appena metto piede fuori dalla stazione chiamo un taxi.

Per fortuna ce ne sono un paio liberi.

Sto per dare all'autista l'indirizzo di casa, ma poi ci ripenso.

E' meglio che faccia prima un salto in ufficio, nello studio del capo per darmi

una rassettata.

Non voglio che mia figlia mi veda in questo stato.

Né tantomeno mia madre.

Sono orribile e sono anche molto stanca.

Nel cassetto della mia scrivania c'è tutto il necessario per darmi una sistemata

e per rifarmi un po' il trucco.

Non è un vezzo.

Devo essere presentabile.

Non voglio far stare in pena le persone che amo di più al mondo.

Lucia è tutta la mia vita.

Oggi più che mai.

Arrivo allo studio e cerco le chiavi nella borsetta.

Meno male che questa almeno non si è materializzata da qualche altra parte.

E penso a quell'abito che mi piaceva tanto e che ora non ho più.

Chissà dov'è ora.

Apro il portone e mi dirigo verso l'ascensore.

Sono solo due piani ma non me la sento di fare le scale a piedi.

Strano, la porta dello studio è aperta e la luce all'interno è accesa.

Ma chi c'è nello studio il sabato sera?

Entro.

La segretaria è alla sua scrivania, intenta a lavorare.

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Due amori «Berta, che ci fa in ufficio il sabato sera?»

«Oh, buongiorno, avvocato. Sabato? Ma oggi è mercoledì.»

Mercoledì?

Oggi è mercoledì?

Eh no.

No, no, non ora.

Non sono nelle condizioni ideali per sopportare altri colpi di scena.

Ora basta.

Faccio buon viso a cattivo gioco e vado nel mio ufficio.

«Mamma, finalmente sei arrivata. Ma dove sei stata?»

E' mia figlia Lucia.

Che ci fa qui?

A quest'ora tarda poi.

Oh Dio, volevo evitare che mi vedesse in questo stato.

La frittata è fatta.

«Scusa se sono un po' in disordine Lucia, ma è stata una giornataccia. Ma tu,

cosa ci fai qui a quest'ora?»

«Ma tu non sei in disordine, mamma. Sei bellissima. E poi quest'abitino azzurro

ti sta benissimo.»

No, no, no.

Ho davvero l'abito azzurro addosso, quello che credevo di aver perso insieme

alla valigia.

Non ce la faccio più.

Che altro mi può capitare oggi?

«Dai preparati, mamma. Papà sarà a casa tra mezz'ora e ti vuole "pronta e in

ghingheri". Ha detto proprio così. Andiamo a cena fuori stasera.»

«Papà? Ma cosa dici, Lucia? Lo sai che papà... che papà non c'è più.»

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Letizia

Mi sta venendo da piangere.

Mia figlia, la mia bambina, la mia piccola Lucia.

Sta... sta diventando come sua madre.

Sta diventando...

No, mi rifiuto di accettare una simile realtà.

Tutto, posso accettare tutto, ma non questo.

Dio mio, non la mia creatura, no, ti prego.

Credo stia suonando il telefono, ma non me ne importa niente.

Lucia afferra il telefono: «Sì, papà. Sì, è qui. Ora te la passo.»

Mi passa la cornetta e io la prendo come un automa.

La appoggio all'orecchio e non credo a quello che sento.

«Amore, sei pronta allora? Ma dove sei stata? Sei sparita per due ore.»

E' la voce di Alberto.

E questo è troppo.

Perdo i sensi e cado come una pera cotta.

d) Lara, Arezzo, casa

Quando riprendo i sensi sono a casa, a letto.

Alberto è vicino a me e mi sta auscultando.

Mio marito.

E' vivo.

E' vivo ed è qui con me, si sta prendendo cura di me.

Mi guarda negli occhi e noto che la sua non è un'espressione preoccupata.

Si è accertato delle mie condizioni con una visita, scommetto, molto accurata e

ha evidentemente accertato che sto bene.

E infatti io sto bene.

Almeno fisicamente. 190

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Due amori Ma non riesco a capire.

Non capisco cosa succede, non capisco come mio marito, che ho perso sei anni

fa, sia ancora vivo.

Non capisco.

«Che giorno è oggi?»

L'ho chiesto ma ho paura di sentire la risposta.

Ho paura che mi dicano che siamo nel 1980, o anche prima.

Ma scarto subito l'idea perché Lucia allora aveva cinque anni e ora ne ha

senz'altro di più.

Siamo sicuramente nel 1986.

«Mercoledì» risponde Alberto.

Sintetico, come sempre.

Mi è sempre piaciuto anche per questo.

Ma io voglio sapere anche giorno, mese e anno.

Voglio sapere dove sono finita, dove mi sono "materializzata".

Mi stupisco di pensare parole o concetti simili.

Ma, cavolo, mi sto trovando in situazioni un po' troppo inverosimili.

E un po' troppo spesso, aricavolo.

«Mi prendi il giornale di oggi, Lucia?»

«Che hai stasera, Lara? Mi sembri un po' strana. E come ti senti ora?»

«Sto bene, caro. Sto bene. Un po' di stanchezza dovuta allo stress, penso.»

«L'ho sempre detto che lavori troppo. Lo sai che ho sempre pensato che si po-

trebbe vivere benissimo anche se lavorassi solo io. E non te l'ho mai chiesto,

ma non potresti valutare la possibilità di lasciare il tuo impiego?»

«Lo sai che il mio lavoro mi piace e che non lo faccio certo per aumentare le

nostre entrate.»

«Lo so, Lara. Ma almeno rallenta un po'. E adesso riposati.»

Arriva Lucia e porta con sé un giornale. 191

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Letizia

«E' di oggi?»

«Sì, mamma» risponde lei mentre me lo porge.

Mercoledì 7 maggio 1986.

Il giorno in cui Luca è venuto nel mio ufficio.

Luca.

Ma esisti davvero?

Oppure è stato tutto un sogno?

Perché quello che mi è successo potrebbe essere spiegato solo così.

Solo un sogno.

Un bellissimo sogno.

Ma che comunque non spiegherebbe il fatto che mio marito, che Alberto è vivo.

E' vivo nel 1986.

L'unica spiegazione, la meno stramba che trovo perché tutte le altre sono in-

concepibili, è che sono stata catapultata, non so come, in un'altra realtà.

Una realtà che non è né quella in cui ho amato profondamente Luca, anche se

solo per tre giorni, né quella in cui ho chiacchierato amabilmente con lui e con

sua moglie Letizia al bar, alla stazione Termini di Roma.

E neanche quella in cui stavo mandando a quel paese il direttore e il portiere

dell'albergo in cui ho lasciato la mia valigia con il mio abito preferito, quello az-

zurro.

Lo stesso vestito che mi sono trovata addosso in questa realtà.

E non sono passati tre giorni, ma solo due ore.

Scommetto che qui Luca non esiste, oppure è chissà dove.

E scommetto anche che, se andassi a Roma nell'albergo dove sono stata felice

con Luca, i due pinguini mi direbbero che è la prima volta che mi vedono.

O magari quei due non lavorerebbero lì, ma chissà dove.

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Due amori Questo è un mondo dove io sono felice con mio marito, che amo, che è il padre

di mia figlia e che è sempre stato vicino a me, un mondo in cui quel terribile

incidente non è mai avvenuto.

Ha continuato il suo lavoro, la sua missione, in ospedale e chissà in questi ul-

timi sei anni quante vite ha salvato.

Luca è stato solo un bel sogno, un sogno molto vivo nei miei ricordi, in verità.

Ma io sono la moglie di Alberto.

E Alberto è vivo.

E io lo amo.

Solo questo conta.

Nient'altro.

Noto solo ora mia madre.

Esce dalla cucina, evidentemente sta preparando qualcosa per cena.

«Non avevi detto che mi avresti portata a cena fuori?» chiedo a mio marito che

non mi ha lasciata un attimo.

«Stasera te lo scordi. Te ne stai qui buona a letto. Sarà per un'altra volta. E

domani, lo sai, sono di turno. Dopodomani forse.»

Mi stringe la mano e io provo un'intensa sensazione di benessere.

Sono qui con mio marito, che mi sta coccolando come faceva... come faceva

sempre prima di...

Ma cosa vado a pensare.

Sono qui con lui.

Luca non esiste più.

Sono con Alberto.

Non sono mai stata così felice in vita mia.

Chiudo gli occhi e mi rilasso.

Ascolto con poca attenzione le parole che mi rivolge Lucia e che mi sembrano

musica celestiale.

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Letizia

Almeno finché non capisco in pieno quello che mi sta chiedendo.

«Mamma, chi era quel bel signore che è venuto a trovarti oggi nel tuo ufficio?»

FINE

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Due amori I. Luca, Roma, sabato 10 maggio 2014, pomeriggio

[N.d.A.: Sembra proprio che la storia sia finita. E invece no. Il più bello deve

ancora venire.]

«Ciao mamma. Ciao Lucia. Entrate. Delia, ti prego, vuoi preparare del tè?»

«Ciao tesoro» dice mia madre baciandomi.

«Ciao architetto» aggiunge mia sorella con la sua solita aria strafottente.

«Non c'è bisogno che ti disturbi» dice mia madre rivolgendosi a Delia.

«Luca, Lucia e io usciamo a fare un po' di shopping, ma ti prometto di non

spendere troppo.»

«Ma tesoro, vuoi uscire proprio oggi? Mia madre...»

«Lasciale andare, Luca. Non vuoi stare un po' con me? Ci vediamo così poco»

ribatte la mamma prendendomi la mano.

Non capisco cosa sta succedendo.

La mamma che viene a trovarmi e si porta con sé Lucia che sarà stata in casa

mia non più di due volte.

Delia, che adora mia madre, invece di starsene qui a chiacchierare con lei, se

ne va a far spese con mia sorella.

E che mia sorella abbia fatto una fugace apparizione non mi sorprende affatto.

Anzi, sono rimasto sorpreso quando la mamma mi ha chiesto se poteva fare un

salto da me insieme a lei.

Ma Delia avrebbe fatto carte false per ciacolare un po' con la mamma.

Si vedono così poco.

Mia madre lavora spesso anche il sabato pomeriggio, purtroppo.

Sembra quasi che al Palazzaccio sia l'unica a lavorare.

La mamma interrompe i miei pensieri.

«Sono stata io a chiedere a Delia e a tua sorella di lasciarci un po' da soli. Ti

devo parlare.»

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Letizia «Ah, ecco. Lucia è venuta solo per andare per negozi con Delia. Ma tu cosa de-

vi dirmi di così importante? E perché hai praticamente mandato via Delia? Lo

sai che non ho segreti con lei.»

«Lo so. Ma quello che ho da dirti lo devo dire a te solo. Sarai poi tu a dirlo a

lei.»

Ha assunto un'espressione seria.

Ma non severa.

Cosa mai avrà da dirmi di così segreto?

Mia madre ha dei segreti con me?

«Ora siediti e ascoltami bene. Ma non interrompermi. Ti racconterò una storia.

Fa conto che sia una favola, come quelle che ti raccontavo da bambino. Alla fi-

ne, ti dirò perché te l'ho raccontata.»

Mi incuriosisce.

Una favola?

Come sarebbe a dire una favola?

Non ho più quattro anni.

«La storia comincia tanti anni fa. Tu non sei ancora nato. La protagonista è una

principessa giovane, bellissima e molto triste. Ha perduto tutte le persone che

ama ed è rimasta sola, con una figlia. Poi un giorno arriva nella sua vita uno

sconosciuto, un bellissimo principe che viene dal futuro.»

Un breve silenzio come se volesse prendere fiato e prosegue raccontandomi di

viaggi nel tempo e di altre stranezze varie.

Devo dire che è una storia molto originale e mi chiedo da dove la mamma l'a-

vrà tirata fuori.

Chissà chi mai gliel'avrà raccontata.

O dove diavolo l'avrà mai letta.

Non se l'è certo inventata.

E' una strana storia fantascientifica dove mancano solo mostri intergalattici.

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Due amori Il principe che viene dal futuro, la principessa che ritorna in un altro passato,

sostituzioni di persona, universi paralleli, roba del genere.

Ma è anche una storia d'amore.

E la principessa mi fa molta tenerezza.

Ne ha passate davvero tante, poverina.

Prima perde il marito in un terribile incidente, poi trova il grande amore della

sua vita.

Che in un'altra vita è stato il suo consorte.

Ma dopo tre soli giorni lo perde.

Svanisce letteralmente e al suo posto si ritrova un altro.

Che è lui ma non è lui.

E' una storia stranissima.

Sono molto curioso di sapere come va a finire.

E sono anche curioso, molto curioso, di sapere perché la mamma me l'ha volu-

ta raccontare.

E soprattutto perché l'ha voluta raccontare solo a me.

Perché si è portata dietro Lucia che ha praticamente sequestrato Delia?

Perché Delia non poteva ascoltare questa storia?

«Alla principessa nasce poi un bimbo» prosegue mia madre.

«Lei all'inizio crede che sia il figlio di suo marito. Del suo marito ritrovato. Ma

non è così. Assomiglia troppo al principe sconosciuto. Il bambino è suo figlio. Il

frutto di un amore durato pochissimo. Man mano che cresceva, il bambino as-

somigliava sempre più a lui.»

Si interrompe.

«E oggi, quando lo guarda, rivede lui. Il suo bellissimo principe che ha continu-

ato ad amare per tutta la vita.»

«Che storia bellissima. Ma dove l'hai presa? Non credo che...»

Mi interrompe.

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Letizia

«Quel figlio sei tu Luca. E porti il suo nome. Ti ho chiamato Luca come lui.»

Mi sento come se il cuore avesse smesso di battere.

Non riesco a muovere un muscolo né a dire una parola.

«Mio marito non è tuo padre, Luca.»

Un attimo di silenzio.

E lei incalza.

«Tuo padre è l'architetto Luca Lorenzi. E tu devi assolutamente disdire l'appun-

tamento che hai con lui dopodomani.»

II. Luca Lorenzi Jr.

Tutto il mondo mi è crollato addosso.

Avrei creduto a qualsiasi cosa mi avesse detto la mamma, anche alla più inve-

rosimile.

Ma questa... questa non è inverosimile.

E' impossibile.

E mi stupisco della mamma.

Avrebbe potuto trovare mille storie più plausibili per cercare di spiegarmi i mo-

tivi del suo tradimento.

Ha tradito papà.

Non posso crederci.

E io non sono il figlio di colui che ho sempre creduto mio padre.

Sono il figlio di... di uno dei migliori architetti di Roma.

Quello che stimo di più e che penso sia il più in gamba di tutti.

E io questa mattina ho un appuntamento con lui e spero che mi prenda a lavo-

rare con lui.

O meglio speravo, perché ora non so più quello che voglio.

Ho un appuntamento con mio padre.

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Due amori E lui non sa che sono suo figlio.

Ma perché?

E mio padre, cioè il marito della mamma, non lo sa neanche lui.

Lei non glielo ha mai detto.

Ma perché?

Tutto questo è assurdo.

Mia madre è sempre stata come un angelo.

Non riesco proprio a vederla tra le braccia di qualcuno che non sia papà.

Non ha neanche mai accettato di ballare con qualcun altro che non fosse lui.

Figuriamoci... figuriamoci...

Non riesco neanche a pensarlo.

E poi, una persona mai vista prima e con la quale è stata solo tre giorni.

Se è vero almeno quello in tutte le panzane che mi ha raccontato.

Che storia pazzesca.

Non riesco a credere che la mamma possa essersi inventata una storia simile.

E' uno dei migliori magistrati della capitale.

Intelligente e razionale, insomma con i piedi per terra.

E' talmente assurdo il fatto che mi abbia raccontato quella favola, che mi viene

quasi da pensare che sia vera.

Ma no, non è possibile.

Eppure non è da lei comportarsi così.

Non è da lei né il tradimento né raccontare panzane e, nell'ipotesi remota che

possa raccontarne qualcuna, saprebbe certamente trovare una storia migliore.

Una storia che potesse in qualche modo giustificarla e che fosse credibile.

Chissà quante ne ha sentite in tribunale di menzogne plausibili e scagionatrici.

E' una vera esperta in materia.

Ma allora perché inventarsi una... una storia del tipo "ai confini della realtà"?

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Letizia

L'unica spiegazione, la più logica, sarebbe che non ha mentito e che quello che

ha raccontato è tutto vero.

Ma le avrei creduto di più se mi avesse detto di aver visto un marziano.

A dire il vero, non le avrei creduto lo stesso, però non sarebbe stata una fan-

donia così grossa.

Sono arrivato.

In questo palazzo c'è lo studio dell'architetto Lorenzi.

Giro dieci minuti buoni in cerca di un parcheggio e alla fine lo trovo.

Prendo la mia "faretra" che contiene il mio prezioso progetto, quello che avevo

intenzione di mostrare a Lorenzi, e mi avvio verso il portone.

Lo studio dell'architetto è stratosferico.

Ci sono due segretarie che sembrano entrambe indaffaratissime.

Non so a quale delle due rivolgermi.

Veramente non so proprio cosa fare.

Per fortuna una delle due, appena mi vede, si rivolge a me: "«Lei è l'architetto

Roncati? Venga, l'accompagno dall'architetto Lorenzi. La sta aspettando.»

Sto per conoscere mio padre.

Ommamma.

Mi tremano le gambe.

Fino a tre giorni fa il motivo sarebbe stato un altro.

L'emozione, l'insicurezza, la soggezione.

Anche se in realtà sono molto sicuro di me, trovarmi di fronte al mio idolo mi

avrebbe sicuramente fatto perdere un pochino della mia spavalderia.

Ma ora il motivo è ben altro.

Ho il terrore di trovarmi di fronte a un perfetto sconosciuto che ho scoperto da

poco si tratti in realtà di mio padre.

Non so neanche se avrò il coraggio di dirglielo.

E' la prima volta, da quando avevo i calzoni corti, che non so cosa voglio.

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Due amori Penso alla mamma e a quello che mi ha fatto.

Penso a papà che non sa niente.

E penso anche a questo mio padre naturale che, anche lui, non sa niente.

E' una situazione che non augurerei neanche al mio peggior nemico, se ne a-

vessi qualcuno.

Ed è capitata proprio a me.

La segretaria bussa a una delle porte nell'atrio, la più imponente.

«Avanti.»

La voce che sento è calda e profonda.

Se si fosse dato alla lirica, sarebbe un ottimo basso.

La segretaria apre la porta, mi fa entrare e mi annuncia: «E' l'architetto Ronca-

ti...»

«Sì, sì, lo faccia accomodare. Sono subito da lui.»

Sta guardando dei documenti e, anche se è di profilo, noto una somiglianza in-

credibile.

Sono io con una ventina d'anni di più.

Avevo già visto qualche sua immagine nelle riviste di architettura e su qualche

quotidiano.

Ma vederlo di persona è tutta un'altra cosa.

Appoggia i documenti che stava leggendo sulla sua scrivania e alza lo sguardo

su di me.

Non posso non notare la sua espressione di stupore.

E noto anche che è impallidito.

Devo essere proprio identico a lui quando aveva la mia età.

«Ciao papà.»

Credo di averlo steso perché è impallidito ancora di più.

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Letizia III. Ma chi sono io?

La porta si è aperta dietro di me.

O almeno così mi è sembrato perché quando mi volto istintivamente la vedo

chiusa e non c'è nessuno nella stanza tranne mio padre e me.

«Allora Luca, mi hai portato il tuo progetto, vedo. A meno che la tua "faretra"

non sia vuota e tu l'abbia portata solo perché ci sei affezionato.»

Ma... ma... che diavolo...

Sembra un altro.

Non è per nulla pallido e ha un'espressione normalissima nel viso.

Si comporta come se vedermi qui, nel suo studio, sia la cosa più normale del

mondo.

Vedere me, cioè suo figlio, un figlio che non sapeva di avere.

Cribbio.

I suoi occhi dovrebbero essere per terra dallo stupore.

E poi come fa a sapere della "faretra"?

«Come fa a sapere che chiamo "faretra" il mio portadocumenti cilindrico? Lo

sanno solo i miei genitori e mia sorella Lucia.»

«No no. Lo sanno tutti. Gli architetti miei collaboratori, i geometri, le segreta-

rie. Lo sa anche qualcuno dei clienti. E tu sai anche che ti chiamiamo "l'india-

no" per questo. E cos'è questa novità di darmi del lei?»

Non ho parole.

«Piuttosto, perché parli di me in terza persona? Sono o non sono tuo padre?»

«Certo che lo è. Ma io credevo che... che lei non lo sapesse.»

«Ma che ti prende, Luca? Dove pensavi che fossi quando sei nato? Chi credi

che ti abbia ninnato quando la notte frignavi come una rock star? Credi che a-

vrei lasciato tua madre da sola alle prese con la piccola peste che eri?»

Ma che mi sta succedendo?

Dove sono finito?

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Due amori Questa è una gabbia di matti.

«Su, piantala e fammi vedere questo benedetto progetto.»

Sento la porta che si apre dietro di me.

«Ciao, indiano.»

E' mia sorella Lucia.

«E tu cosa diavolo ci fai qui?»

«Luca, che hai, la febbre? Io ci lavoro qui. E da molto più tempo di te.»

Ora ci si mette anche lei?

«Ma tu lavori in una casa di moda e stai per aprire un atelier tutto tuo. Stavi

pensando anche alla possibilità di andare a vivere a Milano.»

«Papà, cosa gli hai dato? Lo sai che l'alcool la mattina presto gli fa male. E'

quasi astemio e tu lo fai bere così, a quest'ora, poi.»

Mi viene voglia di strozzarla.

«Come l'hai chiamato? Papà? Lui non è tuo padre. Lui è mio padre.»

Sottolineo "mio" quasi gridando.

«Cosa vuoi, l'esclusiva? Lui è tuo padre, io sono tua sorella, ergo io sono sua

figlia. Si chiama sillogismo. Mai sentito parlare? E poi quando tu sei nato, lui

era mio padre da quasi dodici anni.»

«Un corno. Tu sei Lucia Roncati. Io sono Luca Roncati. Ma Roncati non è il co-

gnome del mio padre naturale. Mio padre è Lorenzi. E' lui. Ma che vi prende a

tutti quanti?»

«Senti, Luca. Ora basta. Se è uno scherzo è di pessimo gusto e quindi smettila.

Se invece fai sul serio, dillo subito perché hai urgente bisogno di uno strizza-

cervelli. E ora fammi vedere il tuo progetto.»

La voce dell'architetto Lorenzi è dura e perentoria.

Ha quasi urlato.

Non ho più né la voglia né la forza di continuare.

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Letizia

Il mio padre naturale, che non dovrebbe conoscermi, dice che mi ha cullato

quando ero piccolo e mia sorella, che ha intrapreso la carriera di stilista di mo-

da, dice invece di lavorare qui.

Dice di essere figlia di Lorenzi e quindi sarebbe mia sorella e non la mia sorel-

lastra.

Quindi anche lei è figlia illegittima?

Perché è la fotocopia di mia madre Lara e non può essere figlia della moglie di

Lorenzi che, come si chiama? ah sì, Letizia.

Ma cosa mi viene in mente?

Sto davvero diventando pazzo.

Gli porgo meccanicamente la mia "faretra".

Lui la prende, la apre, e sfila il rotolo dei documenti.

Gli getta un'occhiata ed esclama: «Ah, bene. Mi piace. Specialmente questa

scala interna concepita come se fosse...»

«Scala interna? Quale scala interna?»

Gli strappo quasi i miei disegni dalle mani.

«Ma questi non sono i miei. Questo non è il mio progetto. Questo...»

Poi noto la mia sigla in basso a destra su ogni foglio.

E' la mia. E' inconfondibile. E anche lo stile dei disegni è identico al mio.

Se non fossi assolutamente sicuro del contrario, direi che è tutta roba mia.

Ma che succede?

«Luca, che vuoi dire? Che il progetto non è tuo? Che te l'ha passato qualcun al-

tro? Lo stile è il tuo, ma se l'idea è di qualcun altro...»

E' talmente furioso che non termina neanche la frase.

Ommamma.

All'improvviso vedo sulla scrivania dell'architetto, chiunque egli sia, una cornice

con il ritratto della mamma.

«Cosa ci fa la foto di mia madre sulla sua scrivania?»

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Due amori «Luca, ti ho già detto di smetterla. Il ritratto della mamma è lì da vent'anni e

tu l'hai visto mille volte.»

Si fa ancora più nero.

«La mamma? Che vuol dire? Sta parlando come se mia madre fosse sua mo-

glie.»

«E cosa dovrebbe essere, la mia amante?»

Sento che sta proprio perdendo la pazienza.

Allora siamo in due.

Io l'ho già persa da un pezzo.

«Sua moglie si chiama Letizia. Quella è mia madre, si chiama Lara, Lara Ron-

cati, Lentini da nubile. E lavora al Palazzaccio. E' un magistrato, lo sapeva?»

«Ma va'?» risponde mia sorella con sarcasmo.

Stavo per dirle "non parlavo con te", quando mio padre mi precede.

«Letizia era la mia fidanzatina al liceo. Lo sa tutta la famiglia. Tra me e lei non

c'è mai stato nulla di serio. Tua madre si chiama Roncati da sposata? Perché

non le telefoni al Palazzaccio e non chiedi a lei come si chiama?»

Mi infilo una mano in tasca per prendere il cellulare, ma non lo trovo.

Possibile che l'abbia dimenticato a casa?

Oppure che l'abbia perso?

Non me ne frega niente.

Prendo il telefono dalla scrivania e chiamo il centralino del Palazzo di Giustizia.

«Buon giorno. Sono il figlio di Lara Lentini. Può passarmi mia madre, per corte-

sia? Il suo interno è il 3277.»

«Lei è Luca, l'architetto?»

«Si» rispondo.

«Ora gliela passo. Ma l'interno di sua madre non è quello, è il 3795.»

«Come sarebbe a dire...»

Ma sento che non è più in linea e sta trasferendo la chiamata.

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Letizia

«Luca, cosa c'è, tesoro? Stai bene?»

La voce dolce di mia madre ha sempre avuto un effetto rassicurante su di me.

Potrebbe anche cascarmi il mondo addosso che non mi importerebbe.

Ma da un paio di giorni ce l'ho con lei.

E mi sembra naturale.

«Sono nello studio di... di papà e...»

«Come tutti i giorni, lo so. Mi vuoi dire cosa è successo e perché mi hai chia-

mato, tesoro?»

Ommamma, che poi è lei.

«Come sarebbe a dire "come tutti i giorni"? E' la prima volta che metto piede

qui.»

«Senti, Luca. Io ho molto da fare e non ho tempo da perdere con i tuoi scherzi.

Passami papà, ti prego.»

«Come sarebbe a dire "papà"? Vuoi dire...»

«Voglio dire papà. L'architetto Luca Lorenzi. Il padre di tua sorella. Mio marito.

Hai capito ora?»

Mi sento male e sento che mi mancano i sensi.

L'ultima cosa che sento è la voce della mamma che ripete più volte il mio no-

me.

IV. La famiglia Lorenzi

Cribbio, sono svenuto.

Quando rinvengo sono tutti attorno a me.

La mamma, Lucia, mio padre.

C'è anche Delia, la mia fidanzata che prima o poi devo decidermi a sposare.

Sono già tre anni che viviamo insieme.

Sono su un divano nello studio di papà.

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Due amori E ricordo.

Ricordo tutto.

Anche troppo.

E capisco.

Capisco tutto.

Mi è successo quello che è successo alla mamma.

Sono passato da un mondo all'altro.

La mamma non mentiva.

Non mentiva e non era pazza.

E la sua storia, per quanto assurda e impossibile, era la verità.

Ora lo so.

Lo so perché ci sono passato anch'io.

Anch'io ho viaggiato attraverso dimensioni diverse.

Ma per me è differente.

Io ricordo tutto.

Ricordo la mamma che sabato mi ha fatto quell'incredibile rivelazione.

Ricordo mia sorella, mio padre Alberto, Letizia, la moglie dell'architetto Lorenzi.

Ricordo Delia, "sequestrata" da Lucia per permettere alla mamma di parlarmi

con comodo.

Ricordo tutta la mia vita, a partire da Arezzo, dove sono nato, e successiva-

mente il trasferimento di tutta la famiglia a Roma dove mio padre era primario

in ospedale, nel reparto "Chirurgia Uno", mia madre magistrato al Palazzaccio

e mia sorella collaboratrice in una casa di moda, in attesa di aprire un atelier

tutto suo, cosa che era in procinto di fare.

Ma ricordo anche un'altra mia vita.

Ricordo di essere nato a Roma, ricordo mio padre, l'architetto più in gamba del

mondo, mia madre e Lucia, architetto pure lei nello studio di papà.

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Letizia

E Letizia che era solo la fidanzatina di papà che, era vero, non ha mai avuto

una relazione "piena" con lei perché si è innamorato della mamma, che non ha

mai tradito.

E la mamma che non ha mai tradito papà.

E che io non sono un figlio illegittimo e che sono tre anni che lavoro con papà.

Mamma, perdonami.

Perdonami di aver dubitato di te.

Non avrei dovuto.

Non avrei dovuto neanche se tu mi avessi detto di aver visto un elefante vola-

re.

Il bene che ti voglio avrebbe dovuto fugare ogni dubbio, anche il più legittimo.

Non ti voglio bene abbastanza, mamma.

Almeno non quanto meriti.

Perdonami.

Ma sai che ti voglio bene, mamma, e ora te ne voglio sicuramente di più.

Ora che so cosa hai dovuto sopportare nelle due vite che hai vissuto.

Ma ora, in questa terza tua vita, hai tutto quello che meriti.

E io non vorrei ricordare la mia vita precedente, quella in cui ho dubitato di te,

mamma.

Vorrei ricordare solo questa.

Ricordo il progetto di cui andavo tanto orgoglioso, quello che mi aveva com-

missionato papà e che io gli ho fatto un po' sospirare, per la verità.

Quello che era pronto da giovedì sera e che, scommetto, papà lo sapeva.

Ma faceva finta di essere impaziente perché lui è così.

Ricordo due vite e so che sono vere tutte e due.

So che né l'una né l'altra non sono state un sogno.

Ho attraversato due dimensioni, come papà e come la mamma.

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Due amori Solo che io ricordo tutto.

Loro no.

Solo la mamma ricordava il suo amore con l'architetto sconosciuto, ma non ri-

cordava nulla di papà e dei sei anni passati con lui, quelli dopo l'incidente, che

non c'era mai stato, in cui lui perse la vita.

Io ricordo tutto.

Io ho vissuto due volte i miei 27 anni.

Ricordo anche il momento preciso del "passaggio".

Sono arrivato nello studio di papà e ho salutato le due segretarie.

Ho aperto la porta dell'ufficio e sono entrato richiudendo la porta alle mie spal-

le.

L'altro me era già lì e papà, vedendo che era la copia di sé stesso e sentendosi

chiamare "papà" da uno sconosciuto uguale a lui, era impallidito come uno

straccio bianco.

Ma in realtà non l'ho visto io, l'ha visto l'altro me.

Che poi sono sempre io.

Ma ora mi trovo nella realtà in cui mio padre si chiama come me e mia madre,

il magistrato più bello di Roma, è sua moglie.

O dovrei dire più bella.

«Luca, tesoro, come ti senti?»

E' la mamma.

«Come vuoi che si senta, è brillo da far paura.»

Mia sorella è sempre la stessa.

Ma mi vuole un bene dell'anima e guai a chi le tocca il fratellino.

«Amore, che ti è successo?»

Delia mi adora nel vero senso della parola.

Mio padre mi guarda taciturno, ma il suo viso denota tutta la sua preoccupa-

zione.

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Letizia

«Come volete che mi senta, ho avuto solo un mancamento. La colpa è di papà

che mi fa lavorare troppo. Sono giorni che mi assilla con quel suo progetto.»

Sto scherzando naturalmente e papà se n'è accorto.

E forse anche la mamma.

Delia poi sa che ho finito da un pezzo il progetto.

Forse l'unica che ci casca davvero è Lucia.

«Canaglia che non sei altro. So benissimo che l'hai già pronto da almeno tre

giorni.»

Papà sta per aggiungere qualcos'altro.

«Beh, io ci ho provato.»

«Ma cosa ti è successo, tesoro? Papà mi ha raccontato che gli hai detto un sac-

co di cose strane, che gli hai detto di chiamarti Ronaldo...»

«Ronaldo? Magari, mamma. Sarei ricco sfondato.»

Rido.

La mamma non capisce niente di calcio.

«Roncati, mamma. Ha detto Roncati.»

E' quell'impicciona di mia sorella.

«Roncati? E chi è? Sei sicura che non ho detto Messi?»

La prendo un po' in giro.

Lo faccio sempre.

«Ridi, ridi. Ci hai fatto prendere un bello spavento.»

Poi c'è Delia che chiude in bellezza.

«Roncati? Io conosco un Roncati. Il professor Alberto Roncati. E' il primario del

reparto "Chirurgia Uno" nell'ospedale dove lavoro io!»

FINE

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Due amori

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Letizia

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Personaggi 

 

Luca Lorenzi  architetto 

Letizia Larini  stilista di moda, moglie di Luca 

  stilista di moda, nubile 

Lara Lentini  magistrato, moglie di Luca  

  avvocato, moglie di Alberto 

Alberto Roncati  medico, marito di Lara 

  primario del reparto "Chirurgia Uno" 

Licia Lorenzi  figlia di Letizia e Luca 

Lucia Roncati  figlia di Lara e Alberto 

Lucia Lorenzi  architetto, figlia di Lara e Luca 

Matteo Lorenzi  figlio di Lara e Luca 

Andrea Lorenzi  figlio di Lara e Luca 

Luca Roncati  architetto, figlio di Lara e Alberto 

Luca Lorenzi Jr.  architetto, figlio di Lara e Luca 

Delia  fidanzata di Luca Roncati/Lorenzi 

Madame  proprietaria del negozietto nel Marais 

Mademoiselle  proprietaria del negozietto nel Marais 

Paolo Guerrini  architetto, socio di Luca 

Signora Tina  segretaria di Luca e Paolo 

Signora Lorenzi  madre di Luca 

Signor Lorenzi  padre di Luca 

Giulio  vigile urbano 

Don Marino  sacerdote  

Signor Martini  portiere della palazzina romana 

Primo pinguino  portiere d'albergo 

Secondo pinguino  direttore d'albergo 

Berta  segretaria di Lara 

Altri personaggi minori: 

madre di Letizia, avvocati, geometri, segretarie, ristoratori, ecc. 

   

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Sintesi cronologia avvenimenti 

 

7 settembre 1951  nasce a Cremona Luca Lorenzi 

autunno 1951  nasce a Cremona Letizia Larini 

16 ottobre 1951  nasce ad Arezzo Lara Lentini 

12 dicembre 1963  la dodicenne Lara torna da scuola 

settembre 1968  Luca e Letizia sono fidanzati 

settembre 1968  la famiglia di Lara si trasferisce a Cremona (*) 

ottobre  Luca e Letizia conoscono Lara al liceo 

luglio 1970  Luca, Letizia e Lara conseguono la maturità classica 

autunno 1970  Luca si iscrive alla facoltà di architettura 

  Letizia si iscrive a economia e commercio 

  Lara si iscrive a legge 

  Luca, Letizia e Lara trovano un'occupazione part‐time 

           nello studio di un architetto, in un atelier e in uno studio legale 

14 settembre 1974  Luca e Lara si sposano 

  Luca e Letizia si sposano 

negli anni seguenti  Luca, Letizia e Lara si laureano 

novembre 1975  nasce Licia 

autunno 1975  nasce Lucia 

negli anni seguenti  nascono Matteo e Andrea 

  Luca rileva lo studio insieme con il suo socio Paolo Guerrini 

3 maggio 1986  Luca, Letizia e Licia sono nel Marais 

10 maggio 1986  Luca incontra Lara 

  Lara ritrova Alberto 

settembre 1986  Luca si trasferisce a Roma 

1987  Letizia apre un suo atelier a Cremona 

successivamente  Letizia apre un atelier a Milano 

3 maggio 2014  Luca e Lara sono nel Marais 

10 maggio 2014  rivelazioni di Lara Roncati 

12 maggio 2015  Luca Jr. 

 

(*)  caratteri in corsivo:  eventi relativi alla prima realtà 

  caratteri normali:  eventi in comune e relativi alla realtà alternativa 

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Letizia

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Capitolo 2 La luce nelle tenebre

«Oggi fa un caldo terribile. Sono qui da appena tre giorni e già sento il biso-

gno di una bella birra gelata. Magari anche due o tre.»

«Vecchio cammello, lo sai che nella nostra riserva non trovi né whisky né birra.

Se hai sete, non c'è niente di meglio dell'acqua fresca e pura. Ce n'è quanta ne

vuoi.»

«Ma io non ho sete, volevo solo rinfrescarmi un po'.»

«Allora perché non raggiungi Kit e fai un bel bagno nel torrente?»

«Ma stai scherzando? Un po' più a monte ci sono le rapide e l'acqua di quello

stramaledetto torrente è tremendamente fredda. Vuoi farmi venire un acciden-

te? Lo sai che i miei reumatismi poi non mi farebbero dormire la notte.»

«Quante storie! Hai una salute di ferro e sospetto che i tuoi reumatismi siano

soltanto una scusa per giustificare il tuo amore per gli agi e le mollezze.»

«Vecchio satanasso! Se fosse per te, invece di cercare un comodo letto, si pas-

serebbe tutte le notti all'aperto con una pietra come cuscino.»

«Ciao, zio Kit. Perché non ti fai un bel bagno anche tu? Con questo caldo non

sai come si sta bene a mollo nelle acque fresche del torrente.»

«Eccolo lì! Non basta il padre ad attentare alla mia vita. Ora ci si mette anche il

figlio!»

«Non ci far caso, Kit. Questo brontolone ama la vita comoda e ha paura di un

po' di acqua fresca.»

«Sì, sì, prendi pure in giro. Ma ricorda che anche tu non sei più un ragazzino. E

prima o poi gli acciacchi verranno anche a te.»

Kit si infila la camicia e si dirige verso il corral.

«Lo sai che tuo figlio ha collezionato un bel numero di ferite? Scommetto che

neanche tu alla sua età ne avevi così tante.»

«Già.»

«Vedo però che le ultime due, dopo quella brutta storia con gli Hualpai, si sono

rimarginate in fretta.»

«Piccolo Falco è giovane, ma è già un grande guerriero. Sarebbe tempo che il

suo nome cambiasse in Falco Nero, Blackhawk, degno nome del figlio di Aquila

della Notte.»

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Letizia La voce di Tiger che arriva alle loro spalle li coglie quasi di sorpresa.

«Falco Nero?» ripete Carson con meraviglia.

«E' il nome di un grande guerriero, quale è diventato da molte lune.»

«Che ne dici, Tex? In fondo Tiger ha ragione. Ormai il 'Piccolo' Falco è diventa-

to grande.»

«Penso che debba essere lui a decidere. Ma non credo che debba per forza

cambiare il nome. Piccolo Cane è un vecchio e saggio capo navajo il cui valore

è noto in tutta la riserva. E non ha cambiato il nome che gli ha dato suo pa-

dre.»

«Bah! Era solo un'idea. Però Falco Nero non è niente male.»

Kit li raggiunge portando con sé due cavalli sellati.

«Chi è Falco Nero?»

E' Tiger Jack a rispondere alla domanda.

«Sei tu, Kit. Forse è ora che Piccolo Falco diventi Falco Nero. E' il degno nome

di un grande guerriero.»

«Non ci avevo mai pensato. Ma sono molto affezionato al nome che mi ha dato

mia madre. Ci penserò su, comunque. Ora vado. Ci vediamo fra quattro o cin-

que giorni.»

«Ti accompagno fino alla roccia rossa. Tu viaggi leggero e attraversare le terre

aride non è uno scherzo. Un otre di acqua in più ti farà comodo.»

«Grazie, Tiger. Ciao pa', ciao zio Kit.»

Kit e Tiger si allontanano.

«Quattro o cinque giorni? E dove va?»

«In città.»

«In città? E a far cosa?»

«Va a trovare la nuova maestrina.»

«La maestrina? Kit ha una ragazza?»

«Quante domande, vecchio brontolone!»

«Sei tu che ti fai tirare le parole dalla bocca. Raccontami tutto e io non farò più

domande.»

«Cosa vuoi che ti dica. L'ha vista solo una volta e le ha promesso di tornare in

città a trovarla. E' un po' presto per dire che ha la ragazza, non ti pare?»

«Com'è? E' carina?»

«Altre domande. Si, è carina ed è anche simpatica. Ha studiato all'Est, ma cre-218

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La luce nelle tenebre do che sia nata a El Paso. Da genitori messicani, mi pare.»

«Matusalemme ballerino! Se diventa una cosa seria, saranno guai.»

«E perché?»

«Ma perché il futuro di tuo figlio è qui, alla riserva. Prima o poi prenderà il tuo

posto, sia come capo di tutto il popolo navajo, sia come agente indiano. Lo sai

che senza una guida autorevole i tuoi Navajo sarebbero in serie difficoltà.»

«Già. I bianchi si fanno sempre più invadenti e vogliono sempre nuove terre.»

«Il posto di tuo figlio è qui. Deve proteggere il suo popolo. Sei sicuro che una

ragazza bianca sia disposta a venire a vivere nella riserva? Aggiungi poi che ha

vissuto nel 'civilizzato' Est e il quadro è completo.»

«Ma è nata all'Ovest. I suoi, te l'ho detto, credo siano messicani. Tra l'altro, lei

cavalca meglio di te.»

La sua faccia però è un po' pensierosa.

Dopotutto Carson non ha tutti i torti.

«Staremo a vedere. Kit ha la testa sulle spalle. Sa quel che fa. E se la cosa di-

venterà più seria, penserà sicuramente a quello che tutto ciò comporta.»

Nel frattempo Tiger ha preparato il suo cavallo ed è pronto ad accompagnare

Kit.

«Allora ciao, figliolo. E se pensi di trattenerti qualche giorno in più, manda un

Navajo ad avvertirmi. Ce n'è sempre qualcuno in città.»

«Sì pa'. Mi dai qualche dollaro per...»

«Certo, Kit. Ti bastano 50 dollari?»

«Sono anche troppi, pa'. Lo sai che all'hotel abbiamo un conto aperto. Non a-

vrò bisogno di molto.»

«Arriva qualcuno che ha molta fretta. Grane in vista.»

«C'è posta per papà e per te, zio Kit.»

«Come puoi esserne sicuro?»

«Semplice. Ha un cavallo di scorta e viaggia leggero. E poi riconosco in lui Pu-

ma Veloce. E' lui che di solito porta la posta.»

«E' proprio lui. Ora lo riconosco anch'io. E' un giovane guerriero del villaggio di

Orso Macchiato. Grane in vista, ripeto.»

«Sei sempre il solito pessimista. Aspetta almeno di leggere le notizie.»

«Tizzone d'inferno. Quando mai la posta ci ha portato buone notizie? Grane,

solo grane. Sempre e solo grane.» 219

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Letizia Il messaggero scende senza neanche aspettare che il cavallo si fermi e conse-

gna a Tex un foglio ripiegato.

Dopo averci dato una rapida occhiata, Tex consegna la lettera a Carson.

«Viene dal comando. Hanno una brutta gatta da pelare con una banda di rapi-

natori. Non ti sei sbagliato, vecchio cammello.»

Carson legge a sua volta la lettera.

«Per la barba di Matusalemme. Come al solito, quando non sanno più dove an-

dare a sbattere, rifilano la rogna a noi.»

«Sembra che sia gente ben organizzata e molto astuta. Sanno sempre dove e

quando c'è molto denaro e non lasciano tracce. Ma il problema ora è un altro.

Io non mi posso muovere prima di una decina di giorni, lo sai.»

«Si lo so. Hai il raduno annuale dei capi. Vengono da tutta la riserva e per al-

cuni il viaggio dura quasi una settimana. Impossibile rimandare.»

«Già. E la cosa sembra urgente. Dobbiamo metterci in contatto con il comando

per avere gli ultimi sviluppi e avere un punto di partenza.»

«E' vero. Se arriviamo troppo tardi sulla scena dell'ultima rapina, sarà difficile

se non impossibile trovare qualche traccia. Ma non ti preoccupare. Vado io da

solo e tu mi raggiungi quando avrai finito.»

«Sai che potrebbero passare anche molti giorni. Spero che non succeda, ma

potrebbero esserci dei dissidi da appianare. Ci sono un paio di capi che sono

delle teste calde.»

«Non preoccuparti, ti dico. Per rintracciarci useremo il solito sistema. In ogni

città in cui mi fermerò, dirò allo sceriffo quale sarà la mia prossima meta e, se

ci saranno novità, gli lascerò un biglietto per te.»

«Allora OK. Io ti raggiungerò il più presto possibile.»

«Bene. Kit, se mi aspetti, vengo con te fino a Gallup.»

«Non ci penso nemmeno. Mi rallenteresti. Voglio arrivare prima di mezzogiorno

di domani.»

«Ma è impossibile. Dovresti cavalcare tutta la notte. Anche se tu ce la facessi,

il tuo cavallo non potrebbe neanche se avesse le ali.»

«Non ho Pegaso come cavallo, ma mi porto un cavallo di scorta e, al villaggio

di Orso Macchiato, farò il cambio. Quattro cavalli. Ce la farò.»

«Pegaso? E chi è?»

«E' il cavallo alato di Bellerofonte, zio. Non sei andato a scuola?» 220

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La luce nelle tenebre «Piccolo impertinente. Ai miei tempi non serviva andare a scuola. Si doveva

saper andare a cavallo, cacciare e sparare più veloci dei tuoi avversari.»

Ma Carson non fa neanche in tempo a finire la frase che Kit, balzato in sella a

uno dei suoi due cavalli, parte al galoppo seguito da Tiger.

«Non te la prendere, Kit. E' giovane.»

«Già i giovani d'oggi non hanno più rispetto per i capelli grigi.»

«Lo sai però che ti è molto affezionato e che farebbe qualsiasi cosa per te.»

«Kit ha detto che farà una sosta al villaggio di Orso Macchiato? Non è lui che

ha una figlia della stessa sua età?»

«Sì. Perché?»

«Uhm. Ho sentito dire che è molto bella.»

«Sì. Suo padre le ha dato nome Luna d'Argento perché la sua pelle è molto

chiara, anche più di quella di Kit che ha sangue bianco nelle vene. Ma dove

vuoi andare a parare, vecchio cammello?»

«Chi, io? Stavo solo pensando che Orso Macchiato sarebbe molto onorato di

dare sua figlia in sposa a Piccolo Falco, il figlio di Aquila della Notte. E anche

lei, ho visto come lo guardava ogni volta che si capitava al loro villaggio.»

«Non avevi detto che 'hai sentito dire che è molto bella'? Sembra invece che tu

abbia visto la sua bellezza con i tuoi occhi!»

«Beh, sì. Però l'ho anche sentito dire. E ho sentito dire che, oltre che bella, è

anche molto in gamba. E sarebbe un'ottima moglie per Kit.»

«Ma lo vuoi fare sposare per forza adesso? Se sapesse che stai mettendo il na-

so nei suoi affari...»

«Ma io non sto mettendo il naso da nessuna parte. Kit non è solo tuo figlio, è

anche il mio figlioccio. E' naturale che mi interessi a lui. Io voglio solo il suo

bene, lo sai.»

«Uhm...»

«Hai poco da grugnire, satanasso. Lo sai che Luna d'Argento è più adatta di

qualsiasi altra donna bianca.»

«Staremo a vedere, ti ripeto. Tu piuttosto, sembra che non hai molta fretta di

partire.»

«Parto, parto. Ma non prima di essermi riempito la pancia. Ho una fame da lu-

po e sento un profumino di arrosto...»

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Letizia

«Quella è la roccia rossa, Kit. Il mio viaggio finisce qui.»

«Ritorni subito al villaggio?»

«No. Mi fermo un po' per far riposare il mio mustang. Poi ritornerò con tutta

calma. Non ho la fretta che hai tu.»

«Ma io non ho fretta. Volevo solo risparmiare un po' di tempo per stare un po'

di più in città.»

«Ah, allora è diverso.»

«Non ti ci mettere anche tu, ora. Ci sono già mio padre e Carson che mi pren-

dono in giro.»

«Uhm! Fai una sosta anche tu, ne avrai bisogno. Ne approfittiamo per bere un

po'. E anche i cavalli ne hanno bisogno. E più di noi, lo sai. Poi mi terrò il mi-

nimo indispensabile dell'acqua della mia sacca e il resto la lascerò a te.»

Dopo aver abbeverato i cavalli e aver diviso l'acqua di Tiger, Kit saluta il suo

compagno, che si concede qualche minuto di riposo all'ombra della roccia ros-

sa, e sprona i suoi mustang dirigendosi verso il villaggio di Orso Macchiato.

«Ił hózhǫ ́, łizhin Gíní.1»

«Ahéhee', Náshdóítsoh Noodǫ́zígíí.2»

Quando Kit arriva in vista del pueblo di Orso Macchiato il sole è già tramonta-

to.

Si trova ancora sulla pista quando viene avvistato dai Navajo.

«Sachem, Piccolo Falco sta arrivando dalla pista del sole che cala.»

«Si accendano i fuochi e si prepari acqua e cibo per il valoroso figlio di Aquila

della Notte» ordina il capo alle squaw.

Kit arriva al cospetto del capo del villaggio delle terre basse e lo saluta: «Che

gli Spiriti ti siano propizi e proteggano il tuo villaggio, grande capo Orso Mac-

chiato.»

«Scendi da cavallo e accetta la mia ospitalità. La mia tenda è la tua tenda. La

mia acqua e il mio cibo sono la tua acqua e il tuo cibo.»

«Grazie sachem. Il mio cuore mi dice di ascoltare le tue parole, ma vorrei arri-

vare alla città degli uomini bianchi prima che sia alto il sole di domani.»

1 Divertiti, Falco Nero (in linguaggio navajo) 2 Grazie, Tiger.

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La luce nelle tenebre «Dovrai viaggiare per tutta la notte. I tuoi cavalli sono stanchi. Ti prego di ac-

cettare in cambio due dei miei mustang. Avrai anche un otre d'acqua e mia fi-

glia ti preparerà del buon cibo caldo che potrai mangiare in sella.»

E, rivolgendosi al giovane navajo che gli aveva annunciato l'arrivo del suo ospi-

te: «Conduci qui i due migliori mustang, quelli con il manto pezzato.»

«Ti ringrazio Orso Macchiato. Ti prometto che al ritorno mi fermerò al tuo

pueblo per almeno un giorno.»

«Eccoti una sacca d'acqua e un pezzo di arrosto di montone, Piccolo Falco.»

«Luna d'Argento, non ti ho sentita arrivare. Hai il passo leggero come quello di

una lince.»

«Mia figlia è un'ottima squaw. Sa cucinare meglio della madre ed è molto abile

a masticare i mocassini. Sarà una buona moglie per il guerriero che la chiederà

in sposa e mi darà dei nipoti che cresceranno forti e robusti.»

«Ehm, già. Ne sono sicuro» risponde Kit un po' impacciato mentre la ragazza

abbassa lo sguardo arrossendo.

Come se volesse togliersi dall'imbarazzo, Kit inizia a togliere la sella ai suoi due

cavalli.

I due mustang pezzati che il giovane navajo sta portando sono davvero splen-

didi.

Il tempo di sellarli e Kit è già a cavallo.

Ha fretta di partire.

«Grazie di tutto, sachem. Che il gran dio Manito faccia crescere la tua gente in

pace e prosperità. Arrivederci. Arrivederci, Luna d'Argento.»

«Che il Grande Spirito ti accompagni.»

Kit gira il mustang quasi di scatto e parte al galoppo facendo un cenno di salu-

to con il braccio.

Orso Macchiato rimane per un istante a guardare Kit che si allontana veloce-

mente e poi torna al suo wigwam.

Sua figlia invece rimane ancora a guardare.

Spera che si volti per darle un ultimo saluto, ma Kit prosegue diritto.

Una lacrima vorrebbe scendere dal viso di Luna d'Argento, ma una donna na-

vajo non piange.

Kit non si volta, ma i suoi pensieri sono rivolti alla squaw dalla pelle del colore

della luna e dal viso dolce come quello di sua madre Lilyth, che è sempre rima-223

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Letizia sto vivo nel suo cuore.

E sprona il cavallo per arrivare il più presto possibile dalla ragazza bianca che

insegna nella scuola della città.

Verso mezzogiorno la città è già visibile all'orizzonte.

In una decina di minuti Kit è davanti al corral della stalla del vecchio Pedro.

«Buenos dìas, señor Willer.»

«Hola, Pedro. Da' una bella strigliata ai miei cavalli. E acqua e biada in abbon-

danza. Ne hanno bisogno. E non chiamarmi signor Willer. Il signor Willer è mio

padre. Io sono solo Kit per te.»

«Oh no, señor. La chiamavo Kit quando era ancora un bambino. Adesso è cre-

sciuto ed è diventato un hombre muy valiente.»

«OK, testa dura. Ti raccomando i miei mustang.»

«Sono cavalli stupendi, señor. Li tratterò come se fossero i miei.»

Un vociare allegro di bambini giunge alle sue orecchie.

Stanno uscendo dalla scuola e si riversano verso le loro case correndo.

Lei è lì, sulla porta e guarda verso di lui.

Si è già accorta che è arrivato in città.

Quando è stata l'ultima volta che lo ha visto?

"Saranno più di due settimane. Quando è venuto dal medico per curarsi le feri-

te" pensa.

«Ciao Linda, come stai?»

«Ciao, Kit. Sono contenta che tu sia qui. Come vanno le tue ferite?»

«Le ferite? Ah, quelle. Non era niente di serio. Hai fame? Io ho una fame da

lupi. Ti va di venire con me da mamma Rose?»

«Perché no! Ho fame anch'io. E poi mamma Rose cucina molto meglio di me. A

patto però che il pranzo lo paghi tu. Il mio stipendio non mi permette spese

folli.»

Ridono entrambi.

E Kit non può fare a meno di notare che, quando ride, Linda è ancora più bella.

«Mamie, ce l'avresti un bel paio di bistecche con una montagna di patatine frit-

te?»

«Niente da fare, Kit. Quelle vanno bene per due omaccioni senza palato come

tuo padre e quel cammello di Carson, come lo chiama lui. Per te e per miss

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La luce nelle tenebre Linda ho qualcosa di molto meglio. Un arrosto di montone tenero come il burro

e naturalmente una bella montagna di patate al forno. E non provare a con-

traddirmi se non vuoi che ti prenda a sculaccioni come facevo quando eri bam-

bino e ne combinavi qualcuna delle tue.»

«Ah, da bambino eri un discolo, a quanto pare.»

«E' perché non aveva una buona maestra come te, Linda.»

«Già, forse con te come maestra mi sarei comportato come un agnellino.»

Ridono.

E il tempo passa in fretta.

«La crostata di mele era squisita, Mamie» e fa l'atto di prendere il denaro dalla

tasca.

«No, no, niente soldi. Tuo padre ha un conto qui, lo sai. Metterò tutto sul suo

conto, anche la mancia.»

«Anche la mancia, certo» le fa eco Kit ridendo.

Nella main street Kit, osservando il cielo terso e senza nuvole chiede alla ra-

gazza: «Ti va di fare una passeggiata nei dintorni? Noleggio un calesse dal

vecchio Pedro e...»

«Niente calesse. Non dimenticare che sono nata in un rancho e da bambina ero

sempre a cavallo, ai pascoli, insieme a mio padre. Dammi il tempo di andare a

casa a cambiarmi e mettermi un paio di pantaloni.»

«Bene. Allora mi farò dare un paio di cavalli, i miei sono troppo stanchi.»

«Guarda guarda chi si vede! La maestrina. La maestrina che se ne va a spasso

con uno sbarbatello.»

«Lascia stare, Bud. Quello è il figlio di Tex Willer. Non cercare guai.»

«Bravo, Bud. Dai retta al tuo amico. E' un saggio consiglio. Ti permetterà di

continuare a mangiare bistecche.»

«Bistecche? Io mangio sempre bistecche, anche senza il tuo permesso. Ma lo

sentite il damerino? Ha capito che la maestrina è un bel bocconcino. E magari

vuol anche essere il solo a pappar...»

In un attimo Bud è a terra, scaraventato da un fulmineo destro di Kit.

«Vai a casa, Linda. Ci vediamo fra una decina di minuti.»

«Figlio del demonio. Ha steso Bud con un solo pugno. Facciamogliela pagare

cara, ragazzi.»

«Tuo nonno. Ve lo avevo detto chi era. E' puro veleno come suo padre. Io me 225

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Letizia la svigno. Vedetevela voi con lui.»

E mentre corre via, sente imprecazioni e rumori di pugni.

Bud è steso a terra, ancora nel mondo dei sogni, ma gli altri tre balzano tutti

insieme addosso a Kit.

Un tacco piantato nella punta dello stivale di uno dei tre, un destro nello sto-

maco del secondo e il terzo, che lo stava prendendo di spalle, vola sopra la sua

testa con un'abile mossa di ju-jitsu, la 'dolce morte'.

Quando finalmente arriva lo sceriffo, i tre malcapitati, ancora doloranti per la

lezione subita, fanno fatica ad alzarsi in piedi mentre il quarto, Bud, non si è

ancora ripreso dalla tremenda sventola.

«Tutto bene, Kit?»

«Io si. Sono loro che hanno avuto la peggio. Quel tizio lì a terra, temo che po-

trà mangiare solo minestrine. Ha lasciato qualche dente in giro qua e là.»

«Niente paura. Il vitto del carcere sarà fagioli, con contorno di fagioli. Niente

che non possa essere ingoiato anche senza masticare. Ma tu, datti una rinfre-

scata. Sei tutto impolverato e hai un livido sulla guancia.»

«Niente di serio, marshall. Faccio un salto da mamma Rose, lei ha sicuramente

una camicia da prestarmi.»

«Sei sicuro di star bene, Kit?»

E' la voce di Linda che, invece di andarsene a casa, era rimasta in strada, in

ansia per quello che sarebbe potuto succedere a Kit.

«Linda, sei ancora qui? Vai a cambiarti. Io tra cinque minuti sarò pronto.»

Il pomeriggio trascorre veloce.

Linda è davvero in gamba e ci sa fare con i cavalli.

Sa stare in sella come un cow boy ed è anche riuscita a calmare il suo puledro

che si era imbizzarrito, spaventato da un serpente a sonagli.

Kit invece non è altrettanto in gamba come rubacuori.

Le ore sono volate tra una chiacchiera e l'altra su come sia affascinante la vita

tra i Navajo e sul periodo che Linda ha trascorso a Baltimora.

Era ritornata alla notizia della morte del padre e poi aveva finito per restare e

insegnare a leggere e a far di conto ai ragazzini del West.

Quando i due giovani ritornano in città, il sole sta dipingendo di rosso l'orizzon-

te.

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La luce nelle tenebre «Sono veramente stanca. Ma sono stata bene con te, Kit. Portiamo i cavalli nel

corral e poi accompagnami a casa.»

«Ok. Ci vediamo a cena allora.»

«Meglio di no, Kit. Non è conveniente che io esca con te questa sera. Abbiamo

già dato argomenti sufficienti per le malelingue della città.»

«Oh, ma non ti devi preoccupare. Qui mi conoscono tutti e sanno che sono un

bravo ragazzo. E anche tu godi della fiducia di tutti. Lo sanno che siamo perso-

ne serie e che non facciamo nulla di male.»

«Lo so, Kit. Ma è meglio così. E poi io, te l'ho detto, sono un po' stanca. E lo

devi essere anche tu. Mi hai detto che hai passato la scorsa notte a cavallo,

senza chiudere occhio.»

«Oh, ma io ci sono abituato. Ma se vuoi così, va bene. Ci vediamo domattina,

allora.»

Dopo aver lasciati i cavalli dal vecchio Pedro, i due giovani si dirigono verso la

casa di lei.

«Buona notte, Kit.»

«Buona notte, Linda. A domani.»

"E così mi tocca passare un'altra notte all'addiaccio, per mille fulmini!"

Nella testa del vecchio Carson frullano mille pensieri.

[Se potesse immaginare che l'ho chiamato 'vecchio', ora mi ritroverei con qual-

che livido dove non batte il sole.]

"Non è che mi secca passare la notte all'aperto. Il fatto è che sono solo. Mi

manca quel tizzone d'inferno. Mi manca il caffè che fa anche se, non gliel'ho

mai detto e non glielo dirò mai, non è che sia poi così buono. E soprattutto non

posso sfogarmi né lamentarmi con lui. E questo mi manca davvero."

Già!

Il vecchio brontolone [insisto con il 'vecchio', tanto non corro pericoli] non sa

stare senza piangersi addosso a causa di qualche malanno anche se, lo sa non

solo lui, ma lo sanno anche i suoi amici, ha un fisico forte come una quercia ed

è sano come un pesce.

"E mi manca tanto anche una bella bistecca alta così con un bel contorno di pa-

tate croccanti in abbondanza, che non stiano neanche nel piatto. Ma per ora

accontentiamoci di questa carne secca che, quando si ha la fame che ho io,

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Letizia non è poi così male."

Immerso nei suoi pensieri, Carson consuma la sua frugale cena [mica tanto

frugale in verità] e si prepara infine per la notte.

Si avvolge in un morbidissimo serape che una vedova navajo ha tessuto appo-

sta per lui con la lana di capra delle terre alte che, come tutti ben sanno, è

meno ruvida di quella di pecora.

Le notti da quelle parti sono molto fredde, anche nei mesi estivi, e una coperta

in più fa molto comodo al vecchio [aridaje] brontolone.

Il sole è già alto nel cielo quando arriva in città e il suo stomaco gli grida che

l'ora di pranzo è già passata da un pezzo.

Due minuti per portare i suoi cavalli da Pedro e si ritrova davanti al locale di

mamma Rose, proprio nel momento in cui il giovane Kit sta uscendo in compa-

gnia della maestrina.

«Ciao, zio Kit. Hai fatto presto ad arrivare.»

«Credi di essere solo tu il fulmine della famiglia? Ma piuttosto, perché non mi

presenti la signorina?» risponde Carson togliendosi il cappello.

«Lo stavo per fare, zio. Linda, ti presento lo zio Kit, Kit Carson. Zio, ti presento

miss Linda Sarita Diaz. E' la maestra...»

«Encantado, señorita Diaz. Kit diceva il vero quando decantava la sua bellez-

za.»

«Lei è troppo galante señor Carson, ma mi chiami pure Linda.»

Poi, notando un livido sul viso del ragazzo: «Che hai fatto all'occhio, Kit? Hai li-

tigato con il tuo cavallo?»

«Ho avuto una divergenza di opinioni con quattro distinti signori. Veramente

erano solo tre. Il quarto si è scusato tanto ma doveva scappare perché era

troppo stanco per rimanere. E' letteralmente cascato dal sonno.»

Linda sorride.

Forse sta pensando che il suo accompagnatore abbia ecceduto nell'umorismo

per minimizzare la cosa e per apparire ai suoi occhi come l'eroe senza macchia

e senza paura la cui modestia gli impone di non chiedere riconoscimenti del

proprio valore.

E 'l'eroe senza macchia e senza paura', con un lieve imbarazzo, cambia discor-

so.

«Stai andando a pranzo, zio? Noi abbiamo appena finito, ma se vuoi che ti fac-228

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La luce nelle tenebre ciamo compagnia...»

«Non c'è bisogno, Kit. Conto di partire il più presto possibile. Dopo pranzo e

dopo aver fatto una visita allo sceriffo.»

«Lo sceriffo ha un dispaccio per te. Gli ho chiesto di farmelo leggere perché ne

riferirò il contenuto a papà, appena tornato al villaggio. In fondo era indirizzato

anche a lui. Dice che l'ultima rapina è stata a Silverton, un paio di giorni fa.»

«Hai fatto bene. Di' a tuo padre che io mi dirigo là e che lascerò, come d'ac-

cordo, informazioni allo sceriffo. Se gli viene più comodo, può evitare di passa-

re di qui e dirigersi direttamente là.»

«OK, zio. Glielo dirò.»

«E adesso andate. Immagino che la signorina preferisca la tua compagnia alla

mia.»

«Ma cosa dice, mister Carson! La sua compagnia è invece molto piacevole.»

«Vi auguro una buona giornata, ragazzi. Io ho un appuntamento urgente con

una grossa bistecca.»

Ridono.

E, mentre Carson si appresta a dichiarare guerra a un quarto di manzo, i due

ragazzi si allontanano passeggiando nella main street.

«Sei sicuro che passerà da qui, Bud?»

«E' l'unica strada che conduce al suo stramaledetto villaggio. Deve passare per

forza da qui.»

«Ma potrebbe passare tra molte ore o addirittura domani.»

«No, no. Allo Store, mentre compravo viveri e munizioni, ho sentito da una

vecchia cornacchia che quel maledetto sarebbe partito oggi, prima di sera. Sa-

rà qui tra meno di un'ora, vedrai.»

«Bud, sarà meglio lasciar perdere. Lo sceriffo, quando stamattina ci ha scarce-

rato, ha detto che se ci ripesca, ci rinchiude e butta via la chiave. Se poi viene

a sapere che abbiamo ammazzato quel bastardo, per noi c'è una corda al collo.

Sempre che suo padre ci faccia arrivare vivi alla forca. Ho saputo che è molto

abile nella tortura. E' mezzo indiano e non oso pensare a quello che sarebbe

capace di farci.»

«Storie. Siamo sufficientemente lontani dalla città. Nessuno si accorgerà di

nulla e nessuno potrà mai sospettare di noi. Cancelleremo ogni traccia e fare-

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Letizia mo sparire il corpo del ragazzo in modo che non possa mai essere ritrovato. Lo

sai che Spencer ha sangue apache nelle vene e che, se ripulisce tutto lui, non

risulteranno neanche le tracce di una formica.»

«Sarà, ma ho come un brutto presentimento...»

«Taci, maledetta cornacchia, filerà tutto liscio come l'olio. Ricordatevi solo di

aspettare il mio segnale a sparare. Colpiremo quel dannato con una vera gran-

dinata di piombo. E ricordate anche di contare i colpi che sparate e di recupe-

rare poi tutti i bossoli.»

«Bud, sta arrivando.»

«Ok, Slim. Tutti in posizione, ragazzi. E mi raccomando: sangue freddo e mani

ferme. Non dobbiamo sbagliare un colpo.»

«Non potrà neanche vedere i riflessi dei nostri winchester. Il sole sta tramon-

tando alle nostre spalle. Noi abbiamo un'ottima visuale mentre lui ha il sole

negli occhi.»

«Già. Ma anche se dovessimo sbagliare il primo colpo, non c'è alcun riparo per

lui, né roccia né albero.»

«Ma noi non sbaglieremo. Lo impallineremo come un tordo. Quando avremo fi-

nito, sarà peggio di un colabrodo.»

«Ci hanno già visti arrivare, Tex.»

«Già. E uno di loro sta andando ad avvisare Lupo Solitario.»

In pochi minuti i due pard raggiungono il villaggio.

Il capo li sta aspettando, in piedi davanti al suo wigwam.

«Benvenuto, Aquila della Notte. Cosa porta te e Tiger Jack fino al mio umile

villaggio?»

«Il vento mi ha portato delle voci. Voci che dicono che tu non verrai al raduno

di tutti i capi navajo.»

«Quelle voci dicono il vero, Aquila della Notte. Io non verrò.»

«Io non ne sono tanto sicuro, Lupo Solitario. Io dico che verrai. La tua assenza

sarebbe una grave offesa non solo a me, ma anche al Consiglio dei capi che

potrebbero anche decidere di toglierti il comando della tua tribù.»

«Tu non oserai tanto, Aquila della Notte.»

«Io? Io non lo farò davvero. Mi credi così stupido da inimicarmi anche uno solo

dei Navajo a te fedeli? Sarà il gran Consiglio a farlo. L'offesa che tu rechi non è

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La luce nelle tenebre a me, ma ai capi di tutte le tribù. E non solo a loro, ma anche ai tuoi guerrie-

ri.»

«Non vedo in che modo potrei offendere i miei prodi. E voi non avete alcun di-

ritto di intromettervi negli affari della mia tribù.»

«La tua tribù ha diritto di essere rappresentata alla riunione dei capi. Devono

essere prese decisioni che interessano tutti i Navajo della riserva. E sai benis-

simo che il Consiglio ha l'autorità di rimuovere un capo che non sia degno di

essere tale.»

«Riserva. E' questo il problema. I Navajo sono nati liberi ed ora vivono in una

riserva controllata dai bianchi. E anche tu, il capo supremo di tutti noi, sei un

bianco.»

«Attento a quello che dici, Lupo Solitario. E se hai qualcosa da dire, non la dirai

ora a me, ma al gran Consiglio, fra tre giorni.»

«Tu sei un capo valoroso, Aquila della Notte, ma sei un bianco. Non sei quasi

mai in mezzo a noi. Sei sempre via con tuo fratello Capelli d'Argento e lavori

per la giustizia degli uomini bianchi.»

«Lavoro per la giustizia. Anche per la giustizia degli uomini bianchi, è vero, ma

soprattutto per la giustizia degli uomini rossi. Non ho forse combattuto contro

le giacche azzurre per difendere i diritti dei Navajo?»

«E' vero. Ma sei sempre un bianco. E anche tuo figlio, anche lui ha sangue

bianco che gli scorre nelle vene.»

«Il sangue che scorre nelle vene di Piccolo Falco è anche quello di Lilyth, la fi-

glia del grande Freccia Rossa, capo di tutte le nazioni navajo.»

Tex sta cominciando a perdere la pazienza, ma si trattiene perché Lupo Solita-

rio è sempre un capo e non desidera assolutamente umiliarlo di fronte ai suoi

con la sonora lezione che si meriterebbe.

«Conosci la legge. Hai solo due modi per prendere il mio posto: chiedere al

Consiglio dei capi di togliermi il comando per darlo a te oppure sfidarmi e bat-

termi in duello.»

Lupo Solitario ha un attimo di esitazione.

Forse teme di battersi con un avversario più forte di lui o forse teme che diffi-

cilmente il Consiglio toglierebbe il comando a Tex.

Ma, anche se ciò accadesse, sa benissimo che ci sarebbero dei candidati mi-

gliori di lui e che avrebbe pochissime speranze di essere scelto come capo su-231

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Letizia premo.

«Bene. Allora ci vedremo fra tre giorni, Aquila della Notte.»

«Ero sicuro che ci avresti ripensato, Lupo Solitario. Ti aspetterò al villaggio

centrale.»

Dopo aver salutato il sachem e gli anziani della tribù, che nel frattempo si era-

no radunati intorno a loro, Tex e Tiger saltano in sella e si dirigono al piccolo

trotto verso il loro villaggio.

«C'è stato un momento in cui ho pensato che lo avresti fatto volare con uno

dei tuoi cazzotti.»

Tiger interrompe il silenzio quando sono sufficientemente lontani da non essere

udito.

«Già. Mi prudevano parecchio le mani. Ma mi sono controllato.»

«Hai fatto bene. Non sarebbe stato saggio ridicolizzarlo davanti ai suoi guerrie-

ri.»

«Lo so. Ed è stato quello che mi ha trattenuto.»

«Credi che possa crearti dei problemi?»

«Credo di no. Lupo Solitario è una testa calda, è vero, ma non è uno stupido.

Sa di non avere alcuna possibilità e in fondo è anche un bravo capo e sa che

un suo comportamento avventato non porterebbe che danni alla sua gente.»

«E' pur sempre un giovane senza esperienza e potrebbe fare un colpo di te-

sta.»

«Non credo. Credo invece che ingoierà il rospo. In fondo così non perderebbe

la faccia e dimostrerebbe ai suoi Navajo di essere un capo saggio degno del

ruolo che riveste.»

«Speriamo.»

«Sprona il tuo mustang, Tiger. Vorrei arrivare al villaggio prima di sera.»

Kit si sta avvicinando alla piccola altura rocciosa senza sospettare minima-

mente di essere in grave pericolo.

Quattro fucili sono puntati verso di lui che è un bersaglio fin troppo facile anche

per chi non è un tiratore infallibile.

Ma quello che sente non sono colpi di fucile.

Alle sue orecchie giunge un urlo straziante, quasi disumano.

Ferma istintivamente i suoi mustang e osserva l'altura che ormai è vicinissima

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La luce nelle tenebre a lui.

Vede una figura umana cadere da un dirupo con un urlo spaventoso e la vede

sfracellarsi sulle rocce sottostanti.

Seguono poi altre urla e spari e, dopo pochissimo tempo, un rumore di cavalli

che si allontanano al galoppo tra altri spari.

Abbandonata ogni prudenza, Kit si lancia verso le rocce.

Riconosce nel disgraziato caduto dal dirupo il cow boy che il giorno precedente

aveva steso con un tremendo uppercut.

Dopo aver visto che per lui non c'è più niente da fare, aggira l'altura rocciosa in

tempo per vedere tre uomini con quattro cavalli che fuggono verso sud.

"Sono certamente i compari di quel poveraccio" pensa Kit. "Ma perché erano

sulle rocce e a far cosa?"

Lasciati i cavalli, raggiunge la cima dell'altura, con gli occhi ben aperti e con il

winchester saldo in pugno, colpo in canna.

"Cosa diavolo è successo? E' evidente che quei quattro erano in agguato e che

avevano la bella idea di farmi la pelle. Forse non hanno gradito le mie carezze.

Eppure ho cercato di essere il più delicato possibile."

Ispeziona accuratamente il terreno roccioso per cercare di capire cosa sia suc-

cesso, ma non riesce a trovare granché.

Il terreno non conserva molte tracce, data la sua natura rocciosa.

Le uniche cose che trova sono i bossoli sparati dai malviventi.

Ma sparati contro chi?

Osserva dall'alto il corpo dell'uomo caduto.

"E' stato certamente lui a gridare. Ma è caduto o è stato spinto?"

Kit continua ad esaminare il terreno e altri interrogativi si affacciano nella sua

mente.

"Se è stato spinto, sono stati i suoi compari? Ma allora perché poi hanno spara-

to? E contro chi? Quel tizio, Bud mi pare si chiamasse, non presenta ferite da

arma da fuoco. E' morto per la caduta."

Sono tutte domande cui non riesce a dare risposta.

"E' un bel mistero. Nel raggio di almeno un miglio ci sono solo io e quei tre

matti che stanno scappando come lepri. Queste rocce non offrono nascondigli."

Stringe il fucile e ritorna verso i suoi mustang con circospezione.

"Ora ho fretta di ritornare tra i Navajo. Ho promesso a Orso Macchiato che mi 233

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Letizia sarei fermato almeno una notte al suo pueblo. Ma ne parlerò a papà e, quando

il Consiglio sarà terminato e partirà per raggiungere lo zio Kit, lo accompagne-

rò qui per dare un'altra occhiata. Così ne approfitterò per fare un salto in città

e rivedere Linda."

"Non è possibile che siano così stupidi" pensa Carson osservando il terreno.

"Ieri lo sceriffo di Silverton mi ha detto che si sono comportati da veri profes-

sionisti. La rapina si è svolta in pochissimi minuti ed è filato tutto liscio come

l'olio. Per loro. E questo conferma il rapporto del nostro comando: rapinatori

professionisti e imprendibili."

Poi osserva ancora le tracce quasi per avere una conferma di cui non ha biso-

gno.

"Prima sono stati così idioti da andare dal maniscalco a cambiare uno dei ferri.

Così mi hanno fatto due favori: ho una loro descrizione e devo solo seguire le

tracce lasciate da un cavallo che ha un ferro nuovo. Troppo facile. Possibile che

siano stati così maldestri?"

Salta in sella e continua a seguire le tracce al piccolo trotto.

"Tutto questo non mi convince. All'inizio, subito dopo il paese, le tracce sono

scomparse completamente. Sono stati molto bravi. E mi hanno fatto perdere

un po' di tempo. Ma poi, dopo aver seguito qualche falsa pista, ho ritrovato le

loro tracce, che erano state cancellate ma non così bene da sfuggire al mio oc-

chio."

Un filo di fumo all'orizzonte attira la sua attenzione.

"Per la barba di Matusalemme! Se sono loro, sono proprio degli idioti. Troppo

idioti per i miei gusti. Ha tutta l'aria di una trappola. Rapinatori così in gamba

eppure così maldestri. Tracce introvabili che poi diventano visibili solo ad un

occhio allenato, ma che alla fine diventano così evidenti che potrebbe seguirle

anche un bambino. Ed ora quel fumo che sembra dire: Eccoci qua, siamo noi,

gli imprendibili rapinatori, se volete catturarci, accomodatevi."

Si avvicina all'accampamento facendo un largo giro per non essere avvistato.

"Devo tenere gli occhi ben aperti. Se non ricordo male, là vicino ci deve essere

un pozzo o qualcosa del genere. Proprio ai margini di quella boscaglia. Posto

ideale per chi volesse tendere un agguato. Ma anche per chi volesse arrivare

senza essere visto. E, se mi avvicino con circospezione, tenendo lontano il ca-

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La luce nelle tenebre vallo perché non venga sentito da quelli di quei buontemponi, avrò tutto il

tempo per accorgermi che tra gli alberi non ci sia qualche simpaticone in ag-

guato."

Lasciato il cavallo ai margini della boscaglia, nella direzione opposta a quella da

cui si vede più chiaro il filo di fumo, Carson si dirige verso l'accampamento

senza fare il minimo rumore, winchester in pugno.

Dopo essersi accertato che non c'è anima viva in agguato, si avvicina ai tre in-

dividui che stanno sorseggiando un caffè caldo.

Sono sicuramente i rapinatori.

I tre loschi figuri corrispondono alla descrizione che ne ha fatto il maniscalco di

Silverton.

«Che buon odore di caffè. Sareste così gentili da offrirmene una tazza?»

Lo scatto metallico della leva del winchester accompagna le parole di Carson.

«E tu chi diavolo sei? Abbassa quel fucile, nonno. Potresti farti male.»

«Ahi. Siamo partiti con il piede sbagliato. Non è bello chiamare 'nonno' una

persona ancora nel fiore degli anni come me. E' una cosa che mi rende tre-

mendamente nervoso.»

Uno dei banditi accenna ad abbassare le mani all'altezza della cintura.

«Se fossi in te, starei con le mani lontane dalla pistola. Te l'ho detto, sono mol-

to nervoso. Non vorrei che il dito che ho sul grilletto tremasse un po' troppo e

facesse partire un colpo dal mio cannone. Non so se te ne sei accorto, ma è

puntato dritto sulla tua pancia. Non ho voglia di vedere quello che hai mangia-

to oggi.»

Non fa neanche in tempo a finire la frase che uno dei tre sprovveduti, vedendo

che il fucile non è puntato su di lui, tenta di estrarre la pistola.

Un colpo ben preciso di fucile gli buca la mano e gli toglie la voglia di riprovar-

ci.

Il rumore della leva della carabina, che inserisce un altro proiettile nell'ottura-

tore, si sovrappone quasi a quello dello sparo.

«Fermi, ragazzi, non muovete un muscolo. Questo 'nonno' come l'hai chiamato

tu, Quentin, è Kit Carson, uno dei più rognosi ranger del Texas. E' puro veleno,

secondo solo a Tex Willer.»

«Fate come vi dice il vostro compare e non finirete sotto un metro di terra.

Slacciate lentamente il cinturone, molto lentamente. Le pistole mi rendono 235

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Letizia molto nervoso, quelle degli altri naturalmente. Ma se fate come vi dico, nessu-

no si farà male. Quando non sono contrariato, sono una persona molto mite e

pacifica, non lo sapevate?»

«Che dannazione vuoi da noi? Non abbiamo fatto nulla contrario alla legge.»

Ha parlato il bandito di nome Quentin, che si gioca un'ultima carta.

«Già, è vero. Scommetto che siete dei ricchi allevatori che avete appena prele-

vato i vostri soldi dalla banca di Silverton, magari per andare a comprare delle

vacche. Quei sacchi che pendono dalle selle dei vostri cavalli non sono quelli

che usano le banche per metterci dentro quei simpatici angioletti d'argento?

Giù i cinturoni ho detto. E non lo ripeterò. In fondo non mi sarà difficile far cre-

dere che avete cercato di farmi la pelle con il solo risultato di rimetterci la vo-

stra.»

Persuasi dal 'consiglio' di Carson, i tre slacciano i cinturoni che cadono a terra.

«Bravissimi. E adesso, Quentin, fai il bravo e vai a prendere uno dei lazo appe-

si alla sella e lega saldamente i polsi dei tuoi compari.»

Il bandito obbedisce e lega i suoi due amici, senza curarsi troppo delle impre-

cazioni e dei lamenti di Sam: «Stai attento, maledizione. Ho un buco nella ma-

no. Mi fa un male d'inferno.»

Infine Carson stende lo sfortunato Quentin con un 'leggero' colpetto sulla testa,

inferto con la canna del suo fucile.

Si accerta che gli altri due malcapitati siano ben legati, stringe i nodi ai loro

polsi e poi termina il lavoro legando anche il terzo bandito svenuto.

Kit si concede un po' di riposo nel pueblo di Orso Macchiato dove è giunto in

tarda mattinata.

Il giorno precedente, quando Linda era impegnata a scuola, ha comprato dei

doni per il sachem e i suoi Navajo in cambio della sua ospitalità.

Ha preso anche delle stoffe per Luna d'Argento che lo ha ricambiato con dei

mocassini fatti con le sue mani.

«Orso Macchiato è felice di avere Piccolo Falco nel suo villaggio. E' un grande

onore avere nella propria tenda il figlio del grande capo Aquila della Notte.»

«Sono io che ti ringrazio di avermi fatto l'onore di accogliermi nel tuo pueblo

come se fossi un figlio per te.»

«Così è. Tu sei come un figlio per me e sarei molto felice se un giorno lo diven-

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La luce nelle tenebre terai.»

Il volto di Kit si colora leggermente di rosso.

Il ragazzo pensa che forse era meglio non dare al sachem l'opportunità di par-

lare di una eventuale unione con sua figlia.

Ma per fortuna Orso Macchiato cambia discorso.

«Sarei molto felice se tu ti fermassi qui questa notte e, al sorgere del nuovo

sole, mi accompagnassi al villaggio di tuo padre. Vorrei arrivare un giorno pri-

ma del gran raduno dei capi. Mi piacerebbe fumare un po' con Aquila della Not-

te e parlare con lui all'ombra del suo wigwam.»

"Ahia" pensa Kit. "Temo di sapere di cosa vuol parlare questo a papà."

«Ne sarò lieto, grande capo. Ho veramente bisogno di una notte di riposo.»

«Bene, allora. Verranno con noi il figlio di mio fratello e il giovane Mone-Ah. E

sarà con noi mia figlia Luna d'Argento che cucinerà durante il lungo viaggio.»

La notte trascorre lenta e Kit ha un sonno agitato.

Nei suoi sogni ci sono due ragazze, entrambe bellissime, visioni fugaci che si

alternano nel suo inconscio.

La dolce maestrina che gli ha sconvolto la vita e la giovane navajo dalla pelle

color della luna, sicuramente innamorata di lui, che gli fa battere più forte il

cuore quando lo guarda con i suoi occhi nerissimi.

La mattina seguente una piccola carovana si incammina verso il villaggio cen-

trale dove il capo supremo di tutta la nazione navajo si sta occupando dei pre-

parativi per accogliere con tutti gli onori i capi delle tribù riuniti nel grande

Consiglio annuale.

«Allora, ragazzi. Credo che vi convenga sputare il rospo e raccontarmi un po'

di cosette se volete migliorare la vostra situazione. In fondo non avete ucciso

nessuno. Niente morti né feriti. Solo furti. Se direte dove avete nascosto il de-

naro rubato nelle precedenti rapine, sono sicuro che potrete avere uno sconto

di pena. Ve la potrete cavare con poco. E qualche anno a Yuma non ha mai uc-

ciso nessuno.»

«Vai al diavolo, sbirro. Mi hai fracassato una mano e non potrò più tenere in

mano una pistola.»

«Ringrazia la tua buona stella di avere ancora la pelle cucita addosso. Se inve-

ce del winchester avessi avuto un fucile da caccia a pallettoni, adesso saresti

237

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Letizia su una bella nuvoletta a suonare l'arpa. A proposito, sai suonare l'arpa? Im-

magino di no. Ma, a pensarci bene, credo proprio che staresti invece a spalar

carbone per messer Satanasso.»

«Il grosso del denaro non lo abbiamo noi, mister Carson. L'abbiamo...»

«Alfie, brutto deficiente, taci. Non dire altro.»

«E perché, Sam? Se il ranger può evitarci qualche anno a Yuma, perché non

approfittarne?»

«Alfie ha ragione, Sam. Cosa ci guadagniamo a tenere la bocca chiusa? Il capo

si è sempre tenuto la maggior parte del bottino senza mai correre rischi.»

«Il capo? Un momento. Vuoi dire che non eravate solo voi tre a far parte della

banda? C'è qualcun altro?»

«Si, ranger. C'è un capo, che però non abbiamo mai visto. Ma se vuoi che ti

raccontiamo tutto, dovrai fermarti un po'. Abbiamo cavalcato tutta la notte,

senza chiudere occhio. Siamo stanchi e Sam è ferito.»

«OK, Alfie. Ci fermeremo per un paio d'ore. Ma non di più. Voglio arrivare a

Silverton il più presto possibile.»

Durante la sosta Carson apprende cose molto interessanti.

Le rapine erano organizzate da un misterioso capo che, restando nell'ombra,

forniva ai tre banditi tutte le informazioni su dove, quando e come mettere in

atto le rapine.

Inoltre dava loro indicazioni su dove portare la parte del bottino a lui spettan-

te.

Sempre luoghi isolati e ogni volta diversi, in cui trovavano anche istruzioni sul

prossimo colpo.

«E la prima volta come vi ha contattato?»

«Ci ha fatto portare un biglietto tramite un ragazzino. Abbiamo anche fatto

qualche ricerca per sapere chi fosse, ma senza risultati. Il moccioso non lo a-

veva visto in volto e inoltre l'ha avvicinato in un vicolo buio dove non c'era

nessun altro.»

«Questa volta però il bottino era ancora tutto con voi. Come mai?»

«Lo stavamo portando in una grotta in una località chiamata 'Due Denti'. E' un

posto dove...»

«Conosco il posto. Ci sono due rocce gemelle alte e sottili che assomigliano a

due denti.» 238

Page 239: TuttoLet - Altervistapecosbill.altervista.org/Romanzi/TuttoLetizia.pdfTex Willer - Aquila della Notte Kit Carson - Capelli d'Argento Kit Willer - Piccolo Falco - Falco Nero - Mano

La luce nelle tenebre «Esatto. Ma tu ci hai trovato prima.»

«OK. Ci farò in salto dopo avervi consegnato allo sceriffo di Silverton.»

Quando arrivano in paese è quasi mezzogiorno.

«Ehilà, Carson. Vedo che mi hai portato dei clienti. Hai fatto prima del previsto.

Che li avresti presi non avevo dubbi, ma così presto poi. Sei un vero fulmine.»

«Ho solo avuto fortuna, sceriffo.»

«Ehi, voi due. Invece di stare lì a chiacchierare, chiamatemi un dottore. La

mano mi fa un male d'inferno.»

«Ha ragione, perbacco. A Yuma gli servirà per poter spaccare le pietre. Julius,

vai a chiamare il dottor Franklin.»

Quando il medico arriva, Carson ha già raccontato l'accaduto allo sceriffo Pe-

terson e i tre sfortunati rapinatori sono già dietro le sbarre.

«Mister Carson, che piacere incontrarvi. Vi ho sempre ammirati, lei e il suo

pard Tex Willer.»

«Già, soprattutto perché sono i migliori fornitori di 'materiale' per la vostra ca-

tegoria, dottore. La sua e quella dei becchini naturalmente.»

Nelle parole dello sceriffo c'è una malcelata punta di ironia, diretta verso il me-

dico che, con gente come Tex e Carson fa affari d'oro.

«Non merito questo appunto», risponde il medico, «e per dimostrare che non

cerco il denaro della comunità, perché naturalmente sarà lei, sceriffo, a pagare

la mia parcella, vi invito entrambi a pranzo.»

«Parole sante» risponde Carson. «Ho una fame da lupo.»

E così, una mezz'ora dopo, i tre si ritrovano davanti a tre bistecche mastodon-

tiche.

«E' stato un pranzo sublime. Devo aver mangiato troppo però, oppure devo

aver esagerato con la birra, perché mi gira un po' la testa.»

«Anch'io non mi sento troppo bene» risponde lo sceriffo.

E subito dopo la sua testa piomba pesantemente sul tavolo.

Carson non fa neanche in tempo ad accorgersene perché cade a sua volta sve-

nuto.

«Miguel, che diavolo ci hai dato da mangiare? Carson e lo sceriffo stanno male

e anch'io non mi sento troppo bene.»

«Non capisco, señor. Vi ho servito cibo di ottima qualità e anche la birra era la

migliore che ho. No sé lo que pasó. Lo siento, señor. Lo siento mucho.» 239

Page 240: TuttoLet - Altervistapecosbill.altervista.org/Romanzi/TuttoLetizia.pdfTex Willer - Aquila della Notte Kit Carson - Capelli d'Argento Kit Willer - Piccolo Falco - Falco Nero - Mano

Letizia «Va bene, va bene. Non è colpa tua. Ma adesso dammi una mano. Bisogna

portarli a casa mia dove potrò curarli meglio. Chiama qualcuno che ti aiuti per-

ché io sono molto debole e non mi reggo in piedi.»

«De pronto, señor. Manuel, Felipe, aquì por favor. Ràpido.»

Manca ancora qualche decina di miglia al villaggio centrale quando Kit e i suoi

compagni navajo si accampano per la notte.

Le sagome delle 'mesas' dell'Arizona si staccano prepotentemente sul cielo an-

cora dipinto di rosso dal sole appena tramontato.

Lo stupendo spettacolo è tale da mozzare il fiato.

Kit, assorto nei suoi pensieri, sta guardando l'orizzonte, a ovest, e non si ac-

corge che Luna d'Argento si è avvicinata a lui.

«Il Grande Spirito è molto bravo ad abbellire il cielo con i colori del fuoco.»

«Come? Oh, si. Ciao Luna, non ti avevo sentito arrivare.»

Il volto di Kit assume un colore rossastro.

Saranno i riflessi del tramonto oppure il suo imbarazzo?

Il tramonto però colora anche il viso della ragazza che, pensa Kit, è ancora più

bello.

Che ti succede, Kit?

Il tuo cuore batte per Linda eppure... eppure la giovane squaw ti mette a disa-

gio come se tu fossi un ragazzino sorpreso a rubare la marmellata.

"Che idiozie, tra i Navajo non c'è la marmellata" pensa Kit, quasi in risposta a

suoi stessi pensieri.

«Sai, Luna? Sei bellissima.»

Kit pronuncia queste parole senza quasi accorgersene, come se fosse un pen-

siero ad alta voce, sfuggito involontariamente dalle sue labbra.

E questa volta il motivo del rossore al suo viso non dipende dalla luce del tra-

monto.

«Sarà meglio che raggiungiamo gli altri. Ho una fame da lupo.»

«Ero appunto venuta per dirti che il cibo è pronto. Ma il tramonto è così bello

che...»

La notte trascorre tranquilla e Kit riesce finalmente a dormire.

Nei suoi sogni c'è la dolce Linda o la cerbiatta navajo?

Probabilmente Kit sogna invece l'arrosto di cervo che ha appena fatto fuori in

240

Page 241: TuttoLet - Altervistapecosbill.altervista.org/Romanzi/TuttoLetizia.pdfTex Willer - Aquila della Notte Kit Carson - Capelli d'Argento Kit Willer - Piccolo Falco - Falco Nero - Mano

La luce nelle tenebre abbondanza.

Nel mezzo della mattinata raggiungono il villaggio centrale.

«Orso Macchiato saluta Aquila della Notte, grande capo di tutta la nazione na-

vajo e il suo fratello Tiger Jack.»

«Salute a te, grande capo Orso Macchiato. Siete i benvenuti, tu, i tuoi guerrieri

e la tua leggiadra figlia Luna d'Argento. La mia tenda è la tua tenda, il mio cibo

è il tuo cibo, la mia acqua è la tua acqua.»

«Ti ringrazio, Aquila della Notte. Accetto con piacere la tua ospitalità.»

«Ciao, pa'.»

«Ciao, Falco Nero.»

«Falco Nero?»

Orso Macchiato chiede con meraviglia.

«E' il nome che papà ha deciso di darmi. Piccolo Falco sembra che sia cresciu-

to.»

«Così è. Le gesta del figlio di Aquila della Notte sono arrivate in tutti i villaggi

navajo e sono note anche tra gli altri popoli dell'uomo rosso.»

«Mio figlio è diventato un grande guerriero, ma tua figlia è diventata sempre

più bella, Orso Macchiato. E' già stata promessa a qualcuno della tua tribù?»

Le parole di Tex forse servono a stuzzicare un po' suo figlio.

«E' stata richiesta ma non promessa. E' ancora giovane. Nutro grandi speranze

per lei. Ma, soprattutto, desidero che lei segua il suo cuore.»

Kit cerca di celare il suo imbarazzo, senza però riuscirci un granché.

Si allontana con la scusa di sistemare i cavalli mentre Tex e Orso Macchiato si

ritirano nel wigwam.

Quando Carson si sveglia, si trova con i polsi incatenati.

La lunga catena, che scorre in un anello saldamente inchiodato alla parete roc-

ciosa, gli lascia un po' di libertà di movimento.

"Dove mi trovo?"

Un movimento brusco e il suo mal di testa si fa sentire tutto.

"Sembra una grotta. Ma cosa è successo? E queste catene? L'ultima cosa che

ricordo è il pranzo con lo sceriffo Peterson e quel medico. Come si chiama? Ah

sì, Franklin. Ma dopo cosa è successo?"

«Ma che piacere rivederti, vecchio sbirro.»

241

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Letizia La voce proviene dalla sua destra e gli sembra una voce conosciuta. Una voce

sentita molte volte purtroppo.

«Ah, sei tu, maledetto demonio? Che tu possa sprofondare in mille inferni.»

«Ah, ah, ah. Impreca pure, sbirro. Ho idea invece che presto sarai tu a spro-

fondare attraverso le sette porte nere degli inferi. E i tuoi degni compari saran-

no con te a tenerti compagnia. Ah, ah, ah.»

La sua risata satanica viene moltiplicata dai mille anfratti dell'immensa grotta

ed echeggia a lungo nell'aria.

«Ridi, ridi pure, creatura malefica. Io credo invece che saremo noi a darti una

sonora lezione come è già successo tutte le volte che le nostre strade si sono

incrociate. Lo sceriffo Peterson avviserà Tex della mia scomparsa e presto te lo

ritroverai con il fiato sul collo.»

«Ah, ah. Quell'ingenuo di sceriffo non farà proprio nulla. Dopo avervi drogato,

lui non mi serviva più e l'ho tolto di mezzo.»

«L'hai ucciso, maledetto! Tu ci hai drogato? Tu... tu eri il dottor Franklin e ci

hai versato qualcuna delle tue porcherie nel cibo che Miguel ci ha cucinato.»

«Ah, ah. Nessuna porcheria, solo un po' di semplice sonnifero. Il dottor Fran-

klin? Ti è piaciuta la mia interpretazione? Non male, vero? Non mi hai ricono-

sciuto. Eppure con un po' di sforzo ci saresti riuscito.»

«Tu sapevi che sarei venuto a Silverton. Mi aspettavi. La banda... la banda di

quei tre rapinatori da strapazzo. C'eri dietro tu. Sei tu il misterioso capo.»

«Ah, ah. Ci sei arrivato, eh? Quei tre ladri di galline. Senza di me non sarebbe-

ro neanche riusciti a rubare i soldi a un cieco. Ho organizzato tutto io. Io pre-

paravo le rapine in ogni minimo dettaglio. Io ripulivo le tracce che quei tre de-

ficienti lasciavano così evidenti dietro di loro. Ma l'ultima volta li ho lasciati al

loro destino.»

«Già. Sapevi che io li avrei presi e ne hai approfittato per toglierteli di mezzo e

tenerti tutto il bottino.»

«Povero ingenuo. I soldi non sono mai stati un problema per me. Ho solo unito

l'utile al dilettevole. Se quei tre fossero stati più furbi, avrebbero ottenuto una

parte maggiore del denaro rapinato. Sarei stato disposto a cedere anche tutta

la mia parte.»

«L'unica cosa che ti interessava era attirarmi nella tua dannata trappola, vero?

Sapevi che il comando dei ranger, dopo il fallimento di tutti quelli che hanno 242

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La luce nelle tenebre messo alle vostre calcagna, avrebbe affibbiato a me il compito di stanarvi. E

hai aspettato a colpire proprio quando ho abbassato la guardia. Quando meno

me lo aspettavo.»

«Veramente la trappola non era solo per te. Ma Tex non ti ha seguito nella cac-

cia ai tre rapinatori. E' rimasto al suo maledetto villaggio per uno stupido radu-

no. E così ho dovuto modificare il mio piano. Per Tex dovrò inventarmi qual-

cos'altro. Ho già in mente un paio di idee, devo solo vedere come si evolverà la

situazione.»

«Maledetto. Se speri che Tex cada nella tua trappola, stai fresco. Si aspetterà

qualche tiro mancino da parte di chi mi ha rapito. Anche se non sa che sei sta-

to tu. E starà in guardia. E per te sarà la rovina.»

«Staremo a vedere. Intanto tu cerca di razionare l'acqua e il cibo che ti ho la-

sciato a portata di mano. E' solo un po' di carne secca, ma sono sicuro che la

fame ti porterà a gradirla. Non so quanti giorni starò via. Ho parecchie cose da

fare. Quindi tu regolati. Arrivederci, sbirro.»

«Chissà che quando sarai di ritorno tu non trova qualche sorpresa, vecchio

pazzo.»

«Cercherò di farla io a te, vecchio sbirro.»

Tutti i capi navajo sono ora riuniti nel villaggio centrale ed ha inizio il gran

Consiglio dei capi.

Si discutono tutti i problemi che vengono via via presentati dai capi e si cerca-

no le soluzioni migliori.

Si stabiliscono le quote spettanti a ciascun villaggio relative ai viveri e agli ap-

provvigionamenti che il governo degli Stati Uniti, d'accordo con l'agente india-

no della riserva, che è lo stesso Tex, ha destinato al popolo navajo.

Si chiede di rinegoziare con gli uomini bianchi la quantità della merce da desti-

nare ai Navajo, considerando anche i periodi magri.

Si cerca di appianare anche eventuali dissapori tra le tribù vicine in merito ai

loro confini e al bestiame che dovesse sconfinare dal territorio di una tribù

all'altra.

Le decisioni non vengono prese da Tex, che si limita a suggerire delle soluzioni

il più saggiamente possibile, ma dalla maggioranza del Consiglio.

E quando non si raggiunge l'unanimità, si cercano sempre soluzioni alternative

243

Page 244: TuttoLet - Altervistapecosbill.altervista.org/Romanzi/TuttoLetizia.pdfTex Willer - Aquila della Notte Kit Carson - Capelli d'Argento Kit Willer - Piccolo Falco - Falco Nero - Mano

Letizia che non scontentino qualcuno.

Tex sa che i risultati migliori nel governare la nazione navajo si ottengono con-

cedendo ai capi piena autonomia e si limita a 'suggerire' soluzioni.

In realtà cerca di convincere i capi ad arrivare a proporre le soluzioni che egli

stesso prenderebbe.

E Tex è maestro nel far credere che le decisioni, che desidera vengano prese,

provengano invece dall'iniziativa e dalla volontà degli altri.

Ma in fondo il capo supremo della nazione navajo desidera solo il bene del suo

popolo.

«Bene! Direi che con questo abbiamo finito.»

Tex si prende una breve pausa e rivolge lo sguardo verso Lupo Solitario.

«Ma forse qualcuno dei capi ha ancora qualcosa da dire.»

Ha notato la riluttanza del capo 'ribelle' e teme che la cosa non venga risolta

subito.

Un attimo di silenzio.

«Aquila della Notte è venuto al mio villaggio per convincermi a venire al gran

Consiglio. Lupo Solitario infatti non voleva venire.»

Un mormorio fa eco a queste parole.

«Non volevo venire, ma sono venuto perché ho capito che era giusto.»

«Perché il capo dei Navajo del nord non voleva venire?»

«Sarebbe stato un grave insulto arrecato al Consiglio.»

Ancora mormorii tra i capi.

«Io riconosco che Aquila della Notte è un grande capo, ma egli è un bianco.

Nelle sue vene non scorre sangue indiano. Io ritengo che debba farsi da parte

e lasciare il comando di tutta la nazione navajo a uno di noi.»

«E chi vorresti che fosse il capo supremo? Tu, forse?»

«Pa', ma cos'è questa storia? Perché non dici qualcosa?»

«Sta' calmo, figliolo. Lascia che il Consiglio si esprima.»

«Io penso», risponde il capo Volpe Grigia, «che non c'è capo più degno di Aqui-

la della Notte per il popolo navajo. Egli ha combattuto anche contro la sua gen-

te per proteggere il suo popolo. Il suo valore, il suo coraggio, la sua saggezza

non sono secondi a nessuno. Il suo non è sangue indiano? Non è del tutto ve-

ro. C'è un patto di sangue tra lui e i Navajo. E non solo. Egli è amico e fratello

di molte altre nazioni indiane. Apache, Dakota, Seminole e altri. E' nemico de-244

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La luce nelle tenebre gli uomini bianchi malvagi, ma anche dei cattivi uomini rossi. Egli ha mischiato

il suo sangue con molti indiani. La sua dolce sposa, figlia di Freccia Rossa,

grande capo della nazione navajo prima di lui. E poi suo fratello Tiger Jack. E

anche gocce del tuo sangue, Lupo Solitario, scorrono nelle sue vene, così come

quelle di tutti noi.»

Tace per un attimo.

Forse non ha mai fatto un discorso così lungo.

E poi riprende: «Lui e solo lui è degno di essere il capo di tutti noi. E, quando il

suo braccio sarà reso debole dalla vecchiaia e la sua mano non sarà più ferma,

il comando passerà a suo figlio Falco Nero che da lui ha ereditato tutto quello

che ne farà un grande capo.»

Seguono motti di consenso da parte di tutti gli altri capi, tranne naturalmente

quello di Lupo Solitario.

«Bene, il Consiglio si è espresso. Ora, se qualcuno non è d'accordo, non gli re-

sta che scagliare la lancia della sfida.»

Le parole di Tex suonano decise e dure.

«Non mi batterò con te, Aquila della Notte. Io non sono tuo nemico. Sono tuo

fratello e ho mischiato il mio sangue con il tuo. Posso non essere d'accordo con

te su qualcosa, ma la mia lealtà verso di te e tutto il nostro popolo non verrà

mai meno. Rispetterò le decisioni del Consiglio come se fossero le mie.»

«Bene» risponde Tex. «Si dia allora inizio alle feste per propiziarci il Grande

Spirito, che ci dia soltanto pace e prosperità.»

Le tensioni che si erano accumulate durante gli ultimi minuti svaniscono di col-

po, come fumo al vento.

I capi si passano il calumet degli antichi padri, il Chanunpa Wakan, e aspirano

profonde boccate di fumo.

Una leggera e profumata cortina azzurrognola si leva sopra il fuoco intorno al

quale i capi delle tribù si godono beati il fresco della sera che sta cominciando

a scendere nascondendo il sole dietro l'orizzonte.

Le squaw più anziane stanno intorno ai fuochi dove stanno rosolando arrosti di

montone mentre le più giovani, accompagnate dai caratteristi canti folkloristici,

iniziano le danze, vestite con i tradizionali abiti da cerimonia in pelle di daino

sottile arricchiti da collane e pettorali di pietre dure, tra le quali spiccano grossi

turchesi dal colore del cielo. 245

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Letizia Kit non ha occhi che per lei, la ragazza dalla pelle di luna che, notato il suo

sguardo, abbassa timidamente gli occhi mentre continua a danzare.

Il suo corpo, fasciato da uno stretto abito di pelle dal colore molto chiaro, che

accentua il candore delle sue gambe, si muove lentamente e sinuosamente in

armonia con la musica dei flauti accompagnati dai canti e dal ritmo quasi os-

sessivo dei tamburi.

«E' molto bella, vero?»

«Come?»

«Luna d'Argento. Non trovi che sia bellissima?»

«Oh sì, lei. Sì pa'. E' molto bella.»

«Ma la tua maestrina lo è di più, vero?»

«Oh, no. Cioè... Si, anche lei è molto bella. Ma io... non lo so, pa'. Voglio dire

che... è diversa...»

«Beh, certo che sono diverse. Ma si assomigliano molto, non trovi? Entrambe

hanno i capelli nerissimi e gli occhi come due pezzi di carbone. Stessa altezza.

Stesse curve... La pelle di Luna d'Argento è più chiara, ma questo dovrebbe

piacerti di più, non trovi?»

Kit cambia discorso, non gli va di affrontare certi argomenti, neanche con suo

padre.

«Io vado a dormire, pa'. Domani si partirà presto. Tu devi raggiungere zio Kit e

io ti accompagnerò fino in città, così ne approfitterò per fare una visita a Lin-

da.»

Si alza per ritirarsi nel suo wigwam e si accorge che non ha cambiato per nulla

discorso.

Poi pensa che il giorno dopo anche Orso Macchiato partirà con loro per ritorna-

re al suo villaggio.

E si ritroverà in compagnia di Luna tutta la giornata.

Un paio di giorni dopo, nel pomeriggio, Tex e Kit arrivano in città.

Tex, prima di proseguire per Silverton dove troverà notizie di Carson, fa un

salto dallo sceriffo per conoscere eventuali novità.

Una visita veloce da mamma Rose per procurarsi un po' di cibo per il viaggio e

una allo Store per qualche rifornimento, poi salta in sella e si avvia verso la cit-

tà delle miniere d'argento per raggiungere il suo amico.

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La luce nelle tenebre Kit si è completamente dimenticato di raccontare a suo padre quello che gli era

successo qualche giorno prima, sulla via di ritorno verso il villaggio di Orso

Macchiato.

Ha un unico pensiero in testa: Linda.

Passa tutto il pomeriggio in sua compagnia.

Non è stato un pomeriggio tranquillo.

Hanno parlato delle loro intenzioni, del loro futuro e tutte le divergenze, che Kit

in cuor suo conosceva, saltano fuori come era inevitabile che succedesse.

«Linda, lo sai che io sono legato alla riserva navajo e non posso lasciarla.»

«Lo so, Kit. Ma non puoi certo pretendere che io venga a vivere là con te. Ho

vissuto già per troppo tempo in mezzo alla povertà. Adesso aspiro a qualcosa

di meglio.»

«Ma alla riserva non c'è povertà, Linda. Si vive bene e...»

«Certo. Vivere sotto una tenda con il caldo torrido e il freddo polare, sotto la

pioggia, con il vento e quant'altro? Tu questo lo chiami vivere? E magari dovrei

sgobbare tutto il santo giorno per prendermi cura del mio maritino, capo di tut-

ti i Navajo?»

«Sei ingiusta, Linda. Io non voglio questo per te. Io... io... ti voglio... ti voglio

bene, Linda. E desidero il meglio per te.»

«E allora portami via di qui. Portami all'Est. Andiamocene via, io e te da soli.»

«Lo sai che non posso. Lo sai che non posso abbandonare la mia gente. Quan-

do mio padre sarà vecchio, io prenderò il suo posto e dovrò curare gli interessi

dei Navajo contro l'avidità dei bianchi.»

«La tua gente. Ma la tua gente sono i bianchi. Tuo padre è un bianco e anche

tu lo sei. Sei un ranger, un uomo di legge, della legge degli uomini bianchi.»

Kit non sa che rispondere.

E' combattuto tra l'amore per Linda e quello per il suo popolo.

Oppure è forse Luna d'Argento che gli impedisce di buttarsi tra le braccia di

Linda, di fare una pazzia e di fuggire con lei all'Est.

«Siamo arrivati a casa. Vuoi entrare? La cena sarò pronta in mezz'ora.»

«Entrare da te? Ma cosa dirà la gente, Linda?»

«Non m'importa della gente, m'importa solo di te.»

Lo prende per mano e con lui entra nella propria abitazione.

«Accomodati e fa' conto di essere a casa tua. Mi cambio e sono subito da te.» 247

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Letizia

Scompare nella stanza accanto e ricompare dopo un paio di minuti con un altro

vestito e un grembiule alla vita.

Si accinge a cucinare.

«Scusami se prima sono stata un po' dura, Kit. Ma volevo realizzare il mio so-

gno con te.»

«Non hai bisogno di scusarti. Comprendo le tue ragioni e...»

Non finisce la frase.

Linda gli ha buttato le braccia al collo e, piangendo, lo implora: «Portami via

con te, Kit. Ti prego. Andiamocene da qui. Portami a Baltimora.»

E lo stringe forte a sé.

Kit rimane un po' disorientato.

Poi abbraccia teneramente la ragazza che continua a piangere.

«Su, non fare così. Ti prego. Oh, Linda...»

Poi un tremendo colpo alla nuca.

«Perdonami, Kit. Perdonami.»

Ma le parole di Linda non arrivano alle orecchie del ragazzo che cade al suolo

senza un gemito.

"E' proprio uno sputo di paese. E' solo una mine town e, quando la vena

d'argento si esaurirà, diventerà una delle tante città fantasma."

Tex, assorto nei suoi pensieri, ha raggiunto Silverton.

"C'è pure una banca e, dove ci sono banche, ci sono sempre delle noie."

Raggiunge l'ufficio dello sceriffo e ci trova un ragazzotto intento a mangiare.

«Lo sceriffo Peterson?» chiede un po' scettico.

Troppo giovane per essere sceriffo.

«No, io sono Julius, l'aiutante dello sceriffo.»

«E lo sceriffo?»

«Non c'è. E' andato via.»

«Via? Via dove?»

«Non lo so. E' andato via con il dottore e un ranger.»

«Kit Carson?»

«Sì, mi pare di sì.»

«E' buono quell'intruglio che stai mangiando?»

248

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La luce nelle tenebre «Sì, perché?»

«Perché se continui a farti cavare le parole dalla bocca, te lo farò sputare tutto

a sganassoni. Adesso mi racconti tutto quello che è successo. Tutto.»

«Ehi, mister, piano con le minacce. Io sono l'aiutante dello sceriffo e, quando

lo sceriffo non c'è, sono io che...»

Un sonoro ceffone lo fa volare verso la parete.

«Stammi bene a sentire. Io sono Tex Willer, sono un ranger e devo raggiunge-

re Kit Carson che sta dando la caccia a una banda di rapinatori di banche. A-

desso tu mi racconti tutto quello che sai, se non vuoi assaggiare un altro po'

della mia medicina.»

«Il signor Carson», risponde il ragazzo asciugandosi la bocca, «ha già catturato

i tre rapinatori. Poi è andato via con lo sceriffo e con il dottor Franklin. Ma non

so dove siano andati. Lo giuro. Non mi hanno detto niente.»

Tex tende una mano per aiutare Julius ad alzarsi, ma lui si ritrae credendo che

voglia ancora colpirlo.

«Non temere. Alzati, su. I banditi sono già stati catturati?»

«Sì. Ora sono di là nella cella.»

«Oh guarda! Ha fatto presto il vecchio cammello. Ma ora dove diavolo è anda-

to? Doveva lasciare un messaggio per me allo sceriffo. E anche lui se ne è an-

dato.»

«L'ultima volta che li ho visti, stavano andando tutti e tre alla locanda di Mi-

guel.»

«Ok. Farò una visita a questo Miguel.»

La locanda è poco distante, d'altronde il paese è molto piccolo.

«Sì, señor. Lo sceriffo e il dottore sono venuti qui con el ranger. Son cuatro o

cinco dìas. Lo sceriffo y el señor Carson si sono sentiti male e sono svenuti.

Anche el dottore stava male, ma non è svenuto.»

«Come come come? Carson e lo sceriffo sono svenuti? E come è successo?»

«No sé, señor. No fue mia culpa. Le mie bistecche sono buonissime, señor. E

tambien mi cerveza.»

«Va bene, va bene. Ma vai avanti. Poi cos'è successo?»

«I miei figli, Manuel y Felipe, mi hanno aiutato a portare lo sceriffo y el señor

Carson en la casa del dottor Franklin che li avrebbe curati. El señor Carson es

muy pesante y...» 249

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Letizia «OK. Ma poi, non li hai più visti?»

«No, señor. Julius dice che sono andati via tutti e tre. Ma non so dove.»

"Quel deficiente mi ha detto che l'ultima volta che li ha visti stavano venendo

qui" pensa Tex.

"E ha dedotto che, poiché non li ha più visti, se ne sono andati a spasso, ma-

gari a raccogliere margherite. Imbecille. Non gli è passato nemmeno per l'anti-

camera del cervello che possa essere successo qualcosa a Kit e allo sceriffo.

Quel medico puzza lontano un miglio."

«Senti, Miguel, hai voglia di guadagnare dieci dollari?»

«Oh sì, señor. Cosa devo fare?»

«Manda uno dei tuoi figli a fare una commissione per me. Deve correre a Gal-

lup e portare un biglietto a mio figlio Kit e allo sceriffo.»

«Conosco lo sceriffo Jarvis. E' un hombre muy valiente y...»

«Ma deve partire subito e viaggiare tutta la notte. Il messaggio deve essere

recapitato domani mattina, all'alba se è possibile.»

«Seguro, señor. Felipe, de pronto, aquì.»

Tex scrive velocemente i due biglietti mentre il buon Miguel spiega al figlio

quello che deve fare.

«Ecco qui i biglietti. Ed ecco anche i dieci dollari. Mi raccomando,» dice rivol-

gendosi al ragazzo, «parti subito e corri come il vento.»

«Per dieci dolares corro più veloce del vento, señor.»

«Giù le mani dal dinero, Felipe. Tu pensa a correre. Al dinero penso yo.»

Il ragazzo parte come un fulmine e Tex medita tra sé: "E' troppo tardi e troppo

buio per partire. Sarebbe impossibile trovare delle tracce. Domani all'alba farò

un salto dal maniscalco per chiedere se qualcuno ha preso un carro. Portare

fuori da questo buco di paese due persone non è una cosa che possa passare

inosservata. E questo Franklin? E' lui che ha macchinato tutto o ha eseguito

solo degli ordini? Chi c'è dietro tutto questo?"

E poiché si trova in una locanda e la storia non gli ha certo tolto l'appetito, si

concede una 'frugale' cena.

Tex non lo dà a vedere, ma è molto preoccupato per il suo amico e per lo sce-

riffo.

La notte sembra non passare mai.

250

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La luce nelle tenebre

«Oh, Dean. Non gli avrai fatto troppo male?

«Che ti prende, Manuela? Non ti sarai mica innamorata di lui?»

«No, cosa vai a pensare? Però, abbiamo fatto bene ad accettare questo incari-

co? Perché lo abbiamo fatto?»

«Per denaro, bella. Per un mucchio di denaro. Non volevi che ti portassi all'Est?

O forse volevi che ti ci portasse lui?»

«Oh, no di certo. Ma questo ragazzo mi fa pena. E' così giovane. Cosa pensi

che voglia da lui il capo?»

«Non lo so e non mi interessa. Lui mi ha detto che lo voleva vivo e in buona

salute. Tutto il resto sono affari suoi. A me interessa solo il dinero che ci darà.

Ce ne ha già dato tanto, ma ci ha promesso che ce ne darà molto di più.»

«Potevamo andarcene all'Est con quello che ci ha anticipato. Invece ne abbia-

mo speso più di metà per organizzare tutta questa messinscena.»

«Tu sei pazza. Ci avrebbe scovato anche all'inferno e ce l'avrebbe fatta pagare.

A che ti sarebbero serviti tutti quei dollari sotto un bel metro di terra? Dai, ora

dammi una mano a rinchiuderlo dentro il baule. Questo dannato pesa come un

bisonte.»

Dean prende un flacone, lo stappa e versa il liquido che contiene in uno strac-

cio che poi passa sulla bocca del ragazzo.

«Così dormirà un bel pezzo e non ci darà fastidi. Quando sarà buio e non ci sa-

ranno ficcanaso in giro, mi aiuterai a portare il baule sul carro che ho noleggia-

to.»

«Non so se ce la farò, Dean. E' così pesante.»

«Ce la farai, bambina, ce la farai. Finita questa storia io e te ce ne andremo

all'Est con le tasche piene di dollari, Faremo la bella vita, vedrai. Questo pen-

siero dovrebbe raddoppiarti le forze. Ce la farai, piccola.»

Un paio d'ore dopo due figure nell'ombra portano con gran fatica un grosso ba-

ule su un carro a due cavalli nel retro della casa.

E' pronto per partire e un terzo cavallo, quello di Dean, è legato a un grosso

anello di ferro nella fiancata.

Partono cercando di non fare rumore, ma in strada non c'è nessuno.

La città sembra deserta.

C'è solo una flebile luce in uno dei saloon dove qualche nottambulo sta consu-

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Letizia

mando l'ultima birra.

«Cerca di dormire un poco, Manuela. Ci sono un paio di coperte sul carro. Il vi-

aggio è lungo.»

«No. Preferisco stare a cassetta con te. Tanto non riuscirei a dormire. E poi il

giaciglio non mi sembra troppo comodo.»

«Allegra, bimba. Tra non molto dormirai nei letti più morbidi che esistano.»

«Vorrei che fosse già tutto finito, Dean. Ho uno strano presentimento e ho

paura.»

«Non c'è niente di cui aver paura, querida. Tutto filerà liscio come l'olio, vedrai.

Presto sarai una ricca ed elegante 'madame' di New Orleans.»

«Mi avevi promesso di portarmi a Philadelphia.»

«E ti ci porterò, Manuela. New Orleans sarà solo la prima tappa.»

«Oh, caro. Non vedo l'ora.»

Il sole non è ancora spuntato ma c'è già fermento nel piccolo villaggio di mi-

natori.

Tex è già in piedi da un pezzo.

Il buon Miguel, che si occupa anche del lavoro di maniscalco e tiene in una sua

stalla i pochi cavalli del paese, gli sta raccontando una storia molto interessan-

te.

«Sì, señor. C'è stato un forestiero giorni fa. Proprio il giorno in cui il suo amico

venne a pranzo con lo sceriffo e il dottore. O forse no. No, è stato il giorno

prima. Gli ho venduto un carro e due cavalli.»

«E che ha fine ha fatto questo tizio?»

«No sé, señor. Non l'ho più visto dopo.»

«E com'era? Giovane, vecchio? Alto...»

«Oh, era giovane, señor. Alto più o meno como Usted, senza barba. Aveva i

pantaloni azùl y la camicia roja. Niente sombrero.»

«Uhm. Un carro, eh? E il giorno prima?»

«Sì, señor Willer.»

"Molto comodo per trasportare delle persone svenute. E avrà lasciato tracce

molto chiare" pensa Tex.

"E poiché non ho visto tracce di carro sulla pista da cui sono venuto, cercherò

dalla parte opposta."

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La luce nelle tenebre «Gracias, Miguel. E, quando vedrai mio figlio e il mio pard navajo, digli che so-

no partito per la pista nord e che lascerò dei segnali.»

«Seguro, señor. Adiòs y suerte.»

Come aveva pensato, Tex trova le tracce del carro che, anche se sono passati

un po' di giorni, sono ancora visibili.

Tracce profonde, segno che nel carro c'era più di una persona.

Le tracce a poche miglia dal paese diventano sempre meno chiare, colpa del

terreno a tratti molto duro, quasi roccioso.

Ma non sfuggono all'occhio attento di Tex che, anche se le perde un paio di

volte, le ritrova appena il terreno si fa meno duro.

Ma per sua fortuna più si allontana da Silverton e più la pista si fa chiara.

Tex si lascia alle spalle il terreno irregolare della zona mineraria e si trova di

nuovo immerso nel tipico paesaggio dell'Arizona, con le sue sterminate pianure

rossastre e le 'mesas' solitarie che, come giganti di pietra, si ergono verso il

cielo di colore blu intenso.

Verso sera, con le ultime luci del giorno, si ritrova a osservare altre tracce che

si sovrappongono a quelle del carro che sta seguendo.

"Due cavalli arrivati da est" pensa.

"Le impronte di un cavallo sono meno profonde, segno che non era cavalcato.

Un uomo solo che ha incontrato il carro. Incontro casuale o un appuntamento?

Vediamo un po'."

Esamina con attenzione le tracce tutto intorno per qualche decina di metri fa-

cendo molta attenzione a non sovrapporre le impronte trovate con le sue.

"Due cavalli arrivati con un uomo solo e due cavalli tornati indietro con due

uomini. E il carro prosegue per la sua pista più leggero. Le sue impronte sono

meno profonde."

Tex cerca di trovare una spiegazione all'accaduto.

"E' evidente che una persona dal carro ha abbandonato il carro per seguire

l'uomo arrivato da est. Oppure l'uomo che guidava il carro e quello con i due

cavalli si sono scambiati di posto. Ma questo non importa. L'importante è sape-

re se Carson ora si trova sul carro oppure su uno dei due cavalli che vanno a

est."

Mille congetture si affacciano nella sua mente.

Una sola cosa è certa: il rapitore di Carson e il suo complice si sono incontrati e 253

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Letizia poi si sono nuovamente divisi.

L'ipotesi che sui due cavalli che si sono allontanati ci siano due rapiti, legati o

svenuti, non regge perché le tracce sono come un libro aperto: i cavalli erano

governati e non lasciati liberi, magari con due cadaveri in sella.

E il pensiero fa rabbrividire Tex.

"La cosa più logica sarebbe quella di seguire i due cavalli. Il rapitore è stato in

gamba nel cercare di far perdere le sue tracce. E con altri inseguitori ci sarebbe

riuscito. Ma due cavalli procedono più speditamente di un carro e sarebbe più

facile per il rapitore raggiungere la sua destinazione."

Ma il suo sesto senso gli dice che qualcosa non va.

"Sono sicuro che il bersaglio era Kit e non un qualunque sceriffo di una sperdu-

ta città mineraria o di un suo segaossa. Lo sceriffo è stato sicuramente rapito

per non far partire subito le ricerche. Il rapitore sapeva che il suo aiutante è un

ragazzotto mezzo scemo che non avrebbe dato subito l'allarme. E il medico? O

si è trovato nel posto sbagliato nel momento sbagliato o è lui il rapitore. Ma

perché? E chi è questo fantomatico rapitore, chiunque egli sia?"

Un terribile sospetto gli viene in mente, ma il suo inconscio lo rigetta e si rifiuta

di credere che sia qualcosa più di una semplice congettura.

"Poiché non posso seguire le due piste, controllerò meglio quella dei due cavalli

per un paio di miglia per cercare di capire quale possa essere la loro destina-

zione. Intanto ci penserò su ancora un po' e poi deciderò. Magari troverò qual-

che indizio."

La mattina di quello stesso giorno, con il sole ancora basso all'orizzonte, Feli-

pe arriva a Gallup e si reca correndo verso l'ufficio dello sceriffo.

E' ancora presto ma Jarvis è già al suo posto intento a mettere in ordine le sue

scartoffie.

«Sceriffo, sceriffo Jarvis...»

«Che c'è muchacho? Sei tutto trafelato.»

«Ho un biglietto del señor Tex Willer per lei, sceriffo, e uno per il señor Kit Wil-

ler.»

«Ma sì, ti riconosco. Tu sei Felipe, il figlio di Miguel e vieni sicuramente da Sil-

verton. Dammi qua.»

Lo sceriffo legge rapidamente il messaggio e, scuro in volto, si alza per uscire.

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La luce nelle tenebre «Gracias, Felipe. Eccoti un dollaro, te lo sei guadagnato.»

«Oh no, señor. Non c'è bisogno. El señor Willer ci ha già pagato por esto, dieci

dollari americani. Gracias. Ahora, si Usted permite, vuelvo a mì padre. Adios.»

Il ragazzo sparisce in un lampo e, quando lo sceriffo è in strada, vede la polve-

re del suo cavallo che si allontana al galoppo.

Lo sceriffo cerca Kit per tutta la cittadina purtroppo senza alcun risultato.

Non ha passato la notte nell'albergo dove ha lasciato tutta la sua roba e i suoi

cavalli sono ancora alla scuderia.

Non è un segreto che il giovane Kit ha un debole per la maestrina.

"Sta' a vedere che ha passato la notte da lei" pensa Jarvis con una punta di

malizia mentre si dirige verso la scuola.

Ma la maestra non è alla scuola da dove proviene un vociare di madri preoccu-

pate e di bambini vispi e allegri: oggi niente scuola, oggi vacanza.

Lo sceriffo cerca di non darlo a vedere alle madri che tenta di rassicurare con

qualche spiegazione plausibile e con la promessa che farà tutto il possibile per

risolvere la situazione.

Interroga mezza città senza venire a capo di nulla e, in capo di mezz'ora pren-

de una decisione.

La prima cosa da fare è avvisare i Navajo della scomparsa di Carson e del figlio

di Tex.

C'è sempre a Gallup qualche indiano che in città scambia pelli e manufatti na-

vajo con asce, coltelli e attrezzi vari nello Store di Wilkinson.

Consegna i due biglietti di Tex a Lontra Gialla, che frequenta spesso lo Store,

gli racconta della scomparsa di Capelli d'Argento, di Tex che segue le sue trac-

ce, della scomparsa del figlio Piccolo Falco e gli chiede che faccia l'impossibile

per raggiungere il villaggio centrale e consegnare i messaggi a Tiger Jack.

«Puoi prendere uno dei due mustang di Piccolo Falco. Prendine uno solo però.

Se Kit dovesse tornare, gli servirà. Tu hai già il tuo e due cavalli ti basteran-

no.»

«Uhm. Farò il cambio al campo di Orso Macchiato. Prima che il prossimo sole

tramonti Tiger Jack avrà il messaggio di Aquila della Notte.»

«Oh Dean, come sono felice! Ancora poche ore e tutto sarà finito. Mi dispiace

solo per questo povero ragazzo. Chissà il tuo misterioso capo che intenzioni

255

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Letizia avrà. Dici che vorrà ucciderlo?»

«E' probabile, querida. Ma la sua morte vale molto dinero per noi. Una monta-

gna di dollari.»

«Non pensi che qualcuno potrebbe seguire le nostre tracce e farci passare dei

guai? Suo padre è il famoso Tex Willer, il ranger più famoso di tutto il Texas,

New Mexico e Arizona.»

«Già. Senza contare i suoi Navajo, soprattutto Tiger Jack, che scateneranno si-

curamente una caccia all'uomo. E ci sarebbe stato anche Kit Carson se il capo

non lo avesse già tolto dalla circolazione.»

«E allora? Pensi che scopriranno le nostre tracce? Il nostro carro lascia dei sol-

chi profondi e ben evidenti.»

«Presto lo abbandoneremo e ce ne andremo con i cavalli sciolti. Ho nascosto le

selle più avanti e ci serviranno per viaggiare più comodi.»

«Ma del gringo cosa ne faremo? Lo lasceremo sul carro?»

«Non lo so. Ce lo dirà il capo. Presto lo incontreremo.»

«Tu lo conosci, Dean? L'hai già incontrato?»

«Sì. Un paio di volte. Ma non so che faccia abbia. Era truccato molto abilmen-

te. L'ultima volta, qualche giorno fa, aveva le sembianze di un dottore. Aveva

catturato Kit Carson e lo sceriffo di Silverton. Mi aveva dato appuntamento in

un posto a una giornata di cavallo a nord di quello sputo di paese. Avevo due

cavalli, come mi aveva chiesto. Non sapevo per quale motivo dovevo andare

incontro a lui con due cavalcature. Ma poi ho capito.»

Si arrotola una sigaretta e l'accende.

Manuela è molto curiosa e lo incalza: «E poi? Cosa è successo? A cosa ti è ser-

vito il secondo cavallo?»

«Quando ci siamo incontrati, mi ha consegnato lo sceriffo che dormiva come

un ghiro. L'ho caricato sull'altro mio cavallo. Lui ha proseguito con il suo carro

nel quale si trovava Carson, addormentato pure lui. Io sono tornato indietro e,

dopo aver sistemato il bell'addormentato, mi sono diretto verso Gallup dove

c'eri tu ad aspettarmi.»

«L'hai sistemato? Vuoi dire che l'hai ucciso?»

«Che c'è, bambina? Hai il cuore tenero? Il capo non è uno cui si possa disob-

bedire facilmente, sai. Mi ha detto di farlo fuori e io l'ho fatto. E poi, chi se ne

frega di quel pidocchioso sceriffo.» 256

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La luce nelle tenebre «Ma era addormentato. Come hai potuto uccidere un uomo svenuto?»

«Mon cher. Così è molto più facile. Se devi ammazzare qualcuno, prenditi tutti

i vantaggi che puoi. E' da stupidi correre rischi inutili.»

«Sei spietato, Dean. Ma io ti amo da morire. E ultimamente siamo stati così

poco insieme.»

«Io avrei voluto, Manuela. Ma avevo un sacco di lavoro da sbrigare. E poi,

quando sono arrivato da te, non è colpa mia se Tex e suo figlio ci sono capitati

tra i piedi proprio la mattina dopo. Ho dovuto fare salti mortali per correre ad

avvisarti che era arrivato il momento di agire, prima che questo ragazzino ti si

appiccicasse alle costole.»

Ancora pochi metri e Dean ferma il carro.

«Che fai, tesoro? Perché fermi il carro?»

«Siamo arrivati, Manuela.»

La voce allegra dell'uomo si è fatta improvvisamente seria e il suo viso è diven-

tato cupo.

«Arrivati? E dove? Qui non c'è nessuno. Dov'è il capo? Dobbiamo aspettarlo

qui?»

«No. Il capo non verrà.»

«Ma...»

La voce della ragazza è tremante.

«Mi dispiace. Il tuo viaggio finisce qui.»

«Che vuoi dire, Dean? Non vorrai lasciarmi qui da sola?»

L'uomo estrae la colt.

«Hai detto che mi ami da morire...»

L'urlo della ragazza è coperto e smorzato dal rumore dello sparo.

«Mi dispiace veramente, bambina. Ma per me tu costituivi una minaccia. Mi a-

vresti rallentato e correvo il rischio di essere raggiunto dai Navajo.»

Poi stacca i cavalli dal carro e recupera i finimenti e le selle che aveva nascosto

poco lontano.

Dopo pochi minuti si allontana.

Su uno dei due cavalli si trova Kit ancora svenuto, gettato di traverso sulla sel-

la e legato saldamente perché non possa cadere.

Sul carro abbandonato, sotto il sole, c'è una ragazza che voleva cambiar vita e

raggiungere una delle tante città dell'Est con il suo innamorato. 257

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Letizia Una ragazza che aveva un sogno e che era disposta a tutto per realizzarlo.

Una ragazza che avrebbe anche amato Kit se solo l'avesse capita.

Ora una sottile lacrima di sangue scende a bagnare i suoi bellissimi occhi neri

che guardano il sole.

Il sole non è ancora tramontato quando Tiger Jack riceve i messaggi di Tex

sulla scomparsa di Carson e la notizia che si sono perse le tracce anche di Pic-

colo Falco.

Decide di partire da solo, forse perché intuisce l'identità del loro nemico e non

vuol far correre rischi inutili ai suoi Navajo.

Contro di lui, se i suoi sospetti si rivelano veritieri, non serve essere in tanti.

Occorre solo astuzia e coraggio.

E soprattutto non lasciarsi ingannare.

Si possono ingannare gli occhi, ma non la mente.

Parte per la città con numerosi cavalli.

Li farà scoppiare se necessario e li abbandonerà per strada quando saranno

sfiniti per poter proseguire e salterà in sella ad un altro cavallo senza neanche

fermarsi.

Non passa dal villaggio di Orso Macchiato che gli farebbe allungare la strada.

Non ne ha bisogno.

Ha acqua a sufficienza e vuole arrivare a Gallup il più presto possibile.

Il mattino seguente ha ancora due cavalli di scorta e galoppa con il sole negli

occhi, quando in lontananza avvista un indiano che gli corre incontro.

Quando gli è abbastanza vicino, riconosce in lui il sachem Lupo Solitario.

«Dove va così di fretta il valoroso Tiger Jack?»

«Hai detto il vero, ho molta fretta. Seguimi al galoppo. Non posso fermarmi. Ti

racconterò tutto.»

Tiger Jack non ha rallentato neanche per un attimo e Lupo Solitario, dopo un

primo momento di incertezza, fatica a raggiungerlo.

E il Navajo lo mette al corrente dell'accaduto.

Capelli d'Argento e Piccolo Falco sono scomparsi, Aquila della Notte sta se-

guendo le tracce di Carson e lui deve scoprire cosa è accaduto al figlio di Tex.

«Ti seguirò nella tua caccia, se mi vorrai con te.»

«Il nostro nemico è molto pericoloso. E' velenoso come il serpente e si nascon-

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La luce nelle tenebre de come lo scorpione.»

«Nessun nemico è tanto pericoloso da far tremare Lupo Solitario. E devo dimo-

strare ad Aquila della Notte che gli sono amico e fedele come lo sei tu.»

«Sto andando alla città degli uomini bianchi. Ce la farà il tuo cavallo a correre

per un così lungo percorso?»

«Il mio è un buon cavallo ed è fresco. I tuoi cavalli sono invece molto stanchi.

Ce la farò.»

«Allora andiamo.»

Tex prosegue la sua ricerca osservando attentamente le tracce dei due cavalli.

Il sole sta calando e già pensa che sarà obbligato a fermarsi per la notte per-

ché purtroppo non ci sarà la luna a rischiarare il terreno e non vuole rischiare

di perdere le tracce.

"Ancora un paio di miglia e poi mi fermerò".

I suoi pensieri sono distolti da un leggero luccichio di un oggetto metallico.

Scende da cavallo per raccoglierlo.

"E' la stella dei ranger del Texas. E' sicuramente quella di Kit."

E un dubbio gli attraversa la mente.

"E' stato lui a lasciarla cadere per indicarmi la pista da seguire? Oppure è stata

lasciata dai suoi rapitori perché io pensassi di seguire le tracce giuste?"

Capisce però che non troverà mai risposta.

E decide comunque di proseguire su quella pista.

Salta su in sella e prosegue ancora per poco più di un miglio verso una radura

dove si accamperà per la notte.

Il giorno seguente prosegue con il suo lungo e paziente lavoro di ricerca delle

impronte dei due cavalli che ogni tanto si fanno meno chiare fino a scomparire,

per poi ricomparire più avanti.

Poco dopo mezzogiorno, avvista in lontananza un gruppo di avvoltoi che vola

molto in basso intorno a qualcosa che ancora non riesce bene a distinguere.

"Uhm. Il volo di quelle bestiacce significa una sola cosa: morte. Uomini o ani-

mali."

Sprona il cavallo al galoppo cercando di scacciare i suoi pensieri.

Quando è più vicino, spara alcuni colpi in aria per scacciare i rapaci e vede il

corpo di un uomo.

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Letizia O almeno ciò che rimane.

Scende con un balzo dal cavallo ancora in corsa e osserva i miseri resti.

"Non è Kit, grazie al cielo. Deve essere quel poveraccio dello sceriffo perché gli

abiti non mi sembrano quelli di un medico."

Osserva le tracce intorno e nota le impronte leggere di un cavallo che procedo-

no verso una direzione e quelle più pesanti di un altro cavallo che vanno nella

direzione opposta.

"Il bel tipo che stavo seguendo ha abbandonato qui un cadavere e ha lasciato

libero un cavallo. Poi se ne è tranquillamente andato in direzione opposta. Mi

hanno tirato veramente un bello scherzetto. E io ci sono cascato come un al-

locco. Kit era sul carro. Buono anche il giochetto della sua stella lasciata lì in

bella mostra come a voler significare: seguimi, sono andato di qua. E va bene,

siete stati abili. Ma avete solo guadagnato tempo. Io vi troverò."

Non può far nulla per seppellire quel poveraccio.

Il terreno è duro e attorno non ci sono pietre per ricoprirlo.

Salta in sella e torna indietro, verso il punto in cui il rapitore sul carro ha in-

contrato il suo complice.

Tex è scuro in volto.

Sta pensando che ha perso quasi due giorni dietro una falsa pista e che ora sa-

rà costretto a fare una deviazione per i pozzi di Somora.

Il suo cavallo ne ha proprio bisogno.

Ora che conosce la destinazione, almeno fino al punto di incontro dei rapitori,

potrà permettersi di viaggiare anche di notte, concedendo al suo cavallo solo

brevi soste.

"Ma, se voglio evitare di sfiancarlo, oltre alle soste necessarie devo trovargli

soprattutto acqua. I pascoli sono piuttosto avari da queste parti."

«Coraggio. vecchio mio. Ti prometto che quando questa storia sarà finita, avrai

in abbondanza fieno di ottima qualità e riposo per almeno una settimana.»

Il suo mustang però procede lentamente e arriva ai pozzi solo a tarda sera.

Il povero cavallo si concede un po' di riposo e, dopo essersi abbeverato, si ac-

contenta di qualche cespuglio di erba secca che è l'unica cosa che trova in un

terreno così avaro.

Anche Tex consuma una frugale cena a base di pemmican e si prepara un po'

di caffè, nero e forte, come piace a Carson [se sapesse]. 260

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La luce nelle tenebre Chissà dov'è ora il suo pard.

Il pensiero del suo amico in pericolo lo spinge a proseguire immediatamente il

suo viaggio.

E il mattino seguente, il sole già alto in cielo, raggiunge il luogo dell'incontro.

"Eccomi arrivato finalmente. Quello è il nascondiglio del capo. Tra poco sarò

ricco sfondato. Me ne andrò a New Orleans e mi comprerò un bel battello con

una sala da gioco per attirare i gonzi che mi faranno diventare sempre più ric-

co".

E pensa già come organizzare tutto: roulette e dadi truccati, gambler esperti

che lo aiutino a ripulire i riccastri a caccia di emozioni. E donnine, tante donni-

ne.

Ha già in mente i nomi di un paio di amici che fanno al caso suo.

Dean entra nell'ampia grotta tirandosi dietro il cavallo sul quale giace Kit anco-

ra legato e svenuto.

«Oh, bene. Vedo che hai un pacco per me.»

«Sì, capo. Il giovane Willer. E' un po' malconcio ma gode di buona salute. Gli

ho fatto annusare un paio di volte quella boccetta che mi hai dato perché ac-

cennava a svegliarsi. Credo che tra un paio d'ore riprenderà i sensi.»

«Bene. Slegalo e portalo insieme al suo amico. Nella parete c'è un anello di

ferro. Facci passare dentro questa catena e poi chiudi le estremità ai suoi pol-

si.»

Dean obbedisce, tira giù di sella e slega il giovane Kit.

«E la ragazza? Che ne è stato di Manuela?»

«Manuela mi era d'impiccio, capo. E poteva diventare pericolosa. Ora è cibo

per sciacalli e avvoltoi.»

«Hai fatto bene. Le donne sono sempre pericolose e potevi essere rintracciato

dai ranger o dai Navajo, il che è ancora peggio.»

«Nessun pericolo, capo. Ho cancellato tutte le tracce che portano qui. E ti assi-

curo che sparirò per sempre. Nessuno sentirà più parlare di Dean Sullivan.»

«Te lo auguro.»

Dean porta il ragazzo nel luogo dove è incatenato Carson.

Appena il ranger, provato dalla lunga prigionia, vede il bandito con Kit svenuto

tra le braccia, esclama: «Kit. Kit. Maledetto bastardo. Se lo hai ucciso, io...»

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Letizia «Buono, nonno, buono. Il tuo pupillo sta bene. A parte un grosso bernoccolo, è

ancora sano come un pesce. Ha solo voglia di dormire ancora un po'.»

«Non dar retta a questo vecchio balordo, Dean. Appena hai finito raggiungimi

di là. Il tuo dinero è pronto.»

«Questa è musica per le mie orecchie.»

«Sul fuoco c'è del caffè. Prendine un po' e porta una tazza anche a me.»

Dean si avvicina al fuoco guardando il suo capo che sta venendo verso di lui

con due bisacce da sella gonfie come otri.

Già pregusta la sua ricca ricompensa, quando dalle fiamme si levano lingue di

fuoco che assumono la forma di draghi orrendi che cercano di ghermirlo.

Il bandito estrae la pistola ed esplode tutti i colpi verso quelle figure infernali

che lo circondano e lo afferrano con le loro braccia infuocate.

I suoi abiti prendono fuoco velocemente come se fossero intrisi di petroleum e

a nulla gli serve rotolarsi al suolo nel tentativo di spegnere il fuoco.

I suoi abiti si infiammano sempre di più come se il fuoco fosse comandato da

una volontà diabolica.

Le sue grida disperate riempiono le grotte e sono ingigantite dai mille echi che

risuonano in ogni anfratto.

Terribili minuti di grida che si affievoliscono sempre più, fino a che nelle grotte

regna un innaturale silenzio.

"Strano. Il carro si sta dirigendo verso una zona molto pericolosa. Ci sono

sabbie molto insidiose e non mi stupirei affatto se le tracce scomparissero

all'improvviso. Occhi ben aperti, Tex, se non vuoi fare la fine del topo."

Ma i solchi delle ruote sono ben visibili e il ranger sta molto attento a procede-

re sopra quelle tracce.

Qualche miglio più avanti le tracce sono molto confuse e poi spariscono del tut-

to.

"Quanto mi secca avere sempre ragione. Eccoti accontentato. Il carro è sparito.

Sei contento?"

Scende di sella per esaminare meglio il terreno, tenendo ben strette le briglie e

il cavallo molto vicino a sé.

"Le impronte sono molto confuse, ma vedo tracce di stivali e i solchi del carro

che vanno in quella direzione per poi sparire."

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La luce nelle tenebre Afferra una delle poche pietre in giro e la lancia verso il punto dove i solchi del-

le ruote del carro si fanno sempre più leggere fino a dissolversi nel nulla.

La pesante pietra tocca il terreno e lentamente sprofonda tra i granelli di sab-

bia.

"Addio carro. Ma non è stato un incidente. E' stato affossato volontariamente.

Le impronte di piedi e quelle dei cavalli parlano chiaro. Kit è stato caricato su

un cavallo e il suo rapitore si è allontanato con lui."

Non riesce a capire però se il dottor Franklin è stato inghiottito con il carro o se

invece ha proseguito con i due cavalli.

"Ma scommetto che sono solo due gli uomini che se ne sono andati. Kit e il suo

rapitore che probabilmente è questo fantomatico dottore. A meno che il sega-

ossa non sia sotto un paio di metri di sabbia."

Prosegue cautamente per l'unica pista possibile e dopo due o tre miglia ritrova

le impronte.

"Due uomini, due cavalli. Ora almeno sono sicuro che avrò a che fare solo con

una persona. E si pentirà non solo di aver rapito Kit, ma anche di aver fatto

tutti questi giochetti per prendersi gioco di me."

Ora procede più speditamente e, a fine giornata, arriva nel luogo chiamato 'le

tre morti' a causa di una vecchia storia indiana.

Sono un piccolo gruppo di alture rocciose.

"Questo posto è l'ideale per un agguato. Se c'è qualcuno che mi sta guardando

dall'alto, non deve sospettare che io sto in guardia. Mi avvicinerò come se fossi

uno yankee novellino. L'agnello che si butta tra le fauci dei lupi. Ma se c'è

qualche lupacchiotto in agguato, vedrà che caratterino ha il loro agnello."

Improvvisamente un urlo rompe il silenzio, e poi un altro e un'altro ancora.

Una decina di indiani 'spettinati' esce da ogni roccia, poi altri li seguono urlan-

do.

"Hualpai. Non gli è bastata l'ultima lezione? Sembra di no."

Afferra il suo winchester e comincia a far fuoco.

Gli Hualpai non hanno armi da fuoco, solo archi e lance, ma stanno correndo

contro Tex come se credessero di essere invulnerabili.

E più ne cadono sotto i micidiali colpi del ranger e più ne saltano fuori.

"Maledetti fanatici. Vanno verso morte certa come se non gli importasse nulla."

In breve tempo il suo fucile è scarico. 263

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Letizia Impugna la colt e continua a far fuoco, cercando un riparo dove possa aver il

tempo di ricaricare.

Quando anche il secondo revolver è scarico, raggiunge una fenditura tra le roc-

cia e vi si infila seguito da un Hualpai che però, dopo un netto colpo del manico

del winchester sulla mascella, cade ostruendo il passaggio, visto lo spazio esi-

guo, ai guerrieri dietro di lui.

Tex ha così un attimo di respiro e il tempo di ricaricare il fucile e le sue due

colt.

Poi ricomincia il suo fuoco infernale.

Scavalca i corpi degli indiani caduti ed esce allo scoperto.

Ma gli Hualpai non fuggono.

Si fanno pericolosamente vicini, qualcuno lo colpisce di striscio alla testa con

un'ascia e paga cara la sua audacia.

"Ma che gli prende a tutti quanti? Vengono avanti come marionette e non si

preoccupano minimamente di crepare."

Poi tutto tace, urla e spari.

Tex si avvicina a uno che è ancora vivo per cercare di cavargli qualcosa di boc-

ca.

«Cane navajo. Il grande Mago mi vendicherà e ti ucciderà. E ucciderà il tuo fra-

tello bianco. E tuo figlio. E tutti i cani navajo che verranno a cercare il tuo ca-

davere.»

«Il grande Mago? Chi è costui...?»

Ma non fa tempo a finire la frase che il guerriero hualpai, sebbene gravemente

ferito, lo colpisce con una grossa pietra con uno scatto felino.

Tex reagisce quasi d'istinto, estrae la colt e spara.

"Dannato imbecille. Fanatico fino alla morte. Uhm. Il grande Mago. Come so-

spettavo. Dietro tutto questo c'è il nostro infernale nemico. Questa volta è sta-

to più cauto. Non ha fatto plateali entrate in scena, come piace fare a lui. Ha

agito nell'ombra. E adesso capisco anche il fanatismo esagerato di questi pove-

racci. Ma se pensa di togliermi di mezzo con questi sistemi da strapazzo, si

sbaglia di grosso. Questo agguato in fondo mi è stato utile. Adesso so che Car-

son è vivo e so da chi mi devo guardare. A noi due, vecchio demonio."

«Zio Kit, cosa è successo? Perché siamo incatenati? Ho un gran mal di testa e

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La luce nelle tenebre un senso di nausea. L'ultima cosa che ricordo...»

«Ah, bene. Il cucciolo si è finalmente svegliato.»

«Tu, vecchio pazzo maledetto. Se hai fatto del male a Linda, io...»

«Linda? Vuoi dire Manuela Sanchez? Quella graziosa messicana? Io non l'ho

neanche toccata. Ci ha pensato il suo fidanzato, a sentire quello che mi ha rac-

contato.»

«Fidanzato? Lei non ha alcun fidanzato. E non si chiama Manuela, si chiama

Linda.»

«Ah, ah. Povero ingenuo. La tua bella ti ha raggirato come voleva. Scommetto

che ti ha raccontato qualche storia lacrimevole e che ti ha nascosto il fatto che

ha girato tutti i bordelli del Texas. Ah, ah.»

«Taci, maledetto. Non è vero. Tu non conosci Linda come la conosco io. Se lei

fosse qui, ti direbbe esattamente quello che ti dico io: che sei un folle bugiar-

do. Dov'è Linda adesso?»

«Credo che la tua bella Linda non sia più in grado di andare da nessuna parte.»

«Che vuoi dire, maledetto? Che l'hai uccisa?»

«Oh, no. Te l'ho già detto. A ucciderla è stato il suo fidanzato. Sai, ha detto

che cominciava a essere un peso per lui e che, con lei accanto, alla fine voi l'a-

vreste preso.»

«Linda. Linda, la mia Linda. Morta! Me la pagherà quel dannato. Lo ucciderò

con le mie mani. Ma prima lo farò pentire di esser mai nato.»

«Non ti preoccupare. Non ce n'è bisogno. Ci ho pensato io a toglierlo di mezzo.

E credo di averti fatto un favore. E' morto arso vivo tra le più atroci sofferenze.

Tu non avresti saputo fare di meglio.»

Kit si chiude in uno sdegnoso silenzio.

«Lascialo stare, bastardo. Prenditela con me, se vuoi. Ma lascia in pace il ra-

gazzo.»

«E perché dovrei tacere? Non ti pare che debba sapere come quella santarellina l'ha pre-

so in giro? Erano mesi che recitava la parte della maestrina. Non ci vuole certo molto a in-

segnare a leggere e far di conto a quattro ragazzini figli di contadini. Il suo unico obiettivo

era quello di tenderti l'amo, signor Willer, e tu hai abboccato. Sei caduto come una pera

cotta. E lei era impaziente di agire. Lei e il suo spasimante, quello di cui resta solo un

mucchietto di cenere, di là. Ma non era ancora tempo. Il mio piano era studiato in ogni sua

minima parte e, quando l'ho ritenuto opportuno, ho dato loro il via. Un invito a casa della

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Page 266: TuttoLet - Altervistapecosbill.altervista.org/Romanzi/TuttoLetizia.pdfTex Willer - Aquila della Notte Kit Carson - Capelli d'Argento Kit Willer - Piccolo Falco - Falco Nero - Mano

Letizia ragazza, una botta in testa e il viaggio verso il mio covo. E, durante il tragitto, Manuela o

Linda, se vuoi, ci ha rimesso la pelle per mano del suo innamorato. Ah, ah, ah!.»

«Vecchio balordo. Tex e Tiger sono sicuramente già sulle nostre tracce e presto dovrai fa-

re i conti con loro.»

«Caro Carson, è proprio quello che voglio. Avervi tutti e quattro qui, nelle mie mani, per

soddisfare la mia sete di vendetta.»

«Vai all'inferno.»

«No, grazie. Ci sono già stato e non ho intenzione di tornarci più.»

Tiger Jack a Gallup non riesce a sapere dallo sceriffo Jarvis più di quanto non

gli abbia già detto Lontra Gialla.

Kit è svanito nel nulla e la maestrina è scomparsa con lui.

Nessuno ha visto niente.

Per un caso fortuito, proprio mentre Tiger Jack sta parlando con lo sceriffo, ar-

riva il vecchio Pedro per denunciare un furto.

«Non è stato un vero e proprio furto señor. Alcuni giorni fa ho noleggiato un

carro e due cavalli a un forestiero. Mi ha pagato in anticipo, è vero. Ma poi non

è più tornato a riportarmeli.»

«Quando è successo?» gli chiede Tiger. «Prima o dopo la scomparsa di Kit?»

«Uhm. Mi lasci pensare. L'ultima volta che ho visto il señor Willer è stato quan-

do è arrivato il corriere con la posta. Il gringo è venuto da me por la tarde de

el mismo dìa.»

«Il pomeriggio, eh? E da quella sera nessuno ha più visto Kit. Uhm.»

Tiger ha una sola ipotesi in mente.

«Dove abita la maestrina?»

«La señorita Linda? Ven conmigo, señor Tiger Jack. La casa è vicina alle mie

stalle.»

I due indiani seguono il buon Pedro fino alla casa di Linda e Tiger nota nel retro

i solchi lasciati da un carro.

Più leggeri quando è arrivato e più pesanti quando se ne è andato.

La cosa è notata anche da Lupo Solitario.

«Il carro è ripartito con due o forse tre persone in più. Arrivato con una e ripar-

tito con almeno tre.»

Tiger si rivolge allo sceriffo: «Se Tex dovesse ritornare a Gallup, gli racconti

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Page 267: TuttoLet - Altervistapecosbill.altervista.org/Romanzi/TuttoLetizia.pdfTex Willer - Aquila della Notte Kit Carson - Capelli d'Argento Kit Willer - Piccolo Falco - Falco Nero - Mano

La luce nelle tenebre quello che è successo, lo avverta che noi stiamo seguendo le tracce di Kit sul

carro e che lasceremo dei segni lungo la pista.»

«OK, lo farò. Buona fortuna.»

«Gracias, sceriffo.»

I due Navajo si mettono immediatamente a seguire le tracce.

Stanno quasi per raggiungere il posto in cui il carro è stato abbandonato con il

corpo senza vita di Manuela, quando scorgono all'orizzonte la sagoma di due

uomini a cavallo che vengono al passo verso di loro.

Tiger porta prudentemente il dito sul grilletto del suo winchester.

Quando i due uomini sono più vicini, vede le loro divise blu: sono soldati, sono

giacche azzurre.

Tiene sempre istintivamente il dito sul grilletto mentre i due si avvicinano sem-

pre più.

«Per fortuna vi abbiamo incontrati. Tu sei Tiger Jack, vero? Il pard indiano di

Tex Willer. Io sono il sergente Steve Gordon di Fort Koster e questo è il soldato

Martin.»

«Cosa ci fate qui? Siete piuttosto lontani dal forte.»

«Siamo stati assaliti da una banda di predoni indiani, credo Hualpai. Siamo gli

unici sopravvissuti. Stiamo andando a Gallup perché è il posto più vicino che

abbia il telegrafo. Potete accompagnarci? Ci sentiremmo più sicuri.»

«Mi dispiace, sergente, ma noi andiamo di ...»

Non fa in tempo a finire la frase che il buio scende su di lui. Una gran botta in

testa gli fa perdere i sensi.

Quando si riprende si trova legato mani e piedi.

I nodi sono molto stretti: solo un Navajo sa farli così.

«Lupo Solitario, maledetto traditore.»

«Le tue sono parole al vento. Io non ho tradito il popolo navajo. Tu l'hai tradi-

to, giurando fedeltà a un uomo bianco.»

«Aquila della Notte, quello che tu chiami uomo bianco, è fratello di tutti gli uo-

mini rossi. E' tuo fratello di sangue. Egli si cinge la fronte con la sacra cintura

Wampum, che solo i grandi e nobili capi possono portare. La sua ira sarà terri-

bile.»

«Aquila della Notte nulla potrà contro il potere del grande Mago. Presto sarà

cibo per gli avvoltoi e con lui troveranno la morte suo figlio Piccolo Falco e Ca-267

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Letizia pelli d'Argento. E tu li seguirai nel regno delle ombre.»

«Il tuo è solo delirio. E la punizione che scenderà su di te sarà terribile.»

Alzando le braccia al cielo in segno di potenza e brandendo il suo fucile, il sa-

chem pronuncia parole di fuoco.

«Taci. Io presto sarò il capo supremo di tutti i Navajo. Grande sarà il mio pote-

re. Tutta la nazione navajo mi dovrà cieca obbedien...»

Il colpo di winchester interrompe le sue parole.

Lupo Solitario cade in avanti e si riversa su Tiger che si trova seduto ai suoi

piedi.

Il sachem navajo, troppo ambizioso e sfortunato, si riprende come da uno sta-

to di trance.

«Io muoio, Tiger Jack, e il mio corpo sarà abbandonato agli avvoltoi da questi

due cani bianchi. E non m'importa. Ma voglio che Aquila della Notte sappia che

ho agito soggiogato dalla volontà del grande Mago. Egli ha comandato la mia

mano e il mio spirito non è stato sufficientemente forte da reagire ai suoi co-

mandi.»

«Non temere, Lupo Solitario. Aquila della Notte lo saprà. La sua ira scenderà

su questo Mago e gli farà pagare anche la tua morte.»

«Poche chiacchiere. Se continuate con questa lagna, andrà a finire che mi ci

farò sopra un piantarello.»

Le parole beffarde di Steve sono le ultime che giungono alle orecchie di Lupo

Solitario.

Poi i due falsi soldati caricano Tiger di traverso sulla sella del suo mustang e

partono verso la direzione da cui erano venuti, portandosi dietro il cavallo del

sachem che giace al suolo in attesa degli avvoltoi.

"Quei due idioti non si sono ancora fatti vivi. Non vorrei che quell'impiastro di

Tex arrivasse prima di loro o contemporaneamente, il che sarebbe ancora peg-

gio."

Il 'grande Mago' è preoccupato.

Se qualcosa va storto, il suo piano, studiato così minuziosamente e variato du-

rante la messa in opera a causa di inevitabili imprevisti, dovrà ancora essere

cambiato.

Non gli piace prendere decisioni affrettate, per colpa dell'inefficienza dei suoi

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La luce nelle tenebre complici.

La fretta è cattiva consigliera.

Tutto deve invece funzionare perfettamente, tutti i pezzi si devono incastrare

esattamente nel mosaico.

"Eccoli, finalmente. Fra meno di mezz'ora saranno qui, ma non mi devono ve-

dere. Dovranno credere di essere soli. Sanno cosa devono fare. Quando Tex

arriverà, dovrà credere che siano soli e dovranno crederlo anche loro, nel caso

in cui quell'impiastro abbia la meglio e li 'persuada' a cantare. E anche i prigio-

nieri non mi vedono da ieri e non avranno motivo di metterlo in guardia."

Poi prende una matita e un biglietto.

"Lascerò un messaggio per quei due. Oltre alle istruzioni che già hanno, lascerò

anche i dettagli su cosa dovranno fare in più: aspettare Tex e tendergli un ag-

guato. Senza ucciderlo, naturalmente. Ho già preparato tutto."

«Hei, Steve. Si può sapere dove stiamo andando? Un paio di ore fa hai detto

che saremmo arrivati presto, ma siamo ancora in questo maledetto deserto.»

«Siamo arrivati, Martin. La nostra fatica sta per finire.»

«Siamo arrivati? E dove? Qui intorno non vedo che rocce.»

«Il nascondiglio del capo è in quella grotta laggiù. Credevi che dovessimo por-

tare questo straccione indiano nel Grand Hotel di Phoenix? Dai su, un ultimo

sforzo.»

I due arrivano nella grotta che è sufficientemente ampia per ospitare anche i

cavalli.

Afferrano Tiger facendolo scendere dal cavallo e poi, inoltrandosi nell'interno,

lo sistemano accanto agli altri due prigionieri.

«Tiger. Anche tu qui?»

Non si può certo dire che Carson e il giovane Kit siano sorpresi più di tanto.

In fondo si aspettavano la cattura dell'amico navajo, anche se speravano il

contrario.

«Non temete. Tex è ancora libero e sta seguendo le tue tracce, Capelli d'Ar-

gento. Io ero sulle tracce della maestra e sono stato catturato con l'inganno e il

tradimento.»

«Poche ciance. Quando ce ne saremo andati avrete tutto il tempo che vorrete

per raccontarvi le vostre disgrazie.»

Uno dei due banditi incatena Tiger Jack mentre l'altro gli tiene il winchester 269

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Letizia puntato contro.

Un colpo di coltello gli libera le mani dalle funi.

«I piedi te li sleghi da solo, sporco indiano. Hai le mani sufficientemente libere

per farlo.»

Poi, rivolgendosi al complice: «Il capo non c'è, ma ci avrà sicuramente lasciato

il nostro dinero.»

Si allontanano verso la caverna principale, dove trovano il foglio con le istru-

zioni, insieme con una parte del compenso.

«Il capo dice che sta per arrivare Tex Willer e vuole che gli tendiamo una trap-

pola.»

«Una trappola? Ma sei scemo Steve? Quello è lo sbirro più pericoloso del West.

Non voglio crepare così giovane e con le tasche piene di dollari.»

«Non dire stupidaggini. Agiremo in tutta sicurezza. In questa grotta ci sono

mille anfratti in cui nascondersi. Quando entrerà lui sarà in piena luce e noi

nell'ombra. Spareremo contemporaneamente, tu al cavallo e io, con questa

doppietta caricata a sale, sparerò su di lui. Nessun rischio. Il capo ha pensato a

tutto. I miei colpi lo metteranno K.O. senza ucciderlo. E' questo che vuole il

capo. Lo vuole assolutamente vivo. Ma, se si spezza una gamba cadendo sotto

il cavallo, poco importa. Anzi, tanto meglio.»

«Uhm...»

«Dai, non fare il guastafeste. Vai di vedetta. Il ranger, per arrivare qui, dovrà

fare la stessa strada che abbiamo fatto noi. Controlla bene, ma non farti vede-

re. Tra un paio d'ore, se lo sbirro non è ancora arrivato, vengo a darti il cam-

bio. Ora mi faccio un sonnellino e voglio sognare montagne di bei bigliettoni

fruscianti.»

"Quel dannato mi sta facendo fare dei giri viziosi. Ho il sospetto che sia ritor-

nato nei giorni successivi per confondere le tracce. Sono sicuro che ha cancel-

lato le impronte per farne delle nuove. Ed è stato furbo perché ha usato delle

frasche alla maniera indiana, per cancellare parzialmente quelle più recenti fa-

cendole sembrare più vecchie di quello che sono. Avrebbe ingannato qualsiasi

inseguitore. A me ha solo fatto fare della strada in più e ha solo fatto perdere

del tempo. E probabilmente è proprio quello che voleva."

Osserva di nuovo le impronte e nota che si congiungono ad altre, più fresche.

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La luce nelle tenebre Vanno nella medesima direzione, verso le rocce che vede in lontananza.

«A quanto pare questo deserto è frequentato come un saloon di Gallup il saba-

to sera. Occhi aperti Tex.»

«Steve, Steve. Vieni qui. Sta arrivando.»

«Laggiù, guarda. Sta arrivando da ovest.»

«Bene, prepariamoci. Mi raccomando, tu spari solo al cavallo. Se Willer ci lascia

la pelle, il capo ci spella vivi.»

Dopo pochi minuti i due banditi, nascosti tra le rocce, vedono il cavallo di Tex

entrare nella grotta.

Escono dai loro nascondigli e scaricano i loro fucili su cavallo e cavaliere.

Il cavallo stramazza a terra con l'uomo che porta in sella.

Uomo?

«Non siete per niente gentili, sapete? Mi avete rovinato la mia unica camicia e

le coperte che ci sono dentro. Senza contare che mi avete anche ammazzato il

cavallo. E lo Stetson? Se mi avete bucato anche quello, mi arrabbio sul serio.»

La voce sarcastica alle loro spalle fa girare i due complici.

Tex, a torso nudo e con le due colt in pugno, si trova davanti a loro.

«Che non vi venga in mente di usare i vostri giocattoli. Tra l'altro la tua dop-

pietta è scarica. Quindi a terra i fucili e poi, molto lentamente, slacciatevi i cin-

turoni.»

Steve, forse intuendo il trattamento che il capo gli avrebbe riservato per il suo

insuccesso, getta subito a terra il fucile a canne mozze come se volesse obbe-

dire all'ordine di Tex, ma poi estrae come un fulmine la sua colt e fa fuoco con-

tro di lui.

Il suo gesto è velocissimo, ma non abbastanza per il ranger che se lo aspetta-

va.

Steve cade con una smorfia.

In un attimo il suo complice approfitta dell'occasione, punta il winchester che

tiene ancora in mano e preme il grilletto.

Tex si getta a terra e spara su di lui prima di toccare il terreno.

Il primo bandito, sebbene ferito, riesce a far fuoco da terra e colpisce il ranger

a una spalla.

Una ferita leggera che non gli impedisce di reagire con entrambe le colt.

«Maledetti testoni. Speriamo che almeno uno sia vivo. Ci sono un paio di cose 271

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Letizia che vorrei sapere.»

Si avvicina a Steve e non può far altro che constatarne la morte.

Con l'altro è più fortunato, ma non poi tanto.

E' ridotto piuttosto male e gli resta molto poco da vivere.

«Maledetto... sbirro... Spero che il capo... te la faccia... pagare... cara...»

"E anche questo è andato. Niente informazioni. Vediamo cosa c'è nella grotta.

il vecchio Carson dovrebbe essere qui. Qui ci sono i cavalli di questi due furfan-

ti. Bene. Serviranno a Kit e a me, visto che il mio me l'hanno ammazzato."

Prosegue con circospezione inoltrandosi nella caverna.

Le colt in pugno pronte a far fuoco sul suo terribile nemico, se per caso fosse in

agguato.

Arriva in una seconda grotta, più ampia della prima dove, con suo grande stu-

pore, trova incatenati, non solo Carson, ma anche suo figlio e il suo fedele Ti-

ger Jack.

«Ma che diavolo? Siete stati catturati tutti e tre?»

«Attento, Tex. Non sai con chi hai a che fare.»

«Lo so benissimo, Tiger. Voi piuttosto, come state? Sapete dove sono le chiavi

dei vostri ceppi?»

«No, chissà dove le tiene quel maledetto. Io sto benissimo, tuo figlio è solo un

po' giù a causa della sua ragazza. Il buon Carson invece è più provato. E' qui

da parecchi giorni.»

«Matusalemme ballerino! Provato un corno. Datemi una bella bistecca alta così

e poi vedrete quanto mi ci vuole a rimettermi in forma.»

«Attenti, adesso. Sparerò sugli anelli nelle pareti della grotta per spezzare le

vostre catene. Copritevi il viso con le braccia per proteggervi da eventuali

schegge di roccia.»

Prima che possa sparare, sente una leggera puntura sul collo.

La vista gli si annebbia e cade a terra come morto.

«Bentornato dal regno di Morfeo. E così anche il grande Tex Willer è caduto

nella trappola. Finalmente ora siete tutti e quattro nelle mie mani. Ah, ah, ah.»

«Il dottor Franklin, immagino.»

«Ah, ah. Sei perspicace, sbirro. Tu sei stato il più difficile a catturare. Per te ho

dovuto modificare il mio piano un paio di volte. Dovevi cadere in trappola come

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La luce nelle tenebre il tuo compare Carson, mentre eravate a caccia dei miei tre scagnozzi.»

«C'eri dunque tu dietro tutte le rapine fantasma?»

«Certo che sì. Faceva tutto parte del mio piano. E la ragazza di tuo figlio. E

quel burattino di Lupo Solitario, lui è stato il mio capolavoro e il tuo cagnolino

navajo c'è caduto come un allocco.»

«E' così, Tex. Mi ha colpito alle spalle. Io non me lo aspettavo. Ma non è colpa

sua. Era sotto l'influsso malefico di questo maledetto.»

«Il vecchio Carson è stato il più facile. Per lui sono intervenuto personalmente.

Ci dovevi essere anche tu. Non avevo previsto quella tua riunione. Ho colpito il

vecchio barbogio quando ha abbassato la guardia, davanti alla sua più grande

debolezza: una bella bistecca. Ho drogato la sua birra e anche quella dello sce-

riffo. Era l'unico che poteva darmi delle noie. Portarlo qui è stata una cosa lun-

ga. Ho inscenato un piccolo trucco con un mio complice, quello incaricato di ra-

pire tuo figlio. Lui al momento era libero perché lo spasimante di Linda, o Ma-

nuela che sia, è rimasto con te al tuo dannato villaggio.»

«Già. Hai dovuto modificare il tuo diabolico piano.»

«Infatti. E sono dovuto intervenire anche in un'altra occasione. Tuo figlio stava

per essere ucciso in un agguato da quattro balordi che lui aveva un po' stra-

pazzato e io non potevo permetterlo.»

«Allora sei stato tu a far precipitare nel dirupo quel poveraccio.»

«Certo. Quegli stupidi volevano privarmi della mia vendetta. Quando poi è fini-

ta quella maledetta riunione, voi due siete arrivati a Gallup. Tuo padre per cor-

rere da Carson per aiutarlo ad acciuffare i miei rubagalline, e tu per correre

dalla tua maestrina. Non potevate sapere che il vecchio barbogio era già riusci-

to a catturare i rapinatori e che si trovava già nelle mie mani.»

«E poi hai dato ordine al tuo tirapiedi di catturarmi. E Linda è morta per colpa

tua, vecchio bastardo.»

Le parole di Kit sono quasi urla disperate.

«La tua maestrina era mesi che se ne stava in quella sporca città, con l'unico

scopo di attirarti in trappola con i suoi occhioni dolci. Però poi, poverina, ci ha

lasciato la pelle. E' forse colpa mia se il suo fidanzato era un tipaccio? Ma ha

avuto quello che si meritava: è finito in cenere.»

«Maledetto, maledetto.»

«E anche con te è stato fin troppo facile. Quando Dean ti ha colpito alle spalle, 273

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Letizia tu eri in casa della tua bella che ti teneva teneramente abbracciato con i lacri-

moni agli occhi. L'ho sempre detto che le donne sono pericolose, molto perico-

lose.»

«Te la farò pagare, Mefisto. E per quello che hai fatto a mio figlio, la pagherai

dieci volte di più.»

«Illuso. Quando tu eri svenuto, ho controllato tutto il terreno intorno e non c'è

traccia di anima viva nel raggio di miglia e miglia. Nessuno correrà in vostro

aiuto. Nessuno. Queste catene sono robustissime e gli anelli sono saldamente

piantati nella roccia. Siete disarmati e neanche la forza di dieci uomini sarebbe

in grado di liberarvi. Non potete neanche aiutarvi l'un l'altro. Siete troppo di-

stanti tra voi. Sei finito Tex. Siete già tutti cadaveri.»

"Maledetto Mefisto. Credo proprio che questa volta non ci sia proprio niente da

fare. Mi sono fatto ingannare come una recluta. Vedere incatenate le persone a

me più care mi ha fatto perdere ogni prudenza. Anche se mi ero accertato che

tutte le caverne erano vuote, avrei dovuto aspettarmi qualche altro maledetto

trucco. Sapevo con chi avevo a che fare."

«Che fai, taci? Scommetto che ti stai chiedendo come ho fatto a sorprenderti.

Ma andiamo con ordine. Con il tuo Lupo Solitario è stato poco più che un gio-

chetto. Sapevo che non ti vedeva di buon occhio ed è stato facile suggestionar-

lo per aumentare l'antipatia che provava nei tuoi riguardi. L'ho mandato così a

cercare Tiger Jack che, scoperta la sparizione di tuo figlio, sapevo si sarebbe

messo al più presto sulle sue tracce. E così gli ho mandato incontro i due tipi

che hai steso di là. Per non destare i sospetti di Tiger, erano vestiti da soldati.

Per Lupo Solitario è stato facilissimo colpire alle spalle il tuo pard. Ma anche lui

ha avuto la sua paga. E, pensa un po', nell'ultimo istante della sua vita, si è

pentito di averti tradito. Tu, infine, sei stato la mia opera d'arte. Dovevo ritar-

dare il tuo inseguimento ed ho usato ogni trucco. L'incontro con il mio complice

che si è portato dietro quell'ingenuo di sceriffo, la stella di Carson 'persa' inten-

zionalmente, il carro, vuoto naturalmente, sprofondato nelle sabbie mobili, tut-

to per farti perdere tempo. E poi gli indiani Hualpai, i tuoi acerrimi nemici. Sai

ho dovuto un po' 'convincerli' per gettarsi come marionette incontro alla morte

che vomitavano le tue armi. Ipnosi. Una sciocchezza, come per Lupo Solitario.»

«Però potevano uccidermi. Ti avrebbero tolto la tua vendetta.»

«Oh, no. Impossibile. Avevano avuto ordini precisi. E poi ero sicuro che tu li 274

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La luce nelle tenebre avresti fatti fuori tutti. Sai? Ho molta fiducia in te. E infine quei due mamma-

lucchi. Come hanno potuto pensare di mettere nel sacco una vecchia volpe

come te? Ma hanno fatto il mio gioco. Ti hanno fatto credere di essere l'unico

ostacolo tra te e i tuoi amici. Io in effetti non ero nelle grotte. Le hai ispeziona-

te in ogni angolo e non mi hai trovato. Io ero fuori, sulla cima di queste alture

c'è una fenditura. Stavo in agguato in attesa di colpirti. Quando sei venuto a ti-

ro, è bastata una semplice cerbottana, una puntura sul collo e... addio Tex. Sei

caduto in un sonno profondo.»

Una smorfia di orgoglio e soddisfazione si stampa sul suo viso.

«Ma la carta vincente è stata l'anonimato. Non mi sono mai mostrato a voi.

nessuna apparizione. Nessun segno. Nessuno di voi sospettava chi c'era dietro

tutto questo. Ed è stata la vostra rovina. Sì, forse alla fine tu, e magari anche

Tiger, avete avuto qualche leggero sospetto, ma niente di più. E niente vi ha

impedito di cadere tra le mie grinfie.»

Il suo volto si fa ora scuro e minaccioso.

Urla: «Ma ora basta. La mia vendetta sta per arrivare.»

Il suolo della caverna si squarcia e dalle viscere della terra escono centinaia di

orribili creature scaturite dall'inferno.

Si radunano intorno a Mefisto che le comanda con un suo gesto.

Mostri orrendi che non possono essere reali.

Sono solo orrende visioni.

Ma i quattro prigionieri sentono il loro fetido alito, sentono il loro respiro affan-

noso come quello del predatore che, dopo una lunga corsa, ha raggiunto e af-

ferrato la sua vittima.

«Ricordi, Tex? Ricordi il giorno della mia discesa agli inferi? Il giorno in cui sei

venuto a portare morte e rovina nel castello di Jean, il barone Samedì, con l'a-

iuto di quei cenciosi Seminole e dei cannoni dei soldati?»

Con voce piena di rabbia e nero in volto, grida: «Mi hai riservato la più orribile

delle morti, cane maledetto. Dilaniato e divorato vivo da centinaia di topi di fo-

gna. Sentivo i loro denti aguzzi penetrare nelle mie carni e lacerarle. Vedevo il

mio sangue bagnare le loro immonde fauci...»

Poi tace per un attimo e riprende con un sorriso beffardo dipinto in volto.

«Ebbene, vi ho riservato la stessa sorte. Solo che io sarò presente. Starò qui a

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Page 276: TuttoLet - Altervistapecosbill.altervista.org/Romanzi/TuttoLetizia.pdfTex Willer - Aquila della Notte Kit Carson - Capelli d'Argento Kit Willer - Piccolo Falco - Falco Nero - Mano

Letizia guardarvi morire fra atroci tormenti. E gioirò della vostra morte.»

A un suo gesto, i mostri orrendi intorno a lui si trasformano in centinaia e cen-

tinaia di topi famelici e i loro infernali squittii lacerano l'aria della caverna.

«Se credi che ti imploreremo pietà, ti sbagli di grosso, mostro infernale. Tutto

il popolo navajo non avrà pace finché non sarà vendicata la nostra morte.»

La voce del giovane Kit è fiera e sprezzante.

Tex non si è mai trovato in una situazione simile.

La morte non gli ha mai messo paura, ma così...

Vedere morire sotto i suoi occhi suo figlio e in modo così orrendo...

Aveva mille progetti per lui.

Sarebbe diventato il capo supremo di tutti i Navajo e mai il popolo rosso a-

vrebbe avuto un capo migliore.

Carson e Tiger hanno avuto la loro vita, come me.

Ma lui... lui no.

E rivede in un lampo tutta la sua vita.

La sua bellissima e giovane Lilyth che sposandolo gli aveva salvato la vita.

La nascita del figlio, la morte della sua sposa.

L'incontro con Kit Carson, l'amicizia con Tiger.

La sua nomina a capo supremo di tutta la nazione navajo, la sua stella di ran-

ger.

Tutto finito.

Tutto.

I primi ratti schifosi affondano i loro denti nelle sue braccia.

Ma...

Si spezzano i sigilli delle sette porte nere degli inferi che cadono con fragore

immenso.

Una luce accecante le attraversa fino a raggiungere i cerchi inferiori.

Le creature sataniche che si trovano nelle sette nere vie fuggono accecate in

cerca di profondità oscure in cui la luce non possa arrivare.

Ma la luce penetra in ogni abisso e in un attimo fa risplendere il regno della

notte.

E, in mezzo a quella luce, avanzano tre figure in sella a bianchi destrieri.

Una è lo spirito di Freccia Rossa che indossa le insegne di grande capo di tutti i

Navajo e impugna la lancia d'oro. 276

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La luce nelle tenebre La seconda è lo spirito del suo fedele sciamano Te-Hi-Nak che porta con sé i

sacri amuleti dei nove cieli.

L'ultimo spirito è quello dell'intrepida Lilyth che scaglia in suo tomahawk d'oro

contro lo specchio maledetto mandandolo in mille pezzi.

La grotta in cui Mefisto tiene prigionieri Tex, suo figlio, Tiger Jack e Carson vie-

ne invasa da una luce fortissima che interrompe il ghigno satanico delle bestie

immonde che già pregustavano il supplizio dei quattro pard.

La luce investe la caverna facendo dissolvere come fumo al vento le bestie

schifose assetate di sangue.

Le catene dei prigionieri si spezzano e i ceppi si aprono mentre Mefisto urla la

sua rabbia.

Cerca una via di scampo dove non potrà trovarne mai.

E, nella sua fuga, accecato dalla luce che ha squarciato le tenebre, cade in una

buca profonda che lo inghiotte famelica.

Dal profondo degli inferi si ode una un voce profonda e disperata: «No, nooo.

Mefisto non deve morire. Non deve. Egli è solo uno spirito. Il suo corpo è mio.

Mio. Io devo tornare nel mondo dei vivi, perché sono un 'non morto', condan-

nato a passare l'eternità in questi neri abissi, se non riuscirò a recuperare il

mio corpo togliendolo a quel maledetto.»

La voce di Narbas diventa sempre più flebile, fino a svanire del tutto.

Nella caverna ora tutto tace.

Rimane ancora la luce accecante nella quale Tex intravede delle figure.

Poi la luce pian piano si attenua e la caverna ritorna nella semi oscurità.

Le fiaccole alle pareti rimangono accese.

«Matusalemme ballerino. Cosa diavolo è successo?»

«Papà.»

«Kit» gli risponde il padre mentre lo strige forte a sé con le braccia poderose.

«E' un prodigio del Grande Spirito.»

«Papà, ho avuto una visione. Nella luce accecante ho intravisto il volto bellis-

simo di una ragazza navajo. Era molto più bella di Luna d'Argento.»

«Non era una visione, Kit. L'ho vista anch'io.»

E poi, con la voce rotta dall'emozione e una lacrima che non riesce a bagnare

la sua guancia: «Era tua madre, Kit.»

«La mamma? Ma come...» 277

Page 278: TuttoLet - Altervistapecosbill.altervista.org/Romanzi/TuttoLetizia.pdfTex Willer - Aquila della Notte Kit Carson - Capelli d'Argento Kit Willer - Piccolo Falco - Falco Nero - Mano

Letizia «Era il suo spirito, Kit. La mamma, di questo sono sicuro, ha sempre vegliato

su di te, ogni giorno della tua vita. E ti ha sempre protetto.»

«Papà...»

«E ho visto anche tuo nonno Freccia Rossa e il suo fedele sciamano Te-Hi-

Nak.»

«Così è. Anch'io ho visto il grande capo dei Navajo e il vecchio sciamano. I loro

spiriti ci hanno protetto, scendendo dalle celesti praterie e scacciando gli spiriti

maligni.»

«Tex, vuoi dire che se, abbiamo ancora la pelle tutta intera, lo dobbiamo a ...»

«Sì, vecchio cammello. E' proprio così.»

«Pa', la mamma era così bella come l'immagine che ho visto tra la luce? Io ero

ancora troppo piccolo e ho solo un vago ricordo di lei.»

«Sì, Kit. La mamma era bellissima.»

«Matusalemme ballerino. E quella carogna immonda di Mefisto, che fine ha fat-

to?»

«Io l'ho visto cadere in un crepaccio che si è subito richiuso su di lui. Credi che

sia ancora vivo, pa'?»

«Non credo proprio figliolo. Ma se dovesse capitarci di nuovo tra i piedi, mi ri-

corderò di quello che ci ha fatto passare, e la pagherà molto cara. Lo farò pen-

tire di esser mai nato.»

«Tex, più avanti ci sono i cavalli dei due uomini che mi hanno portato fino a

qui. Potremmo utilizzarli per lasciare questo posto.»

«No, Tiger. I cavalli sono due e noi siamo quattro. E poi il vecchio gufo non è

in grado di cavalcare. E anche Kit non mi sembra che stia poi così bene.»

«Un accidenti, tizzone d'inferno. Pensa per te. Io sto benissimo.»

«No, Kit. Faremo segnali di fumo ai nostri Navajo. Nel giro di mezza giornata

saranno qui con un paio di 'travois' corredati di morbide pelli. E soprattutto con

un quarto di bisonte. Sembra che qualcuno sia molto affamato.»

«Vorrei vedere te, negriero. E' così tanto tempo che sono imprigionato qui che

non me lo ricordo più. E la cucina, come puoi ben immaginare, non era delle

migliori.»

Escono all'aperto.

Raccolgono quei pochi rami secchi e arbusti che riescono a trovare e salgono

sulla cima delle rocce dove accendono un fuoco per le segnalazioni. 278

Page 279: TuttoLet - Altervistapecosbill.altervista.org/Romanzi/TuttoLetizia.pdfTex Willer - Aquila della Notte Kit Carson - Capelli d'Argento Kit Willer - Piccolo Falco - Falco Nero - Mano

La luce nelle tenebre Nel giro di pochi minuti, da molto lontano, altri segnali rispondono alla chiama-

ta.

La gioia di vedere il volto della madre attenua il dolore di Kit per la perdita di

Linda, che gli è rimasta nel cuore nonostante abbia scoperto che era complice

di un bandito e che avesse tradito la sua fiducia.

E i suoi sentimenti.

Ma c'è un'altro pensiero che gli farà sicuramente dimenticare l'avventuriera

messicana dagli occhi neri.

Presto ritornerà al villaggio di Orso Macchiato.

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Page 280: TuttoLet - Altervistapecosbill.altervista.org/Romanzi/TuttoLetizia.pdfTex Willer - Aquila della Notte Kit Carson - Capelli d'Argento Kit Willer - Piccolo Falco - Falco Nero - Mano

Letizia

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Capitolo 3 L'urlo del Falco

«Tex, quello non è il tuo ragazzo?»

«Vedo che, nonostante l'età, il tuo occhio è ancora quello di una lince, vecchio

cammello.»

«Tizzone d'inferno, vecchio un corno. E ci vedo benissimo. Leggo anche il gior-

nale senza bisogno di occhiali.»

«Giornale? Quello che sfogli ogni due o tre mesi?»

«Ne leggo sempre più di te, sempre ammesso che tu sappia leggere.»

Kit intanto si avvicina a loro sempre più.

«Kit che diavolo ci fai da queste parti? Pensavamo di trovarti al villaggio per i

preparativi.»

«Ho fatto un salto da un vecchio sciamano che voleva parlarmi. Ha avuto delle

visioni su di me.»

«Niente di brutto, spero.»

«Mah, non lo so. E' stato piuttosto sibillino. Mi ha messo solo in guardia, ma su

cosa non lo sapeva neanche lui. Le piccole ossa non sono state molto chiare e

gli spiriti non hanno parlato.»

«Beh, secondo me non era niente di cui preoccuparsi troppo. Quando c'è qual-

che grana in vista, le mie ossa cominciano a scricchiolare. E ora, a dire il vero,

sto benissimo. Anzi, sapete che vi dico? Ho una fame da lupo.»

«Non preoccuparti, zio Kit. Ti aspettano tre giorni di festa. Avrai più cibo di

Pantagruel.»

«Pantagruel? Chi era costui?»

«Ah già, dimenticavo. Tu non sei stato a scuola, zio. Non ne hai avuto biso-

gno.»

«Vuol solo dire che ci sarà cibo in abbondanza, vecchio gufo.»

«Beh, allora lo perdono di essere stato irrispettoso con il suo padrino.»

Il campo di Orso Macchiato si estende a vista d'occhio.

Le tende non sono mai state così numerose.

Per l'evento sono arrivati Navajo da ogni tribù e ognuno ha portato nel proprio

'travois' tenda, coperte, pelli e masserizie.

Le notti sono fredde e nel villaggio non ci sono tende e giacigli per tutti.

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Page 282: TuttoLet - Altervistapecosbill.altervista.org/Romanzi/TuttoLetizia.pdfTex Willer - Aquila della Notte Kit Carson - Capelli d'Argento Kit Willer - Piccolo Falco - Falco Nero - Mano

Letizia Tiger Jack sistema la sua tenda nella quale accoglierà Capelli d'Argento, men-

tre Tex è stato invitato nel wigwam del sachem, del quale non poteva rifiutare

l'ospitalità.

Sarebbe stata una grave offesa.

Kit ha una sua tenda già da parecchi giorni.

Il giorno seguente Tex e Carson si stanno godendo il fresco della mattina e,

dopo un'abbondante colazione, stanno conversando e fumando con Orso Mac-

chiato.

Beh, colazione è un termine alquanto improprio perché un cosciotto di monto-

ne non si può certo considerale tale.

L'unica cosa in comune con una normale colazione era il caffè, nero e bollente.

Ma Carson non l'ha certo fatto fare da Tex.

Lo ha preparato lui stesso.

Tiger sta raccontando a un nugolo di ragazzini le imprese del grande capo A-

quila della Notte, in mezzo a un coro di 'oooh'.

Quando Orso Macchiato li lascia soli per raggiungere le squaw che stanno di-

scutendo animosamente, Carson si abbandona ad un colloquio più

'confidenziale' con Tex.

«Non ho visto Luna d'Argento e Kit se ne sta lì per i fatti suoi, facendo finta di

essere occupato. Che gli ha preso?»

«Non è conveniente che si vedano insieme.»

«No? E come mai?»

«E' la tradizione. Oggi è il giorno della richiesta. Quando il sole sarà alto in cie-

lo, Kit farà la richiesta a Orso Macchiato, e gli porterà il suo dono, cinquanta

mustang.»

«Cinquanta? Ma non è bastato il tuo di dono? Hai speso una fortuna con

quell'allevatore a Gallup per la sua mandria.»

«Esagerato. Non erano neanche cento capi. Lo sai che al campo ci sono quasi

mille persone? Orso Macchiato non ce l'avrebbe mai fatta a sfamare tutti. Se

poi mangiassero tutti come te... E poi sai che non ho problemi di denaro.»

«E il capo cosa farà? E poi non dovrebbe essere Luna a rispondergli?»

«Luna d'Argento ha già detto sì al padre. Altrimenti Kit non avrebbe potuto

pronunciare al capo la sua richiesta. La risposta sarà domani.»

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Page 283: TuttoLet - Altervistapecosbill.altervista.org/Romanzi/TuttoLetizia.pdfTex Willer - Aquila della Notte Kit Carson - Capelli d'Argento Kit Willer - Piccolo Falco - Falco Nero - Mano

L'urlo del Falco «Domani? e Kit non potrà vedere Luna per tutto il giorno?»

«Beh, no. Potranno vedersi, ma solo per poco tempo e mai da soli. Dopo la ri-

chiesta ci sarà festa tutto il giorno e anche parte della notte.

«Questa è la parte più interessante.»

«Vecchio crapulone. Domani sarà il giorno della risposta. Orso Macchiato si re-

cherà nella tenda di Kit e gli consegnerà acqua e fuoco, il simbolo del focolare

domestico. Vorrà dire che la sua richiesta è stata accettata.»

«E poi ci sarà festa tutto il giorno.»

«Ma non pensi che ai bagordi, tu? Meno male che non ci sono liquori...»

«Già, un vero peccato.»

«Il terzo giorno ci saranno gli sponsali. Sarà una cerimonia bellissima. Però,

peccato per te che questo significa la fine della pacchia. Quando torneremo nel

nostro villaggio, non ci sarà l'abbondanza che c'è qui. Ma sta' tranquillo, non ti

farò fare la dieta, anche se lo meriteresti.»

«Grazie mille, tizzone d'inferno. Troppo buono.»

E il terzo giorno arriva in fretta.

Troppo in fretta, penserebbe il buon Carson.

Kit e Luna d'Argento sono di fronte alla sciamano.

Tex e Orso Macchiato sono accanto a loro.

Lei è bellissima nel suo caratteristico abito da cerimonia, in pelle di daino orna-

ta da un pettorale di pietre preziose e da un diadema di turchesi che contra-

stano con il nero dei suoi lunghi capelli.

Kit indossa il suo abito navajo in pelle con il simbolo del falco sul petto.

Nella fronte porta il sacro wampum del padre e sul capo un diadema di lunghe

penne d'aquila che indica in lui il futuro capo di tutta la nazione navajo.

«Luna d'Argento, vuoi essere regina della mia tenda?»

«Dove tu sarai re io sarò regina, dove tu sarai schiavo io sarò schiava, finché il

sole splenderà in cielo e la pioggia bagnerà i fili d'erba che crescono nella pra-

teria.»

Lo sciamano incide leggermente i palmi delle mani dei due giovani con la punta

di un coltello e quindi congiunge le loro mani.

«Il Grande Spirito unisce Piccolo Falco e Luna d'Argento, così come ora il san-

gue si unisce nelle loro vene.»

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Letizia Il ritmo dei tamburi si fa sempre più incalzante e i canti degli anziani diventano

sempre più dolci, come parole d'amore.

Le parole che si scambieranno presto i due giovani sposi.

Mentre Kit e Luna d'Argento si avviano verso la loro tenda, le giovani navajo

non ancora sposate danzano attorno ai fuochi lanciando timidi sguardi verso i

giovani guerrieri che hanno i corpi dipinti con i segni che dimostrano il loro va-

lore e coraggio e che ostentano con orgoglio.

Per un giovane navajo non c'è niente di meglio di una cerimonia nuziale per

scegliersi una sposa.

O magari per essere scelto da una squaw che gli fa credere il contrario.

La festa dura fino a tarda notte.

Tutti si ritirano infine nelle loro tende.

Solo Tex rimane ancora alzato.

Si arrotola una sigaretta e pensa al suo ragazzo che è diventato un uomo.

"Troppo presto, dannazione. Mi sembra solo ieri quando imparava a tirare con

l'arco. Una volta quasi colpì il vecchio cammello. Poi gli ho insegnato a sparare

e poi..."

Che ti succede, Tex?

Nostalgia dei vecchi tempi?

"E presto mi renderà nonno, tuoni e fulmini, come direbbe Carson. E il bello è

che non potrò neanche arrabbiarmi quando il vecchio cammello mi chiamerò

così. Nonno."

L'aria è fresca e frizzante.

Ci vorrebbe una bella coperta, o forse sarebbe meglio andare a dormire.

Ma Tex non ha sonno.

E' passata già una settimana e Kit non si è ancora trasferito al villaggio cen-

trale con la sua sposa.

Luna d'Argento gli ha chiesto più di una volta di portarla con sé nella città degli

uomini bianchi, ma lui ha sempre rifiutato perché è un viaggio lungo e faticoso.

Lei ha sempre insistito.

Non ha mai visto una città.

E la fatica non è un discorso che regge con una donna navajo non certo abitua-

ta, come le donne bianche, ad agi e mollezze.

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L'urlo del Falco «Ma io non voglio che tu fatichi neanche qui. Nel villaggio di mio padre poi, a-

vrai tutti gli aiuti che vorrai. Le squaw, sia le giovani che quelle più anziane, si

faranno in quattro per dare una mano alla sposa di Piccolo Falco, figlio del

grande capo Aquila della Notte.»

«Ma io non voglio aiuti. Non ne avrò bisogno. So badare da me al mio sposo e

alla mia tenda.»

«Lo so, Luna. Sei una ragazza in gamba. Ma sei anche la figlia di un capo e la

moglie di un capo. Mio padre mi ha donato la sacra fascia wampum che signifi-

ca il potere su tutto il popolo navajo. Mi ha praticamente ceduto il comando di

tutti i Navajo.»

«E' proprio perché sono la sposa del capo di tutto il nostro popolo che devo es-

sere umile e degna di questo, Piccolo Falco. la sposa di un capo deve essere la

prima a dare l'esempio a tutte le altre donne. Io mi comporterò come se fossi

la donna dell'ultimo dei Navajo.»

«Sai che da noi non esiste né il primo né l'ultimo. I Navajo sono tutti uguali.

Io, e mio padre prima di me, sono solo la loro guida, colui che ha la responsa-

bilità su di loro e sul loro benessere.»

«Bene. Allora siamo d'accordo. Mi porterai con te alla città dei bianchi?»

La mattina dopo Kit e Luna d'Argento sono in viaggio verso Gallup.

Chissà perché, ma le donne riescono sempre a ottenere quello che vogliono.

Il viaggio è lungo e i due giovani non hanno fretta.

La notte si accampano in una radura.

Luna accende il fuoco per cucinare e per scaldarsi un po'.

La notte comincia ad essere più fredda in quel periodo.

Ma i due giovani non sentiranno freddo.

Sono accanto a un fuoco che durerà parecchie ore e hanno morbide e calde

pelli di bisonte.

E, dimenticavo, hanno anche un'altra cosa.

La gioventù.

Quando arrivano in città, il sole è già alto nel cielo.

Come spesso succede, ci sono sempre Navajo in città.

Kit nota Lontra Gialla e Cane Nero che, vedendolo arrivare con la sua sposa, gli

vanno incontro.

Entrambi avevano partecipato alle feste per il loro sposalizio e ora erano in cit-285

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Letizia tà per acquistare un po' di farina e di coperte.

Kit va dallo sceriffo.

Suo padre gli ha chiesto di passare da lui per sapere se ci sono novità dal co-

mando dei ranger.

Luna d'Argento non lo segue.

Ha voglia di visitare lo Store per dare un'occhiata e per fare eventualmente

qualche acquisto.

«Cane Nero, rimani con lei mentre io vado con Lontra Gialla dallo sceriffo.»

Non l'ha detto, ma la sua richiesta era: 'rimani con lei e proteggila'.

Ma Cane Nero ha compreso benissimo il senso delle sue parole.

«Va' tranquillo, Piccolo Falco. Starò accanto alla tua sposa fino al tuo ritorno.»

Luna d'Argento pensa che forse l'apprensione di Kit sia esagerata ma non dice

una parola.

In fondo è contenta che il suo sposo abbia tante attenzioni per lei.

E poi non si sognerebbe mai di discutere gli ordini che dà ai suoi Navajo.

«Sceriffo, le porto i saluti da mio padre e da Kit Carson. Ci sono novità dal co-

mando? Dopo l'ultima avventura contro Mefisto, si sono presi un periodo di ri-

poso e non hanno avuto più notizie dai ranger. Credo che il troppo riposo li

faccia annoiare un po'.»

«No, Kit. Nessuna nuova. Se ci fossero state novità, avrei mandato qualcuno

dei tuoi Navajo, lo sai. A proposito. Auguri a te e alla tua sposa. Mi piacerebbe

conoscerla. Dicono che è bellissima.»

«Lo farà presto. E' qui in città. E' allo Store, a fare acquisti. Ora la raggiungo.

Più tardi faremo un salto qui nel suo ufficio, sceriffo Jarvis.»

«Se non ti dispiace, vengo allo Store con te. Perché perdere tempo?»

«Bene, sceriffo. Andiamo allora.»

Uno sparo, un altro e altri ancora.

La quiete della piccola città è rotta da colpi di pistola esplosi in rapida succes-

sione.

«Che dannazione succede ora?»

«Luna! Luna d'Argento!»

Un brutto presentimento attraversa la mente di Kit che si precipita in strada.

In prossimità dell'ingresso dello Store vede una scena agghiacciante.

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L'urlo del Falco

«Luna! Luna! Mio Dio.»

Si getta sul corpo di lei che è a terra, immobile.

Una macchia di sangue bagna gli abiti sul suo seno.

Accanto a lei il corpo morente di Cane Nero.

«Perdonami... Piccolo Falco... tre uomini bianchi... non ho saputo... protegge-

re... la tua donna... perdonami...»

Nelle mani di lei un coltello con un filo di sangue sulla lama.

La abbraccia e la chiama per nome.

La stringe sempre di più.

La supplica: «Non morire, Luna. Non morire.»

Ma lei non risponde.

Non si muove.

Un urlo agghiacciante rompe il silenzio surreale che sovrastava sulla città.

E' il terribile grido di guerra dei Navajo.

Un urlo che non si sente più da parecchi anni.

Un urlo che gela il sangue delle persone che sono intorno a lui e di quelle che

stanno accorrendo.

Kit sta ancora gridando quando Lontra Gialla nota un bianco che esce a cavallo

dalle vicine scuderie.

Sprona l'animale e fugge al galoppo, un galoppo sfrenato.

«Piccolo Falco...»

«Ho visto. Tu sta' accanto alla mia sposa. Che nessuno la tocchi. Tornerò pre-

sto. Ho una scalpo da prendere.»

Si lacera la camicia e se la strappa di dosso gettandola nella polvere.

Passa le dita insanguinate sul proprio viso e vi disegna i segni di guerra.

Preme la sua mano destra, quella che impugna le armi, sul suo petto, all'altez-

za del cuore.

Il sangue della sua dolce Luna d'Argento lascia sulla propria pelle la figura di

una mano.

Mano di sangue, simbolo di guerra che ha un solo significato: nessuna pietà

per i suoi nemici.

Corre verso il suo mustang, balza in sella e parte al galoppo prima ancora di

afferrare le redini.

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Letizia

Lancia verso il suo nemico un altro lungo grido.

E il nemico lo sente mentre fugge nella speranza di tenere la pelle ancora at-

taccata al corpo.

L'inseguitore è a qualche centinaio di metri.

Troppo pochi.

Gli indiani sono i migliori cavalieri del West e i Navajo non hanno rivali tra gli

indiani.

L'assassino perde continuamente il suo vantaggio.

Capisce che prima o poi sarà raggiunto.

Ha nelle orecchie quel grido selvaggio che non accenna a smettere.

"Un urlo non ha mai ucciso nessuno" pensa, ma non capisce che quell'urlo gli

toglie la lucidità necessaria per poter affrontare il suo nemico.

E, quando imbraccia il suo winchester e spara, la sua mano non è ferma.

Nessun colpo va a segno e l'urlo del suo inseguitore si fa sempre più vicino.

Il suo cavallo cade colpito da un colpo preciso.

Il bandito cade rovinosamente a sua volta, ma si rialza immediatamente e con-

tinua a sparare finché sente lo scatto a vuoto del percussore del suo fucile.

Afferra freneticamente la colt e spara con mano tremante.

Il suo avversario sembra invulnerabile e non si cura dei colpi sparati contro di

lui.

Quando giunge a pochi metri, afferra il lungo coltello e, con uno scarto al suo

mustang, si scaglia contro di lui.

L'assassino sente il coltello che gli penetra nel ventre.

Lo sente penetrare fino al manico e sente la lama roteare nelle sue carni.

E grida.

Grida implorando pietà.

Ma per lui non c'è alcuna pietà.

Il suo assalitore gli strappa la camicia e con quella gli tampona la ferita.

Poi si allontana verso un cactus e fa ritorno poco dopo.

Gli fa bere un intruglio strizzando la polpa di qualcosa.

E' amarissimo.

«Cosa vuoi fare? Pietà. Non uccidermi.»

Lui tace e affonda la lama del suo coltello nel terreno.

L'atroce dolore al ventre sembra diminuire. 288

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L'urlo del Falco Chissà cosa gli ha dato da bere.

Forse qualche erba medicinale.

Gli indiani ci sanno fare con queste cose.

"Ma perché ora mi sta curando? Prima mi vuole ammazzare e poi mi cura?"

pensa guardando terrorizzato il coltello sporco di sangue e terra.

Kit estrae il coltello dal terreno e lo avvicina al volto dell'assassino.

Con la lama sporca gli incide in cerchio la fronte e la nuca.

Il bandito grida terrorizzato.

Il dolore è lancinante.

Poi sente la lama grattargli il cranio e, tra il sangue che gli cade sugli occhi,

vede alzare verso il cielo i suoi capelli grondanti di sudore e sangue mentre le

sue orecchie sono ferite di nuovo da quell'urlo selvaggio e terribile.

E' l'urlo di guerra del Navajo che si appresta a torturare il suo nemico.

«Il nome dei tuoi complici e non ti ucciderò.»

Terrorizzato, il bandito gli dice tutto quello che vuole sapere e risponde a tutte

le sue domande.

Quando il giovane si allontana al galoppo, è ancora vivo, gravemente ferito ma

vivo.

E' salvo, pensa. La città è vicina e qualcuno verrà in suo aiuto.

Ma non sa che la profonda ferita al ventre non perdona e che troppo è il san-

gue perduto.

La vita lo sta abbandonando lentamente.

Il dolore che sembrava diminuito ora si fa più forte e la testa gli brucia come se

gliela avessero bruciata.

I suoi capelli insanguinati ora pendono dalla cintura del giovane che sta ritor-

nando verso la città.

Lontra Gialla, durante l’assenza di Kit, ha preparato un ‘travois’ sul quale ha

sistemato le morbide pelli prese dal cavallo di Luna d’Argento.

Lei giace ancora nella polvere.

Non ha osato toccarla.

Nessuno le si è avvicinato.

Lo sceriffo ha raccolto le testimonianze delle poche persone che hanno visto

qualcosa e ha ricostruito l’accaduto.

289

Page 290: TuttoLet - Altervistapecosbill.altervista.org/Romanzi/TuttoLetizia.pdfTex Willer - Aquila della Notte Kit Carson - Capelli d'Argento Kit Willer - Piccolo Falco - Falco Nero - Mano

Letizia Tre stranieri, mai visti prima in città, hanno preso di mira, con la loro volgarità

e con i loro insulti, la giovane navajo e il suo accompagnatore.

Cane Nero ha tentato di reagire con il suo coltello ed è stato ucciso.

Luna d’Argento ha raccolto il coltello di Cane Nero e ha sfregiato al volto

l’assassino.

E due colpi di revolver hanno stroncato la sua giovane vita.

Quando Kit ritorna, prende tra le braccia il corpo insanguinato e lo adagia deli-

catamente sulle pelli.

«Lontra Gialla, va’ al campo di Orso Macchiato. In fretta. Io ti seguirò più len-

tamente.»

Il Navajo afferra immediatamente le redini del suo mustang, salta in sella e

sparisce velocemente tra la polvere.

Lo sceriffo nota solo ora i capelli insanguinati che pendono dalla cintura del ra-

gazzo.

«Kit, che cosa hai fatto?»

Ma lui non risponde.

Solleva il corpo di Cane Nero e lo sistema di traverso sul cavallo di Luna

d’Argento.

Poi aggancia il ‘travois’ al suo cavallo.

«Kit,» ripete lo sceriffo, «hai ucciso la persona sbagliata. L’uomo che ha assas-

sinato tua moglie non era lui. E’ uno dei due che sono riusciti a fuggire. Quello

senza sfregio. Lui è stato solo sfortunato. Il suo cavallo aveva perso un ferro

ed era ancora dal maniscalco quando…»

«E’ ancora vivo» lo interrompe Kit.

«Come?» chiede lo sceriffo incredulo.

«Se farete alla svelta, potreste anche salvarlo.»

Gira lentamente il suo mustang tenendo per le redini l’altro cavallo.

E altrettanto lentamente si allontana portando con sé la morte.

I morti che si allontanano da quella città maledetta non sono però due.

A circa metà del percorso, incontra una decina di Navajo.

Sono Orso Macchiato con alcuni guerrieri del suo villaggio.

C’è anche Lontra Gialla che deve aver volato.

Il sachem scende da cavallo e si china sulla figlia, in silenzio.

Accarezza il suo bel viso. 290

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L'urlo del Falco Kit, senza una parola e senza muovere un muscolo del viso, afferra dalla sua

cintura lo scalpo sporco di sangue ormai rappreso.

Mostrandolo al padre della sua sposa, lo alza verso il cielo.

Abbandona poi le redini del cavallo che porta il corpo di Cane Nero.

«Vengo con te, Piccolo Falco.»

Lontra Gialla sta per spronare il cavallo, ma un gesto di Kit lo ferma.

E mentre le squaw piangono Luna d’Argento, la sua voce risuona terribile, qua-

si un urlo.

«No. La vendetta è solo mia. E la vendetta di Falco Nero ricadrà implacabile su

tutti i suoi nemici.»

Quando la sua figura si perde nell’orizzonte, il suo grido di guerra risuona an-

cora nell’aria.

«Cosa? Ma che dici?»

«Così è, Aquila della Notte. La sposa di Piccolo Falco è stata uccisa da tre uo-

mini bianchi.»

Tex sbianca in viso.

Se gli avessero portato la notizia della morte del figlio, il dolore non sarebbe

potuto essere maggiore.

Tiger Jack, che era con lui quando è arrivato il messaggero, corre ad avvisare

Carson.

Si avviano verso il corral giusto in tempo per vedere Tex che si allontana por-

tando con sé una decina di mustang.

«Sella in fretta tre cavalli, Capelli d’Argento. Tex è partito senza sellare il suo.

Io penso all’acqua.»

«Ma come diavolo è successo?»

«Non lo so. Il guerriero di Orso Macchiato ha riferito solo che Luna d’Argento è

stata uccisa a Gallup da tre bianchi. Kit ne ha ucciso uno e ora sta dando la

caccia agli altri due.»

«Incredibile. Si erano appena sposati. Erano così innamorati e lei era così gio-

vane… Maledetti.»

«L’ira del Falco colpirà presto gli sciacalli.»

«E Tex?»

«Non ha detto una parola. In tutta la mia vista l’ho visto così solo una volta.»

291

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Letizia «E quando?»

«Quando è tornato al villaggio di Freccia Rossa e gli hanno riferito della morte

di Lilyth.»

«Già. Povero Tex.»

«Ma Lilyth ha avuto il tempo di stare con lui, di dargli un bambino. Luna

d’Argento invece…»

«Sono stati sposati solo… quanto? Una settimana? Maledetti, mille volte male-

detti.»

«I loro scalpi penderanno presto dalla cintura di Piccolo Falco. Anche gli altri

due.»

«Vuoi dire che Kit ha scalpato uno dei tre assassini?»

«Si.»

Quando raggiungono Tex, i loro cavalli sono sfiniti.

Si fermano un minuto per cambiare cavalcatura.

Tex non si ferma.

Salta in sella al cavallo sellato che gli hanno portato i suoi pard senza scendere

dal suo.

In breve tre cavalli sciolti, sfiniti per la lunga galoppata, ritornano lentamente

al villaggio dove troveranno acqua e fieno.

I tre uomini proseguono in silenzio.

Tiger e Carson non osano dire una parola e Tex non ha per niente voglia di

parlare.

Pensa a suo figlio e al suo dolore.

Al sorriso bellissimo di Luna d’Argento che non vedrà mai più.

Al dolore del sachem Orso Macchiato.

All’ira di tutta la nazione navajo.

Suo figlio è molto amato da tutto il suo popolo.

E anche Luna era molto amata.

Alle loro nozze c’erano rappresentanti di tutti i villaggi.

Non si erano mai visti tanti Navajo tutti insieme prima di allora.

Ripensa poi alle parole di Kit quando gli ha raccontato delle visioni di un vec-

chio sciamano.

Visioni infauste che purtroppo non si sono rivelate prive di fondamento.

Il suo cuore sanguina. 292

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L'urlo del Falco E per la prima volta nella sua vita non ha la più pallida idea delle decisioni che

dovrà prendere.

L’unica cosa certa è che non si intrometterà tra suo figlio e la sua vendetta.

Quegli uomini sono già morti.

E non gli importa di quanto potrà essere atroce la loro morte.

Kit non si dirige verso Gallup.

Sa dove si sono diretti gli assassini di sua moglie, conosce i loro nomi e ha una

loro sommaria descrizione.

E uno dei due ha il viso sfregiato da una coltellata.

La sua sposa ha tentato di difendersi.

Ha cancellato i segni di guerra dal suo volto e si è dato una ripulita.

Deve andare in una città dei bianchi e non vuole mettere in guardia i suoi ne-

mici.

Non deve destare sospetti.

Ha indossato una camicia che nasconde la mano di sangue nel suo petto.

E’ un segno che non cancellerà mai, anzi lo ha già ‘rinfrescato’ un paio di volte

usando il suo stesso sangue uscito da ferite che si è procurato con il coltello.

La camicia è aperta sul petto per far asciugare il sangue.

Allaccia i bottoni solo quando è in vista di Blackstone, una città che ha continu-

ato a crescere anche dopo che sono state chiuse le sue miniere di carbone.

Si infila nell’unico saloon della città e si mette in disparte cercando di farsi no-

tare il meno possibile.

In fondo ha l’aria di un ragazzotto qualsiasi.

Ha persino tirato su il cinturone all’altezza della vita.

Non lo porta più sui fianchi, come fanno tutti quelli che sono esperti nell’uso

delle armi.

Non parla, ma ascolta attentamente tutto quello che si dice in giro, anche le

cose più banali.

Scruta senza farsi notare tutti i cowboy presenti, ma senza risultato.

Nessuno che corrisponda alle descrizioni che gli ha fornito il proprietario dei

capelli che si trovano ora nella tasca della sua sella.

E soprattutto nessuno sfregiato.

Scoraggiato, chiede una camera al barista.

293

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Letizia Il saloon affitta anche camere.

Non ce ne sono molte, ma sono quasi tutte libere.

Sale al primo piano e ha quasi raggiunto la sua camera quando si imbatte con

un cliente dell’hotel che chiede al ragazzo del bar di portare altre birre alle ca-

mere 3 e 5.

Ha il segno di una recente coltellata alla guancia.

Kit ha in viso un’espressione quasi assente e incrocia l’individuo senza degnarlo

di uno sguardo.

Quando apre la porta della sua camera, guarda con la coda dell’occhio in quale

delle due stanze entra lo sfregiato.

E’ la numero 5.

Dalle due camere si sentono gridolini e risate: gli inquilini sono in dolce com-

pagnia.

Quando i rumori cessano, Kit è già nel balcone cui danno la sua camera e an-

che le altre due.

Fa caldo e le finestre sono aperte.

Kit non vuole intervenire subito, ma deve controllare che i due uomini non la-

scino le loro stanze.

A notte fonda, l’unico rumore che si sente è il russare dello sfregiato.

Kit è nella stanza, coltello in mano.

Accende una lampada e la appoggia vicino al letto.

Poi un leggero fischio per svegliare la sua vittima, che però non si sveglia.

Ha il sonno duro.

Si sveglia però la ragazza che, vedendo Kit con il coltello in mano, lancia un ur-

lo di terrore.

L’uomo si sveglia di soprassalto.

«Ma che diavolo…»

«Ciao. Permetti che mi presenti. Sono il marito della ragazza navajo. Sì, pro-

prio quella. Ricordi?»

Mentre la ragazza fugge seminuda urlando con tutto il fiato che ha in gola, lui

cerca il cinturone ficcato chissà dove:

Ma trova qualcos’altro.

Trova la lama di un grosso coltello che gli penetra nell’intestino.

E grida disperato mentre nell’altra stanza il suo compare, forse intuendo quello 294

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L'urlo del Falco che sta succedendo, afferra il cinturone e, con i pantaloni sottobraccio e gli sti-

vali in mano, fugge dalla finestra.

Il suo cavallo è proprio lì sotto e in un attimo è in sella.

Kit non ha fretta e, incurante delle grida e il trambusto che provengono da sot-

to e dalla strada, finisce il suo lavoro.

Colpisce ripetutamente il malcapitato con il suo coltello.

Gli allarga la ferita al ventre finché non vede fuoriuscire l’intestino.

Poi, sempre con calma, si prende il secondo scalpo.

Quando lascia la stanza e balza in strada, i primi soccorritori trovano l’uomo

ancora vivo.

Si dirige verso il suo mustang.

Senza fretta.

E’ notte fonda ma c’è la luna.

Il terzo assassino, quello che materialmente ha ucciso la sua sposa, non gli

sfuggirà.

Quella notte si compirà la sua vendetta.

Lo ha lasciato per ultimo e ha fatto in modo di liquidargli il conto lontano da

qualsiasi città.

A lui dedicherà più tempo che con gli altri due.

Per lui la morte dovrà arrivare più lentamente.

E dovrà essere molto più dolorosa.

E, mentre pensa queste cose, sistema lo scalpo appena preso nella tasca della

sella insieme all’altro.

E sono due.

«Cosa? Ma sei impazzito, Jarvis?»

«Cosa potevo fare, Tex? Tu non hai visto come tuo figlio ha ridotto quel pove-

raccio.»

«Poveraccio un corno. Un assassino. Vorrai dire. Ha ucciso la moglie di mio fi-

glio. O forse una squaw non è degna di essere considerata un essere umano?»

«Non dire stupidaggini, Tex. Lo sai come la penso al riguardo. Il fatto è che

quel cowboy non era l’assassino. Chi ha ucciso tua nuora è un altro, un balordo

con i capelli lunghi. Questo invece… Beh. Almeno quando li aveva, erano più

corti. Sai che ci ha messo più di una giornata a morire? Non ti dico in che stato

295

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Letizia era quando l’ho trovato. Puoi ben immaginarlo.»

«Non mi dire che pensi che assassino è solo colui che preme il grilletto. Sono

assassini tutti e tre. Sai cosa penso? Che se avessero ucciso una donna bianca,

non sarebbero riusciti a fuggire e ora penzolerebbero già da una corda. Tutti e

tre.»

«E poi c’è un’altra cosa. Proprio un’ora fa è arrivato per telegrafo un dispaccio

da Blackstone. Un altro cowboy ha subito la stessa sorte. E’ ancora vivo, ma

sarebbe meglio se non lo fosse. Non sanno chi è stato, ma ci vuol poco a im-

maginare che è stato il tuo ragazzo.»

«Era quello sfregiato, scommetto.»

«Come fai a dirlo?»

«Conosco mio figlio. L’esecutore materiale se lo terrà per ultimo. E per lui il

trattamento sarà più terribile.»

«Più di così? Tex, tu devi fare qualcosa per impedirlo.»

«Ma certo. Magari lo arresterò e te lo porterò. E tu dovrai darmi i mille dollari

che hai messo sulla sua testa.»

«Tex, non potevo fare altrimenti, lo sai. E non ho neanche potuto evitare di

chiamare il giudice Pearson per il processo.»

«Cosa? Vuoi dirmi che volete fargli il processo e magari condannarlo in contu-

macia?»

«Non sta a me decidere, Tex.»

«Potevi almeno attendere il mio arrivo.»

«E cosa sarebbe cambiato? Mi dispiace, Tex. Mi dispiace immensamente.»

«Andiamocene, Kit. Qui non abbiamo più niente da fare.»

«Brutto affare, Tex. Bruttissimo affare. Cosa conti di fare?»

«Tiger, tu ritornerai al villaggio. Presto tutta questa storia farà il giro di tutte le

tribù Navajo. Avrai il tuo bel da fare per mantenere calmi gli animi. Passa per il

pueblo di Orso Macchiato e rassicuralo che gli assassini di sua figlia pagheran-

no il loro delitto. Due hanno già pagato un caro prezzo e il terzo presto paghe-

rà. E cerca di impedirgli di fare sciocchezze.»

«Bene, Tex.»

«Kit, tu va’ all’ufficio telegrafico e informa della faccenda sia il comando dei

ranger sia il generale Davis. Chiedi un incontro con il generale. Dobbiamo im-

pedire assolutamente che si prendano decisioni sbagliate che portino a una 296

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L'urlo del Falco guerra indiana.»

«E tu, Tex?»

«Io vado a cercare mio figlio. Devo impedirgli di fare qualche sciocchezza.»

«Non dirmi che vuoi impedirgli di ammazzare il terzo bastardo che…»

«Non ci penso neanche lontanamente. Voglio solo che si fermi lì. E voglio im-

pedire che qualcuno lo trovi. Magari l’esercito.»

Sono passati due giorni.

Tex sta seguendo le tracce di suo figlio.

Chissà come diavolo fa a riconoscere le tracce del mustang di suo figlio.

E’ ferrato come tutti i cavalli dei bianchi, quindi potrebbe confondere benissimo

le sue tracce con quelle di altre decine.

Ma quelle tracce sono inconfondibili per un occhio esperto come lui.

I Navajo cavalcano in modo molto diverso da come lo fanno i bianchi.

E poi le tracce di un inseguitore sono diverse da tutte le altre.

A conferma di essere sulla strada giusta, il giorno precedente ha notato che le

tracce di due cavalli, due soli, hanno lasciato tutte le piste battute.

E’ ovvio che le più vecchie sono quelle di uno che fugge e quelle più recenti so-

no di uno che insegue.

E alla fine arriva.

La scena è raccapricciante.

L’uomo è legato mani e piedi a paletti conficcati nel terreno.

I suoi stivali sono accanto a braci ormai spente.

Mani e piedi sono anneriti.

La testa non ha più i capelli e il sangue colato dalle ferite è ormai rappreso.

Anche la testa è annerita.

I segni di quelli che sono stati cinque bracieri sono ancora evidenti sul terreno.

Sono sufficientemente lontani e non hanno bruciato direttamente le carni del

disgraziato.

Le hanno solo affumicate un po’ in modo da produrre il minimo danno e il mas-

simo dolore possibile.

Sul petto numerose ferite superficiali e bruciature prodotte dalla cenere calda

versata abbondantemente.

E’ ancora vivo.

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Letizia I Navajo sono bravissimi nell’arte della tortura.

Un primo impulso spinge Tex a lasciare l’uomo al suo destino.

Ma poi ci ripensa.

Quell’uomo sarà anche un assassino, avrà anche causato e causerà ancora

chissà quanti lutti, ma ha già pagato abbondantemente.

Estrae la colt, arma il cane e spara.

Un colpo dritto in fronte che mette fine alle sofferenze del disgraziato.

Ma la pietà non è stata l’unica ragione che ha spinto Tex ad agire così.

Perdere un po’ di tempo per scavare una fossa non sarà una cosa irrimediabile

e servirà a nascondere lo scempio a cui Kit ha sottoposto l’ultimo dei tre assas-

sini di Luna d’Argento.

Un paio d’ore dopo cerca le tracce di Kit.

Senza risultato.

A Kit non importava se qualcuno avesse seguito le sue tracce fino lì, ma non

voleva che qualcuno le seguisse da lì in poi.

Se un Navajo vuole nascondere le sue tracce, è inutile cercarle.

Ma un altro Navajo a volte riesce a trovare anche le tracce più invisibili.

E Tex inizia il suo paziente lavoro.

Scruta i dintorni.

Usa il famoso metodo ‘a spirale’ che è lungo e noioso ma, alle volte dà buoni

risultati.

Ma niente.

Kit tra i Navajo è secondo solo a Tiger.

Non c’è niente da fare.

L’unica cosa da fare è cercare di ragionare con la sua testa e prevedere le sue

mosse.

Ha sicuramente deciso di tornare tra i Navajo e sicuramente prima o poi torne-

rà al villaggio di Orso Macchiato.

Decide quindi di tornare a Gallup per controllare se ci sono novità del suo pard

Carson.

«Davis, non puoi lavartene le mani.»

«Non me ne sto lavando le mani, Carson. Non ci posso fare proprio nulla. E’ in-

tervenuto direttamente il governatore dell’Arizona. Vogliono dare un esempio

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L'urlo del Falco forte. E non solo ai Navajo, ma anche a tutte le altre nazioni indiane, special-

mente agli Apache che in questo periodo sono piuttosto turbolenti.»

«Ma tu puoi intervenire in qualche modo. Ricordati che Tex ti ha tolto un sacco

di castagne dal fuoco.»

«E’ vero. Mi ha dato anche un sacco di grattacapi però. Ma il punto non è que-

sto. Ho avuto ordini precisi dal ministero della guerra.»

«E Donehogawa cosa dice?»

«Lui naturalmente si è opposto con tutte le sue forze. Ma ha troppe persone

contro. Lo sai che ci sono un sacco di alti papaveri che lo vedono come fumo

negli occhi. Temo che questa sia diventata una faccenda politica. A nessuno

frega niente del figlio di Tex, Carson. C’è in gioco invece tutta la gestione degli

affari indiani. Lo sai che da anni ci sono pressioni di affaristi che vorrebbero

schiaffare i Navajo e gli Apache, e non solo loro, nelle malsane paludi della Flo-

rida. Se Kit non si arrende e non si consegna alla giustizia, l’esercito dovrà an-

dare a prenderlo. E sarò io a guidarlo, maledizione.»

«Sai benissimo che questo non avverrà mai. E sai anche che sarebbe l’inizio di

una nuova guerra indiana.»

«Lo so, Carson, dannazione. Ma non ci posso fare proprio niente.»

«Davis, sappiamo benissimo tutti quanti che alla fine l’esercito avrà la meglio.

Ma quanto tempo ci vorrà? E quanti bravi soldati ci lasceranno la pelle? E tutto

per tre assassini che sarebbe stato meglio non fossero mai nati.»

«Carson, stai affondando il coltello nella piaga. Credi che non lo sappia? I Na-

vajo possono tenerci in scacco anche per un anno. Specialmente un tipo come

Tex. E questo mi costerebbe la pensione.»

«Siamo davanti a una delle più grandi catastrofi della storia americana e tu ti

preoccupi della tua pensione?»

«Hai ragione, Carson. Ma il destino di tutte le nazioni indiane è ormai segnato,

lo sai. Sono destinate a scomparire. E nessuno ci potrà fare niente. Special-

mente un militare come me, che ha ordini cui obbedire.»

«Dannazione, Davis. Sarà un massacro. Da ambo le parti.»

«Lo so. Hai provato con il comando dei ranger? In fondo Kit è uno di loro.»

«Buoni quelli. Ci ho già provato. Sai cosa mi hanno risposto? Che è una fac-

cenda che riguarda l’esercito, dannazione.»

«Cosa hai intenzione di fare ora?» 299

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Letizia «Cosa vuoi che faccia. Raggiungerò Tex e gli racconterò di tutto l’aiuto che hai

intenzione di darci.»

«Non essere così severo con me. Lo sai che, se dipendesse da me, le cose a-

vrebbero preso tutta un’altra piega.»

«Cerca almeno di ritardare al massimo le operazioni.»

«Farò il possibile.»

«Ma siete impazziti tutti quanti?»

«Tex, mi dispiace immensamente»

«Non dire idiozie, Jarvis. Voi non avete la più pallida idea di cosa avete scate-

nato.»

«Lo so, Tex. Ed è per questo che ho messo in guardia il giudice su quello che

poteva significare una condanna troppo severa…»

«Troppo severa? Me lo avete condannato a morte. E poi, chi sarebbe

l’intelligentone che l’ha difeso?»

«L’ho difeso io personalmente e…»

«Tu? E cosa ne capisci tu di leggi e di processi?»

«Tex, qui a Gallup non c’era un cane che era disposto a prendere le sue dife-

se…»

«Dannazione. Questo processo è stata una farsa bella e buona e…»

«Sceriffo, Sceriffo. E’ arrivato un dispaccio per il signor Willer.»

Il ragazzo del telegrafo consegna trafelato un biglietto a Tex.

Scuro in volto, Tex legge in silenzio il messaggio.

In silenzio, afferra le redini del suo cavallo, balza in sella e, rivolgendosi allo

sceriffo: «Digli che lo aspetto al villaggio di Orso Macchiato.»

«A chi? Digli a chi?»

Ma Tex è già lontano.

«Probabilmente al signor Carson, sceriffo. Il dispaccio l’ha mandato lui.»

«Non ho mai visto Tex così furioso, Sam. Prevedo un futuro non certo roseo.»

Tace per un attimo.

«Tu sei giovane, Sam. E non hai nessuno che ti trattenga qui. Vuoi un consi-

glio? Vattene da qui. Vattene il più lontano possibile. Magari al di là del Missis-

sippi.»

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L'urlo del Falco

Sono ormai passati molti giorni.

L’esercito degli Stati Uniti, guidato dal generale Davis, è già penetrato nei terri-

tori della riserva Navajo.

Un giovane capo navajo, che gli indiani chiamano Mano di Sangue, ha radunato

un numeroso gruppo di guerrieri ansiosi di respingere l’uomo bianco e cacciarlo

dalle loro terre.

A lui si sono uniti diversi Apache, ma anche Arapaho, Cheyenne, Shoshoni,

Crow e Dakota, che gli uomini bianchi chiamano Sioux.

Sono migliaia e migliaia.

Tex ha cercato a lungo suo figlio, senza mai trovarlo.

In tutti i villaggi della riserva navajo ha incontrato solo guerrieri fedeli al gio-

vane capo, ma di lui nessuna traccia.

Finché un segnale di fumo lo invita ad andare, solo, al Picco dell’Aquila.

Là incontrerà il grande capo Falco Nero.

Tiger lo accompagna fino ad un paio di miglia dal luogo convenuto.

Kit si avvicina al padre seguito da una dozzina di Navajo.

Sul suo volto i colori di guerra.

Sul suo petto nudo la mano dipinta con il suo stesso sangue.

Nel vedere così il suo ragazzo, Tex ha un fremito.

Davanti a sé ora non c’è più il ragazzino scherzoso e un po’ discolo che cono-

sceva.

Piccolo Falco non esiste più.

Al suo posto ora c’è Falco Nero.

C’è un guerriero furioso con un grande odio verso gli uomini bianchi.

«Ma cosa ti prende, Kit? Vuoi scatenare una guerra indiana?»

«No, padre. Ma se i soldati continueranno a penetrare nelle nostre terre, così

sarà.»

«Kit, ragiona. Non hai nessuna possibilità contro l'esercito. Lo sai bene. Con-

durrai alla rovina tutti i Navajo che ti seguiranno. E anche tutti gli altri.»

«Credi che i Navajo abbiano mai avuto un futuro? Che fine ha fatto il popolo

rosso dell'Est? E i Dakota? I Cheyenne? Anche gli Apache stanno soccombendo.

Che fine faranno i Navajo tra dieci o vent'anni? Sapranno arrestare l'avanzata

del 'progresso'?»

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Letizia Pronuncia la parola sputando per terra.

«Ma così vanno incontro a morte certa. Andate incontro a morte certa.»

«Nessun Navajo è costretto a seguirmi, padre. Non vogliono diventare dei vec-

chi senza dignità che per sopravvivere devono elemosinare la carità dell'uomo

bianco. I bianchi prima o poi vorranno le nostre terre. L'oro della nostra mon-

tagna. Tu li hai fermati fino ad ora. Ma non lo potrai fare più per molto ancora.

Già adesso l'uomo bianco sta dimostrando che basta un pretesto per cacciarci

dalle nostre terre.»

«E va bene, Kit. Hai ragione. Ma la forza non è il sistema per risolvere le co-

se.»

«Sì, invece. I bianchi conoscono solo la forza. Quante volte hanno infranto i

trattati con gli uomini rossi? Quante volte hanno mancato alla parola data? Se

gli uomini rossi devono scomparire, non sarà in un arido deserto o in una fetida

palude. Sarà invece in campo di battaglia con le armi in pugno. Sarà una buo-

na morte. Quella che un guerriero ha sempre desiderato.»

«Se non c'è altro modo di farti ragionare, se vuoi il comando dei Navajo... eb-

bene, ti sfido a duello.»

«No, padre. Io non mi batterò con te. Non voglio il comando supremo del no-

stro popolo. Quello spetta a te di diritto. L'ho già detto. Mi seguiranno solo i

Navajo che vorranno combattere al mio fianco. Tu sei il loro capo. Ordina loro

di seguirti e di abbandonare i miei folli progetti. Chi verrà con te, sarà libero di

farlo.»

«Maledizione, sai benissimo che tutti i giovani sono con te. E ti stanno seguen-

do anche gli Apache e altri disgraziati da altre tribù. Sarà una guerra indiana

tra le più sanguinose che ci siano mai state all'Ovest. Terrai in scacco l'esercito

per mesi, forse anche per un anno. Ma poi?»

«Il popolo rosso non ha futuro e non pensa al futuro. Oggi è un buon giorno

per morire.»

«Kit, ti prego. Torna in te. Lo so, hai subito un duro colpo quando hanno ucci-

so...»

Lo interrompe urlando.

«Basta. L'uomo bianco ha ucciso mia madre. Ha ucciso la mia sposa. Che altro

devo ancora sopportare?»

«Dimentichi che Lilyth, prima di essere tua madre, è stata la mia sposa. Gli 302

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L'urlo del Falco uomini che l'hanno uccisa hanno pagato tutti. E anche tu l'hai fatta pagare a

coloro che hanno ucciso Luna d'Argento. Sono tutti morti.»

«E’ vero, padre. Giustizia è stata fatta. Ma se non li avessi uccisi con le miei

mani, credi che la giustizia dei bianchi li avrebbe colpiti? Per i bianchi le donne

indiane contano meno di un animale.»

Un breve silenzio.

«Va' ora. Va' dalle giacche azzurre. Di' loro che mi lascino in pace e io, forse,

lascerò in pace loro.»

«Sai che non è possibile. Ti daranno la caccia finché non rimarrà un solo guer-

riero in vita.»

«Bene. Se così deve essere, così sarà.»

«No, figliolo. Io te lo impedirò.»

Tex si avvicina a suo figlio e subito intorno al giovane si radunano i suoi Nava-

jo, con i winchester spianati.

Quegli stessi guerrieri che l'hanno sempre amato, che hanno sempre avuto

quasi una venerazione per lui.

«Fermi. Aquila della Notte è sempre il vostro capo supremo e sempre lo sarà.

Guai al Navajo che oserà alzare le mani su di lui.»

Nel frattempo Tiger si è avvicinato.

«Va’ ora. Va’ con Tiger. E che Dio ti protegga.»

«No, Falco Nero. Io non andrò con tuo padre. Io verrò con te.»

«No, Tiger. Non ti voglio con me. La morte viaggia con me.»

«Io sono un Navajo e andrò con i Navajo. Per impedirmelo dovrai uccidermi.»

«E allora seguimi.»

Senza dire altro, gira il suo mustang e si avvia al galoppo seguito dai suoi

guerrieri.

«Non preoccuparti, Tex. Veglierò su di lui.»

E anche Tiger sprona il suo cavallo e segue Kit.

Davanti a lui compaiono come dal nulla centinaia e centinaia di guerrieri.

Appartengono a quasi tutte le nazioni indiane dell’Ovest.

Sono dipinte con i colori di guerra.

Lanciano tutti insieme un urlo che significa una cosa sola: molto sangue sarà

versato prima che la prossima luna splenda alta nel cielo.

Tex li osserva immobile. 303

Page 304: TuttoLet - Altervistapecosbill.altervista.org/Romanzi/TuttoLetizia.pdfTex Willer - Aquila della Notte Kit Carson - Capelli d'Argento Kit Willer - Piccolo Falco - Falco Nero - Mano

Letizia “Fai presto a dire di non preoccuparmi, caro Tiger.”

«Buon giorno. Lei è il signor Carson? Kit Carson?»

«Come? Sì, certo. Sono io» risponde un po’ stupito.

«Permette che mi presenti? Mi chiamo Lewis. Avvocato John Lewis. Vengo da

Washington.»

«Piacere. Cosa posso fare per lei?»

«Oh, ma sono io che posso fare qualcosa per lei. O meglio, per il signor Tex

Willer. O meglio ancora, per suo figlio Kit.»

«Le spiegherò tutto mentre andremo insieme nell’ufficio dello sceriffo. Vuole

accompagnarmi?»

«Ma certo.»

«Vede, io sono un carissimo amico di mister Ely Parker. Donehogawa. L’ho aiu-

tato qualche volta nelle sue cause in favore degli indiani. E ora sono qui per

cercare di scongiurare una guerra indiana.»

«Buon giorno, sceriffo. Le presento l’avvocato Lewis di Washington.»

«Buon giorno, cosa posso fare per voi?»

«Mi racconti tutto quello che sa su questa strana storia del signor Kit Willer.»

«Strana? Ha ucciso due persone e probabilmente anche una terza, visto che è

sparita dalla circolazione.»

Lo sceriffo racconta tutto quello che è successo e risponde a qualche domanda

che l’avvocato gli pone.

«Ah, bene. Anzi male, malissimo. Vuol forse dirmi che ha spiccato un mandato

di arresto, vivo o morto tra l’altro, senza informare il comando dei ranger e

l’agente indiano della riserva?»

«Che c’entra? Era chiaramente colpevole, Ho visto io lo scalpo di uno di quei

disgraziati pendere dalla sua cintura. E poi l’agente della riserva è suo padre.»

«Quello che lei mi conferma sceriffo, è molto grave. Ne informerò il governato-

re che è un mio carissimo amico.»

«Ma io…»

«Dunque vediamo: non ha informato il comando dei ranger di un ‘presunto re-

ato’ che avrebbe commesso un loro agente, non ha notificato il mandato di ar-

resto, che era illegale, all’agente indiano della riserva»

«Questo non è vero. Io ho informato Tex e…»

304

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L'urlo del Falco «Per iscritto? Immagino di no. E il processo? Oddio, chiamarlo processo è un

complimento. Una farsa è il termine più appropriato. Non sono stati rispettati i

tempi tecnici per un processo in contumacia e l’accusato non aveva un difenso-

re.»

«Ma non è vero. L’ho difeso io e…»

«Lei? A parte la sua discutibile abilità come avvocato, lei non aveva e non ha

l’abilitazione ad esercitare la professione. O sbaglio?»

«Ma…»

«Non ce l’ha. Bene. Ma c’è di più. Lei, caro signore era un testimone

dell’accusa. Dell’accusa, capisce? Non poteva in alcun modo rivestire il ruolo di

avvocato difensore. Informerò il governatore anche di questo.»

Mentre lo sceriffo balbetta qualcosa, Carson ascolta a bocca aperta.

«Inoltre non ci sono testimoni per il secondo delitto. Nessuno ha riconosciuto il

mio cliente. Il terzo non esiste proprio e non lo prendiamo neanche in conside-

razione. E il primo? Nessun testimone e nessuna ammissione da parte

dell’accusato. Solo una deduzione dovuta al fatto che lei ha notato uno scalpo

che, a dire la verità non è stato dimostrato che appartenesse alla prima vitti-

ma.»

«Ma che diamine. E’ assurdo. E’ evidente che è stato…»

«Attento a quello che dice, sceriffo. Potrebbe essere incriminato per una serie

di reati lunga da qua a Phoenix. Io le suggerirei di dichiarare nullo il processo

per vizio di forma e di ritirare il mandato di cattura e quella ridicola taglia di

mille dollari.»

Carson non crede alle sue orecchie.

«E questo per tre motivi. Primo perché se non lo fa lei ora, lo farà il primo giu-

dice intelligente che incontrerò. Secondo perché lei andrà incontro a una mon-

tagna di guai. Terzo e più importante perché è l’unico modo di scongiurare una

guerra indiana. Venga, mister Carson. Qui abbiamo finito.»

Oggi è un giorno infausto.

Questo è il giorno in cui libertà, giustizia, eguaglianza e pace sono parole che

hanno perso il loro significato.

Questo è il giorno in cui distruzione, sangue, paura e morte prenderanno il so-

pravvento.

305

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Letizia E’ il giorno della Mano di Sangue.

Tex Willer sta guidando il Quinto Reggimento di Cavalleria nelle sue terre, le

terre della riserva navajo.

Lo sta guidando alla ricerca di suo figlio Falco Nero, accusato e condannato a

morte per l’omicidio di due persone.

In realtà non lo sta guidando, lo sta solo seguendo.

Vuole essere presente, deve assolutamente essere presente, quando la caval-

leria incontrerà tutte le tribù riunite sotto il comando del figlio.

Deve assolutamente impedire il peggio, anche se non ha ancora la più pallida

idea di come farà.

Sa di avere ancora un grande ascendente su tutti i Navajo e anche su molte

delle tribù che si sono unite a loro.

E conta di usarlo per evitare una strage.

Certo che i soldati non lo stanno aiutando molto.

Hanno avuto ordini precisi e si sa come sono i militari.

Gli ordini sono ordini.

Il grosso dei soldati sta seguendo Falco Nero che ha al suo seguito tutti i guer-

rieri delle tribù riunite.

Ma altri due reparti stanno seguendo altre strade alla ricerca di eventuali grup-

pi di giovani che vogliano raggiungere il loto capo per combattere al suo fianco.

Un centinaio di cavalleggeri, al comando del maggiore Prescott, è sulle tracce

di una tribù che sta migrando verso ovest.

Tutte le tribù, o quantomeno quello che ne resta dopo la partenza di tutti i

guerrieri, stanno radunandosi, dietro ordine del loro capo Aquila della Notte, in

un unico villaggio nelle terre alte.

E così vecchi, donne e bambini stanno dirigendosi verso il villaggio più lontano

dalle città e dal forte degli uomini bianchi.

La tribù di Orso Macchiato, la più vicina alla città di Gallup, sta per essere rag-

giunto dalla colonna del maggiore Prescott.

«Colonnello Quincey, colonnello Quincey.»

«Che succede, sergente?»

«Un dispaccio del generale Davis, signore.»

Il colonnello apre il biglietto, gli dà una rapida lettura e, rivolgendosi a Tex:

«Mister Willer, lei è un uomo molto fortunato. Il generale ha dato ordine di ri-306

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L'urlo del Falco entrare immediatamente. E’ stato revocato l’ordine di cattura di suo figlio. Pare

ci sarà un nuovo processo.»

«Come?»

«Un noto avvocato di Washington ha trovato molte irregolarità nel mandato di

cattura e nel processo. La colpevolezza di Kit Willer è ancora tutta da dimostra-

re.»

«Sia ringraziato il cielo. Sono stati mandati dispacci anche agli altri due reparti

che sono penetrati nella riserva?»

«Beh, non lo so. Sergente…»

«Signornò, colonnello. Il generale Davis ha ritenuto più urgente informare lei

per primo, signore.»

«Colonnello, sarà meglio che mandi immediatamente due staffette con i nuovi

ordini. Non vorrei che, per colpa di qualche testa calda, succedesse qualche

guaio.»

Il colonnello scrive gli ordini su due fogli e, rivolgendosi al sergente: «Mandi

subito due uomini con questi ordini per il maggiore Prescott e il maggiore Ma-

son. Che prendano ognuno un cavallo di riserva. Date loro le bestie migliori. E

che non risparmino gli animali. Questi ordini devono arrivare il più in fretta

possibile.»

«Signorsì, signore.»

In breve le due staffette partono prendendo direzioni diverse.

«Come va, Willer? Va meglio ora, no?»

«Molto meglio, E andrà ancora meglio quando questa brutta storia sarà finita.»

Ma la storia non finirà come Tex pensa.

«Allora, vi volete decidere? Dov’è l’uomo che chiamate Falco Nero?»

Orso Macchiato si è chiuso in uno sdegnoso silenzio.

«Lo lasci cinque minuti a me, maggiore. So io come farlo cantare.»

«Maledetto. Cane maledetto. Ci penserà Mano di Sangue a farvela pagare a

tutti quanti. Presto i vostri scalpi penderanno dalle vostre cinture.»

«Chi è questo cucciolo di coyote? Come osa pronunciare minacce contro di

noi?»

«Siete uomini malvagi e presto la morte cadrà su tutti voi.»

«Intanto adesso cadrà su di te, stupido coyote.»

Il ragazzino cade senza neanche udire il rumore dello sparo che lo uccide. 307

Page 308: TuttoLet - Altervistapecosbill.altervista.org/Romanzi/TuttoLetizia.pdfTex Willer - Aquila della Notte Kit Carson - Capelli d'Argento Kit Willer - Piccolo Falco - Falco Nero - Mano

Letizia

Un attimo di silenzio.

Poi l’urlo agghiacciante di Orso Macchiato che, afferrato il tomahawk che pende

dalla sua cintura, lo scaglia sulla fronte del caporale assassino.

Il secondo a cadere è il maggiore Prescott, trafitto da parte a parte da una lun-

ga lancia.

L’ultima cosa che vede Orso Macchiato, attraverso il sangue che gli cola sugli

occhi, è l’assurdo massacro della sua gente, vecchi, donne e bambini.

Vede la malvagità degli uomini bianchi.

Vede bambini passati a fil di spada.

Vede solo morte.

E, quando raggiunge la sua amata figlia Luna d’Argento, la squaw dalla pelle

bianca come la luna, nel suo cuore c’è solo dolore.

Quando il messaggero raggiunge il Quinto Reggimento Cavalleria portando la

notizia del massacro, Tex è ancora con il colonnello Quincey.

Vede da lontano il soldato e quel suo galoppare in modo selvaggio, come se

avesse il diavolo alle calcagna, non gli dice niente di buono.

«Colonnello, colonnello Quincey.»

«Cosa c’è, soldato?»

«Signore, io… non so se posso parlare in presenza del signor Willer. Si tratta di

una cosa molto delicata e riservata.»

Tex si rabbuia in viso.

Ha uno strano presentimento.

Fa per replicare, ma il colonnello lo precede: «Non ti preoccupare, soldato. Par-

la pure. Non abbiamo segreti per Tex Willer.»

Tex non crede alle proprie orecchie.

Rimane impietrito.

«Maledizione. Ma che gli è preso a quell’imbecille di Prescott?»

«Il maggiore Prescott è morto, signore.»

«Se l’è ampiamente meritato, maledizione. Trucidare un’intera tribù composta

solo da vecchi, donne e ragazzini.»

«E neonati, a quanto ho sentito.»

La voce di Tex è come un colpo di fucile.

«Di quale tribù si tratta?»

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L'urlo del Falco «Non ne ho idea, signor Willer. So solo che il luogo del massacro è a un paio di

giorni di marcia da Gallup.»

E’ un incubo.

«Si tratta quasi certamente della tribù di Orso Macchiato. Non potevate fare di

peggio.»

«Se non avesse già pagato con la vita, quel deficiente di Prescott sarebbe stato

sicuramente condannato a morte dalla corte marziale. Ma perché afferma che

non poteva fare peggio di così?»

«Perché Orso Macchiato era il padre di Luna d’Argento, la giovane sposa di mio

figlio, barbaramente uccisa da tre assassini. Avete sterminato la tribù adottiva

di mio figlio. Gli avete ucciso il secondo padre.»

Gira il cavallo per tornare indietro, per raggiungere suo figlio e i suoi guerrieri.

«Sarà guerra totale, ora.»

«Che intenzione ha, Willer?»

«Vado da mio figlio, colonnello. E’ meglio che lo sappia da me, piuttosto che da

un suo guerriero pieno di odio per l’uomo bianco.»

«Cerchi di farlo ragionare, Willer.»

«Ragionare, colonnello? Lei ragionerebbe se avessero ucciso sua madre, sua

moglie, suo suocero e tutte le persone a lei care?»

«Mio Dio.»

«Ha detto bene, colonnello. Non vi resta che pregare.»

E allontanandosi: «Buona fortuna.»

E’ quasi una settimana che Tex si trova nel villaggio delle sette nazioni dove

suo figlio è il capo incontrastato.

Avrà visto Kit solo due o tre volte in tutto.

Ha passato quasi tutto il suo tempo con Tiger Jack.

Il villaggio è veramente enorme.

Non ne ha mai visti così grandi.

Ci saranno non meno di tremila guerrieri.

«E non sono tutti qui, Tex.»

«Che vuoi dire, Tiger? Ci sono altri campi di indiani che seguono Kit?»

«Sì, Tex. Ce ne sono almeno altri due.»

«E dove sono, adesso?»

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Letizia «Non lo so di preciso. Kit non mi tiene al corrente di tutti i suoi piani. Temo che

non si fidi completamente di me. Sa che la penso come te e che cercherei di

impedirgli di fare qualcosa di cui si potrebbe pentire.»

«Ho un brutto presentimento. Sarà meglio che vada. Porta tu a Kit un saluto

da parte mia.»

La carovana di donne e bambini raggiunge il forte dopo una lunga marcia.

«Li hanno uccisi. Li hanno uccisi tutti.»

La donna cade in ginocchio singhiozzando e non riesce a dire un’altra parola.

«Che diavolo succede qui? Chi è questa gente? E cosa fa qui?»

«Comandante, da quello che ho capito, sono stati attaccati dagli indiani.»

«Come?»

Ci vuole parecchio prima che i soldati si rendano conto di quello che è succes-

so.

I Navajo hanno attaccato e distrutto la città di Gallup.

«Maledizione. Sergente, mandi immediatamente un dispaccio al generale Da-

vis. Poi dia disposizione agli uomini di prepararsi. Partiremo con tre squadroni.

Viveri e munizioni per almeno una settimana. E due howitzer.»

Poi, rivolgendosi alle donne sopravvissute: «Non temete, signore. Qui siete al

sicuro. Caporale.»

«Comandi, signore.»

«Trovate un alloggio per queste persone. Che vengano rifocillate. Acqua e cibo

in abbondanza. E mandate da loro anche i nostri medici.»

Il fumo che si alza dal luogo dove dovrebbe trovarsi Gallup non gli dice niente

di buono.

Tex capisce che ormai non c’è più alcun rimedio.

La guerra tra i bianchi e i suoi Navajo è iniziata.

E può finire solo in un modo.

La sua inutile rabbia esplode in un urlo terribile che rompe il silenzio assoluto

che copre le macerie ancora fumanti di quella che era una pacifica città.

Una città in cui aveva parecchi amici.

E ricorda tutte le volte che ha camminato per quelle strade, dormito nel suo

hotel, mangiato da mamma Rose.

Intorno a sé vede solo cadaveri.

Tutta gente che conosce. 310

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L'urlo del Falco Il buon Pedro, lo stalliere.

Jarvis, lo sceriffo.

Tra i tanti amici e conoscenti c’è qualcuno che non conosce.

Il suo nome è John Lewis che, per ironia della sorte, è stato ucciso da quegli

stessi indiani che era venuto a proteggere.

Però tra i morti non ci sono donne o bambini.

E riconosce la mano di suo figlio.

Lui certamente non ha partecipato al massacro, ma ha dato ai suoi guerrieri

ordini ben precisi.

Sente un gemito provenire da poco lontano.

Si affretta per soccorrere il ferito.

Ma non si tratta di un uomo.

E’ mamma Rose.

E non è ferita.

E’ solo stremata.

«Mamie. Ma che diavolo ci fai qui?»

«Non sono partita con le altre donne… e con i bambini… Non me la sentivo…

Qui ci sono nata… e qui voglio morire…»

«Non dire stupidaggini. Tu camperai altri cent’anni. Ma non ti sforzare. Sta’ qui

buona. Vado a prendere un po’ d’acqua dalla sella del mio cavallo. E anche

qualcosa da mangiare.»

Tex ritorna con una borraccia e con un po’ di pennicam.

«Quant’è che sei qui, Mamie?»

«Due… due giorni, Tex… E’ stato… terribile… terribile.»

Scoppia in un pianto dirotto.

«Mamie, su. Fatti coraggio. Vedrai…»

Un rumore lontano giunge alle sue orecchie.

Istintivamente porta le mani alle colt.

Osserva l’orizzonte e vede una colonna di soldati.

“Si portano dietro due howitzer.”

Mille pensieri attraversano la mente di Tex, tutti con il medesimo filo condutto-

re: morte.

«Mister Willer, non credevo di trovarla qui.»

«Sono appena arrivato. Aiutatemi a prestare soccorso a questa poveretta. Cre-311

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Letizia do che sia l’unica superstite di questo massacro.»

Il comandante impartisce l’ordine e, mentre i suoi uomini aiutano mamma Ro-

se, si rivolge a Tex.

«Suo figlio si è cacciato in un brutto guaio, mister Willer. E credo anche lei.

Sergente, arresti quest’uomo.»

Il primo impulso di Tex è quello di fuggire.

Ma il suo cavallo è lontano e dovrebbe farsi strada a colpi di colt.

Non è quello che vuole.

Ha una sola carta da giocarsi.

Il generale Davis.

Deve assolutamente parlare con lui.

«Mi arresta? E con quale accusa?»

«Andiamo, Willer. Lei è il capo assoluto degli indiani che hanno massacrato

questi poveri civili. Ed è anche il loro agente indiano. Le basta la strage come

accusa?»

«Colonnello, lei sa benissimo che io non c’entro per nulla con tutto questo.»

«Certo che lo so. La conosco molto bene. E poi è troppo intelligente per farsi

pescare da solo, qui. Scommetto che neanche sapeva di questa strage.»

«E allora?»

«Lei è pur sempre il capo di tutti i Navajo. E poi non spetta a me giudicarla.

Appena possibile la porterò dal generale Davis. Ma ora non posso permettermi

di mandare indietro neanche mezza pattuglia per scortarla. Quindi, per ora,

verrà con noi.»

Il colonnello Quincey è un vero esperto in materia di guerre indiane.

E’ il secondo giorno da quando sono penetrati nella riserva navajo.

Si appresta a preparare il campo come nella serata precedente.

I due howitzer e i carri con armi e munizioni al centro dell’accampamento.

Intorno due file di tende per ognuno dei quattro lati, con le file più esterne a

una distanza dai carri di almeno due tiri di freccia.

In questo modo vuole impedire che i navajo e i loro alleati possano usare le

frecce incendiarie per far saltare in aria i carri con le munizioni.

Tex si trova nella tenda del colonnello, senza armi ma libero di muoversi.

«Tex, la prego di ripensarci. Quando avvisteremo gli indiani, vada al campo di

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L'urlo del Falco suo figlio e cerchi di convincerlo. Una guerra indiana porterebbe solo morte e

distruzione. Per tutti. Indiani e soldati. Ma sappiamo tutti che i Navajo non

hanno alcuna possibilità. La prego. Solo lei può…»

Un’esplosione rompe la relativa quiete dell’accampamento.

«Maledizione. Cosa sta succedendo? Sergente. Sergente, a rapporto.»

«Un’esplosione, signore. Non so come sia successo, ma non ci sono né feriti né

danni.»

Una seconda esplosione.

Il campo è in subbuglio.

La confusione è massima.

Nessuno riesce a capire cosa stia succedendo.

Una terza esplosione, questa volta molto più forte.

E’ esploso un carro di munizioni.

«Questa è sicuramente opera degli indiani. Ma come diavolo hanno fatto a…»

Ancora una forte esplosione: un altro carro è andato.

«Colonnello, faccia allontanare subito i suoi uomini dai carri con le munizioni.»

Il colonnello ordina che tutti i soldati si appostino ai limiti dell’accampamento,

pronti a sparare a qualsiasi cosa si muova davanti a loro.

Le esplosioni continuano.

La paura spinge i soldati a sparare a casaccio nel buio davanti a loro.

«Cessate il fuoco, dannazione. Vogliono farci consumare più munizioni possibi-

le. Cercate di far luce e individuare gli autori di queste stramaledette esplosio-

ni.»

Tex nota qualcosa saettare nel cielo.

Poi una ennesima esplosione.

«Dinamite, colonnello. Dinamite lanciata chissà come. Dia ordine ai soldati di

sparare e colpirla al volo.»

Ma colpire un oggetto al volo non è una cosa facile e le esplosioni continuano.

«Mi dia un winchester, colonnello. Mi dia un winchester, presto.»

Con un’arma in pugno Tex è insuperabile.

Un primo candelotto esplode in aria prima di colpire il bersaglio.

Tanto rumore ma nessun danno.

Poi un altro e un altro ancora.

Segue un lungo e innaturale silenzio. 313

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Letizia

Poi un lungo e lamentoso ululato di un coyote.

E Tex risponde con un altro lungo ululato.

«Ma che diavolo fa, Willer?»

«E’ mio figlio. Ha capito che sono qui con voi. Evidentemente ha scarsa consi-

derazione della mira dei suoi soldati.»

«E cosa le ha detto?»

«Colonnello, il verso del coyote non viene utilizzato per parlare. Non come i

segnali di fumo. Mio figlio ha solo voluto farmi sapere che si è accorto della mia

presenza. Io gliel’ho solamente confermato.»

«Sergente, mi faccia un rapporto dei danni e controlli se ci sono feriti.»

Dopo pochi minuti il sergente torna con notizie poco rassicuranti.

Solo qualche ferito, di cui solo uno grave, ma sette carri di munizioni saltati in

aria, uno dei due howitzer fuori uso e un carro dei viveri fatto a pezzi.

«Maledizione. Ci sono rimasti un solo howitzer, un carro di viveri e solo tre car-

ri di munizioni. Proseguire la spedizione è quasi impossibile.»

Il resto della notte prosegue senza incidenti, ma nessuno riesce a prender son-

no.

La mattina dopo il colonnello manda degli esploratori a cercare tracce intorno

all’accampamento.

Vuol cercare di scoprire come diavolo hanno fatto gli indiani a scagliare la di-

namite così lontano.

Un esploratore lo chiama.

Ha trovato delle strane tracce.

«Diavolo, se non fossi sicuro che è impossibile, giurerei che gli indiani hanno

usato delle catapulte.»

Tex è pensieroso.

«Catapulte? Cos’è una catapulta, signore?»

«E’ un’arma medioevale usata per lanciare a grande distanza proiettili di pie-

tra, palle infuocate o altro.»

La risposta di Tex previene quella del colonnello.

«Vedo che conosce la storia antica, Willer.»

«Già. E mio figlio la conosce molto meglio di me. E conosce anche la storia

moderna e tutte le strategie europee di guerra. Qualche volta mi ha anche par-

lato di un certo Bonaparte. Lo conosce?» 314

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L'urlo del Falco «Certamente.»

«E non conosce solo tutte le strategie militari antiche e moderne. Conosce an-

che le strategie indiane. E questo è un punto a suo favore.»

«Motivo di più per una ritirata strategica. Ma ritorneremo presto e faremo teso-

ro di queste informazioni.»

Si mettono in marcia e percorrono solo poche miglia.

Poi si trovano di fronte a una spaventosa moltitudine di indiani che sbarra loro

la strada.

Sono migliaia e appartengono alle sette nazioni.

Alla loro testa due uomini.

Il colonnello li osserva con il suo binocolo.

Poi lo passa a Tex.

Tex guarda a sua volta.

Riconosce in uno dei due il fedele amico Tiger Jack, che porta in viso i colori di

guerra.

Il secondo è un giovane guerriero che porta dipinta sul petto una mano.

Una mano disegnata con il proprio sangue.

Gli indiani delle sette nazioni lo chiamano Mano di Sangue, ma il suo nome è

Falco Nero.

E’ suo figlio.

Non c’è tempo di parlamentare.

Non c’è tempo per organizzarsi a difesa.

Non c’è nemmeno tempo di accorgersi di quello che sta succedendo.

Con urla terribili gli indiani si scagliano al galoppo contro gli odiati uomini bian-

chi.

Il colonnello impartisce gli ordini per organizzare una difesa.

Ma si rende conto che tutto è inutile perché si accorge di essere attaccato an-

che ai due fianchi da altri indiani apparsi quasi dal nulla.

E’ il caos.

I soldati, già demoralizzati e stanchi per la notte insonne, sparano

all’impazzata senza alcun coordinamento.

Cominciano a cadere come le mosche, portandosi dietro in verità molti indiani.

E’ un massacro.

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Letizia Tex è disarmato ma, anche se non lo fosse, non potrebbe certo sparare sui

suoi Navajo.

E nessuno spara su di lui.

Cerca suo figlio.

Ma non lo trova.

Quasi come se il figlio cercasse volontariamente di evitare di incontrare il pa-

dre.

Falco Nero si trova sempre dove la mischia è più accesa e Tiger Jack è sempre

con lui.

Ha promesso di proteggerlo a costo della propria vita.

E questo è molto difficile perché Kit sembra quasi cercare la ‘bella morte’.

Forse vuole morire.

Vuole raggiungere nei pascoli del cielo la sua amata sposa Luna d’Argento che

gli è stata strappata per mano di sconsiderati assassini che, con il loro gesto

hanno dato inizio a una catena di lutti per gli uomini bianchi e per gli uomini

rossi.

Un gruppo di soldati lo prendono di mira con i loro fucili, alle spalle.

Tiger scarica il suo winchester su di loro e, quando rimane senza proiettili, si

lancia sui sopravvissuti al suo fuoco micidiale con il coltello in pugno.

Ma, prima di affondare la lama nel petto degli ultimi due soldati, un dolore lan-

cinante frena il suo impeto.

Una pallottola, esplosa a distanza ravvicinata, lo passa da parte a parte.

Ma, anche se ferito a morte, riesce a strappare la vita anche al secondo solda-

to.

Kit, che non ha assistito alla scena, si volta d’istinto e lo vede.

Vede il suo carissimo Tiger Jack.

Vede l’uomo che è stato per lui come un padre.

Vede una larga macchia rossa sul suo petto.

E urla.

«Nooo. Tiger, nooo.»

Come una furia si fa largo tra gli ultimi soldati rimasti ancora in vita.

Soldati che cadono sotto i suoi colpi come burattini cui abbiano reciso i fili.

Lo raggiunge.

E’ ancora vivo. 316

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L'urlo del Falco «Tiger… Tiger…»

La sua voce è interrotta dall’angoscia.

Prende l’amico tra le braccia e le lacrime gli bagnano i capelli.

«Piccolo Falco… ho mantenuto… la promessa… La promessa… fatta… a tuo pa-

dre…»

«Non parlare, Tiger. Non parlare. Non ti sforzare. Ti curerò e tu guarirai. Sa-

remo ancora insieme in mille altre battaglie…»

«E’ stata… una pazzia… Kit… E’ stata una…»

Sono le ultime parole di Tiger Jack che ha dato la sua vita per salvare quella

della persona che forse ha amato di più nella sua gloriosa vita.

L’urlo terribile e prolungato di Kit richiama attorno a sé i suoi Navajo che, alla

vista del corpo senza vita di Tiger Jack, abbassano le loro armi verso il suolo

manifestando così il loro dolore.

Poco indietro Tex osserva il figlio che con un coltello si procura un taglio sul

braccio sinistro e versa il sangue che esce dalla ferita sul petto di Tiger.

Il sangue di Falco Nero si mischia per l’ultima volta con quello di Tiger Jack.

Tex osserva senza dire una parola.

Non ci sono parole.

Qualcosa si è definitivamente rotto dentro di lui.

La riserva non è più la stessa.

Sono mesi che l’esercito dà la caccia alla Mano di Sangue e ai suoi guerrieri.

Dopo la strage che fu detta ‘delle Rocce Rosse’ in cui nessun bianco poté torna-

re per portarne la notizia, le giacche azzurre reagirono duramente.

Nonostante le dure perdite subite, riuscì a far retrocedere gli indiani delle sette

nazioni fino al centro della riserva.

Ai limiti orientali di questi territori ora sorgono, disposti ad arco da nord a sud,

ben sette fortini.

Nel principale, che sorge vicino a dove si trovava una volta la città di Gallup, si

trova il quartier generale comandato da Davis in persona.

Carson, incredulo alle notizie che gli arrivano dalla zona dei combattimenti,

non si dà pace.

Non può essere vero.

Deve essere per forza un sogno.

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Letizia Un incubo.

Ma vede con i suoi occhi le macerie incenerite della città che aveva visitato

centinaia di volte.

Ogni volta che si era recato nel villaggio centrale di Tex.

Vede con i suoi occhi i segni del campo di Orso Macchiato, abbandonato in tut-

ta fretta per andare contro la morte.

Una morte tanto crudele quanto assurda.

Vede il tumulo che raccoglie i resti mortali della bellissima Luna d’Argento, la

giovanissima sposa di Kit.

Sposa per solo una settimana.

E infine vede lo spettacolo orrendo di quello che rimane della tribù di Orso

Macchiato.

O meglio, dei vecchi, delle donne e dei bambini della tribù.

Nessuno si è preoccupato di dare una sepoltura a quei poveri resti.

Gli immondi avvoltoi e sciacalli hanno lasciato solo le ossa che biancheggiano

al sole.

Ci vuole un bello stomaco per soffermarsi a guardare quell’orrore.

Ma Carson ce l’ha.

Vuole imprimere nella mente quelle immagini in modo che vi rimangano inde-

lebili.

Non vuole dimenticare.

Non deve.

Dimenticare vuol dire non accettare la verità.

Vuol dire lavarsene le mani, rifiutarne la responsabilità.

L’uomo bianco non deve dimenticare quello che ha fatto a un popolo che ha so-

lo avuto il ‘torto’ di essere arrivato per primo in queste splendide terre.

E lui, che non ha saputo impedire tutto questo, si sente colpevole come il sol-

dato che per primo ha tolta la vita a un ‘vero uomo’.

Si sente colpevole come il bastardo che ha premuto il grilletto sul petto della

giovane sposa di Kit.

L’incontro con Tex è straziante.

Un interminabile minuto di silenzio.

Nessuno dei due aveva qualcosa da dire.

Poi il pianto di Tex. 318

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L'urlo del Falco Tex non aveva mai pianto.

Neanche quando è morta la sua dolce Lilyth.

Almeno secondo quello che gli ha raccontato Tiger.

Tiger.

Non riesce neppure a immaginare che Tiger non c’è più.

Che non vedrà mai più il suo viso fiero e quadrato.

Mio Dio.

Tutto questo non è possibile.

Tutto il mondo sta crollando.

I Navajo decimati.

Kit ridotto ad una belva sanguinaria assettata di sangue.

Tex distrutto nella sua impotenza.

Tiger morto.

E la cosa non è ancora finita.

Kit non si arrenderà mai ai soldati.

Il suo destino è uno solo.

La morte in battaglia.

L’ultima battaglia degli uomini rossi contro il bianco invasore.

E Tex come la prenderà?

Carson ha paura persino di pensarlo.

Ma sa che c’è un’unica via.

Morirà con il suo popolo, in una carica cieca contro migliaia di soldati.

E sa anche che non sarà da solo.

E un solo pensiero occupa la sua mente.

“In fondo hai vissuto abbastanza, vecchio cammello”.

Kit è ormai l’ombra di sé stesso.

Ha cercato invano la morte in cento battaglie.

Ma la morte sembra ignorarlo.

Ha molta pazienza.

Prima o poi lo ghermirà.

Ma vuole vederlo soffrire ancora e aspetta.

Quando si parla di morte pietosa non si sa ciò che si dice.

La morte non è pietosa.

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Letizia Mai.

Per lei c’è solo un aggettivo: crudele.

Le sette nazioni non esistono più.

Quelli che non sono morti lo hanno abbandonato.

Tutti, tranne i suoi Navajo.

Loro moriranno per lui fino all’ultimo uomo.

Chi lo ha abbandonato è tornato ad esser schiavo dell’uomo bianco.

Solo gli Apache sono rimasti liberi.

Sono fuggiti in Messico, dove però sanno che troveranno i ‘Rurales’ a dar loro

la caccia.

I pochi Navajo rimasti hanno seguito il loro capo in quella che sarà l’ultima bat-

taglia.

Kit ha manovrato in modo da portare l’esercito in un luogo in cui possa trovare

il massimo vantaggio.

Ma non servirà a molto perché i soldati sono migliaia e combatteranno contro

poche centinaia di guerrieri.

In altre condizioni non sarebbe stato troppo difficile aver ragione delle giacche

azzurre.

Ma loro sono ben armati, hanno anche ben sei howitzer.

I suoi Navajo invece hanno pochissime munizioni.

Probabilmente non riusciranno neanche a uscire allo scoperto per l’ultima cari-

ca.

Verranno spazzati via a colpi di cannone.

E il canyon in cui sono rintanati non offrirà sufficiente riparo.

Ma Kit ha qualcosa da fare prima di morire.

Vuole dare l’ultimo saluto alla sua dolce Luna d’Argento.

E’ quasi un anno ormai che è stata uccisa.

Avrebbe voluto piangere sulla sua tomba a un anno esatto dalla sua morte.

Ma il destino ha deciso diversamente.

Non vivrà ancora fino a questo triste anniversario.

Si mette in cammino senza sapere che anche suo padre e Kit Carson stanno di-

rigendosi verso il luogo dove sorgeva il campo di Orso Macchiato.

Il destino, nel suo gioco perverso, ha deciso che i tre pard sopravvissuti si ri-

trovassero ancora una volta insieme. 320

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L'urlo del Falco E’ stato il destino o è stata la morte?

La morte che è pronta a ghermire i tre uomini.

Morte irriconoscente.

A giudicare dal numero di ‘clienti’ che gli hanno fornito. Dovrebbe riservare per

loro un occhio di riguardo.

Ma la morte conosce solo la crudeltà.

E così tre uomini vanno ad un appuntamento con il destino.

Uno è un giovane cui hanno strappato il cuore proprio nel momento in cui era

gonfio di felicità.

Un altro è un uomo a cui è stato rubato tutto: la moglie, il suo unico figlio,

l’amico che era più che un fratello e tutto il suo popolo.

L’ultimo è un vecchio stanco, troppo stanco di odio, morte e distruzione.

Tre uomini cui, prima di morire, è stato concesso l’ultimo saluto.

«Tex, quello non è il tuo ragazzo?»

«Vedo che, nonostante l'età, il tuo occhio è ancora quello di una lince, vecchio

cammello.»

«Tizzone d'inferno, vecchio un corno. E ci vedo benissimo. Leggo anche il gior-

nale senza bisogno di occhiali.»

«Giornale? Quello che sfogli ogni due o tre mesi?»

«Ne leggo sempre più di te, sempre ammesso che tu sappia leggere.»

Kit intanto si avvicina a loro sempre più.

«Kit che diavolo ci fai da queste parti? E come ti sei conciato?»

«Padre, non cercare di dissuadermi. E’ troppo tardi.»

«Padre? Ma hai preso il tuo vecchio tizzone d’inferno per un frate francesca-

no?»

«Ti vedo strano, figliolo. Ma che ti è successo? Sei senza camicia e hai uno

strano segno sul petto.»

«Ma padre, cosa dici?»

«Pensavamo di trovarti al villaggio per i preparativi.»

La voce di Carson risuona nella testa del giovane come tante martellate.

«Villaggio? Il villaggio non c’è più. E quali preparativi?»

«Ma quelli per le tue nozze, diamine.»

«Non scherzare, Capelli d’Argento. Rispetta almeno…»

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Letizia

«Capelli d’Argento? Di solito mi chiami ‘zio Kit’. Ma che ti prende? Tex, tu che

dici? Luna d’Argento gli avrà forse tolto il senno?»

«Taci. Lei…»

Il rumore di un galoppo lo interrompe.

E’ Cane Nero.

«Cane Nero, tu qui? Ma non è possibile.»

«Perché dici questo? Il capo Orso Macchiato aspetta con ansia l’arrivo del

grande capo Aquila della Notte e di suo fratello Capelli d’Argento.»

Poi rivolgendosi verso un Kit sempre più incredulo: «Che cosa ti è successo,

Piccolo Falco? Sono forse segni di guerra quelli che porti sul petto?»

Kit si sente svenire.

Non capisce quello che sta succedendo.

Cane Nero non può essere vivo.

L’ha visto morire con i suoi occhi nel tentativo di difendere la sua sposa.

«Luna d’Argento.»

Si accorge di aver pronunciato il nome, a lui tanto caro, ad alta voce.

Le parole sono uscite dalla sua bocca quasi senza che se ne accorgesse, quasi

fossero un pensiero che non voleva essere tale.

«Luna d’Argento sta preparando quella che sarà la vostra tenda…»

Si sente morire.

Lancia il cavallo al galoppo nella direzione in cui dovrebbe trovarsi il villaggio di

Orso Macchiato, lasciando i tre uomini sbigottiti.

Da lontano cominciano a spuntare le estremità delle prime tende.

Il suo cuore batte come se volesse esplodergli nel petto.

Si avvicina sempre di più.

Vede i suoi Navajo nei preparativi per i festeggiamenti.

Vede Tiger giocare con i bambini del villaggio.

Vede Orso Macchiato.

Accanto al padre, vede lei.

E’ bellissima.

Anche lei lo ha visto e gli sorride.

Dio, quanto è bella.

Scende al volo dal suo mustang che pianta gli zoccoli nel terreno.

La stringe tra le braccia. 322

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L'urlo del Falco La bacia.

La solleva stringendola sempre più e facendola roteare.

«Piccolo Falco. Ma che fai? Mi gira la testa. E poi non è ammesso comportarti

così con la tua promessa sposa. Mi fai arrossire.»

Orso Macchiato li guarda sorridente.

Presto avrà dei nipotini.

Poi, facendosi più serio e fingendo un imbarazzo che non c’è: «Piccolo Falco,

non è ancora ora. Avrai tutto il tempo per stare con la tua sposa. Ora è bene

che tu le stia lontano.»

La testa gli ronza.

Non capisce.

Arrivano nel frattempo Tex e Carson.

«Il tuo ragazzo sembra avere molta fretta di sposarsi.»

«Già. Ma quello che ha fatto non sta bene.»

«Non credo che Orso Macchiato se la sia poi presa. Ho visto che li guardava

sorridendo.»

Il terzo giorno arriva presto.

E’ il giorno del matrimonio.

Kit non ha fatto altro che pensare a quello che sta succedendo.

L’ipotesi più credibile sarebbe quella del sogno.

E’ stato tutto un orribile sogno.

La morte della sua sposa, la strage della tribù di Orso Macchiato, la distruzione

di Gallup, la morte di Tiger, lo sterminio del suo popolo… solo un terribile so-

gno.

Ma ha subito scartato l’ipotesi.

A parte il fatto che gli eventi accaduti erano troppo realistici per poter essere

un sogno, c’è un particolare che rende l’ipotesi impossibile.

La mano dipinta col sangue sul suo petto, anche se quasi scomparsa.

E le ferite che ha avuto nelle cento battaglie sostenute con le giacche azzurre.

Sono ancora lì.

Le hanno notate tutti, compresa la sua sposa, e tutti gli hanno domandato co-

me se le era procurate.

La scena dell’incontro con suo padre e Carson, l’ha vissuta due volte.

Ma la prima volta era diversa. 323

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Letizia Cerca di ricordare.

Ritornava dalla visita ad un uomo della medicina che, se ricorda bene, gli ave-

va detto di stare in guardia.

Solo ora conosce da cosa doveva guardarsi.

E allora?

Cosa diavolo è successo?

Come era possibile annullare un anno di dolore e di guerra in un solo attimo?

Ma è troppo felice per rompersi la testa dietro qualcosa che è più grande di lui.

Ora vuol avere un unico pensiero.

Luna.

«E' stata una cerimonia bellissima e commovente. Il mio figlioccio che si spo-

sa! E lo sciamano di Orso Macchiato? Avete notato che aria imponente e solen-

ne?»

«Ma non è il mio sciamano. Non è il tuo sciamano, Aquila della Notte?»

«No. Anch'io credevo appartenesse a questo villaggio. Anche se ha un'aria fa-

miliare. Mi ricorda qualcuno.»

«Kit, hai visto dov'è andato lo sciamano?»

«Te-Hi-Nak? No, non l'ho più visto. Dev'essere qui in giro che...»

«Come hai detto che si chiama?»

«Ma pa', non lo conosci? E' Te-Hi-Nak, lo sciamano che mi è stato vicino per

tutti questi...»

Stava per dire 'mesi', ma si trattiene.

Forse ora non è davvero il caso di parlarne.

«Ma Te-Hi-Nak è lo sciamano che ha unito in matrimonio me e tua madre,

Kit.»

Kit rimane un attimo in silenzio.

Ripensa a quello che è successo negli ultimi mesi.

Comincia a capire.

Lo spirito dello sciamano, lo stesso che ha sposato i suoi genitori, è stato ac-

canto a lui per proteggerlo.

E sua madre, la dolce Lilyth?

E' stata lei a mandarlo a proteggerlo?

Sicuramente.

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L'urlo del Falco Ed è stata lei a riportarlo indietro, a un anno prima.

Ma come è possibile?

Poi, come se volesse celare il proprio stupore: «Non crederai che si tratti della

stessa persona? Ha solo lo stesso nome. Una coincidenza.»

E, prima che il padre, che non gli sembra molto convinto, possa proseguire,

prende dolcemente per mano la sua sposa.

«Ci vediamo domani, pa'. Ciao zio, ciao Tiger. Che il cielo ti protegga, Orso

Macchiato.»

E si allontana verso la sua tenda.

E, mentre percorre quei pochi metri, pensa di essere l'uomo più felice del

mondo.

Pensa che il buon Dio gli abbia dato il più bel dono che essere umano abbia

mai ricevuto.

La sua sposa era morta, uccisa sotto i suoi occhi, e adesso è lì con lui, viva e

innamorata.

Gli è stata data una seconda opportunità.

«Luna,» le dice scuro in volto «mi devi promettere che non mi chiederai mai di

portarti nella città degli uomini bianchi. Mai.»

«Ma io non voglio andare nella città dei bianchi, Falco. la mia vita è qui, insie-

me a te, insieme alla nostra gente. E quando il mio uomo andrà con Aquila del-

la Notte nelle città dei bianchi a lottare contro gli uomini malvagi, io aspetterò

il suo ritorno nella nostra tenda.»

Si ferma un attimo e la stringe teneramente a sé.

Mentre la stringe, nota un bagliore bianchissimo all'ingresso della sua tenda.

In quel bagliore vede la figura di una giovane donna.

«Mamma.»

«Che c'è, mio sposo? Stai pensando a tua madre? Alla dolce Lilyth?»

«Sì, Luna. Mi era sembrato di vederla là, sulla soglia.»

Si rende conto che Luna d'Argento non vede quella visione che è ancora lì.

E nel bagliore, Lilyth gli sorride.

Si avvicina e allunga la mano come per voler scostare il telo della tenda per

poter entrare.

La sua mano attraversa l'immagine come se fosse fatta di fumo.

Ma entrando avverte come un bacio sulla fronte. 325

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Letizia

«Tua madre era bellissima, vero?»

«Sì, lo era. E' la donna più bella che io abbia mai visto.»

Pensa poi che a nessuno è stato mai concesso di vivere due volte la prima not-

te di nozze.

Prende in braccio la sua sposa e la adagia delicatamente sulle morbide pelli sul

terreno.

Guarda il suo viso bellissimo e, mentre reprime una lacrima, le sussurra: «Pri-

ma di conoscere te, Luna.»

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L'urlo del Falco

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Letizia

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Capitolo 7 I due fratelli Il ritorno

Nella sua sfolgorante divisa di aviatore di quella che sarebbe diventata la Ro-

yal Air Force, Jack dimostra più dei suoi diciotto anni (N.d.A.: La R.A.F. nasce

ufficialmente il primo aprile del 1918).

Sta uscendo dal miglior albergo della città.

A dire il vero, ci vuol poco ad essere il migliore: in città ci sono solo tre hotel.

Beh, la città...

Solo un anno fa, quando ha lasciato la casa dei genitori, non sapeva neanche

che esistessero delle città come quelle che ha visto in Europa.

I suoi genitori.

Sanno del suo ritorno, ma sono convinti che ci vorrà ancora qualche giorno.

Non lo aspettano così presto.

E ora lui è lì e si sta dirigendo verso il corral del vecchio Miguel per noleggiare

un cavallo.

E' stanco di viaggiare con quei puzzolenti mezzi a motore e ha voglia di respi-

rare un po' di aria buona, in mezzo al verde.

Cammina lento e pigro nella main street con un'aria molto diversa da quella al-

legra e scanzonata che aveva l'ultima volta che ha percorso quella strada.

E' cambiato, è molto cambiato.

Non è più il ragazzo che era.

Il suo volto non è più come quello di una volta.

I suoi occhi non lo sono più.

Hanno visto troppi orrori.

Troppi.

E non potrà dimenticare.

Quelle terribili immagini saranno sempre nella sua mente.

Assorto nei suoi pensieri non si accorge neppure che un paio di ragazze lo

stanno guardando ammirate.

Arriva al corral e Miguel gli si fa subito incontro.

«Desidera qualcosa, señor capitàn?»

"Non sono capitano, ma solo tenente" pensa Jack, ma non lo corregge.

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Letizia «Dovrei noleggiare un cavallo...» e stava per aggiungere "Miguel" ma si trat-

tiene.

Non l'ha riconosciuto e forse è meglio così.

«Ho giusto quello che fa per lei, señor. Questo morello è veloce e robusto. E'

un ottimo cavallo.»

«Se per te è lo stesso, preferirei il pezzato là in fondo» risponde indicando uno

splendido mustang bianco con le caratteristiche macchie marroni.

«Oh, quello non va bene, señor. E' un cavallo muy focoso.»

Nota che lo straniero gli si è rivolto con il "tu" ma non obietta.

Conosce gli yankee e sa quanto possano essere arroganti.

«E' pericoloso. Il morello è più tranquillo» continua.

«Il mustang va benissimo» risponde Jack.

«Muy bien. Glielo sello subito, señor.»

Miguel aspetta soltanto di vedere lo straniero fare una brutta figura.

Già lo vede cadere nella polvere e rialzarsi tutto indolenzito.

«Se non ti dispiace, faccio da me. Posso prendere questa sella?»

«Seguro, señor.»

Jack prende la sella in spalla e si avvicina al pezzato che si adombra subito ni-

trendo irrequieto.

«Buono, bello. Buono.»

La voce di Jack è calma e dolce e rassicura il cavallo che si lascia avvicinare.

Il ragazzo gli si accosta sempre più e gli accarezza il muso sotto lo sguardo

meravigliato di Miguel.

«Lei si intende di cavalli, señor. Nessuno era mai riuscito ad avvicinarsi così a

Diablo.»

«Diablo?»

«E' il nome del mustang, señor. E' un vero demonio.»

«Io credo che invece sia un cavallo docile. E' solo nervoso e non è abituato alla

presenza degli uomini.»

Appoggia la sella alla staccionata, prende una coperta e la stende sulla groppa

del cavallo parlandogli docilmente e continuando ad accarezzarlo.

In un paio di minuti Diablo è sellato.

Jack sale in sella lentamente e, continuando ad accarezzare il cavallo, guarda

Miguel sempre più meravigliato. 330

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I due fratelli «Incredibile, señor. Nessuno era mai riuscito a salire in sella a Diablo.»

Miguel rimane un attimo a fissare il giovane che sta per spronare il cavallo.

«Señor, è mai stato da queste parti? Devo averla già visto da qualche parte. Il

suo volto ha qualcosa di familiare.»

«Davvero non mi riconosci, Miguel?»

ll vecchio lo guarda stupito.

«Conosce il mio nome, señor? Ci siamo già visti?»

«Miguel, Miguel! Sono io. Sono Jack.»

Il vecchio sgrana gli occhi incredulo.

«Jack? Tu sei... sei Jack?»

Lo guarda meglio e si stropiccia gli occhi.

«Ma sì. Sì, sei proprio tu. Jack! Come sei cresciuto e come sei cambiato!»

«Già.»

«Adesso capisco perché sei così bravo con i cavalli. Fatti vedere. Madre mia,

come stai bene con la divisa. Chissà quante ragazze ti corrono dietro, eh? Ma-

dre de Diòs. Cuanto tiempo. Està un año, verdad?»

«Più o meno.»

«Stai andando al ranch dei tuoi genitori, vero? Ti accompagno io. Lascia qui il

cavallo, vado a prendere l'automobile. Faremo prima. Lo sai? Adesso ho

anch'io una di quelle macchine infernali e...»

«No, no. Va bene così, Miguel. Ho voglia di cavalcare e poi, se passo dal bosco

di betulle, arriverò prima.»

«Ma la pista del bosco è poco più di un sentiero. Mi azzopperai il cavallo!»

«Miguel, Miguel. Lo sai quante volte ho fatto quella pista e non è mai successo

niente ai miei cavalli.»

«Lo so, Jack, lo so. Scusa, non volevo... ma Diablo non ha ancora i ferri e...»

«Non temere, Miguel. Sai che tengo molto ai cavalli e che li tratto quasi come

le persone...»

«Va bene, va bene, Jack, non ti arrabbiare. Prenditi una borraccia. La strada è

lunga e non troverai neanche l'ombra di un pozzo.»

«Conosco la zona. Grazie, Miguel.»

«Salutami i tuoi genitori. E anche tuo nonno. E quel matto d'un indiano.»

«Certo. Adios, Miguel.»

«Vaya con Diòs, Jack.» 331

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Letizia

Dopo poco più di un'ora, Jack si ferma per far riposare e abbeverare il cavallo.

Solo ora si rende conto di quanto abbia sbagliato a lasciarsi la divisa e a non

indossare qualcosa di più comodo.

Già cavalcare con le scarpe d'ordinanza non era stato certo agevole e aveva

rimpianto più di una volta un bel paio di stivali.

Ma ora, dar da bere a Diablo senza un bello Stetson di cuoio robusto e imper-

meabilizzato diventa un bel problema.

Ma vuole presentarsi ai suoi con la divisa, quella divisa che gli ricorda tanti or-

rori.

E non ha appuntato al petto la medaglia.

Non se la sente, la tiene nella sacca appesa alla sella.

Voleva gettarla, insieme a quella di suo fratello, ma non l'ha fatto.

Non vuole dimenticare, non vuole far finta che non sia successo niente.

No.

La divisa e la medaglia sono lì a ricordare la sua pena.

Per quanto doloroso possa essere, è una sofferenza che deve sopportare.

Sono solo simboli, ma gli devono ricordare la sua pazzia.

Gli devono ricordare il dolore che ha causato a tutte le persone cui vuole bene.

Soprattutto a Sara.

E ai suoi due figli che probabilmente non sanno cosa è successo.

Un breve riposo al suo mustang ed è di nuovo in sella, al galoppo.

Ha fretta di arrivare a casa anche se ha paura di incontrare i suoi.

Vorrebbe che quel momento non arrivasse mai e, nello stesso tempo, accelera

l'andatura del cavallo per abbreviare l'attesa.

Non si è mai sentito così male.

E' ancora giorno quando vede i primi longhorn al pascolo.

La sua casa è dietro quella collina.

Raggiunge l'altura e si ferma un attimo a guardare.

Il ranch, gli uomini che lavorano nei corral.

La grande casa con le sue pareti bianche spicca in mezzo al verde.

E' a casa.

Sprona il mustang e in pochi minuti è nell'ampio piazzale davanti alla casa.

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I due fratelli Gli uomini al lavoro nel corral lo vedono e, anche se ancora non lo riconoscono,

vedono la divisa e capiscono immediatamente chi è.

Si avvicinano gridando per festeggiarlo ma Jack fa segno di tacere.

Le grida continuano per pochi secondi e poi si interrompono.

Scende dal cavallo e lo lascia alle cure dei cowboy.

Si avvicina alla sua casa ed entra.

Sua madre sta scendendo una delle due scalinate a semicerchio che dall'in-

gresso portano alle camere del piano superiore.

Appena lo vede, scende in fretta gli ultimi gradini e gli corre incontro.

Jack la stringe a sé, la solleva da terra e la fa roteare.

E nel totale silenzio la bacia e la bacia ancora.

La donna, con i capelli ancora neri nonostante l'età non più giovanissima, lo

stringe forte e lo bacia ancora.

Poi si stacca dalle sue braccia e lo guarda, in silenzio.

Jack sta per dire qualcosa quando un sonoro ceffone gli arriva nella sua guan-

cia sinistra.

La donna poi scoppia in un singhiozzo che cerca di soffocare e stringe di nuovo

a sé il figlio.

«Mamma...»

«Vieni» lo interrompe lei, «di là ci sono tutti.»

Lo prende per mano come faceva da bambino e lo accompagna verso la sala

attigua, da dove si sentono delle voci.

Entrano.

Ci sono tutti.

Suo padre che stava venendo verso la porta per vedere cos'erano le urla che

aveva sentito provenire da fuori.

Il nonno, sprofondato nella poltrona con gli occhiali sul naso che sta sfogliando

il giornale.

Il vecchio indiano, seduto accanto il camino, sta fumando la sua pipa che, a

suo dire, ha più di duecento anni e che era stata usata da numerosi capi.

E c'è Sara.

I suoi due bambini, vedendo un estraneo, si aggrappano timidamente alle

gambe della mamma.

E c'è anche Mamie che sta da loro da prima che Jack nascesse. 333

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Letizia Si è occupata prima del fratello, poi di lui e adesso dei suoi nipotini.

Ci sono proprio tutti.

Manca, naturalmente, suo fratello.

E la sua assenza pesa come un macigno.

«Mamma, chi è quel signore con quei vestiti buffi?» chiede il più piccolo che

ormai ha quasi tre anni.

Il più grande mi sta scrutando incuriosito come se ricordasse qualcosa di que-

sto strano tipo.

«E' lo zio Jack, Charlie. Lo zio Jack che è tornato dalla guerra.»

Le parole di Sara sono fredde come la lama di un coltello e i suoi occhi lanciano

uno sguardo che Jack non ce la fa a sopportare.

«Jack! E' lo zio Jack! E' tornato! Jack, Jack» urla Thomas correndo verso di lui.

Jack lo solleva da terra e lo alza in aria come faceva quando era più piccolo.

«Bambini, andate con Mamie che vi prepara la merenda».

La voce di Sara risuona quasi come un ordine.

«Venite, bambini. Andiamo a far merenda e lasciamo i grandi a chiacchierare.»

In un attimo Charlie e Thomas lasciano di corsa la stanza.

Gridando allegri precedono Mamie in cucina.

«Papà...» salta su Jack, ma non fa in tempo a finire la frase che suo padre gli

sferra un poderoso uppercut che lo fa letteralmente volare per poi cadere su

una poltrona rovesciandola.

Nessuno dice una parola.

Jack si rialza toccandosi la mascella quasi a constatare che non gli sia saltato

qualche dente.

Ma suo padre sa colpire facendo molto male senza però recare grandi danni.

«Certo che hai la mano pesante, pa'.» esclama Jack come se conoscesse il pu-

gno di suo padre che invece non aveva mai alzato un dito su di lui prima di al-

lora.

L'uomo si avvicina al figlio che si ritrae temendo un altro sganassone.

Ma il padre si avvicina a Jack e lo stringe forte tra le braccia.

«Maledetto pazzo incosciente» sussurra mentre lo stringe a sé, «pazzo inco-

sciente.»

La sera a tavola non c'è l'allegria di sempre.

334

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I due fratelli Se non fosse per il nonno con la sua aria sorniona di finto ingenuo che cerca di

scaldare un po' l'ambiente, sembrerebbe proprio una veglia funebre.

E meno male che ci sono i bambini che strillano sgattaiolando tra una sedia e

l'altra o addirittura sotto il tavolo.

E' incredibile come un esserino così piccolo abbia una voce tanto squillante.

Ma la cosa dura poco perché Sara li porta a letto presto, troppo presto per la

verità, e ne approfitta anche lei per ritirarsi in camera sua, seguita subito dopo

dalla suocera.

E anche Mamie, dopo aver sparecchiato, sparisce in cucina e non si fa più ve-

dere.

Rimangono i quattro uomini che, ora che non ci sono le donne a brontolare, ne

approfittano per bersi un goccetto e farsi una fumatina.

Jack, come suo padre, non fuma ma, anche se non è un gran bevitore, un bic-

chiere se lo fa volentieri.

Ci vuole proprio.

Il nonno si arrotola una sigaretta e il vecchio indiano si accende la sua antica

pipa.

A poco a poco, naturalmente merito del nonno che ne sa una più del diavolo,

l'atmosfera si fa più rilassata e Jack si accorge che le ore, che prima non sem-

bravano passare mai, in realtà sono volate.

Mezzanotte è già passata da un pezzo quando lasciano la sala per andare a ri-

posare.

Un saluto e una buonanotte a tutti e Jack si ritrova nel suo letto, finalmente

senza quella divisa che non indosserà mai più.

L'alba tarda a venire, forse perché Jack non ha chiuso occhio tutta la notte.

Quando scende in cucina per farsi un paio d'uova con un po' di pancetta, vede

con sorpresa che sua madre e sua cognata sono già alzate nonostante manchi

ancora più di un'ora al sorgere del sole.

Sua madre si avvicina per baciarlo e Sara gli rivolge un buongiorno che sareb-

be potuto anche essere un po' più caloroso.

«Stai andando in città, Sara? Vuoi che ti accompagni?»

«No grazie, Jack. Mi accompagna il signor Williams con l'auto di papà. Avrò bi-

sogno che si fermi in città con me perché non so quando farò ritorno.»

335

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Letizia

«Beh, io ti posso aspettare anche tutta la giornata. Non ho molte cose da fare

e...»

«Non vuoi andare a trovare Elisabeth? Non credi che le farà piacere rivederti?»

«Beh... non lo so... io...»

Si interrompe quasi a riprendere fiato e aggiunge: «Forse hai ragione, Sara.

Forse è meglio che faccia un salto da lei.»

«Come mai ti sei svegliato così presto, Jack?»

«Non mi sono svegliato affatto, mamma. Non sono riuscito a chiudere occhio

stanotte.»

«Non hai un buon aspetto, infatti. Riposati nella sedia a dondolo mentre io ti

preparo la colazione.»

«No grazie, ma'. Non riesco a stare con le mani in mano. Esco a sellare il ca-

vallo. Sarò di ritorno fra un quarto d'ora.»

«Non tardare però, altrimenti ti si fredda la colazione.»

«Ok, ma'. A più tardi allora. Ciao Sara.»

«Ciao, Jack.»

Nella stalla naturalmente c'è ancora il pezzato che ha noleggiato da Miguel.

Lo sella velocemente.

Appesi ad una parete ci sono il suo winchester, il cinturone e le sue due colt.

Un tempo non se ne separava mai, ma ora pensa che non gli serviranno mai

più, neanche per andare a caccia.

C'è anche il suo Stetson che si affonda con energia sulla testa.

Esce dalla stalla portando il cavallo alla briglia e si dirige verso casa.

Mezz'ora dopo è già in sella e sta dirigendosi verso il ranch dei genitori di Eli-

sabeth.

Quando è partito per l'Europa, Beth e lui si sono lasciati in malo modo e lei non

era venuta a salutarlo il giorno della partenza.

Tra meno di un'ora Jack la incontrerà e sta pensando a quale sarà la sua rea-

zione.

L'avrà perdonato?

Mille congetture si affacciano alla sua mente e nessuna riflette quello che real-

mente desidera.

Sprona il cavallo.

Ha fretta di sapere. 336

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I due fratelli Il ranch è uguale a come lo ricordava.

E' passato un anno ma niente è cambiato.

Da lontano vede i cowboy del ranch che lo stanno guardando e qualcuno lo ha

riconosciuto.

«Jack, vecchio furfante. Sei tornato. Fatti vedere. Sta benissimo, vero Frank?»

«Ciao Bill. Ciao Frank.»

«Sei venuto a trovare miss Elisabeth? E' andata a fare la sua solita galoppata

mattutina. Sarà qui tra poco.»

«Ah! Bene.»

«Ma tu come va? Chissà quante cose hai da raccontare e... Ah, ma ecco miss

Elisabeth che sta arrivando.»

"Meno male" pensa Jack, "non mi andava proprio di parlare, specialmente della

guerra".

La ragazza si avvicina sempre più e, quando riconosce Jack, sprona il cavallo

frustandolo.

Scende a terra che ancora il puledro non si è fermato e corre da Jack abbrac-

ciandolo.

«Oh, Jack. Jack... Jack.»

Lui la stringe fra le braccia e bacia i suoi bellissimi capelli neri che profumano

di salvia in fiore bagnata dalla rugiada.

Non si aspettava un simile comportamento da parte di Elisabeth.

Il suo volto si rasserena lievemente e un accenno di sorriso compare sulle sue

labbra.

Lei si scosta e lui si china per baciarla.

Ma lei si ritrae.

«Beth...»

Le parole non gli escono dalla bocca.

«Credevi che ti avessi perdonato, Jack? Sono solo molto contenta che tu sia

tornato. Mi sei mancato molto, sai? Ma tutto qui. Tra me e te non ci potrà più

essere quello che c'è stato prima della tua partenza.»

«Beth, io non voglio niente. Sono qui solo perché avevo voglia di rivederti e...

pensavo che tu avessi il diritto di rivedermi. Sano e salvo. Solo che credevo

che... Sono stato uno stupido a pensarlo. Ma tu mi hai abbracciato forte... e mi

hai detto che...» 337

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Letizia «Ti ho detto solo che mi sei mancato. Ti ho amato tanto, sai? Non sono cose

che possono essere cancellate facilmente.»

«Tu... tu non mi ami più? C'è... c'è forse un altro?»

«Non dire stupidaggini, Jack. Come potrebbe esserci qualcun altro? Io non a-

merò più nessuno. Ma neanche te.»

«Ma Beth, così rovinerai la tua vita. E anche la mia.»

«Ma guarda. Forse le ho già sentite queste parole. Te le hanno dette tutte le

persone che ti vogliono bene. Io compresa.»

Jack abbassa il capo.

Beth ha ragione.

E' partito per l'Europa nonostante le suppliche di Beth, di sua madre e... e di

suo fratello.

Non ha ascoltato nessuno.

Pazzo.

«Hai ragione. Scusami, Beth. Sono stato un idiota. Mi merito tutto quello che

mi succede. Solo che...»

Non trova le parole per esprimere quello che sente.

«Beh, allora... ciao Beth. Sono contento di averti rivisto. Stai molto bene. Sei

bellissima. Ancora più di quanto ricordavo.»

«Anche tu stai molto bene» risponde lei arrossendo.

«Uhm... Ciao allora.»

Sale a cavallo e, dopo un ultimo sguardo negli occhi neri e profondi di lei, lo

sprona con un leggero colpo di speroni e si allontana in direzione del proprio

ranch.

Lei lo sta a guardare sperando che si volti a guardarla, mentre una lacrima gli

scende sula guancia pallida come la luna.

Ma Jack non si volta e lei lo vede scomparire dietro la collina.

Quando arriva al ranch, va diritto alla stalla.

Toglie morso e sella al pezzato di Miguel e sella due cavalli.

Prende il suo winchester e lo inserisce nel fodero della sella di uno dei due ca-

valli.

Da' uno sguardo alla parete e vede le sue colt.

Si allaccia il cinturone e controlla i due revolver.

Sono scarichi. 338

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I due fratelli Cerca in un baule le munizioni e ne prende cinque o sei scatole.

Carica le colt e le inserisce nelle due fondine.

In una doppia bisaccia infila un po' di cose che gli possono servire, prende un

paio di borracce e appende il tutto alla sella.

Cerca il suo vecchio bowie knife, che è sempre lucido e affilato come un rasoio,

e salta in sella.

Prende il secondo cavallo per le redini ed esce dalla stalla.

Si allontana dirigendosi ad ovest mentre alcuni cowboy lo seguono con lo

sguardo.

Passando davanti la casa vede il nonno che si arrotola una sigaretta.

Senza un cenno di saluto, passa davanti a lui che lo guarda negli occhi senza

dire una parola.

Dopo pochi minuti è già lontano all'orizzonte, solo con i suoi pensieri.

I due fratelli

La giornata è splendida e il fiume scorre pigramente nel bosco.

Non so neanch'io perché continuo a venire a pescare con mio fratello.

Pescare non mi piace, troppo noioso.

Preferisco andare a caccia.

«Eagle, sei sicuro che ci siano dei pesci in questo dannato torrente? E' un'ora

che siamo qui e non ho preso un accidenti di niente.»

«Tu non hai preso niente. Io ne ho già presi tre. E non chiamarmi Eagle. Lo sai

che non lo sopporto.»

«Sarà! Forse perché non mi piace pescare. Vuoi mettere quanto è più bella la

caccia?»

«Oh, certo. Così puoi dimostrare tutta la tua abilità di tiratore. Ma lo sai che io

non amo tanto la caccia.»

«Già. Tu ami gli animali e uccidi solo quando non ne puoi fare a meno. Ma ne-

anch'io sono uno spietato assassino e rispetto la natura, lo sai. Non ho mai uc-

ciso un cucciolo. Solo animali anziani e sai che preferisco quelli più dannosi per

l'uomo. Come i pecari, per esempio. Che tra l'altro hanno la carne squisita.»

«Uhm...»

339

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Letizia «E poi anche tu non disdegni qualche arrosto e sai benissimo che fine fanno i

longhorn che alleviamo.»

«E' diverso. Con i longhorn non rompiamo nessun equilibrio della natura. Sono

bestie di allevamento e non rischiano per nulla l'estinzione.»

«Ok. Vuoi sempre aver ragione tu, Eagle.»

«Io non voglio aver sempre ragione. Io "ho" ragione. E ti ho detto di non chia-

marmi Eagle.»

«Ok, ok, non ti arrabbiare. Senti, perché domani non vieni con me alla piana di

Flatland?»

«Alla piana di Flatland? E cosa ci vorresti andare a fare? Eh? Ci sei già stato,

vero?»

«Beh, sì. Un paio di volte.»

«E allora perché domani non ci vai da solo?»

«Beh, sai. Sono rimasto affascinato da quelle...»

«Non dirmi che ci vuoi fare un giro sopra, vero?»

«Beh, non dico che non mi piacerebbe, ma...»

«Ma il vecchio Peter non ti ha dato il permesso, vero? E' per questo che ci vuoi

andare con me.»

«Beh, sì... Oh insomma. Sì, ci voglio fare un giro sopra, magari breve breve,

ma ci voglio provare.»

«Niente in contrario. Stasera dirai alla mamma dove vuoi andare e, se lei ti dà

il permesso, ti ci porto. Ok?»

«Ok. Cosa fatta allora. A che ora partiamo?»

«E dirai alla mamma quello che hai intenzione di fare. Ok?»

«Credi che sia proprio necessario?»

«Sì. E' necessario. E' più che necessario. E' indispensabile. Siamo d'accordo?»

«Ma...»

«Niente ma. O avrai il suo permesso o non se ne fa nulla.»

«Ok. Ok. Ma lo sai che sei proprio noioso, Eagle?»

«Se mi chiami ancora così, ti ci porto fra cinque o sei anni.»

«Va bene, Eagle, non ti arrabbiare.»

La sera a cena c'è la solita allegra confusione.

340

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I due fratelli Il piccolo Charlie schiaffa la pappa dappertutto tranne che in bocca mentre Sa-

ra cerca di dargli da mangiare.

Tommy è aggrappato alla gamba della madre e strilla che ha fame cercando di

attirare l'attenzione su di sé.

Vorrei sapere dove Sara prende tutta quella pazienza.

Mio fratello tenta di staccare il figlio più grande dalla gamba della mamma sen-

za riuscire a spostarlo di un millimetro.

Mamie sbuca sorridendo dalla cucina con in mano un vassoio che manda un

profumo delizioso.

La mamma toglie dalla bocca del nonno l'ennesima sigaretta prima che lui rie-

sca ad accenderla.

Il vecchio e silenzioso indiano stringe la sua pipa senza tabacco tra i denti.

Sa che mia madre non tollera che si fumi a tavola e perciò non perde neanche

il tempo a riempirla.

E mio padre guarda la scena compiaciuto.

Ah, dimenticavo.

Io sto in silenzio al mio posto cercando il modo migliore per chiedere alla

mamma se posso andare con Eagle al campo di Flatland.

Ma, se voglio ottenere il suo consenso, dovrò essere il più diplomatico possibi-

le.

Cioè, devo dirgli cosa ci voglio andare a fare senza però farglielo capire, altri-

menti mi spella vivo.

Insomma, glielo devo dire senza dirglielo.

Facile, no?

No, non è per niente facile.

Non so proprio come farò, mannaggia.

Mentre nel mio cervello turbinano le più sconclusionate idee, mi arriva davanti

un piatto con un pezzo di arrosto di pecari il cui solo aroma fa svenire.

Mamie è una maestra e conosce benissimo i miei gusti, ma questa volta ha su-

perato sé stessa.

Non ho mai mangiato nulla di così buono e i miei pensieri svaniscono in un at-

timo.

Il guaio è che sparisce in un attimo anche l'arrosto.

Però Mamie, che aveva previsto tutto, è pronta a portarmene un'altra porzione. 341

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Letizia

Mamma mia, che mangiata!

Mentre Mamie sparecchia, ce ne andiamo tutti nella sala che chiamiamo "la bi-

blioteca" perché le pareti sono quasi interamente coperte da una moltitudine di

libri posti su scaffali che arrivano praticamente al soffitto.

Ma è la sala dove ci riuniamo tutti per stare in compagnia, la sala dove i bam-

bini giocano, soprattutto con me, e i grandi chiacchierano amabilmente tra lo-

ro.

Tutti tranne il vecchio indiano che se ne sta sempre in silenzio.

Ma ascolta sempre.

E con molta attenzione.

La prima volta che lo sentii parlare, ne rimasi meravigliato.

Ho sempre creduto che fosse muto.

La biblioteca è anche l'unica stanza della nostra casa dove la mamma permette

che si fumi.

E infatti, come il nonno ci mette piede, tira fuori dal taschino una sigaretta ar-

rotolata e se la accende con gusto.

Il "finto muto" carica lentamente la sua pipa con il tabacco.

Non ha fretta.

La preparazione della pipa è un rito per lui.

Mio fratello mi sta guardando con insistenza.

Aspetta.

Mi avvicino alla mamma e siedo sul bracciolo della poltrona in cui lei è sprofon-

data e comincio a coccolarla un po'.

«Jack, che ti prende? Come mai sei così smanceroso?»

«Mamma domani Eagle ed io non veniamo a pranzo. Non aspettateci» esordi-

sco ignorando la sua domanda.

Parto all'attacco.

Non chiedo.

Do per scontato che lei non dica di no.

E' una tattica di avvicinamento.

Strano che mio fratello non abbia brontolato perché l'ho chiamato Eagle.

«Come mai?» mi chiede lei.

«Dove andate di bello?»

342

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I due fratelli «Andiamo alle Flatland.»

«Alle Flatland?» domanda papà.

«E cosa ci andate a fare? Che io sappia non c'è niente da quelle parti, tran-

ne...»

Si interrompe un attimo mentre mio fratello mi lancia un'occhiata di fuoco.

Mi devo decidere a dirglielo.

«... tranne quel nuovo, come si chiama, quel nuovo aeroporto dove scorrazza-

no quei puzzolenti trabiccoli rumorosi.»

«Già» rispondo a papà guardando la mamma.

E' lei che comanda in casa.

Papà l'adora e le lascia fare tutto quello che vuole.

«Infatti andiamo a vedere gli aeroplani» proseguo.

«Nel giornale di oggi c'è una bellissima foto di un aereo».

Il nonno abbassa il giornale che sta leggendo e, guardandomi al di sopra degli

occhialini che gli servono solo per leggere, continua: «Se guardi questa foto ti

risparmi il viaggio fino là.»

Sta prendendomi per i fondelli, ovvio.

«Nonno, non ti ci mettere anche tu. Vederli dal vivo volare nel cielo deve esse-

re uno spettacolo mozzafiato.»

«Ai miei tempi gli spettacoli mozzafiato erano ben altri. Un tramonto d'estate

tra i canyon. Il ruscello nel bosco, quello dove siete andati a pescare oggi, la

mattina presto con il sole che filtra tra le foglie ancora bagnate di rugiada.

Quelli erano spettacoli mozzafiato, ai miei tempi. Gioventù moderna!»

Alza il giornale che nasconde il suo viso nel quale, ci scommetto, è dipinto un

sorriso sornione.

«Beh, comunque domani ci faremo un salto e ci godremo lo spettacolo di tutti

quegli aerei variopinti che sfrecciano nel cielo.»

Guardo mio fratello che non ha ancora aperto bocca e chiedo: «Allora mamma,

possiamo andarci domani?»

«Va bene, Jack. Andate pure. Ma tornate presto. Prima di cenare dovrete finire

quel lavoro nella stalla. Te ne sei già dimenticato?»

«Oh no, mamma. Tranquilla. Saremo di ritorno in tempo e ti prometto che fini-

rò il lavoro da solo.»

«Jack!» 343

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Letizia La voce cantilenante di mio fratello arriva alle mie orecchie come una frustata

a ricordarmi che non ho ancora detto alla mamma perché voglio andare all'ae-

roporto.

Mi devo decidere.

Ma devo prendere la cosa da lontano.

«Mamma, quand'eri giovane, tu è papà siete mai stati a guardare il panorama

dall'alto del Grand Canyon?»

Mio fratello mi guarda come se volesse fulminarmi con lo sguardo.

«Sì, Jack. Ci sono stata. Ma perché me lo domandi?»

«Scommetto che da lassù si vedeva uno spettacolo stupendo.»

Papà mi sta guardando in maniera strana, come se avesse capito dove voglio

andare a parare.

«Perché allora domani non andate lì invece che alla piana di Flatland?» ribatte

il nonno con la sua solita aria ironica.

Ha capito e si diverte a prendermi per i fondelli.

E così finalmente mi decido.

«Oh nonno, smettila di prendermi in giro. Volevo andare alla piana per fare un

giro in aereo e godermi il panorama dall'alto.»

L'ho detto.

«Vuoi volare su uno di quei cosi?»

Ahia, papà non l'ha presa bene.

«Sì, pa'. Deve essere un'emozione stupenda.»

«Ma è pericoloso, Jack.»

«Ma no, mamma. E poi non sarò certo io a pilotare. Sarà il signor Williams.

L'aereo non è come l'automobile. Ci vuole molta pratica, specialmente nell'at-

terraggio.»

«Williams? Quel matto di Peter Williams?»

«Sì, papà. Ma non è per niente matto. E' una persona molto in gamba invece.

Ho visto cosa sa fare con il suo aereo. E' un fenomeno. E...»

«Sei già andato alle piane di Flatland, allora?»

«Sì, mamma. Ti prego, dammi il permesso. Ti prego.»

«D'accordo...»

Le butto le braccia al collo e la bacio stringendola forte.

«Grazie, mamma. Lo sapevo che non mi avresti detto di no.» 344

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I due fratelli «Calma, Jack. Calma. Lasciami finire. Stavo dicendo: d'accordo, ne parleremo

io e papà e ti faremo sapere. Ma non andrai certo domani.»

«Ma mamma...»

«Basta così, Jack. La mamma ha detto che ne vuole parlare con me. Non ti ha

detto di no. Vedremo. Adesso vai a giocare un po' con Thomas prima che Sara

lo metta a letto. Stasera, con questa storia degli aerei, lo hai un po' trascura-

to.»

«Ok, pa'. Ma mettici una buona parola. Ricordati che anche tu alla mia età eri

uno scavezzacollo.»

Due giorni dopo sono all'aeroporto di Flatland con mio fratello.

Siamo arrivati con l'auto di papà ed Eagle mi ha fatto guidare.

Già tre o quattro miglia prima di arrivare abbiamo visto volare l'aereo del si-

gnor Williams.

E' bellissimo e se penso che tra poco anch'io sarò lassù a fare piroette nel cie-

lo...

Mamma mia, non sto nella pelle dall'eccitazione.

Non vedo l'ora di essere lassù.

In lontananza, vicino alla casa ai bordi della pista, scorgo due uomini che stan-

no parlando tra loro.

E vedo anche una ragazza splendida che non ho mai visto.

«Eagle, chi è quella ragazza?»

«Ti ho detto mille volte di non chiamarmi Eagle.»

«Ok. Ma chi è? La conosci.»

«Certamente. E la conosci anche tu.»

«Io? Ma se è la prima volta che la vedo.»

«No, no. La conosci, la conosci.»

«Ti dico di no. Ma insomma, chi è?»

«E' Elisabeth, la figlia del nostro vicino. Il signor Morgan.»

«Betty? Ma se l'ultima volta che l'ho vista era una bimbetta con le trecce.»

«Anche tu avevi i pantaloni corti. E' stato tre anni fa, credo. Ora mi pare che

abbia quindici anni.»

«E' diventata una ragazza bellissima.»

«Già. Ma sta' attento o quel brav'uomo di suo padre ti spella vivo.»

345

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Letizia

«Ma io non ho alcuna intenzione di...»

«Appunto. E fai bene. Siete ancora troppo giovani.»

Ci stiamo avvicinando e lei, sentendo i nostri passi, si gira a guardarci.

«Buon giorno, signor Morgan. Ciao, Beth. Ti ricordi di me?»

«Certo, Jack. Non sei cambiato molto, direi.»

«Ciao, Morgan. Che ci fai da queste parti?»

«Guarda guarda, vecchio furfante, Come sta Sara? E i piccoli?»

«Stanno bene, grazie.»

Mentre Morgan e mio fratello chiacchierano tra di loro, mi allontano un po' con

Beth.

«Tu invece sì, Beth. Sei diventata bellissima.»

«Cosa vorresti dire? Che prima ero brutta?»

«Ma no, cosa vai a pensare. Solo che prima eri una bambina con le trecce e

ora invece...»

«E ora?» chiede lei maliziosamente.

«Sei cresciuta. Sei diventata una ragazza... Beh, insomma. Sei cambiata.»

Sento che sto diventando rosso.

Che ti prende, Jack?

Sei venuto qui per volare e non per fare il cascamorto con le ragazze.

Però Betty è davvero bellissima.

«E così sei venuto a farti un volo su questi cosi, eh Jack?»

«Beh sì, signor Morgan. Mi piacerebbe moltissimo.»

«Vuoi volare su uno di questi aerei, Jack? Non hai paura»

«Paura? No di certo, Betty. Volare non è pericoloso.»

«E invece sì. Se il motore si ferma, l'aereo cade giù.»

«Oh no, Beth. L'aereo può planare a terra anche a motore spento. Hai mai vi-

sto le aquile quando si lasciano librare in aria con le ali aperte e si lasciano por-

tare dal vento?»

«Sarà, ma io non ci salirei neanche morta.»

«Andiamo, Elisabeth. Ho preso accordi con l'assistente di Peter. Verranno a ir-

rigare i nostri campi dopodomani. Arrivederci ragazzi. Venite a trovarci al

ranch qualche volta. Claire fa delle frittelle favolose.»

«Verremo senz'altro, Morgan. A presto.»

«Arrivederci, signor Morgan. Ciao Beth.» 346

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I due fratelli «Ciao, Jack. Arrivederci, signore.»

«Ciao, Elisabeth.»

Si allontanano verso i cavalli e sento il cuore che mi sta battendo all'impazzata.

Ma che ti prende, Jack?

Non ti starai mica innamorando?

«Yahooooooo! Yippieeeeeee!»

Credo che le mie urla si sentano anche da terra.

Si staranno tutti chiedendo: "ma chi è quel matto che urla tanto?"

Tutti tranne naturalmente mio fratello che sa già da un pezzo che sono un po'

svitato.

Ma solo un poco, però.

Il fatto che volare è una cosa stupenda e io mi sento al settimo cielo.

E non solo metaforicamente.

Abbiamo anche spaventato qualche anatra che stava svolazzando davanti a

noi.

E' uno spettacolo stupendo e io non riesco a descrivere quello che provo.

Tutto appare così piccolo da quassù.

Gli uomini, le case e persino quel boschetto che abbiamo attraversato, Eagle

ed io, per arrivare alle Flatland.

Peter sta pilotando l'aereo come se fosse un giocattolo.

Gli sta facendo fare delle acrobazie incredibili e abbiamo volato parecchie volte

a testa in giù.

Se non fossi legato al seggiolino con una robusta cinghia di cuoio, sarei già

precipitato due o tre volte.

Sarebbe stata una cosa poco piacevole, immagino.

La prima volta che ha fatto il giro della morte - ho saputo dopo che si chiama

così - mi ha un po' sorpreso.

Non me l'aspettavo e mi sono sentito lo stomaco andare in fondo ai piedi.

Ma poi ci ho fatto l'abitudine.

In fondo è come domare un puledro selvaggio.

Anzi, con i cavalli gli scossoni sono più violenti.

Qui si balla un po', ma niente di particolare.

347

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Letizia Dopo i primi minuti di volo spericolato, adesso Peter sta pilotando dolcemente

e l'aereo sembra scivolare come una barca sull'acqua.

Solo che qui non siamo nel fiume.

Siamo in mezzo al vuoto.

E andiamo molto più veloci.

Sento l'aria che mi sferza sul viso.

E' molto peggio di quella volta che mi son trovato con papà nella valle di Palo

Verde proprio in mezzo a un bel tornado.

Non c'era neanche l'ombra di un riparo e ce la siamo vista brutta.

Ci ha presi alla sprovvista.

La giornata non era poi così brutta, ma in un attimo il cielo è diventato nero e

si è scatenato l'inferno.

Adesso invece il cielo non può essere più azzurro.

Non sono mai stato meglio in vita mia.

Ma purtroppo, come tutte le cose belle, questa affascinante esperienza dura

poco.

Troppo poco.

E a nulla sono valse le mie proteste.

Peter ha portato a terra l'aereo troppo presto.

Mio fratello mi sta aspettando e ci guarda arrivare con un'aria che mi piace po-

co.

Ma io non ci presto molta attenzione.

Sono troppo eccitato.

«Dovresti provare anche tu, Eagle. E' stata una cosa stupenda. Indescrivibile.»

«Non ci penso nemmeno.»

Non ha brontolato perché l'ho chiamato Eagle e sta guardando Peter dietro di

me con una strana espressione nei suoi occhi.

Mi giro di scatto e vedo Peter che allarga le braccia e alza le spalle.

Uhm...

Ma che hanno questi due?

«Cosa sono tutti questi cenni d'intesa tra voi due? Cosa state macchinando?

Qualche scherzo alle mie spalle?»

«Ma che dici, Jack? Nessun cenno e nessuno scherzo...»

«Non ti si può nascondere niente, eh piccolo furfante?» 348

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I due fratelli Mio fratello interrompe il buon Peter che, per la verità non è stato per niente

convincente.

«Sono stato io a chiedergli di strapazzarti un po'. Volevo che rovesciassi anche

le budella e farti passare la voglia di volare. Ma a quanto pare con scarsi risul-

tati. Sembra che tu ti sia divertito come un matto lassù.»

«Eagle, questo non me lo sarei mai aspettato da te. Se lo sapesse la mam-

ma...»

Mi guarda un po' esitante.

E poi risponde: «La mamma sarebbe molto dispiaciuta, è vero. E sarà dispia-

ciuta, e tanto, quando saprà che non ti sei sentito male. E' stata lei a chiedermi

di comportarmi così.»

«La mamma? Ma non dire stupidaggini. La mamma non avrebbe mai fatto una

cosa simile.»

«Si vede che la conosci poco. La mamma ti vuole molto bene. E me l'ha chiesto

proprio per questo. Voleva che ti passasse questa tua mania e un po' di mal di

stomaco al suo figlio scavezzacollo sarebbe stato un prezzo molto basso da pa-

gare. Quasi gratis.»

«Oh, perbacco.»

Sono rimasto di sale.

«Davvero la mamma...»

Non finisco la frase.

Mi vuole così bene fino al punto di...

Non ci avevo pensato.

«Non ci avevo pensato.»

Ripeto, ma questa volta ad alta voce.

«La mamma ti vuole troppo bene per proibirti di fare una cosa che tu desideri

così tanto. Ma sperava che tu ci ripensassi, che ti passasse. E tu, se le vuoi be-

ne anche solo la metà di quanto lei ne vuole a te, dovresti guarire da questa

tua follia.»

Mi fa sentire come un verme.

Sulla via del ritorno a casa non dico una parola.

Sono troppo preso dai miei pensieri.

Non gli ho nemmeno chiesto di guidare l'auto come ho fatto all'andata.

Non ne ho proprio voglia. 349

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Letizia Se la mamma ha paura e non vuole che io voli più, mi devo decidere a farmi

passare questa passione.

Ok, non volerò più.

Ho deciso.

Nei mesi successivi sono tornato alle Flatland molto spesso.

Anche due volte alla settimana.

Peter si è deciso a mettere i comandi per pilotare l'aereo anche nell'abitacolo

posteriore.

L'ha fatto perché non glielo ho chiesto solo io.

Ci sono degli aspiranti piloti che fanno anche cinquecento miglia per venire qui

alle Flatland.

Sembra che sia l'unica pista per aerei di tutta la regione.

E così, dopo un altro paio di volte che ha pilotato lui, ho cominciato le mie pri-

me esperienze di pilota.

Ora, quando mi alzo in volo, lui non viene più con me.

Ha comprato un altro aereo con i comandi singoli e lascia questo a me.

Utilizza invece quello con i comandi doppi per insegnare a pilotare a due o tre

ricchi allevatori della zona.

Ce n'è persino uno che ha qualche pozzo di petrolio nel Nuovo Messico.

Ma non crediate che io ami solo volare e che mi dedichi solo a quello.

Il giorno dopo il mio primo volo, sono andato con mio fratello al ranch del si-

gnor Morgan.

Io e Betty siamo diventati molto... ehm... amici.

Forse siamo troppo giovani per fare sul serio, ma io le voglio bene.

E credo anche lei.

E poi io non sono così giovane,

Ho un anno più di lei, perbacco.

Abbiamo passato molto tempo insieme, qualche volta anche da soli.

Ma non sono mai riuscito a baciarla, mannaggia.

Oggi però ci provo.

Andremo a fare una passeggiata a cavallo.

Lei cavalca benissimo, quasi meglio di me.

Quasi.

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I due fratelli Io sono insuperabile.

Lei c'è nata a cavallo.

Ma io ci andavo anche prima di nascere.

Cioè non proprio io, ci andava mia madre quando mi aspettava.

Non negli ultimi tempi, è ovvio.

Beh, anche prima, veramente... oh insomma, ci andava.

Qualche volta.

Eccola laggiù che mi sta aspettando, in sella al suo baio.

E' bellissima.

Mi viene incontro al galoppo.

«Ciao, Jack. Vediamo chi arriva prima all'Arora.»

L'Arora è un piccolo bosco non lontano dal suo ranch.

Ci andiamo spesso, quando vogliamo stare un po' soli.

E' il "nostro" posto.

E' lì che oggi la bacerò per la prima volta.

Mentre sto fantasticando, lei gira il cavallo e lo sprona selvaggiamente.

Ah, piccola imbrogliona.

Sta barando.

Sprono a mia volta e fatico a raggiungerla, nonostante il mio mustang non sia

da meno del suo baio.

Anzi non la raggiungo proprio e lei arriva prima di me al boschetto.

Anche se di poco.

E poi, devo dire che, sì insomma, non ho incitato il mio puledro al massimo.

Volevo lasciarla vincere.

Non è così che si fa con le donne, vero?

Beh, insomma...

E' stata brava.

Però ha barato.

«Sono arrivata prima. Devi pagare pegno» sorride lei scendendo da cavallo.

«Pegno? Uhm... Cosa vuoi in pegno, Betty? Me?»

«Non fare lo sciocco. Dunque, vediamo un po'... Lasciami pensare...»

Sta alzando gli occhi al cielo come se stesse cercando ispirazione per trovare

qualcosa di impossibile, quando la prendo dolcemente per un braccio e mi ac-

costo a lei. 351

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Letizia

La guardo nei suoi occhi bellissimi che non evitano i miei.

Non resisto.

Chino il capo per baciarla, ma lei si ritira.

«Beth, io...»

«No, Jack.»

«Beth, io ti voglio bene.»

«Lo so, Jack. E anch'io provo qualcosa per te.»

«Ma allora...»

«Allora è ancora troppo presto. Non ho ancora sedici anni. La mamma ha detto

che avremo tutto il tempo che vorremo.»

«Hai parlato di me a tua madre? Cioè, gli hai detto che... che mi vuoi bene?»

«Sì, Jack. E lei ha detto che è contenta perché tu sei un bravo ragazzo. Ma ha

anche detto di non rovinare tutto. Papà non sa niente e non so come la pren-

derebbe se lo sapesse. Papà ha molta stima per te e per tutta la tua famiglia.

E' molto amico di tuo padre, lo sai. Lascia che le cose vadano a posto da sole.

Se mio padre dovesse capire qualcosa, tu dovrai poterlo guardare dritto negli

occhi e dirgli con fierezza che mi hai sempre trattata come una cara amica,

come una sorella.»

Mi ama.

Ha parlato di me a sua madre.

E lei non ha nulla in contrario.

Sono l'uomo più felice della terra.

«Ora sei la mia fidanzata, Beth» le dico prendendola per mano.

Lei sorride.

Ci incamminiamo insieme, mano nella mano, lungo il ruscello che scorre nel

boschetto.

Non riesco a spiccicare una parola e anche lei tace.

Non abbiamo bisogno di parlare.

Il mondo gira solo per noi due.

La sera a tavola non ho la solita aria sbarazzina.

Mi esprimo a monosillabi e sono sempre assorto nei miei pensieri.

«Che diavolo ti prende stasera, Jack?»

«Come dici, pa'? Ah sì. No, niente. Sono solo un po' stanco. Quasi quasi me ne

vado a dormire. Domani devo alzarmi presto. Ci sono le bestie da marchiare.» 352

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I due fratelli Mi accorgo di aver detto più parole adesso che in tutta la serata.

Saluto tutti quanti e salgo in camera mia sotto lo sguardo sbalordito di tutti.

Non faccio neanche tempo a togliermi la camicia che sento bussare alla porta.

E' la mamma.

«Jack,» mi apostrofa con aria severa «non le avrai mica fatto del male? A Eli-

sabeth, intendo...»

«Oh no, mamma. Stai tranquilla. Va tutto bene.»

«Le hai detto che ti sei innamorato di lei?»

«Mamma, cosa dici? Come fai a pensare una cosa simile?»

«Perché, non è così?»

«Beh, sì. Però... però non dirlo a papà.»

«Non dirlo a papà? Ma Jack, credi che non se ne sia già accorto? Lo sanno tutti

che vuoi bene a Elisabeth. E il primo a scoprirlo è stato il nonno. A parte tuo

fratello che scommetto lo sapeva già da un pezzo.»

«Come, lo sanno tutti?»

«Tutti, Jack. Anche Mamie. E forse anche qualcuno dei cowboy.»

«Oh, perbacco. Sta' a vedere che l'unico a non saperlo ero io.»

La mamma mi guarda severa.

«L'hai baciata, Jack?»

«No, mamma. Cioè, non ancora. Ci ho provato, sai. Ma lei è una ragazza seria.

Mi ha detto che mi vuole bene, ma non ha voluto baciarmi.»

«Bene. Meglio così allora. Buonanotte, Jack.»

«'Notte, mamma.»

La grande guerra

Mi ha baciato.

Sono stato male tre giorni.

Cioè, non è che sono stato male fisicamente.

Intanto per due notti non ho praticamente chiuso occhio.

Non ho fatto altro che pensare a lei.

Non è che adesso non ci penso.

Lei è sempre nei miei pensieri, ma allora ero proprio perso.

Non sono neanche andato a volare.

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Letizia E poi è successo.

Suo padre si è accorto che le mie frequenti visite al suo ranch erano per vede-

re Betty e mi ha preso a quattr'occhi per farmi il terzo grado.

Io però avevo la coscienza a posto - non l'avevo ancora baciata allora - e,

guardandolo dritto negli occhi, gli ho detto che volevo bene a Beth, che avevo

intenzioni serissime e che, quando saremmo stati più grandi, ci saremmo spo-

sati, naturalmente con il consenso suo e di sua moglie.

L'ho naturalmente rassicurato che fra noi due non c'era stato assolutamente

nulla, il che era la pura verità.

E ora è successo: siamo fidanzati ufficialmente.

Beth mi ha poi raccontato che prima di parlare con me, suo padre aveva a lun-

go discusso con lei e che sua madre aveva perorato la nostra causa.

Certo, entrambi avevano convenuto, e anche Betty a dire il vero, che siamo

ancora troppo giovani e che avremmo aspettato quello che c'era da aspettare.

Ma il fatto è che il signor Morgan è molto amico di mio padre e sa che io sono

un bravo ragazzo.

Sa anche che, se io mi comportassi male con sua figlia, mi toglierebbe dal

mondo.

Beh, insomma... come minimo mi scaccerebbe di casa e non vorrebbe più ve-

dermi.

Per lui l'onore della famiglia viene prima di tutto.

Insomma, come è andata a finire?

Abbiamo fatto una grande festa.

E noi due eravamo i festeggiati.

I Morgan sono venuti da noi a pranzo e abbiamo poi tirato così tardi che sono

rimasti anche a cena.

Poi, visto che faceva già buio, sono rimasti anche a dormire.

La nostra casa è molto grande e abbiamo tre stanze da letto in più.

Più che sufficienti per loro tre.

Papà, quando ha costruito la casa - io non ero ancora nato - ha pensato anche

ai suoi figli e alle loro future famiglie.

E ha fatto bene perché i miei due nipotini, che ora dormono con i genitori, a-

vranno bisogno presto di una camera tutta per loro.

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I due fratelli Insomma, la casa è molto grande e io sono contento che lo sia perché sono

stato con Beth fino a quando si è ritirata con la madre.

Suo padre invece è rimasto con noi a chiacchierare e anch'io mi sono ritirato

molto tardi.

Tanto non sarei riuscito a dormire.

Nelle settimane seguenti Beth è venuta molte volte a pranzo da noi e io sono

andato molte volte da lei.

Mia madre le vuole un bene dell'anima, come se fosse la figlia che non ha mai

avuto, e anche Beth vuole molto bene a lei.

Insomma, vanno molto d'accordo e qualche volta ho il sospetto che confabuli-

no qualcosa alle mie spalle.

Sono le due donne della mia vita.

Oddio, voglio molto bene anche a Sara e, a dire il vero, anche a quell'impiastro

di Mamie.

Ma loro sono in cima a tutte, ex aequo, direi.

Ma non crediate che mi sia rimbecillito del tutto e che non sia andato più a vo-

lare.

Anzi, Beth viene sempre più spesso con me alle Flatland a vedermi volare.

Lei ha paura per me, ma sono diventato molto bravo e lei si è convinta che non

è pericoloso.

Sono diventato davvero molto bravo e so fare delle acrobazie che Peter non è

mai riuscito a fare.

Ormai l'allievo ha superato il maestro.

Una volta, mentre stavo divertendomi come un matto a fare acrobazie, ho vi-

sto mio fratello arrivare a cavallo e mi sono impegnato in una virata quasi im-

possibile, per fare il bello.

E' poi arrivato anche Peter e ho notato Eagle che guardava prima me, poi lui e

poi di nuovo me.

Come mi ha poi raccontato dopo, credeva che fosse Peter il matto che cercava

di distruggere il suo aereo andando a sbattere contro i rami degli alberi che io

in realtà avevo appena sfiorato.

Non sapeva che invece ero io.

Non mi ha detto niente, ovvio.

Ma io ho capito che era orgoglioso di me e di quanto fossi diventato bravo. 355

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Letizia Il mio fratellone.

Mi vuole un bene dell'anima.

Oggi Betty non è in vena.

Un velo di tristezza la rende ancora più bella.

«Beth, c'è qualcosa che non va?»

Lei non risponde e scoppia a piangere.

«Betty, per l'amor di Dio, cosa è successo? Ti senti male?»

Sono veramente preoccupato.

Non l'ho mai vista piangere.

«Mio zio... in Europa... c'è la guerra là, sai?»

Singhiozza e non riesce a finire la frase.

Sua madre è francese ed è venuta in America con il padre e il fratello più pic-

colo.

Lei si era innamorata del signor Morgan e l'aveva sposato.

E naturalmente, quando suo padre è tornato in Europa con il suo fratellino, lei

era rimasta qui.

Beth ha uno zio a Parigi, uno zio che non ha mai conosciuto.

Ho paura a chiedere.

«Lo zio Maurice... si è arruolato ed è andato in guerra...»

Non riesco a dire una parola.

Capisco.

Ha perso lo zio.

Sua madre sarà distrutta.

«Non è più tornato... è disperso. Io spero che sia ancora vivo, ma la mamma

non ci crede e non fa che piangere.»

«Io dico che è ancora vivo. Il fatto che non sia ancora tornato, non significa

che sia...»

Non riesco a dire la parola.

«... magari non è in condizioni di tornare. E' bloccato da qualche parte. I motivi

possono essere tanti.»

Cerco di rincuorarla.

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I due fratelli «Se la caverà senz'altro, vedrai. Sai quante volte mio nonno si è trovato in si-

tuazioni difficili? Ne è sempre uscito sano e salvo. E anche papà, quando era

ragazzo si è messo nei guai un sacco di volte. Non devi disperare.»

L'abbraccio e la stringo dolcemente a me.

Le accarezzo i capelli e lascio che si sfoghi un po'.

Piangere le farà bene.

Il fatto è che sua madre è molto affezionata al fratello più piccolo.

Quando lui e suo padre sono tornati in Francia, lei si era appena sposata.

Da allora non si sono più visti ma si sono scritti spesso.

Beth ascoltava sempre molto attentamente quando la madre le leggeva le let-

tere dello zio, anzi si può dire che ha imparato a leggere proprio su quelle.

Lei naturalmente parla correttamente anche il francese, quasi come sua ma-

dre.

Io adoro sentirla parlare in francese.

Praticamente non capisco una parola, ma ha una cadenza musicale così dolce

che mi fa impazzire.

E' una delle tante cose di lei che mi fanno impazzire.

Io l'amo da morire e vederla così mi fa soffrire terribilmente.

«Perché non rimani da noi stanotte, Beth?»

Lei qualche volta si ferma a dormire da me.

Nella camera degli ospiti, naturalmente.

I suoi genitori si fidano ciecamente di me, sanno che non la toccherò neanche

con un dito prima del matrimonio.

Credo proprio che stare qualche ora lontana da casa non possa che farle bene.

«Non posso, Jack. Non posso proprio. La mamma ha bisogno di me adesso.

Non posso lasciarla da sola nel suo dolore.»

Ha ragione.

Sono stato un egoista.

Pensavo solo a lei, a noi due, e non ho capito quanto possa essere di conforto

a sua madre avere vicine tutte le persone che ama.

«Se hai bisogno di me, posso venire io da te, Beth.»

«Meglio di no, Jack. Non oggi. Domani forse, o tra un paio di giorni. Ora non

me la sento.»

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Letizia «Va bene. Ma ricorda che, per qualsiasi cosa abbiate bisogno, io ci sarò sem-

pre.»

«Lo so, Jack. Lo so che vuoi tanto bene non solo a me ma anche alla mamma e

al papà.»

«Certo, Beth. Lo sai.»

«Ora devo andare, Jack. Ci vediamo domani. Ciao.»

Si alza in punta di piedi e mi bacia sulla guancia.

«Ti accompagno.»

«No, Jack. Vado da sola. Ciao.»

Salta in sella, impenna il cavallo e si allontana velocemente al galoppo.

Rimango a guardarla per un po'.

Prima di sparire dietro un'altura rallenta, si gira e mi saluta alzando un braccio.

La saluto a mia volta e, quando non la vedo più, salgo a cavallo e mi avvio ver-

so casa.

A casa non è che tira un'aria migliore.

Ho raccontato di Betty e di suo zio e l'atmosfera ha subito perso l'allegria di

sempre.

La mamma è molto amica della signora Morgan e ha detto che domattina l'an-

drà a trovare.

«Ti accompagno con la macchina, cara.»

Papà e la mamma sono molto uniti e stanno praticamente sempre insieme.

«No, grazie. Preferisco il cavallo. Mi farà bene.»

«Bene, come vuoi tu. Dirò a Sam di preparare il calesse.»

«No, no. Preferisco cavalcare. Se il tuo sedere non sopporta più la sella, puoi

usare tu il calesse» risponde lei sorridendo.

La mamma cavalca quasi meglio di me.

«Ok, ok. Ma poi non venirmi a chiedere il mio unguento. Quello è riservato per

le mie natiche e non voglio che tu me lo consumi tutto.»

«Cosa vorresti dire, che il mio sedere è più grosso del tuo?»

Ridiamo.

E' stato un bel tentativo di riscaldare un po' l'ambiente, ma la guerra sembra

essere l'unico argomento della serata.

«Pa', a che ora partite domattina? Vengo anch'io con voi.»

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I due fratelli «Eh no, bello mio. Domattina c'è un sacco di lavoro da fare. E io sarò solo.

Quindi dalla tua ragazza ci andrai nel pomeriggio.»

«Ma Eagle! Ci sono un sacco di cowboy che ti daranno una mano. E lo faranno

anche molto volentieri, lo sai.»

«Sì, ma io non voglio che facciano anche il tuo lavoro. Lavorano già abbastan-

za.»

«Ma non lavorano certo come quelli del ranch di Carter.»

«Carter è un aguzzino e tratta i suoi dipendenti come se fossero...»

«Ora basta. Tuo fratello ha ragione, Jack. E poi non ti voglio tra i piedi domani.

Quindi rimani qui ad aiutarlo. Un po' di fatica non ti farà certo male.»

«Ok, pa'. Però lo sai che non è per quello. Io e Beth...»

«Sì, lo so.»

Papà è perentorio.

Quando dice una cosa, è quella e basta.

E poi ha ragione.

Hanno ragione tutti e due.

Cambio discorso.

«Credete che la guerra arrivi fino a noi? Cioè che entrino in guerra anche gli

Stati Uniti?» chiedo con un po' di apprensione.

E' mio padre a rispondere.

«Credo proprio di no. O almeno lo spero. Spero proprio che Wilson non si lasci

coinvolgere in questa pazzia.»

Mio fratello non sembra essere d'accordo.

«Difficile restarne fuori, pa'. Questa guerra sembra assumere proporzioni gi-

gantesche. Quasi tutte le nazioni europee sono coinvolte. Ci sono troppi inte-

ressi in gioco, non ultimi quelli dei guerrafondai. Le industrie belliche stanno

facendo affari d'oro. E' una cosa molto sporca.»

«Già. Scommetto che, se a dichiarare le guerre fossero coloro che poi vanno a

combatterle in prima persona e in prima linea, le guerre si farebbero davanti a

una bella partita a scacchi.»

Credo che il nonno non abbia mai fatto un discorso così lungo.

Dall'alto dei suoi occhialini, i suoi occhi brillano con un'aria sorniona.

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Letizia

«Papà, la guerra è sempre una cosa sporca. Tu lo sai bene. Hai visto gli orrori

della guerra civile. E sai bene che a combattere ci mandano sempre dei pove-

racci che molto spesso non sanno neanche perché combattono.»

Il nonno sta guardando papà con un'espressione che sembra voler dire: hai ra-

gione, il mondo va proprio alla rovescia.

Questa faccenda mi ha scombussolato non poco e nei giorni seguenti non fac-

cio altro che pensarci.

La guerra.

I caduti.

Gli aerei abbattuti.

I giornali non fanno che parlare di questo.

E a me comincia a ronzarmi in mente un'idea folle.

Cerco di scacciarla dedicandomi sempre più a Betty e al mio aereo.

Sto diventando sempre più bravo e riesco a far fare al mio aereo cose che nes-

sun altro è mai riuscito a fare.

Da un po' di tempo porto il mio winchester con me quando volo e ho anche im-

parato a sparare mentre piloto.

Manovro i comandi con le ginocchia, miro e sparo.

Una volta su tre riesco a centrare il bersaglio.

Solo una su tre?

Vorrei vedere voi a sparare su un aereo in picchiata.

Certo a terra colpisco un "dime" al volo a cento passi.

Beh, forse un po' meno, ma c'è una sola persona al mondo che spara meglio di

me.

Sì, bravi, avete indovinato.

Mio fratello.

Papà e anche il nonno, nonostante l'età, sono molto bravi, ma Eagle è un vero

asso.

Alle volte mi chiedo perché sto imparando a sparare dall'aereo, ma penso subi-

to ad altro.

Conosco già la risposta e non mi piacerebbe.

Neanche a me.

Poi succede quello che tutti ci auguravamo ma di cui nessuno osava parlare.

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I due fratelli E' arrivata la notizia che Maurice, il fratello di Betty, non era perito in guerra.

Era ferito ed è stato portato in salvo da un suo commilitone.

Ora sta in un ospedale militare in attesa di ritornare a Parigi.

Immaginate la felicità di tutti quanti.

I Morgan hanno dato una grande festa che si è protratta tutto il giorno.

La sera siamo rimasti a dormire da loro, solo papà, mamma e io però.

Il nonno e il gufo taciturno sono tornati al ranch a metà pomeriggio e mio fra-

tello li ha accompagnati con Sara e i miei due adorabili nipotini.

Spero che l'automobile, con tutto quel peso, non li abbia lasciati a piedi a mez-

za strada.

Ma la nostra carretta è un gioiellino e soprattutto è molto robusta e spaziosa.

Pa', quando l'ha comprata, ha pensato alla nostra famiglia numerosa.

Betty è al settimo cielo e a me, nel vederla così, mi si allarga il cuore.

Dovrei essere felice più di lei e invece c'è qualcosa che mi rode.

Cerco di nasconderlo ma Beth, che mi conosce molto bene, mi ha chiesto nu-

merose volte se c'era qualcosa che non andava.

E io le ho sempre mentito.

Il giorno dopo i miei ritornano a casa.

Io invece rimango.

Io e Beth selliamo i cavalli e andiamo a farci una galoppata.

Andremo nell'Arora.

E' molto che non ci andiamo.

Lei non se la sentiva di andarci.

In realtà siamo usciti insieme molto poco in questi ultimi mesi.

Si rimaneva sempre al suo ranch.

Ho malcelato il mio umore e lei se n'è accorta, ovvio.

Arrivati nel nostro boschetto, la vedo che sta per farmi la domanda che le frulla

in testa da un po': "Ma che diavolo ti prende, Jack?"

Ma io la prevengo.

«Beth, c'è qualcosa che devo dirti. Veramente è un po' che te la volevo dire,

ma ne ho sempre avuto paura.»

«Jack, per l'amor di Dio, cosa c'é? Cosa è successo? Stai male? Qualcuno...»

«No, Beth, non è successo nulla. Non sto male, sto benissimo. No, anzi. Non

sto affatto bene. Il fatto è che io... che io...» 361

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Letizia Non riesco a parlare.

Ho un groppo in gola.

«Jack, mio Dio. Cosa stai cercando di dirmi?»

Beth non è stupida, credo che cominci a sospettare qualcosa.

«Beth, io vado in Europa. Parto per la guerra.»

«Jack, tu sei pazzo. Gli Stati Uniti non sono in guerra con nessuno e...»

«Lo so, Beth. Ma io parto volontario per l'Inghilterra. Mi arruolo nell'esercito

inglese. Anzi, nell'aviazione inglese.»

«Ma tu... tu non puoi. Pensa a tua madre, a tuo padre, a tutti i tuoi familiari.

Pensa a me. Come puoi pensare di dare un dolore così grande a tutte le perso-

ne che ti amano?»

«Ci ho pensato, Beth. Credi che non ci abbia pensato? Credi che sia tanto paz-

zo da non sapere che tutti voi... che io... Io vi voglio un bene dell'anima, a tutti

e...»

«E allora non partire, maledizione. Hai solo diciassette anni.»

«Io devo partire, Beth. Devo. Pensa alle persone cui potrei salvare la vita. Non

posso rimanere qui e fare finta che in Europa non stia accadendo nulla. Non

posso rimanere con le mani in mano mentre molti poveracci muoiono a mi-

gliaia sui campi di battaglia.»

«E vuoi andare a morire anche tu? E non pensi che anche tu dovrai uccidere

dei poveracci che magari cercano soltanto di portare a casa la pelle?»

«No, Betty. Io volerò in ricognizione per spiare i movimenti del nemico. Non

sparerò un colpo. Almeno non all'inizio. E poi non seminerò la morte dall'alto

gettando bombe sulle truppe. Sparerò solo per abbattere gli aerei nemici e cer-

cherò sempre di fare in modo che il pilota riesca a salvarsi.»

Betty tace per un attimo e mi guarda con due occhi cupi come non avevo mai

visto.

«Jack, se tu parti tra di noi è finita. Non cercare nemmeno di scrivermi per far

sapere che sei ancora vivo. Non lo voglio sapere. Se tu parti, per me non esisti

più.»

«Beth, non fare così. Io ti amo e tornerò...»

«No, Jack. Tu non mi ami. Sei solo un egoista che non pensa al dolore che mi

stai dando.»

362

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I due fratelli «Ma non è vero. Come puoi pensare che sia egoista una persona che è dispo-

sta a rischiare la sua vita per salvare quella degli altri?»

«Lo sei, Jack. Oh sì che lo sei. Tu vuoi fare l'eroe. Vuoi che tutti siano orgoglio-

si di te. Magari vuoi tornare con un paio di medaglie sul petto. Che t'importa

poi di tornare dentro una cassa di rovere?»

Scoppia a piangere, sale sul cavallo e sprona partendo al galoppo prima che

possa fermarla o dirle che...

Già, cosa le vorresti dire, Jack?

In fondo ha ragione.

Ma non sono un egoista, non voglio diventare un eroe, non voglio medaglie.

Ha ragione però sul fatto che il desiderio di partire è più forte del bene che vo-

glio a tutti.

Quando arrivo a casa sembro un cane bastonato.

E mai paragone fu più azzeccato.

Tutti l'hanno notato ma è la mamma la prima a parlare.

«Santo Iddio, Jack. Cosa è successo?»

«Io e Beth ci siamo lasciati, ma'.»

Per la verità avrei dovuto dire che Beth mi ha lasciato.

«Cosa? Ma se ti adora. Cosa le hai fatto? Non l'hai mica...»

«No mamma. Le ho fatto di molto peggio. E lo farò anche a voi.»

La voce mi sta tremando.

Devo trovare il coraggio di andare avanti.

Il fatto che non posso guardarli negli occhi.

E prima che possano domandare qualcosa, mentre mi guardano esterrefatti,

aggiungo: «Vado in Europa. Parto per la guerra.»

Ho passato una settimana d'inferno.

Beth non si è fatta né vedere né sentire ma son sicuro che ha parlato con la

mamma.

Non passa giorno che qualcuno cerchi di farmi desistere dalla mia folle decisio-

ne.

Papà avrebbe potuto impedirmelo e non solo perché sono troppo giovane.

Ha delle conoscenze molto in alto tra i soldati e conosce anche qualcuno a Wa-

shington.

363

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Letizia

Mettermi i bastoni tra le ruote sarebbe stato molto facile per lui e avrebbe an-

che potuto fare in modo da rimanerne fuori.

Io avrei certamente capito che c'era il suo zampino, ma non mi sarei mai az-

zardato a rinfacciarglielo.

Ma papà e anche tutti gli altri, compreso mio fratello, non proverebbe mai a

impedirmi di fare una cosa che desidero.

Cercare di farmi capire che sarebbe stato un errore, questo sì.

E l'ha fatto, Dio se l'ha fatto.

E anche mio fratello ci ha provato, più di tutti gli altri a dire il vero.

Ma io ho la testa dura.

Ma non si tratta di testa dura.

Io sono convinto che sia giusto così.

Mio padre mi ha insegnato che un uomo si deve porre dei principi e degli ideali.

E che questi vengono prima di tutto e che li si deve onorare a qualsiasi costo.

Anche al prezzo della propria vita.

Solo che, mannaggia, questa volta è molto difficile perché uno di questi è la

famiglia.

E la famiglia conta più di tutto.

Ma io non saprei più guardare i miei cari negli occhi se ora rinunciassi a ciò in

cui credo.

E mio padre lo sa.

E anche se teme per la mia vita, credo che sia orgoglioso di me.

Certo, dire "ok, mi avete convinto, non parto" sarebbe molto facile.

E anche molto comodo, direi.

Non avrei perso Beth che amo più di me stesso e non mi sentirei così male.

La mia vita sarebbe stupenda, come è sempre stata.

Una famiglia stupenda, una fidanzata meravigliosa, un ranch bellissimo dove

faccio tutto quello che mi piace.

Il mio cavallo, il mio aereo, che altro potrei volere di più dalla vita?

Tutte le persone che conosco mi vogliono bene e questa è la cosa che conta di

più.

Che diavolo ti è venuto in mente, Jack?

La mamma.

Non mi rivolge la parola da allora. 364

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I due fratelli Maledizione.

Lei soffre più di tutti gli altri.

Non ce la faccio a sopportare il suo silenzio.

La notte non riesco a prendere sonno.

Sono una straccio.

Ieri mi sono addormentato a cavallo e ci mancava poco che cadessi.

La mamma.

Ce l'ho sempre davanti agli occhi, giorno e notte.

Il suo sguardo malinconico che è capace di parlare solo d'amore.

Mia madre è indiana, una "Diné", come lei chiama sé stessa.

La fierezza della sua razza le impedisce di piangere.

Ma lei piange dentro.

Mi piacerebbe mandare tutto al diavolo, prendere il mio cavallo, le mie colt e il

mio buon winchester e andarmene all'Ovest, nelle terre sconfinate dove il Colo-

rado scava da milioni di anni le rocce dei canyon.

E vivere là solo con me stesso.

E non tornare mai più.

Ci ho pensato mille volte.

E domani partirò con il treno per l'Est.

L'Europa

Mio fratello mi ha accompagnato in città.

Ho voluto andare a cavallo perché chissà per quanto tempo ancora non avrei

fatto una bella cavalcata.

Eagle ha voluto accompagnarmi anche se gli avevo detto che non ce n'era bi-

sogno.

Avrei lasciato il mio mustang alla scuderia di Miguel e poi qualche nostro cow-

boy lo avrebbe riportato al ranch.

Loro vanno spesso in città a fare baldoria, specialmente il sabato sera.

Ma è mio fratello.

Non se la sentiva di farmi andare da solo alla stazione.

Con papà ci siamo salutati al ranch e così con tutti gli altri.

La mamma è stata l'ultima.

365

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Letizia Il suo saluto è stato un po' particolare.

Non mi ha più parlato da quella sera maledetta e anche alla mia partenza non

ha detto una parola.

Mi ha dato una sistemata alla giacca, mi ha guardato a lungo negli occhi e poi

mi ha abbracciato.

Un interminabile abbraccio in silenzio.

L'ho stretta al petto e le ho baciato quei suoi bellissimi capelli ancora neri.

Lei non ha versato una lacrima.

In compenso ci ho pensato io che non sono riuscito a trattenerla.

Ho ancora negli occhi lei che mi guarda mentre io, passandomi una mano sul

viso per nascondere la mia commozione, balzo velocemente in sella e sprono

selvaggiamente il cavallo come se fuggissi.

Un attimo ancora e non sarei più partito.

Ora sono qui sul treno per Austin che sta cominciando a muoversi in una nuvo-

la di vapore.

Saluto mio fratello dal finestrino e lo vedo allontanarsi sempre più.

Lo chiamo per nome, il suo vero nome, e gli mando un bacio con la mano.

Mentre il treno acquista velocità sempre più, penso a Betty, la mia Betty, e mi

scende un'altra lacrima.

Non è venuta per un ultimo saluto.

D'altronde cosa speravi, Jack?

Vi siete lasciati, lei non è più "la tua Betty".

Ho ancora in testa le sue parole: "Se tu parti, per me non esisti più."

Dio, come sto male.

Poi la vedo.

Cavalca lungo la strada che costeggia la ferrovia e guarda verso il treno.

Guarda verso di me.

Mi affaccio al finestrino e la saluto agitando le braccia.

Lei continua a seguire il treno ma non risponde al saluto.

La chiamo.

Grido il suo nome e agito le braccia ancora di più.

Lei ferma il cavallo e rimane lì, immobile.

Mi allontano sempre di più su questo maledetto treno che corre troppo veloce

finché, dopo una curva, non la vedo più. 366

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I due fratelli In testa mi balenano mille congetture.

Ha voluto rivedermi.

Mi ama ancora.

Ma non vuole più vedermi.

Non mi ha salutato.

Per lei non esisto più.

Lo sai, Jack?

Sei proprio un deficiente.

Dopo quasi un mese arrivo a Southampton, in Inghilterra.

Ho in tasca una lettera di presentazione per il comando inglese da parte del

generale York di Austin che è un grande amico di papà.

Meno male che qui si parla la mia lingua perché, oltre lo spagnolo e il dialetto

indiano della mamma che parlo meglio di lei, conosco solo l'inglese.

Tutte le volte che Elisabeth mi parlava in francese non capivo neanche una pa-

rola.

Sceso a terra, chiedo informazioni al primo soldato che incontro.

Mi dà l'indirizzo del comando militare più vicino, ma la città è grande e io ho un

po' di bagaglio.

Fermo una carrozza.

Forse dovrei andarmene prima all'albergo più vicino per darmi una sistemata.

Soprattutto ho bisogno di una bella doccia.

Ma non voglio perdere tempo.

In pochi minuti arrivo davanti a un palazzo presidiato da un paio di sentinelle.

Sono arrivato.

Al posto di guardia non mi fanno entrare.

Spiego loro la situazione.

Sono americano e voglio arruolarmi.

Chiamano un caporale al quale spiego di nuovo la situazione.

E aggiungo che ho una lettera di presentazione di un generale americano.

Il caporale chiama allora un sergente e io sto per perdere la pazienza.

Per fortuna il sergente mi fa entrare e mi accompagna all'ufficio del comandan-

te del presidio.

Faccio notare che sono armato, non vorrei avere delle noie.

367

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Letizia

Cioè, non ho armi addosso, ma nel sacco ci sono le mie due colt e, smontato, il

mio winchester.

E, naturalmente, mi requisiscono subito il sacco.

L'ufficiale dietro la scrivania, davanti al quale il sergente è scattato come una

molla, rimane impressionato dalla lettera e soprattutto da chi l'ha firmata.

Un generale americano.

Gli americani non sono entrati in guerra ma sarebbero un ottimo alleato per gli

Inglesi se lo facessero.

Così ora mi trattano con i guanti.

«Così lei sarebbe un pilota?»

«Beh, me la cavo, signore.»

«Il generale York dice che lei vola da quasi un anno e che è molto in gamba.»

«Da dieci mesi e ventisette giorni, signore. Poi non dovrei essere io a dire che

sono in gamba. Ma temo che il generale abbia ragione.»

«Bene. Lo verificheremo.»

Poi si rivolge al sergente: «Sergente Pepper, dia disposizione affinché raggiun-

ga la base aerea di Red Point.»

«Yes, sir» risponde il sergente scattando di nuovo.

Ripiega la lettera del generale York, la rimette nella busta e me la consegna.

«Buona giornata, signore.»

Il mio saluto non deve essere stato molto regolamentare e il capitano risponde

con un cenno della mano alla fronte senza sollevare lo sguardo dalle sue scar-

toffie.

«Buona giornata, signore? Non è così che ci si rivolge a un ufficiale.»

Il sergente sembra un po' scandalizzato.

«Imparerò» rispondo io con un velo di ironia che il brav'uomo non afferra.

Viaggiamo su una carretta a motore per tutta la giornata.

Che la carretta sia dotata di motore lo capisco dal rumore e dalla puzza dei gas

di scarico.

Andiamo bene.

Se gli aerei che devo pilotare sono nelle medesime condizioni, che il cielo mi

aiuti.

Quando arriviamo a Red Point però mi accorgo che i miei sospetti erano infon-

dati. 368

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I due fratelli Sulla pista vedo una ventina di aerei.

E' sera, ma c'è luce sufficiente per rendermi conto che sono stupendi.

Il mio accompagnatore si presenta al primo ufficiale che incontra e parla con

lui mentre io mi avvicino curioso agli aerei.

Sono davvero bellissimi.

«Belli, vero?»

La voce alle mie spalle mi fa girare.

«Sì, non ho mai visto degli aerei così. Sono fantastici.»

«A quanto pare sei un pilota.»

«Sì» rispondo.

L'ufficiale sembra molto simpatico e siamo entrati subito in confidenza.

«Mi sembri molto giovane. Quanti anni hai?»

«Diciassette. Anche tu però non sei granché vecchio, mi sembra.»

«Ma non sono un ragazzino come te.»

«Ragazzino un corno. Lasciami salire su uno di questi e poi ti faccio vedere il

ragazzino.»

«Ora è tardi. Si sta facendo buio. Domattina.»

«Voi non volate al buio? Avete paura di finire contro qualcosa? Non ci sono

montagne da queste parti, mi pare.»

«Al buio da lassù non si vede un accidente.»

«Ci sono le luci del campo. Bastano quelle. La pista è ben illuminata.»

«Te la sentiresti davvero di volare adesso?»

«Certo. Non è la prima volta che volo di sera.»

«Quando lo verrà a sapere il comandante, mi spellerà vivo. Specialmente se

fracassi uno di questi gioiellini.»

«Non temere. Un giretto di un paio di minuti e poi te lo riporto a terra meglio

di com'è ora.»

«Tu sei matto. Ma sei vuoi romperti il collo... Lo spettacolo vale la lavata di ca-

po che mi beccherò.»

Si avvicina a un aereo e io lo seguo.

«Conosci gli aerei inglesi? Ti faccio vedere i comandi.»

«Non ce n'è bisogno, grazie. Gli aerei sono come i cavalli. Si assomigliano tutti.

Quando sai domare il più focoso, sai domarli tutti.»

«Contento te.» 369

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Letizia

Salgo su quello splendore, mi infilo gli occhiali che vedo vicino ai comandi e

metto in moto.

I comandi non sono molto diversi da quelli del mio aereo.

In realtà non è mio, è di Peter.

Ma ci volo praticamente solo io.

Mezzo minuto dopo sono già su.

Ragazzino, eh?

Mi ha chiamato ragazzino?

Ora glielo faccio vedere io cosa sa fare il ragazzino.

Strapazzo l'aereo che obbedisce docilmente ai miei comandi come un cagnolino

ammaestrato.

Vedo un ufficiale avvicinarsi a...

Già, come si chiama?

Non ci siamo nemmeno presentati.

Scommetto che gli starà chiedendo chi è quel matto che fa tutte queste acro-

bazie.

Al buio poi.

E allora mi voglio un po' divertire.

Conosco abbastanza questo aereo per capire che continuerà a comportarsi co-

me si deve.

Salgo su per un po' e poi scendo in picchiata verso le due persone che intrave-

do nella pista.

Quando sono a pochi metri da loro e li vedo scappare, eseguo una perfetta ca-

brata che fa impennare l'aereo.

Passo a non più di tre metri da terra.

Poi una ampia virata e ritorno sulla pista.

L'atterraggio è il più morbido che abbia mai fatto.

Questo aereo è una vera cannonata.

E adesso mi aspetto una bella lavata di capo.

Ma io sono un vero esperto e me la cavo sempre in questi casi.

La miglior difesa è l'attacco e, prima che il nuovo arrivato possa aprir bocca:

«Questo aereo è un vero gioiello, signore. Sono molto fiero di entrare a far

parte di un'aviazione così moderna ed efficiente.»

«Se speri che l'adulazione ti eviti...» 370

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I due fratelli «Non spero niente, signore. Sono pronto a rispondere delle mie azioni. La col-

pa di tutto è solo mia. E non si trattava di adulazione, signore. Ho detto solo la

verità.»

«Uhm... Fammi un po' vedere questa lettera.»

Gli consegno immediatamente la lettera del generale York.

Papà è stato un genio a raccomandarmi al suo amico.

Senza questa lettera ci avrei messo un anno a mettere le terga su un aereo

militare.

«Uhm... Leggo che è circa un anno che voli e che sei molto in gamba.»

«Così pare, signore.»

«Che sei in gamba non c'è dubbio. Così vorresti diventare un pilota dell'avia-

zione inglese?»

«Ne sarei onorato, signore.»

«Bene, molto bene. Comincerai domattina.»

«Grazie, signore. Vedrà, sarà felice di avermi dato questa possibilità.»

«Non c'è dubbio. I nostri bagni hanno bisogno di una bella lustrata.»

«Ma, signore...»

«Non vorrai che passi sopra questa tua bravata, vero?»

Abbasso la testa e rispondo mesto: «No, signore.»

Me lo merito.

«Ma entro le dieci dovrai aver finito perché a quell'ora ti voglio con il sedere su

un aereo.»

«Sì, signore. Certo, signore. Grazie, signore.»

Non sto nella pelle.

Sono eccitato come un bambino davanti ai regali sotto l'albero a Natale.

Dopo una decina di giorni di noiosissimi voli di addestramento, finalmente ar-

riva il gran giorno.

Domani andremo in Francia, in una base dalla quale partiremo per voli di rico-

gnizione in territorio nemico.

Ho imparato a volare in formazione anche se sono convinto che non servirà a

niente.

Quando sei in una situazione di emergenza, volare ordinati serve solo a fare di

te un bel bersaglio.

371

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Letizia Il volo disordinato e imprevedibile ti può salvare la vita.

Il che non vuol dire andare per conto tuo e dimenticare gli altri.

Siamo una squadra ed è nostro dovere aiutare i compagni in difficoltà.

Però mai comportarsi come il nemico si aspetta che tu faccia.

In formazione sto sempre alle costole di William che io chiamo Billy Kid.

Billy è l'ufficiale che mi ha accolto al campo e che a momenti si prendeva una

strigliata dal comandante Pierce.

Il giorno dopo siamo in Francia.

Vengo a sapere con sorpresa che viaggeremo senza mitragliere.

Aerei leggeri e veloci.

Andare, guardare e tornare subito indietro a riferire.

Se avvistiamo il nemico, tornare subito alla base.

«Ma le mitragliere ci servirebbero in caso di attacco improvviso» obietto.

«Niente da fare. Senza armi sarete più veloci. Non dovete accettare il combat-

timento.»

«Cioè dobbiamo darcela a gambe levate?»

«Esattamente. Dovete portare indietro alla base l'aereo senza un graffio. Ma

soprattutto dovete portare a casa la pelle.»

«Ma...»

«Niente ma. E scordatevi che io ci tenga alla vostra vita perché sono vostro

amico. Non me ne importa un fico secco di voi. Ma non mi posso permettere di

perdere neanche un pilota. Ci vorrebbero mesi per rimpiazzare uno di voi.»

Il comandante Pierce ci tratta duramente, come se fossimo vecchie ciabatte,

ma in realtà si farebbe ammazzare per noi.

E poi non se ne sta a terra mentre noi rischiamo la pelle lassù.

Lui vola con noi e scorta i nostri aerei ricognitori.

La sua squadra naturalmente è armata ed ha il compito di proteggerci dagli ae-

rei nemici.

«E non dimenticate di portare la pistola d'ordinanza con voi. E una buona scor-

ta di proiettili.»

«Ma, comandante», obietta Frank, «cosa ce ne facciamo della pistola? Non vor-

rà per caso che spariamo a un aereo in volo?»

«No, certo. Ma se ti capita di fare un atterraggio di fortuna in territorio nemico,

come intendi difenderti? A sassate?» 372

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I due fratelli «Io preferirei portare le mie colt e il mio winchester, se per lei va bene, signo-

re.»

«Niente in contrario, Jack.»

I primi voli filano lisci come l'olio.

Da terra ci sparano qualche tiro di artiglieria contraerea ma niente di che.

I cieli sono sempre liberi.

Ci pensano i ragazzi di Pierce a sgombrarci il campo.

Loro si prendono i rischi più grossi ma finora per fortuna nessun aereo è mai

stato abbattuto.

Sono sempre ritornati tutti.

Qualcuno un paio di volte po' malconcio, ma niente di serio.

Le nostre informazioni si rivelano spesso molto preziose ed io, anche se comin-

cio ad annoiarmi un po', ne sono molto fiero.

Stamattina mi alzo in volo con la mia "Betty" con una strana sensazione.

"Betty" è il nome che ho dato al mio aereo e tutti mi hanno chiesto se quello è

il nome della mia ragazza.

Beh, sì.

O perlomeno è il nome della mia ex ragazza.

Stiamo volando verso il Belgio e ci abbassiamo al di sotto delle nuvole per dare

un'occhiata.

Ormai siamo nella zona dove secondo il nostro comando ci sono delle truppe

nemiche.

Noi dobbiamo localizzarle e tornare per segnalare la loro posizione.

Il comandante Pierce e la sua squadriglia ci hanno abbandonato da ormai una

mezz'ora buona.

I cieli erano tranquilli e quindi hanno cercato battaglia in un'altra zona.

Ma io sento che c'è qualcosa che non va.

Il mio orecchio allenato sente un rumore lontano.

Ma non è quello che mi ha fatto guardare dietro a noi.

Ho avvertito una strana sensazione di pericolo.

Vedo un aereo tedesco che ci sta seguendo da lontano.

Faccio un'ampia virata e torno indietro.

Non c'è assolutamente tempo da perdere e devo mantenere la calma.

373

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Letizia «Frank, hai un aereo nemico a ore quattro. Vira a sinistra e allontanati alla

svelta. Ci penso io.»

Frank è in coda a tutti ed è il più vicino all'aereo tedesco che inizia a sparare.

«Ragazzi, gambe in spalla. Sparite tutti quanti alla svelta.»

«Cosa hai intenzione di fare, Jack? Non fare il pazzo. Ti farai ammazzare.»

«Non temere, Billy. Ci tengo alla pelle.»

Mi dirigo verso l'aereo che vede la mia manovra e comincia a prendere di mira

me, distogliendo la sua attenzione da Frank e gli altri.

Vieni, cocco bello, vieni.

Mi alzo leggermente mentre sento la raffica di mitragliera passare proprio sotto

di me.

Compio allora un'acrobazia che ho fatto decine di volte in America.

Giro la mia "Betty" intorno al proprio asse per un giro e mezzo.

La manovra si chiama "a trottola".

Mi trovo così a testa sotto per la seconda volta.

Il tedesco mi guarda disorientato.

Già pensava che io fossi un pazzo ad affrontarlo disarmato.

I tedeschi sanno che i nostri ricognitori non portano armi.

Ora mi vede comportarmi come un fenomeno da baraccone e lo penserà anco-

ra di più.

A meno che non pensi di avermi colpito e di essere stato lui a causare questo

mio avvitamento.

Ma comunque sono del tutto innocuo, pensa.

Ed esita.

Ma io stabilizzo l'aereo, imbraccio il mio winchester che ha sempre il colpo in

canna e, mentre reggo i comando con le ginocchia come ho già fatto mille vol-

te, sparo in rapida successione tre colpi al pilota nemico che si trova diagonal-

mente sotto di me.

In realtà io sparo verso l'alto poiché, rispetto a me, lui si trova rovesciato so-

pra la mia testa.

Riesco a sparare solo tre colpi data l'alta velocità dei due aerei che, proceden-

do l'uno verso l'altro, è praticamente doppia rispetto alla velocità di un singolo

aereo.

Ma io sono molto veloce a sparare con il mio winchester. 374

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I due fratelli Persino mio fratello non è veloce come me.

Lui è più preciso, ma io sono un fulmine.

Ho imparato a premere il grilletto quando il proiettile non è ancora completa-

mente in canna.

Tutti i bossoli dei miei proiettili non presentano il segno del percussore esatta-

mente al centro della carica, ma leggermente all'esterno.

Non ho mai sparato a un uomo e, in condizioni normali, avrei cercato di colpirlo

in una parte non vitale.

Ma qui si tratta della sua vita o della mia e di tutti i miei compagni.

E poi, che diamine, il suo non è stato certo un gesto cavalleresco.

Sapeva che eravamo disarmati e ci ha attaccato per uccidere.

E avrebbe fatto una strage.

Non so quanti sarebbero riusciti a scappare considerando che, per tornare alla

base, avrebbero dovuto invertire la rotta con un'ampia virata.

Avrebbero rallentato e sarebbero stati un facile bersaglio.

Come al tiro a segno alla festa del quattro luglio.

Così anch'io ho tirato per uccidere.

Riporto l'aereo in assetto e guardo dietro di me l'aereo tedesco che mi ha su-

perato.

Sta precipitando a terra avvitandosi.

Non manda un filo di fumo.

L'aereo è integro.

Almeno uno dei miei proiettili ha colpito il pilota.

Il ritorno alla base è tranquillo.

Tutto fila liscio.

Non siamo riusciti a vedere granché ma Billy dice che qualcosa ha notato.

Alla base c'è un gran fermento.

La notizia della mia "prodezza", come l'ha chiamata Frank, è già stata segnala-

ta alla base.

Ma solo quando eravamo già in zona sicura perché durante le missioni ci è sta-

to imposto il silenzio radio.

Tranne in casi di emergenza, ovvio.

Di solito sono l'ultimo ad atterrare.

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Letizia

Ma questa volta i miei compagni mi hanno chiesto di atterrare per primo.

Come metto piede a terra, un sacco di persone mi si fanno attorno per congra-

tularsi con me.

Frank, che è atterrato subito dopo di me, mi abbraccia: «Jack, se non fosse

stato per te, non so come me la sarei cavata. Avevo quel bastardo alle spalle e

sentivo fischiare le pallottole. Ti devo la pelle, amico.»

Cerco di rispondere ma sono letteralmente sommerso da tutti.

Ci sono anche i francesi.

Tutti mi sono intorno per festeggiarmi e mi chiedono come ho fatto.

Ma io penso che ho ucciso un uomo e non mi va di far festa.

Nel frattempo arriva l'attendente del comandante che, gridando per farsi senti-

re, invita tutti gli ufficiali piloti che sono rientrati dal volo di ricognizione a pre-

sentarsi al comando.

Il comandante Pierce ci vuole a rapporto.

Billy mostra sulla cartina la zona dove gli sembra aver notato qualcosa e il fat-

to si rivela molto interessante perché gli alleati francesi avevano già segnalato

il movimento di artiglieria ma non sapevano dove.

Ripensandoci Billy ricorda che aveva notato qualcosa di strano e poteva benis-

simo essere artiglieria pesante nascosta con teloni mimetici.

Pierce è molto soddisfatto e quando ci congeda, mi chiede di rimanere.

Durante la riunione non si è fatto alcun cenno alla mia azione.

Questo mi fa sospettare che il comandante abbia intenzione di farmi una bella

lavata di capo.

E la conferma arriva quando siamo soli.

Pierce sta esaminando la mappa con attenzione e, senza distogliervi lo sguar-

do, mi apostrofa: «Jack, dannata testa calda, cosa intendevi fare? Guadagnarti

una medaglia?»

«Veramente non mi aspettavo solo quella. Pensavo anche di avere una bella

promozione. Senza contare anche l'eterna riconoscenza dei miei compagni per

aver loro salvato la vita, signore.»

Il comandante alza lo sguardo dalla mappa e rimane senza parole per qualche

istante.

«Mi stai prendendo per i fondelli, Jack?»

«Sì, signore» è la mia laconica risposta. 376

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I due fratelli «Come?»

«Posso parlarle con franchezza, signore?»

Mi guarda stupito.

«Certamente.»

«Signore, lei mi ha fatto una domanda sciocca e io ho risposto di conseguenza.

Lei mi conosce abbastanza per sapere che io non voglio patacche né tantome-

no promozioni. Sa che la vita dei miei amici vale moltissimo per me. Lei si

comporta in modo così duro con noi, ma io so che lei non è così. Ha la tremen-

da responsabilità di tutti noi. E non può permettersi di essere nostro amico.

Scrivere a un padre di famiglia che suo figlio è stato abbattuto e il suo aereo è

precipitato non deve essere una cosa facile.»

Tace ancora.

Non si aspettava una reazione così.

E' evidente che nessuno gli ha mai parlato così.

«Uhm...» riprende «ti sei comportato in modo sconsiderato però. Potevi la-

sciarci la pelle. Hai avuto fortuna. Lui non è riuscito a colpirti e tu ha compiuto

l'impossibile.»

«Cosa avrei dovuto fare, signore? Il mio aereo era il più lontano dal tedesco.

Avrei potuto buttarmi in picchiata con una manovra spericolata e l'aereo nemi-

co mi avrebbe lasciato andare per seguire il grosso della squadriglia. Sarebbe

stato più facile e conveniente. Sei aerei invece di uno.»

Mi fermo un attimo a prendere fiato.

Ma proseguo subito.

«Certo, avrei potuto. Mi sarei salvato di sicuro. Ma a che prezzo? Fuggire e ab-

bandonare i miei compagni a morte certa? Con che coraggio mi sarei poi guar-

dato allo specchio? No, potevo solo morire con loro. Oppure tentare. L'ho fatto

centinaia di volte in America, sa?»

«Che cosa?» chiede curioso.

«Sparare con il mio winchester dall'aereo a bersagli a terra. Ero molto bravo.

Colpivo un bersaglio su tre. Al tedesco ho sparato tre colpi.»

Come a dire: statisticamente lo dovevo colpire per forza.

«Ma hai sparato da un aereo in movimento a un altro aereo pure in movimen-

to. Era una cosa praticamente impossibile.»

«Forse. Ma dovevo tentare. Non mi andava di morire colpito alla schiena.» 377

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Letizia «Sei una cosa incredibile.»

«Si, signore.»

Spero che non si incavoli perché ora sì che lo sto prendendo per i fondelli.

E allora aggiungo: «Sono pronto a sopportare le conseguenze delle mie azioni.

Accetterò qualsiasi punizione. Purché non mi impedisca di volare ancora. Maga-

ri pulirò di nuovo le latrine.»

«Pulire le latrine. Sì, mi sembra un'ottima idea.»

Boccaccia mia...

Non facevo sul serio, mannaggia.

«Ma non stasera. Ci sarà festa per te al circolo ufficiali e tu non puoi certo

mancare. Domani sera andrà benissimo.»

«Sì, signore.»

E poi aggiunge: «Davvero non ti interessa una promozione?»

«No, signore. Non mi piace comandare. A casa, al ranch di mio padre, abbiamo

parecchi cowboy al nostro servizio. Quando devo chieder loro di fare qualcosa,

glielo chiedo sempre per favore e poi do sempre una mano.»

Aggiungo: «Sono uno spirito libero. Credo che lo abbia già notato.»

Rimane perplesso.

Poi cerca un documento nascosto sotto una pila di altre carte e lo strappa.

Diavolo di un uomo.

Stai a vedere che...

Ma sinceramente non me ne importa un accidente.

«Puoi andare, Jack.»

«Sì, signore. Buonanotte, signore.»

Ho già aperto la porta quando la sua voce mi insegue.

«Ah, dimenticavo» dice senza staccare lo sguardo dalle carte che sta riordi-

nando, «avvisa il sergente McCarty di installare due mitragliere sulla tua Betty.

Domattina esci con me nella mia squadriglia.»

«Come ha detto, signore?»

«Sei diventato sordo, Jack? Togliti dai piedi prima che ci ripensi.»

«Certo, signore. Subito, signore. Grazie, signore.»

Appena mi giro per scapparmene via, mi richiama: «A meno che tu non te la

senta.»

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I due fratelli «Oh sì, signore. Cioè no... Insomma, certo che me la sento. Di nuovo buona-

notte, signore.»

«Togliti dai piedi.»

La mattina dopo sono in volo con la squadriglia di Pierce.

La mia Betty ha ora in dotazione un paio di mitragliere nuove di zecca.

Sono in coda a tutti.

Evidentemente il comandante ritiene che non ho ancora sufficiente esperienza

di combattimenti in volo e non vuole espormi a troppi rischi.

Ma io sono contento anche così.

Mi dispiace solo che non volo più insieme ai miei vecchi compagni, specialmen-

te Billy.

Siamo diventati ottimi amici e abbiamo chiesto di condividere la camera.

Gli alloggi degli ufficiali piloti sono camerette a due letti e io prima stavo con

un tizio che sta da un pezzo nella squadriglia di Pierce e che ora sta volando

davanti a me.

Si sono tutti raccomandati di guardarmi da un pilota tedesco che è maledetta-

mente pericoloso.

Ha un aereo a tre ali dipinto di rosso.

Ho già sentito parlare dei Fokker e so che sono aerei nuovissimi e velocissimi.

Ma questo rosso pare sia più pericoloso degli altri.

Il suo pilota è molto abile e ha già abbattuto molti aerei francesi.

Bene.

Vuol dire che ora è lui il mio obiettivo principale.

Abbiamo passato le nostre linee da non più di dieci minuti, quando vediamo

una squadriglia aerea nemica che ci viene incontro.

Non ci sono aerei rossi.

Peccato.

Ci buttiamo a capofitto, io in testa.

Cioè non proprio in testa, visto che sono sempre l'ultimo, in coda a tutti.

Ma sono il primo a scendere in picchiata, così acquisto velocità.

Ma lo fanno anche i miei nuovi compagni.

La battaglia che segue è infernale.

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Letizia

Non riesco ad avvicinare un aereo tedesco che qualche mio compagno mi pre-

cede e lo butta giù.

Sono troppo indietro.

In breve tutti gli aerei nemici sono stati abbattuti e io non sono riuscito a tirare

neanche un colpo.

Eravamo troppo numerosi rispetto a loro e non hanno avuto scampo.

La mia squadriglia si è già messa in formazione.

Io rimango fuori, indietro come al solito.

Loro sono più ordinati e hanno più esperienza di me nei voli in formazione.

Io invece sono più indipendente e disordinato.

Scommetto che Pierce si è già pentito di avermi preso con lui.

Sono una frana.

Mentre cerco di rimettermi con gli altri, sento dietro di me un rumore.

Cavolo.

Sono altri aerei tedeschi.

Sono un mucchio e ci stanno alle spalle.

Cioè stanno alle mie spalle.

Sono io il più vicino a loro.

Cominciano a sparare e io non posso farci niente.

O almeno loro lo credono.

L'ho fatto mille volte e ogni volta sempre più stretto.

Il giro della morte.

Impenno la mia Betty e salgo compiendo un cerchio il più stretto possibile.

Immagino il loro stupore.

Ora non possono più colpirmi e io sono tentato di ripetere il giochetto con il

mio winchester.

Ma desisto.

Tra pochi istanti sarò dietro a loro.

E quando termino il giro e mi trovo in coda a loro, inizio a far cantare i miei

gingilli.

E' un tiro al bersaglio.

Cercano di sfuggirmi aprendosi a ventaglio.

Ma io ne ho già tirati giù tre e continuo a sparare scegliendo di seguirne altri

tre che sono rimasti vicini. 380

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I due fratelli Nel frattempo la mia squadriglia ha fatto una larga virata e ora stanno venendo

in mio soccorso.

Ho ottenuto quello che volevo: dare tempo ai miei compagni di portarsi in con-

dizione di aprire il fuoco.

La battaglia è molto più dura della precedente.

Gli aerei tedeschi ci eguagliano in numero, cioè ci eguagliavano perché ne ab-

biamo abbattuti più della metà.

Gli altri, malconci e troppo pochi per poterci contrastare, si danno alla fuga.

Io mi getto a capofitto all'inseguimento, ma il comandante mi richiama indie-

tro.

Purtroppo abbiamo perso due aerei e ci sono un paio di feriti.

Si ritorna alla base.

Il mio battesimo del fuoco è stato un successo ma non c'è niente da festeggia-

re.

Quando alla base dipingo cinque aerei rossi nella fusoliera della mia Betty, non

posso fare a meno di pensare ai due ragazzi che non sono tornati e anche ai

tanti tedeschi che non rivedranno più le loro famiglie.

E' la guerra.

Questa maledetta guerra.

E comincio ad essere molto meno entusiasta di quando sono partito.

Penso alla mia famiglia, a mia madre soprattutto.

E poi penso a Elisabeth.

Chissà se vorrà rivedermi.

Spero di sì perché mi manca terribilmente.

Spero che ci abbia ripensato perché le sue ultime parole rimbombano assor-

danti nelle mie orecchie.

"Ciao mamma, ciao papà.

Molte cose sono cambiate dall'ultima volta che vi ho scritto.

E non in bene purtroppo.

Oh, non è che non stia bene.

Tutt'altro.

Non sono ferito e godo di ottima salute.

Ma non sto bene per niente.

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Letizia Ieri ho ucciso per la prima volta.

Un pilota tedesco.

E oggi altri cinque.

Non sto bene per niente, non sono mai stato così male.

Ho spezzato sei vite, sei ragazzi che non torneranno più alle loro famiglie.

Come farò io, mamma.

Perché io tornerò a casa sano e salvo, mamma.

Te lo prometto, anzi te lo giuro.

Sapevo che prima o poi sarebbe successo e immaginavo anche che la cosa non

sarebbe stata per niente piacevole.

Ma non sapevo che sarebbe stata così tremenda.

Sapevo che prima o poi avrei smesso di andare disarmato in ricognizione, ma è

stato proprio nel mio ultimo volo e senza armi che ho ucciso.

Sai, porto sempre il mio winchester con me.

Te l'ho già scritto.

E alla fine è arrivata la volta che mi è servito.

Ho sparato per uccidere, sai mamma?

Gli ho sparato tre colpi per essere più sicuro.

E gliene avrei sparati anche di più se solo ne avessi avuto il tempo.

Ma era necessario, mamma.

Così ho salvato la vita di sei miei compagni, senza contare la mia.

Quel tedesco ci avrebbe uccisi tutti, disarmati e incapaci di difenderci come e-

ravamo.

O lui o noi, mamma.

Sette vite contro una.

Non ho avuto altra scelta, ho dovuto.

Non potevo permettermi di sparare solo per ferirlo o danneggiare magari l'ae-

reo.

Se avessi sbagliato non avrei avuto una seconda occasione.

E oggi con le mitragliere della mia Betty ho abbattuto altri cinque aerei.

Sai, ho dato al mio aereo il nome di Elisabeth, per avere sempre il suo nome

davanti agli occhi.

Lei starà sempre nel mio cuore, come tutti voi.

Questa guerra maledetta che ci tiene lontani... 382

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I due fratelli Ho tanta voglia di tornare, di non essere mai partito.

Ma non posso, mamma.

E, se tornassi indietro, rifarei quello che ho fatto.

Ho salvato delle vite, mamma, capisci?

Oggi abbiamo perso due aerei, due miei amici che non sono tornati.

Ma, se non ci fossi stato io oggi, ne sarebbero morti molti di più.

Il comandante Pierce oggi ha elogiato il mio comportamento.

Mi ha proposto per una promozione, ma io non ho accettato.

Non voglio diventare capo squadra, mamma.

Voglio solo rendermi utile, voglio solo che muoiano meno persone possibile in

questa maledetta guerra.

Oggi non ho sparato per uccidere, mamma, e spero che almeno due dei cinque

piloti si siano salvati.

Ti voglio tanto bene, mamma.

Ne voglio tanto anche a papà, al mio fratellone e a tutti quanti.

Salutami Sara e i bambini, il nonno e il gufo taciturno.

Salutami Mamie e tutti i nostri cowboy."

Mi fermo un attimo e poi riprendo a scrivere.

"Se hai occasione di vederla, di' a Elisabeth che sto bene e che lei è sempre nel

mio cuore."

Dille anche che spero di rivederla e che lei mi voglia ancora bene.

Che tutto torni come prima, perché la mia vita senza di lei non ha più senso.

E' quello che penso, ma non oso scrivere.

E concludo.

"Un bacio a tutti voi e a rivederci presto.

Il vostro Jack.

Febbraio, 24 dell'anno del Signore 1916.1"

Le missioni in territorio nemico si susseguono una dietro l'altra a ritmo serra-

to, certe volte anche due nello stesso giorno.

Ed è anche capitato che, appena tornati alla base, con gli aerei ancora da rifor-

nire, siamo decollati in fretta e furia perché era stata avvistata una squadriglia

nemica che si stava avvicinando pericolosamente alla base. 1 La battaglia di Verdun inizia il 21 febbraio dello stesso anno.

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Letizia Siamo tutti sfiniti.

Ciascuno di noi avrebbe bisogno di almeno una settimana di riposo, ma il fatto

è che non ci sono piloti che ci rimpiazzino.

E allora si va avanti.

La fusoliera di Betty ormai è piena di disegni rossi.

Dopo l'ultima missione nella quale siamo stati attaccati da due formazioni di

aerei che ci hanno preso in mezzo, il comandante Pierce ci fa volare ora in due

squadre che stanno a circa un miglio di distanza l'una dall'altra.

E i motivi sono due.

Dare al nemico, che può avvistare solo una delle due, l'impressione che noi

siamo una facile preda.

E poi fare in modo di avere sempre qualcuno che ti guardi il fianco.

Quindi ora voliamo in due formazioni sufficientemente lontane da non essere

avvistate tutte e due contemporaneamente, ma abbastanza vicine da poterci

soccorrere a vicenda in tempi brevi.

Una squadra, è ovvio, è comandata da Pierce.

Ma indovinate un po' chi comanda l'altra?

Domanda facile, risposta facile.

E così mi hanno appioppato questa rogna.

Naturalmente la prima squadra ad essere attaccata indovinate qual'è?

No, sbagliato, è quella di Pierce.

Chiamo a raccolta i ragazzi della mia squadra e voliamo immediatamente in lo-

ro soccorso.

I tedeschi non se l'aspettano e si trovano un po' spaesati.

Nel bel mezzo della mischia vedo in lontananza un aereo che sta arrivando.

E' lui.

L'aereo è rosso.

E' il barone.

Finalmente ti ho trovato, maledetto.

E' da un pezzo che ti cerco.

Mi allontano dalla formazione e mi dirigo verso di lui.

Quando il comandante nota la mia manovra, mi richiama subito indietro.

Ma io sono già lontano e credo di non aver capito bene l'ordine.

Lo sento imprecare mentre si getta immediatamente al mio inseguimento. 384

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I due fratelli L'aereo rosso è sempre più vicino.

Ce l'ho nel mirino.

Era ora.

Sparo una raffica, lunga e continuata.

Ma lui è un demonio.

Usa gli stessi trucchi che uso io per evitare di essere colpito.

Manovra il suo Fokker con la stessa agilità con cui io uso le mie colt.

Il suo aereo è più grosso e più potente del mio e maledettamente più veloce.

Spara su di me, ma anch'io so fare i suoi giochetti ed evito i suoi tiri.

L'ho disorientato.

Forse credeva di essere l'unico a trattare l'aereo come un giocattolo.

Non si aspettava le mie acrobazie.

Ma non perde la calma e la concentrazione.

Ci affrontiamo più volte sparando come matti senza però mandare un colpo a

segno.

Il comandante Pierce sta arrivando seguito da uno della sua squadra.

Il barone lo vede e cerca di allontanarsi.

Ha visto che i suoi compagni tedeschi stanno avendo la peggio e che non può

fare nulla per aiutarli.

Ma tenta un ultimo attacco.

Non so come dannazione abbia fatto, ma me lo ritrovo in coda.

Sono nei guai.

Tento il giro della morte.

Ma lo fa anche lui.

Ce l'ho sempre in coda, ma almeno durante il giro sono fuori dal suo mirino.

Tento allora il gioco con il mio winchester, ma i miei proiettili colpiscono solo

l'aereo senza fare grossi danni.

Solo qualche buco nelle ali.

Non se l'aspettava e ci deve essere rimasto un po' male.

Tento di stringere il cerchio più che posso.

Il mio aereo è più corto del suo e posso ottenere un raggio più ridotto del suo.

E poi quando sono quasi alla fine del cerchio, faccio un'improvvisa virata a de-

stra per cercare di mettermelo di fronte.

Sento Pierce e l'altro mio compagno sparare contro il barone all'impazzata. 385

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Letizia

E poi vedo del fumo uscire dal motore.

Cavolo, mi ha colpito.

E ora se ne sta fuggendo, il bastardo.

Sento un gran dolore al ventre.

La mia Betty perde quota.

Non devo perdere i sensi... non devo... non de... non...

La ricerca

E' un paio di giorni che non sto bene.

Non è che stia male fisicamente.

In realtà sono in perfetta forma.

Ma sento una strana sensazione di disagio e non so da cosa dipenda.

Sono una persona realista con i piedi ben saldati a terra e non sono per niente

suggestionabile.

Eppure...

Eppure sento che c'è qualcosa che non va.

E cerco di non pensare a quello che mi viene spesso in mente.

Ne ho troppa paura.

E poi scommetto che i miei timori sono del tutto infondati.

Ma comunque è meglio che torni a casa.

Qui i ragazzi possono fare da soli.

Quando arrivo in vista del ranch, vedo nel piazzale davanti alla casa un'auto-

mobile sta avviandosi verso la città.

E' sicuramente quella del marshall.

Cosa è andato a fare da mio padre?

Sento la testa che mi scoppia.

Sprono il cavallo e mi getto al galoppo giù per la collina.

Quando arrivo davanti a casa, vedo un paio di cowboy con la faccia nera come

il carbone.

Mio Dio.

Scendo da cavallo e di corsa raggiungo il salone che dà sulla biblioteca.

Attraverso la porta vedo la mamma che sta piangendo seduta su una poltrona.

Papà le sta accanto cercando inutilmente di offrirle un conforto.

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I due fratelli Mio Dio, mio Dio.

Entro nella sala.

La mamma mi vede e scoppia in un pianto a dirotto, coprendosi il volto con le

mani.

Papà mi guarda cercando di dirmi qualcosa ma non ci riesce e stringe la mam-

ma tra le braccia.

Il nonno è pallido in volto e non muove un muscolo della faccia, come impietri-

to.

Il vecchio indiano sembra assente.

Non ho mai visto i miei cari in quello stato.

Neanche quando è venuto a mancare lo zio di papà.

La mamma, che gli era affezionata come una figlia, non ha versato una lacri-

ma.

Ora invece...

Jack.

I miei presentimenti non si erano rivelati infondati.

Jack.

Jack è...

Non riesco neppure a pensarlo.

«Non è morto.»

Il vecchio indiano si è come risvegliato da un trance.

«Come?» gli domando.

Temo di non aver capito bene.

«Jack non è morto. E' ancora vivo e sta bene.»

«Come sarebbe a dire?» incalzo.

«E tu come fai a saperlo?»

«Ho avuto una visione.»

Il nonno si gira a guardarlo e gli chiede: «E perché non l'hai detto prima?»

«Perché la visione l'ho avuta solo adesso.»

Papà e la mamma lo guardano stupiti.

Sanno che non è suonato anche se qualche volta gli piace dare quell'impres-

sione.

«Il grande Spirito mi ha mandato una visione. Ho visto Jack colpito da un ae-

reo rosso. Un colpo violento alla stomaco gli ha fatto quasi perdere i sensi. Ma 387

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Letizia lui ha resistito ed è riuscito ad atterrare. Ho visto il suo aereo fumare in una

radura circondata da alberi. Jack è riuscito ad abbandonare l'aereo prima che si

incendiasse. Ha con lui le sue armi e molte munizioni.»

Un aereo rosso.

Non può esserselo inventato.

Ho letto di un tedesco che chiamano il Barone Rosso e può essere che lo chia-

mano così proprio perché il suo aereo è rosso.

«Jack è un grande guerriero. Sopravviverà.»

Sembra esserne sicuro e, a dire il vero, anch'io sento che Jack è vivo.

C'è sempre stata una strana sintonia fra me e Jack.

Ho sempre avvertito un presentimento quando era in pericolo, come quando è

stato ferito da un grizzly.

Io lo sapevo.

L'ho sentito.

La mamma ha smesso di piangere e si avvicina al vecchio come per chiedergli

di più, per ringraziarlo.

Ho deciso.

«Io vado a cercarlo. Lo riporterò a casa sano e salvo. Lo giuro.»

Sara, che aveva portato via i bambini e li aveva lasciati a Mamie, fa ritorno in

tempo per sentire le mie parole.

«No.»

Mi giro a guardarla.

«No. Non puoi. Pensa ai tuoi bambini, Pensa a me. Vuoi farmi morire di dolo-

re?»

«Sara, devo andare. Jack è mio fratello. Non posso abbandonarlo. Non potrei

più guardare in faccia i miei figli.»

«Vuoi andare a morire? I tuoi figli hanno bisogno di te. Meglio un padre che si

vergogna piuttosto che un padre morto.»

«Non insistere, Sara. Io "devo" andare. Jack farebbe altrettanto per me.»

Lei scoppia a piangere e esce correndo dalla biblioteca.

La mamma mi guarda in silenzio.

Papà si avvicina a me.

«Sei proprio deciso ad andare?»

«Sì, papà. Sai che devo.» 388

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I due fratelli «Sì, lo so. Vengo con te.»

«No, papà. Tu non verrai. Io te lo impedirò.»

«Come?»

«Hai capito benissimo. Io te lo impedirò. Inutile rischiare in due. Tu devi resta-

re e badare alla mamma.»

«Ma...»

«E' inutile, papà. Sai che ho la testa dura. Non ti ci voglio con me.»

Mio padre mi guarda stupito.

Non avevo mai osato contraddirlo.

In realtà perché non ce n'è mai stato bisogno.

Pa' e io andiamo molto d'accordo.

«Ha ragione lui, lo sai.»

La voce del nonno ci fa girare entrambi.

«Papà, ti ci metti anche tu adesso? Non basta che ci sia già mio figlio a dirmi

cosa devo fare?»

«Pa', io non voglio dirti quello che devi fare. Non te l'ho mai detto. Voglio solo

dirti che sarai più utile qui. Da solo avrò più libertà di movimento. Fallo per la

mamma se non vuoi farlo per me.»

Dopo qualche attimo di silenzio, «D'accordo. Andrai da solo. Ti accompagnerò

alla stazione. Telegraferò al generale York perché ti dia una lettera per gli In-

glesi, come ha fatto con tuo fratello.»

Mando uno dei cowboy in città per informarsi degli orari del treno mentre io

preparo quello che dovrò portare con me.

Poi salgo da Sara e dai bambini che, vedendo la mamma piangere, si mettono

a piangere anche loro.

Mamie li porta di là a giocare e io rimango solo con mia moglie.

Non sono mai stato così male.

Jack da solo in territorio nemico, la mamma distrutta dal dolore e Sara tra le

mie braccia che non smette di piangere e mi stringe forte, quasi ad impedirmi

di andare via.

Mio Dio.

Non faccio che pensare a Sara, a quando l'ho salutata prima di andare in città

con mio padre.

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Letizia Lei non è venuta.

Non se la sentiva.

Non piangeva quando l'ho baciata prima di partire, ma aveva la morte nel cuo-

re.

L'aereo di Jack è caduto oltre le linee nemiche, in una zona dove da mesi si

combatte la battaglia più dura tra tutte quelle che la pazzia umana abbia mai

concepito.

E io devo andare là in mezzo, da solo, trovare mio fratello e tornare indietro.

I bambini non sanno dove vado e a far cosa, naturalmente.

Ma non sono certo stupidi.

Sono piccoli ma avvertono che c'è qualcosa che non va e hanno fatto un muso

lungo così.

Quando me ne sono andato, erano tutti là, nel salone dell'ingresso, a salutar-

mi.

Tranne Sara che era con i bambini in cima alle scale.

Ci eravamo salutati prima.

Sulla porta, prima di lasciare la casa per chissà quanto tempo, mi son girato

per darle un ultimo sguardo.

Lei era ancora lì, con Charlie in braccio e Thomas aggrappato ai suoi jeans.

Ho alzato la mano per un ulteriore saluto e le ho mandato un bacio con la ma-

no.

Ho ancora la scena davanti agli occhi mentre sono su questa dannata nave che

domani arriverà in Inghilterra.

Ad Austin il generale York, che mi stava aspettando, mi ha fornito dei docu-

menti dai quali risulta che sono un colonnello dell'esercito degli Stati Uniti e di

una lettera di presentazione per il comando inglese.

Ho avuto una carriera velocissima: da semplice civile a colonnello.

Proprio io che non ho mai potuto sopportare i soldati.

Gli States non sono entrati in guerra, per cui io ufficialmente non sono mai an-

dato in Inghilterra né tantomeno in Francia, in piena zona operativa.

Sono in missione "per portare in salvo il figlio di un pezzo grosso americano,

uno che ha conoscenze alla Casa Bianca".

Addirittura.

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I due fratelli Ma in fondo quella frase, che pare sia riportata tale e quale nella lettera di pre-

sentazione che io non ho letto - è sigillata dalla cera lacca con il simbolo per-

sonale di York - non è molto lontana dalla verità.

Papà conosce veramente un sacco di gente a Washington.

E anche il nonno.

E così automaticamente divento un pezzo grosso anch'io.

Com'è strana la vita.

Io che non ci ho mai tenuto sono diventato un pezzo da novanta e invece mol-

ta gente, che si vende l'anima per diventarlo, non c'è mai riuscita.

Il tempo non sembra passare mai, specialmente quando stai così male.

Sara, non vedo l'ora di stringerti di nuovo tra le mie braccia.

Vorrei cancellare in un istante tutto il tempo che starò via ed essere già di ri-

torno con quel matto di mio fratello.

Magari si potesse2.

Ma finalmente arrivo a Southampton.

Quando scendo dalla nave sono avvicinato immediatamente da quello che

sembra essere un agente di polizia.

Il mio abbigliamento è, diciamo, un po' stravagante.

Sono armato fino ai denti.

Due cinturoni con le mie "Navy", il mio winchester con la canna modificata e

due bandoliere piene di proiettili sulle spalle.

Sembra che debba andare in guerra da solo contro un'intera tribù di Cheyenne,

il che è abbastanza vicino alla realtà.

Questo brav'uomo sembra intenzionato ad arrestarmi.

Se io fossi un malintenzionato, avrebbe scelto il modo migliore per suicidarsi.

Credo sia disarmato.

Ma per fortuna per lui, io sono un brav'uomo più di lui.

Gli mostro i miei documenti.

«Sono un colonnello dell'esercito degli Stati Uniti e sono qui in missione specia-

le. Vuole essere così gentile da accompagnarmi al più vicino distaccamento mi-

litare?»

«Certamente, sir» risponde il poliziotto scattando sugli attenti.

2 N.d.A.: Io veramente lo potrei, ma il lettore si perderebbe tutto il succo di questo racconto. E poi chi vi dice che "Eagle" tornerà?

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Letizia

I miei documenti cominciano a funzionare.

Poi estrae un fischietto e comincia soffiarci dentro.

In breve arriva una carriola con un paio di militari - questi sono armati - e si

ferma davanti a noi.

I due militari balzano fuori dall'automobile con le armi in pugno e le puntano

verso di me.

Ma il poliziotto li ferma e spiega loro chi sono.

«Mi scusi, sir» dice uno dei due riponendo la pistola nel fodero.

«Non fa niente,» rispondo, «non devo avere un aspetto molto rassicurante.»

«Per niente, sir.»

Mi accompagnano poi a un comando militare e si ripete la stessa scena con le

sentinelle all'ingresso.

Comincio veramente a stancarmi.

Aspettano che arrivi un ufficiale e non provano neanche a togliermi le armi.

Mi annunciano al comandante della guarnigione o di quello che è.

Si dimostra molto gentile.

«Ah, un altro americano. Prego, si accomodi.»

«Ha conosciuto qualche altro americano?» gli chiedo porgendogli la lettera si-

gillata di York.

«Sì, un ragazzo. Un volontario che si è arruolato in aviazione» risponde pren-

dendo la lettera.

La gira e la rigira.

Guarda il sigillo che la chiude e nota le tre stelle nello stemma di York.

Mi porge la lettera senza aprirla e aggiunge: «Non c'è bisogno di lettere di pre-

sentazioni. Vedo che è del generale York che ho già avuto il piacere di sentire.»

«Conosce il generale?»

«No. Ne ho solo sentito parlare. Anche quel ragazzo aveva una sua lettera. Ri-

conosco la grafia.»

«Ebbene io sono qui per trovare quel ragazzo e per portarlo negli States. Pare

sia il figlio di un pezzo grosso. O almeno così mi è stato riferito. E' scritto an-

che nella lettera.»

«Non sarà facile, ammesso che sia ancora vivo. Dovrà andare in Francia, in zo-

na di guerra.»

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I due fratelli «Lo so. Spero solo nella vostra collaborazione per arrivare al suo campo di a-

viazione. Credo che sia quello di un certo comandante Pierce.»

«Sì, lo conosco. Darò disposizione che sia accompagnato là. Dovrà fare un bel

volo, temo.»

«Nessun problema. Grazie per tutto il suo aiuto.»

«Mio dovere, colonnello» risponde prima di chiamare il suo sergente.

Il giorno dopo sono nel campo di Pierce.

E' stato un viaggio tremendo.

Non so come faccia Jack ad amare tanto il volo.

Se l'uomo fosse nato per volare, il buon Dio gli avrebbe fatto crescere un bel

paio d'ali sulla schiena, non trovate?

Metto piede a terra e mi sgranchisco un po' le gambe.

L'abitacolo di quel coso con le ali è tremendamente piccolo e le mie gambe

lunghe erano alquanto rannicchiate.

«Ehi, William. Guarda un po' quel tizio.»

Mi giro e vedo un paio di ragazzi che stanno armeggiando con il motore di un

aereo.

«Deve essere scappato dal circo di Buffalo Bill, Frank» risponde ridendo l'altro.

«Ragazzi, vi consiglio di essere meno spiritosi. Il signore è un colonnello ame-

ricano» li rimprovera il pilota che mi ha accompagnato.

«Lei è americano, sir? E' per caso... lei è... Eagle?»

Santo Iddio, quel ragazzo mi farà impazzire.

Ha spifferato il mio soprannome a tutto il globo.

«Conoscete Jack?»

«Sì, sir. Era nostro amico. Era il nostro miglior amico.»

«Perché dite era? Ora non lo è più? Avete litigato?»

Li prendo un po' in giro.

«Oh no, sir. Solo che... che lui... che... Non lo ha saputo?»

«Che è precipitato con il suo aereo in territorio nemico? Questo non vuol dire

che non sia ancora vivo.»

«Sir, ormai è un mese che non abbiamo più notizie di lui.»

«Non temete, Jack è vivo.»

«Come fa a saperlo, sir?»

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Letizia Cosa potrei dirgli?

Che me lo ha detto un vecchio indiano che lo ha saputo dal Grande Spirito?

Che io sento che è vivo perché sono in simbiosi con lui?

Io, se qualcuno mi dicesse così, lo prenderei per matto.

Figuriamoci loro.

«E' una cosa che non posso rivelarvi. Mi dispiace ragazzi.»

«Capisco, sir. Siamo molto contenti di sapere che Jack è ancora vivo. Questo ci

basta.»

«Tu sei Billy, vero? Billy The Kid.»

«Sì, sir. Jack le ha scritto di me?»

«Certo. E scommetto che il tuo amico è Frank.»

«Sicuro, sir» risponde lui.

Poi, guardando il mio fucile modificato, mi chiede.

«Quel suo winchester è molto strano, sir. Non è come quello di Jack.»

«Sì,» rispondo, «ha la canna modificata. E' molto più lunga. I proiettili così ar-

rivano molto più lontano.»

Mi guardo in giro.

«La vedi quella banderuola a forma di gallo di ferro su quel campanile laggiù?»

«Cosa vuol fare, sir? E' troppo lontana. Inoltre gira a causa del vento. Impossi-

bile colpirla.»

«Non tirerò alla sagoma del gallo, ma all'asticella di ferro che la sostiene.»

«Ma è impossibile, sir.»

Mi guardano come se avessero visto un fantasma.

Scommetto che stanno pensando che sono più matto di mio fratello.

Prendo il fucile e regolo l'alzo del mirino.

Poi mi chino a terra.

La pista è polverosa.

Prendo un po' di terra e la lascio cadere.

Osservo come cade la polvere.

Poi imbraccio il mio winchester, prendo lentamente la mira e, senza respirare,

premo leggermente il grilletto sensibilissimo.

I due ragazzi guardano il gallo di ferro cadere giù.

Si stropicciano gli occhi increduli.

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I due fratelli Rimangono senza parole e, prima che possano aprire bocca, arriva un ufficiale

che, con tono severo, urla: «Chi diavolo ha sparato? Cosa succede qui?»

Poi mi vede e capisce immediatamente chi sono.

Forse lo hanno già informato per telegrafo, ma di certo il mio abbigliamento la-

scia escludere ogni altra ipotesi.

Si avvicina e mi chiede: «Lei è il fratello di Jack, vero? Eagle, mi pare che sia il

suo nome.»

Dannazione.

Jack si merita una bella sculacciata.

Appena lo troverò sarà la prima cosa che farò.

«Sì. E lei è il comandante Pierce, vero? Ho una lettera di presentazione del ge-

nerale York che...»

«Non c'è bisogno di alcuna lettera. Venga nel mio ufficio. Le daremo tutto l'aiu-

to che chiederà.»

Siamo nel suo ufficio e siamo già passati al tu.

Abbiamo più o meno la stessa età e siamo entrambi molto affezionati a Jack.

Inoltre non mi dà l'idea di essere troppo formale.

Anzi.

Sono certo che mi avrebbe trattato così anche se io fossi solo un caporale.

E' un brav'uomo.

«Mi dispiace moltissimo per tuo fratello. Sono sicuro che è ancora vivo e...»

«E' ancora vivo. Lo so. Ma per cortesia, non chiedermi come faccio a saperlo.»

Mi guarda stupito come farebbe un bambino di fronte a un mago che ha fatto

sparire un elefante.

«E' ancora vivo. E io sono qui per tirarlo fuori dai guai in cui si è cacciato. Poi

tu lo metterai in congedo e io lo riporterò a casa.»

Mi accorgo che ho parlato come se stessi dandogli un ordine e cerco di scusar-

mi.

«Volevo dire che ti chiedo di metterlo in congedo.»

«Oh, non preoccuparti. Certo che lo farò. L'importante e che tu ci riesca. Come

farai? Hai già un piano?»

«Certo: penetro in territorio nemico, faccio fuori tutti i cattivi, trovo Jack e tor-

no indietro con lui.»

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Letizia

Prima che mi mandi a quel paese aggiungo: «No, non ho un piano. Sono appe-

na arrivato. Dovrò analizzare le mappe del territorio. Poi mi servirà una busso-

la e un buon cavallo.»

«Un cavallo? E che te ne fai?»

«Un'automobile o una motocicletta fanno troppo rumore. A me serve passare

inosservato. Meno persone incontro e meglio è. Un cavallo è l'ideale. Eppoi io ci

sono nato a cavallo.»

«Ma è una pazzia. Ci sono bombardamenti continui laggiù. Verdun è un vero

inferno. E chissà quanto durerà ancora. Non puoi sperare di attraversare l'in-

ferno a cavallo. Ti scapperà appena sentirà la prima cannonata.»

«Non credo.»

«Well. Inutile cercare di convincerti, vero?»

«Vero.»

«Quanti uomini ti servono? Ci saranno decine di volontari. Jack era molto ben-

voluto, sai? E il primo tra tutti è Frank Martin. Tuo fratello gli ha salvato la vi-

ta.»

«Andrò da solo.»

«Come? Ma sei matto? Andare da solo in zona di guerra? Non durerai un gior-

no.»

«Non credo. Tu pensa solo a mandare dispacci a tutte le vostre truppe che so-

no in zona. Mi seccherebbe lasciarci la pelle proprio per mano di fuoco amico.»

«Stai tranquillo, ci penso io. Se qualcuno dei nostri ti accoppa, poi vieni a pro-

testare da me.»

Ridiamo.

Almeno il buon umore non ci manca.

Passo tutta la notte a guardare le mappe e a studiare il terreno.

Devo dire che le carte che mi ha dato Pierce sono molto precise e dettagliate e

mi sono fatto già un'idea di come cavarmela in questo brutto impiccio.

L'equinozio di primavera è già passato e le ore di luce cominciano a essere più

di quelle di buio.

Domattina partirò molto presto.

O dovrei dire questa mattina perché vedo già i primi chiarori dell'alba.

Quando esco dalla palazzina comando in cui ho passato la notte, vedo Frank in

abiti civili che mi aspetta. 396

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I due fratelli Ha in mano le redini di due cavalli, il mio e un secondo che evidentemente è

per lui.

«Frank, vai al tuo aereo. Mi sarai più utile lassù.»

«No, sir. Non intendo andare da nessuna parte senza di lei. La seguirò anche

fino all'inferno, se necessario. E poi le posso essere molto utile. Mia madre è

nata in Belgio e conosco abbastanza bene il territorio dove probabilmente si

trova Jack.»

Lo guardo un po' e capisco che fa maledettamente sul serio.

Pierce è accanto a me e alza le spalle come per dirmi che lui non c'entra per

niente.

Prendo una delle mie colt navy e la punto in faccia a Frank che però non mi

sembra molto spaventato.

«Se vieni con me, ci lascerai certamente la pelle. Se ti ammazzo qui io, ti ri-

sparmio un sacco di fatica e di dolore.»

«Benissimo, sir. Faccia pure.»

«Sai, da noi si usa così. Per evitare che un cavallo soffra inutilmente, gli spa-

riamo in un orecchio.»

Armo il cane.

Lui mi guarda immobile con un'aria mista di paura e determinazione.

«Ma naturalmente tu non sei un cavallo» dico disarmando il cane e rimettendo

la colt nella fondina.

Cercando di non farsi notare, riprende a respirare.

Aveva trattenuto il fiato.

«Mi sarai solo d'impaccio. Scommetto che non sai neanche andare a cavallo.»

Senza parlare salta in sella con un balzo, senza neanche mettere il piede nella

staffa.

Fa impennare il cavallo e poi parte velocissimo al galoppo.

Fa un giro della pista e, senza fermarsi e sempre al galoppo, scende a toccare i

piedi per terra e poi risale in sella.

Sale infine in piedi sulla groppa e grida come un matto tra i commenti di am-

mirazione dei suoi commilitoni che fischiano e urlano più di lui.

E' davvero bravo.

Ma non glielo dirò mai.

Si ferma davanti a me inchiodando il cavallo e scendendo al volo. 397

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Letizia «D'accordo. Sai andare a cavallo. Ma ti deve essere ben chiara una cosa. Io ri-

porterò indietro te e Jack, sani e salvi. Ma se non mi sarà possibile salvare tutti

e due, sai bene chi dei due sacrificherò, vero?»

«Lo so e sono perfettamente d'accordo con lei, sir. Jack ha rischiato la vita per

salvare la mia e io sarò felice di dare la mia per salvare lui.»

«Ma Jack è stato fortunato ed ha ancora la pelle cucita addosso. Tu potresti

non avere altrettanta fortuna.»

«Sta cercando di dissuadermi, sir? La avverto che sono di origine irlandese e

che gli irlandesi hanno...»

«...la testa più dura del ferro. Lo so. L'America è piena di irlandesi cocciuti co-

me te.»

«Cosa aspettiamo a partire, allora?»

Una settimana dopo abbiamo superato l'ultima linea delle truppe anglo-

francesi.

Ci hanno tutti guardato come se fossimo elefanti rosa.

Per fortuna sapevano del nostro passaggio e così non ci hanno sparato addos-

so.

Frank ha trovato chissà dove un winchester e una colt.

E anche un cappellaccio che è una brutta imitazione del mio Stetson.

Siamo passati indenni sotto i bombardamenti tedeschi che sono incessanti.

Ma il peggio deve ancora venire.

Non ho fatto altro che vedere morti e feriti e sentire lamenti di chi ne aveva

ancora la forza.

E' una cosa terribile.

Scommetto che neanche il nonno, durante la guerra civile, ha mai visto tanto

orrore.

Tutto questo mi fa vergognare di appartenere alla razza umana.

Anche Frank è rimasto scioccato e ha dato di stomaco un paio di volte.

Viaggiamo di notte e ci fermiamo a riposare qualche ora di giorno.

Ho affumicato tutta la carne che ci ha dato Pierce, accendendo fuochi che non

si vedono neanche a cento metri di distanza.

Di giorno naturalmente, perché di notte nessuno è così bravo da evitare i ba-

gliori anche di un fiammifero acceso.

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I due fratelli Guardo spesso le carte militari di Pierce ed evito accuratamente di seguire iti-

nerari allo scoperto.

E questo per due motivi.

Per la nostra sicurezza e poi perché Jack non si nasconde certamente in spazi

aperti.

La notte non si vedono che i bagliori delle artiglierie tedesche che sparano in

continuazione.

Ma dove diavolo le trovano tante munizioni?

Frank e io ci fermiamo tra gli alberi.

Ho sentito un rumore.

Finora non abbiamo mai incontrato soldati nemici.

Per fortuna è solo un animale spaventato che scappa davanti a noi.

Non siamo sempre così fortunati.

Un paio di volte passiamo vicino ad accampamenti tedeschi che per fortuna

non sono mai affollati.

Al massimo una dozzina di soldati stanchi e assonnati e senza sentinelle.

Si sentono al sicuro.

Nessuno sarebbe mai così pazzo da inoltrarsi così nelle loro linee.

Ma una volta non ci è andata così bene.

Erano pochi, ma ci hanno visto.

Era inevitabile.

Abbiamo dovuto attraversare per forza un tratto allo scoperto.

Ci hanno visto e ci hanno sparato addosso.

Hanno però subito perso la voglia.

Ne ho feriti cinque o sei e si sono rintanati nel loro buco.

Non mi piace uccidere.

Il fatto però è che ora sanno che ci siamo e ci cercheranno.

«Colonnello, è un po' che glielo volevo chiedere. Sono un po' di notti che sento

il verso di uccelli rapaci. Ed è strano perché in questa zona non ce ne dovreb-

bero essere. Conosco il posto. In questa stagione non ci sono rapaci. Lei cosa

ne pensa?»

Sorrido.

Lui crede magari che penso che abbia detto una sciocchezza.

Ma io lo rassicuro. 399

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Letizia

«Te ne sei accorto, eh?»

«Che significa, sir? Accorto di che cosa.»

«E' un modo che usiamo io e mio fratello per comunicare.»

«Come? Sta dicendo che è stato lei a fare quei versi?»

«E' il grido dell'aquila reale americana. Credo proprio che qui non ce ne siano

mai state.»

«Comunicare con Jack con il verso di un'aquila. Questa poi non l'avevo ancora

sentita.»

«Se Jack è nelle vicinanze e lo sente, sa che sono io e uscirà dalla sua tana.»

«Ma non crede che sia un'imprudenza? Potrebbero sentirlo anche i tedeschi.»

«Certo. Ma chi potrebbe mai sospettare che sia un matto americano?»

«Beh, sir. Io ci ho trovato qualcosa di strano. Se fossi stato un tedesco e non

dovessi nascondermi, avrei indagato.»

«Non credo. Tu hai sospettato perché l'hai sentito più di una volta. Un tedesco

di passaggio lo avrebbe sentito una volta sola. E non si sarebbe insospettito.»

«Diavolo di un colonnello. Ma riuscite anche a "parlare" in questo modo? Cioè,

voglio dire, avete un linguaggio vostro? Comunicate, che so, la vostra posizio-

ne o che altro?»

«Beh, adesso non esagerare. Non è come l'alfabeto morse. Ma è sufficiente che

Jack lo senta, che sappia che sono io. La nostra posizione ovviamente è indica-

ta dalla provenienza del segnale.»

«Che mi venga ...»

«Zitto. Ho sentito qualcosa.»

«Io non ho sentito niente.»

«Zitto, ti dico.»

In lontananza sento il rumore impercettibile di fronde che si muovono.

Non c'è vento.

E' qualcuno che avanza nel sentiero tra gli arbusti.

«Tedeschi. Là, alla tua destra. Sta' giù.»

«Ora li sento anch'io.»

«Taci.»

Questa volta sono tanti davvero.

Almeno una trentina.

Ne vediamo passare prima una mezza dozzina. 400

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I due fratelli Dopo una decina di minuti vediamo gli altri.

Hanno anche dei pezzi di artiglieria leggera.

Strano che attraversino questo bosco.

Non è agevole trasportare cannoni tra la boscaglia.

Sento sopra la mia testa il rumore di aerei.

Frank riconosce il rumore.

Sono inglesi.

Magari è Pierce che pensa di darci una mano a passare inosservati attirando

l'attenzione dei tedeschi su di loro.

Uhm... questa volta.

Ci passano troppo vicini e noi non ci possiamo muovere.

Poi i mio cavallo si innervosisce e manda un nitrito che io non faccio in tempo a

smorzare.

E ci vedono.

Si scatena l'inferno.

Cerco di ferirli soltanto, ma poi capisco che c'è in gioco la nostra vita.

O noi o loro.

E allora mi scateno e anche Frank fa del suo meglio.

E' un discreto tiratore.

Ma io non ho eguali.

E non sbaglio un colpo.

Prima che possano organizzarsi ne butto giù almeno una dozzina.

Dio, sto uccidendo degli uomini.

Persone che non torneranno più a casa dalle loro famiglie.

E per colpa mia.

E' questa maledetta guerra.

Noi non facciamo altro che difenderci.

Uccidere o morire.

Vedo poi un soldato con una bomba a mano.

La sta tirando verso di noi.

Lo butto giù e la bomba esplode accanto ai suoi commilitoni causando una gran

confusione.

E allora mi viene un'idea.

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Letizia Scopro dove tengono le bombe e sparo nella cassetta da cui un soldato ne sta

prendendo un paio.

Una gran esplosione getta lo scompiglio tra i tedeschi alcuni dei quali saltano

letteralmente in aria.

Ne approfitto per cambiare posizione e faccio cenno a Frank di seguirmi.

Nella confusione i nostri cavalli sono scappati.

Siamo a piedi e senza rifornimenti.

Uhm... un bel guaio.

I tedeschi stanno approntando una mitragliatrice e aprono il fuoco.

Per fortuna sparano verso il posto dove ci trovavamo prima.

Ora però ci siamo spostati.

Sparo due colpi nell'otturatore della mitragliera che si sposta leggermente.

Non sono riuscito a far molto danno, ma pare che l'arma si sia inceppata.

Mentre un paio di tedeschi cercano di farla funzionare e altri ci sparano addos-

so, cerchiamo di sgattaiolare via di lì.

Anche se facciamo rumore, nessuno ci sentirà in mezzo a quell'inferno di urla e

spari.

Ci allontaniamo alla svelta.

Abbiamo fatto una carneficina e noi non abbiamo neanche un graffio.

Siamo stati fortunati ma siamo a piedi.

Ci daranno la caccia e sarà difficile fuggire.

Ma staranno in guardia.

Si sono resi conto che siamo pericolosi.

E questo ci darà un vantaggio.

E poi non sanno che siamo solo due.

Non pensano certo che due persone sole abbiano potuto fare tutto quel macel-

lo.

Ci stanno cercando.

Ma non ci troveranno mai.

Magari ci troveranno altri reparti, ma questo no.

Ci stanno cercando dalla parte opposta.

Non possono certo pensare che siamo così pazzi di inoltrarci ancora di più nel

territorio controllato da loro.

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I due fratelli Pensano certamente che stiamo scappando verso le nostre linee.

A piedi però non riusciamo a fare molta strada.

Dobbiamo nasconderci e passare per sentieri impervi, inadatti al passaggio del-

le truppe.

E dormiamo pochissimo e sempre con un occhio solo.

I bombardamenti sono incessanti.

Si sentono in lontananza i colpi di cannone e dalla parte opposta i bagliori delle

esplosioni.

Camminiamo tutta la notte senza fare brutti incontri.

La fortuna gira anche un po' dalla nostra parte.

Era ora.

Ma ho parlato troppo presto.

Davanti a noi una radura piuttosto estesa.

A est ricomincia la vegetazione fitta.

C'è una foresta laggiù e si trova più o meno nel posto dove è caduto Jack.

Ma bisogna arrivarci.

E' ancora buio, ma tra una mezzoretta cominceranno ad arrivare le prime luci

dell'alba.

Sto pensando di aspettare che arrivi di nuovo la sera per attraversare la radu-

ra.

Prendo il binocolo e guardo all'orizzonte.

Truppe tedesche.

Andiamo bene.

Cerchiamo un riparo e aspettiamo che passino, speriamo senza vederci.

Al diavolo.

Vedo nel binocolo un tedesco che sta guardando verso di noi.

Ha un binocolo anche lui.

Ci ha visti.

Stanno avanzando e fra un paio d'ore saranno qui.

Torniamo indietro facendo un largo giro ficcandoci il più possibile in mezzo alla

boscaglia.

Una pattuglia però ha visto la nostra manovra e viene verso di noi con un paio

di mezzi corazzati.

Sono maledettamente più veloci di noi. 403

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Letizia

Dovremo dar battaglia.

Cerco un posto favorevole per noi e preparo armi e munizioni.

Frank fa altrettanto.

Non sono ancora a tiro.

Ma io ho il mio winchester a canna modificata.

Comincio a sparare.

Ora non sparo più per ferire.

One shot, one dead.

Sparo prima ai conducenti dei mezzi che sbandano e si capovolgono.

Nella confusione che segue, continuo a sparare.

I tedeschi non si aspettavano una simile reazione.

Credevano di essere fuori tiro.

Si mettono al riparo, ma c'è sempre qualche buontempone che sporge la testa

per vedere.

C'era.

Ricarico in fretta, ma per noi c'è una sorpresa.

I tedeschi hanno montato una mitragliatrice e cominciano a grandinare proiet-

tili.

«Sta' giù, Frank.»

Cambio posizione e sporgo leggermente la testa per rendermi conto della si-

tuazione.

Un proiettile mi buca il mio bello Stetson quasi nuovo.

Sarà meglio che stia giù anch'io.

Quello che ho visto mi basta e avanza.

C'è una postazione con una mitragliatrice leggera e, ai due fianchi, soldati che

avanzano con circospezione.

E, come se non bastasse, la colonna di mezzi pesanti sta avanzando e ha quasi

raggiunto il manipolo che evidentemente era in avanscoperta.

La vedo brutta, molto brutta.

Sono troppi.

Non è possibile che finisca così.

Non ho trovato Jack, ho portato a morire con me un ragazzo, e mia madre

perderà due figli invece di uno.

E Sara... i bambini... 404

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I due fratelli No, dannazione. No.

Non finirà così.

Non deve finire così.

Mi alzo di scatto e sparo un colpo di fucile.

Uno solo.

Il soldato che sparava con la mitragliatrice cade all'indietro.

Le dita serrate sul pulsante di sparo non allentano la presa.

Continua a sparare disordinatamente e colpisce più di un commilitone.

I tedeschi hanno un attimo di smarrimento e si gettano a terra.

Scavalco i massi dietro ai quali sta ancora Frank rannicchiato e corro verso il

nemico.

Quando finisco i colpi del winchester sono abbastanza vicino per usare le colt.

Non sono veloce come Jack a sparare, ma me la cavo.

Ho ancora due colpi in canna quando intorno a me non ci sono che cadaveri.

Mi avvicino alla mitragliatrice e la giro verso la colonna che è ormai vicinissima.

Frank ci mette poco a rendersi conto di quel che è successo e corre da me per

darmi una mano con la mitragliera.

Comincio a sparare mentre Frank mi tiene il nastro dei proiettili e lo cambia

quando finisce.

Ma sono troppi, non ce la posso fare.

Sparo senza pensare mentre i proiettili ci fischiano accanto.

E poi il miracolo che nessuno si aspettava.

La radura è scossa da numerose esplosioni.

Sono i cannoni anglo-francesi.

Scommetto che c'è lo zampino di Billy The Kid che sta' guidando dall'alto del

suo aereo il tiro dei cannoni.

Ma il bello è che ci siamo anche noi in mezzo ed è facile essere colpiti dal fuoco

amico.

Non hanno ancora inventato i cannoni intelligenti che colpiscono solo quello

che devono colpire.

E sono certo che non li inventeranno mai.

«Vieni, Frank. Alziamo le tende. Qui c'è troppo rumore per i miei gusti.»

Ma non c'è bisogno di consigli.

Ci dirigiamo in fretta verso la boscaglia da cui siamo venuti. 405

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Letizia

Stavolta, con l'aiuto del Cielo, ce la siamo cavata.

Mamma, Sara... tornerò da voi e porterò mio fratello con me.

E' una promessa che manterrò.

Quando siamo un po' più tranquilli, do un'occhiata alla mappa e, aiutato anche

da Frank che conosce abbastanza la zona, cerco una via alternativa.

Facendo un largo giro e impiegandoci due o tre giorni di più, dovremmo essere

nella zona in cui è caduto Jack.

Un paio di giorni dopo, sentiamo il rumore di aerei sopra di noi.

E' uno solo ed è rosso.

E' lui, è il maledetto che ha abbattuto mio fratello.

Pierce me l'ha detto: il suo aereo è inconfondibile, tre piani alari rosso vermi-

glio.

Di quel colore c'è solo lui.

E sembra che ci abbia visto.

Siamo in un piccolo spiazzo aperto in mezzo a un bosco.

Si dirige verso di noi in picchiata e comincia a sparare.

Schizziamo al riparo come due gatti selvatici.

Ah sì, fai la voce grossa, eh?

Dopo la prima picchiata, si rialza e sta per fare un ampio giro per ritornare.

Ce l'ha proprio con noi, il bastardo.

Alzo il mirino del mio winchester e prendo con calma la mira.

Non aspetto che si metta in posizione.

Non gli permetterò di sparare neanche un colpo.

Vuoto velocemente il caricatore.

Ma non è lo stelo immobile di una banderuola su un campanile.

E' un aereo e il maledetto si muove troppo velocemente.

Ma i miei colpi non sono andati tutti a vuoto.

Qualcuno ha colpito la fusoliera perché ho visto che l'aereo ha avuto un sob-

balzo.

Lo vediamo poi riprendere quota e fare quindi un'ampia virata.

Se ne va.

Forse ha ritenuto che non valesse la pena perdere l'aereo, e la vita, per un

bersaglio così poco importante.

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I due fratelli Buon per lui.

«Incredibile, sir. Ha colpito un aereo in picchiata. Non credevo fosse possibile.»

«Ma non l'ho buttato giù, Frank. Quel maledetto se n'è andato.»

«Era il Barone Rosso, sa? E quello che...»

«Lo so, Frank. E' stato lui ad abbattere Jack.»

«E' un tizio maledettamente in gamba. Mi dispiace ammetterlo per un nemico,

ma è davvero bravo. Ha abbattuto parecchi dei nostri aerei.»

«Già. Ho saputo.»

A me dispiace solo di non essere riuscito a buttarlo giù.

Ma le mie priorità sono altre.

Devo trovare Jack, tenerci tutti e tre la pelle cucita addosso e ritornare nelle

nostre linee.

Non sarà facile.

Arriviamo senza intoppi in quella stramaledetta foresta dove spero di trovare

quel matto di mio fratello.

La giriamo in largo e in lungo per quasi una settimana, ma sembra deserta.

Niente tedeschi - e questo mi fa dannatamente piacere - ma purtroppo niente

Jack.

Lancio frequentemente il grido dell'aquila reale, anche di giorno, ma niente da

fare.

«Frank, taci e sta' giù. Ho sentito un rumore.»

«Un rumore? Dove? Io non ho sentito nulla.»

«Taci.»

Una pattuglia di tedeschi sta venendo verso di noi.

Non sono in molti e potrei aver ragione di loro molto facilmente, ma non mi va

di farmi sentire.

Potrebbero esserci altre pattuglie intorno e oggi stranamente non si sentono le

solite cannonate.

Sono vicinissimi a noi e tra qualche minuto ci vedranno.

Non possiamo muoverci perché saremmo scoperti subito.

Impugno le due colt.

Così sarò più veloce che con il mio winchester.

Ancora pochi metri.

Ma sento un rumore, dietro i tedeschi, come di un sasso che rotola. 407

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Letizia Anche loro lo sentono e cambiano direzione per andare a vedere cos'era.

Camminano con circospezione temendo un agguato.

Mi rannicchio con Frank nel mio buco e aspetto.

Il rumore dei passi dei tedeschi si fa sempre più debole.

Se ne stanno andando.

Evidentemente, dopo essersi accertati che probabilmente il rumore era stato

causato da qualche animale, hanno proseguito per un'altra pista.

Non avevano motivo di ritornare verso di noi.

Una pista vale l'altra.

Aspettiamo più di un'ora prima di muoverci.

Ed è allora che lo sento.

«Eagle, vecchio furfante. Lo sapevo che eri tu.»

E' la sua voce inconfondibile, il suo tono strafottente e, maledizione non ha an-

cora imparato, continua a chiamarmi Eagle.

«Jack, testa matta. Alla fine ti ho trovato.»

Sta lì davanti a noi, armato fino ai denti con tre o quattro bombe a mano tede-

sche che gli pendono dai cinturoni.

Solo lui era in grado di arrivarmi alle spalle senza che me ne accorgessi.

E' più silenzioso di un mocassino.

Scommetto che è stato lui a distogliere da noi l'attenzione dei tedeschi.

Ha lanciato un sasso nella direzione opposta.

«Ciao, fratellone. Ciao, Frank. Ci sei anche tu, vedo.»

Frank tra un po' ci rimane secco.

Mi avvicino a lui e lo stringo forte a me.

E anche lui si stringe a me.

«Mi fai vedere quelle bombe?» gli chiedo appena ci stacchiamo.

«Certo, tieni.»

Stacca il grappolo di bombe dalla cintura e me le porge.

Le prendo, le guardo con noncuranza e le do a Frank.

E poi un bel destro secco nella mascella di Jack che cade al suolo a gambe

all'aria.

«Sai, non volevo che ti facessi del male con tutti quei gingillini. Sarebbero po-

tuti esplodere.»

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I due fratelli «Non volevi che mi facessi male, eh?» risponde ironicamente tastandosi la ma-

scella con la sinistra.

«Ma me lo merito.»

«Jack, sei tu. Non avrei mai creduto di ritrovarti, e sano e salvo. Sono quasi tre

mesi.»

Frank si è ripreso dalla doppia sorpresa.

Anche lo sganassone a mio fratello lo ha stupito.

«Già. non è stato facile. Ma come mai hai seguito mio fratello? Anzi, strano che

te l'abbia permesso.»

«Il colonnello infatti non voleva. Ma se voleva evitare di portarmi con sé, dove-

va uccidermi.»

«Colonnello? Ti hanno fatto colonnello? Ma dai. Proprio tu. I militari non ti sono

mai andati a genio e ora, ora sei addirittura un alto ufficiale.»

Ride.

«I gradi mi sono serviti. Mi hanno tutti trattato con i guanti. Se fossi stato solo

un semplice borghese, non ce l'avrei fatta ad arrivare fin qui.»

«Non ci credo. Quando ti metti in testa una cosa, nessuno ti può fermare.»

«Uhm... Sarebbe stato molto più difficile però.»

«Lo sapevo che eri tu. Stamattina all'alba ho sentito il richiamo dell'aquila rea-

le. Qui non ce ne sono. Quindi, anche se mi sembrava impossibile, potevi esse-

re solo tu. Sei venuto a cercarmi.»

«A cercarti e riportarti a casa. Sai, sei il figlio di un pezzo grosso che ha delle

conoscenze alla Casa Bianca.»

«Come?»

«Sì. Il generale York, nella lettera di raccomandazione che mi ha dato citava

proprio così: portare in salvo il figlio di un pezzo grosso americano, uno che ha

conoscenze alla Casa Bianca.»

«Ma dai.»

«Verissimo. Giuro.»

Scoppia in una risata fragorosa.

«Che hai da ridere. Lo sai anche tu che papà conosce di persona il presidente

Wilson.»

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Letizia «Certo, ma sentirti dire che pa' è un pezzo grosso americano... Lo sai che papà

non ci tiene. Ha anche rifiutato la candidatura a governatore. E sai anche tu

che ce l'avrebbe fatta.»

«Lo so.»

«Come stanno tutti? Papà, la mamma...»

Sono davvero arrabbiato.

«Come stanno? Come sta la mamma? Brutto pazzo che non sei altro. Non lo

sai come stanno?»

Sto urlando.

«Lo sai cosa ha fatto la mamma quando è arrivata la notizia dell'abbattimento

del tuo aereo? Non l'avevo mai vista piangere prima di allora. Neanche per lo

zio. Lo sai?»

«La mamma... ha pianto?»

«Sì, testa di legno. Per non parlare poi di Sara. Lo sai che ti vuole bene. E per

non parlare di quando sono partito. Si sentiva già vedova, dannazione.»

«Io... io... non volevo... non sapevo...»

«Cosa? Non volevi cosa? Cosa non sapevi? Non andavi a fare una scampagnata

con la tua bella.»

«Betty. E... Betty come sta?»

«Non lo so.»

Mi sto calmando.

«Non lo so. Non l'ho più vista da quando l'hai lasciata. Ma la mamma è andata

dai Morgan parecchie volte. Sono sicuro che le avrà chiesto di te.»

«Betty. Beth...»

Vedo che soffre per la pazzia che ha commesso.

Credo che se potesse tornare indietro non rifarebbe lo stesso errore.

«Non l'ho lasciata io. Mi ha lasciato lei.»

«Ma a chi vuoi darla a intendere, Jack? Non ci credi neanche tu. Sei tu che l'hai

lasciata. Lei ti ama ancora e non si sarebbe mai allontanata da te. Sei tu che

l'hai costretta. La colpa è tutta tua.»

Forse sono stato troppo duro, ma era ora che qualcuno gliele cantasse.

E poi, a dire il vero, era un po' che gli volevo mollare quel cazzotto.

Mi sono sfogato abbastanza.

«Ma ora basta. Ce ne torniamo indietro.» 410

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I due fratelli «Indietro? E dove?»

«Nelle nostre linee. Al campo del comandante Pierce c'è pronto il tuo congedo.

Ce ne torniamo in America.»

«Ma sei matto? Sono chilometri e chilometri da fare. E ci sono migliaia di tede-

schi armati fino ai denti. Senza contare le cannonate dei nostri.»

«E cosa vorresti fare? Rimanere qui? Io e Frank ci siamo già passati e ci ripas-

seremo tutti e tre.»

Jack ha molte cose da raccontarmi e anch'io ne devo raccontare molte a lui.

«Sai, fratellone. Quando quell'aereo rosso mi ha colpito, non è riuscito a farmi

neanche un graffio, solo una gran botta nello stomaco che mi ha fatto quasi

svenire. Ma nessuna ferita».

«Sì, lo so.»

«Lo sapevi? E come facevi a saperlo?»

«Sai, Jack. Il colonnello ci ha detto subito, a me e a Willy, che tu eri vivo. An-

che se non ci ha detto come lo sapeva.»

«Già. Come lo sapevi?»

«Il vecchio indiano. E anch'io "sentivo" che eri ancora vivo. Ricordi quando sei

stato attaccato dal grizzly? Io ero a miglia di distanza ma sentivo che eri in pe-

ricolo. C'è qualcosa che ci lega. Qualcosa di più del fatto di essere fratelli.»

«Il vecchio indiano? Perché non me ne stupisco? Avrei dovuto immaginarlo.»

«Ha avuto una visione proprio quando sono entrato in biblioteca e ho visto la

mamma piangere. Il grande Spirito gli ha fatto "vedere" la scena di quando sei

stato abbattuto. Ti ha visto atterrare incolume.»

Frank mi guarda come se fossi scappato da un manicomio.

Scommetto che sta pensando: e questo era sicuro che il fratello era vivo solo

perché gliel'ha detto un vecchio indiano che ha parlato con il Grande Spirito?

Magari pensa che anche lui, come me, deve essere un po' matto.

Ma non è così.

Ho assistito a cose che sono molto difficili a credere siano veramente accadute.

«La mamma ha pianto veramente per me? E anche la tua Sara?»

«Te ne meravigli?»

Tace.

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Letizia

Poi gli racconto tutto quello che mi è successo, a partire dal generale York, gli

racconto di Pierce, di quella testa matta di Frank e di tutto quello che abbiamo

dovuto sopportare.

«Sai che tuo fratello ha fatto fuori più di cinquanta tedeschi?» gli racconta

Frank.

«Più o meno» aggiungo.

«E non ti credere che ora dorma tranquillo, sai.»

«Anch'io non riesco più a dormire bene da quando ho ucciso per la prima vol-

ta.»

«Lo so. Ho letto le tue lettere.»

E lui mi racconta di sé e di come abbia dovuto nascondersi per sfuggire ai te-

deschi che gli davano la caccia perché avevano trovato i resti del suo aereo.

«Pensa come dovevano essere neri quando l'hanno trovato. La fusoliera zeppa

di aerei disegnati li deve aver fatti arrabbiare non poco.»

«Già. Erano come le tacche sul calcio della pistola di un killer professionista.»

Poi racconta di come si fosse costruito arco e frecce per andare a caccia senza

usare le armi da fuoco, per non farsi sentire.

E' stato praticamente circondato da un battaglione tedesco che gli ha impedito

di andarsene da lì.

Si nascondeva e rimaneva rintanato di giorno e di notte usciva solo per caccia-

re animali selvatici, lepri per lo più.

E anche per cucinare, cosa che faceva solo di giorno, usava mille attenzioni per

non farsi scoprire.

Jack sa accendere un fuoco, invisibile anche a tre metri, meglio di un indiano.

E non lascia mai tracce di cenere o altro.

Solo da due o tre giorni i tedeschi hanno levato le tende e se ne sono andati.

E ci ha incontrati.

Sono passate tre settimane e incredibilmente non abbiamo incontrato molte

noie.

Solo un paio di volte abbiamo dovuto dar battaglia, ma niente di preoccupante.

E ora abbiamo anche una mitragliatrice leggera e una decina di nastri.

E poi ora c'è anche Jack.

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I due fratelli Frank sarà anche un bravo ragazzo ma non è per niente un tiratore come noi

due.

Jack invece è quasi meglio di me.

Ora sono molto più tranquillo.

Inoltre non dovremmo essere molto lontani dalle linee anglo-francesi.

Le giornate in questa stagione non sono come da noi.

Le notti sono più corte.

Dipende dalla latitudine.

Quindi siamo costretti a muoverci anche nelle ore di luce.

Se ben ricordo non dovrebbe mancare molto alle nostre linee.

Ci dovremmo essere al massimo in un paio di giorni.

Ormai sta facendo buio.

Ci fermiamo per mangiare qualcosa.

Tra un paio d'ore riprenderemo il nostro viaggio.

«Papà ti ha mai raccontato, quando eri piccolo, di quel capo indiano che ha

guidato la rivolta contro gli uomini bianchi?»

«Quale capo indiano, Jack?»

«Non lo so. Un tipo strano che ha combattuto e ha sconfitto l'esercito nono-

stante gli howitzer.»

«Howitzer? Sei sicuro? Non mi risulta che sia mai successa una cosa del gene-

re. Gli indiani, se si esclude l'episodio di Custer, hanno avuto sempre la peggio

contro i soldati.»

«Così mi raccontava papà quando ero piccolo. Poi da grande ho cercato nei libri

di storia qualcosa del genere, ma non ho mai trovato nulla, Eagle.»

«Ma la pianti di chiamarmi con quel nome?»

Stavolta sono davvero arrabbiato.

«Il mio nome è Tex. Lo sai benissimo.»

«Certo che lo so, ma...»

Lo interrompo.

«Il mio nome è Tex Willer, come il nonno.»

«Sì, ma il tuo nome navajo è Aquila Nera, come il nonno. Più o meno.»

«E allora chiamami Black Eagle, ma non Eagle e basta.»

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Letizia

«Ma anche papà chiama Luna la mamma. E più corto e più intimo. E anche lei

lo chiama Falco e non Falco Nero. E anche il mio nome navajo è Falco nero,

come papà. Quindi...»

«Sei incorreggibile. E poi tu non hai un nome indiano. Quando sei nato, la

mamma avrebbe voluto chiamarti Kit, come lo zio di papà. Ma poi c'era già pa'

con quel nome e quindi ti ha chiamato Tiger Jack, come il vecchio indiano.

Quindi è quello il tuo nome indiano e non Falco Nero.»

«Il mio nome completo è Tiger Jack?»

«Non lo sapevi?»

«No. Tutti mi hanno sempre chiamato solo Jack. E anche nei miei documenti

c'è scritto solo Jack.»

«Ebbene, te lo dico io, allora. Il tuo nome è Jack Willer e il tuo nome navajo è

Tiger Jack. Contento?»

«Per la miseria.»

Frank sta ascoltando divertito il nostro battibecco, quando sento un lieve ru-

more, quasi impercettibile.

«Tutti zitti.»

«Ho sentito, Tex.»

Strano non mi ha chiamato Eagle.

Che sia rinsavito tutto di un colpo?

Ma la mia attenzione è rivolta tutta verso la fonte di quel rumore.

Nel giro di dieci minuti il rumore si fa più forte.

E' un convoglio nemico.

Lo osservo con il binocolo e poi guardo anche nei paraggi.

Diavolo.

E' già buio, ma riesco a vedere qualcosa che si muove all'orizzonte.

Non riesco a distinguere bene.

Ma poi mi domando: se sono truppe tedesche, perché non si fanno avanti e si

congiungono con il loro convoglio?

Invece pare che se ne stiano nascosti, come se fossero... per la miseria, come

se fossero in agguato.

Sta' a vedere che sono truppe anglo-francesi.

Il fronte dovrebbe essere più a ovest, ma è passato molto tempo e può essere

benissimo che si sia spostato. 414

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I due fratelli Se è così le nostre pene stanno per finire.

Staremo a vedere.

Jack intanto sta armeggiando insieme a Frank intorno alla mitragliatrice.

La sta sistemando in una posizione ottimale.

Molto bene.

«Jack, laggiù all'orizzonte. Potrebbero esserci delle truppe alleate. Da' un'oc-

chiata.»

Gli passo il binocolo.

Lui osserva attentamente e poi lo passa a Frank.

«Non si capisce bene, sir. E' buio e sono troppo lontani e ben nascosti.»

«Già» gli fa eco Jack.

«Però» continua, «si tengono nascosti. Perché?»

«E' quello che ho pensato anch'io, Jack. Sembrano in agguato.»

La conferma che sono nostri soldati arriva quasi subito.

Dall’orizzonte partono salve di cannone.

Deve essere artiglieria leggera.

C’è un grande scompiglio tra le fila tedesche, però ci mettono poco a organiz-

zarsi.

Anche loro hanno dei cannoni leggeri che mettono brevemente in posizione,

ma la nostra artiglieria crea dei grossi vuoti tra di loro.

Vediamo saltare in aria due o tre mezzi pesanti e anche qualche cannone.

E' l’inferno.

«Evviva, gliele stiamo suonando.»

«Calma, Jack. Calma piccolo scalmanato. Non siamo ancora fuori dai guai.»

Odio aver sempre ragione.

I tedeschi, incalzati dai nostri soldati, arretrano e si dirigono verso noi tre.

«Che dici, fratello? Gliela diamo una scaldata?»

Jack tiene il pollice sul pulsante di sparo della mitragliatrice e, mentre Frank gli

tiene il nastro dei proiettili pronto a ricaricare, mi sta praticamente chiedendo il

permesso di sparare.

E’ proprio cambiato.

«Forza, ragazzi. Dateci dentro.»

I tedeschi, presi di sorpresa, cadono sotto i colpi di Jack come marionette cui

abbiano tagliato i fili. 415

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Letizia

Non siamo però ancora in salvo.

I tedeschi si avvicinano pericolosamente.

Non so quanti ne butto giù con il mio winchester.

Sento un lamento e vedo Frank cadere.

Ha una macchia rossa nella camicia, nella parte destra del petto.

«Frank» urlo.

«Non è nulla, sir. E’ solo una piccola ferita. Non si preoccupi.»

Jack smette di sparare per prestargli soccorso.

«Continua a sparare, Jack. Penso io a lui.»

«No, ce la faccio, sir. Non badi a me, continui a sparare anche lei.»

«Non dire idiozie, Frank» ribatto.

Gli do una rapida occhiata.

Per fortuna il proiettile è entrato e uscito.

Devo solo fermare l’emorragia.

Ma i tedeschi non ci danno tregua e devo interrompermi spesso per dare una

mano a Jack.

Sono così vicini che posso usare le pistole.

Chiedo a Frank se è in grado di togliere la polvere da sparo a un paio di proiet-

tili.

«Sì, certo, sir. Ma cosa vuol fare?»

Gli rispondo mentre continuo a sparare.

«Strappati la camicia e versa la polvere da sparo sulla ferita sul petto. Io poi

penserò al foro di uscita nella schiena.»

«Certo, sir. Però continuo a non capire.»

Si vede che non conosce gli usi e costumi del West americano.

Mentre continuo a sparare lui fa quello che gli ho chiesto.

Non sospetta niente, poveraccio.

Meglio così.

Prima che Frank si renda conto di quello che sto facendo, accosto velocemente

la colt alla sua ferita ed esplodo un colpo.

Le scintille prodotte incendiano la polvere cauterizzando la ferita.

Il povero Frank sviene dal dolore.

Meglio così.

Ora devo ripetere l'operazione nella schiena e non sentirà altro dolore. 416

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I due fratelli Mi devo interrompere spesso.

I tedeschi si fanno troppo sotto, incalzati dalle truppe anglo-francesi.

Alla fine ci riesco e finalmente il sangue non esce più.

Ora posso dedicarmi completamente a dare una mano a Jack che nel frattempo

ha finito i nastri e usa anche lui le colt.

Intorno a noi i tedeschi cominciano a diminuire di numero e alcuni si stanno già

arrendendo alle nostre truppe.

Era ora, finalmente.

E' stata una carneficina e non è stato per niente piacevole.

«Sembra che ce l'abbiamo fatta, Tex» mi dice mentre si avvicina verso di me.

«Pare proprio di sì, Jack.»

Non faccio quasi in tempo a vedere Jack rabbuiarsi in viso, estrarre e sparare.

Ma i colpi che sento sono due.

E sento un dolore lancinante alla schiena.

Le ultime parole che sento sono: «Tex. Mio Dio. Tex. Non morire, Tex. Non

morire. Ti prego.»

Poi più nulla.

La mano dipinta

E' stata una giornata orribile.

A pranzo eravamo pochissimi.

Con me c'erano solo papà, Tiger e Luna.

Sara è rimasta in città e i bambini sono stati tutto il giorno con Mamie.

Hanno pranzato con lei in cucina.

Ora stanno facendo la merenda.

E Jack... Jack non si è fatto vedere.

Forse siamo stati un po' duri con lui, ma se l'è ampiamente meritato.

Chissà ora dove diavolo si è ficcato.

Luna oggi non ha detto neanche una parola.

E' in pensiero per lui.

"Sarà voluto restare un po' in solitudine, a riordinarsi le idee. E' naturale" le ho

detto per rincuorarla un po'.

Ma senza risultato.

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Letizia Vedere la mia Luna così triste mi fa star male.

Mi concentro tutto sul lavoro.

Al ranch ce n'è sempre tanto.

Sono al recinto dei cavalli dove papà, che sta arrotolandosi una sigaretta, è se-

duto sulla staccionata.

«Sicuramente è andato nella riserva.»

Immerso nei miei pensieri, ho sentito a malapena le parole di papà.

«Come?»

«Jack. E' andato ad ovest. Scommetto che è diretto verso il Grand Canyon.»

«Può essere.»

«No. Sicuramente è così.»

«E tu come fai a saperlo, pa'?»

«L'ho visto partire, a fine mattinata. Era diretto a ovest. Va a vistare il Canyon.

Non c'è mai stato.»

«Potevi dirlo prima.»

«Cosa sarebbe cambiato? E poi prima non potevo immaginare che non sarebbe

venuto a pranzo. Pensavo a un ritardo. Lo faceva spesso prima.»

Prima.

Prima che partisse per questa maledetta guerra.

«Se a cena non si è fatto ancora vedere, domattina partiamo a cercarlo. Io, tu

e Tiger. Come ai vecchi tempi.»

«Pa', stai parlando di trenta e più anni fa. Non sei più un ragazzino e nemmeno

Tiger lo è. Vado da solo.»

«Stai pensando che ti rallenteremo, vero? Che siamo troppo vecchi. Possiamo

dare dei punti a tanti nostri cowboy.»

«Sicuramente. Ma non certo a me. Mi rallentereste.»

«Puoi avere bisogno di noi.»

«No.»

«Potrebbe capitarti qualcosa e noi ti aiuteremo.»

«Cosa vuoi che accada? Che mi caschi un meteorite sulla testa?»

«Ci sono ancora dei puma da quelle parti. Sei occhi vedono meglio di due.»

«Non credo proprio. Considerata la vista che vi ritrovate, tutti e due.»

«E' inutile che insisti. E poi non siamo noi che veniamo con te, sei tu che vieni

con noi.» 418

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I due fratelli Questa poi.

Ma tutto questo discorso è stato inutile perché sapevo benissimo che non lo

avrei convinto.

Testa dura.

«Ricordi quella volta che eravamo a caccia del puma? Quella volta che sono

stato catturato dagli Hualpai? 3»

«Pa', cosa vai a tirar fuori adesso? Sono passati tanti di quegli anni...»

«Sembra ieri.»

Nell'ombra di mio padre un velo di nostalgia.

«Ah, se ci fosse ancora il vecchio cammello. Tutti e quattro insieme, come ai

bei tempi...»

«Pa', lo zio Kit aveva quasi novant'anni. Una bella età per andarsene, non tro-

vi?»

Era meglio che stavo zitto.

«Certo che se ci fosse Junior al nostro posto, tu saresti molto più tranquillo,

vero?»

«Pa', smettila. Lo sai che Tex è...»

«Lo so. Lo so. Era solo una considerazione.»

Luna sta arrivando al recinto insieme a Tiger.

«Falco, non sarebbe il caso che tu andassi a cercare Jack?»

«Io vengo con te, Kit. E credo che anche Aquila della Notte...»

«Partiremo domattina tutti e tre.»

«Forse è meglio che partiamo adesso, papà. Dirò a Sam di prepararci i cavalli,

Luna ci preparerà delle provviste e io...»

«E' tutto già pronto, Kit. Cavalli, cibo e acqua, coperte, munizioni... Tutto quel-

lo che ci potrà servire.»

«Tutto pronto, eh? Hai pensato proprio a tutto, Tiger.»

«Non a tutto. Alle provviste ha pensato Luna d'Argento.»

Sam si sta avvicinando con sei cavalli, tre dei quali portano il nostro equipag-

giamento.

Tiger ha proprio pensato a tutto.

E ha previsto che non staremo via solo un paio di giorni.

3 Vedere "L'Aquila contro la Tigre", il primo romanzo della trilogia "I Navajo"

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Letizia Ma Jack ha non più di otto ore di vantaggio.

Spero che lo troveremo prima.

Un lungo bacio a Luna e poi in sella.

Tex, Tiger Jack e Kit Willer sono sul sentiero di caccia.

E così i tre pard partono insieme ancora una volta, ma questa volta non per

dar la caccia al criminale di turno.

Questa volta cercano una persona cara.

Luna d'Argento li guarda sparire all'orizzonte, con il disco rosso del sole che sta

tramontando e che fa da contorno alle loro sagome nere.

Quando non li vede più, si dirige verso casa.

Da est vede arrivare l'automobile che riporta Sara dalla città.

Sara e...

Corre verso di loro.

«Tex, oh Tex. Mio piccolo Tex» singhiozza quando arriva all'automobile che sta

fermandosi.

«Ciao, mamma» rispondono all'unisono.

E Sara aggiunge: «Mica tanto piccolo. E' alto un metro e novanta.»

«Ma è sempre il mio piccolo. Il mio bambino.»

E singhiozza ancora di più.

«Mamma dai, non fare così. Fai piangere anche me. Sono un po' malconcio,

ma sono ancora vivo.»

«Lo sai, mamma? Il governo gli ha messo a disposizione un intero vagone del

treno. Un vagone attrezzatissimo con tanto di letto e persino un medico e due

infermiere.»

«Sì. E le infermiere non erano niente male.»

«Oh, Tex. Sei incorreggibile. Sei mezzo morto e hai ancora voglia di scherza-

re.»

«Mezzo morto un corno. Sono solo un po' malconcio. Ed ho una fame da lupo.

Non vedo l'ora di essere a tavola con tutti voi. Papà, il nonno, il vecchio Tiger.

E i bambini. Non vedo l'ora di riabbracciare Charlie e Thomas.»

«Tex.»

Luna d'Argento si fa scura in volto.

«Che c'è, ma'? Dov'è Jack? E papà? Dove sono tutti?»

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I due fratelli «Tex, Jack se n'è andato verso ovest. Papà, il nonno e Tiger sono partiti

mezz'ora fa per andare a cercarlo.»

«Jack se n'è andato? Ma perché? Cosa è successo?»

«Vieni. Andiamo a casa. Ti racconterò. Sam e Gordon ti aiuteranno.»

Portare Tex a casa non è impresa facile.

Non è in grado di camminare da solo e pesa novanta chili.

Sam e Gordon faticano non poco, ma alla fine Tex è disteso in una comodissi-

ma poltrona nella biblioteca.

Tex ascolta attentamente sua madre che gli racconta tutto, da quando Jack è

arrivato fino al momento in cui lui e Sara sono arrivati.

«Questa mattina è andato a trovare Elisabeth» termina.

«E lei non deve essere stata troppo tenera con lui. E neanche noi lo siamo sta-

ti.»

«Già. Pensavo che Jack fosse molto più forte. Ma la guerra deve averlo cam-

biato molto. Ha visto, abbiamo visto troppi orrori.»

«Potevi venire anche tu, con lui, ieri. Forse Jack sarebbe ancora qui.»

«Mamma, non puoi darmi la colpa di questo, ora.»

«Oh, Tex. Non ti sto dando la colpa di niente. E solo che... che...»

E scoppia di nuovo a piangere.

«Mamma, ti prego. Non fare così.»

«Non ti preoccupare. Mi è passato. Vedrai, tuo padre tornerà con Jack e tutto

tornerà come prima.»

«Ma certo, mamma.»

Ma Tex non è molto convinto di quello che ha detto.

Oh, certo.

Jack tornerà a casa, ma niente sarà come prima.

Tex ha troppi morti sulla coscienza.

E Jack non è da meno.

I due fratelli hanno portato a casa la pelle, è vero.

Tex guarirà dalla ferita e col tempo ritornerà ancora a domare cavalli selvaggi.

Ma ci sono ferite che non si rimarginano.

Mamie arriva con i bambini che corrono strillando verso il loro padre che non

vedono da troppo tempo.

«Papà, papà.» 421

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Letizia «Papà sei tornato.»

«Cosa hai fatto? Perché sei bendato?»

«Papà è stato ferito dai cattivi. E' molto stanco. Lasciatelo riposare, da bravi.

Su, venite qui.»

«Lasciameli ancora un po', Mamie. Ho bisogno di stare un po' con loro. Ho bi-

sogno di sentire le loro grida d'allegria.»

E li abbraccia.

Sente delle fitte al petto, ma il dolore è compensato enormemente dalla gioia

che prova nell'abbracciare i suoi figli.

I suoi figli che per poco non avrebbero più visto il loro padre.

Tex si lascia sfuggire un leggero lamento.

«Ora però basta, bambini. Salutate papà e poi di corsa su con Mamie.»

«Sì, mamma.»

«Ciao, papà.»

I bambini danno un bacio al padre e poi spariscono con Mamie.

«Ma ora tu. Tocca a te raccontare. Chissà quante cose avrai da raccontarci.»

Luna d'Argento forse non è molto interessata a sentire parlare della guerra.

I suoi figli sono entrambi vivi, è questo che importa.

Null'altro.

Però pensa che parlarne non possa che fare bene al figlio.

E Tex racconta.

Racconta del viaggio, dell'Inghilterra, del suo volo verso la Francia.

Racconta del comandante Pierce e della sua gentilezza, degli amici di Jack.

Racconta di Frank e di come lo abbia aiutato nella sua ricerca.

Omette fino a quanto sia possibile tutti gli orrori, la morte e la distruzione cui

ha assistito.

E tace anche sul numero dei nemici che ha dovuto uccidere.

Racconta fino a quando ha sentito il colpo che qualche tedesco ferito è riuscito

a sparargli nella schiena prima di venire ucciso da Jack.

«Frank poi ho saputo che se l'è cavata. Gli alleati erano vicinissimi e ci hanno

portato in salvo tutti e due.»

Riprende fiato.

Ne ha bisogno.

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I due fratelli «Poi più nulla. Mi sono svegliato due giorni dopo in un ospedale francese e so-

no rimasto lì fino a quando non sono stato giudicato in grado di viaggiare. Un

sacco di tempo in realtà. E Jack è sempre stato lì con me. Mangiava lì con me e

dormiva su una sedia che doveva essere scomodissima. Ma i letti erano tutti

occupati. Troppi soldati che ne avevano bisogno. E molti non ce l'hanno fatta.»

Si interrompe mentre una lacrima gli scende sulla guancia.

«Ora basta» lo interrompe Luna d'Argento.

Si avvicina a lui e gli asciuga la lacrima con un bacio.

«Vado a preparare da mangiare. Mamie è con i bambini. Penso io alla cena.»

«Ci penso io, mamma.»

«No, Sara. Rimani qui con Tex. Faccio in un attimo.»

«Non ho fame, mamma. Mi è passato completamente l'appetito.»

«Ma a me no. E poi, storie. Non ci credo per niente. Scommetto che mangerai

un bisonte intero.»

Sparisce in cucina.

Lui rimane lì con Sara, mano nella mano.

Come quando erano fidanzati.

Mille anni fa.

Quando la madre ritorna con un vassoio fumante, non si ricorda nemmeno di

aver detto di non aver fame.

Fa sparire tutto in quattro e quattr'otto.

Due giorni dopo, i tre pard sono ancora sulle tracce di Jack.

Sembra instancabile.

Cavalca giorno e notte e si ferma solo ogni tanto per far riposare i cavalli.

«E' molto probabile che dorma a cavallo.»

«Tuo padre ha ragione, Kit. A quest'ora lo dovremmo aver già raggiunto. Ci

siamo fermati pochissimo.»

«Uhm. Forse è il caso di fare segnali di fumo. Se qualcuno l'ha visto ci rispon-

derà.»

«Buona idea, figliolo. Però non vorrei che Jack li vedesse e decidesse di na-

scondersi. Non sa che lo stiamo seguendo.»

«Jack è molto scaltro. Ci ha visti sicuramente e si nasconde.»

«Tanto peggio, Tiger. Tenteremo.»

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Letizia «Ok, ragazzi. Io vado a cercare un po' di legna.»

«Papà è proprio matto. Ci ha chiamati ragazzi.»

Più tardi accendono il fuoco e, con l'aiuto di una coperta, mandano il messag-

gio.

"Falco Nero, il grande capo di tutta la nazione Navajo, figlio del grande capo

Aquila della Notte, è sul sentiero di caccia.

E' sulle tracce del suo giovane figlio Tiger Jack che ha con sé due mustang

pezzati.

Cercate le sue tracce e riferite."

«E ora si tratta solo di aspettare.»

«Preparo il caffè. Ne volete una tazza?»

«Buona idea, Tiger» risponde Kit mentre il vecchio Tex si arrotola una sigaret-

ta.

I tre si concedono un po' di meritato riposo intorno ad un fuoco.

Sta cominciando a farsi sera e il calore del giorno comincia a diminuire.

All'orizzonte ben presto arriva la risposta.

Due colonne di fumo ravvicinate parlano a loro.

"Il giovane Navajo Mano Dipinta è stato visto vicino al posto chiamato Due

Denti.

Una decina di Navajo stanno dirigendosi là per avvisarlo che suo padre, il

grande capo Falco Nero, lo sta cercando."

Kit si fa scuro in volto.

«Mano dipinta?» chiede Tex incuriosito. «Cos'è questa storia della mano dipin-

ta?»

Kit sta per rispondere, anche se non sa ancora bene cosa dire, ma Tiger lo pre-

cede.

«Mano di Sangue4 è il nome del grande guerriero che ha guidato il popolo Na-

vajo contro le Giacche Azzurre.»

Kit impallidisce.

«E tu come lo sai?»

«Io ero al suo fianco nella grande battaglia in cui lo vidi per l'ultima volta.»

«Ehi, ma di cosa state cianciando voi due?»

4 Vedere "L'urlo del Falco", il terzo romanzo della trilogia "I Navajo"

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I due fratelli «E' una lunga storia, papà. Non l'ho raccontata a nessuno, neanche a Luna. Ne

ho solo accennato qualcosa a Jack quando era molto piccolo, come se fosse

una favola.»

«Io conosco quella storia. La conosco molto bene.»

«Perché non me ne hai mai parlato, Tiger?»

«Non era una buona cosa. Meglio tacere. E poi non sapevo se tu ricordavi. Tuo

padre e Carson non ricordavano nulla.»

«Ma di che accidenti parlate? Cosa non ricordavamo?»

«Pa', te la racconterò strada facendo. Ma ora dobbiamo correre verso i Due

Denti. Devo assolutamente trovare Jack prima che faccia qualche pazzia.»

Kit getta il caffè sul fuoco e balza su uno dei suoi cavalli.

Parte al galoppo trascinandosi dietro l'altro.

Tiger lo imita subito dopo e Tex rimane un attimo sbigottito prima di seguire i

suoi pard.

«Ma che diavolo gli piglia a quei due?»

Elisabeth sta arrivando al galoppo al ranch dei Willer.

Ha saputo che Jack se n'è andato via da casa.

Lascia il suo cavallo dinanzi alla casa.

Entra nel salone e vede Mamie sulle scale che tiene per mano i bambini.

«Zia Betty, zia Betty» gridano in coro Charlie e Thomas.

«Ciao, Mamie. Dov'è la signora Willer?»

«E' in biblioteca con il signor Tex e Sara.»

«Grazie, Mamie.»

Si precipita in biblioteca dove trova Tex seduto su una poltrona e Sara che gli

sta cambiando le fasciature.

Luna d'Argento non c'è.

E' di là in cucina che sta preparando qualcosa da mangiare.

«Buongiorno, signor Willer. Signora.»

«Oh ciao, Elisabeth. Vieni, siediti.»

«Signor Willer, Jack...»

«Non preoccuparti, Elisabeth. Jack tornerà presto, vedrai. Ha soltanto bisogno

di starsene un po' da solo. Devono rimarginarsi parecchie ferite.»

«E' ferito? Sta male ? Come...»

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Letizia «No no. Le sue ferite non sono fisiche. Dal quel lato sta benissimo. Certamente

meglio di me.»

«Sono una stupida e una maleducata. Mi perdoni, signore. Non le ho neanche

chiesto come sta.»

«Oh, non ti preoccupare. Sei in pensiero per Jack, è evidente. Ma ti ripeto, non

temere. Tornerà presto. E' molto cambiato, sai? Ha sofferto molto. Ha visto co-

se atroci in Europa. E si è reso conto di tutta la sofferenza che ha causato agli

altri.»

Si interrompe un attimo.

«E anche a te.»

«E' per colpa mia che se n'è andato.»

«No Elisabeth. Non è colpa di nessuno.»

«Io... io l'ho trattato male. Io... gli ho detto che non avrei mai più amato nes-

suno e neanche lui. Ma non è vero... non è vero. Io lo amo ancora, Lo amo an-

che più di prima. E adesso che ho saputo che se n'è andato via, mi sento mori-

re...»

«Elisabeth, bambina cara.»

Si volta e vede la madre del suo Jack.

Le corre incontro e la abbraccia piangendo.

«Non piangere, bambina mia, non piangere. Il nostro Jack ritornerà a casa. Mio

marito è andato a cercarlo con suo padre e Tiger. Quei tre sono dei mastini.

Non hanno mai abbandonato una traccia. E non hanno mai fallito. Torneranno

con Jack, vedrai.»

«Ma il nonno e l'indiano sono molto vecchi. Non ce la faranno mai a star dietro

a Jack. Lui è giovane e molto forte e...»

La voce di Tex la interrompe.

«Non vorrei essere nei tuoi panni se il nonno ti sente dire che è vecchio. E an-

che Tiger. Scommetto che i tuoi bei capelli starebbero molto bene appesi alla

sua cintura.»

Ride.

E un cenno di un sorriso appare anche sul viso rigato dalle lacrime di Elisabeth.

«Ma adesso basta. E tu, Elisabeth, è ovvio che rimani a pranzo da noi.»

Il tono di Luna d'Argento è perentorio, di quelli che non ammettono rifiuti.

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I due fratelli «E poi ti farà bene giocare un po' con i bambini. Sai che ti vogliono bene. Ti

chiamano già "zia Betty". Manderò uno dei ragazzi da tua madre per avvisarla

che ti fermi da noi.»

Si avvicina poi al figlio.

«Come stai, tesoro? Come va la tua ferita?»

«Molto meglio, ma'. E' stata una fortuna che la pallottola non abbia leso organi

vitali. E' stata fermata da una scapola che si è solo incrinata un po'. Ma ora,

quando muovo il braccio destro, non mi fa più male come prima.»

«E la ferita alla schiena è già un pezzo che non sanguina più. Ci rimarrà solo la

cicatrice» aggiunge Sara.

«Bene. Molto bene. E allora tutti a tavola. E' pronto. Sara, tu va' a chiamare

Mamie con i bambini.»

«Ma è una storia assurda.»

«Eppure è vera, pa'. E Tiger te lo ha già confermato. Conosce dei particolari

che può sapere solo chi l'ha vissuta personalmente.»

«Così è.»

«Cioè vorreste venire a dirmi che Luna d'Argento è stata uccisa e che poi è re-

suscitata? Che tu, Tiger, ti sei preso una fucilata e che sei passato a miglior vi-

ta? E che poi anche tu sei stato miracolato?»

«No, papà. Le cose non stanno così.»

«E come stanno allora?»

«Quando stavo tornando a quello che era stato il villaggio di Orso Macchiato

per piangere l'ultima volta sulla tomba della mia Luna, dopo quasi un anno...»

«Vuoi dire che questa storia è durata un anno?»

«Quasi, pa'. Vi ho visti da lontano venire verso di me. Tu e lo zio Kit. Credevo

voleste convincermi e fermare l'assurdo genocidio del popolo navajo.»

Un lungo silenzio.

«Ebbene?»

«Ebbene, è successo qualcosa di molto strano, qualcosa che non riesco a capi-

re neanche adesso. Eppure ci penso molto spesso.»

«Cosa? Cosa è successo, diamine.»

Il vecchio Tex comincia a spazientirsi.

E' ovvio che non crede una parola di quello che ha sentito.

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Letizia «E' successo che mi sono ritrovato indietro nel tempo. Prima del matrimonio.

Tiger era ancora vivo. Cioè non era mai morto. Tu e lo zio stavate venendo al

villaggio per la cerimonia. E soprattutto Luna, la mia Luna, la mia promessa

sposa, era ancora viva. Ma io avevo ancora addosso le ferite ricevute in decine

di battaglie. Avevo ancora la mano dipinta sul mio petto, disegnata con il mio

sangue e con quello dei miei nemici. Mi chiamavano "Mano di Sangue".»

«E' assurdo. Non è possibile.»

«Eppure è la verità, papà. E c'è di più.»

«Cosa, dannazione? Cosa c'è ancora oltre tutto questo? Cosa può esserci di

più?»

«Ho visto la mamma.»

«Cosa?»

«Sì, papà. Ho visto la mamma, il suo spirito. Portava al collo una collana di

turchesi con una stella azzurra al centro. Credo di lapislazzuli.»

Tex sbianca in viso, incapace di parlare.

«E' stata Lilyth. Con l'aiuto dello sciamano Te-Hi-Nak» aggiunge Tiger.

«Come... come fai a sapere della collana? Tu non gliel'hai mai vista. Non puoi

averla vista. Gliel'ho regalata io prima che tu nascessi. La pietra di lapislazzuli

l'avevo intagliata io a forma di stella. Lei non l'ha mai messa. Diceva che era

troppo preziosa per lei per poterla mettere. E quando lei... se n'è andata, la

collana è stata sepolta con lei.»

«Infatti non gliela avevo mai vista, pa'. Quando ho visto lo spirito della mam-

ma, era la prima volta che vedevo la collana.»

Un lungo attimo e i tre tacciono.

«Sai, pa'? La mamma mi ha sorriso. Era bellissima. Come la mia Luna. E' stato

il giorno delle nozze. E mi ha baciato sulla fronte5.»

E ora il vecchio Tex non è più tanto sicuro che suo figlio Kit sia poi così pazzo.

Forse comincia a pensare che quella storia di un anno vissuto due volte non sia

poi così tanto assurda.

Ha visto troppe cose soprannaturali nella sua lunga vita e poi, a dire vero, una

volta ha visto anche lui lo spirito della sua dolce Lilyth6.

5 Vedere il finale del romanzo "L'urlo del Falco" 6 Vedere "La luce nelle tenebre", il secondo romanzo della trilogia "I Navajo"

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I due fratelli

Quando arrivano a poche miglia dai Due Denti, intravedono una figura.

Kit prende il binocolo dalla tasca della sella e guarda.

Suo figlio Jack è in piedi, immobile accanto alle rocce.

Li sta aspettando.

E' a torso nudo e porta nel petto il simbolo di una mano dipinta con l'argilla.

In lontananza un gruppo di indiani a cavallo.

Sono certamente gli stessi che hanno risposto ai loro segnali di fumo.

Segnali che sicuramente ha visto anche Jack.

Arrivano e scendono da cavallo tutti e tre senza dire una parola.

Anche Jack tace.

Gli indiani sono ancora lontani.

Arriveranno tra qualche minuto.

«Come ti sei conciato, Jack?»

«Mi sono dipinto una mano rossa nel petto, padre. Come il guerriero di cui mi

hai raccontato.»

Andiamo bene.

Lo ha chiamato padre, come aveva fatto lui stesso quando suo padre era anda-

to a convincerlo a desistere dalla sua pazzia di combattere i soldati.

La storia si ripete.

Ma per Jack ci potrà essere un'alternativa?

Potrà tornare indietro e fare in modo che tutto torni come un anno fa?

Jack che non parte per la guerra, suo fratello che non è costretto ad andare a

cercarlo...

Troppo bello per essere vero.

«La mano che avevo io sul petto non era dipinta, come la tua, con della terra

rossa. Era dipinta con il mio sangue e con quello dei miei nemici.»

«Tu? Eri tu quel guerriero, pa'? Ma non è possibile. Il nonno non mi ha mai

raccontato storie del genere. E poi mi sono documentato. Non ci sono più state

guerre tra i Navajo e i soldati, da quando tu non eri ancora nato. E poi solo e-

pisodi che il nonno ha saputo evitare che si trasformassero in tragedia7.»

7 Vedere l'episodio di Tex "Sangue navajo"

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Letizia Kit allora si apre la camicia e scopre il suo petto mostrando le numerose ferite

ricevute durante la sua guerra indiana che per fortuna però "non c'è mai sta-

ta".

«E queste cosa sarebbero? Secondo te come me le sarei fatte? Andando a pe-

sca con tuo fratello?»

Jack tace.

«E ora, lavati quell'assurdo disegno sul petto e andiamocene a casa.»

«No, padre.»

«Non dire stupidaggini, Jack» risponde Kit mentre si avvicina al figlio.

Ma Jack arretra di un paio di passi ed estrae una delle due colt, puntandola

verso il padre.

«Stai indietro, papà. Ti prego stai indietro.»

Non lo ha chiamato "padre", lo ha chiamato "papà".

La risposta di Kit viene con voce tonante.

«Cosa vuoi fare, Jack? Vuoi sparare a tuo padre?»

Si avvicina ancora di più mentre il figlio arretra ancora.

Nel frattempo arrivano i Navajo.

«Ti prego, pa'. Stai indietro.»

Ma Kit si avvicina ancora e, prima che Jack possa reagire in qualche modo, af-

ferra la canna della colt con la sinistra e la sposta verso lato.

Poi gli sferra un destro tremendo che lo fa rotolare a terra.

I Navajo fanno per impugnare le armi.

«No, fermi» grida Jack passandosi il dorso della mano sulla bocca.

«Come? Come osi tu dare ordini ai miei Navajo? E vuoi, cuccioli di coyote, co-

me osate impugnare le armi di fronte a Falco Nero, capo supremo di tutto il

popolo navajo?»

La voce di Kit piena di collera intimorisce i giovani indiani.

Ma Tex e Tiger Jack portano istintivamente le dita sul grilletto.

«Non sono un cucciolo di coyote. Sono il grande guerriero Kid Coltello Giallo e

sono venuto con i miei prodi per unirmi a Mano Dipinta.»

«Cosa ne sai tu di Mano Dipinta, ragazzino?»

«Io so che Mano Dipinta è un grande guerriero che ha guidato i Navajo alla vit-

toria contro le Giacche Azzurre.»

Diavolo, ma questa storia la conoscono proprio tutti? 430

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I due fratelli «I Navajo vivono in pace con l'uomo bianco da prima che nascesse tuo padre,

cucciolo. Chi ti ha raccontato queste menzogne?»

«Non sono menzogne. Lo ha raccontato a mio nonno un grande sciamano che

era presente alla battaglia della vittoria del nostro popolo.»

«Un grande sciamano? E chi è costui?»

«E' il grande Te-Hi-Nak. Lo sciamano del grande capo Freccia Rossa.»

Il volto di Kit si fa sempre più scuro.

Te-Hi-Nak?

Possibile che lo sciamano sia andato in giro a raccontare della guerra navajo

contro i soldati?

Kit lo vide l'ultima volta quando celebrò le sue nozze con Luna d'Argento.

Anche Tex impallidisce.

Si ricorda dello sciamano che ha celebrato il matrimonio del figlio e di come

fosse rimasto sorpreso nel venire a sapere che il suo nome era lo stesso dello

sciamano che aveva spostato lui e Lilyth.

Il giovane navajo prosegue: «Noi riconosciamo in te il grande capo Falco Nero,

ma adesso vogliamo seguire Mano Dipinta. Lui è un vero Navajo. Tu ora vivi

nella tua grande casa come un bianco e non ti occupi più del popolo rosso.»

«Come come?»

Kit è furente.

«Il popolo navajo non è mai stato così bene. Da quando il grande capo Aquila

della Notte mi ha passato il comando della nazione, mi sono fatto in quattro

per il mio popolo.»

«Il grande capo Aquila della Notte non c'è più. Ora è solo leggenda.»

«Un corno. Aquila della Notte sono io.»

Se si dovesse fare una gara a chi è più "incavolato", non so chi la vincerebbe

tra il padre e il figlio.

E, se devo proprio dire, anche Tiger è terribilmente nervoso e il suo dito si con-

trae sempre più sul grilletto del suo winchester.

«E sono anche convinto che debba essere mio figlio Falco Nero a darti una le-

zione, giovanotto. E questa è la tua fortuna perché io avrei usato il tuo brutto

muso per spazzolare il terreno fino a far sparire tutta la polvere.»

«Tu... tu...» balbetta il giovane navajo «tu sei il grande Aquila della Notte?»

«Così pare.» 431

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Letizia E Kit incalza: «Il popolo navajo è diventato ricco. Ho usato parte dell'oro della

montagna sacra per portare il benessere. Ho acquistato tutte le terre della ri-

serva che ora il governo di Washington non può più togliere ai Navajo. Ci sono

delle carte che non possono essere ignorate come quelle dei trattati con gli al-

tri popoli rossi. I Navajo hanno un benessere che non ha eguali tra gli uomini

rossi. I Dakota, i Cheyenne, gli Apache... sono quasi scomparsi. Solo i Navajo

crescono e diventano sempre più forti.»

«Ed è con questa forza che sconfiggeremo gli occhi bianchi.»

«La forza da sola non conta niente. La forza senza la saggezza è soltanto stolta

ferocia. E la saggezza dice che le guerre non portano a niente. E poi, ricordalo

bene. La grande casa bianca in cui vivo con la mia sposa e la mia famiglia è

stata costruita solo con il nostro denaro. Neanche un mattone è stato comprato

con l'oro dei Navajo. Il denaro ci è stato donato dal governo per tutti i servigi

che abbiamo reso loro, al servizio della legge e della giustizia.»

«Giustizia dei bianchi.»

«Non c'è colore nella giustizia.»

«Mano Dipinta ha difeso i Navajo meglio di te. E ora tuo figlio ha raccolto la

sua eredità. Ora è lui Mano Dipinta, il nostro capo.»

Kit ha stranamente ripreso la sua solita calma.

Si toglie la camicia che aveva già aperta e afferra il suo coltello.

E' lo stesso bowie che ha da quando era ragazzo, quello che gli ha regalato il

padre.

E' un vecchio coltello ma è sempre lucido e affilato che sembra nuovo.

E taglia come un rasoio.

Si passa la lama sul petto e intinge le dita sul filo di sangue che esce dalla feri-

ta.

Si preme poi la mano insanguinata sul petto su cui spicca ora una mano rossa.

«Io sono Mano di Sangue.»

Tutti i presenti ammutoliscono.

«Tornate alla vostra tribù, ora. E non riferite ad alcuno ciò che avete visto e

udito oggi. E se qualcuno vi chiede qualcosa, dite che lo spirito di Mano di San-

gue veglierà sempre sul grande popolo navajo e chiederà al gran Dio Manito

che mantenga la pace tra gli occhi bianchi e i Diné.»

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I due fratelli Il Kid abbassa gli occhi e poi salta in sella al suo mustang.

«Andiamo» ordina ai suoi uomini.

I Navajo si allontanano in fretta.

Kit prende una borraccia dalla sella del cavallo e la lancia a suo figlio.

«E adesso lavati quell'assurda macchia di fango nel petto.»

Jack afferra la borraccia al volo e in breve si toglie l'argilla dal petto.

Lancia poi la borraccia al padre.

«Lavati la ferita, pa'. Sta continuando a sanguinare.»

«Non preoccuparti. Il taglio è superficiale e sottilissimo. Il mio coltello è più af-

filato di un rasoio e la mia mano è stata molto leggera» risponde Kit cancellan-

do la mano dal suo petto.

«Bravi. Adesso che siete puliti e profumati, togliamo le tende e torniamocene a

casa.»

«No, nonno. Andate voi. Io non vengo. Non posso tornare.»

Kit comincia ad arrabbiarsi sul serio.

«Jack. Mi sto stancando. Ora tu vieni a casa con noi. E non una parola con la

mamma su questa storia di Mano di Sangue. E anche voi, giovanotti, acqua in

bocca.»

«Grazie per i "giovanotti", Kit.»

«Papà non posso tornare a casa. Cosa vengo a fare? La mia vita è distrutta. Ho

quasi causato la morte di mio fratello, ho fatto soffrire tutte le persone che mi

vogliono bene, Elisabeth non mi vuole più vedere. E ho parecchi morti sulla co-

scienza. Non ti sembrano motivi sufficienti per desiderare di stare solo?»

«Già, hai ragione. Che ci torni a fare a casa? In fondo che frega alla mamma di

te? E a tuo fratello? In fondo ha rischiato solo la vita per venire a cercarti e

portarti a casa sano e salvo. A lui che gliene frega? Sara, i bambini, Mamie, i

cowboy, tutti quanti. Non frega a tutti un bel niente di te.»

«Hai dimenticato Elisabeth, pa'. Per non parlare di te.»

«No. Non ho dimenticato. A me invece frega. E son convinto anche a Elisa-

beth.»

«Pa'...»

«Sei un gran egoista, Jack. Non pensi a tutte le persone che ti vogliono bene, e

non ci hai mai pensato. Non pensi che loro hanno ancora bisogno di te.»

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Letizia «No, pa'. Loro hanno bisogno di Jack. Ma Jack non c'è più. E' rimasto a Verdun.

Quello che è tornato non è lui. Ed è meglio che sparisca prima che qualcuno se

ne accorga.»

«E allora vai. Dirò a tua madre che sei morto. Non è questo che stai dicendo?

Jack è morto in Europa. Quello che è tornato è un impostore. Mentirò a tua

madre. Le dirò che per sfuggirmi sei caduto in un dirupo e ti sei sfracellato tra

le rocce.»

«No, papà. Non farlo. Ti prego.»

«E perché no?»

Jack tace.

Lentamente sale in sella al suo pezzato, prende le redini del suo secondo

mustang e comincia ad allontanarsi.

Suo padre, suo nonno e il vecchio Tiger lo guardano ammutoliti.

«Torna a casa, Jack.»

La voce femminile alle sue spalle lo fa fermare.

Una voce dolcissima.

Jack si volta stupito.

E la vede.

E' una giovane navajo bellissima che gli ripete: «Torna a casa, Jack.»

La giovane navajo

E questa da dove è spuntata?

Prima non c'era, ne sono sicurissimo.

Oltre a me c'erano solo papà, il nonno e il vecchio Tiger.

Che sono ancora là e mi stanno guardando.

Questa ragazza non c'era.

E' bellissima nella sua candida veste di daino e la sua voce è giunta alle mie

orecchie come una musica dolcissima.

Chi sarà mai?

«Chi sei, ragazza? E come sei arrivata qui? Conosci il mio nome. Ci siamo mai

visti prima?»

L'ultima domanda è un po' sciocca perché se l'avessi già vista, mi ricorderei

senz'altro di lei.

434

Page 435: TuttoLet - Altervistapecosbill.altervista.org/Romanzi/TuttoLetizia.pdfTex Willer - Aquila della Notte Kit Carson - Capelli d'Argento Kit Willer - Piccolo Falco - Falco Nero - Mano

I due fratelli «Tu sei Tiger Jack. Tua madre è Luna d'Argento, figlia del capo Orso Macchia-

to. E tuo padre è Piccolo Falco, figlio del grande capo Aquila della Notte.»

Conosce anche i miei genitori, a quanto pare.

«Il nome di mio padre non è Piccolo Falco, ma Falco Nero, capo di tutta la na-

zione navajo.»

«No. Il nome che gli è stato dato alla nascita è Piccolo Falco. Quello è il suo

nome. Gli sono poi stati dati altri nomi: Kit, Falco Nero, Mano di Sangue. Ma il

suo nome è Piccolo Falco.»

Accidenti, ma chi è questa ragazza che sa così tante cose di papà?

Sa anche di Mano di Sangue.

Io perbacco l'ho saputo solo ora.

«Chi sei tu dunque, che conosci così tante cose di mio padre e di me? E perché

mi chiedi di tornare a casa?»

«Tua madre ti sta aspettando in ansia.»

Dannazione, non mi ha ancora detto il suo nome.

«Mia madre sta aspettando suo figlio Jack. Sta aspettando un figlio che non e-

siste più. Ora al suo posto ci sono io e io non sono più il figlio che lei amava.»

«Tu sei il figlio che ora lei ama. E anche Beth ti ama.»

Mannaggia, conosce anche Beth.

E l'ha chiamata Beth come la chiamo solo io.

Tutti gli altri, compresa sua madre, la chiamano Elisabeth.

«Beth non mi ama più. Mi ha lasciato.»

Poi mi correggo.

«L'ho lasciata.»

«Beth ti sta aspettando. In questo momento è da tua madre e sta piangendo

per te.»

«Come puoi dirlo? Beth non vuole più vedermi.»

«Questo è quello che pensi tu. Lei ora ti sta chiamando per nome e sta pre-

gando affinché tu ritorni da lei.»

«Mi stai prendendo in giro. Lei non mi ha perdonato. Non vuole più...»

«Lei si sta asciugando le lacrime con il fazzoletto azzurro di seta. Quello che le

hai donato tu il giorno che l'hai baciata per la prima volta.»

435

Page 436: TuttoLet - Altervistapecosbill.altervista.org/Romanzi/TuttoLetizia.pdfTex Willer - Aquila della Notte Kit Carson - Capelli d'Argento Kit Willer - Piccolo Falco - Falco Nero - Mano

Letizia

«Tu... tu... come fai a sapere queste cose? Lo sappiamo solo io e Beth. Anche

gli altri sanno che è un mio regalo, ma nessuno sa in che occasione gliel'ho re-

galato.»

«Io c'ero.»

«Tu c'eri? Ma cosa stai dicendo?»

«Eravate nel vostro bosco, l'Arora. Io ero lì che vegliavo su di voi.»

La guardo come inebetito.

«Ero lì a vegliare su di te, come ero presente in Francia a proteggere te e tuo

fratello Tex.»

«Tu... tu... Ma chi sei?»

«Jack. Credo che sia l'ora di smetterla.»

E' la voce di mio padre che sembra venire dall'oltretomba.

Non mi ero accorto che lui e i due "giovanotti" si stavano avvicinando a me.

«Ora ce ne torniamo a casa. Con le buone o con le cattive. Io ti ci vorrei porta-

re tutto intero, ma se mi obblighi... Ho già chiesto a Tiger, nel caso in cui ce ne

fosse bisogno, di costruirmi un bel travois.»

Strano che non abbia detto una sola parola su questa misteriosa ragazza che...

Noto solo ora che non c'è più.

Ma dove cavolo si è cacciata?

«Sai, nel caso in cui tu non sia più in grado di cavalcare, dopo che avrò con-

sumato i miei stivali sul tuo sedere.»

Non afferro una sola parola di quello che dice.

«Pa', non l'hai vista quella ragazza navajo che parlava con me?»

«Ragazza? Quale ragazza? Senti se è un tuo maldestro tentativo di...»

«La ragazza navajo. Quella ragazza bellissima che...»

«Stai a sentire, Jack. Ora sto perdendo la pazienza...»

Vedo il nonno che mi sta guardando come se fossi un elefante verde.

Tiger invece mi sta guardando con un'espressione impenetrabile.

Non ho mai capito cosa gli frulla in quella testa.

«Papà, vuoi dire che non hai visto la ragazza indiana? Tu non l'hai vista, non-

no? E tu, Tiger?»

«Senti nessuno ha visto nessunissima ragazza per la semplice ragione che

"non c'era" nessuna ragazza. Ti sta dando di volta il cervello?»

436

Page 437: TuttoLet - Altervistapecosbill.altervista.org/Romanzi/TuttoLetizia.pdfTex Willer - Aquila della Notte Kit Carson - Capelli d'Argento Kit Willer - Piccolo Falco - Falco Nero - Mano

I due fratelli «No, papà. Ti assicuro. C'era eccome. E'... è comparsa come dal nulla e io...»

«Senti, Jack. Andiamo a casa. Ne riparleremo. Magari dopo che ti sarai fatto

una bella dormita. Scommetto che sei stanco morto.»

«Papà, lo so che mi credi pazzo. Ma io l'ho vista. Le ho parlato. Mi ha detto del-

le cose...»

«Che diavolo ti ha detto?»

Credo che pa' stia perdendo la pazienza.

Loro non l'hanno vista davvero.

Ma lei c'era e mi ha detto cose che nessuno poteva sapere.

«Lei ti conosce, pa'. Conosce il nonno, la mamma. Conosce anche Beth e sa

delle cose di noi che nessuno poteva sapere.»

«In nome del cielo, Jack. Cosa hai fatto a Elisabeth?»

«Beth? Ma no, papà. Cosa hai capito? Io e Beth... oh insomma, non l'ho mai

toccata neanche con un dito.»

«Ah. Bene.»

E aggiunge: «Hai davvero visto questa ragazza?»

«Sì, papà. Era una giovane ragazza navajo. Era bellissima nella sua veste di

daino in cui spiccava la sua collana di turchesi con quella sua strana pietra.»

«Quale pietra?»

Papà e il nonno sono sbiancati in viso.

«Cosa avete voi due? Non vi sentite bene? Sarà meglio che ce ne andiamo su-

bito a casa. Tutti e quattro. Ne abbiamo tutti un gran bisogno. Ho avuto una

notizia meravigliosa: Beth mi ama. Mi ha perdonato e mi sta aspettando.»

«Quale pietra?» insiste papà.

E ci si mette anche il nonno ora: «Quale pietra, Jack?»

Ma che cavolo hanno tutti e due?

«Una pietra stranissima. Un lapislazzulo credo. Una pietra che aveva una stra-

na forma.»

«Che forma aveva, Jack? Che forma aveva?»

Ma perché la cosa è così importante per loro?

«La forma di una stella, papà.»

437

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Letizia I dieci Comandamenti degli Indiani d’America La Terra è la nostra Madre, abbi cura di Lei.

Onora e rispetta tutti i tuoi parenti.

Apri il tuo cuore ed il tuo spirito al Grande Spirito.

Tutta la vita è sacra, tratta tutti gli esseri con rispetto.

Prendi dalla Terra solo ciò che è necessario e niente di più.

Fai ciò che bisogna fare per il bene di tutti.

Ringrazia costantemente il Grande Spirito per ogni giorno nuovo.

Devi dire sempre la verità, ma soltanto per il bene degli altri.

Segui i ritmi della natura, alzati e ritirati con il sole.

Gioisci nel viaggio della vita senza lasciare orme.

Preghiera Sioux

Rallenta il ritmo della mia vita, Signore.

Calma il battito del mio cuoreacquietando la mia vita.

Rallenta il mio passo frettolosocon una visione delle eterne distese del tempo.

Dammi in mezzo alla confusionela calma stabilità della montagna millenaria.

Spezza la tensione dei miei muscolicon la serena musica del canto degli uccelli.

Aiutami a conoscereil magico potere del sonno.

Insegnami l’arte di prendermibrevi momenti di pausa,di rallentare il mio ritmo per osservare un fiore,accarezzare un animale,leggere un buon libro.

Ricordami ogni giornola favola della lepre e della tartarugaperché possa imparareche nelle corse non sempre vince chi va più velocee che nella vita si può fare qualche cosadi meglio che aumentare la propria velocità.

Fa che io alzi lo sguardo alla grande querciae sappia che essa è diventata grande e forteperché è cresciuta lentamente e bene.

Rallenta il ritmo della mia vita, o Signore,e ispirami ad affondare le mie radiciaffinché io pos-sa innalzarmiverso le stelle del mio più grande destino.

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I due fratelli

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Letizia

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Prefazione seconda trilogia Albuquerque

La seconda trilogia "Albuquerque" racconta altre vicende di Tex Willer e dei

suoi pard, attraverso tre capitoli.

Sono tre romanzi che hanno, come la precedente trilogia “I Navajo”, una con-

tinuità tra il precedente e il successivo e, naturalmente, la seconda trilogia ha

continuità con la prima.

Ogni romanzo racconta una storia completa, ma possiamo considerare la trilo-

gia come un unico romanzo diviso cronologicamente in tre parti.

Il filo conduttore, il protagonista, non è un uomo. Non sono, come nella trilogia

precedente, i Navajo.

Il protagonista assoluto è una terra, uno degli Stati Uniti: il New Messico.

O meglio, la protagonista è una città, che poi è la più importante e la più gran-

de città dello stato, anche se la capitale è Santa Fé.

Albuquerque.

El Paso, che è certamente più grande e importante di Albuquerque, si trova in-

fatti nello stato del Texas, anche se a un tiro di schioppo dal confine con il New

Messico.

Albuquerque è onnipresente nei tre romanzi e si merita perciò il titolo di questa

antologia.

Non è sicuramente l’unica città nominata nella trilogia, ce ne sono molte altre e

sono anche nominati parecchi luoghi.

Tutti rigorosamente reali e documentabili.

Perfino Gallup, la città confinante con la riserva Navajo nominata più volte nel-

le avventure “ufficiali” di Tex, è una città realmente esistente.

In questa presentazione faremo due chiacchiere sui luoghi in cui Tex vive que-

ste tre avventure.

E naturalmente, vi risparmierò la fatica di andarli a cercare e ve li mostrerò in

alcune immagini1 che ho preso, nemmeno a dirlo, da quella miniera inesauribi-

le che è Google Maps.

E, per i curiosi, vi dirò cosa rappresentano le figure che appaiono prima di que-

1 Vi avevo avvisati che avrei tolto tutte le immagini. Quindi se le volete vedere, non cercatele qui ma nel volume "Al-

buquerque". 441

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Letizia sta pagina.

In copertina è raffigurato il Boca Negra Canyon, situato nell’immediata perife-

ria ovest di Albuquerque: anche se non è mai citato nella trilogia, è una delle

zone più caratteristiche della zona.

A pagina 3 vediamo una bellissima vista della città ripresa dal satellite.

La fotografia non è proprio orientata nord-sud e, se volete rendervi conto del

reale orientamento, andate a guardare la mappa a pagina 13.

Il solco enorme è, l’avrete certamente capito, il Rio Grande che, a iniziare da El

Paso e fino alla sua foce nel Golfo del Messico, segna il confine tra Stati Uniti e

Messico.

Infine, nella doppia pagina 6 e 7, di nuovo una suggestiva panoramica del Boca

Negra Canyon. Questa immagine sarà ripetuta, rovesciata orizzontalmente co-

me è mio costume, alla fine dei tre romanzi.

Iniziamo con il mostrare una mappa dove sono sottolineate in rosso le città

nominate in queste pagine.

E vediamo insieme quali sono.

La prima naturalmente è Gallup, la città texiana per eccellenza, che si trova

nella parte più occidentale del New Messico.

Proseguendo verso est si incontra la nostra Albuquerque, punto nevralgico del-

la regione perché sta proprio ad un incrocio: a nord (nordest, per la verità) si

trova Santa Fé, a sud, verso il confine messicano, c’è El Paso e infine a est,

procedendo per quella che è diventata la famosa Route 66, c’è Amarillo.

Quasi al centro del Texas c’è la città di Abilene che, per gli ampi pascoli dai

quali è circondata, è diventata il centro di smistamento bestiame più grande di

tutto il nordamerica.

Ci allontaniamo un po’ più a nord e troviamo infine la città di Omaha e, un po’

più a sud, c’è (poteva mancare?) Kansas City, di cui è cittadino onorario (e ne

siamo tutti fieri) il nostro Albertone nazionale.

Nella mappa mancano per la verità tre città: Houston, Washington e Boston,

che sono state sacrificate per motivi di spazio.

Abbiamo nominato la Route 66? Eccola qui sotto nel suo lungo itinerario che

parte da Chicago nell’Illinois per arrivare a Santa monica in California attraver-

so Illinois, Missouri, Kansas, Oklahoma, Texas, New Messico, Arizona e Califor-

nia. 442

Page 443: TuttoLet - Altervistapecosbill.altervista.org/Romanzi/TuttoLetizia.pdfTex Willer - Aquila della Notte Kit Carson - Capelli d'Argento Kit Willer - Piccolo Falco - Falco Nero - Mano

Albuquerque Lo sapevate che la mitica Sixty Six attraversa non solo città come Amarillo,

Santa Fé e Albuquerque, ma anche la nostra cara vecchia cittadina, tutta te-

xiana, di Gallup?

E veniamo ora ai dettagli.

Il primo romanzo di questa seconda trilogia, e quindi il quarto della saga di

Tex, il cui titolo è “Il figlio di Tex”, si svolge quasi interamente a El Paso.

La città è divisa in due dal confine con il Messico e la parte messicana si chia-

ma Ciudad Suàrez.

Eccovi una veduta satellitare di questa strana città che, se consideriamo alcune

case all’estrema periferia ovest, si espande su tre stati: New Messico, Texas e

Messico.

Vi chiederete come mai la trilogia è intitolata “Albuquerque” se il primo dei tre

romanzi si svolge a El Paso.

Domanda più che lecita.

Ma il clou del romanzo è nelle sue ultime pagine e Albuquerque è la città dove

Tex si reca alla fine per salutare due persone a lui molto care e dove ne trove-

rà una terza che segnerà per sempre la sua vita.

E, quando Tex, dopo aver passato la notte nella località chiamata Nine Miles

Hill, che deve il suo nome proprio perché dista solo nove miglia da Albuquer-

que, girandosi vedrà sulla collina la figura di un ragazzo che sorride.

Figura che purtroppo è solo nella sua mente.

E quindi eccovi una veduta satellitare di Albuquerque con la collina di Nine Mi-

les alla sua periferia ovest.

In alto a destra si notano Santa Fé e Agua Fria, che più o meno sta a un tiro di

schioppo da Santa Fé.

Il secondo romanzo, dal titolo brevissimo “Lois”, vede invece la città di Albu-

querque la sua protagonista in assoluto.

Tex ha intenzione di stabilirsi in questa città e di vivere una nuova vita lontano

da avventure e pericoli.

Ma il destino ha deciso altrimenti e il nostro eroe, alla ricerca della sua vendet-

ta, sarà costretto a girare mezzo New Messico.

Lo vediamo a Santa Fé, dopo una breve sosta ad Agua Fria, due città che ab-

biamo già localizzato nella mappa precedente.

Poi lo seguiamo nella sua ricerca dei suoi nemici lungo la pista che, costeg-443

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Letizia giando la Cañada del los Alamos, ci porterà al Glorieta Pass.

Questo passo è una vecchia conoscenza dei lettori di Tex perché è legato a una storia re-

lativa al periodo in cui era scout per l’esercito nordista, insieme a Damned Dick, durante la

guerra di secessione americana.

E Tex racconta un episodio della sua vita sulla battaglia di Glorieta pass.

Molti forse non sanno che questa battaglia fu la più sanguinosa e importante in tutto il

sudovest americano.

Soprannominata “Gettisburg dell’ovest”, segnò la definitiva sconfitta dell’esercito confede-

rato nei territori occidentali.

Al Glorieta Pass, qui sotto nella solita veduta satellitare, Tex sconfigge il suo nemico e ri-

torna a Santa Fé per poi ritornare al passo e proseguire poi la sua caccia, fino ad arrivare

vicino alle sorgenti del fiume Pecos.

E noi naturalmente con lui.

Non lo molliamo neanche un istante.

Poco distante dalle sorgenti del fiume, finalmente troviamo la località dove si

svolge l’epilogo del secondo romanzo di questa trilogia.

Beh, non proprio l’epilogo, ma giù di lì.

Comunque è la scena madre del romanzo.

Questa località è il Monastery Lake.

Potete vedere questo minuscolo lago in alto a destra nella prima delle due ve-

dute aeree nella pagina seguente.

Nella seconda invece, che è un ingrandimento della prima, il lago si vede niti-

damente.

La città di Amarillo, citata da Tex quando la nomina ai banditi come sua desti-

nazione, secondo gli ordini del loro capo, non è “mappata” in queste pagine.

Troppo lontana.

E poi quella di Tex è una grossa frottola.

Chissà chi glielo avrà insegnato a raccontar panzane (non guardate me, io so-

no innocente come l’acqua).

Se volete vedere dove si trova, andate a pagina 10.

L’avete notato?

Ma sì, l’avete notato per forza, ve l’ho già detto.

La città si trova sulla famosa Sixty Six.

E lo sapete quale città si trova su questa magica route circa a metà strada tra

444

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Albuquerque Albuquerque e Amarillo?

Non c’entra niente, ma ve lo dico lo stesso.

Tucumcari.

Vi dice niente questo nome?

E, tanto per rimanere in tema di curiosità, Amarillo, il cui nome in origine era

Oneida, si chiama così (in lingua spagnola Amarillo significa “giallo”) dal colore

dei fiori che abbondano nelle praterie nei dintorni della città.

E chiudiamo questa lunga chiacchierata con la geografia del terzo romanzo

“L’ultimo duello di Tex”.

Il duello avviene, manco a dirlo, nella main street di Albuquerque.

Chissà perché, quando si parla delle strade di una città del west americano, si

cita sempre e soltanto la main street.

Ora, Albuquerque a quei tempi non aveva certo mezzo milione di abitanti, ma

era pur sempre una grande città.

Ce l’avrà avuta qualche altra strada, no?

Mah!

E allora, forza.

Via con le vedute satellitari.

Le prime due, nella pagina seguente, vi mostrano Il Pueblo Pintado, il paese

dipinto.

Chissà perché si chiama così.

A giudicare dalle immagine, non mi sembra molto colorato.

Che ne dite?

Comunque è la località in cui si sono dati appuntamento Tex e suo figlio Kit

che, insieme con Alba Lucente, porta con sé il suo macabro bagaglio.

Guardate l’ingrandimento nella seconda veduta e poi ditemi se non avevo ra-

gione.

E passiamo ora ad altre due città: Omaha e Kansas City.

Qui sotto potete vedere la solita mappa aerea.

Le due città sorgono sulle rive del fiume Missouri, il secondo fiume degli States

dopo il Mississippi.

Omaha è la città in cui i due Kit giocano un brutto scherzo al riccone cattivo di

turno, fregandogli addirittura tutto il bestiame che riempiva ben tre convogli

ferroviari. 445

Page 446: TuttoLet - Altervistapecosbill.altervista.org/Romanzi/TuttoLetizia.pdfTex Willer - Aquila della Notte Kit Carson - Capelli d'Argento Kit Willer - Piccolo Falco - Falco Nero - Mano

Letizia Kansas City è invece solo citata da Carson come sua prossima destinazione.

E naturalmente ha mentito anche lui.

E io, come al solito non c’entro.

Ma è proprio su questa città che ci soffermeremo un po’.

E non vi dirò più “lo sapevate che…” perché tanto non avete modo di rispon-

dermi.

Beh, volendo, lo potreste anche fare.

Sapete dove trovarmi.

Comunque io non lo sapevo (strano, vero?)

Ci sono ben due Kansas City, divise dal confine tra Kansas e Missouri.

Una sta di qua e l’altra sta di là.

Solo gli americani potevano fare una cosa del genere perché in realtà si tratta

della stessa area metropolitana.

E le due metà non sono neanche separate dal fiume Missouri, che comunque

non sarebbe un gran che come confine tra le due città e i due stati, ma solo da

una linea perpendicolare così diritta che di più non si può.

Contenti loro.

Non vi annoierò ancora con le mappe di Washington e Boston, ma almeno la-

sciatemi mostrarvi quella di Abilene, in cui ho schiaffato, a buon rendere, an-

che Dallas e Fort Worth.

Abilene è la città più importante degli Stati Uniti come centro di raccolta di be-

stiame.

Ed è lì che si riuniscono tutti gli amici di Tex, arrivati da tutti i posti

dell’America del Nord, dal Canada al Messico, per far sparire il maltolto al catti-

vo.

E qual è il metodo migliore per far sparire qualcosa?

Metterlo bene in evidenza dove nessuno andrà mai a cercarlo perché quello è il

primo posto in cui si comincerebbero le ricerche.

E poi, come si fa a nascondere un ago?

Non mi dite che lo mettereste in un pagliaio.

Un buon fiammifero e una calamita da passare sulle ceneri e l’ago è trovato.

No, no.

Io lo metterei insieme ad altri mille aghi uguali.

E adesso non mi resta che augurarvi la stessa cosa che vi ho augurato 446

Page 447: TuttoLet - Altervistapecosbill.altervista.org/Romanzi/TuttoLetizia.pdfTex Willer - Aquila della Notte Kit Carson - Capelli d'Argento Kit Willer - Piccolo Falco - Falco Nero - Mano

Albuquerque nell’antologia precedente.

Mettetevi comodi e, soprattutto mettetevi gli occhiali.

L’avventura ha inizio.

Letizia

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Letizia

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Capitolo 4 Il figlio di Tex

«Perché non hai voluto portare con te Luna d'Argento, Kit?»

«Meglio di no, zio. Al villaggio di suo padre sta più al sicuro e più tranquilla. E sto tranquillo

anch'io.»

«Ma non stiamo andando a caccia di furfanti e non ci stiamo ficcando in chissà quale peri-

colosa avventura. Stiamo solo andando alla grande fiesta di El Paso.»

«Forse è geloso, vecchio cammello.»

«Ma papà, cosa dici? Luna mi vuole un bene dell'anima e non...»

«Ma cosa hai capito, Kit? So benissimo che Luna d'Argento si farebbe uccidere piuttosto

che...»

Queste ultime parole sono come una pugnalata al cuore.

Kit non ascolta più.

Pensa con terrore solo alla possibilità che si avveri quello che...

Quello che ha sognato?

Quello che è già successo ma poi è stato cancellato?

Ci pensa spesso anche se non ne ha mai parlato con nessuno.

E meno che mai alla sua dolce Luna.

«... figliolo. Io non intendevo "geloso di lei", ma "per lei". Tua moglie è una ragazza bellis-

sima e avrebbe gli occhi di tutti puntati su di lei. A me darebbe molto fastidio. Sì, ne sarei

molto geloso.»

«Come? Ah sì, pa'. Certo.»

«Comunque, io non saprei resistere neanche un giorno lontano da lei. E staremo via quasi

due settimane.»

«Saranno solo una decina di giorni, zio. Domattina presto saremo sul treno e in meno di

due giorni saremo a El Paso, giusto in tempo per l'inizio della fiesta. Se rimarremo tre

giorni, altri tre per il viaggio di ritorno e saranno nove in tutto.»

«Vuoi stare al El Paso solo tre giorni? La fiesta durerà molto di più.»

«Beh, zio Kit. Per me tre giorni saranno più che sufficienti. Se voi due vorrete fermarvi an-

cora un po', per me va benissimo. Tornerò da solo alla riserva.»

«Stai pur certo che il vecchio cammello non se ne vorrà più andare. Pare che per la fiesta

a El Paso ci saranno le più belle ballerine di tutto il Messico. Se poi ci aggiungi bistecche e

birre a volontà e soffici letti di piume...»

449

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Letizia «Vecchio satanasso. Vedremo quanto saranno malconce le tue ossa dopo due giorni pas-

sati su una scomodissima panca del treno. E sai benissimo che le ballerine mi limiterò a

guardarle.»

«Vorrei vedere. Alla tua età...»

«Cos'ha la mia età? Tu pensa alla tua. Credi di essere ancora un giovanotto come tuo fi-

glio?»

«Smettetela con i battibecchi, voi due. Sembrate due vecchie comari inacidite.»

«Ma lo senti, Tex? I giovani d'oggi non hanno più rispetto per i capelli bianchi.»

«Beh, ce la siamo cercata, vecchio gufo.»

Ridono.

Si sta facendo sera e per loro la notte non sarà certo piacevole.

La passeranno in sella.

Dormiranno domani in treno.

Il treno sta entrando sbuffando nella città di El Paso.

«Si può sapere cosa stai facendo? E' un quarto d'ora che scarabocchi su quel

foglio.»

«Sto scrivendo a Luna, zio. Se ho il testo già pronto, all'ufficio telegrafico starò

un attimo. Vi raggiungerò dallo sceriffo prima che voi possiate mettere piede

nel suo ufficio.»

«Scrivi già a Luna d'Argento? Ma se sei appena arrivato. Cosa le scrivi? Che sei

arrivato sano e salvo dopo che il treno è stato assalito da una banda selvaggia

e poi da un migliaio di indiani?»

«Non scherzare, vecchio cammello. La lettera arriverà fra un giorno e quindi

ben quattro giorni dopo la nostra partenza. A Luna d'Argento farà molto piace-

re.»

Poi, rivolgendosi al figlio: «Fai pure con calma al telegrafo. Noi dobbiamo recu-

perare i cavalli dal vagone bestiame e portarli alla stalla. Solo dopo andremo

dallo sceriffo.»

«Non andiamo prima a sciacquarci la gola con una bella birra fresca? E magari

a cercare una sistemazione in albergo?»

«Nossignore. La sete te la tieni. In quanto alle camere, ci ha già pensato il vec-

chio Alfie. Quindi prima i cavalli e poi lo sceriffo.»

«Negriero.»

450

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Il figlio di Tex «Animo, vecchio cammello. Scommetto che Alfie ci inviterà a cena. In vista ci

sono delle belle bistecche alte tre dita e...»

«... e una montagna di patatine fritte, satanasso. Ma se mi rimpinzerò non sa-

rà certo per merito tuo. Scommetto che tu mi sfameresti, si fa per dire, solo

con qualche pezzo di carne secca.»

«Smettetela di cianciare, voi due. Il treno sta già rallentando. Ci vediamo dallo

sceriffo, allora.»

Scende dal treno non ancora fermo e corre verso il capostazione.

Tex e Kit lo vedono mentre l'uomo, nella sua scintillante divisa, gli indica, con il

braccio teso e l'indice puntato, quello che è senza dubbio l'ufficio telegrafico.

Il giovane Kit lo ringrazia toccandosi la tesa dello Stetson con un dito e si al-

lontana correndo.

Il treno finalmente si ferma e i passeggeri cominciano a scendere.

«Per la barba di Matusalemme. Non ho mai visto tanta gente tutta insieme.»

«Sono i "Giorni della frontiera". E' la festa più importante qui al El Paso. Ci sarà

una gran confusione per quattro o cinque giorni. E magari anche di più.

Scommetto che molti resteranno anche quando la fiesta sarà finita.»

«Il nuovo sceriffo avrà il suo bel daffare. Il whisky scorrerà a fiumi e chissà

quanti ubriachi turbolenti animeranno le notti. Scommetto che non riusciremo

a chiudere occhio.»

«Su questo non ci giurerei, vecchio cammello. Tu ti addormenti sempre come

un sasso e non sentiresti neanche le cannonate.»

«Non è vero, satanasso. Non ti credere...»

«E russi peggio di un orso in letargo.»

«Calunniatore. Ma io non raccolgo. Continua pure con quella tua linguaccia.»

«Andiamo a prendere i cavalli. Non voglio fare aspettare Kit troppo a lungo.»

Quando arrivano dallo sceriffo, Kit li sta già aspettando sulla porta dell'ufficio.

Con lui c'è il vecchio Alfie.

«Vecchia coppia di sbirri del demonio. Siete arrivati finalmente.»

«Senti chi parla. Ciao Alfie. Come va?»

«Potevi almeno venire ad aspettarci alla stazione. O devo pensare che la pen-

sione ti ha fatto venire i piedi dolci?»

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Letizia «Non dire così, Carson. Sono ancora in gamba, per Giove. Ma il mio maledetto

cavallo ha perso un ferro e ho perso una barca di tempo. Quando sono arrivato

alla stazione, eravate già scesi e non mi è rimasto che venire qui, dove ho tro-

vato solo il ragazzo.»

«E tuo figlio? Come sta? Dove l'hai lasciato?»

«Oh, Pete è rimasto al ranch. Ci sono ancora mille cose da fare. Ci raggiungerà

per la cena, Tex.»

«Allora accompagnaci all'albergo. Sistemiamo la nostra roba e poi ce ne an-

diamo al saloon a rinfrescarci la gola.»

«Niente affatto, Carson. A parte il fatto che trovare posto in albergo è una cosa

praticamente impossibile in questi giorni, mi fareste una grossa offesa se non

accetterete la mia ospitalità. Pete è rimasto al ranch proprio per sistemare le

vostre camere. Potete lasciare la vostra roba qui, nel mio ex ufficio. Poi verre-

mo a riprenderla.»

«Ok, Alfie. Allora andiamo a berci delle belle birre gelate.»

«Parole sante, satanasso. E poi ci daremo sotto con ...»

«... delle belle bistecche alte tre dita con una montagna di patatine fritte, zio

Kit.»

«E non dimenticare la torta di mele. Ci saranno delle torte di mele a El Paso,

vero Alfie?»

«Ci sono, ci sono. E sono squisite, vecchio brontolone. Ora datemi la vostra ro-

ba, la sistemerò nell'ufficio dello sceriffo. Lui non è qui in questo momento. E'

in giro con il suo assistente. Con tutta la gente che è arrivata per la fiesta, ha

parecchio da fare.»

Un quarto d'ora dopo i quattro amici sono all'ingresso del saloon.

«Mamma mia. Ci sarà da fare a spallate per poter arrivare al banco. Non c'è

neanche un tavolo libero. Ho paura che non si riuscirà a mangiare qui.»

«Non preoccuparti, Carson. Tra un'oretta nel locale in fondo alla strada ci sarà

uno spettacolo di ballerine. Il grosso della gente andrà lì e riusciremo a trovare

un tavolo, vedrai.»

Dopo un paio di spinte e qualche piede pestato, Tex riesce ad arrivare al ban-

co, seguito dagli altri tre.

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Page 453: TuttoLet - Altervistapecosbill.altervista.org/Romanzi/TuttoLetizia.pdfTex Willer - Aquila della Notte Kit Carson - Capelli d'Argento Kit Willer - Piccolo Falco - Falco Nero - Mano

Il figlio di Tex «Allora, Alfie. Raccontaci un po'. Come mai hai deciso di ritirarti? Non sei certo

un ragazzino, ma neanche poi tanto vecchio. Scommetto che il mio buon pard

è più vecchio di te.»

«Vecchio sarai tu, satanasso.»

«Cosa vuoi che ti dica, Tex. Quando ho dato le dimissioni da ranger per venire

qui a El Paso a fare lo sceriffo, mi hanno liquidato con una bella sommetta. E

qui lo stipendio era buono. Ne mettevo da parte più della metà ogni mese. In-

somma, per farla breve, ho avuto l'occasione di avere un po' di terra a un

prezzo molto buono. In due anni io e mio figlio ci siamo costruiti una casa più

che decente. Il mio buon amico Benson mi ha venduto poi un po' del suo be-

stiame e ora mi ritrovo a fare il ranchero. Per ora siamo solo io e Pete, ma in

un paio d'anni conto di assumere tre o quattro cowboy. Ma ora raccontami un

po' di te. Come vanno le cose là, alla riserva?»

«Oh, le cose vanno a meraviglia. Il mio ragazzo si è sposato. E' fresco fresco di

nozze.»

«Kit si è sposato? ma perché non me lo hai detto subito? E come mai sua mo-

glie non è venuta con lui ai "Giorni della frontiera"?»

«Luna è rimasta al villaggio di suo padre Orso Macchiato e...»

«L'hai voluta tenere lontana da questa marmaglia di ubriaconi, eh? Hai fatto

benissimo. Anch'io avrei fatto così.»

«Già.»

«Il piccolo lupacchiotto si è sposato. Mamma mia. Come passa il tempo. Ricor-

do che quando ho lasciato i ranger tu eri ancora un marmocchio alto tre span-

ne. Come passa il tempo.»

«Beh, anche il tuo ragazzo sarà cresciuto. Ormai sarà un uomo.»

«Oh sì, Tex. Ha già ventitre anni e se la fa con la figlia del mio amico Benson.

Ti ho già parlato di lui. Ha un grosso ranch a una ventina di miglia dalla città.

Fanno sul serio e anche lei gli vuole bene. Spero che si sposeranno presto e

che mi daranno subito un nipotino.»

«Aria di fiesta anche in famiglia, allora. Non ci resta che brindare alla loro salu-

te, allora.»

«Vecchio cammello. Non perdi occasione per farti una bella birra, eh?»

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Letizia «Beh, sarà l'ultima perché vedo che il saloon comincia a diventare meno affol-

lato. Che ne direste di sederci a un tavolo e di ordinare qualche bella bistec-

ca?»

«Direi che è una buona idea. Quella di sederci a un tavolo. Ma per mangiare,

vecchio lupo famelico, dovrai aspettare che arrivi il figlio di Alfie.»

Per fortuna di Carson, Pete arriva quasi subito.

«In città sono appena arrivati Tex Willer e Kit Carson. E con loro c'è un ragaz-

zo che ha tutta l'aria di essere il figlio di Tex. Tre sbirri velenosi peggio di un

crotalo.»

«Maledizione. Proprio adesso.»

«Capo, forse è meglio rimandare tutto. Con quei tre di mezzo...»

«Ti ho detto mille volte di non chiamarmi capo.»

«Ma, capo. Siamo soli e non c'è nessuno che ci ascolta. Chi vuoi che ci senta?»

«Toglietemi di torno questo idiota, prima che commetta un imbecillicidio.»

«Vieni con me. Andremo un po' in giro per vedere se riusciamo a scoprire qual-

cosa.»

«Cercate però di non farvi scoprire. Quei due hanno occhi anche nella nuca e il

fiuto più fine di un segugio. Se vi notano anche solo due volte intorno a loro,

siete fregati.»

«Non ti preoccupare, capo. Saremo più prudenti e più invisibili di un serpente.»

I due escono in strada prima che "il capo" possa replicare.

«Deficiente.»

«Sarà anche deficiente, ma non ha tutti i torti. Quei tre sono un grossissimo

problema. Forse è il caso di rimandare.»

«No. La fiesta è il momento ideale per il nostro piano. La confusione giocherà a

nostro favore. Una situazione così propizia per noi non si verificherà più.»

«Ma poi ce la dovremo vedere anche con loro. Sicuramente si metteranno a in-

dagare. E Tex è un cane che non ha mai mollato un osso. Magari se ne an-

dranno fra un paio di giorni, prima che finisca la fiesta e noi potremmo agire

dopo, in tutta tranquillità.»

«Non credo che se ne andranno tanto presto. Da queste parti non è successo

niente che possa giustificare la loro presenza qui. Scommetto che sono venuti

a trovare il vecchio sceriffo. So che una volta era un ranger.»

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Il figlio di Tex «Sì, è vero. Risulta anche a me. E so che Alfie Jefferson è un ottimo amico di

Willer e Carson.»

«Allora è certo che sono qui solo per godersi la fiesta. Non se ne andranno tan-

to presto. E poi, per essere più sicuri di non averli tra i piedi, dovremmo aspet-

tare almeno un paio di giorni dopo la loro partenza. Potrebbero sempre tornare

indietro su richiesta dell'ex sceriffo. E avremmo solo perso tempo per niente.

Agiremo secondo i piani. Saremo solo più prudenti.»

«Ok. Il capo sei tu. Oh, scusa. Mi è scappato.»

«Non ti ci mettere anche tu, adesso.»

«Tuo figlio è davvero cambiato, Alfie. Non l'avrei certo riconosciuto.»

«Per forza, l'ultima volta che l'hai visto portava i pantaloni corti.»

«Beh, visto che ora ci siamo tutti e che ci sono dei tavoli liberi, che ne direste

di mettere qualcosa sotto i denti?»

«Lo so io cosa intendi dire con "qualcosa sotto i denti", vecchio crapulone.»

«Non essere così polemico con l'amico Carson, Tex. A dire il vero anch'io ho un

po' di appetito. E scommetto anche i nostri due ragazzi. Ma se tu vuoi digiuna-

re, padronissimo. Mi farai risparmiare perché naturalmente il conto lo pagherò

io.»

«Parole sante, Alfie. Io direi di sederci a quel tavolo laggiù.»

«Hai un occhio fine, Carson. E' il tavolo più vicino alla cucina. I piatti arriveran-

no più alla svelta.»

Ridono.

Nel giro di mezz'ora i cinque amici stanno allegramente affondando i denti su

altrettante bistecche.

«Il saloon si è di nuovo riempito, vedo.»

«Già. Si vede che molti non sono riusciti a entrare al "Paradise", Tex.»

«E' così, papà. Quando sono arrivato, ci sono passato davanti e c'era già il pie-

none.»

«Beh, l'importante è che siamo riusciti a sederci e gustare queste squisite bi-

stecche. Spero che ci sia anche una bella torta di mele per finire in bellezza

questa cenetta.»

«Chiamala cenetta, vecchio cammello.»

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Letizia «Pa', non brontolare. Non c'era solo lo zio ad essere stufo dei pasti frugali che

abbiamo fatto in treno.»

«Finalmente qualcuno che ha un po' di cuore.»

«Già. Ma tu, oltre il cuore, hai sicuramente anche un bello stomaco.»

«Pedro, mentre i signori litigano, porta qualcuna di quelle famose torte di mele

di tua moglie. Loro non hanno più fame, ma noi sì, perbacco.»

«De pronto, señor Jefferson.»

«Non ho più fame un corno. E tra poco te ne accorgerai.»

Infatti dieci minuti dopo Carson sta addentando la sua terza fetta.

Ma non ha ancora finito il boccone, quando un giovane viene scaraventato da

un poderoso uppercut verso il loro tavolo, finendo proprio in braccio al vecchio

Kit.

«Che diavolo...»

«Chiedo venia, sir. Sistemo quel bestione e sono subito da lei per scusarmi an-

cora. Le offrirò della buona birra.»

«Come? "Chiedo venia"? Che parlare forbito...»

Ma non fa in tempo a finire la frase che una seconda sventola fa rovinare di

nuovo il giovane su di lui.

«Questo è troppo. Credo che quel bestione abbia bisogno di una bella lezione.»

«Non ci provi nemmeno, sir. Quel tipo è veramente pericoloso.»

«A chi hai detto bestione, nonnetto?»

«Nonnetto?» domanda Carson guardandosi in giro.

«Non vedo nonnetti qui in giro.»

«Fai anche lo spiritoso? Dico a te, vecchio sacco d'ossa.»

«Sacco d'ossa? Vecchio? Ma allora vuoi proprio farmi da tamburo?»

L'energumeno si scaglia contro Carson che, svelto e agile come un felino, si

scosta da un lato e gli fa lo sgambetto.

Il malcapitato, a causa del suo stesso slancio, cade in avanti e "il vecchio sacco

d'ossa" lo colpisce con una gomitata alla nuca, mandandolo a rovinare sul ta-

volo che finisce per andare in frantumi.

Tex, Alfie e i due ragazzi si alzano prontamente dalle sedie ed evitano quella

valanga umana che cade ai loro piedi.

«Spero di non averti fatto troppo male, perché ho appena cominciato.»

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Il figlio di Tex «Vecchio balordo» bofonchia l'uomo cieco d'ira mentre si alza per tornare alla

carica.

«Ah, no. Adesso basta» si intromette Tex che ferma il bestione e, girandolo

verso di sé, gli sferra un terribile destro che mette definitivamente a dormire il

poveraccio.

Poi afferra le sue colt e, seguito dagli altri suoi amici: «E' meglio che ve ne

stiate tutti quanti bravi e buoni. Siamo tutti qui solo per la fiesta e vogliamo

tutti divertirci. Perciò dimentichiamo questo spiacevole incidente e tutti al ban-

co per una bella bevuta. Offro io.»

«Lo straniero ha ragione.»

«Tutti al bar.»

«A me una birra gelata.»

«Hooray per lo straniero.»

«Per me un buon whisky.»

In breve tutti gli avventori sono stipati davanti al bancone del bar e il buon Pe-

dro ha il suo bel daffare per accontentarli tutti.

Dopo essersi procurati un tavolo sano e una sedia in più, Tex si rivolge al nuo-

vo arrivato.

«Allora, ragazzo. Stai bene? Si può sapere cosa diavolo è successo?»

Il ragazzo, tastandosi la mascella come a constatare eventuali danni, risponde:

«Sì, sto bene. Grazie, sir. Lasciate che mi presenti. Il mio nome è Texas Kid e

sono venuto qui per il rodeo di domani. Quel bisonte che avete steso si era di-

mostrato un po' troppo invadente e prepotente. Io ho solo cercato di farlo ra-

gionare.»

«Senza molto successo, a quanto pare» aggiunge Carson.

«Io sono Tex Willer e questi...»

«Oh, lo so, signore. Vi ho riconosciuti. Il signore è Kit Carson e il ragazzo è si-

curamente vostro figlio. Non conosco gli altri due signori, anche se mi pare di

averli già visti in giro.»

«Beh, questo è il mio amico Alfie Jefferson, l'ex sceriffo di questa metropoli. E

questo è suo figlio Pete.»

«Piacere, signori.»

I quel momento sta entrando il nuovo sceriffo.

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Letizia

«Si può sapere cosa è successo qui dentro? Chi ha conciato così Big Joe?»

«Ciao, Larry. Vieni, ti presento Tex Willer e i suoi pard.»

«Tex Willer, eh? Lo dovevo indovinare che solo lui poteva conciare in quel mo-

do il povero Big Joe.»

«Povero, sir? E' stato lui a cominciare. Ho la mascella che mi fa ancora male.»

«E tu chi diavolo sei?»

«Il mio nome è Texas Kid, sir. Sono venuto a El Paso per partecipare al rodeo

di domattina. Cercherò di cavalcare il toro.»

«Il toro? Tu sei pazzo, ti ridurrà come una polpetta. Ma la pelle è tua, fai come

ti pare.»

«Venga a sedersi con noi, sceriffo. Le offro una birra gelata.»

«Oh, no. Grazie, signor Willer. Ho parecchio lavoro da fare. Ho già schiaffato al

fresco un paio di facinorosi e temo di non aver ancora finito. Devo finire il giro

di tutti i locali. La fiesta porta fiumi di denaro alla città. Commercianti e ran-

cheros fanno buoni affari, ma per me il lavoro aumenta e il piccolo extra che

mi danno non vale la candela. Buona notte, signori.»

«Buona notte, sceriffo. E buon lavoro.»

Lo sceriffo lascia il saloon proprio quando Pedro esce dalla cucina con una fu-

mante torta di mele.

Non sia mai detto che il buon Carson rinunci alla sua terza fetta.

«E così domani cavalcherai il toro?»

«Beh, ci proverò, sir.»

«Basta con questo sir. Chiamami Tex.»

«Vedo che hai una notevole capacità di linguaggio. I tuoi genitori ti hanno

mandato a scuola all'Est?»

«No, Kit. Mia madre mi ha mandato a studiare dai frati. Faceva la cantante e la

ballerina in un locale. Ma era la migliore mamma del mondo. Mio padre non

l'ho mai conosciuto.»

Tex osserva questo ragazzo dall'aria un po' triste.

«Devi essere un ragazzo molto in gamba. E anche tua madre deve esserlo.»

«Mia madre... lei... non c'è più, Tex. Se n'è andata due anni fa. E' stata la tisi a

portarmela via.»

«Mi dispiace, Kid. E anche per tuo padre. Hai mai provato a cercarlo?»

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Il figlio di Tex «No, Tex. Anche se un paio di volte me n'è venuta la voglia. Ma è meglio così.»

Kit si accorge dell'imbarazzo del giovane e interviene cambiando discorso.

«Partecipi al rodeo domattina? Quasi quasi ci provo anch'io. Sono ancora in

tempo per iscrivermi?»

«Certo.»

«Basta che non ti iscrivi alla doma dei cavalli selvaggi perché altrimenti non ho

possibilità di vincere. Sai, Kit. Ci tengo a far bella figura con Deborah.»

«Non temere Pete. Mi cimenterò anch'io con il toro. Sempre che non dia fasti-

dio al Kid.»

«AL contrario. Ci sarà più soddisfazione a vincere con un avversario temibile

come te.»

«Davvero figliolo vuoi gareggiare con il toro? Se non ti riporto a casa tutto in-

tero, poi la senti tua moglie.»

«Sei sposato, Kit?»

«Oh, lo è. E con una ragazza bellissima di cui è molto geloso.»

«Dai, pa'. Smettila.»

«Hai sentito, Pete? Kit ha messo la testa a posto e si è fatto una famiglia.

Quand'è che anche tu farai lo stesso?»

«Beh, papà. Deborah e io... noi... insomma, non gliel'ho ancora chiesto.»

Rimangono ancora insieme per circa un'ora durante la quale i tre ragazzi si

prendono vicendevolmente in giro e scherzano allegramente parlando di rodeo

e... di ragazze.

Infine decidono tutti di ritirarsi per essere in forma il giorno dopo.

«Tu non vai a trovare la tua ragazza stasera, Pete?»

«No, papà. Sono un po' stanco e voglio recuperare un po' le forze. Domani vo-

glio essere in forma. Voglio vincere il rodeo, per Deborah.»

«E anche noi siamo un po' stanchi. Non vedo l'ora di stendermi su un vero let-

to, dopo due notti passate su quel maledetto treno.»

«Il vecchio cammello deve riposare le sue stanche ossa.»

«Vecchio un corno, satanasso. E non mi dire che tu preferisci passare un'altra

notte sdraiato su una panca di legno.»

I due pard continuano a battibeccare mentre si dirigono con gli altri al corral

dove hanno lasciato i cavalli.

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Letizia Dieci minuti dopo sono in sella diretti verso il piccolo ranch di Alfie.

«Simpatico quel ragazzo, vero pa'?»

«Sì. Anche se provo una strana sensazione.»

«Cosa c'è che non va, satanasso?»

«Non lo so, Kit. A parte il nome che non è chiaramente il suo vero nome, è

come se quel ragazzo nascondesse qualcosa.»

«Beh, non deve avere avuto certo una vita facile. Ma secondo me è un bravo

ragazzo. E anche molto educato.»

«Non ho detto che non lo sia, vecchio cammello. Ma sento che c'è qualcosa di

strano in lui.»

«Mah, sarà. Di solito il tuo fiuto non t'inganna, ma questa volta la tua naturale

diffidenza mi sembra fuori luogo.»

«Anch'io la penso così, pa'. Sei troppo abituato a trattare con criminali. Il Kid è

un buon diavolo e son contento di averlo come amico.»

«Beh, adesso smettetela di questionare. Siamo arrivati alla mia reggia. Ho ri-

servato la camera reale per voi due. E per Kit naturalmente la suite del princi-

pe.»

«Papà scherza perché non sa quanto ho dovuto faticare per prepararvi le stan-

ze. Ci potrebbero dormire davvero i reali inglesi.»

Ridono allegramente.

Si avvicinano al piccolo ranch, mentre la luna fa timidamente capolino dietro

una nuvola.

La mattina successiva, poco dopo il sorgere del sole, Tex e i suoi pard sono

già in città per il rodeo.

Naturalmente Alfie e suo figlio Pete sono con loro.

Il rodeo si svolge nella "Plaza de toros" di El Paso, che è un'arena enorme.

«Pa', io vado a iscrivermi per la gara con il toro.»

«Vengo anch'io, Kit. Ti accompagno.»

«Ok, ragazzi. Ci vediamo dopo.»

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Il figlio di Tex Gli spettacoli non sono ancora iniziati, anche se si cominciano a vedere in giro

le "ballyhoo-girl1" con i loro caratteristici costumi che attirano lo sguardo di tut-

ti i cowboy.

In giro ci sono anche alcuni indiani con i loro variopinti "kostoweh2" e le loro

vesti di daino adornate con splendidi turchesi dell'Arizona.

«Perbacco, quanta gente.»

«La fiesta di El Paso è la manifestazione più importante in tutto il sudovest

americano, Carson.»

«Già. Lo vedo.»

«E questo non è ancora niente. Vedrai dopo che spettacolo. Ah, ma ecco laggiù

il mio amico Benson. Venite, ve lo presento.»

Si avvicinano ad un anziano signore dall'aria distinta, che è in compagnia di

una ragazza bellissima.

«Ciao, Benson. Ti voglio presentare due miei amici carissimi, Tex Willer e Kit

Carson. Ragazzi, questo è il mio amico Benson e lei è la sua graziosa figlia De-

borah.»

«Buongiorno, signor Benson. Felice di conoscervi. Buongiorno, signorina.»

E Carson, galante come sempre, aggiunge: «Encantado, señorita.»

«Buongiorno, signori. Il mio amico Jefferson mi ha molto parlato di voi. Ma non

ce n'era bisogno. Non c'è uomo in tutto il sudovest che non conosca le eroiche

gesta dei due più famosi ranger del Texas. Ma, a proposito, credevo che con

voi ci fosse anche vostro figlio.»

«C'è, c'è. E' andato a iscriversi alla gara con il toro. Sarà qui tra poco.»

«Alla gara con il toro? Ma è molto pericoloso, señor.»

«Oh, stia tranquilla, señorita. Il mio figlioccio ci sa fare con qualsiasi tipo di ca-

valcatura.»

«Ma el Moro è un toro selvaggio e molto forte. Chiunque abbia provato a salir-

gli in groppa è finito molto male.»

«El Moro? Chi è el Moro?»

La voce di Kit, che sta ritornando insieme a Pete, fa girare la ragazza.

«Ciao, Kit. Signor Benson, questo è mio figlio Kit. Kit, il signor Benson e sua fi-

glia Deborah.»

1 Le ballyhoo-girl sono le ragazze che annunciano con cartelli i numeri del rodeo. 2 I kostoweh sono i copricapo indiani adornati con penne, solitamente d'aquila.

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Letizia

E Kit, togliendosi il cappello: «Buongiorno, signore. Buongiorno, miss Deborah»

e mentre saluta fa il baciamano alla ragazza che arrossisce.

«Ciao, Deborah.»

«Ciao, Pete.»

«Bene, adesso che ci siamo tutti, andiamo a sederci nei posti che ho prenota-

to.»

Quando lo sceriffo Larry Cole lancia il tradizionale grido d'inizio del rodeo, en-

trano in pista tutti coloro che partecipano alle varie gare.

Ognuno porta la bandiera dei vari stati che partecipano alla manifestazione.

Il corteo è preceduto dalla bandiera degli Stati Uniti.

Seguono poi le bandiera del Texas, New Messico, Arizona, Colorado, Oklaho-

ma, Ohio, Tennessee, South Carolina, Wyoming, Nevada, Louisiana.

Tra loro vediamo delle nostre conoscenze: Kit Willer, Pete Jefferson, Texas Kid

e Deborah Benson.

«Vostra figlia partecipa al rodeo, signor Benson?»

«Sì, signor Willer. Si esibisce, con altre ragazze, in gare di abilità, in sella al

suo baio.»

Chiude la sfilata un gruppo di indiani tra i quali Tex riconosce, nei tradizionali

costumi da cerimonia, alcuni dei suoi Navajo.

Al termine della parata, dopo l'esecuzione dell'inno nazionale da parte della

banda cittadina, iniziano le gare.

E la gara con il toro è proprio una delle prime.

Si tratta di un grosso animale, reso furioso dal recinto angusto in cui si trova

imprigionato e dalle urla di acclamazione del pubblico.

Ai bordi dell'arena, dietro le paratie di sicurezza, sono posizionati una mezza

dozzina di "pick-upper3" che tengono in mano "mantillas" rosse da agitare per

richiamare l'attenzione del toro.

I partecipanti alla pericolosa gara sono chiamati nell'arena in ordine alfabetico.

Kit è l'ultimo e Texas Kid è immediatamente prima di lui.

Quando il "fence-rider4" apre il portello dello stallo e il toro ne esce infuriato, il

primo cowboy non fa neanche in tempo a salirgli in groppa.

3 I pick-upper sono cowboy incaricati di allontanare dagli animali selvaggi i cowboy disarciona-ti.

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Il figlio di Tex I pick-upper escono subito agitando le mantillas per costringere il toro a se-

guirli e infilarsi nel corridoio che lo riporterà nello stretto recinto di partenza.

Gli altri partecipanti riescono a salire in groppa all'animale che però li disarcio-

na dopo pochissimi secondi.

E anche il Kid riesce a stare in groppa solo poco tempo, ma riesce a portarsi in

testa alla graduatoria: ben otto secondi.

E' ora il turno di Kit che porta, allacciati ai polsi, larghi e robusti bracciali di

cuoio.

Appena è in groppa del toro, afferra saldamente un capo della corda che l'ani-

male porta legata intorno al dorso, come già avevano fatto prima di lui i con-

correnti che l'hanno preceduto.

Ma, facendosi passare la corda attorno al polso protetto dal bracciale, si tiene

incollato alla schiena del toro che sgroppa selvaggiamente.

Quando Kit sente lo sparo del giudice a segnalare che il record degli otto se-

condi è stato superato, alza la gamba destra portandola sul lato sinistro della

schiena dell'animale e si lascia scivolare dalla groppa scendendo a terra senza

ruzzolare, tra gli applausi del pubblico.

Non era mai successo che un concorrente fosse riuscito a non farsi disarcionare

da un toro.

«Complimenti, signor Willer. Vostro figlio è riuscito in un'impresa veramente

eccezionale. E' un ragazzo molto in gamba.»

«Grazie, signor Benson. Devo dire che anch'io non mi aspettavo da parte di Kit

un simile comportamento.»

«Dovete essere molto fiero di lui.»

«In effetti è così. Anche se non lo dimostra, il vecchio satanasso è molto fiero

del mio figlioccio.»

Intanto nell'arena, dopo che il toro è stato allontanato, si presentano tutti i

concorrenti dell'ultima gara per la premiazione.

Qualcuno è un po' dolorante, ma nessuno troppo malandato, per fortuna.

Merito dei pick-upper che si sono dimostrati veramente in gamba.

«Complimenti, Kit. Sono contento di essere stato battuto da un cowboy abile

come te. Ovvio, sarebbe stato meglio per me se tu non fossi mai venuto a El

4 I fence-rider sono cowboy incaricati di condurre gli animali nei recinti chiamati stalli e di apri-re poi la porta per farli uscire.

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Letizia

Paso. Senza di te sarei stato io il vincitore. Ma va bene anche così. Bravo dav-

vero.»

«Grazie Kid. Ma devo dire che anche tu sei stato veramente bravo.»

«Ma, diavolo. Undici secondi in groppa al toro e sei smontato da solo, non sei

stato disarcionato. Se me l'avessero raccontato non l'avrei creduto.»

Nel frattempo, Pete arriva da Tex e gli altri, tutto trafelato.

«Avete visto per caso Deborah?»

«Credevo fosse con te, Pete.»

«No, signor Benson. L'ultima volta che l'ho vista è stato quando abbiamo par-

tecipato alla sfilata. Poi io sono andato al recinto dei cavalli selvaggi per vedere

quale dei mustang mi sarebbe toccato.»

«Può essere che sia andata con le altre "girl" a prepararsi per il suo spettaco-

lo.»

«Oh no, signor Jefferson. Ho controllato. Non l'hanno più vista neanche loro.

Sono molto preoccupato.»

«E di che cosa?» interviene Tex. «Con tutta questa confusione, l'hai solo persa

di vista.»

«Me è più di mezz'ora che la cerco. Non so proprio dove possa essere andata.»

Kit torna con il suo trofeo, accompagnato da Texas Kid.

«Cosa sono quelle facce? Cosa è successo, pa?»

«Pare che la figlia di Benson sia sparita, Kit.»

«Sparita? Come sarebbe a dire sparita?»

«E' un bel po' che la cerco, Kit. Sono stato in tutti i posti dove sarebbe potuta

essere, ma non l'ho vista da nessuna parte. Deborah non si è mai comportata

così.»

«Sono preoccupato anch'io, Willer. Mia figlia è una ragazza giudiziosa. Sa che

una sua assenza prolungata mi farebbe stare in pensiero. Se si fosse dovuta

allontanare, mi avrebbe certamente avvertito.»

«Mio Dio. Se le è successo qualcosa, io...»

«Calma, Pete. Vediamo di organizzarci. Ci divideremo e ognuno controllerà una

parte...»

Tex viene interrotto dal figlio.

«Cos'è che ti è caduto dalla tasca, Pete?»

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Il figlio di Tex «Caduto? Dove?»

«Dalla tasca della giacchetta. Mi sembra un foglio piegato.»

Si china a raccoglierlo e gli dà un'occhiata.

C'è scritto "Per Mr. Benson".

«E' indirizzato a voi, signor Benson.»

«A me?»

«Sei sicuro che sia caduto dalla mia tasca, Kit? Io non ho mai visto quel bigliet-

to. Non avevo nulla in tasca. Nemmeno del denaro.»

«Non ha importanza come ci sia finito nella tua tasca, Pete. Ora vediamo cosa

dice.»

«Tex ha ragione» aggiunge Alfie, «leggilo, Benson.»

Benson apre il biglietto e impallidisce.

«La mia bambina... la mia piccola.»

Tex raccoglie il biglietto che l'uomo ha lasciato cadere.

Lo legge.

«Deborah è stata rapita. Chiedono 50 mila dollari per rilasciarla. E sanno che

noi siamo qui. Chiedono che non ci immischiamo nella faccenda e così pure lo

sceriffo.»

«Se anche le torcono solo un capello...»

«Non lo faranno, Pete.»

«E tu che ne sai, Kid?»

«Niente. Ma non gli conviene.»

«Il Kid ha ragione. Sicuramente Deborah non ha nulla da temere. I soldi del ri-

scatto sono la sua migliore garanzia.»

«Forse ora, signor Willer. Ma quando avrò pagato il riscatto... Mio Dio.»

«Tranquillo, signor Benson. Ci penseremo noi a risolvere la situazione. Libere-

remo sua figlia e schiafferemo i rapitori in galera o all'inferno.»

«No, Carson.»

«Tex, ma che dici? Non vuoi dare una mano a...»

«Sì, certo. Ma non come intendi tu. Troppo pericoloso. Signor Benson, avete il

denaro che vi è stato chiesto?»

«Beh, in contanti no. Ma la banca mi presterà sicuramente il necessario. C'è il

mio ranch a garanzia. Vale molto di più.»

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Letizia «Bene. Non si tratta che aspettare allora e sentire come e quando i rapitori

vorranno essere pagati.»

«Ma Tex...»

«Zio Kit. Papà ha ragione. Non possiamo rischiare la vita di Deborah.»

«Ma...»

«Signor Benson, se la banca dovesse favi delle difficoltà, vi presterò io il dena-

ro. Mi basterà telegrafare alla mia banca a Gallup. L'autorizzazione alla banca

di El Paso a prelevare la cifra che vi serve arriverà in poche ore.»

«Vi ringrazio, signor Willer.»

«Nessun ringraziamento. Adesso pensiamo invece a come possiamo fare per

avere dai rapitori la prova che vostra figlia è ancora viva e gode di ottima salu-

te.»

«Beh, io penso che il sistema migliore è quello di avere un biglietto scritto da

Deborah che riporti una frase stabilita da noi. Lei conosce la grafia di sua figlia,

vero signor Benson?»

«E' vero, Kit. E' un'ottima idea. Conosco la scrittura di mia figlia alla perfezione

e mi accorgerei sicuramente se il biglietto non fosse scritto da lei.»

«Bene. L'idea di mio figlio è veramente buona. Pensi allora alla frase che sua

figlia dovrà scrivere nel biglietto, Benson.»

«Mi piacerebbe anche sapere se sta bene o se le hanno fatto del male, ma pur-

troppo non vedo come. I banditi potrebbero costringerla a scrivere che sta be-

ne.»

«Non è detto, signor Benson.»

«Come dici, Kit?»

«Ho già qualcosa in mente. Ne parleremo dopo con calma.»

«Mio figlio ha ragione. Ora è meglio che torniate al vostro ranch, Benson. Noi

faremo un salto da Alfie e poi verremo da voi.»

«Oh sì, grazie. Grazie infinite.»

«Arrivederci, signor Benson.»

Appena Tex, suo figlio e Carson rimangono da soli, il vecchio pard borbotta:

«Ma si può sapere che diavolo è preso a voi due? Non credete che i banditi,

appena hanno intascato i soldi, faranno fuori la ragazza che sicuramente li ha

visti in faccia e che potrebbe denunciarli?»

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Il figlio di Tex «Volevi che spiattellassi le nostre intenzioni davanti a testimoni?»

«Testimoni? Ma quali testimoni? C'erano solo Alfie, suo figlio Pete e Texas Kid

con noi. Non vorrai mica dire che sospetti di qualcuno di loro?»

«Non lo so, vecchio cammello. Pete mi è sembrato un po' strano ieri sera. E il

Kid non lo conosciamo.»

«Strano? A me è sembrato normalissimo. E anche il Kid mi è sembrato un ra-

gazzo a posto, educato e rispettoso.»

«Forse troppo. E Pete ieri sera non è andato a casa della sua ragazza. Troppo

stanco, ha detto. E doveva recuperare le forze. Balle. A quell'età non si ha bi-

sogno di recuperare le forze. Sento che c'è qualcosa che non mi quadra.»

«Tu e il tuo fiuto. Ma temo che questa volta il tuo naso ti abbia mandato fuori

strada.»

«Se è così, sarò il primo ad essere contento. Intanto nessuno deve sapere che

intenzioni abbiamo.»

«E tu che gli hai dato corda. Avevi capito tutto, vero, monello?»

«Certo che sì.»

«E allora adesso che si fa?»

«Noi due andiamo da Alfie e con lui ce ne andiamo al ranch di quel poveraccio,

come stabilito. Kit invece rimarrà qui e terrà gli occhi bene aperti. Una vocina

mi dice che i rapitori ci terranno d'occhio. Appena si saranno assicurati che noi

due siamo al ranch dei Benson, terranno d'occhio Kit e si chiederanno perché

non è venuto con noi.»

«La penso anch'io così. Non devo fare altro che gironzolare un po' qui e un po'

là e scoprire chi mi segue.»

«Ma non fare nulla prima del nostro ritorno. Limitati a individuarlo. Quando l'a-

vremo preso e lo faremo cantare è meglio che ci saremo tutti e tre.»

«Ok, pa'.»

«Ma dimmi un po', ragazzaccio. Che cosa avevi in mente quando hai detto che

sapevi come fare per avere la certezza che la ragazza sta bene o se è stata

maltrattata?»

«Beh, è una cosa molto semplice, zio. Poi ve la spiegherò.»

«Non credi che sia meglio che invece ce la racconti ora? Così potremo parlarne

con suo padre e preparare quel famoso biglietto?»

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Letizia «Ma sì, Kit. Diglielo. Lo sai che il vecchio cammello è più curioso di un ... di un

cammello?»

«Scherza, scherza, satanasso. Tanto sono sicuro che tu sei più curioso di me.»

«Va bene, va bene. Non litigate. Ve lo dico.»

"Uhm. Ci sono un paio di individui che ho già visto in almeno tre dei posti in

cui sono stato. Uhm. E' possibile che ci sia più di una persona che mi sta alle

costole. Mi sono comportato in modo tale da sembrare in cerca di qualcosa. In-

formazioni, indizi. Sembro uno sbirro che va in giro a far domande e devo aver

insospettito non poco eventuali "sorveglianti". Dopo aver accertato che papà e

lo zio sono andati veramente con Alfie e Pete al ranch di Benson, devono esse-

re tutti concentrati a sorvegliare me. Vediamo di confermare i miei sospetti su

quei due."

Kit se ne va ancora un po' in giro e infine entra in un saloon.

Va al banco del bar, ma non ordina niente.

Parla un po' con il barman, gli allunga una banconota da cinque dollari ed esce

velocemente.

Un cowboy dall'aria annoiata ha assistito con noncuranza alla scena.

Quando vede uscire Kit in tutta fretta, non lascia passare neanche un minuto

ed esce dal locale.

Guarda in strada ma non vede Kit che sembra essersi letteralmente volatilizza-

to.

Lo cerca con lo sguardo in giro e poi sente un leggero colpo di tosse alle sua

spalle.

Si gira.

Kit è seduto tranquillo su una panca vicino all'ingresso del saloon.

Non dice una parola e non degna lo sconosciuto di uno sguardo.

Questi, dopo un attimo di incertezza, si allontana verso l'altro lato della strada

ed entra in un altro locale poco distante.

"Bene. Il mio pollo si è rivelato. Può essere che anche l'altro faccia parte della

stessa banda. Ma a me basta averne individuato uno. Adesso da preda sono

diventato cacciatore e non mi scappi più bello mio. E non mi importa se ti sei

insospettito ed hai capito che io ora so chi sei. Non vedo l'ora che tornino i miei

due vecchi."

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Il figlio di Tex Tiene sempre d'occhio il locale in cui ha visto entrare il cowboy.

Lo vede alla finestra del locale che, senza farsene accorgere, sta controllando

la strada.

Dopo un po' Kit si alza e si dirige verso quel saloon, ma non vi entra.

Prosegue dritto per la main street e si accorge che il suo pollo esce dal locale e

si rimette a seguirlo con molta circospezione.

Sembra più tranquillo.

Forse crede che la sua "preda" non si sia accorta di lui.

Ma raddoppia comunque le sue precauzioni.

Kit lo fa girare un po' per le vie di El Paso.

Sembra quasi che voglia una ulteriore conferma dei suoi sospetti.

Ma non è così.

Vuole solo verificare se gli è alle costole anche il secondo sospettato, magari

per dare il cambio al primo.

Ma di lui nessuna traccia.

Ora sa che c'è solo un uomo della banda a sorvegliarlo.

E' quasi sera.

Vede in lontananza arrivare suo padre e Carson.

Con loro non ci sono Alfie e Pete.

Bene, molto bene.

Sono venuti da soli molto probabilmente perché non vogliono gente tra i piedi.

E' arrivato il momento di agire.

Kit non aspettava altro.

Non aspetta che i suoi due "vecchi" siano arrivati da lui.

Si infila in un vicolo, poi in un altro, allontanandosi sempre più dalle vie affolla-

te.

E naturalmente il suo pollo gli sta sempre dietro.

Un paio di minuti dopo, Tex e Carson arrivano ad uno dei saloon nella main

street.

Si sente un colpo di arma da fuoco.

Ma nessuno ci fa caso.

Non è la prima volta che qualche cowboy, in un eccesso di euforia, spara qual-

che colpo in aria.

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Letizia Tex non fa in tempo a entrare nel locale che vede suo figlio sbucare da un vi-

colo.

Sta trascinando un tizio nella polvere, tenendolo per il bavero della giacchetta.

«Tex, non è tuo figlio quello con quel bagaglio umano?»

«Pare proprio di sì, vecchio cammello. E credo anche di sapere chi è quel sacco

di patate che sta trascinando nella polvere.»

«Già. Il ragazzo non ha perso tempo, a quanto pare.»

Un colpo di fucile.

I tre pard scattano come molle gettandosi a terra.

Le colt nelle loro mani sono apparse quasi per miracolo.

Una ragazza grida spaventata mentre la gente che si trovava in strada si dile-

gua in un istante.

Si dispongono a triangolo, schiena contro schiena, per avere la visuale di tutta

la zona.

E guardano soprattutto sui tetti bassi delle case.

Niente.

Chi ha sparato si è già volatilizzato.

Kit, sempre tenendo la colt in pugno, dà un'occhiata all'uomo a terra.

Una larga macchia di sangue sul petto non fa prevedere niente di buono.

«E' morto, Kit?»

«Purtroppo sì, pa'. Gli hanno chiuso la bocca ancora prima che avesse il tempo

di aprirla.»

«Era uno dei rapitori?»

«Sì, zio Kit. Mi è stato alle costole tutto il pomeriggio.»

«Toh. Guarda chi sta arrivando. Il tutore della legge.»

Tex si gira.

«Già. La legge arriva sempre a cose fatte.»

«Speriamo che possa dirci qualcosa di utile su quest'uomo, pa'. Adesso non

abbiamo più niente in mano.»

«E' difficile, Kit. E' sicuramente uno dei tanti forestieri che sono venuti per la

fiesta.»

«E inoltre abbiamo peggiorato le cose. Ora i banditi staranno più in guardia.»

«Ho paura che questa volta hai ragione, vecchio cammello.»

«Come sarebbe a dire "questa volta"? Credi di aver sempre ragione solo tu?» 470

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Il figlio di Tex «Si può sapere cosa diavolo sta succedendo qui?»

«Oh, niente, sceriffo. Solo un piccolo morto ammazzato.»

«Ah, Willer. Dovevo immaginare che c'eravate di mezzo voi.»

«Oh, io non c'entro nulla sceriffo. Sono arrivato quando tutto era già finito. E il

morto non è stata opera mia. E' stato ucciso con un colpo di winchester. E nes-

suno di noi ne ha uno.»

«E' vero, sceriffo. Il colpo deve essere partito, a giudicare dal tipo di ferita, da

quelle case laggiù. Lei conosce quest'uomo, sceriffo?»

Si avvicina per dare un'occhiata.

«Mai visto prima d'ora.»

Intanto uno sparuto gruppo di persone, visto che il pericolo sembra ormai pas-

sato, si fa pian piano intorno ai nostri.

«Farò delle ricerche e, se ci sarà qualcuno che conosce questo poveraccio, ve

lo farò sapere. Ci sarà pure qualcuno che l'ha visto in giro.»

«Io l'ho visto, señor.»

«E tu chi sei?»

«Il mio nome è Paco, señor jerife. Paco Ramìrez.»

«Tu conosci quest'uomo? Sai chi è? Qual'è il suo nome?»

«Non lo so, jerife. L'ho visto due o tre volte al saloon di Josè.»

«Ma hai detto che lo conosci.»

«No, jerife. Ho detto che l'ho visto, non che lo conosco. Non so chi è.»

Tex interviene.

«Muy bien, Paco. Non lo conosci. L'hai visto parlare con qualcuno? Magari con

qualcuno che conosci?»

«No, señor. Se ne stava sempre per i fatti suoi. Era un tipo molto strano. L'ho

notato proprio per questo.»

"Qui non si cava un ragno dal buco" pensa Tex.

«Ok, ragazzi. Che ne direste di andare a mettere qualcosa sotto i denti?»

«Ah, io ci sto senz'altro.»

«Non avevo dubbi, vecchio cammello.»

Per fortuna riescono a trovare un tavolo libero e un quarto d'ora dopo i tre

pard sono intorno a un tavolo.

«Racconta quello che è successo, Kit. Come sono andate le cose?»

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Letizia E Kit racconta tutto quello che è successo dopo la loro partenza verso il ranch

di Benson.

«E così, quando vi ho visto in fondo alla main street, mi son fatto seguire in un

vicolo deserto e l'ho preso di sorpresa. Lui ha cercato di estrarre la colt, ma io

gliel'ho fatta volare dalla mano e l'ho addormentato con un colpo della colt sul-

la testa. Il resto lo sapete. E a voi al ranch, com'è andata?»

«Niente di particolare. Abbiamo cercato di sapere se Benson avesse avuto

qualche avvisaglia di quello che sarebbe successo, se avesse notato qualcosa

di sospetto, ma niente. E' un uomo distrutto, poveraccio. Alfie e suo figlio sono

rimasti con lui. Dormiranno lì stanotte.»

«Poveraccio davvero. Immagino la moglie.»

«Benson è vedovo, Kit. La moglie è morta quando Deborah aveva quattro anni.

E non si è più risposato. Praticamente l'ha cresciuta lui.»

«Cavolo.»

«Buona sera, signori.»

Texas Kid si avvicina al loro tavolo.

«Ciao, Kid.»

«Ci sono novità, signor Willer? Ho sentito che è stato ucciso un uomo questa

sera. E che voi eravate presenti. Forse è uno dei rapitori? »

«Forse, Kid. Ma è meglio che nessuno sappia nulla del rapimento. Per il bene di

Deborah. Quindi comportati come se non fosse successo niente. Ne hai per ca-

so già parlato con qualcuno?»

«Oh no, sir. Non mi sarei mai permesso. So quanto possa essere pericoloso

che si sappia in giro quello che è successo. I banditi potrebbero innervosirsi e

commettere qualche sciocchezza.»

«Già, è proprio così. Sei un ragazzo in gamba, Kid.»

«Se posso fare qualcosa, signor Willer, io sono a vostra completa disposizio-

ne.»

«Non è necessario, Kid. Purtroppo non c'è nulla che possiamo fare. Dobbiamo

solo aspettare che i banditi si facciano vivi.»

«Beh, nel caso ci ripensiate, sapete dove trovarmi. Io sarò tutto il giorno al ro-

deo. Buona sera, signori.»

«Ciao, Kid.»

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Il figlio di Tex Mentre il giovane si allontana, Kit chiede al padre: «Non sarebbe stato meglio

accettare il suo aiuto, pa'?»

«Ti ho detto che non ho ancora completa fiducia in lui. E poi, per ora non ci

serve.»

«E adesso che si fa allora?»

«Faremo un paio di giri per la città tenendo gli occhi ben aperti. Anche se cre-

do che difficilmente i rapitori commettano altri errori stasera. E poi faremo un

salto dalla sceriffo per sapere se qualcuno ha riconosciuto il morto.»

La mattina dopo Tex, suo figlio e Carson sono già a El Paso da un pezzo

quando vengono avvicinati da Pete e da suo padre Alfie.

«Ci sono novità, signor Willer?»

«Sì, Pete. Ma non sono buone, purtroppo. Kit ha individuato uno dei rapitori e

lo ha anche catturato, ma purtroppo i suoi complici lo hanno ucciso per chiu-

dergli la bocca.»

«Mio Dio. Sono degli spietati assassini. Uccideranno la mia Deborah. Lo so. Lo

sento.»

«Su, coraggio, Pete. Vedrai che tutto andrà bene. Tutto si risolverà per il me-

glio.»

«Magari, signor Willer, magari.»

«Ehi, Pete, hai un biglietto che sporge dal taschino della tua giacchetta. Che

diavolo è? Non mi dire un altro messaggio di quelle canaglie.»

«Come dice, signor Carson?»

«E' vero, Pete. Hai un biglietto in tasca.»

«Hai ragione, Kit. Ma non è... mio Dio, che sia davvero un altro biglietto dei

rapitori?»

«Fai vedere.»

Pete consegna il biglietto a Tex che lo apre e lo legge.

«Pete, mi spieghi una cosa? Come mai ti ritrovi sempre in tasca questi bigliet-

ti?»

«Cosa vuol dire, signor Willer?»

«Pete, parliamoci chiaro. Il tuo comportamento in questi due giorni è stato un

po' strano, non ti pare? Stai nascondendo qualcosa?»

«Ma no, assolutamente. Io...»

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Letizia «Sii sincero, Pete. Tu nascondi qualcosa. Cosa?»

«Ma io... io...»

Alfie guarda suo figlio con aria sorpresa.

«Mio Dio, Pete. Che cosa hai combinato?»

«Avanti, Pete.»

«Non ho combinato niente, papà. Signor Willer, non crederà mica che sono

d'accordo con i rapitori? Deborah è la mia ragazza. Io darei la mia vita per lei.»

«E allora dimmi cosa c'è che non va.»

«Io... io... Deborah...»

«Avanti, non ti far tirare le parole fuori dalla bocca.»

«Io e Deborah abbiamo litigato, signor Willer. Lei ha detto che non voleva più

vedermi. E io... io... quando ho saputo del rapimento, non sapevo più cosa fa-

re. Sono stato uno stupido. Ho avuto paura, non so nemmeno io di cosa. Avrei

voluto dirvelo, ma ho avuto paura. E poi a che sarebbe servito? Solo a mettervi

su una falsa pista, perché io, vi giuro sul mio onore, non c'entro per nulla con il

rapimento di Deborah. Io non sono capace di far male neanche a una mosca,

figuriamoci alla persona che amo più della stessa mia vita.»

«Uhm. E perché avete litigato?»

«Perché non volevo che lei partecipasse al rodeo. Vede, signore, le girl che

partecipano al rodeo hanno tutte un costume con un gonnellino molto corto. E

io... beh, io ero...»

«Tu eri geloso, lo so. Conosciamo la storia.»

«Tu sta' zitto, vecchio cammello.»

«Sta' zitto tu. Ogni tanto anche tu prendi una cantonata. Dicci piuttosto cosa

dice quel biglietto, satanasso.»

«I rapitori hanno alzato la posta. Se la sono presa per lo scherzetto tirato al lo-

ro complice. Ora vogliono 60 mila dollari.»

«Esosi. Dovevano essere contenti invece. Uno di meno con cui spartire. La fet-

ta sarebbe stata comunque più alta.»

«Che si fa ora, pa'?»

«Semplice. Gli diciamo che vogliamo la prova che la ragazza è viva.»

«E come intendi dirglielo, tizzone d'inferno?»

«Scriverò un biglietto e lo appenderò con gli avvisi di taglia, sulla parete ester-

na dell'ufficio dello sceriffo.» 474

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Il figlio di Tex «Non credi che rendere pubblica la cosa sia una pessima idea, pa'?»

«Certo che sì. Ma resterò sul vago.»

«Cosa scriverai, tizzone d'inferno.»

«Lo vedrai.»

Tex si avvia verso l'ufficio del marshall, seguito dai suoi amici.

Si fa dare dall'aiuto-sceriffo un foglio e una matita e scrive.

"Vogliamo sapere che lei sta bene. Vi faremo avere un biglietto con una frase

convenzionale che dovrà scrivere. Fateci sapere dove e come."

Appende infine il biglietto accanto agli avvisi di taglia e prega il vice-sceriffo di

non toglierlo dalla parete.

«Sì, vecchio satanasso. Mi pare sufficientemente vago. Chiunque lo leggerà

non ci capirà un accidente.»

«Tranne i rapitori, zio Kit.»

«Già, tranne i rapitori.»

«E ora non ci rimane che aspettare.»

La risposta non tarda ad arrivare.

E non indovinerete mai in che modo.

No, avete sbagliato.

O almeno in parte.

E' sempre Pete il bersaglio preferito dei rapitori, ma stavolta niente biglietti in

tasca.

Forse i banditi hanno pensato che sì, Pete è sicuramente più ingenuo di Tex e i

suoi pard e anche meno pericoloso, ma dopo la seconda volta sarebbe stato si-

curamente più in guardia.

E così gli fanno trovare il biglietto tra i piedi.

Ma si vede che non si fidano troppo del suo "occhio clinico" perché trovano altri

tre o quattro biglietti identici sparsi un po' qua e un po' là.

Il biglietto dice: "Non se ne parla neanche. Vi faremo sapere le modalità del

pagamento. Se volete comunicarci qualcosa, scrivete un biglietto e appendete-

lo bene in vista alla parete sud della casa dipinta di giallo in fondo alla main

street. Mettete una lampada accesa che lo illumini sufficientemente."

«Tex, che si fa? Questi non ci sentono proprio.»

«E' semplice, compadre. Non ci sentiremo neanche noi.»

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Letizia «Che vuoi dire, pa'? Non possiamo rischiare la vita di Deborah. E non possiamo

andare dal padre a dirgli che vuoi giocare duro.»

«Certo che no, Kit. Ma sono sicuro che la ragazza non rischia niente. Non pos-

siamo arrenderci così. Se cediamo, i banditi possono pensare che pagheremo

anche senza garanzie e magari potrebbero sbarazzarsi di Deborah che costitui-

sce sicuramente un grosso peso per loro. No. Si insiste per avere la prova che

è viva. Chiederemo a suo padre di scrivere il famoso biglietto che la figlia do-

vrà ricopiare e poi lo appenderemo dove hanno chiesto loro. Intanto mettere-

mo questo.»

Scrive poi su un foglio: "Niente prova, niente denaro. Attendete istruzioni."

Chiede poi a Kit e a Pete di andarlo a sistemare e di accendere la lampada ri-

chiesta dai rapitori.

«Io e Carson intanto andiamo al solito saloon dove abbiamo l'appuntamento

con Alfie e il povero Benson. Ci vediamo là.»

Mentre i due giovani si allontanano, Tex e Carson si incamminano verso il

saloon.

«Credi di aver fatto la cosa giusta, Tex?»

«Sì, Kit. Sono convinto che la vita di quella povera ragazza dipenda anche dalla

nostra determinazione. E quando quei maledetti leggeranno il biglietto di Ben-

son, capiranno anche che non gli conviene farle del male. E sono anche convin-

to che non gliene hanno fatto fino ad ora. Sanno che noi siamo a El Paso e

sanno anche che se uccidono Deborah sono finiti. Sanno che siamo dei mastini

e che non lasceremo impunito il loro delitto.»

«Ma anche così, cosa hanno da perdere? Non li lasceremo certo andare a spas-

sarsela con il denaro del riscatto.»

«Ma loro sperano che se liberano la ragazza senza farle del male, potremmo

anche non dar loro la caccia. Specialmente se saranno così in gamba da non

lasciare tracce. In fondo non sarà successo nulla di irreparabile. Praticamente

solo un furto.»

«Ma uno di loro ci ha lasciato la pelle. E' omicidio.»

«E' vero. Ma loro possono sempre sperare che molliamo l'osso. In fondo si so-

no ammazzati a vicenda. Il morto era uno di loro.»

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Il figlio di Tex «Dove credi che abbiano nascosto la ragazza? Al di là del Rio Bravo? Forse a

Juàrez? 55»

«Quien sabe, Kit? Sarebbe logico pensarlo. Cercarla lì sarebbe certo più com-

plicato per noi. Ma forse è proprio per questo che non l'hanno portata lì.»

«Bah, staremo a vedere. Speriamo che vada tutto bene.»

«Andrà bene, vecchio cammello, vedrai. Ma adesso pensiamo alla lettera che

Benson deve scrivere. La voglio "recapitare" al più presto.»

«Pensi di beccare quei farabutti mentre cercheranno di leggerla? Non è poi così

breve e ci vorrà del tempo per leggerla e per trascriverla. Non saranno certo

così idioti da andare a toglierla da dove l'abbiamo messa.»

«No certo. E non ci andranno neanche vicino. Hanno chiesto di affiggerla alla

parete sud della casa. Il che vuol dire che, con un buon binocolo, la possono

leggere da una qualsiasi delle case della main street. E sono troppe dannazio-

ne.»

«Stanno dimostrando sempre di più di essere molto furbi, maledizione.»

«Già è praticamente impossibile controllare tutte le finestre. Senza contare che

la sera, con le luci della stanza spente, possono guardare senza sporgersi e

senza essere visti.»

Entrano nel saloon affollato dove li aspettano Alfie e Benson.

Un'ora dopo un altro biglietto è illuminato dalla lampada nella casa gialla.

«Dannazione, quegli sbirri bastardi sono furbi più del diavolo.»

«Che facciamo adesso, capo?»

«Vi ho detto mille volte di non chiamarmi capo, maledizione.»

«E come diavolo ti devo chiamare? Vuoi che ti chiami per nome? La ragazza

nell'altra stanza potrebbe sentirmi, lo sai.»

«Già, è vero. Scusami, ma quell'idiota che ho dovuto accoppare mi ha fatto

venire i nervi.»

«Sarà meglio che te li fai passare, allora. Abbiamo tutti bisogno di essere calmi

e lucidi.»

«Hai ragione. E' proprio per questo che vi ho proibito di bere. Proprio perché

dobbiamo avere la mente lucida. Non bisogna farci fregare da quei demoni.»

5

5 El Paso è una città di frontiera divisa in due dal Rio Grande, che i messicani chiamano Rio Bravo (fiume selvaggio), e Juàrez è la parte messicana della città, a sud del fiume.

477

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Letizia «Allora, che si fa con questa maledetta lettera?»

«Che vuoi fare? Facciamo come dicono loro, dannazione. In fondo la ragazza

sta bene, no?»

«Ok. Vado io, allora?»

«No. Ci vado io.»

Quello che pare il capo della banda indossa un cappuccio nero ed entra nella

stanza accanto.

La ragazza è legata alle mani e ai piedi, ma non è imbavagliata.

E' sdraiata sopra un pagliericcio che chiamare letto sarebbe un'offesa anche

per un tavolaccio della prigione della città.

«Com'era la tua bambola preferita, ragazzina?»

Deborah lo guarda stupita.

«Com'erano i suoi capelli? Di che colore?»

«Io non sono una ragazzina. Sono una donna» risponde Deborah ignorando

l'assurda domanda che le ha posto il bandito.

«Attenta, mocciosa. Potrebbe essere molto pericoloso ricordarmi quello che sei.

Per te, naturalmente.»

La ragazza tace impaurita, rannicchiandosi come può sul pagliericcio.

«Allora? Si può sapere di quella dannata bambola? Di che colore erano i suoi

capelli?»

«Verdi.»

«Attenta, ripeto. Potrei perdere la pazienza.»

Deborah tace.

Ha paura davvero.

Quel bandito che non ha mai visto in volto, con quel sinistro cappuccio nero

sulla testa, le fa davvero paura.

«Ok. Fa lo stesso.»

Estrae un grosso coltello dalla cintura e si avvicina alla prigioniera che grida at-

territa.

«Buona, buona. Non temere. Non ti farò del male.»

Avvicina il coltello alle mani della ragazza e recide con un colpo secco le corde

che legavano le sue mani.

«Tieni. Devi scrivere una lettera.»

Le porge un biglietto. 478

Page 479: TuttoLet - Altervistapecosbill.altervista.org/Romanzi/TuttoLetizia.pdfTex Willer - Aquila della Notte Kit Carson - Capelli d'Argento Kit Willer - Piccolo Falco - Falco Nero - Mano

Il figlio di Tex «Ma stai attenta. Una parola di troppo, anche una sola, e sei spacciata. Una

sola parola diversa da quelle scritte qui e... Hai capito?»

La ragazza prende il biglietto dalle mani del bandito.

«Hai capito?»

«Ho capito, ho capito.»

Legge il biglietto.

«Adesso capisco quella stupida domanda.»

«Sta' zitta, adesso. E scrivi.»

Le porge un foglio e una matita.

«E sta' attenta.»

Sapete cosa vi dico, ragazzi?

Credo proprio che Pete non c'entri nulla con il rapimento della sua ragazza.

Credo che sia davvero innocente come un agnellino (e se lo dico io ci potete

credere. Forse).

Lo so, lo so.

L'avete già capito.

La risposta dei kidnapper ce l'ha di nuovo lui in tasca.

Ma si può essere più ingenui di così?

Ma, quando cammina, dove li mette gli occhi (se ce l'ha)?

Quando va a cavallo non gli servono, c'è già il cavallo che ce l'ha.

Ma quando va a piedi?

Mah?

E il bello è che sono sempre gli altri ad accorgersi della "posta" che si porta

appresso.

E questa volta è toccato a Tex, mentre erano tutti a tavola, Alfie e Benson

compresi.

Tex naturalmente passa il biglietto a Benson senza aprirlo.

E Benson lo legge.

"Bambina mia, ho chiesto ai tuoi rapitori di farti scrivere di tuo pugno queste

righe, così come le ho scritte io, per avere la conferma che sei viva. Ma questo

non mi basta. Voglio anche sapere se stai bene e, poiché potresti essere co-

stretta a mentire, ho escogitato questo sistema. Mi scriverai il colore dei capelli

della tua bambola preferita, se stai bene. Se invece stai male, scriverai il colore

479

Page 480: TuttoLet - Altervistapecosbill.altervista.org/Romanzi/TuttoLetizia.pdfTex Willer - Aquila della Notte Kit Carson - Capelli d'Argento Kit Willer - Piccolo Falco - Falco Nero - Mano

Letizia dei capelli di quella che hai rotto perché non ti piaceva. Ti voglio tanto bene,

piccola mia e ti giuro che sarai presto a casa dal tuo papà. Colore dei capelli:

rossi. Debora"

Benson alza gli occhi dal biglietto ed esclama: «Rossi?»

«Cosa c'è, signor Benson? C'è qualcosa che non va?»

«La mia Deborah non ha mai avuto una bambola con i capelli rossi, signor Wil-

ler. Non capisco.»

«Strano davvero.»

«La sua bambola preferita era bionda e l'altra, quella che ha rotto, aveva i ca-

pelli neri. Cosa c'entrano i capelli rossi?»

«Forse voleva farci capire qualcosa. Intanto non ha scritto neri. E quindi non

l'hanno maltrattata. Sta bene. E questo è molto importante.»

«Certo, Willer. Ma perché non ha scritto biondi?»

«Posso vedere il biglietto, signor Benson?»

«Certo, Kit. Tieni.»

Il figlio di Tex prende il biglietto e lo guarda attentamente.

«Il nome di sua figlia si scrive con la lettera acca finale o senza, signor Ben-

son?»

«Con la acca, Kit. Perché me lo chiedi?»

«Perché lei si è firmata Debora, senza la acca finale. Guardi.»

Gli porge il biglietto.

«E' vero. Ma è assurdo. Mia figlia non si è mai sbagliata a scrivere il suo nome.

E' la prima volta.»

«E' sicuro che sia la grafia di sua figlia, Benson?»

«Sicurissimo, Carson. E' la sua scrittura. E' inconfondibile. E anche i segni che

infiorettano tutti i suoi scritti. Ne sono più che certo.»

«In effetti questi segni sono un po' strani.»

«Strani? Cosa vuoi dire?»

«Sono strani, pa'. Come se fossero... ma sì... certo. Come ho fatto a non pen-

sarci prima?»

«Cosa c'è? Cosa hai scoperto.»

Ma la domanda di Tex rimane senza risposta.

Kit continua a esaminare il foglio con attenzione.

«Sette punti, una linea, sei punti. E' il codice Morse.» 480

Page 481: TuttoLet - Altervistapecosbill.altervista.org/Romanzi/TuttoLetizia.pdfTex Willer - Aquila della Notte Kit Carson - Capelli d'Argento Kit Willer - Piccolo Falco - Falco Nero - Mano

Il figlio di Tex «Morse? Vuoi dire quello usato dal telegrafo?»

«Proprio quello, pa'.»

«E cosa significa?»

«Mi sembra... Quattro punti, una acca. Due punti, una i. Un punto, una linea e

due punti, una elle. Quattro punti, un'altra acca. HILH.»

«Ma che diavolo vuol dire?»

«Credo che sia HILL e un'altra parola che inizia con acca, zio Kit.»

«HILL? Collina? Ma non si scrive con due elle?»

«Certo, zio. Ma credi che Deborah abbia avuto il tempo e la possibilità di scri-

vere correttamente? La acca potrebbe stare per house. La casa sulla collina.»

Alfie salta su come un grillo.

«Ma certo, perbacco. La casa sulla collina a due o tre miglia a nordest di El

Paso. Una volta era un capanno per la caccia. Ora è poco più di una stamber-

ga. Non ci va più nessuno da molti anni.»

«E' vero, papà. Ci siamo andati qualche volta io e Deborah a...»

«Lascia perdere, Pete.»

«Ma, signor Willer. Non è come pensa lei. Io e Deborah... Le giuro, signor Ben-

son. Deborah e io ci vogliamo bene, ma noi non... cioè... noi...»

«Va bene, Pete. Sei un bravo ragazzo, lo sappiamo. L'importante è che ora

sappiamo dov'è Deborah. Le cose ora vanno per il verso giusto, finalmente.»

«Tutto merito di suo figlio, Willer. E' un ragazzo veramente in gamba. Deve es-

sere veramente fiero di lui.»

«Grazie, signor Benson. E' così infatti. Anche se non glielo dico spesso.»

«Spesso? Non glielo dici mai, tizzone d'inferno.»

«Ma anche sua figlia è molto in gamba, signor Benson. Ha avuto presenza di

spirito e un sangue freddo eccezionale. Ci ha messi in allarme prima con i ca-

pelli rossi e poi con la firma scritta male. Mi ha incuriosito e mi sono così accor-

to che i suoi segni erano in realtà un messaggio per noi. Senza contare che co-

nosce il codice Morse. Veramente brava.»

«Ma ora basta con i complimenti. E' meglio che ce ne andiamo tutti quanti al

ranch del signor Benson e lì studieremo un piano.»

«Ma non è meglio, signor Willer, che rimaniamo qui in città? La casa della colli-

na è molto vicina e ci si può arrivare in dieci minuti. Dal ranch invece, ci vuole

più di un'ora.» 481

Page 482: TuttoLet - Altervistapecosbill.altervista.org/Romanzi/TuttoLetizia.pdfTex Willer - Aquila della Notte Kit Carson - Capelli d'Argento Kit Willer - Piccolo Falco - Falco Nero - Mano

Letizia «Non ha importanza, Pete. Tanto agiremo solo questa notte. Ed è meglio che

nessuno si faccia vedere in giro. I banditi ci tengono d'occhio e potrebbero no-

tare che non siamo più così preoccupati come prima. Potrebbero sospettare

qualcosa.»

Come dire "ho paura che tu, giuggiolone come sei, ti faccia scoprire troppo al-

legro per essere il fidanzato di una ragazza che è stata sequestrata".

Ma naturalmente Tex non lo dice.

Un quarto d'ora dopo, sono tutti in sella e stanno lasciando El Paso, diretti ver-

so il ranch di Benson.

«Kit, sei sicuro che quei segni sul biglietto siano sul serio un messaggio di De-

borah e che si riferiscano veramente alla casa sulla collina? In fondo sono solo

una serie di punti inframmezzati da un trattino. Senza contare che ci vuole una

bella fantasia a interpretare come "collina" e "casa" le quattro lettere HILH.»

«Sì, zio. Sono sicuro. Il significato dei segni è sicuramente HILH. Ed è molto

plausibile che Deborah abbia riconosciuto la casa. C'era già stata con Pete.»

A quelle parole Pete diventa rosso come un peperone.

E Kit prosegue.

«Se avesse voluto indicarci il luogo dove è tenuta prigioniera, come avrebbe

dovuto comportarsi? Conosce il codice usato dal telegrafo. Certo non poteva

sapere che anch'io lo conoscevo o che lo conoscesse qualcuno di noi. Ma sa-

rebbe bastato un nostro sospetto. Se avessimo soltanto avuto l'intuizione che

potesse trattarsi del codice telegrafico, lo avremmo fatto tradurre dall'addetto

al telegrafo. E ha scritto prima la cosa più importante: la collina. Con una elle

sola, ma poco importa. E poi la seconda acca che può voler dire solo house. Sì,

zio. Sono proprio sicuro.»

«Ok, ok. Hai ragione. Stai diventando sempre più come tuo padre.»

«Che vuoi dire, vecchio cammello?»

«Che anche tu hai sempre ragione, matusalemme ballerino.»

«Beh, non è certo colpa mia.»

Sono ormai le dieci di sera.

«Kit, vai a prendere i cavalli. Io e il vecchio brontolone ti aspettiamo qui.»

«Vai anche tu con lui, Pete. E porta qui anche i nostri due.»

«Ne abbiamo già parlato, Alfie. Tu non vieni con noi. E neanche tuo figlio.»

482

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Il figlio di Tex «Non se ne parla nemmeno, Tex. Io vengo con te. E anche mio figlio non vede

l'ora di fare qualcosa per togliere la sua ragazza dalle grinfie di quei disgrazia-

ti.»

«No, Alfie. Mi sareste solo d'impiccio.»

«Che vuoi dire, Tex? Che sono vecchio e che non sono più in grado di mettere

le mani ai ferri da tiro? Che non valgo più niente?»

«Non dire idiozie, Alfie. So benissimo invece che sei ancora in gamba come una

volta, quando tu eri nei ranger con noi. Il fatto è che io, il vecchio Carson e

mio figlio ormai ci capiamo ancora prima di parlare. Ognuno di noi sa esatta-

mente come si comporteranno gli altri due. Dopo tanti anni siamo molto affia-

tati. Di te e di tuo figlio invece non so niente. Non so come vi comporterete.

Non si tratta di una operazione di difesa in cui conta il numero e una pistola in

più fa sempre comodo.»

«Ma Tex...»

«No, Alfie. Non ti offendere. E' meglio essere pochi. Bisogna agire in silenzio e

velocemente. E nessuno è meglio di mio figlio in queste cose. Lui è mezzo in-

diano, lo sai. E' capace di passarti davanti a meno di due metri senza che tu lo

veda. E poi, credo proprio che i rapitori siano solo quattro.»

«Come fai a dirlo con tanta sicurezza, tizzone d'inferno?»

«Semplice, Kit. Hanno chiesto un riscatto di 50 mila dollari. Questo mi fa sup-

porre che erano cinque. Diecimila dollari a testa. Plausibile, no? Uno lo hanno

fatto fuori e quindi sono rimasti in quattro. E quando hanno alzato la richiesta,

hanno chiesto 60 mila. 50 diviso quattro fa 12 mila e 500. Hanno eliminato gli

spiccioli arrotondando a 15 mila a testa. Tutto quadra. Ora sono quattro.»

«E tu 500 dollari li chiami spiccioli? E poi sai cosa ti dico? Mi hai fatto venire il

mal di testa con tutti questi calcoli. Sembri un vecchio professore, satanasso.»

«Cos'è tutto questo chiasso?»

E' Kit di ritorno con i tre cavalli sellati.

«E' tuo padre che ci ha dato lezioni di geometria.»

«Geometria, zio Kit?»

«Lascia perdere il vecchio cammello, figliolo. Non sa distinguere la geometria

da una pecora zoppa.»

«Te la do io la pecora zoppa, tizzone d'inferno.»

483

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Letizia «Ma possibile che abbiate sempre voglia di scherzare voi due? Anche in mo-

menti come questi? State andando a rischiare la pelle, senza tra l'altro preten-

dere nulla in cambio, e ci andate con il sorriso stampato sulle labbra?»

«Non dimenticare che siamo ranger, Alfie. E' il nostro mestiere. E poi l'ironia e

il buonumore aiutano a scaricare la tensione nervosa e a mantenere il sangue

freddo. E non è certo colpa mia se Carson è un buontempone.»

«Dio mi tenga alla larga da nemici come questo "buontempone".»

«Bravo, Alfie. Diglielo che è meglio stare lontani dalle mie colt.»

«Davvero non vuoi che veniamo con voi, Tex?»

«No, Alfie. Davvero. Rimani qui al ranch con il signor Benson. Non credo riusci-

rà a chiudere occhio stanotte. Stagli vicino.»

«Oh, signor Willer. Non sono più riuscito a dormire da quando la mia piccina

non è più con me. Riuscirò a prender sonno solo dopo che l'avrò abbracciata,

solo dopo che la stringerò a me, sana e salva.»

«E allora preparatevi. Quel momento arriverà molto presto.»

«Dio vi benedica, signor Willer. Dio vi benedica.»

Tex salta in sella, seguito dai suoi due pard.

Controllano colt e winchester e partono per la casa sulla collina dove troveran-

no Deborah prigioniera di quattro sconosciuti.

Quattro fuorilegge che hanno dimostrato astuzia e crudeltà.

Sarà una lotta all'ultimo sangue perché i banditi non si faranno certo catturare.

Sanno che ad aspettarli c'è la forca.

Meglio tentare la sorte.

E comunque è sempre meglio una morte rapida per una pallottola che il nodo

scorsoio intorno al collo.

La casa sulla collina si trova in una radura circondata da un bosco che ha un

unico sentiero accessibile ai cavalli.

E' buio pesto.

La luna è una falce così sottile che non riesce a illuminare praticamente nulla.

Per fortuna c'è la debole fiamma di una lampada appesa alla porta della piccola

capanna di tronchi.

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Il figlio di Tex «E' meglio proseguire a piedi» sussurra Tex al figlio e a Carson. «Ma non lasce-

remo qui i cavalli. Qualcuno dei rapitori potrebbe essere ancora a El Paso e,

tornando qui, li vedrebbe.»

«Magari fosse come dici, pa'. Se i banditi sono solo un paio, liberare la ragazza

sarà uno scherzo.»

«Ok, satanasso. Ma dove vuoi che li lasciamo? Farli uscire dal sentiero sarà

un'impresa ardua.»

«Ma non impossibile.»

«E poi lasceremo tracce evidentissime di rami spezzati.»

«Che, con questo buio, sarà impossibile notare. Anche per gente come noi.»

«Ma i cavalli dei banditi potrebbero sentire i nostri.»

«Non se li porteremo sufficientemente lontani e se gli fasceremo il muso per

impedirgli di nitrire. Ma lo sai che sei proprio noioso? E se anche sospettassero

la nostra presenza? Hai forse paura?»

«Paura io?»

«Papà ha ragione, zio Kit. Se davvero i banditi si sono divisi in gruppi di due,

una volta liberata Deborah e messi fuori combattimento i primi due, gli altri

non costituiranno certo un problema per noi, neanche se si accorgessero di

noi.»

«Ok, saputelli. Spero solo di non graffiarmi con tutti questi rovi.»

Nel giro di mezz'ora sono a un tiro di fucile dalla capanna.

«C'è un uomo sul tetto, pa'.»

«C'era da aspettarselo che ci fosse qualcuno di guardia.»

«Non sono poi tanto furbi, pa'. Per una sentinella il modo migliore di farsi im-

pallinare è quello di mettersi in bella mostra.»

«Sembra anche a me, Tex. Una sentinella furba sta ben nascosta in modo che

nessuno sospetti che ce ne sia una.»

«Evidentemente si sentono al sicuro. Hanno messo un uomo di guardia magari

solo perché il capo è un tipo pignolo.»

«Ci penso io a metterlo a nanna, pa'.»

«Aspetta. Non sappiamo ancora con certezza quanti sono.»

«Sotto la tettoia io vedo solo due cavalli, satanasso.»

«Non lo puoi dire con certezza, vecchio cammello. Troppo buio.»

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Letizia «Non ti preoccupare, pa'. Lo addormento con una sassata. E poiché il tetto non

è spiovente, non c'è pericolo che cada e faccia rumore.»

«Una sassata? Ma di qua non ce la farai a tirare così lontano.»

«Lo dici tu, zio. Sta' a vedere.»

Kit si sfila velocemente la cintura dei pantaloni e la fascia al centro con il fazzo-

letto.

Prende poi un sasso e lo appoggia sul fazzoletto facendo in modo che non ca-

da.

Infine afferra le due estremità della cintura e fa roteare la fionda improvvisata.

Quando lascia una delle due estremità, il sasso parte velocemente.

La sentinella si accascia senza un gemito.

«Per Giove, sei meglio di Davide, quel tizio che ha spaccato il cranio a Golia.»

«Spero solo di non averlo ucciso, zio.»

«Uhm. Con un colpo così, anche uno con la zucca molto dura, dubito che sia

ancora in questa valle di lacrime.»

«Amen, satanasso.»

Strisciano senza fare il minimo rumore e si avvicinano alla capanna.

Per fortuna i cavalli sono sottovento.

Tex fa cenno al figlio di portarsi sul retro della casa e a Carson di andare nella

parte opposta.

Cerca poi di guardare attraverso una finestra che però è chiusa con due ante di

legno.

L'interno non si vede.

I cavalli sono davvero solo due.

Il che vuol dire che nella capanna, oltre alla ragazza, ci dovrebbe essere solo

un bandito.

Deborah si trova quasi sicuramente nella stanza ad ovest, quella senza porta

né finestre e il fuorilegge nella stanza accanto, quella che si trova oltre la por-

ta.

Tex sa perfettamente la conformazione della capanna.

Gliel'ha descritta minuziosamente Pete.

Persino la disposizione dei pochi mobili che ci sono e dove si trova il camino,

cosa tra l'altro facilmente individuabile dalla posizione del comignolo sul tetto.

E' come se ci fosse già stato. 486

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Il figlio di Tex Cerca di aprire la porta, lentamente senza fare rumore.

Ma è chiusa dall'interno.

Tex prende la lampada con la sinistra dopo aver alzato la luce della fiammella.

Succede tutto in un istante.

Con la colt nella destra, spalanca la porta con un calcio e, facendo luce con la

lampada che gli mostra un unico bandito nella stanza, fa fuoco su di lui, cer-

cando solo di ferirlo.

Nello stesso istante Kit irrompe dalla finestra nel retro dopo averla divelta con

una spallata.

Dalla stanza accanto si sente Deborah che urla spaventata.

Mentre Carson entra nella capanna e tiene d'occhio il rapitore ferito, Tex cerca

di aprire la porta della seconda stanza.

E' chiusa a chiave.

«Deborah, sono Tex Willer. Stai bene?»

«Willer. Oh, mio Dio. E' lei signor Willer. Sì sto bene, sto bene.»

«Allontanati dalla porta.»

Fa fuoco sulla serratura ed entra, sempre con la lanterna in mano.

La ragazza è stesa sul pagliericcio, legata mani e piedi.

Kit entra nella stanza.

«Ciao, Deborah. Stai bene?»

«Oh sì, Kit. Ma ho avuto tanta paura.»

«Non temere. Ora siamo qui noi.»

Si avvicina a lei e le taglia le corde con il suo bowie.

Deborah lo abbraccia piangendo.

«Su, su. Cosa sono queste lacrime? Una ragazza coraggiosa e in gamba come

te non dovrebbe piangere.»

«Oh, Kit. Sapessi invece quanta paura ho avuto.»

«Ragazzi, vorrei ricordarvi che il pericolo non è ancora cessato. Ci sono ancora

gli altri due. A proposito, Deborah. Quanti erano i banditi?»

«Non lo so, signor Willer. Io ne ho visti solo due. Ma ho sentito le voci almeno

anche di un altro.»

«Non ha importanza. Kit, tu va con lei e portala in un luogo sicuro. Dalla parte

opposta da dove siamo arrivati. E rimani con lei. Qui bastiamo io e Carson.»

«Ok, pa'.» 487

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Letizia

«Sei stata molto brava, sai? Non sapevo che tu conoscessi il codice Morse.»

«Beh, ci ho provato, Kit. Non ero neanche sicura che avreste capito il trucco

del messaggio cifrato. Chi di voi lo ha scoperto? Sei stato tu?»

«Sì, ma ci ho messo un po'. Una serie di segni seminascosti tra le parole. Non

è stato facile. E poi, erano quasi tutti punti. E una sola linea. Ma per fortuna ci

sono arrivato.»

«No, no. Sei stato bravo. Sapevo che, se lo aveste capito, poi il signor Ander-

son vi avrebbe tradotto il codice.»

«Tradotto? No no. E chi è questo Anderson? Il telegrafista?»

«Sì, è l'addetto al telegrafo. Ma... vuoi dire che sei stato tu? Conosci anche tu il

Morse?»

«Certo. Credi di essere solo tu a sapere queste cose, signorina saputella?»

Il tono scherzoso di Kit rincuora Deborah che si lascia sfuggire un sorriso.

Raggiungono poi la fitta vegetazione che si trova a un centinaio di metri dalla

casa e vi si addentrano quel tanto che basta per non essere visti ma anche in

modo da poter permettere a Kit di vedere il sentiero da cui arriveranno i fuori-

legge.

E dopo una ventina di minuti il ragazzo vede due ombre uscire dalla boscaglia

e fermarsi proprio ai margini della radura.

Nel cimitero di El Paso ci sono delle tombe scavate di fresco.

Una è isolata rispetto alle altre e si trova nel punto più in alto del cimitero.

Vicino alla terra ancora umida c'è un uomo, immobile, con lo sguardo rivolto

verso il basso.

La sua camicia gialla spicca nell'azzurro intenso del cielo.

Pensa a suo figlio e a quella notte maledetta.

La ragazza è stata liberata.

E' salva.

Ma a che prezzo?

E' solo.

Non ha voluto nessuno con lui.

E' solo con il suo dolore.

Kit Carson lo aspetta all'ingresso del cimitero.

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Il figlio di Tex Sono passati solo due giorni, ma rivede, con gli occhi umidi, tutto quello che è

successo come se stesse accadendo in quell'istante.

E l'uomo con la camicia gialla ha gli occhi fissi su quella croce.

I suoi occhi sono umidi delle lacrime che non riesce più a versare.

Guarda la croce sulla quale è inciso il suo stesso nome.

Willer.

«Kit, sali sul tetto, tira giù quel tizio e rimani lì al suo posto. Quando gli altri

arriveranno, dovranno pensare che è tutto a posto. Nel buio ti scambieranno

per il loro complice.»

«Bene, Tex. Chissà se dopo quella cannonata è ancora vivo.»

«Se è ancora vivo, prima di metterlo insieme all'altro, lo legherò.»

Carson sale velocemente sul tetto.

«E' vivo?»

«Macchè. Ha la testa fracassata. Lo dicevo io.»

«Buttalo giù, allora. Non si farà certo male.»

«No davvero.»

Mentre Carson è sul tetto, Tex sistema alla meglio la porta d'ingresso sfondata

e si nasconde nella capanna.

Scosta leggermente l'asse che copre i vetri della finestra e scruta il sentiero.

L'attesa è breve.

Gli altri rapitori arrivano poco dopo.

Si fermano ai margini della radura.

«Tex, mi senti?» sussurra Carson.

«Sì.»

«Stanno arrivando.»

«Li ho visti. Sono due. Come sospettavo.»

«Si sono fermati. Chissà perché. Non sospetteranno qualcosa?»

«Non vedo perché dovrebbero. E' buio e non ti vedono bene. Ti hanno scam-

biato sicuramente per il loro compare.»

«Certo, altrimenti mi avrebbero già sparato. Ma sento che c'è qualcosa che non

va.»

Uno dei due banditi agita in aria il fucile.

«E' di sicuro un segnale, Tex. E adesso che faccio?»

489

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Letizia

«Non ne ho idea. Prova ad agitare anche tu il tuo winchester in aria.»

Carson obbedisce prontamente.

Il bandito che ha fatto il segnale imbraccia il fucile e inizia a sparare contro il

povero Carson che si appiattisce sul tetto con una velocità insospettata.

Anche Tex comincia a sparare, ma i due fuorilegge spariscono nella boscaglia.

«Maledizione, capo. Ci sono i ranger nella capanna.»

«Tanto peggio per loro. La faremo saltare. C'è della dinamite dietro la catasta

di legna sotto la finestra.»

«Ma, capo. Così salteranno per aria anche i nostri due amici, senza contare la

ragazza.»

«Della ragazza non mi importa un accidente. E i ragazzi forse li hanno già fatti

fuori i ranger. E, se sono ancora vivi, che crepino anche loro.»

Mira alla catasta di legna e sta per sparare, ma l'altro lo ferma.

«No, capo. Io non rinuncio a tutta quella grana. Possiamo ancora farcela.»

«E come? Stiamo rischiando la pelle. Se qualcosa va storto e ci beccano, c'è il

capestro per noi.»

Prende di nuovo la mira.

«No, ti dico. Loro non sospettano nulla. Possiamo sempre farla saltare dopo.

Lasciami fare. Ho un'idea.»

Esce allo scoperto alzando il fucile sopra la testa, come in segno di resa.

«Ehi, laggiù. Non sparate. Sto uscendo. Ma si può sapere chi siete?»

«Ma sei matto? Vuoi farti ammazzare?»

«Non preoccuparti, capo. So quel che faccio.»

«Tex, hai sentito?»

«Ho sentito, vecchio cammello. Pare che uno dei due furfanti sia Texas Kid.»

«Proprio lui. Hai riconosciuto anche tu la voce?»

«Sei tu, Kid? Vieni avanti lentamente e getta le armi a terra.»

«Signor Willer? E' lei? Cosa diavolo ci fa da queste parti a quest'ora?»

«Tex, ma c'è o ci fa? Stai attento. E' sicuramente un tranello. Chissà cosa

stanno tramando quei due.»

«Potrei farti la stessa domanda, Kid. Che ci fate tu e il tuo amico qui e a

quest'ora?»

490

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Il figlio di Tex «Stiamo ritornando a Las Cruces, signor Willer. Abitiamo lì. Dobbiamo esserci

domattina presto. Questa è la strada più breve. Ma lei cosa ci fa qui? E' solo o

ci sono i suoi pard con lei?»

«Bravo, Kid. Fallo parlare. Fatti dire quanti sono.»

«Furbo, il ragazzo. Ci sta raccontando una storiella mentre il suo complice

chissà dov'è e cosa sta facendo.»

«E' ancora là dov'era.»

«E come diavolo fai a saperlo, satanasso. Non si vede un accidente.»

«Ma se si spostasse, farebbe rumore e soprattutto vedrei muovere le foglie dei

rami.»

«Bene, Kid. Se è così, gettate le armi e venite fuori tutti e due con le mani ben

in vista. Non avete nulla da temere.»

«Kid, ci hai provato. Adesso togliti di mezzo e lasciami fare. Tra un secondo

non saranno più un problema.»

«No.»

Tex e Carson odono uno sparo.

Ma nessuno ha sparato contro di loro.

«Tex, cosa diavolo succede?»

«Non lo so, Kit. Ma non hanno sparato a noi.»

«Signor Willer, sto venendo verso di voi. Non sparate.»

«Che è successo, Kid?»

«Ho sparato al mio capo, Willer.»

«L'hai ucciso? E perché?»

«Perché era un dannato testone. Ecco perché. Non ha capito che ormai tutto

era perduto. Quando vi abbiamo visto arrivare a El Paso, avremmo dovuto ri-

nunciare. Ma lui no, lui non ha voluto ascoltarmi. E io non ho potuto tirarmi

fuori.»

«Ok, getta e armi a terra e tieni le mani ben in vista. Io vengo lì da te.»

«Attento, tizzone d'inferno. Potrebbe essere un trucco.»

«Tranquillo. Porto con me la lampada. Rischiarerò la zona. Tu stai in guardia e

tieni il fucile puntato su qualsiasi cosa si muova.»

Tex si avvicina al ragazzo con molta cautela.

Man mano che si avvicina, la lampada illumina sempre più la scena.

491

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Letizia Il Kid non ha mentito.

Poco distante da lui c'è il corpo del secondo bandito.

Ha una bruciatura sulla camicia e una macchia rossa all'altezza del cuore.

Il Kid gli ha sparato a bruciapelo.

«Non vi aspettavo così presto, signor Willer.»

«Ci aspettavi?»

«Certo. La ragazza è stata molto in gamba a farvi sapere dove la tenevamo

prigioniera, con quel suo messaggio nascosto.»

«Sapevi del messaggio?»

«Certo. Anch'io conosco il codice Morse. La ragazza vi ha indicato la casa sulla

collina. Hil H. Hill si scrive con due elle, ma non facciamo gli schizzinosi. E la

acca sta per house. Logico.»

«Ma... Perché non hai fermato il messaggio? Perché hai permesso che ci arri-

vasse?»

«Quien sabe, Willer?»

Il Kid tace per un lungo attimo.

E poi continua.

«Quello che abbiamo fatto era sbagliato. Mi sono fatto coinvolgere e ho sba-

gliato. Non avrei dovuto. Ma la mia vita non è mai stata facile, Willer. Mia ma-

dre... lei era molto malata. Non avevamo soldi per le cure. Ho cominciato con

qualche furtarello. E poi...»

Si interrompe e fulmineo porta istintivamente la mano alla fondina.

Vuota.

Spinge Tex da un lato e così facendo si prende in pieno petto la pallottola de-

stinata al ranger.

Un secondo sparo echeggia alle loro spalle.

Carson che aveva abbassato la guardia, ma non del tutto, colpisce il bandito

che era riuscito a sparare il suo ultimo colpo.

«Che sfortuna... non sono neanche... riuscito... a... ad accopparlo.»

Tex si china sul ragazzo e gli solleva la testa reggendola con il braccio.

«Kid, maledetto testone. Ma che hai fatto?»

«Non potevo... permettere... che un cialtrone... come lui... uccidesse un... uo-

mo come lei... Tex.»

«Non parlare, Kid. Non ti affaticare. Vedrai che...» 492

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Il figlio di Tex «Sto morendo... Tex. Ma il... mio nome non... è Texas Kid. Il mio... nome è...

William. Mia madre... però mi... chiamava...»

«Non ti affaticare, William.»

Carson nel frattempo è arrivato.

«Mi ha salvato la vita, Kit. Il bandito sembrava morto, ma non lo era. Mi ha in-

gannato l'altezza della ferita, vicino al cuore. Ma evidentemente non era stato

colpito al cuore. Ha avuto la forza di sparare ancora un colpo.»

Carson guarda il giovane ferito e poi volge lo sguardo sul suo pard, come a

chiedergli: "Ce la farà?"

Tex capisce la tacita domanda e scuote leggermente la testa.

«La mamma... mi chiamava... Will. Le... ricordava il... nome dell'uomo... che

ha... amato... Le ricordava...»

«Tua madre, Will, tua madre viveva ad Albuquerque?»

«Sì.»

«Il suo... il suo nome. Era Cora?»

«Sì, papà.»

«Kit, ho paura. Quegli spari, cosa vorranno dire? Cosa sarà successo?»

«Stai calma, Deborah. Andrà tutto bene, vedrai. Domattina saremo tutti quanti

al tuo ranch, dove potrai abbracciare tuo padre.»

Nel buio della notte, il silenzio è rotto da un urlo.

Un urlo prolungato, agghiacciante.

Kit sbianca in viso.

«E' mio padre, Deborah. Tu rimani qui e non ti muovere. Io vado a vedere cosa

è successo.»

E' seriamente preoccupato.

Quell'urlo significa che suo padre è sicuramente vivo, ma...

Non ha il coraggio nemmeno di pensare che sia successo qualcosa a Carson.

E quell'urlo così straziante può voler dire solo una cosa: Carson, che per lui è

sempre stato quasi un padre, è... è...

No, no.

Non ci vuole pensare.

«Kit, io vengo con te. Ho paura a rimanere qui, da sola.»

«Ma, Deborah. Può essere pericoloso. Qui sei più sicura.»

493

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Letizia «No. Vengo con te. Dammi una delle tue pistole. So usarle molto bene, sai?»

Kit ha fretta di andare.

Il suo cuore batte all'impazzata.

«E va bene. Tieni.»

Le porge una colt, la prende per mano e poi corrono insieme verso la casa.

Da lontano vede Carson, in piedi, immobile.

Suo padre è in ginocchio e stringe tra le sue braccia...

Ma cosa...

Sta abbracciando uno dei banditi?

Arrivano insieme correndo.

Riconosce nel bandito il suo amico Texas Kid.

«Ma...»

Carson prende Kit per un braccio e lo allontana.

La ragazza li segue, dopo aver gettato uno sguardo a Tex che, in lacrime, sta

baciando il capo di un ragazzo nel quale riconosce Texas Kid.

Carson parla a lungo con Kit che non crede alle proprie orecchie.

«Un fratello, ho un fratello» dice mentre una lacrima gli bagna il viso.

Deborah gli stringe forte la mano.

Poi la tensione nervosa di quegli ultimi giorni e il dolore, che ha visto prima nel

volto di Tex e poi in quello di Kit, le provoca una crisi di pianto.

E a nulla valgono le attenzioni di Carson a calmarla.

Kit si avvicina lentamente al padre.

Si china e appoggia la mano sulla sua spalla.

«Papà...»

Ma non riesce a dire altro.

Tex alza il capo e lo guarda.

Poi, senza dire una parola, tenendo sempre abbracciato William, stringe la ma-

no di Kit.

Tex è tra i suoi due figli.

Potrebbe essere l'uomo più felice della terra.

Ha trovato il figlio che non sapeva di avere, ma l'ha perso dopo neanche un

minuto.

Un figlio che ha dato la vita per salvare la vita del padre.

494

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Il figlio di Tex Un figlio che, con il suo gesto estremo, ha saputo riscattare gli errori che aveva

commesso.

«Mi ha fatto scudo con il suo corpo e ha preso in pieno petto la pallottola desti-

nata a me».

Le sue parole sono accompagnate dal pianto.

«Lo so, papà» gli risponde Kit con la voce rotta dalla commozione.

«Vieni, Kit. Lasciamolo un po' da solo.»

Carson tende la mano a Kit.

Deborah gli corre incontro e lo abbraccia teneramente.

«Zio Kit, rimani tu con Deborah. Io vado a raccogliere un po' di rami per fare

un travois. Poi mi occuperò dei cavalli.»

Sono passati due giorni.

Kit ha preso il treno per tornare alla riserva, al villaggio di Orso Macchiato, do-

ve lo attende la sua sposa Luna d'Argento.

Avrebbe voluto rimanere con suo padre e Carson, ma Tex non glielo ha per-

messo.

A nulla sono valse le sue proteste e la sua insistenza.

"William non è solo tuo figlio, papà. E' anche mio fratello" gli aveva detto.

Ma il pensiero della sua Luna, che lo stava aspettando e che avrebbe dovuto

aspettare un paio di giorni in più, lo ha fatto rinunciare ai suoi propositi.

Era partito, anche se a malavoglia.

Ora Tex sta guardando ancora una volta quella croce su cui è inciso il nome di

suo figlio: "William Willer".

Poi si infila il cappello sul capo e si dirige verso il suo amico e fratello Kit Car-

son che lo attende all'ingresso del cimitero.

Senza parole i due amici si lasciano alle spalle la collina su cui sorge il cimitero.

Nella main street li aspetta lo sceriffo.

Con lui ci sono Alfie e suo figlio Pete.

«Signor Willer, se vuole seguirmi nel mio ufficio, le darò gli effetti personali di..

di suo figlio.»

«Grazie, sceriffo.»

Sul tavolo nell'ufficio, Tex vede le poche cose di William: un cinturone con la

colt, qualche dollaro e poche altre cose.

495

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Letizia

C'è anche una custodia di pelle.

Incuriosito, la apre.

Dentro c'è una busta ingiallita sulla quale è scritto il suo nome.

La gira.

Sul retro c'è un sigillo spezzato fatto con un po' di cera di candela.

La busta è stata aperta.

«Qualcuno ha toccato questi oggetti?»

«No» risponde lo sceriffo, «li ho presi di persona dalla stanza d'albergo che suo

figlio aveva riservato.»

Tex prende il foglio dalla busta.

E' consumato e macchiato come se fosse stato letto parecchie volte.

E' una lettera di Cora.

Tex legge in silenzio.

Poi ripiega il foglio e lo rimette nella busta.

Toglie la colt di William dal fodero.

«Terrò solo questa, in suo ricordo. Di tutto il resto fatene quel che volete.»

«E il suo cavallo?»

«Fatene quello che volete» ripete.

Il treno è fermo alla stazione.

Tex e Carson sono in partenza.

A salutarli ci sono tutti.

Alfie e suo figlio Pete.

Benson e la figlia Deborah.

C'è anche lo sceriffo con i suoi aiutanti.

«Tex, non so cosa dire. Solo, maledetto il giorno che ti ho chiamato.»

«Non dire così, Alfie. Pensa a Deborah. Cosa le sarebbe successo se non fossi-

mo venuti?»

Deborah con gli occhi lucidi tiene per mano Pete.

«Guardali, Alfie, i due ragazzi. Si vogliono bene e sono due bravi ragazzi. Pre-

sto daranno a te e al signor Benson dei nipotini. Volevi che tutto questo fosse

distrutto?»

«No, ma... a che prezzo è stata pagata la loro felicità.»

Tex tace.

496

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Il figlio di Tex Benson si avvicina a lui.

«Signor Willer. Non ci sono parole che io possa dire in questo momento. Solo...

grazie.»

E lo abbraccia con vigore.

Deborah si avvicina a lui in silenzio, lo abbraccia e lo bacia sulla guancia.

Poi corre via piangendo.

Pete la vede scappar via.

Si rivolge un attimo verso Tex.

«Io...»

Non riesce a dire altro e corre dietro alla fidanzata.

«Tex, sarà meglio che saliamo. Il treno sta partendo.»

Salgono sul treno già in movimento e rivolgono un saluto verso le persone che

rimangono finché anche l'ultimo vagone sparisce in mezzo a nuvole di vapore.

«Tex.»

Carson si interrompe.

«Sì, che c'è?»

«Se posso, cosa c'era scritto in quella lettera?»

«Ah, la lettera» sospira Tex.

«Era una lettera di Cora. Una ragazza che ho conosciuto in gioventù ad Albu-

querque, quando ero ancora un fuorilegge. Lei era la cantante e la ballerina in

un locale. Io credevo anche qualcosa di più. Ma mi sbagliavo. Ha fatto dei

grandi sacrifici per rimanere pulita. E con un figlio le cose sono peggiorate.»

Un figlio.

Un figlio suo.

Ma perché non gliene ha mai parlato?

Perché non l'ha cercato?

«Lavorava anche come cuoca» prosegue Tex, «e anche come sguattera. Ha

fatto mille lavori. Ma è sempre rimasta una ragazza per bene. Era bellissima.»

Si interrompe come inseguendo i ricordi.

«E dolcissima. Mi voleva bene. E anch'io l'ho amata. Poi...»

Già, poi le cose non andavano bene neanche per lui.

«Avevo alle costole uno sceriffo ostinato e sono dovuto scappare. Avevo inten-

zione di ritornare. Non mi interessava il mestiere che pensavo facesse. L'ama-

vo.» 497

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Letizia Tace per un lungo attimo.

«Che sciocco sono stato. Ma ero molto giovane. Davo per scontato cose che

invece non erano. Ma il destino ha deciso diversamente. Non sono più tornato

ad Albuquerque. E quando avrei potuto era troppo tardi.»

Si arrotola lentamente una sigaretta.

«Will non sapeva di essere mio figlio. Lei non glielo ha mai detto. L'ha scritto

nella lettera. Alla sua morte, Will avrebbe dovuto cercarmi e portarmi la lette-

ra. Ma lui non lo ha fatto. Ha aperto la lettera e l'ha letta. E non mi ha cercato

neanche quando ha letto che ero suo padre.»

Accende la sigaretta e tira una lunga boccata.

«Perché, Kit? Perché non mi ha cercato?»

«Non so, Tex. Orgoglio, forse. Forse non voleva che tu sapessi che era in diffi-

coltà. Forse non voleva darti un dolore nell'annunciarti la morte di Cora.»

«Non lo saprò mai, Kit. Non ho avuto neanche il tempo di dirgli che gli volevo

bene.»

«Lui lo sa, Tex.»

La notte scorre lenta.

Nessuno dei due riesce a dormire.

E non è certo colpa degli scomodi sedili di legno.

La mattina dopo il treno entra nella stazione di Albuquerque.

«Io scendo qui, Kit. Tu prosegui per la riserva. Ci vediamo là.»

«Ma neanche per sogno, Tex. Io vengo con te.»

«No, Kit. Ho bisogno di stare da solo.»

«Vai da lei, vero?»

«Sì, Kit. Poi vi raggiungerò al villaggio di Orso Macchiato. Farò la strada a ca-

vallo. Ne ho abbastanza di questi maledetti treni.»

«Ma ci metterai quasi tre giorni ad arrivare a Gallup. E un altro giorno per arri-

vare al villaggio.»

«Lo so, Kit. Ma mi farà bene. Rimanere solo tre o quattro giorni non può che

farmi star meglio.»

«Va bene, Tex. Non insisto. Che devo dire a tuo figlio?»

«La verità, Kit. Sono andato al cimitero di Albuquerque e poi sono ripartito per

la riserva a cavallo.»

«Beh, allora arrivederci, Tex.» 498

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Il figlio di Tex «Arrivederci, Kit.»

Tex scende dal treno e si dirige verso il vagone bestiame per prendere il suo

cavallo.

Il suo fedele Carson lo segue con lo sguardo finché non lo vede sparire tra le

case della città.

L'ufficio dello sceriffo non è lontano dal corral dove Tex ha lasciato il cavallo.

«Buongiorno, sceriffo.»

«Buongiorno, straniero. Ma lei... ma sì. Lei è Tex Willer. In che cosa posso es-

serle utile, signor Willer.»

«Volevo informazioni su una persona. Si chiama Cora. Non so quale sia il co-

gnome. Deve essere deceduta un paio di anni fa.»

«Strano. Un avvocato arrivato dall'Est un paio di mesi fa mi ha fatto la stessa

domanda.»

«Un avvocato? Beh, mi può dire dove posso trovarlo, sceriffo?»

«Farò di più. L'accompagnerò. Ma non è un uomo. E' una donna.»

«Una donna?»

«Già. Venga, la accompagno da lei.»

Mentre si reca con lo sceriffo, Tex si domanda chi mai può essere questa donna

che ha cercato Cora.

Arrivano davanti una casa recintata da uno steccato.

Lo sceriffo bussa alla porta e, poco dopo, una ragazza viene ad aprire.

«C'è l'avvocato?» domanda lo sceriffo.

«Certo, entrate.»

«Vada pure, Willer. Io ritorno al mio ufficio a sbrigare le mie faccende.»

«Grazie mille, sceriffo.»

«E' stato un piacere. Arrivederci, signor Willer.»

«Arrivederci.»

Tex entra e la ragazza lo accompagna ad una porta.

«La devo annunciare. Si chiama Willer a quanto ho sentito.»

«Sì.»

La ragazza bussa alla porta, la apre e annuncia: «Il signor Willer desidera par-

lare con lei, miss Connery.»

Poi, rivolgendosi a Tex, si scosta per farlo entrare: «Prego, si accomodi.»

499

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Letizia

Come entra e vede l'avvocato, gli prende un colpo.

«Cora? Ma come è possibile. Tu... tu sei...»

«Io non sono Cora, Tex. Permette che la chiami così?»

Poi aggiunge: «Il mio nome è Lois. Sono la sorella di Cora.»

«Mi scusi. Ma, signorina Connery, lei è così... somiglia così tanto a Cora che

l'avevo... Siete due gocce d'acqua.»

«Dammi pure del tu, Tex. E chiamami Lois.»

Lo fa accomodare.

«Ho saputo della morte di Cora solo un paio di mesi fa. Sono subito venuta. E

sono rimasta. Niente mi legava a Philadelphia dove vivevo prima. Ma dimmi,

piuttosto. Cosa ti porta qui dopo così tanto tempo?»

«Io... io devo darti una brutta notizia, Lois.»

«Cosa c'è E' successo qualcosa a Will? Cosa ha combinato quello scavezzacollo

stavolta?»

Tex non trova le parole.

«Will... Will è...»

«Mio Dio, Tex. Sta male? E' ferito gravemente?»

Tex abbassa lo sguardo.

«Mio Dio. E'... è morto?»

Tex non risponde.

Lois si siede sulla sedia della scrivania e porta le mani al viso, come per na-

scondere le lacrime.

Poi si riprende.

«Come è successo?»

«E' morto per salvare la mia vita. Mi ha fatto scudo con il suo corpo e... La pal-

lottola era destinata a me.»

«Sapevi che lui...»

«Che era mio figlio? L'ho saputo da lui prima che morisse. Sono state le sue ul-

time parole. E' morto tra le mie braccia.»

Tex ha gli occhi lucidi.

«Scusami, Tex. Ho pensato solo al mio dolore e non mi sono curata del tuo.»

Tex tace.

«Immagino che vorrai andare a trovare Cora.»

«Sì.» 500

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Il figlio di Tex «Vieni con me, allora. Ti accompagno. Il cimitero non è lontano.»

Tex ora è solo.

Lois l'ha salutato con un bacio sulla guancia e l'ha lasciato solo, sulla tomba

della sorella.

La croce è nuova.

Probabilmente Lois l'ha cambiata.

Così come ha portato i fiori che sono ancora freschi.

Forse li cambia tutti i giorni.

«Cora, perché? Perché non mi hai detto nulla? Perché?»

Si accorge di aver parlato come se lei potesse sentirlo.

Ma forse lo sente davvero.

«Sai, ti amavo. Sarei rimasto con te. Avrei cresciuto Will insieme a te. Ci sa-

remmo sposati... Mio Dio. Quante cose avremmo potuto fare insieme.»

Tace.

Pensa a come sarebbe stata la sua vita con lei e con Will.

Avrebbe lavorato sodo, avrebbe comprato del bestiame e avrebbe costruito un

ranch.

E suo figlio sarebbe cresciuto con lui.

Gli avrebbe insegnato tante cose.

Lanciare il lazo, andare a cavallo, tirare con la pistola...

Poi pensa che forse insegnargli a sparare non sarebbe stata un'idea saggia.

Ma nel west per un uomo saper sparare è praticamente obbligatorio.

Ma l'avrebbe cresciuto bene.

Gli avrebbe insegnato l'onore, il rispetto per i più deboli, l'uguaglianza di tutti

gli uomini, bianchi, neri o rossi che siano.

La presenza di un padre è importante per un bambino.

E lui ci sarebbe stato.

Poi pensa che non avrebbe mai conosciuto Lilyth.

Che suo figlio Kit non sarebbe mai nato.

Che non avrebbe conosciuto Carson.

E neanche Tiger Jack.

«Mio Dio.»

Ma Cora sapeva che aveva sposato una Navajo.

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Letizia

Sapeva della morte di Lilyth.

«Potevi cercarmi quando hai saputo che ero rimasto vedovo. Potevi venire a

vivere tra i miei Navajo. Will sarebbe cresciuto insieme a suo fratello Kit.»

Si accorge che sta fantasticando, che si sta costruendo una vita "ideale".

Ma la realtà è crudele.

Non sempre le cose vanno come vorresti che andassero.

Hai perso la moglie troppo presto, Tex.

L'altra donna che hai amato e che hai abbandonato è morta consumata da una

malattia terribile.

E tuo figlio, il figlio che è cresciuto senza un padre, adesso anche lui giace sot-

to un metro di terra.

La vita non è stata certo tenera con te, Tex.

Immerso nei suoi pensieri, non si accorge che sta facendosi sera.

Quante ore è rimasto sulla tomba di Cora?

Ora che ci pensa, è da ieri che non manda giù un boccone.

Si alza da terra.

Si batte il cappello sui pantaloni per togliere un po' di polvere.

Un ultimo sguardo alla tomba.

«Ciao, Cora.»

Poi pensa che Will ora è lì con lei.

Sono la famiglia che avrebbe potuto avere.

Ma il destino ha deciso altrimenti.

«Ciao, Cora. Ciao Will.»

Ma prima di andarsene incide qualcosa sulla croce.

Quando se ne va, sulla croce c'è scritto "Cora Connery Willer".

Prima di lasciare Albuquerque, fa rifornimento di viveri e manda giù un boc-

cone.

La strada per la riserva è lunga.

Andando di fretta, ci sono poco più di tre giorni di cavallo.

Ma Tex non ha fretta.

Quando parte, comincia a far buio.

Ma non importa.

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Il figlio di Tex Si fermerà in un posto chiamato "Nine Mile", una collina a nove miglia dalla cit-

tà.

Poi proseguirà sulla grande pista che collega lo stato dell'Illinois con la Califor-

nia.6

6

La notte la stanchezza si fa sentire.

Dopo tre notti senza dormire, Tex cade in un sonno profondo.

La mattina dopo, la luce del sole che sorge lo sveglia.

Due gallette e una tazza di caffè bollente e si rimette in viaggio.

Alle sue spalle il sole, che comincia ad alzarsi nel cielo, scalda l'aria all'orizzon-

te e le poche nuvole basse sembrano toccare il terreno formando figure tremo-

lanti.

Tex si gira.

Non c'è nessuno che lo segue.

Ma gli par di vedere un cavaliere che, impennando il suo cavallo, saluta agitan-

do il cappello in aria.

E gli par di vedere, in quella figura, un ragazzo che sorride.

Sì, gli sembra proprio di vedere un ragazzo la cui vita è stata troppo breve.

Quel ragazzo si chiamava William Willer.

6

6 La "grande pista" è quella che diventerà la famosa Route 66 che collega Chicago nell'Illinois con Santa Monica in California.

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Letizia

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Capitolo 5 Lois

E' ancora buio nel villaggio di Orso Macchiato.

All'orizzonte precede il sorgere del sole un cavaliere solitario che avanza len-

tamente verso il pueblo.

Nonostante il buio c'è già fermento in giro.

L'uomo a cavallo si avvicina sempre più e finalmente qualcuno lo vede.

Portando la mano alla fronte per ripararla dai raggi del sole che sta comincian-

do ad illuminare l'orizzonte alle spalle del nuovo arrivato, qualcuno cerca di ca-

pire chi è.

I cani cominciano ad abbaiare.

I latrati fanno uscire Kit dalla sua capanna.

Luna d'Argento non è con lui.

«Falco Nero, sta arrivando uno straniero.»

«Ho visto. Ma non è uno straniero. Vai a svegliare Capelli d'Argento, Lupo Ve-

loce. Mio padre, il grande capo Aquila della Notte sta facendo ritorno al suo po-

polo.»

«Sì, ora lo vedo anch'io.»

Poi si rivolge ad una donna che stava portando acqua alla sua tenda: «Teenah,

hai visto Luna d'Argento?»

«E' al torrente, Sachem. E' lei che mi ha dato quest'acqua per te.»

«Bene. Corri da lei, allora. Dille che Aquila della Notte è tornato. Si uccida un

montone, si colgano i frutti per preparare il chilchen1. Il grande Sachem di tutti

i Navajo è tornato al suo popolo.»

Kit corre poi al corral passando dalla tenda di Tiger Jack.

«Tiger, papà è tornato.»

E, mentre Tiger Jack esce dalla sua tenda, Kit salta in groppa a un mustang e,

cavalcando a pelo, corre incontro al padre.

Tex lo vede arrivare e fa un cenno di saluto con la mano.

Kit risponde con un lungo grido che sveglia quanti nel villaggio non fossero an-

cora in piedi.

Quando arriva vicino al padre impenna il cavallo.

1 Il chilchen è una bevanda analcolica navajo a base di ribes o mirtilli.

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Letizia «Ciao, pa'.»

«Ciao, figliolo.»

«Bentornato al villaggio. Faremo grande festa per il tuo ritorno.»

«Non oggi, Kit. Sono molto stanco. Sono due notti che non dormo e ho bisogno

di un po' di riposo. E, se ci riesco, anche di dormire un po'.»

Il tono triste di suo padre stringe il cuore a Kit.

Ma cerca di non farlo vedere.

Suo padre è tornato.

Ma non si è ancora ripreso.

Ci vorrà del tempo.

Quando arrivano al villaggio, trovano ad attenderli Carson e Tiger Jack.

E Orso Macchiato con sua figlia, la dolce Luna d'Argento.

Ma anche tutto il villaggio si è radunato attorno a loro.

La voce del ritorno di Aquila della Notte si è sparsa velocemente facendo il giro

di tutto il villaggio.

I Navajo salutano il loro capo con urla di gioia.

Tex risponde al saluto del suo popolo alzando il braccio e facendo il segno di

pace.

Poi scende lentamente da cavallo e si avvicina ai suoi pard.

«Ciao, Tex. Bentornato.»

«Ciao, Kit. Ciao, Tiger.»

«Il Grande Spirito guidi i tuoi passi, Tex.»

Poi si dirige verso il Sachem.

«Salute a te, grande capo. E anche a mia figlia Luna d'Argento.»

Mentre Luna si avvicina a lui e gli prende la mano, suo padre risponde al saluto

di Tex.

«Onore a te, Aquila della Notte. Tutto il villaggio è in festa. Si accendano i fuo-

chi e si preparino gli spiedi. Oggi è un gran giorno per il popolo navajo.»

Tex sta per ribattere, ma Kit lo previene.

Forse teme che Tex possa urtare la suscettibilità di Orso Macchiato.

«Mio padre sarà lieto di onorare il tuo villaggio, Sachem. Ma prima ha bisogno

di riposare per il lungo viaggio. Ti chiedo di offrirgli la tua ospitalità.»

E astutamente ottiene ciò che voleva.

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Page 507: TuttoLet - Altervistapecosbill.altervista.org/Romanzi/TuttoLetizia.pdfTex Willer - Aquila della Notte Kit Carson - Capelli d'Argento Kit Willer - Piccolo Falco - Falco Nero - Mano

Lois E il suocero si sente a sua volta onorato e risponde: «Che il grande capo di tut-

ta la nazione navajo accetti la mia ospitalità e mi faccia l'onore di riposare nella

mia tenda.»

«Ti ringrazio, grande capo. Accetto volentieri il tuo invito. Il mio corpo è molto

stanco e ha bisogno di riposo e di un buon sonno. Un paio d'ore mi basteranno.

E poi parteciperò volentieri alla festa.»

«Così sia, Aquila della Notte.»

Mentre Tex entra nel wigwam di Orso Macchiato, Carson si avvicina a Kit e gli

sussurra: «Non ho mai visto tuo padre in quelle condizioni, Kit. Non si è ancora

ripreso dopo gli avvenimenti di El Paso.»

«Pare di no, zio» risponde Kit con un filo di amarezza nella voce.

«Io sì» risponde Tiger.

Si girano stupiti verso di lui.

«Io l'ho già visto così» continua Tiger.

«E' stato quando è morta tua madre, Kit. Lui era esattamente com'è adesso.

Con una sola differenza. Allora c'era a sostenerlo la rabbia e la sete di vendetta

per gli assassini. Ci metterà più tempo, ma si rimetterà e tornerà quello di

sempre. Vedrete.»

Sono passati due mesi.

Sono tutti rimasti al villaggio di Orso Macchiato.

Solo un paio di volte Tex e Tiger sono andati al villaggio centrale perché all'ini-

zio di primavera ci sarà l'annuale Consiglio dei capi e ci sono molte cose da

sbrigare.

Tex piano piano è ritornato quello di prima.

Tiger Jack aveva ragione.

Ma gli è sempre rimasto qualcosa che lo rende un po' "diverso".

Se vogliamo fare un paragone, diciamo che Tex ha ricevuto una pallottola che

lo ha ferito più gravemente del solito e che, pur essendo perfettamente guari-

to, ha sempre una bella cicatrice.

Ultimamente poi si è comportato in modo un po' strano.

E' andato a Gallup tre o quattro volte e non ha mai voluto che qualcuno lo ac-

compagnasse.

E' andato da solo, ma c'è stato sempre pochissimo.

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Letizia

Giusto il tempo di andare e tornare.

Forse non è mai stato in città per più di un'ora.

Non ha mai detto cosa ci andasse a fare.

E nessuno ha mai avuto il coraggio di domandarglielo.

Tex al villaggio passa molto tempo con Luna d'Argento che è per lui la figlia

che non ha mai avuto.

Kit li osserva spesso da lontano, facendo l'indifferente e senza farsene accorge-

re.

Quando vede suo padre che sorride con la sua dolce Luna, gli si riempie il cuo-

re di gioia.

Cerca sempre di fare in modo che nessuno si accorga di nulla, ma a Carson

non sfugge il comportamento furtivo del suo figlioccio.

«Sembra che tutto sia tornato alla normalità. Non trovi, Kit?»

«Come? Ah sì, zio. Così pare.»

«Tua moglie è deliziosa. Ci voleva proprio una come lei per trasformare tuo

padre. Era l'unica persona in grado di strappare un sorriso a quel beccamorto

che era diventato.»

«Già. Ne sono proprio contento.»

«Non è che ci sia sotto il tuo zampino? Non è che sei stato tu a chiedere a Lu-

na...»

«Oh no, zio Kit. Ha fatto tutto da sola. E forse senza neanche rendersene con-

to.»

«Non ci giurare, Kit. Le donne ne sanno una più del diavolo. Luna d'Argento è

la migliore di tutte. Ma è pur sempre una donna.»

«Uhm. Glielo chiederò.»

«Bravo.»

«Mi sembra di vedere... Ma sì. Posta in arrivo, zio Kit.»

«Come fai a dirlo?»

«Semplice. Quello che sta arrivando laggiù è Cane Veloce. Si solito è lui che

porta la posta.»

«Come diavolo hai fatto a riconoscerlo? Io vedo solo un uomo a cavallo. E po-

trebbe anche essere una donna. Di qua non si distingue un accidente. Troppo

lontano.»

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Page 509: TuttoLet - Altervistapecosbill.altervista.org/Romanzi/TuttoLetizia.pdfTex Willer - Aquila della Notte Kit Carson - Capelli d'Argento Kit Willer - Piccolo Falco - Falco Nero - Mano

Lois «Il fatto è che sta correndo come un forsennato e ha con sé due cavalli. Faci-

le.»

«Diavolo di un ragazzo. Credevo che avessi dei binocoli al posto degli occhi.»

«Ora lo vedo meglio. E' proprio lui.»

Ma anche Tex l'ha visto.

Saluta Luna d'Argento con un bacio sulla guancia e si dirige verso il corral dove

arriverà Cane Veloce.

«Sembra che tuo padre aspetti posta.»

«Già. Deve aver a che fare con le sue recenti visite a Gallup.»

«Andiamo a vedere.»

«Due lettere per Aquila della Notte.»

«Due?»

Carson e il giovane Kit si guardano.

Tex prende le due lettere e le guarda.

Una è del comando dei Ranger e una viene da Washington.

E' del Ministero degli Affari Indiani.

«Chi ti scrive, pa'? Guai in vista?»

«Sono sicuramente guai, Kit. Quando il tizzone d'inferno riceve una lettera, qui

alla riserva, sono sicuramente gatte da pelare. Ora ne ha ricevute addirittura

due.»

«No, Kit. Niente guai stavolta. Tutto va come previsto.»

«Come previsto? Che vuoi dire, satanasso? Ti aspettavi quelle lettere?»

«Sì, le aspettavo. Una è del comando dei ranger. Hanno accettato le mie di-

missioni.»

«Dimissioni?»

Le voci di Carson e del giovane Kit sembrano una sola.

«Sì. Mi sono dimesso. E c'è anche un cospicuo assegno come liquidazione per i

miei servigi. Diecimila dollari.»

«Ma, ti sei dimesso? Perché non ci hai detto niente?»

«Già, papà. Perché non ce lo hai mai detto? E l'altra lettera? Cos'è l'altra lette-

ra?»

509

Page 510: TuttoLet - Altervistapecosbill.altervista.org/Romanzi/TuttoLetizia.pdfTex Willer - Aquila della Notte Kit Carson - Capelli d'Argento Kit Willer - Piccolo Falco - Falco Nero - Mano

Letizia «L'altra è del Ministero degli Affari Indiani. Mi sono dimesso anche da agente

indiano dei nostri Navajo. E ho chiesto che tu prendessi il mio posto. Hanno

accettato entrambe le cose.»

«Ma perché, papà? Perché?»

«Io vado per un po' di tempo ad Albuquerque, Kit. Lois mi ha scritto che ha

fatto trasferire la tomba di William. Ora riposa accanto alla madre. Accanto a

Cora.»

«Ti ha scritto la sorella di Cora? E' per questo che andavi così spesso a Gallup,

tizzone d'inferno. Ma perché non ci hai detto nulla?»

«Perché non avevo ancora deciso cosa fare. Non sapevo neanche se le mie di-

missioni sarebbero state accettate.»

«D'accordo. Ma Lois? Di lei ci potevi anche raccontare, no?»

«Hai ragione, Carson. Ma solo ultimamente mi ha scritto che le avrebbe fatto

piacere se avessi fatto un salto ad Albuquerque. Ora che Cora e William ripo-

sano insieme. Non sapevo veramente che fare.»

«Ma potevi dircelo lo stesso, papà.»

«Sì. Avrei potuto. Ma voi tutti eravate così preoccupati per me. Non volevo

darvi altri pensieri. Credevate forse che non mi fossi accorto che eravate in pe-

na per me? Che Luna d'Argento si dimostrava troppo attaccata a me? Sì, è ve-

ro. Mi vuole molto bene. Ma mi stava appiccicata alle costole troppo spesso. E

credevi che non mi fossi accorto che tu mi tenevi d'occhio, Kit? Credevi davve-

ro che non mi fossi accorto di come ti sentivi quando mi vedevi sorridere?»

«Oh, papà...»

«Tizzone d'inferno.»

«Eppure lo sapete che i miei occhi e le mie orecchie funzionano molto bene.

Per non parlare del mio fiuto. Dovevate immaginarlo che non mi sarebbe sfug-

gito nulla. Se sono ancora vivo lo devo anche ai miei sensi così acuiti. Tutti e

sei.»

«Insomma, te ne vuoi andare, satanasso?»

«E la riserva, papà. Tu sei sempre il capo assoluto di tutta la nazione navajo.

Non puoi mollare tutto. I Navajo hanno bisogno di te. Fra meno di due mesi poi

c'è il Consiglio annuale dei capi.»

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Page 511: TuttoLet - Altervistapecosbill.altervista.org/Romanzi/TuttoLetizia.pdfTex Willer - Aquila della Notte Kit Carson - Capelli d'Argento Kit Willer - Piccolo Falco - Falco Nero - Mano

Lois «Non hanno bisogno di me, Kit. Hanno bisogno di un capo. Tu prenderai il mio

posto. Ti passerò il sacro wampum di fronte a tutti i capi, al Consiglio. Solo do-

po me ne andrò.»

«Ma papà, non puoi...»

«Tu sei diventato un uomo, Kit. Un uomo forte e saggio. Hai una famiglia e

delle responsabilità. Ora le tue responsabilità saranno maggiori. E so che ne sei

più che degno. Forse più di me.»

«Non dire così, papà.»

«Sai che è vero, Kit. Tu hai sangue navajo nelle vene. Cosa che hanno sempre

rinfacciato a me. Quante volte hanno cercato di prendere il mio posto perché

non ritenevano giusto che un uomo bianco fosse il capo supremo di tutta la na-

zione?»

«Ma anch'io ho sangue bianco nelle vene, pa'. Il tuo sangue.»

«E' vero, Kit. Ma solo in parte. Tu per metà sei un Navajo.»

«Ma anche tu sei un Navajo. E hai fatto più tu per il tuo popolo di quanto ab-

biano fatto tutti i capi che ti hanno preceduto.»

Ha sottolineato la parola "tuo" con forza.

«Ma io non c'ero mai. Ero sempre via, dietro a fuorilegge, ribelli indiani, in mil-

le avventure. Tu sei stato quasi sempre qui, in mezzo ai tuoi Navajo.»

E sottolinea con forza la parola "tuoi".

Tiger Jack, che è appena arrivato, ma ha sentito l'ultimo dialogo tra Kit e suo

padre, interviene: «Falco Nero sarà un grande capo. Il suo popolo lo ricorderà,

negli anni a venire, allo stesso modo del grande capo Aquila della Notte.»

«Ecco, ci mancavi solo tu a dar man forte a papà.»

«Tiger ha ragione, Kit. E' ora che i Navajo abbiano un capo giovane e forte. Un

capo saggio come te. E' ora che l'Aquila ceda il passo al Falco.»

«Allora hai proprio deciso? Te ne vai?»

«Vecchio cammello, da come lo dici sembra che io vada in cima al mondo e che

non ci si veda più.»

«Il fatto è che senza di te, dannato testone, niente sarà più lo stesso.»

«Le cose cambiano, lo sai.»

«Ma cambiano troppo in fretta, Matusalemme ballerino. Kit che si sposa, e

sembra ieri, tu che gli cedi il comando dei tuoi Navajo...»

511

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Letizia Vorrebbe aggiungere altro.

Ma poi pensa che non è il caso.

«Il mondo non è nostro, Kit. E' dei nostri figli. Non siamo noi a lasciarlo in ere-

dità a loro. Sono loro che ce l'hanno prestato e noi dobbiamo restituirglielo,

come loro faranno con i loro figli. E dobbiamo restituirglielo migliore di come

l'abbiamo avuto. Io spero di esserci riuscito.»

«Lo puoi dir forte che ci sei riuscito, tizzone d'inferno. I Navajo non hanno mai

avuto un capo migliore di te.»

«Mio figlio è diventato un uomo, Kit. E da un bel pezzo ormai. Ed è molto in

gamba. Non lo avrei portato con me ad affrontare i rischi che comportavano le

nostre missioni se non fossi stato certo che ne era all'altezza. E ora ha una

moglie che è degna di lui. Sarà un'ottima compagna per un grande capo.»

«Su questo non ci piove, Tex. Ma...»

«Kit è molto più in gamba di quando non lo fossi io alla sua età.»

«Questo non lo puoi dire, per tutti i fulmini. Quand'eri giovane tu eri tosto

quanto lo sei ora.»

Un lungo silenzio.

«E scommetto che è inutile chiederti di permettermi di venire con te. Hai in-

tenzione di partire da solo, vero?»

«Scommessa vinta, vecchio cammello. Ma ci rivedremo presto. Promesso.»

«Non sei sempre e solo tu a vincere le scommesse, tizzone d'inferno. Ma il fat-

to è che non riesco a concepire un Kit Carson senza Tex Willer.»

«Ma sai che è vero anche il contrario. Non ci sarà più un Tex Willer senza Kit

Carson. Al suo posto ci sarà un altro uomo.»

«Vecchio satanasso, mi fai venire un groppo in gola.»

«Non ti commuovere troppo, vecchio cammello. Certe volte capita anche ai fra-

telli di prendere piste diverse. E tu per me, lo sai bene, sei come un fratello.

Siamo stati insieme in mille avventure. Abbiamo rischiato mille volte la morte

insieme. E ci siamo salvati la vita a vicenda non so quante volte. Siamo più che

fratelli.»

«Sto pensando a come sarà ora la mia vita senza Tex Willer.»

«Risposta facile. Te ne starai qui e aiuterai il tuo figlioccio. Sicuramente gli inizi

saranno difficili e Kit avrà bisogno dei saggi consigli di una vecchia volpe come

te.» 512

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Lois Tex sa benissimo che suo figlio saprà di certo cavarsela da solo.

Sa che è molto amato dai suoi Navajo e che, dopo le sue recenti nozze con Lu-

na d'Argento, l'affetto e la stima del suo popolo è sicuramente aumentato.

Ma sa anche che così il suo buon vecchio Carson si sentirà meno solo.

«E tu, cosa farai ad Albuquerque? Voglio dire, di cosa ti occuperai?»

«Non lo so, Kit. Non ho ancora deciso. Vedrò quando sarò là.»

«Ma hai intenzione di stabilirti là? Cioè, ti comprerai una casa?»

«No, Kit. Non credo. Mi cercherò un buon albergo. Comunque, prima di pren-

dere una decisione, verrò qui alla riserva per discuterne con voi. Decideremo

insieme. E il tuo parere sarà determinante, vecchio mio.»

«E Lois? Voglio dire, mi hai detto che è una bella donna. E, detto da uno che

non è mai stato un cascamorto, può voler dire una cosa sola.»

«Non correre, Kit. Lois è sicuramente una bella donna. E mi piace molto. E, da

quello che mi ha scritto nelle sue lettere, ho intuito che lei prova qualcosa per

me. Ma, lo sai, nel mio cuore c'è sempre e solo Lilyth.»

«Non si può vivere di soli ricordi, Tex.»

Un mese è passato.

Kit e Luna d'Argento si sono trasferiti al villaggio centrale.

Li hanno seguiti Kit Carson e Tiger Jack.

E naturalmente anche Tex.

Kit ritorna definitivamente al villaggio centrale che diventerà anche il villaggio

della sua sposa.

Infatti, come da tradizione, che vuole sia lo sposo ad andare a vivere nel vil-

laggio della sposa2, Kit si era trasferito nel pueblo di Orso Macchiato.

La notizia della nomina a capo di tutta la nazione navajo del figlio di Aquila del-

la Notte, il giovane Falco Nero, ha fatto velocemente il giro di tutta la riserva.

Il giorno stesso in cui Tex ha espresso la sua volontà, decine e decine di mes-

saggi di fumo hanno riempito il cielo di tutto il territorio navajo.

Il messaggio è stato ripetuto da villaggio in villaggio.

"Il grande capo Aquila della Notte cede il comando supremo al giovane e valo-

roso figlio. Falco Nero sarà il grande Sachem di tutti i Navajo e la sua giovane

sposa ne sarà la regina". 2 La società navajo è di tipo matriarcale.

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Page 514: TuttoLet - Altervistapecosbill.altervista.org/Romanzi/TuttoLetizia.pdfTex Willer - Aquila della Notte Kit Carson - Capelli d'Argento Kit Willer - Piccolo Falco - Falco Nero - Mano

Letizia Si stanno svolgendo i preparativi per il grande Consiglio dei Capi e già i primi

stanno cominciando ad arrivare.

Il primo tra tutti è Corvo Rosso, il successore di Lupo Solitario3, che ha voluto

precedere tutti gli altri capi nel rendere omaggio ad Aquila della Notte, quasi a

voler rimarcare che il suo villaggio è tra i più fedeli al capo bianco dei Navajo e

lo sarà allo stesso modo al suo erede Falco Nero.

Tutti i capi, man mano che arrivano, vanno a rendere omaggio ad Aquila della

Notte, che li riceve con tutti gli onori.

Kit e la sa giovane sposa, come vuole la tradizione, stanno in disparte in un

wigwam isolato e non si fanno vedere.

Usciranno solo il giorno in cui Kit riceverà da suo padre, alla presenza di tutti i

capi, il fjodr, la lancia piumata simbolo del comando.

Alla cerimonia parteciperanno anche gli altri capi che fanno parte delle sette

nazioni indiane.

Tra di loro non poteva certo mancare Cochise, il grande capo apache, amico

fraterno di Tex.

C'è aria di festa nel villaggio centrale.

Non c'erano mai stati tanti indiani al villaggio centrale prima d'ora.

Molti giovani guerrieri navajo hanno chiesto e ottenuto di partecipare al grande

evento e molti guerrieri delle sette nazioni hanno voluto salutare Aquila della

Notte e onorare il nuovo capo Falco Nero.

La folla presente è numerosa forse più di quella che ha assistito alla cerimonia

nuziale di Kit e Luna d'Argento al pueblo di Orso Macchiato.

Tutti i capi sono arrivati e tutti hanno portato doni per il nuovo Sachem del po-

polo navajo.

E così la solenne cerimonia ha inizio.

Aquila della Notte è in piedi, immobile, in un grande piazzale in mezzo a tutti i

presenti disposti in cerchio.

Indossa i caratteristici abiti di pelle con il simbolo nero dell'aquila sul petto.

Sul capo porta un kostoweh4 di penne nere dell'aquila reale americana e tiene

in pugno il fjodr, adornato anch'esso di penne nere.

3 Vedi "La luce nelle tenebre", il secondo romanzo della trilogia "I Navajo". 4 Il kostoweh è il copricapo indiano adornato con penne, solitamente d'aquila.

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Lois Appeso alla cintura, ha il sacro wampum simbolo di pace e di alleanza tra le

grandi nazioni indiane.

Aspetta il suo giovane successore, che verrà nel grande cerchio insieme con la

sua dolce sposa.

La tenda di Kit si apre.

Esce seguito da Luna d'Argento.

Avanza con la sua sposa, che cammina al suo fianco, verso la folla che gli fa

ala in silenzio.

Luna d'Argento, che indossa l'abito nuziale usato pochi mesi prima5, appare

quasi in un alone splendente.

La sua pelle è davvero bianca come la luna.

Quando Kit giunge nel piazzale dove il padre lo aspetta, Luna d'Argento si fer-

ma.

Lui prosegue in silenzio verso Tex.

E si ferma davanti a lui.

Tex, in silenzio, gli consegna la nera lancia piumata.

Poi si toglie dal capo il kostoweh e lo pone sul capo del figlio.

Le urla di acclamazione di tutti gli indiani presenti rompono il silenzio innatura-

le che si era creato.

Tex si sfila dalla cintura il wampum sacro e, tenendola con entrambe le mani,

la porge al nuovo Sachem del popolo navajo.

Falco Nero è ora il settimo capo di tutte le nazioni indiane.

Luna d'Argento raggiunge il suo sposo Falco Nero e si china ai suoi piedi.

Ma lui la prende per mano e la fa rialzare.

Poi, alzandole il braccio al cielo, esclama: «Ecco. Questa è la Luna d'Argento,

sposa del Sachem Falco Nero. Ecco la regina del popolo navajo.»

E la giovane dalla pelle di luna, tra le grida di gioia del suo popolo, non riesce a

nascondere una lacrima che scorre sul suo viso.

Seguono tre giorni di festa.

Il nuovo capo dell'alleanza delle sette nazioni indiane, in una cerimonia sacra,

si taglia con il bowie il palmo della mano e unisce il suo sangue con quello degli

altri sei grandi capi per suggellare la fratellanza tra tutto il popolo indiano. 5 Vedi "L'urlo del Falco", il terzo romanzo della trilogia "I Navajo".

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Letizia La cerimonia è poi consacrata con il rito del sacro calumet degli antichi padri, il

Chanunpa Wakan, che viene passato di mano in mano.

Alla sacra cerimonia partecipa anche Tex che, conserva il titolo onorario di fra-

tello della sacra alleanza.

Dopo i tre giorni di festa i sei capi abbandonano il villaggio centrale per con-

sentire ai capi navajo di procedere con il Consiglio.

Cochise, che è stato informato da Carson di quanto è successo di recente a El

Paso, si ferma a lungo a parlare con Tex, suo fratello di sangue.

Si offre anche di accompagnarlo almeno fino al villaggio di Orso Macchiato.

«Meglio di no, Cochise. Allungheresti di molte miglia il viaggio di ritorno verso

il tuo popolo. Farò il viaggio con Orso Macchiato, che ritornerà al suo Pueblo

senza la figlia.»

«La dolce Luna d'Argento è diventata la regina dei Navajo e sarà anche la sua

regina.»

«Cochise, vecchio mio. Luna è pur sempre la figlia di Orso Macchiato. Lo sai

che la tradizione navajo impone ai figli eterno rispetto e obbedienza ai padri.»

«Lo so. Come Falco Nero ne deve a te.»

«Mio figlio non ha più bisogno di obbedire ai miei ordini. E non credo neppure

di avergliene mai dati. Consigli, quelli sì.»

«Piccolo Falco... Ricordo che ieri era ancora un cucciolo alto così. E ora è Falco

Nero, grande capo di una delle sette nazioni.»

«Già vecchio mio. Il tempo passa e noi diventiamo vecchi.»

«Mio fratello Aquila della Notte non è ancora vecchio. Il suo braccio è più forte

di tutti i giovani guerrieri che conosco. Poteva rimanere alla guida del suo po-

polo ancora per lunghi anni.»

«Forse, Cochise. Ma ho lasciato i Navajo in buone mani.»

«Uhm. Che il Grande Spirito guidi sempre i tuoi passi.»

«Grazie, Cochise. E sia così anche per te.»

Si stringono a lungo il braccio in segno di saluto.

Anche l'ultimo dei sei grandi capi ha lasciato il villaggio centrale della riserva

navajo, portando con sé tutti i guerrieri che hanno voluto partecipare alla ce-

rimonia di passaggio del potere.

E' già sera, ma Tex vuole partire lo stesso.

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Lois Si fermerà a riposare un po' al villaggio di Orso Macchiato che, a dire il vero,

avrebbe preferito passare la notte al villaggio che ora è quello di sua figlia.

Ma il vecchio capo indiano è molto astuto e ha capito le intenzioni di Tex.

Così ha fatto suo il desiderio di Tex di partire senza aspettare l'alba.

E senza mettere Tex nell'imbarazzo di chiedergli di partire con lui.

Dopo un veloce saluto a suo figlio, che lo abbraccia a lungo, al vecchio Carson

e al buon Tiger, Tex si avvicina al corral per prendere il suo cavallo.

Lì trova Luna d'Argento che tiene per le redini il suo cavallo, già sellato.

Nota la grossa bisaccia e le borracce d'acqua appese alla sella.

Si avvicina a lei che gli cede le redini e lo abbraccia baciandolo sulla guancia.

Lui la saluta con una carezza nel suo pallido viso e balza in sella.

Il treno entra sbuffando nella stazione di Albuquerque.

Tex si prepara a scendere e guarda con aria distratta fuori dal finestrino.

Lei è lì.

Lo sta aspettando.

Indossa uno sgargiante abito rosso e un cappellino che non ha certo comprato

nel New Messico.

L'ufficio telegrafico le ha recapitato il messaggio che le ha spedito il giorno pre-

cedente da Gallup.

Finalmente anche lei lo vede e fa un cenno di saluto.

Tex risponde al saluto toccandosi con l'indice la tesa dello Stetson.

Il treno si ferma e Tex scende dal treno che non è ancora completamente fer-

mo.

Lei gli corre incontro.

Quando è vicina a lui si ferma per un istante.

Poi gli butta le braccia al collo e lo abbraccia.

«Ehi ehi. Che ti prende, Lois? Cosa sono tutte queste... effusioni?»

«Oh scusa, Tex» risponde lei allontanandosi un po' da lui.

«Il fatto è che sono molto contenta di vederti. Anche se sei qui non certo per

un motivo lieto.»

«Già. Ma sono contento anch'io di rivederti.»

«Sai, speravo proprio che tu venissi. Cioè, sapevo che prima o poi saresti ve-

nuto. Hai due persone care qui. Ma non speravo così presto.»

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Letizia «Tre.»

Tex come al solito è leggermente laconico.

«Come?»

«Ho detto tre.»

«Ho capito. Ma tre... cosa?»

«Persone care.»

Lei arrossisce.

Il suo lieve rossore è in sintonia con il suo vestito.

«Stai benissimo» aggiunge maliziosamente Tex, forse per aumentare l'imba-

razzo di lei, «fasciata da questo tuo delizioso abitino rosso.»

Avrei giurato che Tex non ci sapesse assolutamente fare con le donne.

Basti pensare a come si è comportato con la vedova Sydor6.

Invece con Lois si comporta in tutt'altro modo.

Lei cambia discorso.

«Vieni, ti accompagno al vagone bestiame per recuperare il tuo cavallo.»

«Oh, no. Non c'è bisogno. Ho lasciato il mio mustang alla scuderia di Pedro, a

Gallup.»

«E come mai?»

«Qui non mi serve il cavallo.»

«Ah, bene. Quanto tempo ti fermi?»

«Non lo so, non ho ancora deciso. Due o tre giorni. Forse più.»

Lei lo guarda come per leggere nei suoi occhi quello che lei spera di leggere.

Ma gli occhi di Tex sono come un muro impenetrabile.

«Come prima cosa, mi cercherò una camera in qualche albergo. Poi farò un

salto in banca. Ho un certificato di credito che per ora lì starà più al sicuro.»

«Ma nemmeno per sogno.»

«Nemmeno per sogno... cosa?»

«L'albergo. Verrai a stare da me, in casa mia.»

«In casa tua? Non ti sembra di...»

«Ma cosa hai capito, sciocco? Verrai a stare da me. In casa mia, non nella mia

camera. Ho tre stanze da letto, sai? Credi che due camere siano sufficienti per

te?»

6 Vedi l'avventura che inizia con l'albo dal titolo "Il presagio".

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Page 519: TuttoLet - Altervistapecosbill.altervista.org/Romanzi/TuttoLetizia.pdfTex Willer - Aquila della Notte Kit Carson - Capelli d'Argento Kit Willer - Piccolo Falco - Falco Nero - Mano

Lois «Vedrò di farle bastare. In una mi sistemerò io e nell'altra i miei dodici bauli ci

dovrebbero entrare.»

Ridono.

«Ma sei sicura di quello che fai? Non temi che i benpensanti della città avranno

qualcosa da ridire? Una signora che ospita un uomo in casa sua... Chissà quan-

te malelingue...»

«Sai cosa ti dico, Tex? Che quello che può pensare la gente... Beh, sono scar-

samente interessata. Ma se a te importa qualcosa...»

«Ok, piccola signora dell'Est. A me importa meno che a te, ma non vorrei cau-

sarti qualche problema, specialmente con il tuo lavoro.»

«Non ti preoccupare. Il lavoro non mi manca. Sono l'unico avvocato in città. O

si accontentano di me o devono fare un salto a Santa Fe.»

«Bene, accompagnami in banca, allora. Se non hai di meglio da fare.»

«Porgimi il braccio.»

Tex prende da terra la sua doppia bisaccia, la appoggia sulla spalla destra e

porge il braccio sinistro a Lois.

«Vedo che i tuoi dodici bauli stanno tutti quanti sulla tua spalla.»

«Ho le spalle molto robuste, sai?»

Ma non c'è bisogno che glielo dica.

Lei lo aveva già notato.

In banca il direttore sgrana gli occhi quando vede il certificato di credito.

«Le do subito i moduli per aprire un conto, signor Willer.»

«Non c'è bisogno, mister. Voglio solo che mi tenga questa lettera in cassaforte,

al sicuro.»

«Ma certo, signor Willer. Ma è solo una formalità. Faremo prestissimo. E poi

per il conto da noi, con una cifra simile, non ci sono spese di gestione. E in

questo modo, potrà riscuotere l'intera somma quando vorrà, senza aspettare il

trasferimento del denaro da parte della banca di Houston.»

Ma naturalmente il direttore spera che Tex non ritiri una somma così alta, ma

solo una piccola parte per le spese immediate.

«Ok. Facciamo come dice lei. Ma cerchiamo di fare alla svelta. E soprattutto

vorrei una ricevuta.»

«Ma certo, signor Willer. Ci vorranno solo un paio di minuti.»

In effetti dopo meno di cinque minuti Tex e Lois sono fuori. 519

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Letizia

«E adesso facciamo in modo che le pettegole di questa città abbiano argomenti

di conversazione. Andiamo a casa tua. Lascerò le mie poche cose e poi andre-

mo da Cora e Will.»

La collina verde in cui riposano i loro cari è situata nella parte ovest della cit-

tà.

Lois ha fatto piantare un cespuglio di rose ai piedi dei due tumuli.

Tex nota che Lois ha di nuovo cambiato la croce di Cora che ora riporta la scrit-

ta "Cora Willer Connery".

Lois ha visto che aveva inciso il suo cognome dopo quello di Cora e, sicura-

mente per fargli piacere, l'ha fatto incidere per primo.

E in effetti Tex apprezza molto il gesto.

Will ora riposa accanto alla madre e la sua croce riporta esattamente quello

che aveva scritto Tex a El Paso.

Quella terra ora accoglie suo figlio e la madre di suo figlio.

Una donna che non ha mai sposato ma che ha molto amato.

E l'avrebbe sicuramente sposata se solo lei le avesse detto...

Ma poi scaccia quel pensiero.

Non sarebbe stato certo un matrimonio riparatore.

Se il destino non li avesse allontanati, l'avrebbe sposata anche se non ci fosse

stato Will.

Will.

Guarda a lungo la sua tomba.

Ma il ricordo di quel terribile giorno a El Paso gli impedisce di vederla.

Chissà perché ma i pensieri che gli attraversano la mente sono gli stessi della

prima volta che è stato qui.

Ma allora era solo.

Non c'era Lois con lui.

L'aveva accompagnato fino ai margini della collina e poi se n'era andata.

L'aveva lasciato solo.

Invece ora Lois è accanto a lui.

Per la prima volta sente una gran pace dentro di lui.

Come se il suo dolore si fosse nascosto.

Presente, non cancellato.

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Lois Ma nascosto.

E solo ora Tex si accorge che Lois gli tiene stretta la mano.

Poi quello che era inevitabile accade.

Accade due o tre giorni dopo, non saprei dire con esattezza.

Sono appena tornati dalla cena.

Lei, come al solito, si è tenuta leggera ma lui, come al solito, ha invece un po'

esagerato.

Sono nello studio dove lei deve finire un lavoro urgente.

A lei non dà fastidio il fumo, lui ne approfitta e si arrotola una sigaretta.

Ma il lavoro evidentemente non era così urgente perché si avvicina a lui con i

fiammiferi.

Si siede nel divano accanto a lui ma non gli accende la sigaretta.

Anzi gliela toglie dalle labbra e lo guarda intensamente negli occhi.

Non è passato neanche un mese da quando Tex è partito dalla riserva.

E non ha ancora deciso cosa fare.

Se non avesse legami là, tra i Navajo, avrebbe già qualche idea per la testa.

Un pezzo di terra, una casa da costruire, un po' di bestiame e andrebbe a fare

il ranchero con la sua piccola signora dell'Est.

La casa che costruirebbe con le sue mani deve essere in mezzo al verde, vicino

a un corso d'acqua.

Deve avere le pareti bianche e magari anche un gran salone all'ingresso con

una scala che porta al piano superiore.

Se poi le scalinate sono due, a semicerchio, ancora meglio.

E' un pezzo che ci pensa.

E magari Lois potrebbe smettere di lavorare.

Ci sarebbe più tempo per loro.

Ma lei ama il suo lavoro e non se la sente di forzarla a rinunciare a fare quello

che le piace.

Non è mai stato un egoista e non intende diventarlo certo ora.

Ma poi altri pensieri si affacciano nella sua mente.

Egoista.

Non è forse stato egoista quando ha lasciato la riserva?

Ha lasciato un figlio e due amici che sono più che fratelli.

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Letizia E perché l'ha fatto?

Oh certo, per andare a piangere sulla tomba di due pezzi della sua vita.

Certo.

"Ma a chi vuoi darla a bere, Tex? Sei tornato per lei. Non è egoismo quello?"

La piccola signora dell'Est gli è entrata nel sangue.

E non certo perché assomiglia tantissimo a Cora.

Lei è diversa.

Cora era più introversa, Lois è più solare.

I suoi occhi, di un azzurro inteso, hanno una luce particolare, presente anche

quando sono velati da un'ombra di tristezza.

E' completamente diversa dalla sorella che aveva sempre un'aria... come di

rassegnazione.

Sì, Cora accettava la vita che il destino aveva scelto per lei.

Lois no.

Lei ha uno spirito aggressivo che però non intacca minimamente la sua dolcez-

za.

Lois è "viva".

Gli ricorda maledettamente Lilyth.

Forse per questo se n'è innamorato così velocemente.

Maledizione.

Preferirebbe trovarsi a combattere contro un esercito di fuorilegge piuttosto

che affrontare una simile situazione.

E' come se avesse due famiglie incompatibili tra loro.

Un momento.

E se Lois fosse disposta ad andare a vivere con lui nella riserva?

No, non è possibile.

E perché no?

Ma perché ha sempre vissuto all'Est.

Solo ora si è trasferita ad Albuquerque.

Ma non è più tornata a Philadelphia.

Non ha ricordi là.

Ora il suo cuore è qui.

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Lois "Ma no, non glielo posso chiedere. Dovrebbe lasciare il suo lavoro, che le piace

molto. Dovrebbe vivere in una tenda... No. La vita è troppo dura per una don-

na come lei."

Ma se hai appena asserito che è una "tosta".

Non sai neanche tu cosa vuoi, Tex.

«Io so benissimo cosa voglio.»

Si accorge di aver parlato ad alta voce come a voler risponder a un altro sé

stesso.

"Matusalemme ballerino, come direbbe il mio vecchio Carson. Mi metto anche a

parlare da solo adesso. Il fatto è che io so cosa voglio, ma non so cosa vuole

lei."

E allora chiediglielo.

"Non posso. Lei si sentirebbe come costretta. Mi ama. E potrebbe anche sacri-

ficarsi per me. E io non voglio perché l'amo più di quanto lei ami me."

Maledizione.

"Credo che ora la soluzione migliore sia quella di ritornare un po' alla riserva.

Stare un po' lontani ci farà bene. A tutti e due."

E poi c'è un'altra cosa che non vuole ammettere.

Gli manca terribilmente quel brontolone di Carson con il quale ha condiviso

mille e mille avventure.

Per non parlare di Kit e Tiger Jack.

E Luna d'Argento...

E...

"Maledizione. Credo proprio di aver bisogno di una rimpatriata."

Mentre si avvia verso la casa di Lois pensa al vecchio Carson e a quanto gli ha

detto prima che partisse: "non riesco a concepire un Kit Carson senza Tex Wil-

ler".

Diavolo.

Gli manca davvero.

Arrivato a casa chiede all'assistente di Lois: «Janet, c'è qualcuno nell'ufficio con

Lois?»

«No, signor Willer. E' sola.»

Un paio di colpi leggeri alla porta ed entra.

«Oh ciao, Tex. Vieni. ormai ho finito.» 523

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Letizia «Ciao, Lois. Ti devo dire una cosa.»

«Cos'è quell'aria cupa? Qualche brutta notizia?»

«No, no. Niente del genere. Solo che ho intenzione di fare un salto alla riserva.

E' più di un mese che manco e...»

Sta per aggiungere che è meglio per tutti e due concedersi una pausa per ri-

flettere.

Ma Lois lo interrompe: «Benissimo. Vengo con te.»

«Vieni con me? Ma Lois, è un viaggio lungo e faticoso. Un giorno in treno e

due a cavallo. Ma con te ce ne vorranno almeno tre. E il tuo lavoro?»

«Oh, non ti preoccupare. Parlerò con il giudice Manson. Otterrò una proroga

per tutto quello che ho pendente. Un mese. Basterà?»

«Ma Lois, Tre giorni a cavallo. Non ti ci vedo proprio con quel tuo abitino rosso.

E quei deliziosi cappellini non sono per niente adatti per il sole cocente di quei

territori.»

«Credi di avere solo tu un paio di pantaloni e di stivali? Per non parlare del mio

Stetson.»

«Hai uno Stetson?»

«Certo. Che credevi? E so anche andare a cavallo. E meglio di tanti uomini che

conosco.»

«Ma...»

«Che ti prende, Tex? Sembra quasi che tu non mi voglia con te.»

«Ma cosa dici, Lois? Io sono felicissimo se tu vieni con me. Ma...»

«Hai forse paura che non venga accettata da tuo figlio e dai tuoi amici?»

«Senti, Lois. Ora stai esagerando. Io non sono così. E neanche mio figlio. Car-

son poi, lui... beh, è sempre stato molto sensibile al fascino femminile. E tu di

fascino ne hai da vendere. E per i Navajo l'ospitalità è sacra. Sarai accolta co-

me una regina.»

«E allora? Dov'è il problema?»

«Ma è un viaggio faticoso. E dovrai vivere in una tenda, senza alcuna comodità

e...»

«Ma per chi mi hai preso? Per una piedidolci? O forse credi che io sia una fragi-

le donna indifesa? Verrò con te. E porterò con me le mie colt.»

«Le tue colt?»

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Lois «Certo. So sparare molto bene, sai? Sai cosa c'è, Tex? Ho paura che tu non mi

conosca affatto. E' ora che cominci a conoscere la vera Lois.»

«Lois, tu non finisci mai di sorprendermi.»

Si avvicina a lei, la stringe fra le braccia e la bacia.

«Uhm. A meno che non ci sia qualcos'altro.»

«Qualcos'altro? Che vuoi dire?»

«Che tu, per esempio, non sia sicuro del tuo amore per me. Che tu voglia

prenderti un po' di tempo per capire cosa vuoi. Per sapere se la lontananza da

me ti pesa oppure no. Se...»

Diavolo di una donna.

Ma che fa?

Gli legge nella mente?

«No, Lois. Non è così. Forse...»

«Eh, no. Ora non venirmi a dire che sono io ad aver bisogno di riflettere. Da

quando te ne sei andato non ho fatto che pensare a te. Non ti conoscevo

nemmeno, anche se ovviamente avevo sentito parlare di te. Ti ho frequentato

per una sola ora, sì e no. E, quando sei partito, mi sono sentita... vuota. Come

se qualcosa di me se ne fosse andata con te. Ti ho scritto quasi pregandoti di

ritornare da me. Non mi chiedere se sono sicura di quello che provo per te. Per

favore.»

Cavolo.

Lo ha messo a K.O.

«Scusami. Non ho mai dubitato dei tuoi sentimenti, lo sai. E se devo esser sin-

cero, sono molto contento che tu venga con me.»

«Lo so. E scommetto che hai anche pensato che ti piacerebbe che venissi a vi-

vere con te, fra i tuoi Navajo, vero?»

Lois Tex due a zero.

«Per la miseria, Lois. Ma... ma...»

«Ok. Non corriamo, però. Un conto è venire a vivere tra i tuoi Navajo per un

mese. Un conto è invece venirci per sempre. Vedremo.»

«Certo. Non pretendo certo...»

«Certo, Tex. E la prova è che non me ne hai mai parlato. Ma non ho bisogno di

prove.»

«Sai, mi viene da pensare che tu possieda arti magiche.» 525

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Letizia

«Non essere sciocco, Tex. La magia non esiste.»

«Non scherzare su queste cose, Lois. Se tu avessi conosciuto certi personaggi,

non parleresti così.»

«Va bene, va bene. Ti va bene se partiamo questa sera?»

«Questa sera? Hai intenzione di passare la notte in treno?»

«Prima si arriva, meglio è.»

«Ok. Vado a vedere gli orari e a fare i biglietti. Ci vediamo più tardi.»

«Fai pure con comodo. Io devo uscire. Vado prima dal giudice e poi passo dallo

sceriffo. Non so quando ritorno. Perciò prenditi tutto il tempo che vuoi.»

«Bene. Allora ciao.»

La bacia velocemente ed esce.

Un paio d'ore dopo Tex torna da Lois.

Le ha appena comprato un regalo.

Ormai la conosce abbastanza per sapere quali sono i suoi gusti.

Apre la porta della casa e uno spettacolo agghiacciante si presenta ai suoi oc-

chi.

Janet è distesa a terra in una pozza di sangue.

Ha la gola squarciata.

Tex urla come impazzito chiamando Lois per nome.

Nessuna risposta.

"Mio Dio. Fa che non sia ancora tornata. Fa che sia ancora..."

Ma non fa in tempo neanche a formulare il pensiero.

Lois è seduta dietro la scrivania.

La testa reclinata indietro.

I suoi occhi aperti sono rivolti al soffitto.

E una grande macchia rossa si confonde sul suo abito scarlatto.

Non stava in sé dalla gioia.

Non era mai stato così felice.

Tra meno di due ore sarebbe partito con la sua piccola signora dell'Est.

L'avrebbe fatta conoscere a Kit, al vecchio Carson, a Tiger Jack.

Avrebbe incontrato tutte le sue persone care e tutte sarebbero state vicine a

lui.

Lois avrebbe fatto amicizia con Luna d'Argento.

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Lois Non gli importava quanto sarebbe durato, anche se in cuor suo sperava che

Lois non se ne sarebbe più andata dalla riserva.

Ma anche solo un mese sarebbe stato abbastanza per fare di lui l'uomo più feli-

ce del mondo.

Mille progetti.

Mille sogni.

La felicità a portata di mano, dopo tanto dolore.

E' strano come l'amore riesca a nascondere la sofferenza.

E' strano come riesca a far rinascere la voglia di vivere.

E ora...

Tutto finito.

Tutto spezzato.

Come quelle due vittime innocenti, frantumate da una furia omicida.

Ora non pensa neanche alla vendetta.

Non ancora.

Ora la sua disperazione gli impedisce anche di pensare.

Stringe tra le sue braccia il corpo senza vita della donna che amava.

Della donna che ama.

Non versa una lacrima.

Non ne ha più.

Un destino senza pietà gliele ha consumate tutte.

Il suo dolore e la sua rabbia hanno solo un effetto su di lui.

Grida.

Un grido terribile, straziante, disumano.

Un grido che si ode anche dalla strada.

Lo sente anche lo sceriffo, nel suo ufficio.

Il marshall si precipita in strada e si dirige verso l'abitazione dalla quale ha udi-

to provenire le grida.

La porta è aperta.

Entra e vede l'assistente di Lois con la gola tagliata.

Sente i lamenti di Tex provenire dall'altra stanza.

Si ferma sulla porta senza entrare.

Vede Tex con la sua Lois tra le braccia che ripete ossessivamente il suo nome.

Si toglie il cappello e rimane sulla soglia. 527

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Letizia Tex non lo vede neppure.

«Sceriffo, nei suoi giri di ispezione nelle strade, ha visto qualcuno aggirarsi nei

dintorni della casa di Lois? Qualche individuo sospetto, qualcuno che non cono-

sce?»

Sono passati due giorni e Tex si sta riprendendo.

Per lui è arrivato il tempo della vendetta.

Della vendetta, sì.

Non della giustizia.

Della vendetta.

Non vuole giustizia.

Non è più un ranger.

Non ha più una stella.

E ha perso anche quel freno inibitore che gli ha sempre impedito di sparare per

primo.

Non ha mai ucciso se non era strettamente necessario.

Ha sempre preferito consegnare vivi i malviventi alla giustizia.

Ora no.

Ora cerca solo il sangue del brutale assassino che gli ha tolto tutto.

Non è mai stato così freddo e lucido.

Non ha mai desiderato la morte di nessuno.

Ora invece desidera solo quello.

La morte di un assassino.

«No, signor Willer. Il fatto è che sono sempre stato in ufficio quel pomeriggio.

Non c'è molto da fare in questi giorni. Solo qualche ubriaco la sera. Ma per il

resto è tutto tranquillo.»

«Già. Tranquillo.»

«Signor Willer, quello che è successo alla signorina Lois è un fatto molto ecce-

zionale, qui ad Albuquerque. Non è mai successa una cosa simile. E' stato un

delitto mostruoso e stia sicuro che farò tutto il possibile per...»

«Già. Mi scusi, sceriffo. Il fatto è che non sono certo nelle condizioni...»

«No, no, signor Willer. Lei non deve scusarsi affatto.»

«Non l'ho neanche ringraziato per tutto quello che ha fatto per Lois. Si è occu-

pato di tutto lei.»

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Lois «Per carità, Willer. Era il minimo che potessi fare. Conoscevo bene la signorina.

Vorrei non avergliela mai presentata, quel giorno.»

«Già, è vero» risponde Tex inseguendo i suoi pensieri.

La sua mente va al giorno in cui è venuto per recarsi alla tomba di Cora.

Si era rivolto allo sceriffo per chiedere informazioni e questi lo aveva accompa-

gnato da Lois, la sorella della madre di suo figlio7.

Sembra un secolo fa.

«Ah, ancora una cosa, sceriffo. A che ora è venuta da lei Lois, due giorni fa?»

«A che... a che ora? Beh, veramente non ricordo con precisione.»

«Più o meno, sceriffo. Lois è andata prima dal giudice Manson. Poi è venuta da

lei.»

«Mah, dovranno essere state le quattro, o forse più tardi. Ma entro le cinque

sicuramente.»

«Uhm. Ok, sceriffo. Grazie.»

«Che farà adesso Willer?»

«Che farò? Una sola cosa. Ammazzerò quel cane. E' solo una questione di tem-

po. Prima dovrò cercarlo. Ma lo troverò. E allora dovrà pentirsi di essere mai

nato.»

La voce di Tex suona terribile.

Lo sceriffo non può che provare un brivido alla schiena.

Dopo aver acquistato un buon cavallo, Tex inizia a girare per la città e a far

domande.

Prevede che la caccia sarà lunga e che il maledetto assassino non sia più in cit-

tà.

Ma deve pur partire con qualcosa.

Anche il più piccolo indizio.

Ma non riesce a ricavare praticamente nulla.

Nessuno sa niente e nessuno ha visto niente.

Neanche la più piccola informazione.

Finché, quasi per caso, fa una scoperta incredibile.

Fa un salto dallo sceriffo per sapere se ci sono novità.

Magari le sue indagini hanno dato qualche frutto. 7 Vedi il finale del romanzo "Il figlio di Tex".

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Letizia «Ciao, Bart. Lo sceriffo?»

«Buon giorno, signor Willer. Il signor Damien non c'è.»

«Non sai dov'è andato?»

«Non saprei, signore. E' un po' che non lo vedo. L'ultima volta che l'ho visto,

mi ha detto che veniva da lei.»

«E' strano, sono passate parecchie ore. E' vero che mi aveva promesso di

darmi una mano, ma è strano che non si sia fatto più vedere. Passa quasi tutto

il suo tempo in ufficio.»

«In ufficio? Ma se non c'è quasi mai.»

«Come sarebbe a dire?»

«Certo, signor Willer. Anche quando è venuta a cercarlo la povera signorina

Lois, lui non c'era. Ha aspettato un bel po' e poi se n'è andata.»

«Come? Lois è venuta qui e lo sceriffo non c'era?»

«Sicuro, signor Willer. Quando La signorina se n'è andata, le ho chiesto se do-

vevo dire qualcosa al signor Damien, ma lei mi ha detto che non era nulla di

importante. Così quando lui è tornato, dopo quasi due ore, io non gli ho detto

nulla. Avevo paura che se la prendesse con me. Ho fatto male, signore?»

«No, no. Hai fatto benissimo. Hai fatto molto bene.»

Tex ringrazia e saluta il giovane Bart e se ne va pensieroso.

Perché lo sceriffo gli ha mentito dicendogli che quel pomeriggio maledetto era

stato sempre in ufficio se invece sembra che non c'era affatto?

E perché ha detto che ha incontrato Lois tra le quattro e le cinque se invece lei

se n'è andata dopo averlo aspettato invano?

Può essere che Lois lo abbia incontrato dopo, ad insaputa di Bart.

Ma c'è sempre qualcosa che non quadra.

Lo sceriffo gli dovrà spiegare parecchie cose.

Ma lo sceriffo Damien non si trova.

Sembra essersi volatilizzato.

Chiede in giro se qualcuno lo avesse visto.

Non lo ha visto nessuno.

Solo il vecchio Buck, che è quasi sempre ubriaco, dice di averlo visto.

Ma non oggi.

Un paio di giorni fa.

E si aggirava proprio in una via laterale che dà sul retro della casa di Lois. 530

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Lois Un dubbio si insinua pesantemente nella mente di Tex.

Cerca lo sceriffo per tutta la città.

Nessuno l'ha visto.

Nessuno tranne il maniscalco.

E' passato tre o quattro ore prima per ferrare il suo cavallo che aveva perso il

ferro anteriore destro.

Poi l'aveva visto prendere la strada che va verso nord.

Un cavallo con un ferro nuovo.

Pista facile da seguire.

"A noi due, signor Damien."

Le tracce si dirigono verso nord e poi piegano leggermente verso est.

E' evidente che Damien sta andando a Santa Fé.

Quando Tex Arriva ad Agua Frìa è ancora buio.

Le prime luci cominciano a rischiarare le sagome delle prime case di Santa Fè,

all'orizzonte.

Il cavallo è stremato.

Tex si ferma un attimo per lasciarlo riposare.

Ormai è evidente che lo sceriffo è arrivato nella città e si terrà rintanato chissà

dove.

E' probabile che si aspetti di essere seguito.

Tex è un mastino che non molla facilmente l'osso e ormai, pensa l'assassino,

avrà certamente intuito la verità.

Cadere nelle sue mani, dopo quello che ha fatto, significa morire tra le soffe-

renze più atroci.

Tex vive da decenni con i Navajo e conosce ogni tipo di tortura.

"Meno mi faccio vedere in giro e meglio è. Quel maledetto può essere dovun-

que e, se mi vede, si terrà nascosto nel suo buco."

Si avvia lentamente verso la città.

Arriva alla scuderia al sorgere del sole.

Le strade sono ancora deserte.

Lascia il cavallo e chiede allo stalliere: «Amigo, hai qualche abito vecchio da

vendermi?»

«No, señor. Però ho un vecchio poncho e un sombrero.»

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Letizia

«Uhm. Andranno bene lo stesso. Ti bastano dieci dollari?»

«Per dieci dollari, señor, le tengo anche il cavallo per una settimana. Fieno e

biada di ottima qualità e una bella strigliata. Vedo che ne ha molto bisogno.»

«E' vero. Bueno allora. Eccoti il denaro. Dov'è il poncho?»

«Està aquì, señor.»

Tex si avvicina al sombrero e alla mantella messicana, quando nota un cavallo.

Ha un ferro nuovo di zecca.

E' sporco di fango e polvere, ma si vede benissimo che è nuovo.

E il cavallo è sudato.

«Amigo, di chi è questo cavallo?»

«E' di uno straniero arrivato poco più di un'ora fa.»

«Non hai visto dove andava?»

«No, señor. Era un tipo taciturno. E spilorcio. Mi ha dato solo dieci centavos.»

«Senti, ci sono altri dieci dollari se mi fai un favore.»

«Per altri dieci dollari, farò tutto quello che mi chiede, señor. Anche andare a

piedi ad Albuquerque.»

«Non c'è bisogno di tanto. Stai a sentire.»

Poco dopo esce dalla stalla un hombre.

Sembra uno dei tanti messicani che bighellonano per le vie della città.

Due sole cose stonavano con il suo abbigliamento: gli stivali, un po' troppo e-

leganti per un messicano e il doppio cinturone con le colt.

Gli stivali li ha nascosti coprendoli con i jeans.

Il cinturone e una delle due colt li ha invece lasciati al buon stalliere.

La seconda colt la tiene ben nascosta in una ampia tasca interna del poncho.

Barba lunga, abiti impolverati, poncho e sombrero di paglia, Tex sembra pro-

prio uno straccione.

Si aggira per le strade con andatura un po' incerta, come se fosse leggermente

brillo.

Non fa domande ma osserva attentamente.

Entra in tutti i saloon ma ci sta solo pochi minuti.

Da qualcuno è stato anche cacciato in malo modo.

Ma a Tex non importa.

Gli interessa solo una cosa.

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Lois Non abbandona la main street se non per pochissimo tempo e ogni tanto lancia

un'occhiata alla stalla da cui proviene.

Niente.

Niente di niente.

"Pazienza, Tex. Pazienza. Non pretenderai certo di avere la fortuna di trovarlo

subito?"

Tex non è mai stato così nervoso.

Gironzolare come un ubriaco, sopportare gli scherni di qualche imbecille che

non sa quello che rischia, aspettare... aspettare...

Un paio di volte gli è sembrato di vedere lo spietato assassino che cerca.

Ma purtroppo non era lui.

Gli è sembrato poi di riconoscere un tizio che gli è passato abbastanza vicino.

Lo ha sicuramente visto da qualche parte.

Ma non ricorda dove.

Magari sarà stato uno dei tanti furfanti che ha sbattuto in galera.

Ma ora non ha tempo da perdere dietro di lui.

E poi non è più un ranger.

Se quello è un tipo losco, che se la veda lo sceriffo di Santa Fé.

Ogni tanto butta un'occhiata alla stalla.

Ma niente.

E' quasi sera.

Non si accorge nemmeno che non mangia da più di 24 ore.

All'ennesimo sguardo alla stalla, vede il tipo losco entrare e uscire poco dopo al

galoppo.

Poi vede lo stalliere appendere uno straccio ad un pennone.

Ma non è lo straccio rosso convenuto.

E' uno straccio talmente sporco che non si riesce bene a capire che colore era.

Ma non è certamente rosso.

Forse, quando era pulito, doveva essere giallo.

Tex si precipita verso la stalla.

«Cosa diavolo è successo? Cosa significa quello straccio? L'uomo che cerco è

venuto qui? Perché non hai messo quello rosso?»

Troppe domande in un colpo solo.

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Letizia Il povero stalliere risponde: «Señor, è arrivato uno straniero, un tipo mai visto.

Ha preso il cavallo, quello con il ferro nuovo ed è salito in sella. Io ho cercato di

fermarlo dicendo che non era il suo. Ma lui mi ha buttato a terra con un calcio

ed è scappato via. Io non sapevo cosa fare. Non potevo mettere lo straccio

rosso. L'uomo non era quello che lei cerca, señor. E allora ho messo uno strac-

cio giallo.»

«Hai fatto benissimo. Grazie.»

Gli allunga una banconota da dieci, sella in fretta il cavallo e si rimette i suoi

cinturoni.

Due minuti dopo è all'inseguimento del misterioso individuo.

Non ha più di dieci minuti di vantaggio.

Ma è sparito dalla circolazione.

E, dannazione, c'è un gran via vai di gente a cavallo a quest'ora.

Tex perde del tempo prezioso per cercare le tracce, pure inconfondibili, del ca-

vallo col ferro nuovo.

Le trova e poi le riperde un paio di volte, finché non le ritrova definitivamente.

"Ormai non mi scappi più, bello. Non ti vedo ancora, ma so quale strada hai

preso. Ti starò incollato e prima o poi ti raggiungerò."

Ma il cavallo del misterioso individuo è molto veloce e Tex non riesce a ridurre

lo svantaggio.

"Stai massacrando il tuo cavallo, amigo. Non sei molto furbo. Se continui così,

prima o poi ti cade sotto le ginocchia. E allora sei fritto."

Poi a Tex viene in mente una cosa.

"E se conoscesse un posto dove cambiare cavallo? Si è diretto a gran carriera

da queste parti come se le conoscesse molto bene. Potrebbe avere un rifugio e

magari dei complici. Occhio Tex."

Ma anche Tex conosce molto bene quelle parti ed è ormai evidente che quel

dannato sta andando verso il Glorieta Pass.

"Se attraverso la Cañada De Los Alamos, gli taglio la strada e lo posso prece-

dere e aspettare che mi cada tra le grinfie. E' un percorso difficile che attraver-

sa le alture. Ma ce la posso fare. Lui dovrà fare un ampio giro e perderà molto

tempo. Io arriverò prima anche andando a passo d'uomo. La pista non è facile

neanche per lui e ci sono dei tratti in cui non può correre. Ormai è mio."

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Lois Spinge il cavallo verso un sentiero che non assomiglia neanche a una mulattie-

ra, tenendo ben salde le redini in pugno e spronando l'animale recalcitrante.

Il mustang si inerpica lentamente.

Dopo meno di un'ora Tex è sul punto più alto della Cañada.

"Forza, Tex. Ormai il peggio è passato. Ora la strada è tutta in discesa."

«Attento, bello. Non correre troppo. Rischi di romperti i garretti.»

Il cavallo, quasi l'avesse sentito, rallenta l'andatura.

Un pensiero terribile affiora nella mente di Tex.

"L'assassino è sicuramente lo sceriffo. Ma l'uomo cui sto dando la caccia, chi è?

E se fosse qualcuno pagato da quel bastardo per tirarsi dietro gli inseguitori? E

se lo sceriffo ora stesse scappando da qualche altra parte? Maledizione. Ritro-

varlo poi sarebbe un vero problema. Ma non mi resta altro da fare. Agguanterò

questo tizio e gli farò sputare tutto quello che sa. E spero per lui che sappia

qualcosa."

Vede dall'alto il fuggitivo e ora ha la certezza di avergli tagliato la strada.

Arriverà al passo prima di lui e lo aspetterà.

"Mi piacerebbe sapere proprio perché lo sceriffo ce l'abbia con me. Perché il

motivo del suo folle gesto mi è fin troppo chiaro: vendetta nei miei confronti.

Quindi mi conosce bene, anche se io non ricordo di averlo mai visto prima.

Vendetta verso una donna che non poteva difendersi. Avrebbe potuto colpire

me, magari alla schiena. Ma evidentemente è troppo vigliacco per farlo. Forse

sa che non è facile sorprendermi e il minimo errore sarebbe potuto costargli

caro. Ha colpito Lois, il maledetto."

Finalmente arriva a Glorieta Pass.

Nasconde il mustang dietro le rocce e gli fascia il muso per evitare che nitrisca

quando sentirà l'odore dell'altro cavallo che, per fortuna non potrà invece sen-

tirlo perché sopravvento rispetto al suo.

L'attesa non è molto lunga.

Il fuggitivo arriva da dietro una curva che l'obbliga a rallentare.

Tex sbuca improvvisamente da dietro un costone roccioso e agita il suo

winchester davanti al cavallo che s'impenna.

Il cavaliere, preso alla sprovvista, non riesce a trattenere le redini e cade

all'indietro.

Tex gli si avvicina, winchester in pugno. 535

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Letizia Il bandito tenta di estrarre il revolver, con il solo risultato di vedersela far sal-

tare dalle mani con un colpo della canna del fucile.

L'uomo, con un'agilità sorprendente salta addosso a Tex che lo evita e lo sten-

de con un poderoso sinistro alla mascella.

Il miserabile cade a terra svenuto.

Tex si guarda la mano sinistra, unta con qualche sostanza oleosa e lancia un'e-

sclamazione di sorpresa: «Tu... sei tu, brutto mostro malefico.»

Quando si sveglia il sole è già alto nel cielo.

Ha un gran mal di testa e non riesce a muoversi.

E' sdraiato a terra con le caviglie immobilizzate con robusti lacci di pelle intrec-

ciati legati a due paletti di legno conficcati profondamente nel terreno.

Le braccia sono stese al di sopra della testa in una posizione innaturale che lo

fa respirare a fatica.

I polsi, come le caviglie, sono legati con lacci di pelle.

La pelle è stata bagnata prima di essere utilizzata per legarlo in modo che, a-

sciugandosi, stringesse i nodi che non possono essere sciolti se non recidendoli

con un coltello.

Non vede nessuno intorno.

E ha il sole negli occhi.

Che Tex se ne sia andato lasciandolo morire di sete o, peggio, dilaniato da av-

voltoi e coyote?

E' questa la sua vendetta?

Ma non è così perché sente un leggero rumore di legna che crepita nel fuoco.

Un'unica cosa gli viene in mente.

Tortura.

Tex è un vero esperto in materia.

E sa che non può chiedere pietà.

«Toh, vedo che ti sei svegliato, demonio. Dormito bene?»

Sente la voce ma non lo vede.

«Scommetto che hai sentito il crepitio della legna sul fuoco e hai pensato che

sto scaldando il coltello per te.»

Non risponde.

«Non temere. Nessuna tortura. E' ancora troppo presto.»

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Lois Tex sta giocando come il gatto col topo.

Il miserabile sa che non gli toccherà una sorte migliore.

«Hai un buon udito, però manchi completamente di olfatto. Non hai sentito il

profumo del mio coniglio arrosto? Sai, per colpa tua non ricordo l'ultima volta

che ho mangiato.»

Segue un lungo silenzio.

«Non ho ancora capito come sei sopravvissuto l'ultima volta, in quella fetida

caverna in cui ci tenevi tutti prigionieri. Ti ho visto sprofondare negli abissi con

questi miei occhi. Sembra quasi che tu sia indistruttibile, mostro infernale. E

ora lo verificheremo.»

Ancora nessuna risposta.

«Se penso alla fine che volevi far fare a mio figlio, a tutti noi... E se penso a

come hai ucciso Lois... Pagherai per tutto questo. Pagherai mille volte.»

«Sono caduto su un cumulo di terra mista a roccia friabile.»

«Come?» domanda Tex, come se pensasse ad altro e non lo avesse ascoltato.

«E poi mi è caduta addosso altra terra che mi ha protetto dalle pietre che sono

franate in seguito sopra il mio corpo.»

Parla con fatica.

«La tua maledetta fortuna. Ma questa volta ti ha abbandonato.»

«Respiro a fatica. Perché non allenti un po' i legami, almeno quelli dei polsi?»

«Sei scomodo? Credevo che un tipo come te fosse più resistente. Non vorrei

che tirassi le cuoia troppo presto.»

«E allora, allenta questi maledetti legami.»

«Quasi quasi...»

«Dai, cosa aspetti, dannazione? Queste corde mi stanno anche segando i pol-

si.»

«Uhm. Credo invece che tu sia sufficientemente resistente da non schiattare

subito. Beh, almeno ci hai provato.»

«Cane maledetto, mi prendi anche in giro.»

«Di che ti lamenti? Finché scherzo devi essere contento. vedrai quando non

scherzerò più.»

Si arrotola lentamente una sigaretta e poi l'accende con un ramo preso dal

fuoco.

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Letizia «Dovevo immaginarlo subito che c'eri di mezzo tu. Ti sei vendicato di me col-

pendomi negli affetti più cari. Mi chiedevo perché lo sconosciuto assassino se la

sia presa con Lois invece di provare a uccidere me. Pensavo alla viltà, ma non

è così. Tu non volevi uccidermi. Volevi solo farmi soffrire.»

«Sì, è così, sbirro maledetto. Ti puoi bene immaginare la mia sorpresa quando

ti ho visto arrivare ad Albuquerque e sei venuto da me per chiedermi informa-

zioni su Cora Connery.»

La voce ora si è fatta sprezzante come se volesse usarla come arma, l'unica

arma disponibile, contro Tex.

Sembra che provi piacere, nonostante la situazione, nel vedere il suo vecchio

nemico soffrire.

E insiste.

Affonda ancora di più il coltello nella piaga.

«Ti ho visto andare al cimitero con l'avvocato. Devo dire il più bel avvocato che

abbia mai conosciuto.»

«Maledetto. Non sei degno neanche di nominarla. Ma se speri di provocarmi

per ottenere una morte veloce, ti sbagli di grosso, demonio maledetto.»

«Ero curioso. Con molta diplomazia e senza dimostrarmi troppo interessato alla

cosa, ho fatto parlare la tua bella. Mi ha raccontato tutto. E, devo dirti la veri-

tà, non mi sono mai sentito bene come allora. Il grande e invincibile ranger

addolorato per la morte di un figlio illegittimo che ignorava di avere. Quella no-

tizia mi ha provocato una gioia indicibile. Il mio mortale nemico stava soffren-

do. Ah, come mi son sentito bene.»

Tex fatica a mantenere la calma.

«E poi ti ho visto ritornare. Ti ho visto fare il cascamorto con la bella Lois. Tex

che si innamora. Come eri ridicolo. E patetico.»

A Tex prudono dannatamente le mani.

Prende il mozzicone di sigaretta dalla bocca e lo getta via.

Ma, chissà come, il mozzicone, ancora acceso, cade sul petto dell'assassino che

si lascia sfuggire una smorfia di dolore.

«Oh, scusa. Ti ho fatto male?»

«Non mi sembrava vero. Avevo la mia vendetta lì, pronta, servita in un piatto

d'argento. Hai ragione, sai. Non volevo uccidere te. Sarebbe stato troppo co-

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Lois modo. Tu dovevi soffrire come hai fatto soffrire me. Soffrire e soffrire molto

anche. Non mi bastava la tua sofferenza per la morte del tuo bastardo. Non

era stato io a procurartela. Dovevi soffrire ancora di più. E per colpa mia. E ci

sono riuscito.»

«Ma tu non sai, mostro schifoso, quanta gioia proverò nel vedere la tua vita

consumarsi a poco a poco nel dolore più terribile che corpo umano abbia mai

dovuto sopportare. E non sai la pace che ci sarà nella mia anima quando avrò

visto il tuo corpo ridotto in cenere.»

Le parole di Tex risuonano potenti e terribili e lo rocce intorno ne mandano mil-

le volte l'eco.

Il miserabile ha chiesto troppo alle sue forze.

Il respiro ora è ancora più affannoso.

Cerca di inarcare la schiena per alleviare le sofferenze provocate dalla posizio-

ne innaturale delle braccia.

Tex si siede accanto al suo prigioniero e rimane immobile a guardarlo.

«E pensare che vi avevo tutti e quattro nelle mie mani. Il mio piano era perfet-

to. Ti avevo sconfitto, tu e quegli altri tre burattini tuoi compari. E stavo già

assaporando la mia vendetta. Ma non sei stato tu a vincermi, maledetto sbirro.

Sono stati degli spiriti a proteggerti. Spiriti che non venivano dagli abissi più

profondi. Venivano dagli alti cerchi di luce. E con la luce hanno dissolto le te-

nebre che hanno scacciato accecandole tutte le creature infernali a me fedeli.»

«Ma ora non sei stato poi così furbo. Sei diventato chissà come lo sceriffo di

Albuquerque e io non ti ho riconosciuto. Devi aver poi intuito i miei sospetti

perché sei fuggito. Ma non hai pensato che ti avrei inseguito fino all'inferno?»

«Sì che l'ho pensato. Io non ero in ufficio quel giorno e non potevo sapere che

la tua Lois era venuta a cercarmi. Ti ho mentito proprio per distogliere even-

tuali sospetti su di me. E ti ho detto che invece sono stato lì tutto il giorno.

Quando poi tu mi hai chiesto a che ora Lois è venuta da me, ho subito intuito

che avresti capito tutto prima o poi. E allora sono fuggito a Santa Fé. Lì poi ho

cambiato travestimento e ho tenuto d'occhio la main street tutto il giorno. Ma

tu non ti sei fatto vivo. Alla fine mi sono deciso e me ne sono andato.»

«Non mi sono fatto vivo? Anch'io ho imparato a travestirmi, sai? Hai presente

quel vagabondo mezzo ubriaco con un poncho non molto pulito e il sombrero di

paglia?» 539

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Letizia «Eri... eri tu? Quello straccione che andava barcollando da saloon a saloon eri

tu?»

«Sorpreso, eh? Credi di saperci fare solo tu con i travestimenti, vecchio mio?»

«Fregato. Fregato e non con la forza, ma con uno dei miei tanti trucchi. Non ti

facevo così astuto, Tex.»

«Cosa credevi? Credevi di avere a che fare con uno sprovveduto? Ti ho sempre

sconfitto, demone infernale.»

«Hai sempre avuto una dannata fortuna, maledetto.»

«E' così che si perde, sai? Sottovalutando l'avversario. Un errore che io non ho

mai commesso.»

«Maledetto demonio.»

«Oh guarda da chi viene il "complimento". Si vede che sei stato un ottimo ma-

estro per me. Ma ora basta chiacchiere. Credo che dormirò un paio d'ore. Tu

approfittane per riposarti.»

E un paio d'ore dopo, preciso come un orologio, Tex si avvicina.

La sua ombra copre il viso del malcapitato che così lo può vedere bene.

«Preparati, Mefisto. Ora facciamo sul serio.»

«No.»

Tex si gira di scatto, le due colt in pugno.

Nessuno.

«No» ripete la voce.

"Chi diavolo ha parlato?"

Si rivolge poi a Mefisto.

«Sei stato tu?»

«Come?»

«Sei stato tu?» ripete Tex.

«A far cosa? E poi cosa potrei fare? Non posso muovere neanche un muscolo.»

«Non lo uccidere. Non deve morire.»

«Ti diverti a fare il ventriloquo ora? Se credi che io cada nel tuo sporco tranel-

lo...»

«Ma cosa vai cianciando?»

«Stai tentando uno dei tuoi sporchi trucchi.»

«Nessun trucco, Tex Willer. Non è Mefisto che parla. Sono io.»

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Lois Tex si gira ancora.

Ma non c'è anima viva.

"Ormai è chiaro che Mefisto sta cercando di salvare la pelle. Spera di ipnotiz-

zarmi e magari di farsi liberare."

«Come puoi pensare che io sia così ingenuo? Già una volta hai tentato di ipno-

tizzarmi. Ma ti è andata male.»

«Senti, sbirro maledetto. Vuoi la mia pelle? Prenditela. Vuoi farmi soffrire le

pene dell'inferno? Accomodati. Non credo che le tue torture siano peggio di

quello che ho già passato. Tu non hai neanche l'idea di quello che ho dovuto

subire. Con le tue torture non riuscirai neanche a procurarmi un decimo del do-

lore che ho già provato. Ma per favore non annoiarmi con le tue idiozie.»

«Ti ripeto che non è quel mostro maledetto a parlare. Sono uno spirito che non

riesce a trovare pace, perché mi è stato tolto tutto. Anche la morte.»

«E' vero, Aquila della Notte.»

Tex non riesce a credere alle sue orecchie.

Quella che ha appena udito è la voce della sua dolce Lilyth.

Ma non c'è nessuno.

«Mostro malvagio. Lei no. Lasciala fuori. Non usarla per i tuoi sporchi trucchi.»

«Lei? Lei chi?» risponde Mefisto stupito.

«Mio sposo, non temere, E' la mia voce quella che senti. L'uomo malvagio non

ha alcun potere sugli spiriti. Ma tu non devi ucciderlo.»

«Lilyth, sei veramente tu? Come faccio a esser sicuro che la tua voce non sia

entrata nella mia testa per qualche oscura magia operata da quel demonio? E

così anche l'altra voce, come posso fidarmi?»

Gli viene improvvisamente un'idea.

Rotea una delle colt che tiene ancora in pugno e l'afferra per la canna.

Poi si avvicina a Mefisto e lo colpisce violentemente alla testa facendogli perde-

re i sensi.

«Lilyth.»

Tex chiama per nome la sua dolce sposa.

«Sono qui accanto a te, Aquila della Notte. Tu non puoi vedermi, ma io sono

qui.»

«E anch'io non sono un trucco di quel maligno. Il mio nome è Narbas. Mefisto

mi ha usato per compiere un grande sortilegio con l'aiuto delle nere forze del 541

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Letizia male. Si è impadronito con l'inganno del mio corpo. Ora io, che sono un "non

morto" sono costretto a vagare negli inferi perché sono uno spirito senza cor-

po. Il mio corpo giace lì a terra. Io devo tornare tra i vivi. Rivoglio il mio corpo

e Mefisto deve tornare al mio posto negli inferi da cui è fuggito.»

«Così è, Aquila della Notte. Non puoi ucciderlo.»

«Ma deve pagare. Ha ucciso la donna di cui mi ero...»

Si interrompe.

Si accorge che sta parlando a Lilyth della donna che ha amato.

«Non temere, mio sposo. Là da dove viene il mio spirito nulla ci è sconosciuto.

La donna bianca di nome Lois merita il tuo amore e tu hai diritto di essere a-

mato da lei.»

«Ma lei ora è morta. Non potrà più amarmi e io non potrò più amare lei.»

«Non è così, Aquila della Notte.»

«Cosa vuoi dire?»

Ad un tratto una grande luce bianca appare dal nulla davanti ai suoi occhi.

Una luce accecante che Tex non riesce a sopportare.

E in quella luce Tex riesce a intravvedere la sua Lilyth.

Cerca di avvicinarsi per toccarla, per lambire almeno la sua mano.

«La donna bianca vive, mio sposo. Il demone non l'ha uccisa. Ti ha inganna-

to.»

«Lois... Lois non è morta? Ma... io stesso ho visto il suo corpo senza vita...

e...»

«No. La tua donna è viva.»

«E dov'è? Tu lo sai? Dov'è? Dimmelo.»

«Non mi è dato rivelarti altro, mio amato. Non mi è dato... non mi è...»

La voce diventa sempre più flebile e la luce accecante si attenua fino a scom-

parire del tutto.

«Lilyth. Lilyth. Dove sei? Dov'è lei? Dov'è Lois?»

Ripete urlando le sue domande che l'eco amplifica e duplica mille volte.

E purtroppo l'eco è l'unica risposta che ottiene.

«Non temere, Tex Willer. Riuscirai a salvare la tua donna.»

«Tu. Mi ero completamente dimenticato di te. Narbas. Ti chiami così, vero?»

«Sì, è così.»

«Dimmelo tu, allora. Dove si trova Lois?» 542

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Lois «Non lo so, purtroppo. Il mio spirito vaga nelle tenebre e i miei occhi sono cie-

chi. A noi non è dato vedere quello che succede nel mondo dei vivi»

«Ma ora sei qui. Come diavolo ci sei arrivato? Come facevi a sapere che Mefisto

era qui?»

«Sono stato guidato da una voce. La tua sposa mi ha indicato la via dall'alto

delle sfere celesti. Lei non vuole che le tue mani si sporchino di sangue. Non in

quel modo. Diventeresti un assassino peggio di lui.»

«Non mi importa. Ma prima di morire, quel cane deve dirmi dove ha nascosto

Lois.»

Afferra una grossa borraccia appesa alla sella del suo mustang e la vuota sul

volto di Mefisto che si riprende bestemmiando.

«Dov'è? Dove l'hai nascosta?»

«Ma che diavolo vuoi?»

«Dov'è? Dove hai nascosto Lois?»

«Lois? Ma che diavolo vai cianciando? La tua bella è morta. L'ho uccisa io.»

«Dov'è Lois? Mostro malefico, so che è viva, che non l'hai uccisa e che la tieni

nascosta da qualche parte. Dimmi dov'è.»

«Come... come fai a saperlo?»

«Non ti riguarda. Dimmi solo dov'è.»

«Non ci penso neppure. Uccidimi pure. Torturami, fammi soffrire come solo tu

sei capace ti fare. Ma io non ti dirò nulla.»

La sua risata, soffocata da un colpo di tosse, risuona sinistra nell'aria.

«Scommetto che ti stai chiedendo perché non l'abbia uccisa.»

«Non mi interessa. Voglio solo sapere dov'è.»

Tex lo afferra e lo scuote violentemente, procurandogli dolori atroci al torace.

«Ma io te lo voglio dire lo stesso» risponde Mefisto dopo aver emesso un debo-

le lamento.

«Non era necessario che morisse davvero. Dovevi solo credere che fosse morta

per soffrire come poi hai sofferto. Lei non doveva morire. L'avrei tenuta in vita

finché non avessi ucciso te. E poi l'avrei liberata. Per due motivi. Perché dove-

va soffrire anche lei. Soffrire per la tua morte. Questa doveva essere la puni-

zione per averti amato. E poi volevo che lei andasse dai tuoi burattini a portar

loro la notizia della tua morte. Avrebbero sofferto anche loro. E mi avrebbero

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Letizia cercato. E io, con te fuori causa, avrei avuto buon gioco con loro. E la mia ven-

detta sarebbe stata completa.»

Ripete la sua risata satanica.

«Non è andata così. Pazienza. Ma la mia vendetta con te è riuscita. Non trove-

rai mai la tua bella. E ora uccidimi.»

La sua risata ha il potere di far andare su tutte le furie Tex che afferra la sua

colt e si allontana da lui di un paio di passi.

«No» urla Narbas disperato.

Tex non crede ai propri occhi.

Il corpo di Mefisto subisce una trasformazione.

La pelle diventa più scura e sul volto appare una lunga barba bianca.

Il corpo sembra diventare più piccolo e i paletti che tenevano legati i polsi e le

caviglie vengono divelti dal suolo.

Eppure erano piantati saldamente.

I robusti lacci di pelle intrecciata si spezzano come se fossero di carta.

Tex impugna anche l'altra colt pronto a far fuoco su quell'essere chiunque lui

sia.

L'uomo, sul cui capo è ora comparso un turbante, si alza a fatica.

I lacci che tenevano legato il suo corpo hanno lasciato profonde ferite sangui-

nanti.

Dal corpo che gli è davanti esce, come fosse una visione immateriale, una figu-

ra che Tex conosce molto bene.

Neri spiriti lo trascinano fuori da quel corpo che non è suo e lo spingono in un

abisso profondo che si è aperto improvvisamente nel terreno.

Mefisto urla la sua rabbia.

Sa che dovrà tornare verso gli inferi da cui è riuscito a fuggire.

E sa che la punizione per il suo folle gesto di ribellione a quello che il destino

aveva deciso per lui sarà terribile.

E sarà per l'eternità.

Urla e prega i demoni degli abissi che gli venga risparmiata la loro collera.

Ma le sue preghiere sono vane.

Non si pregano i demoni.

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Lois I neri spiriti scompaiono con la loro preda e gli abissi si richiudono dietro di lo-

ro.

Tex è rimasto senza fiato.

Quando si riprende urla la sua disperazione.

La sua dolce piccola Lois, dov'è?

Si rivolge verso il misterioso individuo che tace immobile davanti a lui.

«Non lo rivedrò mai più, vero?»

«No. Non si fugge due volte dagli inferi. Hai avuto la tua vendetta, Willer.»

«Non così, però. Non a questo prezzo. Ho perduto Lois una volta. Non voglio

perderla ancora.»

«Non sei tu a decidere, Willer. Se nel destino c'è scritto che la ritroverai, così

sarà. Ma se il destino non vuole...»

«Taci. Il mio destino lo decido io. Io la ritroverò.»

«Che Vishnù ti aiuti nella tua ricerca, fratello.»

Tex osserva a lungo l'indiano.

«Vieni, fammi vedere le tue ferite. Cercherò di curartele. In fondo sono io che

te le ho procurate.»

«No. Tu le hai procurate al tuo nemico, non a me.»

«Sta di fatto che ora il dolore lo senti tu. Vieni, ti darò anche acqua e cibo.»

«Ti ringrazio, pregherò la Trimurti per te.»

Dopo aver fasciato le ferite di Narbas e dopo averlo rifocillato con il poco cibo

che aveva, Tex ritorna con lui verso Santa Fé.

L'indù cavalca il cavallo che era di Mefisto.

«Che farai ora, Narbas?»

«Ritornerò nella mia città, in India, se gli dei lo vorranno.»

«Uhm. Non sarà un viaggio facile. Dovrai prima arrivare in California, a San

Francisco, dove potrai trovare una nave in partenza per le Indie.»

«Dove ci troviamo ora?»

«Nel New Messico. Stiamo andando a Santa Fé. E per arrivare a San Francisco

dovrai attraversare tutta l'Arizona e parte del Nevada. Il viaggio sarà lungo. E

ti servirà del denaro. Ma io ti aiuterò.»

«Ti ringrazio, fratello. Sei molto generoso. Pregherò ogni giorno per te.»

Tex tace.

Non fa altro che pensare a Lois, a cosa potrà fare per trovarla. 545

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Letizia Ma la sua mente ora non è sufficientemente lucida per pensare a un piano, per

trovare almeno un punto di partenza.

Il giorno dopo si alza che il sole è già sorto da un pezzo.

Non gli era mai successo prima.

Non voleva neanche andare a dormire.

Ma poi ci ha ripensato.

Meglio recuperare le forze perché ne avrà bisogno.

Pensava che dormire qualche ora gli avrebbe fatto solo bene.

Era andato in albergo subito dopo la cena.

Una cena molto abbondante a giudicare dalla faccia stupita dell'oste e di tutti

gli altri commensali.

Ma si doveva rifare.

Gli ultimi due giorni aveva mangiato molto poco.

E poi era andato subito a letto.

Ma diavolo, ha dormito quasi dodici ore.

Scende per far colazione.

Chissà se a quell'ora la cucina è ancora aperta.

Ma, con qualche dollaro di mancia, riuscirà a far fuori qualche uova e un po' di

pancetta.

E una buona tazza di caffè bollente.

"Non come quella che mi prepara il buon Carson. Chissà cosa ci mette dentro.

Forse ci aggiunge anche un po' di tabacco per farlo più forte."

Carson.

E se lo chiamasse?

Potrebbe dargli una mano per trovare Lois.

E anche Kit e Tiger.

Trovarsi tutti insieme non sarebbe una cattiva idea.

Insieme hanno risolto i casi più intricati.

Non hanno mai fallito.

Gli sarebbero sicuramente di gran aiuto.

Ma ci vorrà un sacco di tempo perché arrivino a Santa Fé.

Potrebbe mandare un dispaccio a Gallup.

Là c'è sempre qualche suo Navajo che porterebbe il messaggio a Kit.

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Lois Ma stanno tutti al villaggio centrale e la notizia gli arriverebbe non prima di do-

podomani.

Insomma, anche partendo subito e prendendo anche il treno, non sarebbero

qui prima di cinque giorni.

Troppo tempo.

"E poi, a dire il vero, non so da che parte cominciare. E se la mia Lois fosse na-

scosta ad Albuquerque? No, no. Troppo pericoloso per Mefisto. E' vero che io

pensavo che fosse morta e che non l'avrei certo cercata, però qualcuno avreb-

be potuto vederla o sospettare qualcosa. No no. L'ha certamente portata in

qualche posto fuori città."

Sta cercando di ragionare come Mefisto, di entrare nella sua testa.

L'ultima volta ha portato i suoi pard, a cominciare dal buon vecchio Carson, in

una caverna in un luogo deserto.

C'è da supporre che anche questa volta abbia fatto così.

E c'erano anche dei complici che sorvegliavano i prigionieri e li tenevano in vita

dando loro da bere e da mangiare quanto basta per non farli morire.

Certo.

Ci deve essere per forza qualcuno con Lois.

Sicuramente.

Lois è stata senz'altro portata via da qualche suo complice.

"Il falso sceriffo non si è mai allontanato a lungo da Albuquerque. Quindi o Lois

è tenuta prigioniera in un luogo molto vicino alla città o sono stati i suoi com-

plici a portarla da qualche parte. E penso che sia più probabile la seconda ipo-

tesi."

Si chiede poi come abbia fatto a ingannarlo così bene.

Lois sembrava davvero morta.

Non respirava e il sangue che è uscito dalla sua ferita, anche se non fosse sta-

ta mortale, sarebbe stato sufficiente a farla morire dissanguata.

"Qualche droga potrebbe averle causato una morte apparente. Ma il sangue? A

meno che non fosse stato il suo. Magari era di quella poveretta di Janet. Sì, è

possibile."

Ma per lui poco importa quello che è successo esattamente.

Gli importa solo sapere che la sua piccola signora dell'Est è ancora viva.

E gli importa di trovarla. 547

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Letizia Sana e salva.

E guai a chiunque tenterà di impedirglielo.

Sta pensando anche che forse è meglio telegrafare ai suoi pard.

Questo non gli impedirà certo di iniziare la ricerca senza di loro.

Farà come al solito.

Lascerà informazioni allo sceriffo sulla direzione verso cui si è diretto e poi la-

scerà tracce evidenti del suo passaggio.

Magari con l'aggiunta di qualche segno usando simboli navajo per far capire

che li ha messi lui.

E lascerà notizie allo sceriffo di ogni città in cui passerà.

Ma spera di non aver bisogno di loro.

Spera di trovare Lois molto prima.

Poi gli viene in mente una cosa.

Va verso la stalla a prendere i suoi due cavalli.

Ma, prima di partire, fa comunque un salto all'ufficio del telegrafo.

Si dirige di nuovo verso il Glorieta Pass.

"Mefisto, quando ha lasciato Santa Fé, non stava scappando. Ormai era tran-

quillo. Io non mi ero fatto vivo e lui pensava sicuramente che non lo avevo an-

cora scoperto. Quindi stava andando da qualche parte. Ma dove? E a far cosa?"

Tex è intenzionato a scoprirlo.

In cuor suo spera che andasse a raggiungere i suoi complici.

Spera anche che con i suoi complici ci sia anche Lois.

E spera che sia ancora lì.

Ora c'è da augurarsi che Mefisto ci sia già stato in quel covo.

Perché il suo piano funzioni, è indispensabile che ci sia già stato e che ci sia già

stato con quel cavallo.

Quello con il ferro nuovo, che ora si sta portando con sé.

Tra poco lo lascerà libero e lo seguirà.

Se tutto va bene, il cavallo ritornerà nel posto dove è già stato e dove sa che

troverà i suoi padroni.

Se tutto va bene perché altrimenti dovrà perdere giorni e giorni per perlustrare

tutta la zona.

Perché Tex è sicuro che Lois si trova da quelle parti.

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Lois Lo sa.

Lo sente.

Il covo di quei dannati deve trovarsi sicuramente vicino a un corso d'acqua.

In quella zona c'è il Glorieta Creek e più avanti ci sono le sorgenti del Pecos Ri-

ver.

Una zona piuttosto vasta, dannazione.

Arrivati al punto in cui ha fermato Mefisto, Tex lascia libero il cavallo che pro-

segue deciso e spedito.

Dopo un paio di miglia rallenta e si ferma.

C'è un piccolo corso d'acqua ed erba a volontà.

Dev'essere il Glorieta Creek.

Tex scruta attentamente i dintorni.

Ma non ci sono posti in cui nascondersi.

Il cavallo si deve essere fermato solo per bere.

Tex lo sprona a riprendere il galoppo e con uno scarto il cavallo prosegue.

Dopo circa un'ora Tex si rende conto che il cavallo, come sospettava, non è

mai stato da quelle parti.

Rallentava quando non era spronato e si è fermato un paio di volte.

"Un bel guaio, dannazione. D'altra parte, non potevo sperare di essere così for-

tunato. Sono stato un ingenuo a pensare che Mefisto possa essere stato da

queste parti dopo l'inganno della "morte" di Lois. Non ne avrebbe avuto il tem-

po. Anche prendendo il treno fino a Santa Fé, gli ci sarebbero voluti almeno

due giorni tra andare e ritornare."

Si guarda un po' intorno e poi prende una decisione.

"L'unica cosa che mi rimane da fare è salire più in alto possibile e dare un'oc-

chiata al territorio. Mefisto doveva avere un valido motivo per venire fino da

queste parti. E l'unico che riesco a trovare è quello di incontrarsi con i suoi

complici. Magari aveva l'intenzione di metterli tra lui e me. Se lo avessi inse-

guito, loro avrebbero cercato di fermarmi."

Si inerpica su per un sentiero portandosi dietro il secondo cavallo.

"Quel demone sapeva benissimo che i suoi complici, per quanto numerosi che

fossero, non sarebbero riusciti a fermarmi. Ma a rallentarmi, questo sì. E lui

avrebbe fatto perdere le sue tracce, magari portando con sé la mia Lois."

Quando comincia a far notte, vede in lontananza un filo di fumo. 549

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Letizia Viene da dietro un costone roccioso e non riesce a vedere la fonte.

Ma può trattarsi solo del covo di quei maledetti che tengono Lois prigioniera.

Il territorio è deserto e troppo impervio perché ci possa essere un accampa-

mento, o qualcosa del genere, di persone normali.

Può trattarsi soltanto di gente che ha qualcosa da nascondere.

"Dannazione. Ora dovrò tornare indietro e proseguire per la pista che ho ab-

bandonato per inerpicarmi fin quassù. Di qua non si passa, purtroppo. Ma, se

non fossi salito fin quassù, non avrei saputo che strada prendere. Un paio di

miglia più avanti c'è un bivio e solo ora so che devo prendere a sinistra e diri-

germi verso le sorgenti del Pecos."

Scende per il sentiero.

Ma, sebbene ora stia andando in discesa, non può andare più veloce perché è

troppo buio.

I cavalli rischierebbero di azzopparsi.

Ora non vede più il filo di fumo, ma sa dov'è.

Poco prima dell'alba, arriva al fiume Pecos.

Il luogo da cui ha visto alzarsi il fumo non deve essere molto lontano.

Avanza con circospezione.

Potrebbero esserci delle sentinelle.

Arriva finalmente al Monastery Lake sulle cui sponde nota una capanna in le-

gno con camino in pietra.

Il fumo è sicuramente partito da lì.

Più avanti, vede l'ingresso di quella che sembra essere una miniera abbando-

nata.

E di fianco vede una capanna più piccola, una stamberga che deve essere ser-

vita come magazzino per gli attrezzi quando la miniera era in funzione.

Si ferma e scende da cavallo.

Sistema i due cavalli in modo che non possano essere visti dal lago e prende il

binocolo dalla sella.

Scruta le capanne e osserva con attenzione i dintorni.

Dietro la casa c'è un corral.

Conta i cavalli.

Non è sicuro se siano tre o quattro.

Non è in posizione favorevole per vedere bene. 550

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Lois Magari sono di più.

Ma non vede nessun uomo.

Troppo presto.

E' evidente che si sentono al sicuro perché non hanno messo sentinelle.

"Devo trovare il modo di liberarmi dei carcerieri senza mettere a rischio la vita

di Lois. Quei maledetti potrebbero minacciare di ucciderla se mi avvicino a loro.

E non posso evitare di essere visto, neanche attraversando il lago a nuoto

sott'acqua. Ci devo prima arrivare ed è troppo lontano da qui. Il terreno è tutto

allo scoperto."

Salta in sella al cavallo di Mefisto e si avvia lentamente e allo scoperto verso la

capanna sul lago.

Come previsto, gli uomini dentro la casa lo vedono.

«Ehi, tu. Chi diavolo sei? Fermati o t'impallino come un tordo.»

Tex ignora il comando e prosegue.

«Che vi prende ragazzi? Sto venendo da Albuquerque. Vi porto ordini del ca-

po.»

«Quale capo? Ma che vai cianciando? Fermati, ho detto.»

«Ehi, fermi con le spingarde. Porto gli ordini dello sceriffo di Albuquerque, il

nostro capo. E' lui che mi manda.»

«Ma quale sceriffo. Noi siamo dei cacciatori di pellicce e non abbiamo capi. E

non conosciamo nessun sceriffo.»

"Uhm. Voi siete dei cacciatori di pellicce come io sono un esquimese."

«Sentite, ragazzi. Ora sto perdendo la pazienza» risponde Tex continuando ad

avanzare verso la casa.

«Vengo da parte del capo, ho detto. E questo è il suo cavallo, non lo riconosce-

te? Lui sapeva che avreste avuto dei dubbi. In fondo non mi conoscete.»

Tex sente all'interno della capanna una voce che dice: «E' vero, Mike. Ricono-

sco il cavallo. E anche la sella è quella del capo.»

E allora ne approfitta e incalza: «Certo che è la sella del capo. E come credete

che ci sia arrivato qui, in questo posto sperduto? Ci sono passato per caso? Me

l'ha detto lui che vi avrei trovato qui. Ha detto: "La capanna sul Monastery La-

ke". Al che io ho risposto: "Ma non potevano trovare un nascondiglio meno..."»

«Ok, ok. Vieni avanti. ma tieni le mani ben lontane dalle fondine.»

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Letizia Tex avanza fino alla casa e scende da cavallo.

Ora vede bene il corral dove stanno i cavalli dei banditi: sono cinque.

«Che diavolo di ordini porti?»

«La ragazza. Bisogna portarla via di qua. Sta diventando troppo pericoloso.»

«Vedi Mike che avevo ragione? E' proprio il capo che lo manda. Altrimenti co-

me faceva a sapere che c'è una donna qui?»

«Va bene, va bene. Ma perché non è venuto il capo in persona?»

«Non dimenticatevi che il capo fa lo sceriffo ad Albuquerque. Non se ne può

andare quando vuole. Lui, per i suoi cittadini è una brava persona.»

Tex simula una fragorosa risata.

Niente di meglio che il riso per vincere quel poco ancora di diffidenza che c'è

nei banditi.

E loro ridono con lui.

Lo fanno entrare e Tex nota che sono solo tre.

E soprattutto vede che Lois non è lì.

La casa non è molto grande e c'è un'unica stanza.

«Come mai non siete tutti qui?»

«John è nel capanno attrezzi con la donna.»

"Bene. Sono solo in quattro. Evidentemente il quinto cavallo è servito per por-

tare Lois."

«Come mai il capo dice che è pericoloso restare qui?»

«Non lo so. Io ho il compito di portarla a Santa Rosa. Il capo mi raggiungerà lì

da Albuquerque, attraverso la grande pista8, e poi proseguiremo insieme fino

ad Amarillo.»

Tex sta tentando il tutto per tutto.

Se gli va bene, libererà Lois e se ne andrà via con lei senza colpo ferire.

Poi, una volta che lei sarà al sicuro a Santa Fé, ritornerà a fare i conti con quei

delinquenti che in fondo sono solo delle pedine.

«Vuoi dire che te ne andrai da solo con la donna?»

«Così mi ha detto il capo. Voi dovete stare qui a...»

«Starcene in questa topaia da soli? E a far cosa?»

8 La "grande pista" è quella che diventerà la famosa Route 66 che collega Chicago nell'Illinois

con Santa Monica in California.

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Lois «Non lo so di preciso. Il capo mi ha solo detto che, se qualcuno dovesse passa-

re da queste parti per cercare la ragazza, voi dovrete fermarlo. Ci sarà un sup-

plemento di grana per voi.»

«Qualcuno? Vuoi dire quel tizzone d'inferno di Tex Willer? Tu sei scemo se speri

che noi restiamo qui a farci ammazzare.»

«E perché dovrebbe riuscire a farvi fuori? Siete in quattro e, con un buon pia-

no, lo potrete sistemare abbastanza facilmente. E non dimenticate la grana. Il

capo è molto generoso, lo sapete.»

Dai, Tex.

Insisti.

Ce l'hai quasi fatta.

«Tu hai un piano?»

«Qualcosa in mente ce l'avrei. Ma ora andiamo a prendere la ragazza.»

«Dai, Mike. Ha ragione lui. Se facciamo fuori lo sbirro il capo ci riempirà le ta-

sche. Diventeremo ricchi e ce ne andremo al Messico a spassarcela.»

«Uhm.»

"Questo Mike non mi sembra molto convinto. Bisognerà che mi inventi qualco-

sa per..."

«Ok, mi avete convinto. I soldi fanno gola anche a me. E, se ci apposteremo

alla Gola dell'Impiccato, potremo farlo secco ancora prima che ci veda.»

«Bene, allora» incalza Tex con entusiasmo, «Andiamo a vedere un po' questa

pollastrella. Com'è? Appetitosa?»

L'atteggiamento spavaldo di Tex serve a fugare eventuali incertezze di Mike.

«Attento a non torcerle un capello. Il capo non sopporta che si disobbedisca ai

suoi ordini. La donna non deve essere toccata nemmeno con un dito.»

Queste parole rincuorano Tex che temeva che i banditi avessero potuto far del

male a Lois.

«Charlie, va con lui al capanno. Io e Slim vi aspettiamo qui.»

«Ok, Mike.»

Tex e Charlie escono dalla casa e si dirigono verso il capanno.

Tutto fila liscio come l'olio.

E Lois sta bene.

«Sam, sono io. C'è qui un tizio che ha degli ordini del capo.»

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Letizia Charlie apre la porta ed entra nel capanno seguito da Tex.

Non fa neanche un passo che cade a terra rantolando.

Tex non fa in tempo a rendersi conto dell'accaduto che un bowie si agita peri-

colosamente vicino al suo collo.

Lo evita con un braccio ma viene ferito al polso.

«Che mi venga...»

«Tex, amore mio. Scusa... non volevo... credevo fossi uno dei banditi. Ti ho

fatto male?»

Tex non crede ai propri occhi.

Davanti a lui c'è la sua Lois che impugna nelle, sue piccole mani, un coltello

che è più grande di lei e una grossa colt navy.

Si stropiccia gli occhi incredulo.

Lois indossa un paio di jeans in cui potrebbe entrare due volte, ripiegati alle

caviglie e tenuti su con una cintola legata sui fianchi e una camicia a quadri

annodata alla vita e con le maniche rigirate un paio di volte.

La camicia ha il colletto sporco di sangue che non è sicuramente il suo.

Per finire il "dolce" quadretto, porta a tracolla un cinturone con la fondina sul

petto.

«Ma, Lois... come diavolo ti sei conciata? E che diavolo è successo qui?»

Scavalca il corpo di Charlie che ha la gola squarciata e nota all'interno del ca-

panno il corpo dell'altro bandito, in mutande, che non deve aver subito una

sorte migliore, a giudicare dalla pozza di sangue.

E a terra il vestitino rosso di Lois che porta ancora la larga macchia di sangue

ormai annerita.

«Beh, mi sono cambiata. Il vestito era troppo stretto e mi impacciava. E poi

non so neanche da quanti giorno lo indosso. A parte il sangue, era proprio

sporco. Oddio, non è che questi vestiti siano proprio puliti. Chissà da quanto

tempo il suo padrone non li lavava. Ma almeno ora sono più comoda e più libe-

ra nei movimenti.»

«Ma come diavolo hai fatto a...»

«Oh, lo sai come sono gli uomini. Si credono di essere chissà chi e non badano

troppo a una povera donna indifesa. Credono che le donne siano brave solo in

cucina... e magari a letto.»

«Lois» la rimprovera Tex. 554

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Lois «E invece io so fare di tutto. Anche le cose da uomini. E sparo molto bene, lo

sapevi?»

«Ci credo, ci credo.»

La guarda incredulo.

«Pian piano mi sono liberata dai nodi che mi legavano e ho solo aspettato l'oc-

casione propizia. Quando questo bandito mi ha voltato le spalle, gli ho sfilato il

coltello dal fodero e gliel'ho "passato" sulla gola. Sai, non ero abbastanza sicu-

ra di avere la forza sufficiente per conficcarglielo nella schiena. Eppoi questo

scemo portava il fodero del coltello sulla schiena, come a dire "Lois, se hai in-

tenzione di darmi una coltellata, accomodati".»

«Già. Mi meraviglio di come tu possa essere arrivata alla gola di questo tizio.

Adesso è sdraiato, ma in piedi doveva essere molto alto.»

«Più o meno quanto te, amore. E al tuo collo ci arrivo benissimo.»

E gli butta, quasi a dimostrare che è vero, le braccia al collo e lo bacia con ve-

emenza.

Lui, preso alla sprovvista, l'abbraccia a sua volta.

La solleva da terra e la fa roteare.

Non è mai stato così felice.

«Oh, Lois. Sei viva, sei viva. Sei qui con me, tra le mie braccia.»

«Come sarebbe a dire "sei viva"? Credevi che fossi morta?»

«Beh, a dire il vero...»

«Ehi voi, là dentro. Cosa diavolo state combinando? Che cosa aspettare a veni-

re qui, maledizione?»

«Gli altri due banditi. Quasi mi dimenticavo di loro. Poi ti racconterò, Lois. A-

desso dobbiamo pensare a come sistemare quei tizi.»

«Come? E' semplicissimo. Sono solo due. Tu da solo vali per quattro. Io non

valgo meno di loro. Quindi siamo in superiorità numerica. Usciamo di qui, pi-

stole in pugno, sparando all'impazzata, e li facciamo secchi.»

Tex la guarda con occhi sempre più stupiti.

Ma chi è questo demonietto vestita da uomo?

«Stai zitta, piccola birbante. Loro hanno i fucili e noi no. Il tiro delle nostre colt

non arriva fino alla loro capanna. I loro fucili invece arrivano benissimo fin qui.

E fuori non c'è neanche l'ombra di un riparo. Tutto terreno scoperto. Sarebbe

un tiro al bersaglio.» 555

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Letizia «E allora?»

«E allora si sta zitti e in attesa. Loro non sanno quello che è successo qui. Se

vengono a vedere li abbiamo in pugno.»

«Hai ragione. Bravo. Li impallineremo come tordi.»

«Ma la vuoi finire con questi discorsi da fuorilegge? Sei peggio di Jane Cala-

mity.»

«Jane Calamity? E chi è?»

«E' una ex-fuorilegge, fidanzatina di uno che conosco.»

«Uno in gamba e bello come te?»

«Oh insomma, la vuoi piantare?»

«Ehi, capo. Cosa sarà successo? Cosa staranno facendo quei tre? Perché non

rispondono?»

«Uhm. Ho un brutto presentimento, Slim.»

Mike allora grida: «Charlie. Sam. Cosa diavolo è successo? Rispondete danna-

zione.»

Ma ancora nessuna risposta.

«Stai fresco se speri che ti rispondiamo, beccaccione. Perché non vieni a vede-

re di persona quel che è successo?»

«Tu sta' buona, demonietto.»

«Capo, sarà meglio andare a dare un'occhiata.»

«Ma neanche per sogno. Scommetto che quel dannato non aspetta altro che

andiamo a tiro delle sue pistole. Lui non ha il fucile, ma noi sì. Se mette fuori il

naso, glielo porto via con una pallottola.»

«Ma chi diavolo può essere quel traditore?»

«Non lo hai ancora capito, Slim? Quel maledetto è sicuramente Tex Willer.

Quel dannato sbirro è venuto per liberare la sua donna.»

«Tex Willer, dici? Come ci avrà scoperto?»

«Non lo so. Il fatto è che adesso è qui. E' venuto da solo e ha cercato di gio-

carci raccontandoci la storiella del capo e dei suoi ordini. Sperava di portarsi

via la donna senza dover mettere le mani alle pistole.»

«Ma noi non ci siamo cascati, capo.»

«Dici? Ma intanto è riuscito a dividerci e scommetto che Charlie e Sam sono

fuori combattimento. Ma non uscirà vivo da quella baracca. Parola di Mike.»

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Lois «Capo, il ranger è un osso duro. Io non me la sento di affrontarlo. Perché non

ce la filiamo? Lui ha ritrovato la sua donna. Era quello che voleva, no? Non

credo che ci inseguirà portandosi dietro la ragazza.»

«Potrebbe lasciarla qui al sicuro e darci la caccia finché non prenderà la nostra

pelle. No. Io resto e lo farò secco. E farò fuori anche la ragazza, dopo essermi

un po' divertito con lei.»

«Ma, capo. Lo sbirro non cercherà certo di uscire ora. Non ci sono ripari. Ma

quando calerà il buio, allora non gli sarà difficile uscire e sorprenderci. Io non

voglio lasciare la pelle qui.»

«Non temere. Prima di sera lo sbirro sarà morto. Non hai visto il capanno in

che condizioni è? Le travi sono vecchie e ammuffite, Non tratterranno i proiet-

tili dei nostri fucili. Prima o poi qualche proiettile colpirà quel dannato ranger.

Vedrai. Ma ora basta chiacchiere. Comincia a far fuoco.»

In un attimo una grandinata di proiettili comincia a colpire le pareti del capan-

no.

«Maledizione. Questa bicocca è una bagnarola. Sta' giù Lois. Le assi delle pare-

ti sono marce e non riescono a fermare i proiettili.»

Si guarda in giro per trovare qualcosa che offra un maggior riparo ma c'è poco

da stare allegri.

Neanche un tavolo o qualche altro pezzo di mobilio.

Solo un barile malandato.

«Andiamo bene. Ma dove diavolo dormivi, Lois?»

«Per terra, caro. Non stavo certo al Grand Hotel. Ho tutte le ossa indolenzite.»

«Devo trovare il modo di uscire da qui.»

«Potremmo usare il barile, Tex. Lo faremo rotolare e lo useremo come riparo.»

«Potremmo? Vorrai dire "potrei". Tu non ti muovi di qui. E poi quel "coso" non

offrirebbe riparo neanche a un tarlo.»

«E' vero. Ma solo se è vuoto. Se invece lo riempiamo della polvere di carbone

che c'è là in fondo, farà egregiamente il suo dovere.»

«Cosa? Ma sì, tesoro. Hai ragione. Sei un genio. Lo sai che non mi era venuto

in mente?»

«Ma va? Lo sanno tutti che le donne sono più furbe degli uomini.»

Tex le lancia un'occhiataccia.

Ma lei gli si avvicina e lo bacia dolcemente. 557

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Letizia

«Naturalmente verrò con te. L'idea in fondo è mia.»

«Nossignora. Tu te ne stai qui brava e buona finché non ti chiamo. Hai capi-

to?»

«Sei un despota.»

«Sissignora.»

Usando mille precauzioni per evitare le pallottole vaganti, Tex riempie di polve-

re di carbone il barile fatiscente che così acquista una maggiore solidità.

Lo spinge poi verso la porta.

I banditi, che non hanno mai smesso di sparare, vedono aprirsi la porta della

baracca e vedono rotolare fuori qualcosa.

«Che diavolo sta succedendo, Mike?»

«E' quel dannato che sta cercando di uscire. Occhi aperti, Slim. Non smettere

di sparare. Ormai è nostro.»

Ma Tex, al riparo dal barile appesantito dal carbone, striscia lentamente verso i

banditi che sparano all'impazzata contro di lui.

«Maledizione, Slim. Quel demonio sta avanzando al riparo di un barile.»

«Capo, ma come fa quel rottame a fermare le nostre pallottole? Lo abbiamo

sforacchiato come un colabrodo.»

«Non lo so, dannazione, non lo so.»

«Capo, qui si mette male.»

Mike non risponde al suo amico.

Cerca qualcosa nella capanna.

E la trova.

Ora vediamo se questa riuscirà a fermarti.

«Una cartuccia di dinamite, capo? Dove l'hai trovata?»

«Era nella capanna, nella cassa sotto la finestra.»

Mike lascia che Tex avanzi ancora un po' mentre Slim continua a sparare per

costringere Tex al riparo.

Quando Tex è sufficientemente vicino, scaglia verso di lui la cartuccia che e-

splode sul barile mandandolo in mille pezzi.

Lois vede la scena e urla il nome del suo amato.

Esce dalla baracca e corre verso di lui.

Tex per fortuna, anche se un po' intontito, non è stato ferito.

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Lois Il barile si è letteralmente sbriciolato e la polvere di carbone non ha causato

danni.

Solo un gran polverone nero.

Mike vede la donna che avanza con una colt in mano, prende la mira e spara.

Lois cade a terra senza un gemito.

Tex, che non ha fatto in tempo a impedire al bandito di sparare, lo crivella di

colpi.

Slim non fa una fine migliore.

Tex corre verso Lois.

L'ha vista cadere e gli è venuto un brivido alla schiena.

«No, Lois, no» urla correndo verso di lei.

Lois è a terra, gli occhi rivolti al cielo.

Una macchia rossa compare sulla camicia a quadri.

Si china verso di lei e l'abbraccia.

«Lois, pazza. Perché sei uscita. Ti avevo detto di non uscire, di aspettare che ti

chiamassi.»

Lois non risponde.

«No, Lois, no. Ti prego. Non morire. Dio, no. Non ti posso perdere una seconda

volta. No. No.»

Stringe il corpo immobile ancora di più e le sue lacrime bagnano la camicia a

quadri insanguinata.

Gallup, il giorno prima.

Il sole è ancora basso all'orizzonte, ma la città è già sveglia.

Carson e il giovane Kit hanno viaggiato tutta la notte.

Luna d'Argento ha accompagnato il suo sposo fino al villaggio di Orso Macchia-

to.

Ha approfittato degli affari che Kit deve sbrigare in città per far visita al padre.

«Kit, tu vai pure dallo sceriffo. Io vado a fare un salto all'ufficio telegrafico e

poi ti raggiungo lì.»

«Ci hai pensato bene, zio Kit?»

«Sì, ormai ho deciso. Tanto più che è un pezzo che sono "disoccupato". E poi

alla riserva ci sarà presto un sacco di lavoro. Quel tuo progetto non è una cosa

da poco e avrai bisogno di aiuto.»

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Letizia «Lo sai, zio, che non ti devi sentire in obbligo verso di me. Posso farcela anche

da solo.»

«Certo che puoi. Lo so che sei molto in gamba. Ma ci saranno un sacco di pe-

scecani a cui i tuoi piani non andranno tanto a genio. Lo sai che non hanno mai

rinunciato ai territori della riserva. Sperano sempre che prima o poi i Navajo

facciano qualche sciocchezza, magari provocati, per poter mettere le loro grin-

fie sulle vostre terre. Specialmente quando la storia dell'oro arriverà a Washin-

gton. Una vecchia volpe come me ti farà molto comodo.»

«Nessuno verrà mai a sapere dell'oro, zio Kit.»

«Me lo auguro.»

«Uhm. Insomma vuoi proprio dare le dimissioni anche tu?»

«Non sentiranno certo la mia mancanza.»

«Sai che non è vero, zio Kit. Dove vuoi che lo trovino un altro come te? Spe-

cialmente dopo che anche papà ha lasciato il servizio.»

«Beh, affari loro. E sai che ti dico? Che mi fanno gola i soldi che mi daranno

come buonuscita.»

«A chi la vuoi raccontare, zio Kit? A te dei soldi non te ne è mai importato un

fico secco.»

«Bah. Ecco l'ufficio telegrafico. Ci vediamo dallo sceriffo.»

Carson scende da cavallo, lega le redini a uno steccato ed entra nell'ufficio.

«Ah, buon giorno, signor Carson. Guardi che coincidenza. E' appena arrivato

un dispaccio del suo amico Tex Willer.»

«Un dispaccio di Tex?»

«Sì, signor Carson. Viene da Santa Fé. Butch lo sta trascrivendo.»

«Da Santa Fé? E' sicuro che non venga invece da Albuquerque?»

«No, no. Viene proprio da Santa Fé» risponde Buch mentre gli porge il bigliet-

to.

Carson gli dà una rapida occhiata e, senza dire una parola, esce di corsa

dall'ufficio.

Kit sta consultando delle carte insieme allo sceriffo.

«Kit, lascia perdere quelle scartoffie e vieni con me.»

«Che ti prende, zio?»

«Ho detto di venire con me. Ti devo parlare. A proposito, sceriffo, a che ora

parte il primo treno per l'est?» 560

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Lois Meno di un'ora dopo sono sul treno per Albuquerque.

«Non ci posso credere. Pare che il destino se la stia prendendo con papà. Prima

William e adesso Lois. Chi credi l'abbia rapita e per quale motivo?»

«Buio completo, Kit. Posso solo fare delle ipotesi sul motivo. Qualcuno cui ab-

biamo pestato i piedi che si vuole vendicare.»

«Già. Di tipi così ce ne devono essere chissà quanti.»

«Per fortuna c'era pronto un treno in partenza. Non abbiamo perso troppo

tempo.»

«Ma con questo si arriva solo ad Albuquerque. Poi il treno prosegue per El

Paso. Alla stazione di Gallup non hanno saputo dirci quando ci sarà un altro

treno per Santa Fé.»

«Non importa, Kit. Santa Fé non è molto distante da Albuquerque. Nella peg-

giore delle ipotesi ci faremo una galoppata.»

«Per fortuna a Gallup c'era Freccia Spezzata che è partito subito per il villaggio

di Orso Macchiato. Almeno ha potuto avvisare Luna. Chissà quanto staremo vi-

a. Ma l'importante ora è pensare a papà e a quella poveretta di Lois.»

«Vedrai che tutto si sistemerà. Scommetto che quando raggiungeremo tuo pa-

dre, avrà già fatto tutto lui.»

«Dio lo voglia.»

Quando arrivano a Santa Fé, fanno subito un salto dallo sceriffo.

«Sì, è venuto da me. Mi ha detto che prendeva la pista per il Glorieta Pass.»

«Uhm. Conosco il posto. Andiamo Kit. Abbiamo già perso troppo tempo.»

Saltano in sella e prendono la pista che va verso sudest, verso il passo che fu

teatro di una delle più sanguinose battaglie combattute nell'Ovest durante la

guerra di secessione.

Le tracce di Tex sono abbastanza evidenti e sono confermate da qualche segno

navajo che indica la direzione.

«Le tracce non sono molto vecchie e sono inconfondibili perché papà ha con se

un secondo cavallo che ha un ferro nuovo alla zampa anteriore destra.»

«Tracce molto facili da seguire. Tuo padre poteva anche evitare di lasciare i

segni.»

«E' strano, zio. Sembra quasi che il cavallo col ferro nuovo preceda quello di

papà, come se lui lo seguisse invece che tirarselo dietro.»

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Letizia «Niente di più facile che sia il cavallo di uno dei rapitori. Magari tuo padre spe-

ra che lo conduca al nascondiglio dove i banditi tengono Lois prigioniera.»

Dopo qualche miglio notano che le tracce proseguono su un sentiero che si i-

nerpica sulla montagna.

«A quanto pare tuo padre si è messo a fare lo scalatore.»

«Uhm. Strano.»

«Cosa c'è? Hai trovato qualcosa?»

«le tracce sono troppo confuse. Il terreno è troppo roccioso. Ma c'è qualcosa

che non mi quadra.»

«Cosa?»

«Sembra quasi che i cavalli siano aumentati.»

«Forse tuo padre avrà incontrato qualcuno.»

«No. Se così fosse le tracce sarebbero diverse. E' come se…»

Kit scende da cavallo e osserva meglio le tracce.

Poi osserva attentamente il terreno intorno e si allontana per un centinaio di

metri.

«Ora sono sicuro, zio Kit. Papà è tornato indietro ed ha proseguito per la pista

che va alle sorgenti del Pecos.»

Sale in sella e prosegue per un po' sempre osservando il sentiero.

«Ecco le tracce, zio. E c'è anche un segno di papà.»

«Avevi visto giusto, allora. Bene. Non perdiamo altro tempo.»

Carson e il giovane Kit si avvicinano sempre più al luogo in cui Lois è tenuta

prigioniera.

Hanno già oltrepassato il Glorieta Creek quando odono degli spari.

«Questo è sicuramente tuo padre che sta "discutendo" con i rapitori.»

«Lo credo anch'io, zio Kit. Sproniamo. Due winchester in più gli faranno sicu-

ramente comodo.»

«Questo è certo.»

Spronano i cavalli al galoppo.

Poco più tardi sentono un'esplosione.

«Mio Dio. Cosa può essere successo?»

«Non ti preoccupare, ragazzo. Tuo padre sta giocando forte.»

«Ho un brutto presentimento, zio. Corriamo.»

Odono un colpo di winchester, un altro paio di colpi di pistola e poi più nulla. 562

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Lois Con il cuore in gola, Kit frusta selvaggiamente il suo mustang.

Quando arrivano in vista del Monastery Lake, Kit prende il binocolo dalla sella e

guarda la riva al lago.

Vede due banditi stesi nella polvere, vicino a una capanna e poi…

Poi vede suo padre.

Tra le sue braccia c'è il corpo insanguinato di Lois.

Sono passati due mesi.

Tex è arrivato al villaggio centrale della riserva da meno di una settimana.

E' irriconoscibile.

Avete presente il ranger duro come l'acciaio e… ma sì che ce l'avete presente.

Ebbene, non esiste più.

Al suo posto c'è un uomo completamente diverso.

Non è che ne avesse tanta voglia, ma doveva raccontare quello che era suc-

cesso ai suoi pard.

Dovevano tutti sapere di Mefisto e della fine che aveva fatto.

Dovevano sapere che finalmente quell'essere infernale era ritornato da dove

era scaturito.

Ha raccontato tutto.

La messinscena della morte di Lois che invece aveva ricevuto solo una piccolis-

sima ferita al seno.

Ha raccontato di come avesse intuito poi l'accaduto.

Mefisto aveva ucciso la povera Janet e aveva drogato Lois causandole una

morte apparente.

L'aveva poi ferita leggermente e l'aveva coperta con il sangue della povera as-

sistente.

Poi, nelle vesti del finto sceriffo, aveva trafugato il corpo di Lois, magari con

l'aiuto delle sue arti ipnotiche.

Solo in seguito ha capito perché avesse voluto occuparsi personalmente di tut-

to.

Gli sarebbe stato tutto più facile.

Ha raccontato poi di come Mefisto si sarebbe tradito.

La storia incredibile di Narbas e del suo ritorno dal regno delle ombre.

E la dolce visione della sua Lilyth.

563

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Letizia La rivelazione che Lois era ancora viva.

La caccia ai complici di Mefisto e il tragico epilogo al lago.

Una storia che ha dell'incredibile.

Una storia che mette definitivamente la parola fine a quella piaga che era Mefi-

sto.

Dopo l'incontro di Tex con i suoi due pard, suo figlio e il buon vecchio Carson

erano ritornati alla riserva.

Lui era rimasto.

E' tornato da poco alla riserva.

Avete presente il ranger duro come l'acciaio e… ma sì che ce l'avete presente.

Ebbene, non esiste più.

Al suo posto c'è un uomo completamente diverso.

Sente le risate dei bambini che giocano.

Vede Luna d'Argento che gli sorride tornando dal fiume con una brocca.

Vede la vita che continua.

E tutto questo gli riempie il cuore.

«Allora, Kit. Raccontami un po' di questo tuo progetto. Di cosa si tratta?»

«E' semplice, pa'. Userò l'oro della montagna sacra per comprare tutti i territori

della riserva.»

«Ma i territori della riserva sono già nostri. Appartengono da sempre al popolo

navajo.»

«No, papà. Appartenevano. Ora appartengono al governo degli Stati Uniti d'A-

merica. Il popolo navajo l'ha avuti in concessione con il trattato che il nonno

Freccia Rossa ha firmato e che tu hai confermato.»

«E' vero, Kit. Ma non si tratta di una concessione provvisoria. E' per sempre.»

«Quien sabe, pa'. Basta un niente, un capriccio di qualche pallone gonfiato di

Washington e potremmo trovarci in una montagna di guai. No, papà. Comprerò

i territori. La riserva apparterrà legalmente al popolo navajo.»

«Ma il governo non venderà mai queste terre ai Navajo.»

«Ma non saranno i Navajo a comprarle.»

«No?»

«Non direttamente. Il nostro avvocato...»

«Il nostro avvocato?»

564

Page 565: TuttoLet - Altervistapecosbill.altervista.org/Romanzi/TuttoLetizia.pdfTex Willer - Aquila della Notte Kit Carson - Capelli d'Argento Kit Willer - Piccolo Falco - Falco Nero - Mano

Lois «Sì. Abbiamo un avvocato. Non lo sapevi? Ed è anche il più in gamba di tutto

l'Ovest. Ci ha consigliato di costituire una dozzina di società che poi acquiste-

ranno i territori a lotti.»

Tex non ha parole.

«Il governo» continua Kit, «quando arriverà la prima richiesta di acquisto, si

troverà in grossa difficoltà. Da una parte un facile guadagno e dall'altra una

possibile guerra indiana. Te la immagini la loro reazione quando l’avvocato de-

gli acquirenti, che in realtà è il nostro, gli scodellerà la soluzione già bella e

pronta?»

«E quale sarebbe?»

«Gli dirà di aver già contattato i Navajo che accetteranno a tre condizioni.»

«A tre condizioni? E quali?»

«La prima è quella di poter trattare personalmente la transazione in qualità di

legale rappresentante anche dei Navajo. E per tutte le eventuali transazioni fu-

ture. Come seconda condizione, i Navajo devono poter approvare gli acquiren-

ti. Ufficialmente perché devono conoscere l'uso che verrà fatto delle loro terre.

In realtà, per impedire che si crei un'eventuale concorrenza. L'ultima condizio-

ne è che ai Navajo vada una percentuale del ricavato.»

«Vi fate anche lo sconto, adesso?»

«Non si tratta certo di tirare sul prezzo, pa'. Si tratta di giustificare le grosse

somme di denaro con le quali acquisteremo pecore e longhorn in grandi quan-

tità.»

«Vuoi diventare un grosso allevatore, Kit?»

«Non io, pa'. I Navajo. Avremo latte e carne in grande quantità. E la lana delle

pecore. I Navajo diventeranno una grande nazione ricca e indipendente. E so-

prattutto libera. Non avremo più bisogno dell'elemosina del governo. Vivremo

in pace e libertà sulle terre dei nostri avi, dalle quali nessuno potrà più scac-

ciarci in virtù di qualche prezioso pezzo di carta. Il governo ha dimostrato più

di una volta in quale considerazione tiene i trattati indiani. Quei pezzi di carta

sono invece certificati di proprietà che hanno una validità molto maggiore. So-

no contratti che gli "uomini bianchi" stringono tra loro. Chi non li osserva è un

fuorilegge, fuori dalla legge dei bianchi. La "loro" legge. I Navajo avranno fi-

nalmente dalla loro parte la legge dei bianchi. Ironia della sorte. I bianchi pro-

teggeranno i Navajo contro i bianchi che recheranno loro offesa.» 565

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Letizia «Sei sicuro che questo scherzetto funzionerà? Che nessuno scoprirà il trucco?»

«Funzionerà tutto alla perfezione. Te l'ho detto. Il nostro avvocato è molto in

gamba. Le nostre società cambieranno spesso di nome e nei contratti la firma

dell'acquirente sarà sempre diversa. Tu non immagini neanche quanti dei no-

stri Navajo sanno leggere e scrivere. E il nostro avvocato, che ratificherà tutti i

contratti, sarà sempre lo stesso. Alla fine, tutte le società, tranne una, si scio-

glieranno e cederanno a quest'ultima i territori acquistati. E sai chi saranno i

soci di questa compagnia?»

«Domanda facile. I capi di tutte le tribù navajo.»

«Esatto, papà.»

«E come la pensano, questi capi, sul piccolissimo particolare di dover profanare

la montagna sacra per estrarre l'oro?»

«Ci penserà il nostro sciamano a convincere il Consiglio dei Capi, pa’. Ha avuto

una visione del Grande Spirito che è favorevole a …»

«Una visione, eh?»

«E poi non si tratta di profanazione, papà. Lo sarebbe se alla miniera lavoras-

sero uomini bianchi. Ma così non sarà. Gli operai saranno tutti Navajo.»

«Ma i Navajo non sanno nulla di miniere.»

«Impareranno. Inoltre non ci sarà bisogno di scavare molto. L'oro si trova pra-

ticamente in superficie. E non dovremo neanche raffinarlo. Lo venderemo grez-

zo. Lo porterò io stesso in California. Nessuno in Arizona o nel New Messico

dovrà sospettare nulla.»

«Hai pensato proprio a tutto, Kit.»

«Vedrai che andrà tutto bene, papà.»

«Ne sono certo, Kit. Falco Nero sarà ricordato come il più grande sachem che il

popolo navajo abbia mai avuto.»

«Oh no, papà. Sono solo, diciamo, un “uomo d’affari”. E sarò anche l’ultimo

sachem. Terminata questa operazione, i Navajo non avranno più bisogno di

capi.»

«Uhm. E come ti comporterai con gli Hopi? La loro riserva è all’interno della

nostra. Coinvolgerai anche loro?»

«Non subito, però. Solo a operazione terminata. Nessuno dovrà sapere cosa

sta succedendo. Neanche gli Hopi. A suo tempo, andrò a parlare con il loro sa-

chem Lince Grigia e lascerò a lui la decisione.» 566

Page 567: TuttoLet - Altervistapecosbill.altervista.org/Romanzi/TuttoLetizia.pdfTex Willer - Aquila della Notte Kit Carson - Capelli d'Argento Kit Willer - Piccolo Falco - Falco Nero - Mano

Lois

Tex sta riposando ad occhi chiusi.

Sente le grida dei bambini che giocano.

Un cane abbaia in lontananza.

E' la vita che continua.

Apre gli occhi.

Vede Luna d'Argento che sta lavorando intorno a un paio di pantaloni in pelle

di daino.

Strano che Kit indossi indumenti così ricercati.

Gli sembrano persino più piccoli.

Luna d'Argento sparisce nel suo wigwam.

Chiude di nuovo gli occhi.

Pensa alla sua Lois.

Pensa a quel terribile giorno di due mesi prima.

«Big Tex.»

La voce interrompe i suoi pensieri.

Big Tex.

Non gli piace essere chiamato così, ma non dice nulla.

Continua pigramente a tenere gli occhi chiusi.

«Big Tex?»

«Sì, Kit. Mi piace chiamarlo così. Big Tex from the West.»

Dì la verità, Tex.

Te la sei cercata.

«Per Giove. Non è male.»

«Non ci provare neanche, vecchio ...»

... cammello.

Ma si interrompe.

«Ok, ok. Non te la prendere.»

Poi Carson, galante come sempre, prosegue: «Sai che stai molto bene con

questo completino di daino?»

Tex apre gli occhi.

Ecco per chi erano quei pantaloni.

Gli sembravano troppo piccoli per essere di Kit.

E troppo ricercati.

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Letizia

«Carino, vero? L'ha fatto Luna apposta per me.»

Si gira e si rigira per farsi ammirare.

Luna.

Solo Kit la chiama così.

Tutti gli altri la chiamano Luna d'Argento.

Intrigante.

«E vi piace questa deliziosa camicetta? E questi splendidi turchesi che Luna mi

ha regalato? Lo sapevate che i turchesi dell'Arizona sono quelli più preziosi? E

che ...»

«Troppo attillati.»

«Cosa?»

«I pantaloni. Troppo attillati.»

«Troppo attillati? Ma cosa vuoi intendertene tu di moda? Porti sempre quella

orribile camicia gialla. Meno male che almeno qui, tra i Navajo, indossi qualco-

sa di decente.»

«Si sta bene così spaparanzati, con le mani in mano, eh papà?»

«Oh ciao, Kit.»

«Ciao. Come siamo eleganti.»

Si gira e si rigira ancora.

«Me l'ha fatto tua moglie Luna.»

«La moglie del mio figlioccio è molto brava in queste cose.»

«E' vero, Kit. Ma è possibile che voi vi chiamiate tutti e due Kit? Non fate mai

confusione?»

«Veramente mai. Kit mi chiama zio, Tex mi chiama "vecchio cammello" e i Na-

vajo mi chiamano "Capelli d'Argento."»

«Tu... tu... zoticone. Lo chiami "vecchio cammello"? Non ti vergogni?»

«Lui mi chiama "tizzone d'inferno" e "satanasso"» risponde Tex sorridendo.

«Siete... siete impossibili. Tutti e due. Per fortuna Kit non somiglia a nessuno

di voi due. Lui è carino ed educato. E non si esprime con epiteti volgari. E per

distinguerlo dallo zio lo chiamerò Falco.»

Falco.

Solo Luna d'Argento lo chiama così.

Tutti gli altri lo chiamano Falco Nero, oppure Kit.

Piccola peste. 568

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Lois «Allora, cosa dice il gran consiglio? Hai fatto colpo?»

Luna d'Argento arriva sorridendo.

«Credo di sì. Hai fatto un bel lavoro» le risponde Kit.

Le passa teneramente il braccio intorno alla vita e la bacia sulla guancia.

«Ma guardateli che teneri. Sembrano due piccioncini. Sì, invece che un Falco

ora sembra proprio un tenero piccioncino.»

«Piccioncino. Sì, mi piace. D'ora in poi ti chiamerò Piccioncino.»

«Ma Luna...» balbetta Kit.

«Ma solo nell'intimità» prosegue interrompendolo Luna d'Argento.

«D'accordo, d'accordo. Ma anche la moglie di Gengis Khan, ci giurerei,» prose-

gue dopo aver notato l'occhiataccia di Tex, «nell'intimità lo chiamava "mio bel

Temucin".»

«Gengis Khan? E chi è? E cos'è un temucin?»

«Gengis Khan era un condottiero mongolo che ha conquistato gran parte

dell'Asia circa 700 anni fa, zio Kit. Temucin era il suo vero nome.»

«Vedete? Avevo ragione. Falco, oltre che essere un ragazzo a modo, è anche

molto erudito, come si conviene a un vero gentleman.»

Avete presente il ranger duro come l'acciaio e… ma sì che ce l'avete presente.

Ebbene, non esiste più.

Al suo posto c'è un uomo completamente diverso.

"E' proprio vero" pensa Tex.

"Se non scatenerà prima una guerra indiana, questa benedetta ragazza porterà

una ventata di gioia in tutta la riserva."

A Tex poco importa se lei rimarrà per sempre al villaggio centrale o se, prima o

poi, vorrà far ritorno ad Albuquerque.

Quello che gli interessa veramente è che adesso è insieme a lei e che ci resterà

per sempre.

E si domanda cosa farebbe il grande Tex dell'Ovest senza la sua dolce, piccola

signora dell'Est.

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Con questo romanzo termina la lunga storia di Tex, rivisitata da Letizia, iniziata con “L’Aquila contro la Tigre”, il primo dei ro-manzi della trilogia “I Navajo”. Qualcuno (si dice il peccato ma non il pec-catore) mi ha battezzato “Letizia killer” per-ché mi diletto a uccidere i personaggi prin-cipali. Mai accusa fu più infondata. Mai accoppato nessuno dei “buoni”. Solo qualche cattivo. E solo i cattivi minori. Voi direte: non è vero, hai ammazzato an-che cattivi famosi. E invece è vero. Il cattivo per eccellenza in realtà era già morto da un pezzo, io ho solo rimesso le cose a posto, come stavano prima. Ma un’obiezione fondata qualcuno la farà. Qualcuno che ha avuto la pazienza di legge-re tutti i miei lavori. Da qualche parte c’è una grande assenza. E’ vero. Alla fine qualcuno dovevi farlo sparire, Leti-zia. Potrei ribattere dicendo che semplicemente non ne ho fatta menzione per non rovinarvi la sorpresa (tutti i miei romanzi sono pieni di sorprese). Ma no.

Questa volta dirò la verità (ma, a dire il ve-ro, ho sempre detto il vero). Semplicemente, il romanzo incriminato è cronologicamente precedente e il personag-gio in questione non aveva ancora fatto ca-polino nella mia capoccia. Se non avete capito un’acca in tutto questo, non preoccupatevi. L’ho fatto per il vostro bene. Sempre per il solito motivo: per non rovi-narvi la sorpresa quando vi deciderete a ri-empire le vostre lacune letterarie. Diciamo solo, per i fedelissimi che sanno di cosa sto parlando, che il personaggio in questione era assente a causa dei suoi nu-merosissimi viaggi a Philadelphia. Insomma, non c’era mai. Per tutti quanti c’è poi un velocissimo epilo-go. Tex tornerà ad Albuquerque, dove costruirà una casa dalle pareti bianche nei dintorni della città. Luna d’Argento darà alla luce un figlio ma-schio che porterà il nome del celebre non-no. Il piano di Kit sarà un successo. Kit lascerà i Navajo e andrà a vivere con moglie e figlio dal padre, nella grande casa dalle pareti bianche. Kit Carson e Tiger Jack li seguiranno. Luna d’Argento qualche anno dopo darà alla luce il suo secondo figlio il cui nome sarà Tiger Jack. Tutto questo vi ricorda qualcosa?

I romanzi di Letizia, in ordine di pubblicazione, sono: 1. L’Aquila contro la Tigre 2. Due Amori 3. La luce nelle tenebre 4. L’urlo del Falco

o I Navajo (*) 5. I due fratelli 6. Il figlio di Tex 7. Lois

(*) I Navajo non è un romanzo vero e proprio, ma un’antologia che riporta, con una breve in-troduzione, i romanzi della trilogia: L’Aquila contro la Tigre, La Luce nelle tenebre e L’urlo del Falco.

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Lois

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Letizia

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Capitolo 6 L'ultimo duello di Tex

E' quasi sera.

L'uomo avanza pigramente per la main street ancora affollata.

Le persone che incontra lo salutano cordialmente, anche se con un certo imba-

razzo.

Non porta più la solita camicia gialla.

A lei non piace.

Deve averla gettata nella spazzatura.

Non la voleva in giro neanche come straccio per la cucina.

Non è riuscita però a sbarazzarsi dei suoi jeans blu.

Ma va bene anche così.

Non stanno poi così male abbinati al suo nuovo ed elegante panciotto di pelle

che, abbottonato stretto, mette in evidenza il suo fisico prestante.

Donne.

Se non ci fossero, bisognerebbe inventarle.

Il sole alle sue spalle proietta la sua ombra davanti a lui.

Il suo avversario avrà il sole negli occhi, pensa.

Uhm, non è certo una mossa leale.

Ma non l'ha cercata di proposito.

Arrivato al primo incrocio, si ferma e osserva la strada alla sua sinistra.

Il posto è buono.

Nota che a due passi c'è lo Store dei coniugi Turner.

Pensa a quante volte è andato a far spese da Robert ed Emma.

Sono una coppia molto simpatica e poi Robert ha avuto bisogno di qualche

consiglio legale ed è venuto un paio di volte a cena da lui.

Robert vende degli ottimi sigari e, mentre le donne prendevano chiacchierando

il te, loro due se ne erano andati in veranda a fumare in pace.

Naturalmente in casa il fumo è rigorosamente proibito.

Si addentra nel vicolo ma fa in modo di rimanere in vista.

IL suo avversario arriverà nella main street e dovrà vederlo bene.

Non ha certo intenzione di nascondersi.

Si arrotola lentamente una sigaretta.

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Letizia L'accende.

Non fa in tempo a tirare che un paio di boccate.

Un uomo avanza deciso verso l'incrocio.

Continua a fumare mentre l'uomo si avvicina.

«Vedo che non hai cercato di mettermi con il sole negli occhi.»

«Sarebbe stato un insulto alla tua intelligenza, vecchio mio.»

«Già.»

«E poi non è nel mio stile. Sarebbe stato come ammettere che sei migliore di

me e che mi sarebbe stato utile un vantaggio.»

«Beh, non si può mai dire. Non ci siamo mai trovati uno di fronte all'altro.»

«Pensi di essere più veloce di me?»

«Non lo so. Penso solo che tu non sei il più veloce dei due.»

La gente che continua a passare accanto a loro non ha ancora capito cosa sta

succedendo.

Non riesce a immaginare che due amici come loro stiano affrontandosi in un

duello che non può che finire con la morte di uno dei due.

«Uhm. Sono più giovane di te e ho la mano più ferma.»

«Tuo nonno. La mia mano è ferma come la tua. E gli anni che ho più di te gio-

cano a mio favore. Ho più esperienza di te e maneggio le mie colt da molto più

tempo.»

«Staremo a vedere.»

«E poi sai a cosa penso? Penso proprio che tu sai di essere nel torto. E questa

convinzione sarà la tua fine. La tua mano tremerà quando punterai la tua colt

su di me.»

«Io non ho fatto nulla di sbagliato, lo sai.»

«Certo che lo so. Ed è per questo che ti chiedo di darmi le tue armi e di venire

con me.»

«Sai che non è possibile. Dovrai uccidermi. Dici che la mia mano tremerà. For-

se è vero. Ma la tua? Sarà ferma quando dovrai spararmi addosso?»

«Lo sarà. Deve esserlo. Devo impedire che tu compia qualche altra pazzia.»

«Bene.»

«Sei proprio deciso ad andare fino in fondo?»

«Sì. Se così deve essere, che sia.»

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L'ultimo duello di Tex «Sarà il tuo ultimo duello. Ma lo sarà anche per me. Non potrò più impugnare

una colt dopo.»

«Io invece temo che dovrò usarla ancora molte volte, vecchio mio. Ma ora ba-

sta con le parole.»

Fa due passi indietro e getta a terra la sigaretta.

La gente finalmente si rende conto della situazione e in breve tempo la main

street si fa deserta.

I due uomini si studiano.

Nessuno dei due si muove.

In tutti i duelli che hanno dovuto affrontare, nessuno dei due ha mai estratto

per primo.

Hanno sempre lasciato che fosse l'avversario a fare la prima mossa.

Questa volta però le cose andranno diversamente.

Almeno per uno dei due.

Ma forse no.

I due si conoscono troppo bene.

Basta loro uno sguardo per capire quando è il momento di estrarre.

E infatti, dopo un lungo silenzio in cui nessuno dei due ha mosso un muscolo,

estraggono contemporaneamente la colt.

Si ode un solo sparo.

Ma le colt fumanti sono due.

Due sono i proiettili vomitati dalle canne lucide.

Dopo aver sparato, entrambi rimettono la colt nella fondina.

Nessuno dei due sembra essere stato colpito.

Possibile?

Ma, dopo qualche istante, uno dei due cade in ginocchio.

Il suo elegante panciotto di pelle è macchiato di sangue.

Con il sorriso tra le labbra cade su un fianco.

Le sue ultime parole sono: «Bravo, vecchio mio.»

Washington, il giorno dopo.

Il maggiordomo di colore, nella sua elegante livrea bussa leggermente alla por-

ta.

575

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Letizia Regge con la mano sinistra, fasciata da un immacolato guanto bianco, un vas-

soio che ha tutta l'aria d'essere d'argento.

Sul vassoio c'è il Washington Post.

«Avanti.»

«Padrone, il giornale di oggi. C'è un'ottima notizia. Ne parla ormai tutta la cit-

tà.»

«Spero per il tuo bene che sia veramente così. Sai che non desidero essere di-

sturbato.»

«Vedrete con i vostri occhi, padrone. E' veramente un'ottima notizia per voi.»

Prende il giornale e dà un'occhiata al titolo che appare a tutta pagina: "Tex

Willer died".

«Finalmente. Era ora dannazione. Tutti gli scagnozzi che ho contattato per uc-

ciderlo hanno declinato l'incarico. Troppo pericoloso. Così hanno detto tutti.»

Riprende a leggere il giornale.

"Il noto fuorilegge Tex Willer, ricercato per l'omicidio del senatore Garner, è

stato ucciso nel pomeriggio di ieri ad Albuquerque dal ranger Kit Carson. Tex,

che ha opposto resistenza all'arresto, ha sfidato il ranger a un duello alla pisto-

la. Gli abitanti della cittadina del New Messico hanno assistito così all'ultimo

duello di Tex."

«Incredibile. Dopo aver cercato invano un sicario che me lo togliesse di mezzo,

alla fine chi mi ha fatto questo favore? E anche gratis? Il suo migliore amico ed

ex collega Kit Carson. Non ci posso credere.»

«Eppure è così, padrone. Carson ha voluto evitare proprio che ci fossero riper-

cussioni che potessero danneggiare i Navajo. Chiunque altro fosse stato a uc-

cidere Willer, sarebbe stato certamente a sua volta ucciso per vendetta dai Na-

vajo. Si sarebbe scatenata di sicuro una guerra indiana.»

«Nessuno ha chiesto il tuo parere, negro.»

Riprende a leggere l'articolo mentre il maggiordomo si scusa.

«Ma… quello che hai detto è riportato anche nel giornale. Tu, sporco servo, hai

osato leggere il mio giornale?»

«Oh no, padrone. Ho udito queste cose quando sono andato a comperarlo. Tut-

ti ne parlano, padrone. In città non si parla d'altro. Quando ho capito cosa era

successo, sono venuto di corsa a portarvi il giornale, padrone. Non l'ho letto,

ve lo giuro. Non l'ho neanche aperto per vedere il titolo. Lo giuro, padrone.» 576

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L'ultimo duello di Tex «Uhm… va bene. Voglio crederti. Vai dalla padrona e dille di raggiungermi qui

nello studio. Sabato prossimo daremo un gran ricevimento. Sarà una festa che

a Washington verrà ricordata per un pezzo. Mio fratello finalmente è stato ven-

dicato.»

New Messico, ai confini della riserva navajo, sei mesi prima.

«Basta. Mi sono proprio stufato di dare la caccia a pecari e conigli. Voglio cac-

ciare qualcosa di più grosso. E magari di più pericoloso. Che ne direste di tro-

vare qualche grizzly, per esempio?»

«Non ci sono orsi da queste parti, senatore.»

«E allora qualche puma. Ci sarà pure qualche animale degno di essere cacciato

da queste parti, no?»

«Non ci sono neanche puma. A meno che non ci inoltriamo nella riserva nava-

jo.»

«Bene. Andiamo in questa maledetta riserva, allora.»

«Non è una buona idea, senatore. I Navajo non gradiscono intrusioni, special-

mente da parte dell'uomo bianco. Troppo pericoloso.»

«Ma che pericolo vuoi che costituiscano quattro straccioni rossi?»

«I Navajo non sono per nulla degli straccioni, senatore. Per tantissimi anni il

loro capo è stato Tex Willer, un vero tizzone d'inferno. E ora il loro capo è suo

figlio che, se è possibile, è pure peggio di lui.»

«Uhm, ho sentito parlare di questo Willer. Da come ne parli sembra che sia

addirittura un padreterno, perbacco.»

«Forse no, ma sicuramente è pericoloso più di un serpente. Meglio evitare di

incontrarlo.»

«I serpenti si schiacciano, Ben. E poi, ho sentito dire che i Navajo presto ab-

bandoneranno queste terre perché le stanno vendendo. Anche se non riesco a

capire chi diavolo sia interessato ad acquistare terreni tanto aridi e desolati.»

«Le terre dei Navajo non sono tutte così, senatore. Ci sono anche posti bellis-

simi. Pascoli sconfinati, terra fertile e fiumi maestosi e ricchi d'acqua anche

d'estate.»

«Bah. Credevo che fossero tutti posti assolati come il Deserto Dipinto. Comun-

que noi andremo a cacciare nella riserva. E non si torna indietro finché non

troviamo almeno un puma.»

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Letizia «Ma, senatore…»

«Basta. Ho deciso. Andremo più a ovest, in questa dannata riserva.»

«Ok. Il capo siete voi. Si va nella riserva. Ma i rischi aumentano. Questo vi co-

sterà molto di più, senatore.»

«Finalmente. E non ti preoccupare del denaro. Per voi ci saranno dollari a pala-

te.»

«Bene.»

La guida si allontana dal suo cliente e si dirige al galoppo verso l'accampamen-

to.

«Bart, togliamo il campo. Si va ad ovest.»

«Ma sei impazzito, Ben? A ovest c'è la riserva navajo. Lo sai che quei maledet-

ti…»

«Lo so, Bart. Ma il senatore non sente ragioni. Vuole cacciare almeno un pu-

ma.»

«Il senatore è matto come un cavallo…»

«Stai zitto, imbecille. Se ti sente sono guai seri.»

«I guai seri lo saranno se incontreremo qualche Navajo. E lo saranno ancora di

più se incontreremo quei due piantagrane di Tex e Carson. E ancora di più quel

suo maledetto figlio che ora è il capo di tutti i Navajo. Falco Nero, mi pare che

lo chiamino i suoi guerrieri.»

«Non ti preoccupare. Seguiremo delle piste poco battute e cercheremo di evi-

tare di passare in prossimità dei villaggi. Conosco bene la zona. Ci sono stato

con l'esercito come scout. Porteremo a spasso quel pallone gonfiato per un po'

e lo faremo stancare bene. Quando si sarà stufato, sarà lui a pregarci di torna-

re indietro. E ci riempirà le tasche di dollari extra.»

«Me ne infischio dei dollari extra se i miei capelli finiranno appesi alla cintura di

qualche dannato muso rosso.»

«Non ti preoccupare. Se ti dovrà succedere di perdere i capelli, sarà solo in

qualche bottega di barbiere.»

«Ma insomma, si può sapere quando arriveremo in quella maledetta riserva?

Sono tre giorni che girovaghiamo da queste parti. E il bello è che non abbiamo

incontrato neanche un animale. Neanche uno stupido pecari.»

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L'ultimo duello di Tex «Ma siamo già nella riserva navajo, senatore. E da quasi due giorni. E non pre-

occupatevi delle provviste. Ne abbiamo per un bel pezzo.»

«Siamo già nella riserva? Perbacco. Credevo ancora di esserne fuori. Mi ha in-

gannato la conformazione del territorio. Ma già, mi avevi detto che non tutto il

terreno è arido e deserto. Ci sono puma da queste parti?»

«No, senatore. I puma li troveremo solo quando arriveremo a quelle alture

laggiù. Li chiamano anche leoni di montagna proprio perché…»

«Lo so, lo so. Credi di aver a che fare con un piedidolci ignorante? Anche se

vengo dall'Est non sono per niente uno sprovveduto. E mi sono laureato nella

migliore università di tutti gli stati della costa orientale.»

«Non volevo dire questo, senatore. Volevo solo spiegare perché non ci sono

puma qui.»

«Va bene, va bene. Ma vi consiglio di trattarmi con più rispetto d'ora in poi.»

"Maledetto pallone gonfiato. Mi piacerebbe tornare indietro con Bart e mollarti

qui da solo. Non riusciresti a rimanere vivo più di tre giorni."

Ma naturalmente quello che frulla nella mente di Ben rimarrà solo un desiderio

perché quello che gli preme è spillare all'arrogante senatore quanti più quattri-

ni possibile.

«Certamente, senatore. Ma ora è bene fermarsi per far riposare e abbeverare

i cavalli. Ci accamperemo in riva a quel torrente laggiù, dove il corso d'acqua

fa un'ampia curva e la corrente è meno impetuosa.»

«Bene, ma non più di un'ora. Ho fretta di arrivare alla montagna.»

Dieci minuti dopo i tre uomini siedono attorno a un fuoco dove Bart ha messo a

scaldare una tazza di caffè.

«Sono stanco di mangiare carne secca, dannazione. E selvaggina neanche

l'ombra.»

«Il fiume sembra pieno di pesci. In questo punto c'è una specie di ansa dove la

corrente è meno forte. Si potrebbe pescare qualcosa.»

«Bah, pesci puzzolenti. Vuoi mettere una bella bistecca di manzo del Monta-

na?»

«Vi assicuro che i pesci non sono niente male, senatore. E poi Bart li sa cucina-

re in maniera veramente speciale.»

«Non abbiamo tempo di aspettare che uno stupido pesce abbocchi all'amo. Ho

detto che ho una dannata fretta.» 579

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Letizia «Ben, ci sono dei Navajo.»

«Dannazione. Dove, Bart?»

«Più a valle. Io ho visto solo una squaw, ma sicuramente ci sono anche degli

uomini.»

«Ci avrà sicuramente visti. E se non ha visto noi, ha visto sicuramente il nostro

fuoco. E' meglio sgombrare alla svelta.»

«Un momento. Non vorrete per caso fuggire davanti a una cenciosa donna in-

diana?»

«Non è la squaw che mi dà pensiero, senatore. Sicuramente non è sola e non

sappiamo quanti Navajo sono con lei.»

«E allora? Noi siamo tre e ben armati. Loro magari saranno un paio e armati di

arco e frecce. Voglio vedere quella cagna.»

«Senatore, non è una mossa prudente. Meglio andarcene. Ed è meglio anche

tornare indietro. Abbandonate l'idea di cacciare il puma. Ormai i Navajo sanno

che siamo qui. Rimanere è pericoloso, molto pericoloso.»

«Non se ne parla nemmeno.»

Afferra il suo winchester dalla sella del cavallo, raggiunge la riva del fiume e la

percorre seguendo la corrente.

«Ben, quello è matto come un cavallo.»

«Parla piano, dannazione. Abbiamo già abbastanza rogne. Prendi il winchester

e seguimi.»

«Tu sei matto, Ben, se credi che io voglia venire con te e con quell'idiota di se-

natore a cacciarmi in un mare di guai.»

Non fa in tempo a finire la frase che sentono un colpo di fucile.

«Senatore, che è successo? Chi ha sparato?»

«Sono stato io, è ovvio.»

«Voi? E a chi avete sparato? Non vedo nessuno qui.»

«Là, dietro quel cespuglio. Ho visto qualcosa che si muoveva.»

«E avete sparato senza sapere a chi o a cosa? Poteva essere la squaw.»

«Tanto peggio. Se ci teneva a campare, non doveva nascondersi. Chiunque

fosse.»

"Questo è proprio deficiente. Adesso tutti i Navajo nel raggio di un paio di mi-

glia hanno sentito lo sparo. Voglia il demonio che non abbia ferito nessuno."

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L'ultimo duello di Tex «Bart, tieni gli occhi ben aperti. Io vado a vedere cosa è successo.»

Sparisce dietro un cespuglio e poco dopo ricompare portando in braccio una

squaw.

Sul seno della donna una larga macchia rossa.

«Mio Dio, com'è bella. E' morta, Ben?»

«Purtroppo sì, Bart.»

«Quante storie per una sporca indiana.»

«Quest'indiana ci procurerà una montagna di guai, senatore. Anche se riusci-

remo a sfuggire ai Navajo che sono sicuramente nei paraggi, non sono per

niente sicuro che riusciremo a uscire dalla riserva con la pelle ancora addos-

so.»

«Storie. Riusciremo…»

«No, senatore. Non ci riusciremo. Ci vogliono almeno due giorni per raggiunge-

re la città più vicina. Forse di più, considerando che dovremo allungare la stra-

da per evitare di passare troppo vicino ai villaggi navajo. E ci dovremo anche

nascondere, se ci riusciremo.»

«Ben, non ti sembra di essere troppo pessimista? Il senatore è un ottimo cava-

liere e possiamo frustare i cavalli finché non saremo al sicuro.»

«Ma sei scemo, Bart? A parte il fatto che rischiare di far scoppiare i cavalli sa-

rebbe un vero suicidio, dobbiamo invece procedere lentamente e cercare di

cancellare le nostre tracce con qualche trucco. I Navajo possono comunicare

tra loro con i segnali di fumo e ci taglierebbero sicuramente la strada.»

«E allora cosa facciamo, Ben?»

«Per prima cosa nascondiamo il cadavere di questa poveretta in modo che la

scoprano il più tardi possibile. Questo ci darà un po' di vantaggio. Poi…»

«Tacete, voi due mammalucchi. Ho sentito un rumore da quella parte.»

«Dove, senatore?»

«Adesso lo sento anch'io, Ben. Sta arrivando qualcuno al galoppo.»

Dopo pochi secondi, due Navajo a cavallo sbucano dalle fronde.

Vedono la squaw con le vesti insanguinate.

«Lupo Bianco, corri al villaggio e manda segnali di fumo a Falco Nero. L'uomo

bianco ha tolto la vita a Stella d'Argento.»

Il Navajo obbedisce.

«Il cane bianco che ha ucciso la mia sposa non vedrà il sole di domani.» 581

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Letizia Imbraccia il winchester e si lancia al galoppo sparando contro i tre nemici.

Ma Ben, con un tiro calmo e preciso, lo inchioda prima che possa avvicinarsi.

«Bart, prendi tutta la nostra roba e stai pronto a filare via. Io cerco di fermare

l'altro indiano.»

Ma Bart non risponde.

Il Navajo, prima di cadere colpito a morte, lo ha centrato con un colpo di fucile.

«Maledizione, senatore. Bart ci ha lasciato la pelle. Aspettatemi qui. Io vado a

far fuori l'altro Navajo per impedirgli di dare l'allarme.»

«Ma io…»

Ben però non lo sente.

Veloce e agile come un puma, è già in sella e sprona il cavallo all'inseguimento

del secondo Navajo.

L'indiano sta procedendo al galoppo lungo la riva del torrente seguendo la cor-

rente.

Cerca di raggiungere un guado.

Ma Ben gli è alle costole e gli arriva presto a tiro.

Tenendo le briglie con i denti, prende con calma la mira e spara due, tre colpi

di fucile.

Il tiro è difficile, in sella al cavallo al galoppo.

Ma il quarto colpo colpisce il Navajo che cade nel torrente.

La corrente, che si è fatta più impetuosa, trascina lontano il corpo.

Ben spara ancora tre colpi nel torrente per essere più sicuro che l'indiano sia

morto e poi ritorna indietro.

Il senatore è a cavallo e si è già allontanato lasciando a terra i cadaveri di Bart

e della squaw.

"Ma guarda quel bastardo. Sta scappando da solo senza aspettarmi. Mi verreb-

be voglia di andarmene per i fatti miei. Magari da solo ho più possibilità di ca-

varmela. Ma quel dannato è un ottimo tiratore e potrebbe essermi utile. Però

giuro che, una volta fuori della riserva, gli pianto una bella pallottola nella

schiena. Poi porto indietro il suo corpo e racconto che sono stati i Navajo a far-

lo fuori. Così gioco anche un bel tiro mancino a quel dannato sbirro di Tex Wil-

ler e a quell'impiastro di suo figlio."

Con questi neri propositi nella mente, Ben raggiunge il senatore e fugge con

lui. 582

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L'ultimo duello di Tex

«Quei segnali di fumo laggiù possono voler dire solo guai.»

«Ho paura che tu abbia ragione, vecchio cammello.»

«Se ti sente Lois sei fritto, mister Willer.»

«Mister Willer? Che ti prende, sei forse malato?»

«Lo sai che Lois non vuole che ti chiami "tizzone d'inferno". E tu non dovresti

chiamarmi "vecchio cammello". Lo sai che a lei non piace.»

«Vuol dire che, per farle piacere, non ti chiamerò più così. Ti chiamerò "vecchio

dromedario".»

«Non cambierai mai, Tex. Ma quei segnali, cosa dicono?»

«Vengono dal villaggio di Volpe Rossa. E' richiesto l'intervento di Kit perché…

aspetta. Maledizione.»

«Cosa c'è?»

«Pare che dei bianchi siano penetrati nella riserva e abbiano ucciso la figlia del

capo e suo marito. Sono guai grossi come una montagna, Kit. Volpe Rossa è

sempre stato un capo saggio e pacifico, ma vorrà lavare col sangue la morte di

sua figlia e del suo sposo.»

«Questa non ci voleva proprio. Adesso che le cose finalmente stavano andando

per il verso giusto. Che farai adesso? Lois sta preparandosi per tornare con te

ad Albuquerque. Andrai con lei proprio ora che c'è bisogno di te? Voglio dire,

non è che tuo figlio non sia in grado di gestire la cosa da solo, ma…»

«Non ti preoccupare, Kit. Lois è una donna intelligente. Capirà la situazione e

rimanderà il viaggio di ritorno. Andrò con mio figlio al villaggio di Volpe Rossa.

Piuttosto c'è una cosa che mi preoccupa. Lei vorrà certo venire con me e io non

la voglio tra i piedi.»

«Ne sono convinto anch'io. Non permetterà certo che tu la lasci qui ad aspet-

tarti.»

«Tu mi aiuterai. Io ora vado da Kit e ce ne andremo subito. Magari ci portere-

mo Tiger con noi. Tu rimarrai qui, le spiegherai l'accaduto e la convincerai a

rimanere qui.»

«Non ci penso neanche. E poi non mi darebbe certo ascolto.»

«Chi non ti darebbe ascolto, Kit?»

«Ecco. Ora sarai contento.»

«Che è colpa mia, adesso?»

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Letizia «Si può sapere cosa sta succedendo qui, signori?»

«Lois, c'è una grana in vista. Dovremo rimandare la partenza di un paio di

giorni.»

«Va bene. E' una cosa grave?»

«Temo di sì, tesoro. Io devo andare via. Starò via pochissimo. Il minimo indi-

spensabile.»

«Non ti preoccupare. Non c'è nessuna fretta. Io verrò con te.»

«No, Lois. Troppo pericoloso. Tu rimani qui con Carson e aspetterai il mio ri-

torno. Farò presto, te lo prometto.»

«Un corno, io vengo con te.»

Lois e il vecchio Carson hanno risposto all'unisono, come in coro.

«Ah, bene. Adesso vi coalizzate contro di me. Bell'aiuto che mi dai, vecchio

cammello.»

«Oh, Tex. Sei insopportabile. E non sei per niente un gentleman.»

«Papà, hai visto i segnali?»

«Li ho visti, Kit. Chiama Tiger. Partiremo subito.»

Kit si allontana veloce e Lois lo segue.

«Dove stai andando, tu?»

«A sellare il mio cavallo. Non credo proprio sarai così gentile da sellarmelo tu.»

«Ma, Lois. Ti ho detto che è pericoloso e…»

«Più pericoloso che essere rapita da un mostro infernale e quasi ammazzata da

un assassino prezzolato?»

E' inutile Tex.

Non c'è niente da fare.

Ormai dovresti conoscerla.

Quando si mette in testa una cosa, niente al mondo può farle cambiare idea.

E il bello è che Luna d'Argento, seguendo il suo esempio, si è unita al gruppo.

E, quando il giovane Kit le ha lanciato un'occhiataccia, gli ha sfornato un bel

sorriso come a dire: bello mio, è finito il tempo in cui le donne stavano a casa

a preparare il pranzo del marito.

Quando giungono al villaggio di Volpe Rossa, trovano il capo ad aspettarli ac-

canto al suo wigwam.

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L'ultimo duello di Tex «Volpe Rossa saluta il grande capo Falco Nero e suo padre, il grande Aquila

della Notte. Salute anche a te, Tiger Jack, e a te, Capelli d'Argento.»

«Il cuore di Falco Nero gronda di sangue, sangue che presto sarà lavato. Guai

ai visi pallidi che hanno osato versare il sangue della figlia del grande capo e

del suo giovane sposo.»

«Queste sono le parole che volevo udire da Falco Nero. Venite nella mia ten-

da.»

Scendono da cavallo e si avviano verso la tenda del sachem.

«Hai sentito, Luna d'Argento? Ha salutato tutti quanti tranne noi due e non ci

ha degnato neanche di uno sguardo.»

«Parla piano, Lois. Vieni con me. A noi non è concesso di entrare. Gli uomini

terranno consiglio di guerra.»

«Non ci è permesso? Come sarebbe a dire non ci è permesso? Va bene che il

padrone di casa è lui, ma proprio perché siamo ospiti dovrebbe trattarci con ri-

guardo.»

«Non ci ha mancato di rispetto, Lois. Le usanze e i costumi dei Navajo sono di-

versi da quelli dei bianchi. Per fortuna devo dire, visto come agiscono certe

volte i bianchi.»

«Uhm, hai ragione.»

Intanto, all'interno del wigwam del Sachem…

«Ho mandato dei guerrieri sulle tracce dei bianchi malvagi. Hanno l'ordine di

non intervenire, ma di osservare e riferire. Essi sono i nostri occhi e le nostre

orecchie.»

«Raccontami, sachem. Cosa è successo?»

«Mio figlio Lupo Bianco era insieme a sua sorella Stella d'Argento e a suo mari-

to Piccolo Orso, Falco Nero. Erano nel luogo dove le acque del Taoh-Rah fanno

un'ampia curva.»

«Sì, conosco il posto.»

«E' un buon posto per pescare. I miei figli erano là per questo.»

«In tre sono partiti. Uno solo è tornato. Tre uomini bianchi. Lo hanno colpito

alla schiena. E' caduto nel torrente impetuoso che lo ha tolto dalle mani di quei

malvagi e lo ha portato fino a noi. La sua vita ora è nelle mani del Grande Spi-

rito e delle squaw che lo stanno curando.»

Tace per un attimo. 585

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Letizia «Sangue chiama sangue. Morte chiama morte.»

«Avrai la tua vendetta, Volpe Rossa. Questa è la parola di Falco Nero.»

«E allora andiamo. I bianchi si trovano ora nella Valle del Silenzio.»

«Sono lontani. Potrebbero riuscire ad allontanarsi dalla riserva e sfuggirci.»

«Non importa, Falco Nero. Li seguiremo anche nelle terre dei bianchi, se sarà

necessario.»

«No, sachem. Li prenderemo prima che escano dalla riserva.»

«Temi l'ira delle Giacche Azzurre?»

«Non voglio che la pace con l'uomo bianco venga infranta. Sarebbero solo lutti

per i Navajo.»

«Cosa intendi fare, allora?»

«Semplice. Costringeremo i tre bianchi a tornare indietro sbarrandogli la stra-

da. Quanti sono i guerrieri che hai mandato sulle loro tracce?»

«Due volte le dita di una mano.»

«Basteranno.»

«Quello che dici è impossibile. Dalla valle si può uscire seguendo molte vie. I

miei guerrieri dovranno dividersi e non saranno sufficienti a impedire il passo a

quei cani.»

«Lo saranno invece. Manderemo loro dei segnali di fumo con i miei ordini. Ecco

cosa faremo.»

«Dannazione, è più di un giorno che stiamo scappando come lepri. Abbiamo

viaggiato anche di notte. Non possiamo fermarci un attimo?»

«No, senatore. Non siamo ancora fuori pericolo. E poi ci siamo già fermati un

paio di volte a far riposare i cavalli.»

«Ma solo per pochi minuti, maledizione. Sono stanco morto.»

«Ci siamo fermati per quasi un'ora, senatore. E poi, meglio stanchi che morti.»

«Ma non abbiamo visto neanche l'ombra di un indiano. E' chiaro che nessuno ci

sta inseguendo. Il verme cencioso che stava scappando, non è riuscito a dare

l'allarme, è ovvio. Tu l'hai accoppato ed è caduto nel torrente.»

«Già, ma la corrente è forte e l'ha trasportato chissà dove. Anche da morto

quel Navajo darà l'allarme alla sua tribù.»

«Ma sei impazzito? E come diavolo farà?»

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L'ultimo duello di Tex «Cribbio, senatore. I Navajo prima o poi vedranno il cadavere colpito alla

schiena da un proiettile. Non ci vorrà molto a capire quello che gli è successo.

Quanto prima ci toglieremo da questi territori, tanto meglio sarà per noi.»

«Ma quanto tempo ci vorrà ancora prima di essere fuori dalla riserva?»

«Se non ci fermeremo neanche questa notte, domattina ne saremo fuori e a

tarda sera saremo in città.»

«Ma non è ancora mezzogiorno. Dovremo fare questa vita per quasi altri due

giorni? Ma è una tortura.»

«Se andrà così, saremo fortunati, senatore. Vedo laggiù qualcosa che non mi

piace per niente.»

«Fortunati? E cosa diavolo hai visto? Io non vedo niente.»

«Laggiù, su quel costone roccioso. Segnali di fumo. Guai in vista.»

«Laggiù dove? Io continuo a non vedere niente.»

«Diavolo, senatore. Laggiù, a est. Quel costone alla sinistra delle Due Dita,

quelle alte roccia che sembrano dita di una mano.»

«Sì, ora lo vedo anch'io. E' un filo di fumo. Ma non potrebbe essere un incen-

dio?»

«Proprio per nulla, senatore. Ci sono solo rocce lassù, niente che possa brucia-

re. Sono i Navajo che ci cercano. E ci hanno trovati, maledizione. Di là non si

passa. Dovremo deviare e perdere un sacco di tempo, dannazione. Siamo in un

mare di guai.»

«Magari sono pochi, solo due o tre. Potremmo riuscire a toglierceli di torno fa-

cilmente. Io sono un ottimo tiratore, lo sai. E anche tu non te la cavi niente

male.»

«La pelle è vostra, senatore. Fate quel che vi pare. Io non ci tengo ad andare

là a verificare.»

«Diavolo. Ma se deviamo, di quanto allungheremo la strada?»

«Almeno mezza giornata. Forse più.»

«Ma non possiamo. Dobbiamo andare avanti e…»

«Non possiamo cosa, senatore? Non lo capisci, maledetto zuccone, che la no-

stra pelle è appesa a un filo? Non lo hai ancora capito che molto probabilmente

le nostre ossa biancheggeranno presto al sole?»

«Tu… tu… brutto caprone, come osi rivolgerti così a me, un senatore degli Stati

Uniti d'America?» 587

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Letizia «Ora basta, damerino. Scendi da quel piedistallo e, se vuoi tenere la pelle cuci-

ta addosso ancora per un po', tappati quella fogna di bocca e obbedisci ad ogni

ordine che ti darò.»

«Ma… io… tu…»

«Ma niente. E ricordati solo che ti tengo con me solo perché avrò bisogno del

tuo fucile e della tua buona mira. Almeno una cosa di buono la sai fare. Ricor-

dati anche che, se ancora non ti ho piantato una pallottola in quella testaccia

che ti ritrovi, è solo perché da solo non ce la farei a togliermi dai guai.»

Il senatore, paonazzo in viso, porta lentamente la mano al winchester.

«Vorresti spararmi un bel colpo alla schiena, vero? Ma non lo farai. E sai per-

ché non lo farai? Perché io sono la tua assicurazione sulla vita. Senza di me

non sapresti neanche dove andare.»

«Non è vero. So che devo andare ad est. E sappi che io mi so orizzontare mol-

to bene con il sole.»

«Ma davvero? Ma lo sai quanti villaggi indiani ci sono ancora ad est? E poi sa-

resti capace di passare a poche miglia da una città senza vederla. Lo sai che

hai bisogno di me, gufo impomatato.»

"Maledetto furfante. Per ora hai vinto. Ma, quando saremo in città, ti farò im-

piccare."

"Scommetto che quel damerino spera di farmi la festa quando saremo al sicu-

ro. Ma scommetto anche che è talmente stupido da non sospettare che, quan-

do il pericolo sarà passato, sarò io a fare la festa a lui."

Covando nel cuore questi propositi, i due uomini cambiano direzione deviando

verso nordest.

Ma ben presto si accorgono che i loro guai sono destinati ad aumentare.

«Altri segnali di fumo laggiù, davanti a noi. Maledizione.»

«E anche laggiù, Ben.»

«E laggiù. Dobbiamo tornare indietro e andare verso sud. Dannazione, mille

volte dannazione.»

«Tu non sai cosa dicono quei segnali, Ben?»

«No, senatore. Ma non ci vuol molto a capirlo. Segnalano la nostra presenza.»

«Ma perché non ci attaccano ora?»

«Uhm, gli indiani sono imprevedibili. Forse stanno giocando come il gatto col

topo o forse aspettano qualcuno.» 588

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L'ultimo duello di Tex «E chi?»

«Qualcuno che ci vuole levare la pelle di persona, immagino. Parenti dei giova-

ni che abbiamo ammazzato.»

«Che hai ammazzato, Ben. Che hai ammazzato.»

«Brutto bastardo, ho una strana voglia di piantarti una pallottola nella zucca.

Non dimenticare che tutto è successo perché tu hai fatto fuori quella ragazza

navajo.»

«Ma è stato un incidente, lo sai.»

«Oh, bene. Allora non hai niente da temere. Spiegherai tutto ai Navajo e salve-

rai la pelle. Tu non hai alcuna colpa. E' stato un incidente e i guerrieri li ho uc-

cisi io. Vero?»

«Certo. E' proprio così.»

«Benissimo. Conosci il dialetto navajo?»

«Io? No di certo. Perché?»

«Perché? Mamma mia, questo è proprio scemo. E come lo spiegherai ai Navajo

che non hai colpe, che sei una brava persona e che sei addirittura un senatore?

E poi sei davvero così ingenuo da pensare che ti crederebbero, nell'ipotesi che

capiscano la nostra lingua? E poi non sanno neanche cos'è un senatore.»

Un lungo silenzio.

Il senatore Garner sembra stia cominciando a preoccuparsi seriamente.

Forse solo ora si rende conto del reale pericolo che sta correndo.

I due uomini, in viaggio verso sud, sono costretti ad altre deviazioni.

Poco prima del calar del sole, uno spettacolo poco rassicurante si para davanti

ai loro occhi.

Davanti a loro, a meno di mezzo miglio, c'è ad attenderli una tribù navajo.

«Volevi sapere perché non ci hanno ancora attaccai, senatore? Eccoli lì davanti

a noi. Ora glielo può chiedere.»

Il senatore, spaventato a morte, gira il cavallo e tenta la fuga.

Ma non fa tempo a fare che pochi metri.

Poi ritorna lentamente e raggiunge Ben che non si era mosso.

«Ce ne sono anche dietro, vero?»

«Si, Ben. Come lo sai?»

«Ce ne sono anche sulla nostra destra. E anche sulla sinistra. Siamo circondati,

senatore. E' la fine.» 589

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Letizia

«Ma che diavolo stanno facendo? Perché non attaccano? Si direbbe che ab-

biano intenzione di accamparsi. Vedo che stanno accendendo dei fuochi.»

«Hai così fretta di lasciarci la pelle, senatore?»

«No di certo, maledizione. Ma quest'attesa mi sta facendo impazzire. E' forse

questo il loro gioco? Intendono torturarci anche così? Facendo crollare i nostri

nervi? Magari sperano che ci togliamo la vita da soli.»

«Non credo proprio. Gli indiani non lo concepiscono nemmeno il suicidio. Chi si

toglie la vita per evitare la tortura è considerato il più vile degli uomini.»

«Dici che avranno intenzione di torturarci?»

«E' probabile, senatore. Avremo modo di dimostrare che razza di uomini sia-

mo.»

«Ma io non voglio essere torturato. Non voglio essere ucciso.»

«I nostri desideri contano ben poco adesso.»

«Ma io sono un senatore degli Stati Uniti. Non possono uccidermi. Sarebbe la

loro condanna. La mia eventuale morte non rimarrebbe impunita.»

«E' una carta che puoi giocare, senatore.»

«Certo che me la giocherò. Gli dirò che sono un senatore e che, se mi uccido-

no, il presidente manderà migliaia di soldati a sterminarli.»

«Il Grande Padre Bianco, senatore.»

«Come?»

«E' il nome con cui gli indiani chiamano il presidente. Presidente è una parola

che non conoscono. E poi speriamo che ci sia qualcuno che parla la nostra lin-

gua, altrimenti la tua carica te la puoi attaccare alla suola degli stivali.»

«Ma come puoi mantenere tanto sangue freddo, Ben? Non hai paura?»

«Certo che ho paura. Tutti ce l'hanno, anche i più temerari. Il coraggio non è

altro che la capacità di saper dominare la paura. E poi a che servirebbe preoc-

cuparsi? Servirebbe solo a farti perdere la lucidità. E allora sei fregato. Il san-

gue freddo ti dà la possibilità di trovare la soluzione per uscire dalle situazioni

più difficili con il minor danno possibile. E, quando questo non è possibile, ser-

ve a dimostrare ai tuoi nemici che non sei un vile.»

«Ma a me non interessa dimostrare un bel niente. Io non voglio morire. Tutto il

resto non mi interessa.»

590

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L'ultimo duello di Tex «E sbagli, senatore. Gli indiani cercano di provocare la paura negli avversari,

cercano le loro urla. E sono molto contrariati quando trovano qualcuno che di-

mostra loro di non temerli, di non aver paura della morte. Quando qualcuno li

guarda negli occhi dimostrando tutto il suo sdegnoso disprezzo, ne sono colpiti

e ne abbreviano le sofferenze.»

«Vuoi dire che, invece di continuare a torturarlo, lo uccidono subito? Bella sod-

disfazione.»

«In qualche caso è successo che hanno lasciato in vita chi rideva delle loro tor-

ture. Gli indiani ammirano molto le persone coraggiose.»

«Vuoi dire che, per aver salva la vita, dovrò ridere quando mi tortureranno?»

«No, senatore. Tu hai ucciso una loro donna. Per te c'è solo la morte.»

«Ma dannazione, io non l'ho fatto intenzionalmente. E' stato un incidente.»

«Beh auguri, senatore. Vedo che gli indiani si sono accampati per la notte e,

siccome si sta facendo buio e io sono molto stanco, credo proprio che mi farò

una bella dormita.»

«Ti fai una dormita? Domani probabilmente dovrai morire e tu che fai? Dor-

mi?»

«Moriremo, senatore. Moriremo.»

«Ma non puoi dormire. Fai qualcosa. Io ti pago per proteggermi.»

«E cosa dovrei fare? Posso solo urlare sperando che i Navajo fuggano terroriz-

zati. Buona notte, senatore.»

Il giorno dopo, alle prime luci dell'alba, un gruppo di guerrieri arriva all'ac-

campamento dove i Navajo sorvegliano i due bianchi.

Li comanda Volpe Rossa.

Tra di loro ci sono i nostri quattro pard, Luna d'Argento e, naturalmente, Lois

che non poteva certo mancare.

Si avvicina a loro Lince Screziata, braccio destro di Volpe Rossa che mette al

corrente della situazione i nuovi arrivati.

«Finalmente potrò avere la mia vendetta.»

«L'avrai Volpe Rossa. Ma prima li voglio interrogare.»

«Ma i cani bianchi si difenderanno, Falco Nero. La loro difesa sarà inutile, ma

cercheranno la morte in battaglia per evitare una lunga tortura.»

«Andrò a parlamentare con loro. Da solo.»

591

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Letizia «No, Falco Nero. Io verrò con te.»

«Forse è meglio così, Kit. Verremo anche Carson e io.»

«Va bene, pa'. Forse è giusto.»

«E verranno anche tre dei miei guerrieri.»

«Saggia idea, sachem. Quei due devono capire che non gli conviene fare

scherzi.»

«Così è, Aquila della Notte. I miei guerrieri terranno le armi pronte.»

Sette uomini escono dal gruppo e si avvicinano lentamente a Ben e al senatore

Garner.

«Senatore, questa è una fortuna insperata. Due di quegli uomini sono Tex Wil-

ler e Kit Carson. E credo di riconoscere anche il figlio di Tex, quello che gli in-

diani chiamano Falco Nero, il capo supremo di tutte le tribù navajo.»

«Kit Carson non è un ranger del Texas?»

«Sì. E una volta lo era anche Willer.»

«Perché dici che siamo fortunati?»

«Perché non credo proprio che permetteranno ai Navajo di farci la pelle, sena-

tore. Ma tu ora non aprire bocca e lascia parlare me.»

«Ma…»

«Taci, ho detto. Taci se non vuoi perdere la pelle.»

Kit, in testa al piccolo gruppo, alza il fucile sopra la testa tenendolo con due

mani.

«Vogliono parlamentare, senatore. Lascia fare a me adesso e non muovere un

muscolo, neanche per respirare.»

Ben solleva a sua volta il fucile sulla testa.

Poi afferra la leva del caricatore e toglie lentamente tutti i proiettili dal serbato-

io.

Infine preme ripetutamente il grilletto che colpisce l'otturatore vuoto causando

il caratteristico rumore metallico prodotto da un'arma scarica.

Poi getta il winchester a terra e si rivolge ai nuovi arrivati.

«Buon giorno, mister Willer.»

«Ci conosciamo?» risponde Tex.

«No, ma io so chi è lei. E conosco anche mister Carson e questo,» indicando

Kit, «è sicuramente suo figlio, il sachem Falco Nero, capo di tutta la nazione

Navajo.» 592

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L'ultimo duello di Tex «Ok, visto che ci conosci tutti quanti così bene, non ti rimane che dirci chi siete

voi e perché siete entrati nella riserva navajo.»

«Con piacere, mister Willer. Io sono la guida Ben Colter e quest'idiota dietro di

me è il senatore Ernest Garner.»

«Ehi, come ti permetti…»

«Ti ho detto di tacere, senatore. Lo perdoni, mister Willer. Ma questo verme

non ha ancora capito bene la situazione.»

«Mio padre ti ha chiesto anche il motivo per cui vi trovate nella nostra riserva.

Io inoltre voglio anche sapere perché avete ucciso Stella d'Argento e suo mari-

to.»

«Così Stella d'Argento era il suo nome?»

«Vedo che non sei così stupido da negare la tua responsabilità.»

«Non ci avrei neanche provato, mister Willer. Abbiamo lasciato tracce evidenti.

E poi sono almeno due giorni che non ci perdete di vista.»

«Bene. Allora comincia a raccontare.»

«E' presto detto, Tex. Il senatore ci ha ingaggiati, me e il mio amico Bart, per

fargli da guida. Voleva cacciare un puma. Siamo entrati nella riserva, è vero,

ma era nostra intenzione fermarci solo due o tre giorni. E poi c'è stato l'inci-

dente.»

«Incidente?»

«Sì, Willer. Questo cretino ha visto qualcosa che si muoveva in un cespuglio e

ha sparato senza pensarci troppo su. Purtroppo nel cespuglio c'era la ragazza,

che è rimasta uccisa sul colpo. E' stato un incidente. Con lei c'erano due india-

ni. Quelli li ho uccisi io. Per difendermi, naturalmente.»

«Lupo Bianco è stato colpito alla schiena, Hai sparato anche a lui per difender-

ti?»

«Avrebbe dato l'allarme al suo villaggio. Ho dovuto colpirlo.»

«Ora basta. Quel cane ha confessato. Hanno ucciso mia figlia e il suo sposo.

Devono morire.»

«Un momento, Willer. Non avrà per caso intenzione di consegnarci a quel sel-

vaggio? E' stato un maledetto incidente. Uno stramaledetto incidente. Una cosa

involontaria. Non può condannarci a morte così. Sarebbe un omicidio.»

«Perché, il vostro cos'è stato? O forse pensi che la vita di un'indiana valga me-

no di niente?» 593

Page 594: TuttoLet - Altervistapecosbill.altervista.org/Romanzi/TuttoLetizia.pdfTex Willer - Aquila della Notte Kit Carson - Capelli d'Argento Kit Willer - Piccolo Falco - Falco Nero - Mano

Letizia «Non è vero. Io ho sempre rispettato il popolo rosso. Ho fatto per tanti anni lo

scout nell'esercito. E con me c'erano diversi indiani, Apache, Cheyenne e Hopi,

che erano miei amici. E non ho mai ucciso una donna. E' vero, ho ucciso due

vostri guerrieri. Ma era in gioco la mia vita. Il mio amico Bart ci ha lasciato la

pelle, lo sa?»

«Uno solo.»

«Cosa?»

«Ne hai ucciso uno solo. Lupo Bianco, figlio di Volpe Rossa e fratello della ra-

gazza uccisa, è ancora vivo. Ci hanno segnalato ieri sera che è fuori pericolo.»

«Beh, per quello che può valere, sono contento per lui. Ma l'altro l'ho ucciso. E

i suoi familiari avranno la loro vendetta. Io chiedo di battermi con loro al coltel-

lo, all'usanza indiana.»

«Basta ora. Il sangue chiede sangue. Non ci saranno duelli. Mi hai promesso

che avrò la mia vendetta, Falco Nero.»

«E vendetta avrai. Ma nessuno sarà torturato. Io sono il capo supremo di tutti i

Navajo. Miei sono tutti i guerrieri navajo. Essi sono come miei figli. Così come

erano miei figli Stella d'Argento e il suo sposo Piccolo Orso. Il cane bianco

chiede un duello al coltello? E lo avrà. Un Navajo non rifiuta mai una sfida. Io

in persona mi batterò al coltello. Prima con l'uomo che lanciato la sfida. E poi

con il suo amico.»

«Non è per niente mio amico. E tu dovrai pentirti di aver accettato la mia sfi-

da.»

«Davvero?»

Kit e Ben si preparano al duello.

Carson prende in disparte Tex.

«Che intenzione credi che abbia tuo figlio, Tex?»

«Non lo so proprio, vecchio cammello. Certo che la situazione non è delle mi-

gliori.»

«Non può certo uccidere un senatore degli Stati Uniti. A parte la montagna di

guai che ci cadrebbe addosso, sarebbe come sparare a un bambino legato alla

sua seggiolina.»

«Vero. Ma non credo che abbia intenzione di ucciderlo. Credo abbia qualcosa

che gli frulla per la mente.»

594

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L'ultimo duello di Tex «Non deve neanche urtare la suscettibilità di Volpe Rossa, però. Non può certo

negargli la sua vendetta. A parte il fatto che non sarebbe vendetta, ma un atto

di giustizia.»

«Negare soddisfazione a un capo tribù gli farebbe perdere la stima e il rispetto

di tutti i capi del Consiglio. Potrebbero anche togliergli il comando della nazione

navajo.»

«Brutto affare. Comunque vadano le cose saranno guai a volontà.»

«Staremo a vedere come andranno le cose. Ma io ho idea che quello che ha in

mente risolverà la situazione. E comunque ci siamo sempre noi a dargli una

mano.»

«Ci puoi scommettere, tizzone d'inferno.»

«Adesso ricominci? Se ti sente Lois…»

«Ma come fai ad aver voglia di scherzare in momenti come questo?»

«Lo sai che l'ironia mi aiuta a tenere tutti i miei sensi all'erta.»

«E questo Ben? Credi che possa dare delle noie al tuo ragazzo?»

«Chi, quello? Kit è in grado di sbarazzarsi di lui con il braccio destro legato alla

schiena.»

«Sembra un tipo in gamba. Credi che abbia detto la verità sull'incidente?»

«Credo di sì, Kit. Il senatore ha proprio l'aria di un babbeo vestito a festa.»

Ma il "babbeo", con un gesto felino imbraccia il suo winchester.

«Maledetti. Se credete di poter infilzare il senatore Ernest Garner come un pol-

lo allo spiedo, vi sbagliate di grosso.»

Mentre urla queste parole, fa fuoco contro Kit che, armato di solo coltello, non

può far altro che gettarsi a terra su un fianco.

Il colpo destinato a lui colpisce un navajo di Volpe Rossa.

Succede tutto in un attimo.

Il sachem reagisce come un fulmine sparando al senatore due colpi in pieno

petto.

Ben getta immediatamente il suo coltello a terra e alza le mani sopra la testa.

«No, no» grida disperato.

Ma nulla può contro l'ira dei Navajo che lo colpiscono a morte.

Prima che Kit possa rialzarsi da terra, i due miserabili giacciono nella polvere.

«Dannazione, ora sì che siamo nei guai, Tex.»

595

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Letizia

«Capelli d'Argento non tema. Ora ho avuto la mia vendetta. Gli scalpi di questi

due sciacalli penderanno dalla mia cintura. Ora lo spirito di Stella d'Argento e

di Piccolo Orso possono galoppare felici nei pascoli del cielo insieme ai nostri

antenati.»

«No, Volpe Rossa. Tu prenderai un solo scalpo.»

«Perché Aquila della Notte pronuncia parole di divieto?»

«L'uomo che tu hai ucciso sedeva nel Consiglio dei Capi insieme al grande Pa-

dre Bianco. La sua morte causerà sventura a tutto il popolo rosso. Verranno

molti soldati a vendicare la sua morte. E porteranno molti lutti alla nostra gen-

te.»

«Il suo corpo non verrà mai trovato dall'uomo bianco. Le sue carni verranno di-

laniate dagli avvoltoi e le sue ossa biancheggeranno al sole.»

«No, Volpe Rossa. Costui era un grande capo. Uno stolto, ma un grande capo.

Lo verranno a cercare e capiranno che è stato ucciso dal popolo navajo.»

«Mio padre ha ragione, Volpe Rossa. Io riporterò il suo corpo nella città dei

bianchi. Io prenderò la colpa della sua morte. I Navajo non avranno nulla da

temere.»

«No, Kit. Tu ora sei il capo supremo dei Navajo e anche l'agente indiano della

riserva. Le colpe non ricadranno solo su di te. Ricadranno su tutto il nostro po-

polo. Tutto il lavoro che stai facendo per acquistare legalmente le terre della ri-

serva sarà vanificato. Il senatore è stato ucciso da Tex Willer.»

«Ma papà, la stessa cosa vale anche per te. Anche tu sei…»

«No, Kit. Io non lo sono più. Io non sono un Navajo. E non sono più né il loro

capo né il loro agente indiano. E non sono più neanche un ranger. Sono solo un

cowboy qualsiasi che vive ad Albuquerque.»

«Ma non posso permettere che ti rovini la vita per me.»

«Non per te, Kit. Per i nostri Navajo. Sono io che non posso permettere la loro

rovina. E proprio ora che stanno diventando legalmente padroni delle loro ter-

re. Nessuno potrà mai scacciarli ora. Non posso permettere che, per colpa di

un idiota pallone gonfiato, vada tutto in rovina.»

«Ma, pa'…»

«Basta, Kit. Non insistere. Ho deciso.»

«Ehi, Tex. Questo è ancora vivo.»

596

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L'ultimo duello di Tex «Chi?»

«La guida. Quello di nome Ben. Il senatore è morto stecchito.»

Tex si avvicina al moribondo e Carson gli fa cenno con la testa che non ne avrà

ancora per molto.

«Mi è andata male, Willer.»

«Già. Ma non è che avevi molte più possibilità nel duello con mio figlio.»

«Quien sabe, Tex? Ma almeno sarei morto combattendo… Stai attento al fratel-

lo del senatore, Tex.»

«Il fratello?»

«Si chiama Steve Garner. E' un grosso uomo d'affari di Washington. Il senatore

era solo un imbecille. Aveva ottenuto la carica perché il fratello gliela aveva

praticamente comprata… E lui faceva tutto quello che Steve gli ordinava… Era

un burattino… Senza il fratello non sarebbe mai stato nessuno. Era un incapa-

ce, un pallone gonfiato che si credeva di essere chissà chi solo perché sedeva

su una poltrona che non si è mai guadagnato…»

«Che tipo è questo Steve Garner? Un cretino anche lui?»

«No, no. E' un tipo in gamba… Senza scrupoli e crudele, ma è un uomo intelli-

gente. Guardatevi da lui. Non solo gli avete ucciso il fratello, ma gli avete tolto

anche il burattino al Senato. Ora non potrà contare più su nessuno per i suoi

loschi affari. Non avrà pace finché non avrà distrutto tutto il tuo popolo, Tex…»

«Vedremo di fare in modo che questo non accada.»

«Sai, Tex? Quando quel deficiente ha sparato alla ragazza… il mio primo impul-

so è stato quello di sparargli un colpo in testa. L'avrei poi abbandonato qui a

marcire e me la sarei filata il più velocemente possibile.»

«Non sarebbe stata un'idea così malvagia, Ben.»

«E' vero. Ma avevo in mente di dare la colpa ai Navajo, però. Volevo vendi-

carmi di te…»

«Di me? E perché? Non ti ho mai visto prima d'ora. Che ti ho fatto?»

«Hai accoppato mio cugino, Tex. Era un poco di buono, è vero… ma era il figlio

di mio zio, il fratello di mia madre. Siamo cresciuti insieme…»

«Mi dispiace.»

«Ma non lo avrei mai fatto, sai? Cioè, non avrei mai dato la colpa ai tuoi Nava-

jo. Quel cretino invece lo avrei ammazzato senza pensarci su. Ma mi doveva

un sacco di soldi…» 597

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Letizia

«E' per i soldi che siete entrati nella riserva, vero?»

«Sì. Ci aveva promesso un premio extra se avessimo ucciso un puma…»

«Maledetti soldi.»

«Sì, Tex. Maledetti soldi. Ma sai qual'è l'unica cosa che mi dispiace?»

«No. Quale?»

«Che sia morta quella ragazza… Era bellissima, sai? Dio, com'era bel…»

La morte gli porta via questa ultima frase.

Tex gli chiude gli occhi che continuavano a guardarlo.

«Eri un brav'uomo, Ben. Ti meriti una degna sepoltura.»

«La scavo io la fossa, Tex.»

«Ti do una mano, zio Kit.»

Tex si rivolge a sachem Volpe Rossa.

«Quest'uomo era un guerriero leale. Non ha ucciso lui tua figlia. E ha colpito

Piccolo Orso e tuo figlio per difendere la sua vita. Un navajo non si sarebbe

comportato diversamente. Ti chiedo il permesso di seppellirlo senza che tu

prenda il suo scalpo. Ora il suo spirito sta cavalcando nei pascoli del cielo in-

sieme con Stella d'Argento e il suo sposo. Ora non sono più nemici.»

Il vecchio sachem tace per un istante.

«Volpe Rossa ha avuto la sua vendetta. Che lo spirito dell'uomo bianco percor-

ra in pace i pascoli del cielo.»

«Grazie, sachem. Sei un uomo saggio e giusto.»

«Cavolo, ma questo è il senatore Garner.»

La voce di Lois coglie di sorpresa Tex.

«Ah, sei qui? Conosci il senatore?»

«Purtroppo. E' per lui la fossa che stanno scavando?»

«No, è per questo poveraccio. Comunque il senatore è morto anche lui, se è

questo che intendi.»

«E' un brutto guaio. Il senatore Garner è una gran carogna. Anzi era, a quanto

pare. E suo fratello è peggio di lui.»

«Conosci anche il fratello Steve?»

«Come sai che si chiama Steve? Lo conosci?»

«No. E non conoscevo neanche il senatore prima d'ora. Tu come fai a cono-

scerli?»

598

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L'ultimo duello di Tex «Dimentichi che ho vissuto a Philadelphia per molto tempo, tesoro. E sono sta-

ta parecchie volte a Washington. Ho avuto occasione di conoscere i due fratelli

quando ho difeso in tribunale un poveraccio che quella carogna di Steve Garner

aveva accusato di furto ai suoi danni. Ma era tutto un trucco per frodare l'assi-

curazione. Il furto non c'era mai stato.»

«Una carogna davvero. E come è andata?»

«Ho perso la causa, mannaggia. Quel maledetto ha pagato dei suoi scagnozzi

che hanno testimoniato il falso. Non c'è stato niente da fare. Il mio cliente è fi-

nito in carcere, purtroppo.»

«Proprio una bella famiglia. E' stato il senatore a uccidere Stella d'Argento.»

«Tex, è un grosso problema. Il fratello farà fuoco e fiamme finché non avrà

avuto la sua vendetta. E questo significa che scatenerà una guerra contro i Na-

vajo. Ha molte conoscenze influenti a Washington. Non gli sarà difficile trovare

l'appoggio di qualche guerrafondaio che non vede l'ora di fare affari d'oro con

una nuova guerra indiana.»

«Non ci sarà nessuna guerra indiana.»

«Non ti fare illusioni, tesoro. Non si potrà nascondere a lungo la morte di un

senatore degli Stati Uniti.»

«Non la nasconderemo, infatti.»

«E allora come farete a evitare che Steve Garner scateni la cavalleria contro

coloro che gli hanno ucciso il fratello?»

«Perché non sono stati i Navajo a uccidere il senatore. Sono stato io.»

«Papà vuol prendersi la colpa dell'uccisione, Lois. Lo fa proprio per proteggere i

Navajo.»

«Voleva prendersi la colpa lui, Lois. Ma non posso permetterlo. Kit è agente in-

diano e capo di tutti i Navajo. La sua colpa sarebbe ricaduta su tutta la sua

gente. Sarebbe un sacrificio inutile.»

«Ma il senatore è stato ucciso in territorio navajo. Basterà questo per quella

carogna di Steve…»

«No Lois. Ho già in mente qualcosa che risolverà tutto.»

Poi si rivolge al figlio.

«Kit, ho bisogno di una squaw esperta nell'uso delle sostanze che i Navajo u-

sano per ritardare le decomposizione dei corpi.»

«Cosa hai intenzione di fare, tesoro? Vuoi mummificare il senatore?» 599

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Letizia «No di certo, Lois. Deve solo sembrare che sia morto un paio di giorni più tar-

di. Mentre io farò ritorno ad Albuquerque, i Navajo porteranno il corpo del se-

natore a Pueblo Pintado, che è una località che sta a nord della linea ferroviaria

tra Gallup e Albuquerque, circa a metà strada.»

«Conosco il posto, pa'. E' fuori della riserva. Andrò io con Alba Lucente, che si

porterà i suoi unguenti.»

«Bene. Quando sarò ad Albuquerque, mi farò vedere in giro da un po' di gente.

Mi serviranno dei testimoni. Poi andrò a cavallo a ovest e mi dirigerò a Pueblo

Pintado. Lì troverò te con il corpo del senatore.»

«Sì, papà. E il senatore sarà fresco come una rosa. Bello lavato e profumato,

pronto per essere "ucciso".»

«Infatti. Non mi sarà difficile dire che l'ho incontrato, che abbiamo litigato e

che mi ha provocato. E lui ci ha lasciato la pelle in un duello. Più o meno.»

«E' un ottimo piano, tesoro. Ma non credere che il fratello non farà di tutto per

farti impiccare.»

«Beh, anch'io ho delle conoscenze a Washington. Ely "Donehogawa" Parker è

un mio carissimo amico.»

«Ma, Tex. Parker non ricopre più l'incarico di Capo dell'Ufficio degli Affari In-

diani. E ormai da una decina d'anni.»

«Lo so, Lois. Ma ha ancora la sua influenza negli ambienti politici di Washin-

gton. E poi io sarò difeso dall'avvocato più in gamba d'America. E anche il più

bello.»

«Non scherzare, Tex. Non sarà facile uscire da questa situazione senza le ossa

rotte. Rischi il capestro. Lo sai?»

«Lo so, Ma non trovo una soluzione migliore. Hai paura per me?»

«E me lo domandi, sciocco?»

«Vuoi che mi tiri indietro?»

Lois tace pensierosa per un attimo.

«No… Questo no, tesoro. Non potrei più guardarti negli occhi. E non riuscirei a

dormire sonni tranquilli pensando alla fine che faranno i Navajo.»

Tex si avvicina a Lois.

La stringe tra le braccia.

Lei si avvinghia a lui come se non volesse più staccarsene.

Come se fosse l'ultima volta che lo abbraccia. 600

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L'ultimo duello di Tex «Ti amo, mia piccola signora dell'Est.»

Lei lo stringe ancora di più.

«Adesso lasciami. Devo andare. Devo arrivare a Gallup il più presto possibile.

Da lì poi prenderò il primo treno per Albuquerque.»

«No che non ti lascio. Vengo con te.»

«No, Lois. Mi rallenteresti. Per arrivare domattina a Gallup dovrò galoppare

tutto il giorno e tutta la notte.»

«Lo so. E la cosa non mi spaventa.»

«Lois, ho detto di no.»

Il tono della voce di Tex non ammette repliche.

«Tu verrai con calma. Carson ti accompagnerà.»

«Puoi contarci, Tizzone d'inferno. Oh, scusa Lois. Non volevo.»

«Oh accidenti, vecchio cammello. Non ti ci mettere anche tu adesso.»

Carson e Tex guardano allibiti la "dolce signora dell'Est" e poi si guardano tra

loro.

Tex è ormai lontano all'orizzonte.

Ha portato con sé due mustang di scorta, i più veloci e resistenti della tribù di

Orso Macchiato.

Luna d'Argento è nel wigwam di suo padre insieme al suo sposo Falco Nero,

che si appresta a partire portando con sé il suo lugubre bagaglio.

Andrà con lui Alba Lucente che sta preparando il corpo del senatore.

Avrà il compito, una volta arrivati a Pueblo Pintado, di pulire il corpo dagli un-

guenti che ne rallentano la decomposizione e di rivestirlo con i suoi abiti che

nel frattempo sono stati lavati.

Le macchie di sangue sono state tolte dai suoi eleganti vestiti perché dovranno

comparirne delle nuove più fresche.

Lois, con un velo di tristezza nel viso, sta ancora guardando l'orizzonte dove ha

visto scomparire il suo amato.

La turba un cattivo presentimento, la sensazione di dover affrontare presto un

destino che le spezzerà il cuore.

«Vedrai che tutto andrà per il verso giusto, Lois. Vedrai che Tex riuscirà a di-

mostrare di aver agito per legittima difesa.»

«Dio lo voglia, Carson. Dio lo voglia.»

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Letizia «Il senatore Garner aveva la fama di essere un arrogante attaccabrighe. Pro-

prio il tipo che Tex non ha mai sopportato. E, poiché non conosceva Tex, è

plausibile che lo abbia sfidato a duello. Proprio tu ci hai detto che a Washington

ha sfidato a duello molti "gentiluomini". E ha sempre avuto la meglio. Era un

buon tiratore e si sentiva sicuro di sé. La storia che imbastirà Tex sarà molto

credibile. Un uomo arrogante che offende Tex. Tex che risponde per le rime e

quell'impiastro che reagisce. Sì, ci crederanno tutti.»

«Non è questo che mi preoccupa, Carson.»

«E cos'è allora?»

«Il fratello. Steve Garner non accetterà un'assoluzione per legittima difesa. E

poi gli sembrerà strano che le sue guide non erano con lui. Indagherà.»

«E cosa potrà scoprire? Le guide si sono stufate di un cliente arrogante e se ne

sono andate chissà dove, lasciandolo dalle parti di Pueblo Pintado dove Tex l'ha

trovato. E' molto plausibile. E poi nessuno potrà provare il contrario perché

quei due sono morti e sepolti dove nessuno potrà trovarli. Abbiamo dato sepol-

tura anche al compare di Ben, quello che abbiamo trovato accanto ai cadaveri

della povera Stella d'Argento e di suo marito.»

«Dio ti ascolti, Carson.»

Alba Lucente entra nella tenda di Orso Macchiato.

«L'uomo bianco è pronto, sachem. E' avvolto in una pelle di bisonte, unto con

gli unguenti dei morti.»

«Molto bene, Alba Lucente. Ho già preparato i cavalli per noi e per l'uomo bian-

co. Nove buoni mustang. Faremo due cambi. La strada è molto lunga e dovre-

mo correre molto veloci. Te la senti, Alba Lucente? Saprai essere forte? Saran-

no due giorni di cavallo, senza dormire e senza riposare.»

«Il mio corpo è forte come quello di un uomo, Falco Nero.»

«Molto bene. Allora partiamo.»

Si avvicinano al corral dove i cavalli sono già pronti.

Tiger Jack ha unito le briglie dei mustang di scorta.

Un ragazzino alto una spanna è con lui.

«Bene, Tiger Jack. Vedo che è tutto pronto. Il senatore è legato bene al suo

cavallo? Dovremo correre parecchio e ballerà un po'.»

«E' legato saldamente, Kit. E non credo che si lamenterà se sarà un po' sco-

modo.» 602

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L'ultimo duello di Tex «Già. Lo credo anch'io.»

«Sachem, io vengo con te.»

Kit si gira a guardare meravigliato il ragazzino.

«Tu?»

«Si, sachem. Farò con voi il primo tratto e poi porterò indietro i cavalli stan-

chi.»

«I cavalli ritorneranno indietro da solo, ragazzino.»

«E' vero, sachem. Ma mio padre mi ha detto che dovrete evitare le città dei

bianchi. I cavalli potrebbero andare nella città invece che tornare al nostro vil-

laggio. Non è una buona cosa.»

«Diavolo di un ragazzino.»

«Ha ragione, Kit.»

«Tu ne sapevi qualcosa, Tiger? Delle intenzioni del ragazzino, intendo.»

«No, Kit. Non ne avevo idea. Ma ha ragione. Dovrai superare la città di Gallup.

I cavalli che lasci potrebbero andare lì, invece di tornare al villaggio di Orso

Macchiato che è troppo lontano.»

«E' vero. Ma il ragazzo farà solo il primo pezzo, poi dovrà tornare con i cavalli

del primo cambio. Quelli del secondo cambio dovremo lasciarli soli.»

«No, sachem. Dopo il primo cambio io lascerò riposare i cavalli che tu hai la-

sciato e poi proseguirò piano per recuperare gli altri tre. E tu avrai un cavallo

in più, quello che monterò io. Io sono molto leggero e il mio cavallo non sarà

stanco come i vostri.»

«Ma non mi serve un cavallo in più.»

«Non è vero, sachem. Se si dovesse azzoppare un cavallo, lo potrai sostituire

con il mio.»

«Che mi venga… Come ti chiami, ragazzino?»

«Il mio nome è Piccola Volpe, sachem.»

«Monta in sella e vieni con me. Da oggi il tuo nome sarà Volpe Astuta.»

«Yahoooooooo!»

Il ragazzo salta in sella al suo pezzato con l'agilità di un gatto urlando di gioia.

Dieci minuti dopo il piccolo gruppo parte al galoppo prendendo una pista leg-

germente più a nord rispetto a quella che ha preso Tex un paio d'ore prima.

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Letizia

La mattina dopo Tex, dopo aver bighellonato un po' per le strade di Albuquer-

que ed essersi fatto notare da molte persone, tra le quali il nuovo sceriffo,

prende il suo cavallo alla scuderia e si avvia verso ovest.

Verso sera arriva a Pueblo Pintado.

La località, il cui nome significa paese dipinto, è totalmente deserta.

Ci sono solo i resti di un'antica civiltà precolombiana.

Kit non è ancora arrivato.

Tex sale su una piccola altura, accende un fuoco per segnalare la sua posizione

e scruta l'orizzonte con il binocolo.

Nel giro di mezz'ora vede una nuvola di polvere all'orizzonte.

E' sicuramente Kit, anche se ancora non distingue le persone nella polvere.

Ma sono sicuramente più di una.

Intravede almeno due cavalli.

In meno di una decina di minuti vede tre cavalli.

"E' Kit. Con lui c'è una donna indiana che sicuramente è… come ha detto che si

chiama? Ah sì. Alba Lucente. E il terzo cavallo porta un grosso 'pacco'. I sena-

tore è arrivato con tanto di scorta, come si conviene a una personalità del suo

rango."

Kit vede il fuoco acceso dal padre e, immaginando che Tex lo stia guardando

con un binocolo, agita più volte il braccio in segno di saluto.

Quando Kit arriva, trova del caffè fumante sul fuoco.

«Ciao, pa'. E' molto che aspetti? No. Sono arrivato più o meno da un'ora.»

«Noi abbiamo avuto un inconveniente ed abbiamo perso un po' di tempo. Al-

trimenti ci avresti trovato qua ad aspettarti.»

«Che vi è successo?» gli chiede porgendogli una tazza di caffè.

Poi si rivolge alla donna.

«Vieni anche tu, Alba Lucente. Una buona tazza di caffè è proprio quello che ci

vuole.»

«No grazie, Aquila della Notte. Ho molto lavoro da fare. Più tardi, quando avrò

finito e tu sarai già andato via. Il tempo è poco.»

«Ok. Allora, Kit?»

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L'ultimo duello di Tex «Il cavallo del senatore. Non era forte e robusto come i nostri. Non ce l'ha fatta

e ho dovuto abbatterlo a circa venti miglia da qui. Per fortuna avevo il cavallo

del ragazzino.»

«Quale ragazzino.»

Kit racconta velocemente di Piccola Volpe mentre la donna si occupa del suo

"lavoro" con il senatore.

«Diavolo. In gamba il ragazzino.»

«Già. Però adesso il cavallo del senatore non è ferrato. La sella però è la sua.»

«Poco male.»

«Pa', se tornerai in città con un cavallo senza ferri, qualcuno potrebbe sospet-

tare.»

«Tornerò ad Albuquerque con un cavallo solo. Mi accompagnerete fino a qual-

che miglio dalla città. Viaggeremo tutta la notte e alle prime luci dell'alba tor-

nerete indietro portando con voi il cavallo senza ferri. Nessuno ci vedrà. Io dirò

che ho dovuto abbattere il cavallo del senatore perché si era azzoppato. E poi,

se a qualcuno venisse in mente di andare a cercarlo, lo troverà nel posto in cui

tu lo hai abbattuto.»

«Farai le ultime miglia a piedi?»

«Sì. E mi porterò la sella di questo cretino sulle spalle.»

«La squaw sembra aver finito. Ma che sta facendo?»

«Ha un coltello in mano, Kit. Temo di sapere cosa sta facendo.»

Kit si alza e corre verso di lei.

«Ferma, Alba Lucente. Che stai facendo?»

«Gli abiti dell'uomo bianco non sono macchiati di sangue, sachem. Mia figlia li

ha lavati bene e ha tolto le vecchie macchie di sangue. Ora io metto il mio

sangue sui suoi vestiti. Sangue nuovo. Il mio sangue è rosso come quello dei

bianchi.»

«No, ferma. Sarà il mio sangue e non il tuo a macchiare i vestiti dell'uomo

bianco.»

«Perché, sachem? Alba Lucente è forte come un uomo e non teme il dolore.

Mio marito sarà fiera quando saprà che mi sono ferita per aiutare il grande A-

quila della Notte.»

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Letizia «Tuo marito è già fiero di te. E io non posso permettere che venga versato il

sangue del mio popolo, neanche una sola goccia. Il capo dei Navajo non può

demandare ad altri ciò che è suo dovere fare di persona.»

«Se questo è il volere del mio capo, ebbene sia. Ma tieni il mio coltello. Usalo

per riversare il tuo nobile sangue sulle vesti del bianco malvagio.»

Kit prende il coltello affilatissimo dalle mani della donna e lo passa sul braccio

facendo cadere gocce di sangue sul petto del senatore Garner.

Tex guarda ammirato la fierezza della navajo.

Viaggiano tutta la notte e all'alba arrivano a poche miglia da Albuquerque.

«E' meglio che vi fermiate qui, Kit. Se proseguite ancora, qualcuno potrebbe

vedervi. Ormai è giorno.»

«Pa', perché devi proprio prenderti la colpa dell'uccisione del senatore? Perché

non racconti che hai trovato il suo corpo già privo di vita? Potrebbe essere sta-

to chiunque a ucciderlo, specialmente se gli svuotiamo le tasche di tutto il de-

naro e degli oggetti di valore. Magari possono pensare che sono state proprio

le sue guide a rapinarlo e ucciderlo.»

«No, Kit. Non voglio rischiare. Se non c'è un colpevole certo, i nostri Navajo

non saranno mai al sicuro. Lo sai che basta un minimo sospetto, anche un solo

pretesto, per scatenare una nuova guerra indiana. Ci sono troppi interessi.

Troppe persone potrebbero riempirsi le tasche di denaro sporco del sangue dei

Navajo. E il fratello del senatore mi sembra proprio quel tipo di persona. E in

più, oltre a guadagnarci sopra, avrebbe anche la vendetta per il fratello ucciso.

No, Kit. Si fa come ho già detto.»

«Ma papà…»

«Basta, Kit. Non insistere. Ti credi che non abbia già pensato a una soluzione

del genere? Ci ho pensato eccome. Ma non mi posso permettere un rischio così

grande. Ci sono troppe vite in gioco. C'è in ballo il futuro di tutto il popolo Na-

vajo. E non solo. Ci andrebbero di mezzo anche gli Hopi la cui riserva è situata

dentro le terre navajo. E poi magari l'esercito se la prenderebbe anche con gli

Apache. Sarebbe un genocidio.»

«Ok, pa'. Si fa come vuoi tu. Ma…»

«No, Kit. Non si fa come dico io. Si fa quello che deve essere fatto. Per il bene

di tutti.»

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L'ultimo duello di Tex Tex scende di sella, si carica su una spalla il corpo del senatore, lo porta verso

il suo cavallo e lo mette in groppa, di traverso a pancia sotto.

Poi toglie la sella al mustang che portava il cadavere e l'appoggia a terra.

«Ecco fatto. E ora andate.»

«Buona fortuna, pa'.»

«Sei ancora qui?»

Kit impugna la sua colt e la punta verso il padre che lo guarda meravigliato.

Poi apre il fuoco.

Tex sente un dolore improvviso al braccio.

Ma, prima che possa dire una parola, Kit lo previene.

«Con una ferita, anche se leggera, al braccio la storiella che hai in mente sarà

più credibile.»

«Che mi venga… Ora togliti dai piedi se non vuoi che la tua dolce Luna d'Ar-

gento curi amorevolmente la ferita che ti farò io.»

«Ok. Ciao, papà.»

«E bacia Lois per me.»

«Non ci penso nemmeno, pa'. La mia dolce Luna mi caverebbe gli occhi.»

Kit afferra le redini del mustang che ha portato il corpo del senatore e sprona il

suo cavallo.

Alba Lucente lo segue al galoppo.

In breve i due sono lontani.

Tex si toglie il suo fazzoletto nero dal collo e si fascia alla meglio il braccio.

"Eccomi qui, con una camicia quasi nuova da buttare. Lois non me la rammen-

derà davvero. E non permetterà neanche che lo faccia la signora Carter che

viene da noi a sbrigare le faccende e a cucinare."

Cucinare? Vi domanderete.

Pensavate forse che una donna come Lois, che sa fare tutto… beh, quasi tutto,

sappia anche cucinare?

Illusi.

Lois sa fare di tutto tranne che la casalinga.

Tex, immerso nei suoi pensieri, solleva da terra la sella di Garner.

Non è certo leggera.

Farsi a piedi le miglia che lo separano dalla città con quel peso sulle spalle non

lo attira per niente. 607

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Letizia "Chissà se questo cialtrone si arrabbia se gli appoggio la sella sulla schiena.

No, non credo proprio. Certo che, se qualcuno mi trattasse come un cavallo, io

non ne sarei proprio contento."

«Ma tu non ti arrabbi, vero Garner?»

Afferra il senatore per i capelli e gli alza la testa.

«Come hai detto? Non sei per nulla arrabbiato? Bravo.»

Prende le redini e s'incammina tirandosi dietro il cavallo con il suo macabro ca-

rico.

"Scherza, scherza, Tex. Credo che d'ora in poi avrai ben pochi argomenti su cui

scherzare."

Poco più di un'ora dopo, i cittadini di Albuquerque lo vedono arrivare stanco e

impolverato.

Non fanno troppo caso al cadavere gettato di traverso sulla sella.

Non hanno ancora capito chi è.

Sembra che le cose non si siano poi messe così male come si aspettavano un

po' tutti.

Hanno giocato in suo favore l'ottima reputazione come ranger e anche come

capo indiano, perché i Navajo sono tranquilli da molto tempo e hanno ottimi

rapporti con i bianchi.

E il merito, lo riconoscono tutti, è solo di Tex Willer.

Il senatore Garner invece, era altresì noto a tutti, era un arrogante attaccabri-

ghe del tipo "lei non sa chi sono io".

Perciò la storiella di Tex è stata subito creduta da tutti quanti, anche dal go-

vernatore del New Messico, preoccupato in verità solo del fatto che questo "in-

conveniente" possa influire negativamente sulla sua carriera politica.

Insomma nessuno sembra piangere l'immatura dipartita del "povero" senatore,

che in fondo se l'è cercata.

Già, quella di pensare di far fuori Tex Willer per fregargli il cavallo non è stata

certamente una buona idea.

Fregargli il cavallo?

Ma che diavolo ha raccontato Tex?

Che dannata storia ha raccontato?

Semplice.

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L'ultimo duello di Tex State a sentire e poi ditemi se non ci credete.

Beh, se non ci crederete è solo perché voi sapete già come sono andate le co-

se.

Tex se ne andava tranquillamente per i fatti suoi, quando non t'incontra un po'

uno sconosciuto che stava camminando per la prateria stanco e assetato?

Che diavolo ci fa da queste parti questo pellegrino a piedi? si chiede Tex.

Andiamo a prestargli soccorso perché ne ha certamente bisogno.

Come Tex aveva già intuito, lo sconosciuto aveva dovuto abbattere il cavallo

perché si era azzoppato molte miglia più indietro.

Vieni, gli dice quindi Tex, chissà come sei stanco e assetato.

Bevi un po' dalla mia borraccia.

Naturalmente la generosità di Tex gli impone di aiutare lo sventurato e lo fa

salire quindi sul suo cavallo.

Mentre tornano indietro dirigendosi verso Albuquerque, che è la città più vici-

na, il cavallo, poveraccio, non ce la fa più a reggere il peso di due uomini.

Allora Tex, dopo essersi fermato un po' per far riposare l'animale, decide di ri-

partire a piedi, mentre lo sconosciuto prosegue a cavallo.

Avrebbero poi cavalcato a turno.

Ma questo sventurato, quando arrivò il suo turno di andare a piedi, deve aver

pensato che in due non ce l'avrebbero mai fatta ad arrivare in città.

Da solo avrebbe avuto più probabilità di sopravvivere.

E poi credo che non avesse la benché minima intenzione di andare ancora a

piedi.

Non ce la faceva proprio più.

E allora cosa va a pensare?

Una bella pallottola e il problema è risolto.

Solo che non ha pensato che il sesto senso di Tex, e anche il quinto per la veri-

tà, gli avrebbe giocato un tiro mancino.

Tex infatti ha sentito il rumore metallico del cane della pistola che si stava ar-

mando e ha evitato per un soffio la pallottola sparata contro di lui, che gli ha

comunque causato una ferita, ancorché leggera, al braccio.

E indovinate un po' qual è stata la reazione di Tex?

Facile no?

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Letizia Mentre si gettava a terra per evitare le successive pallottole, prima ancora di

cadere al suolo aveva già sparato due colpi.

E, lo sanno tutti, Tex non sbaglia mai un colpo.

Risultato?

Un nuovo cliente per belzebù.

Avete visto che ci credete anche voi?

Insomma, finalmente un po' di fortuna per il nostro eroe.

Fortuna?

Credete davvero?

Vi siete forse dimenticati di Steve Garner?

Indovinate la reazione di Steve Garner quando fu informato della prematura

dipartita del fratello.

Beh, ci siete andati vicino.

La sua reazione fu molto più violenta.

In realtà non è che gli importasse poi molto del fratello.

Sapeva benissimo che era un deficiente buono a nulla e più di una volta aveva

dovuto tirarlo fuori dai pasticci in cui si era cacciato.

Ma era pur sempre suo fratello.

E soprattutto era un validissimo aggancio al senato.

Il suo primo pensiero è stato quello di cercare qualche sicario che facesse fuori

l'assassino di suo fratello.

Ma la fama di Tex Willer era giunta anche a Washington e non era riuscito a

trovare neanche un cane disposto a rischiare la pelle per andare ad ammazzare

un tipo così pericoloso.

Si era persino rivolto all'agenzia Pinkerton, non in via ufficiale naturalmente,

ma era riuscito soltanto a farsi dare il nome di qualche persona senza troppi

scrupoli che però, una volta contattata, aveva gentilmente reclinato la genero-

sa offerta.

Non c'è denaro che valga la propria pelle.

Era stata praticamente la risposta di tutti.

E così alla fine si è rivolto al suo avvocato.

«Hai capito cosa devi fare, Peter?»

«Sì, Steve. Non preoccuparti. Parto oggi stesso per Albuquerque.»

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L'ultimo duello di Tex «Bene. Informati bene su come si sono svolti i fatti e regolati di conseguenza.

Voglio quel Willer appeso a un cappio. Se c'è bisogno paga dei testimoni, falsi-

fica le prove, trova un qualsiasi cavillo che inchiodi quel bastardo. Non mi inte-

ressa quello che farai e come lo farai.»

«Stai tranquillo. Quel tizio ha già un piede nella fossa.»

«Non gli hanno neanche fatto un processo a quel maledetto. Ha agito per legit-

tima difesa, dicono. Ed è sicuramente vero. Il governatore del New Messico mi

ha avvertito per telegrafo di quello che è successo. Quel Willer è stato un ran-

ger del Texas e non aveva certo dei motivi per uccidere quel cretino di mio fra-

tello. Ernest non è stato capace neanche di sparargli alle spalle. L'ha solo feri-

to.»

«Sì, lo so. Ho letto anch'io dell'accaduto. E' su tutti i giornali.»

«Comunque, la legittima difesa deve essere smentita. E tu devi provarlo. So

che non ti sarà facile. Ma non c'è nessuno migliore di te che sappia imbrogliare

le carte. Nessuno meglio di te sa far assolvere un colpevole o condannare un

innocente.»

«La verità è solo quella che si può dimostrare. E io posso dimostrare quello che

mi pare.»

«Dovrai agire con prudenza e astuzia però. Willer è stato un uomo di legge ed

Ernest, anche se era un senatore, era un borioso attaccabrighe. Lo sanno tutti

purtroppo.»

«Ti ripeto di stare tranquillo. So quello che devo fare.»

«Bene, Peter. Tienimi costantemente aggiornato. E usa il solito codice per co-

municare con me. Non vorrei che qualche solerte impiegato dell'ufficio telegra-

fico ci rompesse le uova nel paniere.»

«Ok, Steve. A risentirci presto.»

«Ciao, Peter.»

«Cosa? Temo di non aver capito bene.»

«Hai capito benissimo, Tex.»

«Ma non è possibile.»

«Eppure è proprio così, purtroppo.»

«Ma io a Washington non c'ero nemmeno. Non è leggermente illegale la cosa?

E poi la testimonianza… Ma andiamo. Ma chi l'ha avuta questa bella idea?»

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Letizia «Non lo so. Ma l'hanno certo pensata bene. Ci hanno giocato un bel tiro. La te-

stimonianza sarebbe nientemeno che di Ben Colter. E noi non possiamo nean-

che dire che è falsa e che Colter è morto. Rischiamo di far venire a galla tutta

la nostra messinscena.»

«Ma come diavolo hanno fatto?»

«Hanno una dichiarazione firmata. Dicono che Colter ha firmato e poi è sparito

perché temeva per la sua vita. Temeva che tu l'accoppassi. Ironia della sorte.

Più morto di così…»

«Insomma, hanno fatto il processo senza l'accusato.»

«E' perfettamente legale. Ti hanno anche assegnato un avvocato d'ufficio

che…»

«Che si è rimesso alla clemenza della corte.»

«Probabile che sia andata proprio così.»

«E cosa direbbe questa… diciamo testimonianza, Kit?»

«Dice che tu hai incontrato il senatore e Colter che erano rimasti con un caval-

lo solo. Tu in un primo momento li hai aiutati. Ma poi, vedendo che in tre con

due cavalli e con poca acqua non ce l'avreste mai fatta, hai cercato di abban-

donarli. Il senatore ha protestato e tu l'hai fatto fuori. E Colter, prima di fuggi-

re con il suo cavallo, ti ha ferito con un colpo di pistola. Tu hai cercato di ucci-

dere anche lui, ma è riuscito a filarsela.»

«Bella favoletta.»

«Ma ci hanno creduto. E hanno sfruttato l'arroganza del senatore Garner per

avvalorare un tuo gesto così insensato. Ti avrebbe offeso a morte. Hanno per-

sino avuto il coraggio di tirare in ballo la memoria della tua povera Lilyth. E

questo ti avrebbe reso furioso fino al punto di uccidere.»

«Maledetti sciacalli.»

«Senti, Tex. Faremo ricorso in appello. Chiederemo una revisione del processo.

Andremo a Washington. Parleremo con Donehogawa. Ci rivolgeremo anche ai

Pinkerton.»

«No, Kit. A Washington ci andrete tu e Lois. Per me è troppo pericoloso. C'è un

mandato di cattura per me. Vivo o morto. Dovrei consegnarmi. Invece devo

essere a piede libero. Devo verificare un po' di cosette.»

«Ma, tizzone d'inferno che non sei altro. Avrai alle calcagna tutti gli sceriffi fe-

derali e i cacciatori di taglia degli States. Non peggiorare le cose.» 612

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L'ultimo duello di Tex «Cacciatori di taglia? Non credo proprio che ci siano molti aspiranti suicidi in

circolazione. E per quanto riguarda gli sceriffi federali, cercherai tu di tenerli

buoni per un po'. Il comando dei ranger questo me lo deve.»

«Sì. Credo proprio che ti concederanno qualche giorno. Il comando sa che ti

devono aver giocato un brutto tiro e che tu non puoi aver commesso un delitto

così stupido.»

«Benissimo. Ma c'è una variante nel piano. Io andrò a Washington da sola.

Carson invece rimarrà. Deve fare sbrigare qualche commissione per me.»

Tex e Carson guardano Lois stupiti.

«Che avete da guardare voi due?»

«Niente da fare, colonnello Carson. E' roba troppo vecchia.»

«Dannazione, maggiore. Nell'esercito non buttate via mai niente e adesso mi

venite a dire che non trovate neanche uno straccio di documento che riguardi

quella guida?»

«Colonnello, gli unici documenti che quel Colter possa aver firmato sono gli e-

lenchi che contenevano i compensi di tutte le guide. E molti portavano solo una

croce come firma per ricevuta. Sapete, le guide non erano certo uscite da West

Point.»

«Beh, sembra che non abbiate neanche quelli, però.»

«Tutti i documenti relativi alla contabilità li mandiamo una volta all'anno al no-

stro comando generale.»

«E' la stessa musica che mi ha cantato il comandante del forte dove prestava

servizio Colter. Dovevate averli voi, qui a Houston, quei benedetti elenchi. Non

avevano neanche il documento del congedo né qualsiasi altro stramaledetto

foglio che attestasse la sua presenza al forte. Tutti si ricordavano di lui, ma uf-

ficialmente non risulta da nessuna parte.»

«Dovete aver pazienza, colonnello. I comandanti dei forti all'Ovest non sono

troppo formali e hanno ben ragione di esserlo. Molte volte non li riforniamo ne-

anche di quello di cui hanno immediato bisogno. Si devono arrangiare da soli.

E hanno territori immensi da controllare.»

«Va bene. Grazie lo stesso, maggiore.»

«Se posso esservi utile per qualsiasi altra cosa, sono a vostra completa dispo-

sizione, colonnello Carson.»

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Letizia Carson saluta il maggiore e lascia il comando.

"Non c'era neanche uno straccio di colonnello a comandare questo distretto. E

pare che il maggiore sia molto contento della situazione. Spera di essere pro-

mosso. Ma intanto è già una settimana che giro e non ho che un pugno di mo-

sche in mano."

Si reca all'ufficio telegrafico e prepara due messaggi, uno per Tex che è rima-

sto ad Albuquerque e uno per Lois che si trova a Washington già da un paio di

giorni.

"Meno male che Tex ha avuto un po' di respiro e che il nuovo sceriffo è un

brav'uomo e che non è così stupido da mettere in atto il mandato di cattura

che pende sulla testa del mio pard. Vivo o morto. Cinquantamila dollari. Il fra-

tello del senatore ha fatto le cose in grande. Ha messo lui il denaro per la ri-

compensa. Che gli venga un accidente."

Nel giro di tre ore Lois si vede recapitato il messaggio di Carson.

"Le cose non stanno andando molto bene, a quanto pare" pensa Lois leggendo

le righe di Carson.

"Ma d'altronde me lo aspettavo. Ho già avuto a che fare più di una volta con i

militari. Sono solo capaci a dare ordini e a trastullarsi nel vedere dei poveri di-

sgraziati scattare sull'attenti sbattendo i tacchi, perdiana. Mai che combinasse-

ro qualcosa di buono. Si passa allora al piano di riserva."

Nei giorni che ha passato a Washington, Lois si è fatta un quadro molto preciso

della situazione.

Gli aiuti che tutti si aspettavano non sono arrivati.

Donehogawa ormai era diventato l'ombra di quello che era una volta.

Si era dato agli affari e aveva perso una fortuna.

E, come succede sempre in questi casi, tutti gli amici che aveva sono scompar-

si come neve al sole.

Quasi quasi, invece di prestare aiuto a Tex, era proprio lui che aveva bisogno

dell'aiuto altrui.

L'agenzia Pinkerton, poi…

Dopo la morte di Allan Pinkerton che è stato un grande amico di Tex, l'agenzia

ha un unico interesse.

Far quattrini.

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L'ultimo duello di Tex E, anche se a Tex il denaro non manca, avere anche il minimo rapporto con un

"assassino" ricercato vivo o morto non avrebbe certo giovato al buon nome

dell'agenzia.

E, quel che è peggio, Steve Garner sta facendo pressioni affinché l'esercito si

occupi dell'arresto di Tex.

Vivo o morto.

«Generale Davis, maledizione. Non puoi aspettare ancora qualche giorno?»

«Mi dispiace, Carson. Abbiamo aspettato anche troppo. Ci stanno facendo delle

pressioni da Washington e io non ci posso fare niente, purtroppo.»

«Ma non capisci? E' il fratello di quel pallone gonfiato di un senatore che vuol

vedere Tex appeso a una corda.»

«Lo so, Carson. Ma questo non cambia niente. Tex ha pur ucciso un senatore,

dannazione. D'accordo, il senatore era un pallone gonfiato e un idiota e proba-

bilmente Tex aveva delle buone ragioni per farlo fuori. Ma era pur sempre un

senatore degli Stati Uniti. E ora sono in molti a Washington a volere la pelle di

Tex.»

«Davis, maledizione. In nome della nostra vecchia amicizia e di tutte le casta-

gne che ti abbiamo tolto dal fuoco. Dammi ancora un paio di giorni. Lois sta

raccogliendo delle prove che dimostrano l'innocenza di Tex. Steve Garner ha

falsificato la firma del testimone, una guida di nome Ben Colter. Abbiamo un

documento con la sua firma per ricevuta delle competenze che gli ha liquidato

l'esercito. Questa firma è completamente diversa da quella posta sulla dichia-

razione presentata da Garner in tribunale. Colter non era presente quando il

senatore ha tentato di uccidere Tex.»

«Benissimo. Se Tex è innocente, sarò il primo a esserne contento.»

«Generale, se Tex viene arrestato, sarà appeso per il collo prima che Lois pos-

sa presentare ricorso.»

«Spiacente, Carson. Ho le mani legate.»

«Bene. Almeno permetti che sia io ad arrestare Tex. Se prendo il primo treno,

stasera sarò ad Albuquerque. Tieni fermi i tuoi mastini fino a questa sera.»

«Questo lo posso fare. Manderò subito un messaggio. Qui al quartier generale

abbiamo il nostro ufficio telegrafico. Ma se credi che Tex si faccia arrestare, sei

un ingenuo, Carson. Anche se sarai tu a mettergli le manette. Dovrete mettere

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Letizia le mani alle colt. Una cosa che non vorrei vedere nemmeno per tutto l'oro del

mondo.»

«Spero di non arrivare a tanto. Posso usare anch'io il vostro telegrafo? Devo

sentire da Lois se ci sono novità.»

«Ma hai detto che partirai subito. Non posso concederti il tempo che dovresti

aspettare per la risposta.»

«Mi farò mandare la risposta all'ufficio telegrafico di Albuquerque. Scommetto

che arriverà prima di me.»

«Bene. Allora buona fortuna, Carson.»

«Grazie, generale. Penso proprio di averne bisogno.»

Nel pomeriggio Carson arriva ad Albuquerque.

Come aveva previsto, all'ufficio telegrafico c'è già la risposta di Lois.

Non ci sono buone notizie, purtroppo.

Ci vorrà del tempo prima che venga deciso se ci sono gli estremi per un appel-

lo.

E Carson non ha tempo.

Sbriga un paio di faccende e poi si dirige sulla main street.

Controlla con cura le sue colt.

E' quasi sera.

Tex avanza pigramente per la main street ancora affollata.

Il sole rosso sta scomparendo pian piano sull'orizzonte.

E non è la sola cosa rossa quella sera.

C'è una macchia rossa sull'elegante panciotto di pelle di Tex.

Carson si china su di lui e una lacrima scende sulla sua guancia.

Il medico di Albuquerque arriva immediatamente per prestare soccorso, ma si

accorge subito che la sua opera non è più necessaria.

Nel giro di pochi minuti si fa vivo anche il medico dell'esercito.

Sciacalli.

Si vogliono accertare che Tex sia morto veramente e che non si tratta di una

messinscena per evitargli la forca.

Ha portato con sé anche lo stetoscopio per essere più sicuro.

Vuole accertarsi che sia assente anche la più flebile attività cardiaca.

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L'ultimo duello di Tex Sa che esistono delle droghe che rallentano il battito del cuore fino a pochissi-

me pulsazioni al minuto.

Quando l'ufficiale medico ha terminato i suoi accertamenti, Carson prende il

corpo del suo amico tra le braccia e lo porta nell'ufficio dello sceriffo.

Al suo passaggio, gli uomini di Albuquerque si tolgono il cappello e chinano il

capo e le donne si fanno il segno della croce.

Tex era molto amato dai suoi concittadini.

«A che ora parte il prossimo treno per Gallup, sceriffo?»

«Vuole portare il corpo alla riserva navajo, signor Carson?»

«Sì. Ormai è l'unica cosa che posso fare per lui. Dargli una degna sepoltura

nella terra che ha tanto amato, in mezzo alla "sua" gente.»

«Vado subito in stazione a informarmi, signor Carson. Vuole che passi anche

dal signor Morrison? Gli preparerà…»

«No grazie, sceriffo. Passerò io dal becchino. Devo andare anche all'ufficio te-

legrafico. Devo avvisare la signora Connery e lo sceriffo di Gallup perché faccia

arrivare la notizia alla riserva.»

«La povera signora Connery. Ha già sofferto tanto. Non si merita anche questo

dolore.»

«Già.»

Il giorno seguente, in tarda mattinata, Carson arriva a Gallup.

Kit non è ancora arrivato.

E' troppo presto.

Anche se è stato avvisato con segnali di fumo, non potrebbe essere a Gallup

prima di domani.

Ci sono però alcuni suoi Navajo.

Tutti quelli che erano in città sono stati informati dell'arrivo della salma di A-

quila della notte.

Hanno già preparato un carro e un buon mustang per Capelli d'Argento.

Se partono subito, incontreranno sicuramente Falco Nero al villaggio di Orso

Macchiato.

E' quasi mezzogiorno.

Carson sente un certo languorino, ma non ha tempo né voglia di andare a ban-

chettare.

Però passa da mamma Rose. 617

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Letizia Ha sicuramente qualcosa di pronto da portarsi via.

Dopo aver fatto abbondante scorta di vivande, parte verso il villaggio di Orso

Macchiato.

Poche miglia dopo, i Navajo che lo accompagnano si fermano per fare segnali

di fumo.

Saranno ripetuti da tutti i Navajo che sono nei paraggi.

Ma non ce ne sarà bisogno perché arrivano subito segnali di risposta.

Il grande sachem Falco Nero incontrerà presto Capelli d'Argento.

Quando è giunta notizia della morte di Aquila della Notte, egli si trovava insie-

me alla sua regina Luna d'Argento al villaggio del capo Orso Macchiato.

E infatti Carson, poco più di mezz'ora dopo, vede una nuvola di polvere all'oriz-

zonte.

Una decina di giorni più tardi, a Washington nell'ufficio dell'esimio signor Gar-

ner c'è aria di tempesta.

«Come sarebbe a dire che non è una cosa semplice?»

«Signor Garner, spegnere un incendio in un pozzo petrolifero non è una cosa

semplice. Quando poi i pozzi sono quattro…»

«Non mi interessa quanto sia difficile, Mulligan. Tu sei il migliore in questo

campo. E' per questo che ho scelto te.»

«E' vero, signor Garner. Ma i pozzi di Beaumont sono tra i più grandi che ho vi-

sto. Li ho visitati di recente. Ma come diavolo è potuto succedere? Quattro poz-

zi su cinque, non può essere un caso.»

«Mi hanno riferito che le condizioni atmosferiche erano pessime quel giorno.

C'era un vento fortissimo. Una scintilla chissà come ha incendiato un pozzo e il

vento ha fatto il resto. Il quinto pozzo non è vicino agli altri. E' per questo che

le fiamme non sono arrivate anche lì. Ma non stiamo a perder tempo con le

cause. Quanto ci vorrà per riprendere le trivellazioni?»

«Mah, non lo so. Anche partendo subito, non sarò sul posto prima di domani

sera. Spero di riuscire a far tutto in una settimana.»

«Una settimana? Ma sei matto? Ma lo sai quante migliaia di dollari perdo ogni

giorno? Hai due giorni di tempo.»

«Ma non so se…»

«Niente ma e niente se. Due giorni. E ci sarà una bella ricompensa per te.»

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L'ultimo duello di Tex «E va bene, signor Garner. Farò l'impossibile.»

«Ecco bravo. L'impossibile. E ora va'. Non perdere tempo. E tienimi informa-

to.»

«Va bene, signor Garner. Arrivederci.»

Garner rimane solo nel suo ufficio.

Sta esaminando alcuni documenti soltanto da pochi minuti quando sente bus-

sare alla porta.

«E adesso cosa c'è?»

Burton, il suo capo contabile, entra timidamente nella stanza.

«E' arrivato un dispaccio per voi, signor Garner.»

«Un dispaccio? Fammi vedere.»

Lo apre e inizia a leggerlo.

Impallidisce.

«Maledizione.»

«Cattive notizie, signore?»

«Cattive? Pessime, dannazione, pessime. La miniera di carbone di Monongah.

Un'esplosione. La miniera rimarrà chiusa almeno per un mese.»

«Ci sono vittime, signore?»

«No. L'esplosione è avvenuta di notte. Ma che vuoi che m'importi se non ci so-

no vittime? La miniera non potrà produrre per un bel po' e io perderò un sacco

di soldi.»

«Non credete, signore, che questi due incidenti abbiano qualcosa a che fare

con quel Tex Willer?»

«Non dire idiozie, Jedediah. Tex Willer è morto. E poi l'esplosione è stata cau-

sata da una sacca di gas. Purtroppo sono cose che succedono.»

«Non dico lui direttamente, signor Garner, ma i suoi amici. Può essere una

vendetta. E poi le esplosioni in miniera di solito succedono di giorno. La scintil-

la che provoca un'esplosione non si produce da sola di notte, ma di giorno,

quando ci sono gli operai che lavorano.»

«Non può trattarsi di vendetta. Willer è stato ucciso dal suo miglior amico.»

«E' vero, signore. Ma il signor Carson l'ha fatto solo per evitare la forca al suo

amico e per evitare delle vittime innocenti. Il signor Willer non si sarebbe mai

arreso e molti sarebbero rimasti uccisi. Può essere che gli amici di Willer vi ri-

tengano responsabile di tutto quello che è successo.» 619

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Letizia «Gli amici di Willer sono degli indiani pezzenti. Non possono aver architettato

tutto.»

«Non sottovalutate i Navajo, signor Garner. Il loro capo è il figlio di Tex Willer

ed è una persona molto in gamba e molto istruita. Per non parlare poi del fa-

moso ranger Kit Carson. Credo proprio che loro due siano in grado di architet-

tare un piano per rovinarvi.»

«Adesso vai e non farmi perdere altro tempo.»

«Sì, signore. Buon giorno, signore.»

Il contabile esce lasciando Garner immerso nei suoi pensieri.

"Uhm. Quell'imbecille di Jedediah potrebbe aver ragione. Credo che mi consul-

terò con Peter. Lo manderò di nuovo nel New Messico a indagare. Se scopro

che quei pezzenti hanno qualcosa a che fare con questi due incidenti, gliela fa-

rò pagare cara. Giuro che li farò pentire di essere nati. Li farò sprofondare in

quell'inferno dove il loro caro amico Willer li ha preceduti."

«Stammi bene a sentire. Io ho ricevuto ordini precisi. Devo scaricare tutto il

bestiame e portarlo a Kansas City e da lì prendere la ferrovia per il Messico.»

«Stammi a sentire tu, nonno. Anch'io ho ordini precisi e questi convogli prose-

guiranno verso Washington.»

«Tuo nonno un corno. Vuoi fare di testa tua? Benissimo. A me serve solo che

mi firmi un pezzo di carta nel quale dichiari che ti sei rifiutato di consegnarmi il

bestiame.»

«Io non ti firmo un bel niente, nonno. Io non ti conosco e non ti consegno ne-

anche una di queste maledette vacche.»

«Non vuoi firmare? Bene. Vado a chiamare lo sceriffo. Mi servirà un testimone

attendibile. Quando andrò dal signor Garner, avrò bisogno di una scusa molto

buona che giustifichi il fatto che non ho potuto obbedire ai suoi ordini. Sai, se

Garner toglierà la pelle di dosso a qualcuno, quel qualcuno non sarò certo io. E

se continui a chiamarmi nonno ti infilo il mio winchester in bocca e ti apro un

buco in testa per vedere se c'è del cervello dentro.»

«Uhm. Fammi vedere un po' quei fogli.»

«Tieni, dannato testone. Mi dispiace solo di essermi sciroppato un sacco di mi-

glia per arrivare qui ad Omaha. E adesso ne dovrò fare altrettante per tornare

a Washington dal signor Garner. A proposito, hai moglie e figli?»

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L'ultimo duello di Tex «Sì. Ma questo cosa c'entra?»

«Sai, era meglio se non avevi nessuno al mondo. Steve Garner non sarà certo

troppo tenero con te. Gli stai facendo perdere un sacco di dollari.»

«Uhm. Ma perché vuole portare le sue bestie al Messico? Erano destinati al

mercato di carne di tutta la costa orientale.»

«E che ne so? Sui documenti c'è scritto che è per una permuta. Non so nean-

che cosa vuol dire.»

«Ignorante che non sei altro. Significa che devi scambiare il bestiame.»

«Infatti al Messico mi devono consegnare altri capi di bestiame che devo ripor-

tare qui. Da qui poi le riprenderai in consegna tu per portarle a Washington. E

a quanto mi ha detto a voce il signor Garner, sono quasi il doppio.»

«Il doppio? Ti serviranno più dei miei tre convogli.»

«Sono affari tuoi. Sei tu che dovrai portarli all'Est. Il mio lavoro inizia qui e fini-

sce qui ad Omaha.»

«Ma chi mi garantisce che…»

«Senti, zuccone. Qui ci sono fior di documenti. La carta è quella del signor

Garner e la firma in fondo è la sua. La riconosci? E poi, se non ti fidi neanche di

quello, telegrafa al capo a Washington. Tutto il tempo che mi farai perdere

Garner te lo metterà in conto. Lo sai che per lui il tempo è denaro. Deciditi e

poi aiutami a far scendere dai vagoni queste maledette vacche.»

«Va bene, nonno. Farò come dici. Ma tu mi firmerai una bella ricevuta.»

«Ho già tutto pronto. Il capo è molto organizzato, lo sai? E poi ti perdono per

avermi chiamato ancora nonno. Ma è l'ultima volta. Non ti posso ammazzare

perché al mio ritorno avrai un bel po' di vacche da schiaffare sui tuoi stramale-

detti treni. Ma è un lavoro che potrai fare anche se ti ammacco un po'.»

«Uhm. Avrai bisogno di un bel numero di cowboy per portare il bestiame a

Kansas City. Quanti uomini hai?»

«Solo un paio di uomini fidati. Gli altri li troverò qui.»

«E allora datti da fare. A me serve una mano qui.»

«Niente d fare, bello mio. I mie uomini sono cowboy e non ferrovieri. Non si in-

tendono di treni. E poi li voglio belli freschi. Dovremo sudare parecchio con tut-

te queste bestie.»

«Va' al diavolo…»

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Letizia «Attento, bello. Puoi mandarmi al diavolo quanto vuoi, ma se mi chiami ancora

nonno…»

«Impiccati.»

Un paio d'ore dopo il "nonno", con l'aiuto di una dozzina di cowboy tutti raccat-

tati nei saloon della città, si sta dirigendo verso sud in mezzo a una marea di

bestie mugghianti.

Una cinquantina di miglia più tardi, un altro cowboy raggiunge la mandria.

«E tu che ci fai qui? Non dovevi raggiungermi più tardi nel luogo convenuto?

Se quel tipo telegrafa davvero a quel brav'uomo di Garner per noi saranno

guai.»

«Niente paura, "nonno". Quello non se lo sogna nemmeno. Starà lontano

dall'ufficio telegrafico come se ci fosse dentro la peste.»

«E tu come lo sai? E non ti ci mettere anche tu a chiamarmi nonno o ti prendo

a sculaccioni. Avrei dovuto farlo quando eri piccolo.»

«Gli ho offerto qualche bicchierino al saloon e l'ho fatto chiacchierare un po'.

Gli hai messo addosso un po' di strizza. Ha paura che, se va a rompere le sca-

tole al grande capo, perderà il posto di lavoro. Sai, ha moglie e figli.»

«Il lavoro lo perderà di sicuro. Quando Garner scoprirà lo scherzetto che gli

abbiamo combinato, passerà dei brutti guai.»

«Beh, meglio che cominci subito a cercarsi un nuovo lavoro. Tanto quando a-

vremo finito lo perderà comunque.»

«Tutto merito del nostro avvocato.»

«Ma non è tutto merito suo, non credi, "nonnino"?»

«Eh, i ragazzi d'oggi. Non hanno più rispetto per…»

«… per le persone anziane.»

«Ragazzaccio.»

«Diamoci da fare ora. Dobbiamo portare la mandria ad Abilene.»

«Sei proprio deciso ad andare fin là? E' una faticaccia.»

«Abilene è il più grosso centro di raccolta di bestiame che ci sia. Nessuno farà

caso a noi, specialmente se divideremo la mandria in tanti piccoli gruppi che

arriveranno alla spicciolata.»

«Avremo bisogno di un sacco di persone. Sei sicuro di farcela?»

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L'ultimo duello di Tex «Certo. Gli amici di papà non sono numerosi come i suoi nemici, ma sono co-

munque un bel numero. Hanno risposto tutti. Ci raggiungeranno strada facen-

do.»

«Ci dovremo sbarazzare anche di questi pivelli che abbiamo ingaggiato a Oma-

ha.»

«Tranquillo. Lo faremo prima di arrivare a Kansas City. Li pagheremo e li lasce-

remo andare a sbronzarsi nei tanti saloon della città. Faranno baldoria e credo

che nessuno si preoccuperà se non vedranno arrivare la mandria.»

«Già. Noi piegheremo a sud-ovest.»

«Sbrighiamoci allora. Fra un paio di giorni dobbiamo essere a Washington.»

C'è una gran confusione questa mattina in una delle strade principali di Wa-

shington.

Nessuno, a memoria d'uomo aveva mai assistito a una cosa del genere.

Davanti alla G&G Bank c'è quasi tutta la polizia della città, la squadra antin-

cendi, giornalisti e un numero incredibile di curiosi.

Mentre dall'edificio si levano ancora nuvole di fumo nerastro, il marshall inter-

roga gli impiegati della banca e i clienti che si trovavano all'interno.

«Sembrava una persona tanto perbene. Non avrei mai immaginato che…»

«Va bene, va bene. Me l'avete già detto. Raccontatemi i particolari.»

«Che devo dirvi di più, marshall? Un tipo elegante e distinto con una bella bor-

sa di pelle nera ha chiesto del direttore. Aveva una somma considerevole in

contanti da versare. Ed era vero. La borsa era colma di banconote di grosso

taglio. Chi poteva immaginare che sotto il denaro c'erano dei candelotti di di-

namite?»

«Va bene, va bene. E poi?»

«Poi il direttore ed io lo abbiamo accompagnato alla cassaforte. Sa, per aprirla

ci vogliono due chiavi. Una la tengo io e una ce l'ha il direttore.»

«Va bene, ho capito. Ma non perdiamo tempo con i particolari insignificanti.»

«Ma l'avete chiesto voi, marshall. "Raccontatemi i particolari" avete detto.»

«Ok, l'ho detto. Andiamo avanti.»

«Quando abbiamo aperto la cassaforte, il distinto signore ha aperto la borsa di

pelle nera e ne ha tirato fuori una decina di candelotti legati tra loro con lo

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Letizia

spago. Prima che il direttore ed io ci riprendessimo dalla sorpresa, quel matto

ha acceso la miccia con il suo sigaro. Sa, fumava un costoso sigaro che…»

«Ma cosa volete che m'importi del sigaro. Continuate.»

«Si certo. Mentre la miccia bruciava velocemente, il signore ci ha detto: "La

miccia dura molto poco. Avete trenta secondi di tempo per sloggiare prima che

la dinamite esploda". Sì, ha detto proprio così. Sloggiare. Che volgare.»

«Un vero cafone, insomma.»

«Certo, marshall. Un vero…»

«Oh insomma, basta. Limitatevi ai fatti e non alle vostre personali considera-

zioni.»

«Sì, certo. Naturalmente siamo scappati come due fulmini e abbiamo dato l'al-

larme anche agli altri impiegati e ai clienti. Non potevamo certo lasciarli in ba-

lia di quel pazzo.»

«Certo che no. Naturalmente» ribadisce il marshall con un velo di ironia.

«E poi?»

«Poi abbiamo sentito un gran botto. E abbiamo visto il dinamitardo che usciva

dalla banca con la borsa piena di denaro. Era talmente piena che non si poteva

nemmeno chiudere e si vedevano delle banconote che fuoriuscivano. Si è al-

lontanato con calma, come se non avesse paura di essere fermato o seguito.

Un paio di miei colleghi più giovani hanno tentato di fermarlo. Io sono troppo

vecchio e pieno di dolori per farlo. Ma l'unico risultato è stato quello di beccarsi

due tremende sventole.»

«Sì, sì. Li ho visti. Il dottore li sta ancora medicando. Ma questo tipo, che a-

spetto aveva?»

«Beh, non doveva essere molto giovane. Sicuramente ha più di quarant'anni.

Pizzetto e baffi grigi, ben curati. E un paio di occhialini rotondi sul naso. Un

abito gessato grigio molto elegante con panciotto e un soprabito nero.»

«Aveva armi con sé? A parte la dinamite. Aveva il cinturone con la pistola?»

«Oh no, marshall. Era disarmato. Un signore così distinto. Chi poteva immagi-

nare che fosse un rapinatore dinamitardo?»

Non fa tempo a finire la frase che si sente un forte rumore in lontananza.

«E ora che diavolo succede?»

«Marshall, guardate. C'è del fumo che si leva laggiù, in direzione di Cardozo.»

«Umh. Non vorrei che sia un'altra rapina.» 624

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L'ultimo duello di Tex «Oh mamma mia. C'è un'altra filiale della G&G da quelle parti.»

«Mike. Gary. Andate a vedere cosa diavolo è successo e venite a riferire imme-

diatamente.»

«Sì, marshall.»

«Ecco il signor Garner, marshall.»

«Che diavolo è successo? La mia banca. E' semidistrutta, dannazione. Quanto

hanno rubato? A quanto ammontano i danni? Chi sono i maledetti responsabili

di tutto questo? Li avete presi?»

«Calmatevi, signor Garner.»

«Calmarmi un accidenti. Chi ha osato tanto me la pagherà cara. Allora? Qual-

cuno vuol degnarsi di rispondermi?»

«Signor Garner, non sappiamo ancora quanto hanno rubato e quali danni abbia

subito la banca. Non è ancora entrato nessuno. Le fiamme fino a poco fa erano

ancora troppo alte. Il rapinatore era uno solo. Si è dileguato tra la gente ed è

scomparso.»

«Cosa? Volete dire che un solo uomo ha combinato tutto questo macello?»

«E' così, signor Garner. Ma per fortuna nessuno si è fatto male. Sono tutti sani

e salvi. Solo due suoi impiegati sono un po' malconci. Hanno tentato di fermare

il rapinatore.»

«Cosa volete che m'importi di loro? La mia banca è distrutta. Ho perso centi-

naia di migliaia di dollari.»

«Marshall, marshall.»

«Cosa c'è, Mike?»

«Quel gran botto di poco fa. La G&G Bank. La filiale di Cardozo.»

«Ebbene?»

La voce di Garner risuona tonante.

«E' saltata in aria, proprio come questa.»

«Cosa?»

La voce di Garner si sovrappone a quella del marshall.

«Vuoi dire che hanno rapinato anche la filiale di Cardozo della G&G? E chi è

stato? Non dirmi che è stato un uomo solo e che era un tipo anziano con barba

e baffi grigi.»

«No, marshall. E' stato un uomo molto giovane.»

«Signor Garner, signor Garner.» 625

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Letizia «Che c'è adesso? Cosa c'è ancora?»

«I treni con il bestiame che dovevano arrivare questa mattina.»

«Sì. E allora?»

«Non sono arrivati, signor Garner.»

«Come sarebbe a dire "non sono arrivati". Non sono ancora arrivati, vorrai di-

re. I treni hanno avuto qualche ritardo?»

«No, no, signore. I treni sono fermi a Omaha.»

«Sono fermi a Omaha? E perché non sono ripartiti per Washington?»

«Sembra per ordine vostro, signor Garner.»

«Per ordine mio? Ma sei impazzito?»

«Quando non hanno visto arrivare i treni, i suoi impiegati hanno mandato di-

spacci a tutte le stazioni del tragitto. A Omaha le bestie sono state fatte scen-

dere. Le hanno portate a sud. Sembra in Messico.»

«Cosa?»

«Sì, signor Garner. I suoi ordini parlavano di una permuta. Le bestie sono state

portate in Messico per essere cambiate con una mandria più numerosa.»

«Che idiozia. E poi io non ho dato nessuno stramaledetto ordine. E dove sareb-

bero ora le mie vacche?»

«Non lo sappiamo, signor Garner. A Kansas City dovevano prendere dei convo-

gli per il sud. Ma nessuno le ha mai viste arrivare. Abbiamo mandato dispacci

un po' dappertutto. Sono letteralmente sparite.»

«Cosa?»

Ad Abilene c'è aria di "fiesta".

Negli ultimi giorni sono arrivate parecchie mandrie e i numerosi cowboy stanno

tutti facendo bisboccia nei saloon della città.

A festeggiare ci sono anche molti strani tipi.

«Brutta razza gli irlandesi.»

«Chi osa parlare male… Ehi, vecchio trapper. Ci sei anche tu?»

«Certo che ci sono anch'io. Quanti guai sei riuscito a combinare oggi?»

«Guai? E quando mai ho combinato qualche guaio?»

«Quando? Fai prima a chiedermi quando non ne combini. Non dirmi che sei ve-

nuto anche tu con una mandria.»

«Certo. Come tutti.»

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L'ultimo duello di Tex «Poveraccio il tuo cavallo. Devi averlo sfiancato.»

«Hai un bel coraggio, trippone d'un meticcio. Per reggere te ce ne vogliono due

di cavalli.»

I due erculei amici ridono fragorosamente.

«Ero sicuro che voi due non potevate mancare, montagne di lardo.»

«Toh, c'è anche il nostro colonnello. Ma lo sai che senza divisa non ti avevo ri-

conosciuto?»

«Già, è vero, colonnello. Senza divisa sembri quasi una persona normale.»

«A quanto pare, oggi ad Abilene c'è tutto il Canada.»

«Tiger, vecchio mio. Che piacere rivederti.»

«Ciao, francese.»

«Il nostro vecchio Tiger. Sì, è proprio un piacere rivederti. Anche se le circo-

stanze non sono proprio le migliori.»

«Si, colonnello. Abbiamo passato momenti migliori.»

«Vieni qui, Tiger. Lasciati abbracciare.»

«Buono, buono, irlandese. Mi vuoi stritolare?»

«Venite, vi presento agli altri.»

«Chi è venuto, oltre noi, Tiger?»

«Quei messicani laggiù. Sono rurales in borghese. Il nostro amico è impegnato

a Città del Messico e non può venire. Ma ha mandato qualcuno dei suoi soldati.

Sono persone fedelissime. E tutti conoscevano Tex personalmente.»

«E quel tizio laggiù? Quello vestito di nero che conta le vacche? Ha più l'aria di

un becchino che di un cowboy.»

«E l'uomo di fiducia del nostro studioso messicano. Gli abbiamo fatto fare la

parte dell'avvocato che si occupa delle transazioni d'affari.»

«Si sta dando da fare parecchio, a quanto pare. Il "mago" non è venuto?»

«No. E' a Nogales, dove sta studiando un caso curioso di strane rocce meteori-

tiche.»

«Di che?»

«Sassi caduti dal cielo, baudet1.»

«Ehi, voi dovete essere quelli che vengono dalle terre fredde.»

«Sì. E voi? Chi siete?»

1 Baudet, asino, somaro.

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Letizia «Siamo amici che veniamo da Frisco. Siamo più abili con i pugni che con le

vacche, ma abbiamo fatto del nostro meglio.»

«Già, avrei dovuto immaginarlo dai muscoli e dai vostri strani vestiti a righe.

Ma lui mi sembra un po' mingherlino per essere un frequentatore di palestre.»

«Il capitano è il migliore di tutti noi. E non temere, quando c'è da menar le

mani lui non è da meno. Peccato solo che preferisca sempre osservare la leg-

ge. E' un poliziotto, purtroppo.»

«Ma qui non c'è da menar le mani, ragazzi. Il vostro lavoro era quello di fare i

cowboy. E l'avete fatto egregiamente. La faccenda è delicata e non potevamo

fidarci di nessun altro che di voi.»

«Ben detto, Tiger.»

«Ci sei anche tu? Come va, sceriffo? Sempre a caccia di bari?»

«Sceriffo?»

«Sì. A New Orleans. Da quanto ho capito ci sono diversi rappresentanti della

legge qui. Giubbe rosse, rurales, poliziotti, sceriffi. E il bello è che non vedo

neanche un cowboy.»

«Bene, allora. La compagnia pare che sia al completo. Andiamo a raccattare il

Jinx2 e andiamocene a far baldoria nel miglior saloon di Abilene.»

Qualche giorno dopo a Gallup l'avvocato Peter Martin è arrivato non molto

lontano dalla verità.

Immerso nei suoi pensieri, se ne sta tornando nel suo albergo.

"Domattina, appena apre l'ufficio telegrafico, sarà meglio che informi Steve di

quello che ho scoperto. Ormai ne ho la certezza. Gli amici di Willer stanno ar-

chitettando un piano per vendicarsi della sua morte. L'incendio ai pozzi di Be-

aumont e l'esplosione alle miniere di Monongah sono sicuramente opera loro.

Senza contare quello che ho letto sul giornale delle rapine nelle banche G&G.

Non ne ho le prove, ma ci sono abbastanza indizi che mi portano a pensare che

ho ragione. Quelle carogne vogliono vendicarsi del caro Garner che è stato la

causa della morte del loro amico."

Le strade sono quasi deserte.

Il portiere dell'albergo sta sonnecchiando e non si accorge nemmeno dell'arrivo

di Peter. 2 Jinx, iettatore.

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L'ultimo duello di Tex L'avvocato prende la chiave della sua camera e fa per salire.

Poi, vedendo che il portiere continua a dormire saporitamente, fa tintinnare il

campanello sul banco.

«C'è qualche messaggio per me?»

«Come? Ah, no, no. Nessun messaggio, signor Martin.»

«Avvocato Martin, prego.»

«Sì, sì, certo. Mi scusi, signor avvocato.»

"Idiota".

Strano che l'avvocato non glielo abbia detto ad alta voce.

Forse pensava che fosse tanto idiota da non meritare neanche che si sprecasse

il fiato per dirglielo.

La sua stanza è l'ultima in fondo al corridoio del primo e ultimo piano.

Infila la chiave nella serratura e apre la porta.

Si sente afferrare e trascinare violentemente nella stanza ancora immersa nel

buio.

Poi un colpo alla testa e più nulla.

Quando si risveglia, si ritrova legato alle mani e ai piedi, gettato di traverso

sulla sella di un cavallo.

«Che diavolo è successo?»

«Ah, vedo che ti sei svegliato presto. Hai la testa dura a quanto pare.»

«E tu chi sei? Sei tu che mi hai colpito alla testa? Che diavolo vuoi?»

«Ehi, ehi, ehi. Quante domande. Sei scomodo? Preferisci metterti in sella?»

Scende da cavallo e si avvicina al malcapitato avvocato con un coltello.

«Niente paura. Non ho intenzione di prenderti lo scalpo. Non ancora.»

Gli taglia i lacci che gli legavano i piedi e lo tira giù dalla sella.

«Ehi, fai piano.»

«Cosa c'è, mammoletta. Ti sei fatto male?»

«Vai al diavolo. Aiutami a salire in sella.»

«Stai fresco. Hai le mani legate ma i piedi liberi. Reggiti al pomo della sella e

salta su.»

«Tu devi essere Tiger Jack, il Navajo amico di Tex Willer.»

«Sbagliato.»

«E allora chi sei?»

«Non lo indovineresti mai.» 629

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Letizia «Basta con questi giochetti. Chi sei? E cosa vuoi da me?»

«Mi chiamo Ben Colter. Ti dice niente questo nome?»

«Ma… non può essere?»

«E perché? Perché sono un Navajo? Lo sono solo per metà. Mio padre era un

bianco. Non l'ho mai conosciuto. L'hanno ammazzato prima che nascessi. Mia

madre era una Navajo e mi ha cresciuto tra la sua gente.»

«Tu… tu sei Ben Colter?»

«In persona. Ora sai anche cosa voglio da te.»

«E cosa… cosa vuoi?»

«Semplice. Tu sei una miniera d'oro per me. Ti sto portando dai Navajo, dal

grande capo Falco Nero. E' il figlio di Tex Willer. Lo sapevi?»

«Ti pagheranno per avermi?»

«Certo. E non solo per quello. Testimonierò in tribunale che non ho mai firmato

nessuna dichiarazione. Io non c'ero quando quel cretino di senatore ha tirato le

cuoia. Avete falsificato la mia firma. Non credi che i Navajo mi pagheranno be-

ne? Avranno la loro vendetta. Una doppia vendetta. Faranno la pelle a te e ro-

vineranno il tuo padrone.»

«Io ti pagherò di più. Quanto ti danno gli indiani? Io ti darò il doppio. Il tri-

plo…»

«Oh, non credo che tu abbia così tanti soldi. I Navajo stanno vendendo le loro

terre e hanno una montagna di denaro.»

«Ma io vi posso aiutare a distruggere Steve Garner. Falsificare un documento,

anche se per condannare un innocente non è un reato così grave. E Garner a-

vrebbe l'attenuante di aver agito per onorare la memoria del fratello.»

«Storie.»

«E' così, invece. Se la caverebbe con poco. E poi cercherebbe di vendicarsi di

tutti i Navajo. Io conosco tutti gli intrighi suoi e del suo fratello senatore. Roba

che scotta. Se si venisse a sapere, sarebbe la forca per lui.»

«Uhm. La cosa potrebbe anche essere interessante.»

«Lo è, credimi. Ormai ho capito che Garner sta andando a fondo. Io voglio solo

salvare la pelle.»

Senza dire una parola, l'indiano si dirige verso una collina trascinando il cavallo

di Martin per le redini.

Nel giro di cinque minuti, segnali di fumo si levano in cielo. 630

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L'ultimo duello di Tex «Che diavolo stai facendo?»

Senza rispondere, il Navajo apre la bisaccia della sua sella e si avvicina all'av-

vocato con un foglio e una matita.

«Ora scrivi un bel messaggio che rassicuri il tuo padrone. Non c'è nessun com-

plotto ai suoi danni da parte dei pard di Tex Willer. Tutti gli incidenti sono stati

pura fatalità. Cerca di essere convincente e mettici una bella firma.»

«E le rapine alle banche di Garner? Una fatalità anche quelle?»

«E tu che ne sai?»

«I giornali li stampano anche in quel buco di città di Gallup.»

«Ebbene, quelli non li hai letti. Garner non può immaginare che a Gallup siano

così evoluti. Quindi, neanche un accenno.»

«Va bene. Ma tu che intenzioni hai? Quei segnali di fumo…»

«Io tornerò a Gallup a spedire il tuo messaggio per telegrafo. Da solo.»

«Da solo? E io?»

«Tu? Te ne starai bravo per un po' qui, in attesa del mio ritorno. Ho mandato a

chiamare i tuoi carcerieri. Non ci metteranno molto ad arrivare.»

«Tu sei pazzo. I Navajo mi toglieranno la pelle a strisce sottili.»

«Non temere. Non ti verrà torto un capello.»

«No. Non mi fido. Io vengo con te.»

«Non ti fidi, eh? Credi che tutti siano farabutti come te? Quando un Navajo dà

la sua parola, la mantiene anche a costo della propria vita.»

«Ho la tua parola che avrò salva la vita?»

«Sì, se tu manterrai le tue promesse. Ti basta?»

«Sì, mi basta.»

Rimane un attimo in silenzio.

«Tu non sei Ben Colter, vero?»

«No. Io sono Tiger Jack.»

«Sai che non posso farlo, Steve.»

«Dannazione, Albert. Ti chiedo solo un paio di settimane.»

«Steve, se fosse per me, ti darei anche di più. Ma i miei soci…»

«I tuoi soci sono degli avvoltoi. E tu non sei da meno. Altrimenti non avresti

permesso che rilevassero tutti i miei debiti.»

«Ne parli come se fosse stata una mia idea. Ma sai che non è così.»

631

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Letizia

«Metterò un'ipoteca sulla casa e vi pagherò con quella.»

«Sai che non è possibile. Nessuno ti darebbe tutto il denaro che ci devi per

questa casa.»

«Ma vale molto di più.»

«Certo. Ma tu non potrai riscattare l'ipoteca e per entrare in possesso della tua

casa ci vorrà un sacco di tempo. Nessuno si può permettere di perdere tanto

tempo. Il tempo è denaro, lo sai. Me lo hai insegnato tu.»

«E hai imparato molto bene a quanto pare. E poi chi ti dice che non sarò in

grado di riscattare…»

«Steve, sei rovinato. Devi rendertene conto e accettare la situazione. Cedi a

noi tutte le tue proprietà e ritirati dagli affari. Con i cinquantamila dollari che ti

daremo potrai vivere bene per tutta la vita.»

«Bene? Come un miserabile, vorrai dire. E poi le mie proprietà valgono milioni

di dollari.»

«Forse una volta, Steve. Ora non più. Riaprire i pozzi di Beaumont è una cosa

che richiede almeno un mese, e forse di più. La miniera di Monongah si può

considerare perduta. Le tue banche sono state distrutte e il denaro che non è

stato rubato è andato in fumo con gli incendi…»

«Io vorrei solo capire chi ha messo in giro la voce che io non sarei stato in gra-

do di restituire i depositi. Se i miei clienti non avessero chiesto indietro il loro

denaro, sarei ancora il Garner di una volta. Ricco e potente.»

«Sei un illuso, Steve. Prima o poi la tua insolvenza sarebbe venuta a galla. A-

vresti solo posticipato la tua fine di un paio di settimane.»

«Sono giusto le due settimane che ti chiedo, Albert.»

«Tra due settimane non cambierà nulla, Steve. Non avrai un dollaro come non

lo hai adesso. Ti sei persino lasciato fregare tre convogli pieni zeppi di bestia-

me.»

«Sto giusto indagando sul questo caso e vedrai che riuscirò a ritrovare quelle

maledette vacche.»

«A chi la vuoi raccontare? Non ritroverai un bel niente. Le tue vacche chissà

dove sono andate a finire. Hai chiuso, Steve. Mi dispiace.»

«Alfred, non mi rovinare.»

«Sei già rovinato, Steve. Addio.»

632

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L'ultimo duello di Tex Rimasto solo nella sua enorme biblioteca, Steve Garner afferra una statuetta di

porcellana e la scagli contro la porta che sta richiudendosi alle spalle del ban-

chiere Albert Steiner.

Un minuto dopo la porta si riapre.

«Dai cocci che vedo per terra devo dedurre che non è andata molto bene, Ste-

ve.»

«Maledizione, Martha. Le cose si stanno mettendo male.»

«Lo so, Steve. E tu non fai che peggiorare le cose. Lo sai quanto costava quella

porcellana francese che hai mandato in mille pezzi?»

«Ma cosa vuoi che mi importi. Abbiamo debiti per quasi un milione di dollari.»

«Hai, Steve, non "abbiamo". Sei tu che hai dei debiti, non io.»

«Cosa vuoi dire, Martha?»

«Me ne vado, Steve. E porto Doris via con me.»

«Che significa, Martha? E dove intendi andare?»

«Da mia madre, a Richmond.»

«Martha, non puoi abbandonarmi anche tu. E Doris è mia figlia. Non puoi por-

tarmela via. E sistemerò tutto, vedrai. Le cose torneranno come prima. Steve

Garner è un osso duro da rodere. Se ne accorgeranno.»

«Non ti porto via nessuno, Steve. E non ti abbandono. Vado semplicemente da

mia madre. E quando le cose torneranno come erano, sarò la prima a ralle-

grarmene. E tornerò da te.»

«Martha, almeno rimanda la tua partenza di un paio di giorni. vedrai tutto tor-

nerà come prima.»

«Ho già chiamato la carrozza. Quando arriveremo a Richmond ti scriverò. Fatti

sentire anche tu, ogni tanto.»

«Martha…»

Ma lei non lo ascolta.

Steve Garner, uno tra i più grandi e potenti uomini d'affari di Washington, è

rimasto solo.

Non vi fa un po' pena, poveraccio?

No?

Beh, scommetto che fra qualche pagina avrete cambiato idea.

E' quasi mezzanotte, ma nella palazzina di Garner c'è ancora una flebile luce

accesa. 633

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Letizia

Ma non è la stanza del padrone di casa anche se, scommetto, non riesce a

dormire.

E neanche la moglie che se n'è andata da parecchie ore.

E' invece il vecchio maggiordomo di colore che ha sentito un rumore e sta an-

dando a vedere cosa sta succedendo.

Entra in una stanza e fa luce alzando la lanterna che tiene in mano.

Un vetro rotto.

In un angolo, due loschi figuri vestiti di nero, armati fino ai denti.

Anche se i denti non si possono vedere a causa di larghi fazzoletti, neri

anch'essi, che coprono naso e bocca.

«Buona sera, buon uomo. Il signor Garner è in casa?»

«Il signor Garner? Certo… certo che è in casa.»

«Abbiamo visto una donna e una bambina uscire qualche ora fa. C'è nessun al-

tro in casa ora?»

«No. Solo il signor Garner e io. Ma voi…»

«Non temere, brav'uomo. Non ti faremo del male.»

«Oh, ma io non temevo per me…»

«… e non faremo del male neanche al tuo padrone. Magari qualche ammacca-

tura, ma niente che non possa passare con una notte di riposo.»

«Lo so, signore. Vi conosco. Non uccidereste mai un uomo disarmato.»

«Ci conosci?»

«Certo, signore. Non credevate che un paio di fazzoletti potessero ingannare

un povero negro come me, vero? E poi, andiamo signori, non ci vuole poi mol-

to per capire chi siete.»

«Ehi, pard. Non credi che questo "povero negro" abbia molto più cervello del

suo padrone?»

«Dico solo che l'esimio signor Garner non rimarrà molto a lungo il suo padrone.

Dico bene, mister…?»

«Il mio nome è Franklin, signori. Sì, avete ragione. Credo che mi converrà ra-

dunare alla svelta le mie cose e lasciare questa casa finché sono in tempo. Non

credete anche voi?»

«Il nostro Franklin mi piace sempre di più. Mi dispiace solo che per colpa no-

stra dovrà cercarsi un altro lavoro.»

634

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L'ultimo duello di Tex «Oh, non preoccupatevi, signori. Non credo che mi mancherà il lavoro. Sa, an-

che se il signor Garner non sarà in grado di darmi delle referenze, il solo fatto

di avermi tenuto tanti anni è già una garanzia per me. Il signor Garner era

molto esigente. Saranno in molti a cercarmi per offrirmi un lavoro.»

«Già, però non credo che Garner sia in grado di darti una liquidazione. Che ne

dici, pard? Tu hai sempre qualche dollaro di riserva cucito nella cintura.»

«Hai ragione, vecchio cammello. Dovrei avere un migliaio di dollari.»

«Oh, ma non c'è bisogno, signori.»

«Storie. Consideralo un rimborso spese.»

«Rimborso spese?»

«Sì. Per quello che abbiamo in mente, non credo che avrai il tempo per pren-

dere le tue cose.»

«Già. Sarà meglio che tu alzi i tacchi molto velocemente. Fra poco farà molto

caldo qui.»

«Oh sant'Iddio.»

«Non ti preoccupare. Non ci saranno vittime.»

«Bene, signori. Ma ora è meglio che mi procuriate un bell'occhio nero.»

«Un occhio nero?»

«Il nostro amico ha ragione. Così non avrà noie quando il marshall lo interro-

gherà. Ma un bernoccolo sulla testa credo sia meglio. Dirai che stavi dormendo

e che ti sei svegliato nel prato con un grosso mal di testa.»

«Sì, credo che sia…»

Il calcio della colt sulla testa smorza le sue parole.

«Oh perbacco. E' svenuto.»

«Lo credo bene. Con quella botta nel cranio che gli hai dato.»

«Esagerato. Sono stato delicato come una piuma.»

«Ho visto. Lo porto io fuori di qui. Pensi tu a Garner?»

«Certo. Quello è un piacere che spetta solo a me. Ci vediamo fuori.»

«Non vuoi che poi venga a darti una mano con la dinamite?»

«Non credo di averne bisogno.»

«Ti vuoi divertire solo tu?»

«E va bene, vecchio cammello. Porto giù Garner e poi faremo insieme il lavoro.

Contento?»

«Così va meglio.» 635

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Letizia

Dieci minuti dopo i due pard sono fuori della casa.

Garner ha un grosso bernoccolo sulla nuca.

«Non credi che sia meglio legare questi due?»

«Anche il maggiordomo?»

«E perché no? Lo devi solo legare, non lo devi mica torturare.»

«Intanto io entro e comincio il lavoro.»

«Nemmeno per sogno. Tu leghi Garner e io il maggiordomo. Poi andremo in-

sieme a divertirci un po'.»

«Ok, vecchio brontolone.»

Un paio di minuti dopo entrano nella casa che, per loro fortuna, è situata in

una zona periferica e isolata di Washington.

«Hai abbastanza dinamite con te?»

«Sì. E tu come stai a olio?»

«Ne ho tre otri pieni.»

«Bene. Allora andiamo. E non dimenticare di lasciare le finestre aperte.»

Meno di mezz'ora dopo e sono di nuovo nel giardino della palazzina.

«Mamma mia, che mal di testa.»

«Ehi, vecchio gufo. Pare che il maggiordomo si sia svegliato.»

«Allora è vero che hai avuto la mano leggera.»

«Te l'avevo detto. Beh, lascia che si goda lo spettacolo. Garner dorme anco-

ra?»

«Sì. Vuoi che gli dia un altro colpetto sulla sua zucca vuota?»

«No, vecchio sadico. Se si sveglia, tanto meglio.»

«Diamo il via alle danze?»

«Sì, balliamo.»

I due pard afferrano gli archi, appoggiano la punta delle frecce incendiarie a un

piccolo fuoco acceso poco prima e le scagliano nella casa attraverso le finestre

aperte.

In un attimo si scatena l'inferno.

L'olio sparso per i pavimenti di tutte le stanze prende fuoco velocemente.

E altrettanto velocemente raggiunge i numerosi candelotti di dinamite lasciati

un po' dappertutto.

Numerose esplosioni rompono il silenzio in cui si avvolgeva la città.

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L'ultimo duello di Tex «E' meglio che togliamo le tende, pard. Tra poco ci sarà mezza Washington da

queste parti.»

«E questi due?»

«Lasciamoli lì. Sono sufficientemente lontani e non corrono pericoli.»

«Posso dire che non mi sono mai divertito così tanto in vita mia?»

«Sai che ti dico, vecchio dinamitardo? Anch'io.»

«Certo che abbiamo combinato un bel macello. Scommetto che non resterà in

piedi neanche un pezzo di muro.»

«Lo credo anch'io, vecchio mio. Si sentono ancora le esplosioni.»

«Uhm. Comincia a esserci un po' troppa gente in giro per i miei gusti. E tra po-

co sarà l'alba. Sarà meglio toglierci questi abiti da becchino e ritornare a casa

al più presto.»

«Di che hai paura, vecchio cammello? Paura di finire dietro le sbarre?»

«Non scherzare, tizzone d'inferno. Se qualcuno ti riconosce…»

«Con questa barba? Se non sapessi chi sono, non mi riconosceresti neanche

tu.»

«Bah, sei una cosa impossibile.»

Recuperano i loro abiti e attraversano il Potomac attraverso uno dei tanti ponti.

Raggiungono Downtown nel giro di poco più di mezz'ora.

Al secondo piano una debole luce si confonde con le prime luci dell'alba.

«Lois deve essere già sveglia.»

«Già sveglia, vecchio cammello? Credo proprio che non sia riuscita a chiudere

occhio.»

«E perché? Non aveva motivo di essere preoccupata. E non credo proprio che

fosse preoccupata per Garner.»

«Si vede che non conosci le donne, vecchio gufo. Le donne sono sempre pre-

occupate, anche quando esci a comprare il giornale.»

«Non Lois, tizzone d'inferno. Lei… Ehi. Mi pare di aver visto una figura passare

davanti la finestra. E non aveva certo un'aria femminile.»

«Mano alle colt, Kit. Se qualcuno ha fatto del male a Lois gli tolgo la pelle una

striscia alla volta.»

Salgono velocemente le scale, silenziosi come due puma pronti a balzare sulla

preda.

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Letizia Quando raggiungono la porta di ingresso, questa si apre improvvisamente.

«Tiger, che mi venga un colpo. E tu che ci fai qui?»

«Siete in ritardo. Lois vi aspettava almeno mezz'ora fa.»

«Quando sei arrivato? E perché sei qui a Washington?»

«Sono qui da poco. Ma entrate. Ci sono grosse novità.»

«Novità? Che diavolo è successo? Lois, tu ne sai niente?»

«Ciao, tesoro.»

Lois distoglie per un attimo gli occhi dal foglio che sta leggendo.

«Tiger ha portato ottime notizie, caro. Finalmente la fortuna gira un po' dalla

nostra parte.»

«Certamente ora non sta girando dalla parte di Garner.»

«Questo è sicuro. E non solo per quello che gli avete combinato voi questa not-

te. A proposito, come è andata? Abbiamo sentito le esplosioni. Garner come

sta? Voglio sperare che sia ancora…»

«… ancora vivo? Ma certo, tesoro. Un po' ammaccato ma, se si toglie il grosso

bernoccolo sulla zucca, gode di ottima salute.»

«Bene. Allora cerchiamo di aggiornarci sulle novità. Tiger non ha fatto ancora

in tempo a raccontarmi cosa è successo. Mi ha solo dato da leggere questo.»

«Cos'è?»

«Una dichiarazione di Peter Martin che accusa il nostro buon Steve Garner di

una serie di reati. Il ricco e potente Garner, se non finirà sulla forca, passerà il

resto dei suoi giorni a spaccar pietre.»

«Martin non è l'avvocato di Garner?»

«Sì. O meglio, lo era. Ma andiamo con ordine. Prima raccontate voi come è an-

data la vostra visita dinamitarda.»

«E questo è tutto. Abbiamo avuto fortuna.»

«Quel Franklin ha dimostrato di essere una persona in gamba. Che ne dici, ca-

ro, se lo prendessimo a lavorare per noi?»

«Sarebbe una gran bella cosa. Ma non credo che abbiamo bisogno di un mag-

giordomo.»

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L'ultimo duello di Tex «Ma non come maggiordomo. A me serve qualcuno che mi dia una mano in uf-

ficio. Specialmente ora che non c'è più la povera Janet3.»

«Bene. Allora glielo proporremo.»

«Adesso vi racconto come invece è andata a me. Ma dov'è Piccolo Falco?»

«Se ti sente che lo chiami ancora così… Il mio figlioccio è andato a Boston a fa-

re un lavoretto alle navi di Garner.»

«Ma ora non ce n'è più bisogno. Caro, non sarebbe il caso di avvisarlo? E' inuti-

le fargli correre rischi inutili.»

«Certo. Anche se temo che…»

«… che non sia possibile. Ormai a quest'ora deve aver combinato un bel macel-

lo. Non molto diverso da quello che abbiamo fatto noi. E poi Kit sa badare a sé

stesso. Non avrà problemi e lo vedremo capitare qui presto.»

«Oh, Carson. Ma come puoi pensare cose simili?»

«Lois. Il vecchio gufo ha ragione. Ormai è tardi e poi non saprei come contat-

tarlo. Specialmente se ora è già sulla via del ritorno, come penso che sia.»

«Oh, caro. Hai ragione. Ma io voglio bene a tuo figlio. Come se fosse il mio. Sto

in pena per lui.»

«Vedi, vecchio cammello? Avevo ragione. Le donne sono sempre in pensiero.»

«Meno male che non abbiamo scommesso.»

«Cosa state blaterando, voi due?»

«Niente, tesoro. Niente.»

«Sembra che nessuno qui sia interessato di sapere quello che ho da dire.»

«Scusa, Tiger. Ma sei stato tu che hai chiesto di mio figlio. Ok, racconta.»

«Quando ho lasciato Abilene per tornare a Gallup…»

«A proposito. Chi c'era ad Abilene? Quando io e Kit abbiamo lasciato le man-

drie, c'era solo Brandon con alcune sue giubbe rosse.»

«Già, Tiger. Chi c'era? Quanti dei nostri amici hanno risposto all'appello?»

«Beh, i canadesi c'erano tutti. Oltre a Jim, c'erano Gros Jean e Pat Mac Ryan.

Da San Francisco sono venuti Tom Devlin e Lefty. Con tutta la sua palestra,

ovviamente. C'era anche Nat Mac Kennet. Montales non è potuto venire, ma ha

mandato alcuni dei suoi uomini, i più fidati. El Morisco non c'era. Pare che a

Nogales stesse studiando delle strane rocce meteoritiche.»

3 Janet era la segretaria di Lois. Vedi il precedente romanzo "Lois".

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Letizia

«Uhm. Non vorrei che questo significhi nuove rogne per noi.»

«Sei sempre il solito brontolone. Se Morisco avesse bisogno di noi, che faresti?

Lo lasceresti nei guai?»

«Lo sai che non volevo dire quello, tizzone d'inferno.»

«Però c'era Eusebio.»

«Vuoi dire che Eusebio si è trasformato in un cowboy?»

«No di certo. Ha sbrigato tutte le rogne contabili, però.»

«Insomma, c'erano proprio tutti.»

«Sì, Capelli d'Argento. Di ritorno a Gallup, mi sono fermato ad Albuquerque. Lì

ho scoperto che qualcuno era andato in giro a far domande su Tex e su quanto

era successo.»

«L'avvocato Martin.»

«Esatto. Allora non sapevo chi fosse. L'ho scoperto dopo. Ho saputo anche che

era partito il giorno prima per Gallup. Quando sono arrivato, lui era ancora lì.

L'ho aspettato nella sua camera e, quando è rientrato, l'ho leggermente ad-

dormentato e sono partito con lui verso la riserva.»

«Ti ha visto qualcuno?»

«Scherzi, Lois? Il nostro Tiger è capace di passarti a un metro in pieno giorno

senza farsi vedere.»

«Kit, non ti sembra di spararle un po' troppo grosse?»

Tiger continua il suo racconto tra continue interruzioni e battibecchi fra Lois e

Kit.

«Ti sei spacciato per Ben Colter? E' stata un'idea geniale. Come t'è venuta in

mente?»

«Beh, Lois. Lui non conosceva sicuramente Colter e io mi sono preso un bel

vantaggio. Non avevo bisogno di prove per smascherare la sua messinscena.»

«E gli hai anche messo un bel po' di paura.»

«Già. Gli ho messo in testa che l'unico modo per uscire con la pelle ancora cu-

cita addosso era quello di collaborare e denunciare Garner.»

«Scommetto che non avresti mai creduto di ottenere questi risultati.»

«Come avrei potuto, Tex? Che Garner fosse un poco di buono era una cosa ri-

saputa. Ma fino a questo punto…»

«Beh, meglio per noi.»

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L'ultimo duello di Tex «La prima cosa che ho fatto è stata quella di far scrivere a Martin un dispaccio

per Garner per tranquillizzarlo. Ho chiesto poi aiuto ai nostri Navajo e sono ri-

tornato a Gallup all'ufficio telegrafico mentre loro sorvegliavano il nostro ami-

co.»

«Segnali di fumo?»

«Sì. Per fortuna non eravamo molto lontani dalla città. Non ci ho messo molto

tempo ad andare e tornare. Al mio ritorno, l'avvocato aveva già preparato la

sua dichiarazione. Appena l'ho letta, per poco non mi viene un accidente. Sono

subito ripartito per Gallup con lui. Inutile raccontarvi di cosa l'ho minacciato nel

caso avesse avuto intenzione di giocarmi brutti scherzi.»

«Già, immagino.»

«Lo sceriffo ha controfirmato la dichiarazione di Martin e, mentre i nostri Nava-

jo ritornavano alla riserva con l'avvocato, io ho preso il treno per Houston. Lo

sceriffo naturalmente è venuto con me. Al comando dei Ranger, il documento è

stato ufficializzato con timbri e firme varie di pezzi grossi. Lo sceriffo ha con-

fermato la regolarità della dichiarazione e ha testimoniato che Martin denun-

ciava il suo datore di lavoro spontaneamente e senza alcuna costrizione.»

«Insomma, un lavoro coi fiocchi. Vedo che mi stai rubando il mestiere, Tiger.

Magari ti prendo come socio nel mio studio.»

Ridono.

«E infine sono corso fin qui a Washington a portarvi il prezioso documento. So-

no arrivato una decina di minuti prima di voi.»

«Mi togli una curiosità, Tex?»

«Cosa c'è, vecchio cammello?»

«Quando hai deciso di addossarti la colpa della morte del senatore, avevi già in

mente tutto questo? Cioè sapevi che le cose potessero andare storte e hai pen-

sato a un piano di riserva che prevedesse la tua dipartita da questa valle di la-

crime? Avevi già pensato al Morisco?»

«Beh, Kit. A dire il vero qualcosa nella testa già mi era balenato. Non ancora

un piano così ben architettato, però. Sapevo che Steve Garner non avrebbe

certo permesso che l'omicida del fratello se la cavasse così. Senza neanche un

processo.»

«Già.»

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Letizia

«Il povero Colter me lo aveva già detto che era una carogna. E Lois me lo ha

confermato. Io dovevo "morire". E a farmi la pelle doveva essere uno di voi.

Tu, Kit, eri la persona ideale. E poiché sapevo che ci sarebbero stati dei dubbi

sulla mia morte, dovevo fare in modo che sembrasse il più reale possibile. So-

no addirittura venuti due medici a constatare il mio "decesso".»

«Tizzone d'inferno, sapevi che il buon Morisco conosce il segreto di sostanze

che provocano una morte apparente che avrebbe ingannato anche un luminare

della scienza.»

«Sì, Kit. E' così. Ero quasi sicuro di quello che sarebbe successo. La mia "mor-

te", avvenuta per tua mano, avrebbe impedito una qualsiasi vendetta da parte

dei nostri Navajo contro il mio "assassino". E il popolo navajo non avrebbe su-

bito ritorsioni. E avremmo avuto mano libera per poter agire contro quel pallo-

ne gonfiato di Garner.»

«Già, ma la nostra intenzione era solo quella di rovinarlo. Non potevamo certo

sperare di mandarlo a spaccar pietre o sul patibolo.»

«No, Kit. Gente come lui non sale sul patibolo. E comunque a noi sarebbe ba-

stato mandarlo in rovina. Senza denaro avrebbe perso tutto il suo potere e tut-

ti l'avrebbero abbandonato.»

«No, tesoro. Non ci sarebbe bastato. Io volevo… io voglio la tua completa riabi-

litazione. E l'avrei ottenuta anche senza la dichiarazione di Peter Martin.»

«Già. E l'avresti ottenuta con le ricevute dei pagamenti a Colter che tu ha così

ben contraffatto con le tue dolci manine.»

«Ricevute che ora non sono più necessarie, tesoro. Martin ti ha completamente

scagionato. Ha confessato di essere stato lui a falsificare la firma di Colter

nell'atto che ti denunciava del "vile e barbaro assassinio" del senatore.»

«E' vero. Martin ha denunciato anche il senatore di aver illecitamente favorito il

fratello. Ce ne sarebbe anche per lui, se fosse ancora vivo.»

«Bene. Che ne direste di andare a festeggiare tutti quanti davanti a una bistec-

ca alta tre dita nel miglior ristorante di questa metropoli?»

«Nossignore, signor crapulone. Niente festeggiamenti finché non torna a casa

sano e salvo il tuo omonimo.»

«Il mio cosa?»

«Kit junior, vecchio cammello. Eppure te lo avevo detto che le donne sono

sempre preoccupate, anche quando esci a comprare il giornale.» 642

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L'ultimo duello di Tex «Ah sì, eh? Così gli hai detto? Era questo che intendevi poco fa, vero?»

Due mesi dopo al villaggio centrale della riserva navajo.

«Toh, il vecchio cammello sta leggendo il giornale.»

«Non chiamarlo così, tesoro. Non è gentile da parte tua.»

«Ma Lois, lo sai che non lo faccio certo per mancargli di rispetto. Kit per me è

più di un fratello. Si getterebbe nel fuoco per me. E io farei altrettanto per lui.»

«Lo so, ma…»

La tira a sé e la bacia.

E non solo per chiuderle la bocca.

«Oh, guarda. I due piccioncini si sono svegliati.»

«Che stavi leggendo di bello?»

«Se tu non fossi rimasto rintanato a poltrire, ora saresti tu qui a leggere al po-

sto mio e lo sapresti.»

«Lo sai, Kit, che lo fa per me. Non mi sento troppo bene in questi giorni.»

«Mi spiace, Lois. Ma ne hai passate veramente troppe ultimamente.»

«Non temere, Kit. Non è nulla di preoccupante.»

«Bene.»

«Allora, ci sono novità?»

«Sì, Tex. E grosse. Guarda qui.»

Sul giornale, a caratteri cubitali, in prima pagina: "Steve Garner suicida in car-

cere."

«Cavolo.»

Lois e Tex commentano in coro.

«E' stato abbandonato dalla moglie e dalla figlia. Lei ha dichiarato addirittura

che non è mai stata sposata con Garner. Il giornale dice però che deve aver di-

strutto tutti i documenti che comprovavano il matrimonio. Probabilmente l'ha

fatto non solo per tagliare tutti i ponti con lui, ma anche per allontanare tutti i

creditori di Garner.»

«Qui dice che si è impiccato in cella con un lenzuolo. Non sono certo contento

che abbia fatto quella fine. Ma non posso certo dire che mi dispiace.»

«E' stato un gesto sconsiderato, Tex. Ma si è visto crollare il mondo addosso.

Ha perso tutto quello che aveva, la moglie e la figlia lo hanno abbandonato

come un cane e avrebbe dovuto passare parecchi anni in carcere.»

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Letizia

«Già. Leggo qui che non si è potuto neanche permettere un avvocato. Gliene

hanno dato uno d'ufficio.»

«Credo che non avrebbe trovato un avvocato neanche a pagarlo a peso d'oro.»

«Il procuratore per lui ha chiesto trent'anni. Magari non li avrebbe fatti tutti,

ma almeno una ventina, quelli sì.»

«Beh, pace all'anima sua.»

«Amen.»

Finalmente un po' di serenità per Lois e Tex.

Se la sono veramente guadagnata.

Gettano il giornale in un angolo con noncuranza.

Non hanno letto una notizia riportata nell'interno.

Un articoletto che parla di un certo Albert Steiner.

Loro non lo conoscono, ma noi sì.

Contava di arricchirsi rilevando tutti i debiti del suo miglior amico Steve Gar-

ner.

Ma non aveva fatto i conti con tre pazzi dinamitardi e incendiari.

Due di questi pazzi hanno distrutto una villa stupenda con tutti gli oggetti pre-

ziosi e le opere d'arte che conteneva.

E un terzo pazzo, lo stesso giorno in cui gli altri due distruggevano la villa, ha

incendiato e affondato due delle più belle navi di Garner, straboccanti di mer-

canzie.

Cosa dice quell'articoletto?

Dice che il noto banchiere e uomo d'affari Albert Steiner è stato travato morto

sulle rive del Potomac con la gola tagliata.

E' una giornata splendida.

Nel villaggio centrale c'è gran fermento.

Sono tutti indaffarati nei preparativi per la festa in onore del grande Aquila del-

la Notte.

E' arrivata finalmente la notizia che Tex è stato scagionato da ogni accusa.

Anche se, a dire il vero, al generale Davis non è andato troppo giù il fatto di

essere stato imbrogliato con la finta morte di Tex.

Scommetto che ancora adesso si sta chiedendo come abbia fatto a ingannare

non uno, ma ben due medici che hanno "accertato" la sua morte.

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L'ultimo duello di Tex E scommetto anche che nutre seri dubbi sull'identità degli autori di tutti gli "in-

cidenti" capitati alle proprietà di Garner.

Ma scommetto anche che non gli importi assolutamente nulla che si indaghi su

queste faccende.

Per lui questa stramaledetta storia è chiusa definitivamente.

Lois e Tex stanno passeggiando, mano nella mano come due fidanzatini, tra i

wigwam del villaggio.

Luna d'Argento li sta guardando e sorride.

«Falco, sono proprio contenta che tuo padre abbia trovato finalmente un po' di

serenità. Guardali. Sono felici come due fanciulli.»

«Già. E' un po' che non vedevo mio padre così.»

Improvvisamente Lois si accascia al suolo.

Tex la solleva tra le braccia e viene velocemente verso suo figlio e Luna d'Ar-

gento.

La adagia delicatamente su morbide pelli.

Ma Lois si è già ripresa.

«Lois, tesoro. Si può sapere che ti succede? E' già la seconda volta che perdi i

sensi.»

«Non te lo immagini, adorabile scioccone?»

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Letizia

Note finali

A volte capita che la curiosità porti a guardare le pagine finali di un libro.

A me capita spesso, ad esempio, di sfogliare velocemente le pagine con il pollice alla ricerca di chissà cosa.

Ma questo non è un libro.

O meglio, non è un libro di carta, è un e-book e l'azione appena descritta non è possi-bile.

Se state leggendo questa pagina senza aver letto le pagine precedenti, fermatevi.

Non leggete le pagine successive.

Anzi, non leggete le pagine successive se non avete letto tutti i miei racconti prece-denti.

Non solo, ma dovete leggerli nella giusta sequenza:

- L'Aquila contro la Tigre - Due amori - La luce nelle tenebre - L'urlo del Falco

- I Navajo1 - I due fratelli - Il figlio di Tex - Lois - L'ultimo duello di Tex

Nelle pagine seguenti non solo vi dirò quello che è successo in questo racconto, ma anche quello che è successo negli altri per cui, se non volete che vi rovini la sorpresa, non andate avanti nella lettura.

Sì, perché tutti i miei racconti sono pieni di sorprese.

Siete avvisati.

Voi mi direte: capisco che i racconti della saga di Tex debbano essere letti in sequen-za, ma gli altri due, cosa c'entrano?

Gli altri due, è ovvio sono Due amori e I due fratelli.

Leggeteli e capirete.

Queste considerazioni derivano dal fatto che probabilmente questo è il mio ultimo ro-manzo.

"No", diranno in molti, "peccato."

"Era ora", diranno in tanti, "non se ne poteva più."

Tranquilli (o non disperatevi troppo, secondo i casi).

Può essere che io abbia mentito.

1 I Navajo in realtà è un'antologia che raccoglie i primi tre romanzi di Tex: L'Aquila contro la Tigre, La lu-ce nelle tenebre e L'urlo del Falco. Leggete solo la prefazione.

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L'ultimo duello di Tex

E così, anche questo mio ultimo romanzo è finito.

Ci siete rimasti male?

Non pretendevate mica che io ammazzassi Tex Willer?

Nei miei romanzi precedenti ho forse ammazzato qualcuno dei nostri eroi?

Beh, forse ve l'ho lasciato credere.

Qualcuno c'è rimasto male quando ha letto della prematura dipartita verso i Pascoli del Cielo del nostro Tiger Jack.

Molti sono rimasti malissimo anche della triste fine di Luna d'Argento che, a dire il ve-ro, era simpatica a tutti i lettori.

E questo anche se non fa parte dei personaggi bonelliani e non la vedrete mai negli albi mensili di Tex.

La dolce Luna d'Argento.

Ma cos'è questa tua crudeltà, Letizia, questa tua sete di sangue dei personaggi più amati dai lettori?

Perché vuoi ammazzare i buoni?

Ammazza i cattivi e basta.

Hai ammazzato anche Lois, altro personaggio che godeva della simpatia dei lettori.

E non una, ma ben due volte.

Proprio quando si viene a sapere che in realtà non era morta, ma che era tutto un trucco di Mefisto e tutti sono felici e contenti, zac, eccola che si becca una pallottola mortale nel petto.

Ma questa è crudeltà mista a sadismo.

Ma dai.

Non ditemi che ci avete creduto anche per un solo attimo.

E' assurdo.

Io sono la creatura più buona al mondo (anche più di Lupo Alberto).

Dai, non mi direte che avete creduto anche alla morte di Tex!

E poi addirittura per mano di Kit Carson.

Ma via!

E poi, se avevate seguito i miei consigli, dovevate aver letto I due fratelli.

E lì non si scappa.

Tex è vivo e vegeto, anche se ottuagenario (o giù di lì), nel 1916.

Solo Carson se n'era andato ("alla fine uno dei buoni l'hai ammazzato!" direte voi.)

Ma, andiamo, è stata una morte naturale.

Era quasi novantenne (ha sicuramente una decina d'anni più di Tex) ai tempi in cui la vita media di un uomo non arrivava ai sessanta.

Cosa pretendevate?

Un Carson centenario sulla sedia a rotelle?

Quindi, se avete creduto alla morte di Tex, o non avete letto I due fratelli oppure pen-savate a una mia svista.

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Letizia

Male in entrambi i casi.

Ben vi sta.

Nella pagina seguente trovate una copertina alternativa del romanzo I due fratelli.

Così sarebbe stata la vera copertina perché in fondo si tratta di una storia di Tex.

Sì, è vero, uno dei due protagonisti si chiama Tex Willer, ma non è il nostro ranger e capo dei Navajo Aquila della Notte.

E' suo nipote, cioè è il figlio primogenito di Kit Willer e di Luna d'Argento.

Ma tra i personaggi c'è anche il nostro Tex, c'è suo figlio Kit e anche Tiger Jack.

Quindi la copertina con il logo di Tex ci stava tutta.

Ma dove la mettete la sorpresa?

Per questo la copertina originale è quella che è.

Tornando al tema degli ammazzamenti, a dire il vero, devo ammettere che uno dei buoni l'ho proprio accoppato.

Ammazzato e sepolto.

Il figlio di Tex.

Ma no, non quello.

Quell'altro.

Ma il povero William era un personaggio un po' scomodo.

Un figlio naturale di Tex, il fratellastro di Kit.

Insomma, voi capirete, l'ho dovuto sacrificare, poverino.

E, se non mi accuserete di sadismo, vi dirò che ho preso i classici due piccioni con una fava.

Vi ho commosso (sì, coraggio, ammettetelo) e ho tolto di mezzo un personaggio che non poteva durare.

Che vergogna!

Non ho mai provato tanta vergogna di me come adesso.

Quasi quasi scrivo un altro romanzo in cui vi racconto che la morte di William è stata tutta una finta perché il ragazzo era ricercato dalla legge e per il rapimento la pena è una sola: il capestro.

Mah!

Peccato solo una cosa.

Questi sono solo racconti e non fumetti.

Mancano le vignette.

Avevo anche pensato di mettermi a disegnarle io.

In gioventù (cioè, ehm, pochi mesi fa) mi dilettavo con matite e pennelli.

Ho fatto anche un autoritratto a carboncino e qualche tela a olio.

Ma l'impegno sarebbe stato enorme.

E poi credo che non sarebbe stato facile (neanche per me, strano a dirsi) realizzare la scenografia, specialmente quando non ci sono dialoghi e quando non voglio che si sappia chi sono i personaggi che parlano.

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pablonet

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Letizia

Un'ultima cosa.

Cosa diavolo c'entra con Tex il romanzo Due amori?

In realtà, nulla.

Ma non potevo certo dirvi: dovete assolutamente leggere il romanzo I due Fratelli.

E perché non anche l'altro?

Perché solo quello?

Che relazione può avere quello con il nostro eroe Tex Willer?

Vi avrei certamente messo sulla pista giusta.

E poi magari non avreste letto il romanzo più bello che ho scritto.

Due amori mi frullava per la testa già da un paio d'anni prima che cominciassi a scri-verne una sola riga.

Non mi decidevo mai a mettere nero su bianco.

Pigrizia, scarsa stima nella mia possibilità di vedere una fine per le mie idee un po' sconclusionate.

Fate un po' voi.

E poi, quasi per scherzo, dopo aver buttato giù il mio primo romanzo L'Aquila contro la Tigre, eccomi a riempire pagine che raccontano la storia strampalata di personaggi le cui iniziali sono tutte LL.

Vi ricorda qualcosa?

E per dimostrare, a me soprattutto, che di autostima ne ho anche troppa, ho scritto ben tre finali.

Gli ultimi due in realtà mi sono balenati in testa strada facendo.

E poi, che divertimento giocare con le date che sono tutte esatte.

Cioè, se dico che il 3 maggio 1986 era sabato, potete scommetterci sopra la camicia.

E le località citate nei romanzi di Tex, sono tutte esistenti e collocate nel giusto posto (googleMap insegna).

E poi si sa, i libri sono come le caramelle, uno tira l'altro.

E quindi siamo a quota otto e, se contiamo anche la trilogia I navajo, siamo addirittu-ra a nove.

Insomma i miei otto romanzi sono nove.

E di questi, i sei dedicati a Tex sono sette (o forse otto).

Insomma sono peggio dei tre Moschettieri che erano quattro.

Perdonate la mia pazzia che, vi assicuro, non è ereditaria (in famiglia di tipi come me non ce ne sono altri, per mia fortuna).

E, visto che le persone che mi vogliono bene mi sopportano e mi accettano così come sono, spero che lo facciate anche voi.

Solo perché questo vorrebbe dire una cosa sola: che anche voi in fondo mi volete be-ne.

Grazie di cuore di essere arrivati fin qui.

Ci vediamo sul web.

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L'ultimo duello di Tex

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Letizia

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Nota finale seconda trilogia Albuquerque

E anche questa è fatta.

La seconda trilogia è finita.

Forse avrete notato che alla fine del secondo romanzo “Lois” non manca, come

nella trilogia Albuquerque, la pagina finale di commiato.

Che ci volete fare?

“Lois” doveva essere l’ultimo romanzo della serie.

Non avevo alcuna intenzione di scrivere né “L’ultimo duello di Tex” né tanto-

meno questa trilogia.

Poi sapete com’è, mi è venuta in mente un’idea su cui potevo lavorare per un

altro romanzo e allora… eccoci qui.

Ma era un peccato non aggiornare quella paginetta.

Avrei potuto lasciare le cose così come erano.

Ma non sarebbe stato troppo coerente, non vi pare?

Avreste sicuramente pensato: “Ma che ci combina Letizia? Prima ci dice che le

sue avventure di Tex sono terminate e poi ce ne rifila un’altra?”

Insomma, se avete avuto la pazienza e la costanza di arrivare fin qui, significa

che siete contenti (o almeno lo spero) di questo mio ripensamento che ha avu-

to come risultato la sesta avventura di Tex.

Quindi ho riveduto e corretto la paginetta in questione, aggiornandola con le

ultime uscite, e ve la ripropongo qui.

Ma ora ho davvero finito (bugia enorme come una casa).

Se mi deciderò a scrivere ancora qualcosa su Tex, non sarà certo la continua-

zione di questi sei (o sette?) romanzi.

Scriverò, se lo farò, qualcosa senza neanche nominare tutti i “miei” personaggi

texiani, a cominciare da Lois.

Perché, se lo facessi, dovrei partire dal “terzo” figlio di Tex.

E mi pare un po’ troppo (altra bugia grossa come una casa).

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Con questo romanzo termina la lunga storia di Tex, rivisitata da Letizia, iniziata con “L’Aquila contro la Tigre”, il primo dei ro-manzi della trilogia “I Navajo”. Qualcuno (si dice il peccato ma non il pec-catore) mi ha battezzato “Letizia killer” per-ché mi diletto a uccidere i personaggi prin-cipali. Mai accusa fu più infondata. Mai accoppato nessuno dei “buoni”. Solo qualche cattivo. E solo i cattivi minori. Voi direte: non è vero, hai ammazzato an-che cattivi famosi. E invece è vero. Il cattivo per eccellenza in realtà era già morto da un pezzo, io ho solo rimesso le cose a posto, come stavano prima. Ma un’obiezione fondata qualcuno la farà. Qualcuno che ha avuto la pazienza di legge-re tutti i miei lavori. Da qualche parte c’è una grande assenza. E’ vero. Alla fine qualcuno dovevi farlo sparire, Leti-zia. Potrei ribattere dicendo che semplicemente non ne ho fatta menzione per non rovinarvi la sorpresa (tutti i miei romanzi sono pieni di sorprese). Ma no. Questa volta dirò la verità (ma, a dire il ve-ro, ho sempre detto il vero).

Semplicemente, il romanzo incriminato è cronologicamente precedente e il personag-gio in questione non aveva ancora fatto ca-polino nella mia capoccia. Se non avete capito un’acca in tutto questo, non preoccupatevi. L’ho fatto per il vostro bene. Sempre per il solito motivo: per non rovi-narvi la sorpresa quando vi deciderete a ri-empire le vostre lacune letterarie. Diciamo solo, per i fedelissimi che sanno di cosa sto parlando, che il personaggio in questione era assente a causa dei suoi nu-merosissimi viaggi a Philadelphia. Insomma, non c’era mai. Per tutti quanti c’è poi un velocissimo epilo-go. Tex tornerà ad Albuquerque, dove costruirà una casa dalle pareti bianche nei dintorni della città. Luna d’Argento darà alla luce un figlio ma-schio che porterà il nome del celebre non-no. Il piano di Kit sarà un successo. Kit lascerà i Navajo e andrà a vivere con moglie e figlio dal padre, nella grande casa dalle pareti bianche. Kit Carson e Tiger Jack li seguiranno. Luna d’Argento qualche anno dopo darà alla luce il suo secondo figlio il cui nome sarà Tiger Jack. Tutto questo vi ricorda qualcosa?

I romanzi di Letizia, in ordine di pubblicazione, sono: 1. L’Aquila contro la Tigre2. Due Amori3. La luce nelle tenebre4. L’urlo del Falco

o I Navajo (*)5. I due fratelli6. Il figlio di Tex7. Lois8. L'ultimo duello di Tex

o Albuqueque (*)

(*) I Navajo non è un romanzo vero e proprio, ma un’antologia che riporta, con una breve in-troduzione, i romanzi della trilogia: L’Aquila contro la Tigre, La Luce nelle tenebre e L’urlo del Falco. Così pure la seconda antologia che contiene i romanzi: Il figlio di Tex, Lois e L’ultimo duello di Tex.

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Capitolo 8 Il treno per Santa Fé

L'uomo si avvicina velocemente al corral del vecchio Miguel.

All'interno trova quello che cercava.

L'automobile è un po' impolverata ma sembra in buono stato.

E' un po' piccola però e quindi sta pensando che dovrà noleggiare anche un ca-

lesse.

Ma forse andrà bene anche un cavallo.

Porterà suo figlio in sella con sé.

Meno male che Doris sa guidare perché di sua madre si fida poco.

"La mamma terrà sulle ginocchia la bambina. E io sarò più tranquillo" pensa.

Non vede però Miguel.

Nella rimessa c'è solo una ragazza che si è voltata verso di lui quando lo ha

sentito entrare.

«Signorina, mi scusi. Mi sa dire dove posso trovare Miguel? Sembra che abbia

lasciato incustodito il suo corral.»

«Oh, no. Ha lasciato me di guardia» sorride la ragazza, «tornerà molto presto.

E' andato incontro a mio padre che gli sta portando una dozzina di puledre.»

«Suo padre? Non mi dire che tu sei Beth, la figlia di Morgan.»

Si accorge di esser passato involontariamente al tu e cerca di rimediare, ma lei

lo precede.

«Lei mi conosce, signore?» lo interroga stupita.

«Beh, l'ultima volta che ti ho visto tenevi in braccio una bambola di pezza e...»

La ragazza lo guarda meglio cercando di ricordare.

«Sono io, Beth. Sono William...»

«William» ripete lei interrompendolo.

«Ma certo. Come ho fatto a non riconoscerla subito?»

«Sono passati quasi dieci anni, Beth. E' un sacco di tempo.»

«Immagino che anche sua madre sia qui con lei, signor William. E scommetto

che è venuto a noleggiare il macinino di Miguel per andare al ranch. Suo padre

impazzirà dalla gioia quando la vedrà arrivare. E sarà contento di rivedere an-

che sua madre. Credo che manchi ormai da tre mesi.»

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Letizia

«Già. Ma mi servirà anche qualcos'altro perché l'auto è troppo piccola. Con me,

oltre a mia madre, ci sono anche mia moglie e i miei due piccoli demonietti.»

«Mamma mia! E' una rimpatriata allora. Quasi quasi vengo con voi al ranch. Ne

approfitterò per stare un po' con il mio fidanzato. Lo sa che solo lui mi chiama

Beth? Anche i miei genitori mi chiamano Elisabeth.»

«No, non lo sapevo. Ma se vuoi, anch'io ti chiamerò...»

«Oh, no. Va bene così. Continui pure a chiamarmi Beth. Mi fa piacere.»

Un rumore nel cortile sul retro li avvisa che Miguel è tornato.

«Che mi venga la scarlattina tripla! William! Sei proprio tu?»

«Miguel! Credevi che fosse un ladro che approfittasse della tua assenza? Non

hai lasciato un guardiano valido, vedo.»

Sorride guardando Elisabeth che ride con lui.

«Morgan, vieni a vedere chi sta facendo la corte a tua figlia.»

«Chi è quel pazzo incosciente? Se lo pesca il suo fidanzato... Ma che mi ven-

ga... William. Non è possibile.»

Si stropiccia gli occhi come se non credesse a quello che vede.

«E c'è anche sua madre, papà. Anzi, a dire il vero, ha portato con sé tutta la

famiglia, compresi i suoi due figli.»

«Tonnerre! Stasera ci sarà festa grossa al ranch...»

«Papà, a proposito. Io vado con loro da Jack. E magari mi fermo anche a dor-

mire da lui. Ti dispiace?»

«No di certo, Elisabeth. Ma non sarebbe meglio un'altra volta? Non vorrei che

tu... insomma... ci sarà un po' di confusione, immagino. Non vorrei che anche

tu...»

«Morgan, Morgan. Che vai dicendo? Non vorrai per caso intendere che Beth ci

disturberà...»

«Ma no, William. Ma che vai pensando. Solo che starete più tranquilli senza di

lei. Sai, crescendo è diventata una peste.»

«Papà!»

«Tuo padre sta scherzando, Beth. Scommetto che sei dolce più di tua madre

quando aveva la tua età.»

«Sta arrivando tua madre, William. E con lei ci sono tua moglie e i tuoi due fi-

gli, a quanto pare.»

«Già. Hai ragione, Morgan. Sono proprio loro.» 658

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Il treno per Santa Fé Va loro incontro e prende in braccio la bambina.

«Vieni, Doris. Ti presento il signor Morgan e la sua piccola Elisabeth. E quella

vecchia canaglia è Miguel. E' lui che tirerà sul prezzo quando gli chiederò di no-

leggiare la sua vecchia carretta.»

«Piccola? Forse per lei il tempo non è passato, William. Oppure non se n'è ac-

corto. Ho diciannove anni suonati.»

Miguel si toglie il suo cappellaccio e, tenendolo con entrambe le mani, china il

capo in segno di saluto.

«Molto piacere, signora Doris. Posso chiamarla Doris, vero? Piacere di riveder-

la, milady. »

«Ma certo, signor Morgan. E tu Elisabeth, non far caso a mio marito. Lo sai, gli

uomini non capiscono niente.»

«Milady? Da quando il tuo sangue è diventato blu, mamma?»

«Abbiamo sempre chiamato così tua madre, William. E' una vera signora e tuo

padre è un vero hidalgo.»

«Miguel, Miguel. Sarebbe stato meglio se avessi lasciato che ti impiccassero.»

«Tua madre mi ha salvato la vita. Lo sapevi, William?»

«Già. E me ne sono amaramente pentita.»

«Milady, lei scherza sempre. Ma mi vuole un gran bene. Lo so.»

«Sarà, ma farai bene a non cacciarti più nei pasticci, perché questa volta il sa-

pone per la corda ce lo metto io. Sarebbe questo il macinino che dovrebbe por-

tarci al ranch? A parte il fatto che è un modello del secolo scorso e che dubito

che possa mettersi in moto, ma ha solo due posti e noi siamo cinque.»

«Macinino? Secolo scorso? Ma se è l'ultimo modello e...»

«Va bene, Miguel. Non ti scaldare. Io verrò a cavallo col bambino, mamma

e...»

«Ma neanche per sogno. Tu verrai con un calesse. Starete più comodi.»

«Ma ci metterò almeno un'ora in più. Con il calesse non posso passare per il

bosco di betulle. Con il cavallo, anche se andrò piano, arriverò al ranch anche

prima di voi.»

«Uhm. Va bene, testa di legno. Ma devi andare pianissimo. Avrai mio nipote

con te.»

«Tuo nipote? Mamma, prima di esser tuo nipote è mio figlio, perbacco.»

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Letizia

«Sì, ma se non ti avessi messo al mondo, ora non sarebbe tuo figlio. Quindi

prima di tutto è mio nipote.»

«Oh, mamma. Sei impossibile.»

«Will, sei sicuro? Vuoi andare a cavallo con tuo figlio? Non è pericoloso? E poi,

da quanto tempo non monti in sella?»

«Doris, dimentichi che sono cresciuto in un ranch e che ho imparato a cavalca-

re dai migliori cavalieri del mondo.»

«Bene. Allora non ci resta che partire. Doris, cara, tu siederai accanto a me e

terrai la bambina sulle ginocchia.»

«Che vuoi dire, mamma? Vuoi guidare tu? Non è meglio che lo faccia Doris?»

«Neanche per idea. Doris non conosce la strada e...»

«Mamma, la strada è una sola. Non potrebbe sbagliare neanche volendo.»

«Meglio così, allora. Se lei non potrebbe sbagliare neanche volendo, figurati io

che conosco la strada come le mie tasche.»

«Mamma, tu non hai tasche.»

«Oh, Will. Non mi dire che bisogna averle le tasche per conoscerle bene. E poi,

cos'è? Non ti fidi di me?»

«Oh, mamma. Sei impossibile.»

«L'hai già detto, mi pare. Hai bisogno di un dizionario per imparare qualche pa-

rola nuova?»

Sotto lo sguardo divertito di Morgan e di sua figlia, "milady" si avvicina verso la

macchina.

E anche Miguel ride sotto i baffi cercando di non farlo notare.

William non può che rendersi conto che sua madre è una vera maestra nell'ot-

tenere quello che vuole.

E anche che si diverte un sacco a prendere in giro tutti facendo credere di es-

sere un po' svampita.

Sa anche che non ha mai conosciuto una donna in gamba come lei, anche se la

sua dolce Doris è molto intelligente.

Ma la mamma, la mamma non la batte nessuno.

Mezz'ora dopo William ed Elisabeth sono nel bosco di betulle.

Suo figlio si sta divertendo come un matto.

E' la prima volta che sale su un cavallo e la cosa gli piace un sacco.

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Il treno per Santa Fé Si fermano a riposare al fresco.

La giornata è veramente calda.

Il ragazzino si addormenta sul prato.

Sono due giorni che viaggia e questa mattina si è alzato presto.

Elisabeth versa la borraccia nel suo Stetson e abbevera i due cavalli mentre

William la guarda un po' meravigliato.

Dalle sue parti non aveva mai visto una ragazza fare altrettanto.

Ma, a dire il vero, a Washington ci sono ragazze che non hanno mai visto un

cavallo.

«Hai mai provato ad andare in giro con dei vestiti più consoni ad una ragazza,

Beth? Voglio dire, non è che non stai bene così. E' che, con abiti femminili, sa-

resti più... più...»

«Scomoda, William. E poi al mio Jack piaccio così come sono. Una volta ho

provato a mettermi un abito della mamma. Sa, veniva dalla Francia. Jack ha

trattenuto a stento le risate.»

«Jack non capisce niente di ragazze. Se papà avesse osato ridere della mam-

ma... Non oso pensare cosa gli sarebbe capitato.»

«Non ci credo, William. Sua madre è una persona deliziosa e adora letteral-

mente suo padre.»

«Già, ma son tre mesi che non si fa viva con lui. Se l'amasse come Doris ama

me...»

«Non dica così, William. E lei, allora? Ha detto che sono quasi dieci anni che

non lo vede. Lei non gli vuol bene forse?»

«Ma è diverso, Beth. Io ho la mia vita e...»

«No, non è diverso, William. Sua madre ama voi due alla stessa maniera. Si è

mai chiesto perché passa più tempo con lei invece che con suo padre?»

«Beh, no. Ma tu che ne sai?»

«Lei dimentica che io sono la fidanzata di Jack e che passo a casa sua quasi più

tempo che a casa mia. E non sono stupida. Non sono un'impicciona e non met-

to bocca nelle cose che non mi riguardano. Ma ho le orecchie.»

«Parlano di me? Che cosa dicono?»

«Lo saprà da loro quando saremo al ranch. Io le dirò solo una cosa. Non ne

hanno mai parlato, ma l'ho capito. Sua madre vuole ugualmente bene ai due

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Letizia uomini della sua vita ma sa che, tra i due, quello che ha più bisogno di lei non

è il marito. E' lei William. Lei e sua moglie Doris.»

«Come puoi dire una cosa del genere, Beth?»

«So che sua moglie è orfana e che ha solo lei al mondo. E che lei, per motivi di

lavoro, non è quasi mai a casa. Doris ha due bambini piccoli e un marito a cui

badare. E la casa da tenere in ordine. E' faticoso, sa?»

«Ma io... io...»

«E scommetto che, ogni volta che sua madre lascia Washington per venire qui,

lascia qualcuno che dia una mano a sua moglie.»

«E' vero, perbacco. Quando la mamma viene qui da papà, c'è sempre una

donna che viene ad aiutare Doris.»

«E quanto la pagate, se non sono indiscreta?»

«Ma, non lo so. E' Doris che si occupa della parte finanziaria. Di tutto quello

che guadagno, mi tengo solo pochi spiccioli.»

«Deve guadagnare molto bene, se può permettersi una domestica a tempo

pieno.»

«Beh, io...»

«Si svegli, William. E' sua madre che paga tutto.»

«Mia madre! Ma... come...»

«Non lo sapeva, vero? Mi dispiace, William. Sono stata indiscreta. Ma...»

«No, no, Beth. Era ora che qualcuno me le cantasse. Me lo merito. Sono pro-

prio una testa di legno.»

«Ma io non gliele ho cantate, William. Ho solo...»

«No, Beth. Hai fatto bene. Sei una ragazza molto matura per la tua età. Solo

che non mi sarei mai aspettato una lavata di testa da una ragazzina alta una

spanna. Sono proprio un metro e novanta di giuggiolone.»

«Oh, no. Lei è proprio un brav'uomo, William. Solo che lei è come tutti gli altri

uomini. Vi intendete solo di cavalli e di mucche. Le donne per voi sono il più

gran mistero dell'universo.»

«Questa poi. E non continuare a darmi del lei. Mi fa sentire più vecchio di quel

che sono.»

«OK, Will. Posso chiamarti Will, vero?»

«Ma certo, Beth. E poi, sto per diventare tuo zio, no?»

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Il treno per Santa Fé

«Kelvin, ti dico che è così. Tim non è sparito con i soldi. E' stato ucciso da un

grizzly in una località a nord est di Santa Fé. Non ho capito bene dove. Ma non

aveva il denaro con sé.»

«Come fai a sapere queste cose?»

L'uomo si gira e si rivolge al nuovo arrivato: «Ah bene, Burt. Meno male che

sei arrivato. Questi due testoni non vogliono credermi.»

«OK, Benny. Cosa è successo? Racconta.»

«Presto detto, Burt. Stamattina è arrivato dallo sceriffo un ranger o qualcosa

del genere. Ha fatto un sacco di domande su Tim. Sono certi che c'entri nella

rapina al treno perché gli hanno trovato addosso delle banconote... Sai, erano

segnate. Cioè c'era un elenco dei numeri di serie. Proprio come sospettavi tu.»

«OK. E poi?»

«Il ranger ha detto che hanno trovato Tim sbranato da un orso. Capisci? Non è

scappato con i nostri soldi, Burt. Ci ha lasciato la pelle. E' per questo che non si

è fatto più vivo. Non era scappato col denaro. E poiché gli hanno trovato ad-

dosso solo pochi spiccioli, è chiaro che deve aver nascosto i soldi da qualche

parte. Non ci ha tradito, povero Tim.»

«Già, ma noi non sappiamo dove ha nascosto i nostri soldi. Bella sfortuna. Quel

deficiente è andato a farsi accoppare da un orso.»

«Non parlare così, Kelvin. Tim era mio amico ed era una brava persona. Non ci

ha tradito.»

«Ok, Benny. Ma Kelvin ha ragione. Non sappiamo dove Tim ha nascosto i sol-

di.»

«Ma possiamo cercare di capirlo, Burt. Intanto cerchiamo di sapere con esat-

tezza dove hanno trovato Tim.»

«Slim ha ragione, Burt. Potremmo cercare il nascondiglio partendo da quel

luogo. Siamo in quattro e possiamo dividerci il terreno di ricerca.»

«La fai facile tu, Benny.»

«No, Burt. Non è affatto facile. Potremmo impiegarci anche dei mesi. ma non

credi che ne valga la pena?»

«Già. Un milione di dollari è una bella cifra, non credi?»

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Letizia «Piano, piano. E come avete intenzione di procedere? Ce ne andremo da Albu-

querque? Abbandoneremo le nostre attività? E se poi non riusciamo a trovare i

soldi? Cosa faremo?»

«Burt ha ragione. Non possiamo mandare tutto al diavolo. E se poi Tim avesse

detto a qualcuno dove ha nascosto il denaro? Se questo qualcuno l'avesse già

preso? Magari ora sta spassandosela chissà dove alla faccia nostra.»

«Ok, ragazzi. Adesso cominciamo a scoprire qualcosa di più su questa faccen-

da. Ma nessuno faccia mosse avventate e soprattutto cerchiamo di evitare lo

sbirro. Comportiamoci normalmente come abbiamo sempre fatto. Non faccia-

mo niente di insolito. Insomma, le solite cose di tutti i giorni. Siamo oneste

persone rispettabili. E tu, Benny, cerca di scoprire qualcosa su questa faccen-

da. Sei l'aiutante dello sceriffo e il tuo interessamento su questo caso verrà in-

terpretato come scrupoloso attaccamento al tuo lavoro. Ci si riunirà di nuovo

solo se scopriremo qualcosa di interessante.»

«Va bene, Burt. Il capo sei tu. faremo come dici.»

«Non sono più il capo, Benny. Sono solo interessato, come voi, a recuperare

questa montagna di denaro. E ora, via tutti. Ma uno alla volta. meglio non dare

nell'occhio.»

«Siamo arrivati, Will. Ecco laggiù il ranch. Tua madre non è ancora arrivata.

Non vedo l'automobile.»

«Io sì.»

«Tu la vedi? E dove?»

«Non è ancora arrivata, Beth. Ma sta per arrivare. E' laggiù.»

Punta il dito in una direzione dove però la ragazza continua a non vedere nien-

te.

«Sei sicuro, Will? Io non vedo un accidente.»

«Guarda meglio, Beth. Laggiù, quel polverone.»

«Polverone? Dove? Aspetta... Ora lo vedo anch'io. Ma chiamarlo polverone... E'

una nuvoletta di polvere. Come diavolo hai fatto a vederla? Hai davvero la vi-

sta più acuta di quella di un'aquila.»

«Dimentichi di chi sono figlio, Beth.»

«Già.»

«Bene. Muoviamoci allora.»

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Il treno per Santa Fé In breve sono sulla strada che porta al ranch.

Qualcuno dei cowboy sta cercando di capire chi siano i due cavalieri che si

stanno avvicinando.

Uno di loro ha dei binocoli e li sta scrutando.

William lo capisce dal riflesso del sole su una lente.

Poco dopo i cowboy sparano numerosi colpi di revolver in aria.

«Credo che qualcuno mi abbia riconosciuto, Beth.»

«E' probabile, Will. I cowboy sono quasi tutti gli stessi che erano al ranch

quando te sei andato. Solo due o tre sono qui da poco.»

Gli spari continuano.

«Will, guarda. Quel cavaliere laggiù. Sta correndo come un matto verso il

ranch. E' Jack.»

«Jack? Come fai a dirlo? E' troppo lontano. Non puoi averlo riconosciuto.»

«Il suo cavallo. E' un pezzato inconfondibile. E poi solo lui è capace di cavalca-

re in quella maniera. Sembra incollato alla sella. E' il mio Jack.»

Prima ancora che possano arrivare al ranch, Jack li raggiunge.

«Ciao, Beth. Ma chi diavolo...»

«Ciao, Jack» lo interrompe William.

«Ci conosciamo? Ma... Che mi venga... Billy! Sei proprio tu?»

«Billy?»

«Sì, Beth. Credevi di essere l'unica a essere chiamata in più modi? William,

Will, Bill, Billy. Credo proprio di batterti sul numero.»

«Il bambino allora deve essere il piccolo Kit.»

«Io non sono piccolo e non sono un bambino. Ho otto anni.»

«Già, è vero. Scusa, non me n'ero accorto. Ma, sai. Non hai lo Stetson e le

colt. Qui tutti i cowboy portano revolver e cappello. Ma rimedieremo presto.»

«Ah, no. Niente armi. Solo il cappello.»

«Hai sentito tuo padre? Niente pistole.»

Si avvicina al cavallo di William, si toglie il suo Stetson e lo mette sulla testa

del ragazzino.

«Intanto prendi il mio, poi vedremo di trovarne uno della tua misura» aggiunge

Jack mentre il bambino si tira un po' su il cappello che gli era calato sugli occhi.

«Immagino che nella macchina che solleva tutto quel polverone ci siano anche

Doris e la nonna. Non mi dire che c'è anche la piccolina.» 665

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Letizia «Sì, ci siamo proprio tutti. Ma se mia madre scopre che tu l'hai chiamata non-

na, ti spella vivo.»

«Ma no. La nonna è una creatura angelica. E poi io sono il suo nipote preferi-

to.»

«Contento tu.»

Intanto sono arrivati al piazzale antistante la grande casa dalle pareti bianche.

Scendono da cavallo e tutti i cowboy gli si fanno intorno.

Fanno tutti una gran festa a William.

Dopo tutto, sono quasi dieci anni che manca da casa.

Jack fatica non poco ad arrivare fino a lui.

«Lasciati abbracciare, zio.»

Lo stringe affettuosamente a sé e non può far a meno di avvertire qualcosa

sotto la giacca di William.

«Ehi, che diavolo hai sotto la giacca?»

«E' la mia M1911 semiautomatica.»

«Una pistola?»

«Una colt, per la precisione.»

«Hai una pistola, Will? Mi sembrava strano che un ranger andasse in giro di-

sarmato.»

«Non sono un ranger, Beth.»

«E' vero, Beth. Lui è un agente governativo del B.O.I.»

«Il B.O.I.? E cos'è?»

«Il Bureau of Investigation1 è un'agenzia federale, Beth. Si occupa di crimini

particolari e opera in tutto il territorio nazionale, dall'Atlantico al Pacifico.»

«William!»

La voce alle loro spalle li fa girare.

«William, sei proprio tu? E non mi dire che questo ometto è tuo figlio Kit.»

«Ciao, Luna.»

«Fatti vedere. Dio, quanto sei bello. Non mi dire che hai portato anche tua mo-

glie...»

«Mamma, ma cosa dici? Se ti sente papà...»

1 Il B.O.I. nasce nel luglio del 1908 e diventerà Federal Bureau of Investigation, il famoso F.B.I., nel 1935.

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Il treno per Santa Fé «Jack, perché non vai in cucina a dire a Mamie che abbiamo ospiti. Dille che

sono numerosi e affamati.»

«Oh, mamma...»

«Rimani pure con tuo zio, Jack. Vado io da Mamie.»

«OK, Beth. Grazie. Ci vediamo più tardi» e la bacia sulla guancia.

Il rumore dell'automobile di Miguel comincia a farsi sentire.

«A quanto pare sta arrivando mia madre. E con lei Doris e la bambina.»

«Ciao, nonna. Che piacere rivederti. Ciao Doris. E questa bella bambina è...»

«Ciao, Jack. Sei ancora tutto intero? Hai smesso di volare, allora.»

«Per niente, nonna. La mia Betty è un gioiellino e funziona sicuramente meglio

del vecchio macinino di Miguel. Se ci avvisavi, venivo a prenderti con la mac-

china di papà.»

L'ha chiamata nonna per ben due volte e ha ancora tutte le ossa intere.

William non crede ai suoi occhi e alle sue orecchie.

«Ciao, Luna. E il mio Tex, dov'é?»

«Quale Tex, Lois? Senior o Junior?»

«Luna, Luna. Lo sai che, per quanto voglia bene a tuo figlio, c'è solo un Tex

per me.»

«Comunque sono tutti e due al pascolo. Anzi, tutti e quattro. Con loro ci sono

anche Tiger e il mio Falco. Saranno qui tra poco. Venite in casa. Sarete stanche

tutte e tre.»

Si avvicina alla moglie di William che tiene in braccio la figlia.

«Ciao, Doris. Sei la benvenuta. La mia casa è la tua casa. I tuoi figli sono i miei

figli.»

La bacia sulla guancia e poi le prende delicatamente la bimba dalle braccia.

«E tu chi sei, piccolina?»

La bambina si lascia prendere in braccio da quella che per lei è una sconosciu-

ta.

Ma non risponde e abbassa timidamente lo sguardo.

«Le devi essere simpatica, Luna. Ti posso chiamare così, vero?»

«Certo, cara.»

«E' la prima volta che si lascia prendere in braccio da qualcuno che non cono-

sce. Ci sai fare con i bambini.»

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Letizia «Beh, per casa ne ho avuti quattro. Due miei e due di Sara.»

«A proposito, Luna, dov'è Sara?»

«Sarà qui a momenti, William. E' andata a far giocare i figli con l'aereo.»

«L'aereo?»

«Sì, zio Billy. Abbiamo un aereo, non lo sapevi? Se sei passato dal bosco di be-

tulle come penso, dalla collina non puoi non aver visto la pista.»

«Beh, sì. L'ho vista, ma non pensavo che fosse la pista per un aereo.»

«Hai un aereo qui, Jack? Me lo fai vedere? Mi ci porti a fare un giro?»

«Ehi tu, ragazzino. Se vuoi vedere l'aereo, niente da ridire, ma niente voli. Ci

siamo capiti?»

«Ma, papà...»

«Niente ma, Kit. Se papà ha detto no, è no e basta. E poi non voglio nemmeno

io. E' troppo pericoloso.»

Jack vorrebbe intromettersi e dire che non è per niente pericoloso, ma capisce

che è meglio di no.

D'altronde non è mai riuscito a far volare neanche Elisabeth.

«Ora basta con le chiacchiere. Sono stanca morta e anche Doris e la bambina

hanno bisogno di riposare un po'.»

«Lois ha ragione. Jack, tu e William andate incontro a tuo padre e gli altri.

Anch'io non vedo l'ora di vedere tutta la famiglia riunita.»

«Beh, andiamo Jack. Non vedo l'ora di riabbracciare mio padre.»

«Non c'è bisogno, Billy. Voltati. Stanno arrivando. La vedi quella nube di polve-

re laggiù?»

«Sono loro?»

«Sì. La camicia gialla del nonno è inconfondibile.»

«La camicia gialla? Mia madre la odia.»

«La mette tutte le volte che lei non c'è.»

«Già.»

William pensa a quello che gli ha detto Elisabeth.

E' ora che sua madre rimanga definitivamente qui al ranch, con papà.

E' stato fin troppo egoista.

La mamma non è più una giovincella e ha bisogno di un po' di tranquillità.

Qui al ranch sarà servita e riverita e starà insieme all'uomo che ha amato di

più nella sua vita. 668

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Il treno per Santa Fé «Mi fai vedere la tua colt, Billy?»

La voce di Jack gli arriva come da molto lontano, tanto era assorto nei suoi

pensieri.

«Come? Ah, sì. La colt. Tieni.»

Gli porge l'arma tenendola dalla canna.

Jack la prende e la fa roteare un paio di volte.

E' un'arma stupenda.

E' di un acciaio chiarissimo e lucido, che sembra quasi argento.

E' finemente lavorata e l'impugnatura è ricoperta da due lastre di legno intar-

siato.

«E' molto bella. Leggera e maneggevole. E' precisa?»

«E' precisissima. E anche molto veloce. Ti consente di sparare i colpi in rapida

successione.»

«Più veloce di una colt Navy? Non credo proprio.»

«No? Perché non la provi?»

«Posso davvero?»

«Certo. Togli la sicura. E'...»

«Lo so.»

Jack spara tre colpi velocissimi verso una pietra a una decina di passi.

Inutile dire che tutti i colpi vanno a segno.

«Niente male.»

«Te lo dicevo. E' un fulmine.»

Jack non sembra convinto.

«Uhm. Sono stato veloce?»

«Velocissimo. Io stesso non avrei saputo fare meglio.»

Jack allora lancia l'arma in aria, estrae la sua colt Navy dalla fondina, spara tre

colpi alla solita pietra, rimette la pistola nella fondina e afferra l'arma che ave-

va lanciato in aria.

Sorridendo, la fa roteare di nuovo mentre William lo guarda stupefatto.

«Ma come diavolo hai fatto? Si è sentito quasi un unico sparo.»

«Se tieni premuto il grilletto e armi il cane con il palmo della mano sinistra, di-

pende tutto dalla velocità con cui armi il cane. Non c'è neanche bisogno di ar-

marlo fino a fine corsa. Basta che il tamburo sia ruotato quel tanto che basta

per avere un nuovo colpo sotto il cane.» 669

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Letizia «Se avrò bisogno di aiuto, saprò dove andare a cercarlo, allora.»

«Niente da fare, zio. Non sparerò mai più contro un uomo. Ne ho avuto abba-

stanza a Verdun2.»

Nel frattempo Tex, senior e junior, Kit e Tiger Jack sono arrivati nel piazzale

davanti alla casa.

«Jack, si può sapere che ti prende? E chi è... Che mi prenda un colpo...»

«Ciao, fratellone. Ciao, papà.»

L'espressione imperturbabile di Tiger non lascia trapelare la sua pur grande

sorpresa.

E Tex non è da meno.

Solo Tex junior si unisce alle esclamazioni di meraviglia di suo padre.

«Ciao, Tiger. Ciao, Junior» aggiunge William.

E Tex, accorgendosi del silenzio del nonno, cerca di riscaldare gli animi.

«Adesso ti ci metti anche tu a chiamarmi Junior?»

«Hai ragione. Avrei dovuto chiamarti Eagle, come fa Jack.»

«Ci manca solo questo. Jack ha smesso di chiamarmi così da un pezzo ormai.

Non cominciare tu ora.»

«OK. Ti chiamerò Tex e chiamerò papà il Tex senior.»

«Tua madre è arrivata con te?»

La voce di Tex arriva improvvisa.

«Sì, papà. E ci sono anche Doris e i ragazzi.»

«Hai portato anche tua moglie e i miei nipotini?»

William nota che il padre ha nominato Doris come "tua" moglie e i ragazzi co-

me "miei".

Scendono tutti da cavallo.

Un paio di cowboy che erano nei paraggi si occupano di portare le bestie nella

stalla.

«Ragazzi, mi raccomando. Dategli una bella strigliata e che abbiano fieno e ac-

qua in abbondanza.»

Il tono di Kit non è quello del padrone che comanda, ma piuttosto di chi chiede

quasi per favore.

2 Vedi il romanzo "I due fratelli".

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Il treno per Santa Fé Ma non ce ne sarebbe stato bisogno perché i "boys" sanno quello che devono

fare.

Tex si avvicina al figlio e, senza dire una parola, lo stringe a sé in un lungo ab-

braccio.

William rimane un po' sorpreso.

Il padre non lo aveva mai abbracciato così.

«Willy, tizzone d'inferno. Sono quasi dieci anni...»

Non finisce la frase.

Forse lo fa per evitare che il figlio noti un groppo nella sua voce.

«Papà, le cose cambieranno. Intanto la mamma resterà qui con te. Per sem-

pre. Lei ancora non lo sa. Ma sarà così. E io mi farò vivo più spesso.»

«Tua madre non lo sa?»

«Ancora no.»

«Sei tu che hai preso questa decisione per lei?»

«Sì. E ti assicuro che lei ne converrà.»

«Tu non la conosci abbastanza. Ha la testa più dura del ferro...»

«Papà, se vogliamo parlare di teste dure, non credo che mi batta nessuno. Ho

ereditato la cocciutaggine non solo dalla mamma, ma anche e soprattutto da

te. O forse credi di essere uno zuccherino?»

«Sarà.»

«E come mai hai preso questa decisione, Willy?»

«E' stata la ragazza di tuo figlio, Kit. Un soldo di cacio di ragazza ha aperto gli

occhi a un testone come me.»

«La mia Beth, zio Billy?»

«Proprio lei. Ho fatto il viaggio con lei da Albuquerque fino al ranch. E il viaggio

è lungo.»

«E che diavolo ti ha detto?»

«Niente di particolare, Jack.»

William non ha voglia di parlarne, anche se sa che non rimarrà certo un segre-

to.

La sua miopia non è un segreto e non lo rimarrà a lungo.

Se non ne parlerà Elisabeth, e William è sicuro che lei non lo farà, sarà lui

stesso a dirlo, specialmente a sua madre.

Ma ora non ne ha voglia. 671

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Letizia Solo allora Kit nota la pistola luccicante che è rimasta nelle mani di Jack.

«E quest'arma stupenda è tua, Willy?»

«Già. E tuo figlio mi ha appena dimostrato di saperci fare meglio di me. E dire

che io, non solo la conosco meglio, ma devo dire che non me la cavo niente

male con le colt.»

«Sarai anche bravo, William, ma Jack non lo batte nessuno con le colt. A parte

me, naturalmente.»

«Un corno. Io sono molto più veloce di te, Tex.»

«Ma io sono molto più preciso, Jack.»

«E' inutile che fate tanto i furbi, voi due. Vostro nonno, solo una ventina di an-

ni fa, non vi avrebbe neanche lasciato il tempo di estrarre. Ed era capace di

colpire mezzo dollaro a cento passi.»

«Esagerato. Papà, dai. Nessuno colpisce una moneta a cento passi con una

colt.»

«Padronissimo di non crederci, Jack. Adesso restituisci la pistola a Willy e an-

diamo a casa. Sono impaziente di conoscere Doris e i bambini.»

Le donne e i bambini sono tutti riuniti nella grande biblioteca.

C'è anche Sara con i suoi figli Tommy e Charlie che hanno fatto subito amicizia

con il piccolo Kit.

Naturalmente la festeggiata è Doris.

Ed è naturale che sia così perché è la prima volta che viene al ranch dei Willer.

Lois, anche se negli ultimi tempi è stata parecchio assente, è di casa.

Luna d'Argento naturalmente è la regina della casa e Lois non ha mai interferi-

to sulla sua gestione del ranch.

Ma, sapete com'è Lois.

Ama stare al centro dell'attenzione e Luna, che la conosce bene, l'asseconda in

tutto.

Diciamo che, quando Lois è al ranch, ci sono due regine.

Due regine che però vanno molto d'accordo.

E i re?

Lo sanno tutti che a scacchi il pezzo più forte e importante è la regina.

Quando Tex (il vecchio, voglio dire) attraversa la porta della biblioteca, Lois si

alza dalla poltrona in cui era sprofondata e gli corre incontro.

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Il treno per Santa Fé Sembra una ragazzina.

Dove la prenderà poi tutta quell'energia è un mistero.

Tex a sua volta le va incontro velocemente e, quando lei gli arriva "a tiro",

l'abbraccia e la solleva da terra facendola roteare.

Le bacia i suoi capelli profumati e neri (ma a proposito, non dovrebbe averli

bianchi o quantomeno grigi?)

Nella stanza tutti li stanno a guardare compiaciuti.

Tranne naturalmente i tre bambini che stanno giocando sotto il tavolo con le

pistole dei grandi, scariche naturalmente.

«Dio mio, Lois. Quanto mi sei mancata.»

«Da oggi in poi non ti mancherà più, papà. La mamma rimarrà qui con te. Per

sempre.»

«Ah, sì?» lo interroga lei.

«E quando sarebbe stata presa questa decisione? E da chi?»

«Da te ora, mamma. Io ho solo indovinato le tue intenzioni. Ti conosco troppo

bene.»

«Ma guarda. Io avrei deciso. E come mai io non lo sapevo e invece tu lo sapevi

benissimo?»

Si guarda in giro e nota che Elisabeth sta cercando di far finta di niente, mal

celando un sorriso sornione.

«Voi ne sapete qualcosa? Qualcuno ne era a conoscenza per caso?»

«Perché, mamma? Non vuoi rimanere con papà d'ora in poi? Non ne saresti

contenta?»

«Certo che ne sarei contenta. Io amo tuo padre molto più di quanto ami te,

giovanotto. Lui lo sa. E credo che lo sappia anche tu.»

No, accidenti, che non lo sapeva.

Ma è una rivelazione che non gli dispiace affatto.

«Bene. Allora va tutto bene. Ho indovinato, a quanto pare. Tu rimani qui e noi,

quando avrò finito l'indagine, ce ne ritorneremo a Washington. Io, Doris e i

bambini.»

«Indagine? Quale indagine?»

Tex si è fatto scuro in volto e William lo ha notato.

«La rapina al treno. Quella di tre anni fa. E' diventato un reato di competenza

federale e me ne sto occupando io.» 673

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Letizia «Vuoi dire che sei venuto ad Albuquerque per lavoro e non per venire a trovare

la tua famiglia? Dopo dieci anni che non ti fai vivo?»

«Non è vero, papà. Ti ho scritto centinaia di lettere e...»

«Non è la stessa cosa.»

«E' vero. Ma lo sai che ho un lavoro molto impegnativo e...»

«Tanto impegnativo che non ti consentono neanche di prenderti un paio di set-

timane di riposo?»

«Certo, papà. Sono un agente federale e...»

«Beh, lo ero anch'io, se permetti.»

«Papà, non c'è paragone. Tu facevi quello che volevi quando eri un ranger. Hai

mandato a quel paese più pezzi grossi tu che tutto...»

«Ma non ho mai rifiutato un incarico.»

«Certo che no. Ma avevi più libertà di movimento. Ti potevi permettere tutte le

pause che volevi. E, se vuoi proprio saperlo, il caso della rapina era già bello

che chiuso. Sono stato io a chiedere che venisse riaperto per poter venire qui.»

«Ah, bene. Ma se non lo facevano non saresti vento, vero?»

«No, papà. L'hanno riaperto per farmi un favore. Grazie anche al mio ottimo

stato di servizio.»

«Basta ora.»

La voce di Lois è tale da non ammettere repliche.

«Se credete di cambiare discorso litigando vi sbagliate di grosso.»

«Ma noi non stiamo litigando.»

La voce di padre e figlio si uniscono in coro, come se fosse una sola.

«Bene. Allora?»

«Allora cosa, mamma?»

«Quando hai deciso che non mi avresti permesso di venire con te e Doris a

Washington?»

«Ma non dire idiozie, mamma. Non è affatto così. Sai che io e Doris ti vogliamo

un gran bene e che ci fa piacere averti in casa con noi. Ma ora è giusto che tu

e papà passiate tutto il vostro tempo insieme. Qui al ranch. Ti sei sacrificata

abbastanza, mamma. E ora...»

«Sacrificata? Ma non è stato un sacrificio. Lo sai.»

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Il treno per Santa Fé «Sì che lo è stato, invece. E non solo tuo. Ma anche di papà. Lui ti adora, lo

sai. E farebbe qualsiasi cosa per te. Anche restare senza di te. Ma io non posso

più permetterlo.»

«Tu cosa...»

«Basta, mamma. Sai che ho ragione. Lo so che hai la testa dura. Ma io ce l'ho

più dura di te. E poi ti stai comportando come se tu non volessi rimanere e...»

«Adesso stai esagerando, William. Se vuoi proprio saperlo, avevo già deciso di

rimanere e di lasciarti vivere la tua vita con la "tua" famiglia. Con Doris e con

quegli amori dei tuoi figli. E anzi, non sapevo proprio come dirtelo. E ora mi

sembra di fare la figura di una donna che lascia far prendere al figlio le deci-

sioni che la riguardano.»

«Oh, mamma. Sei impossibile.»

William la abbraccia e la stringe a sé fino quasi a farle male.

Luna d'Argento, sorridendo, interrompe il battibecco.

«Bene. Allora tutti di là in sala da pranzo. Vedo laggiù Mamie che ci sta venen-

do ad avvisare che il pranzo è pronto.»

A metà pomeriggio Tex e Lois si godono un po' di fresco nella veranda sul lato

est della casa.

Hanno tante cose da dirsi.

Tex non riesce a nascondere la sua gioia.

Lois rimarrà per sempre al ranch.

Con lui.

Le tiene dolcemente le mani e le sussurra...

Ma lo sapete che siete proprio indiscreti?

Cercate un po' di lasciarli in pace.

Non credete che se lo meritino?

Le donne, a parte Lois naturalmente, sono nella biblioteca a chiacchierare.

Mamie ha preparato un ottimo tè e l'ha servito insieme con una quantità esa-

gerata di pasticcini.

Non sono ancora le cinque, ma credo che non importi a nessuno.

La piccola Lilyth si è addormentata in braccio a Luna.

Come?

675

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Letizia Non sapevate che la figlia di William e Doris porta il nome della prima moglie di

Tex?

Non ve lo avevo detto?

Beh, ve lo dico adesso.

E poi potevate anche immaginarvelo.

Hanno chiamato Kit il figlio più grande, quindi come potevano chiamare la

femminuccia?

Come dite?

Di solito alla figlia si dà il nome della nonna?

Non ditemi che avete pensato a Lois.

Si vede che non la conoscete bene.

Lois è unica al mondo.

Non avrebbe tollerato un'altra Lois Willer.

E adesso non venitemi a dire che non sapevate che Tex e Lois si erano sposati.

Inoltre William sapeva benissimo che al padre avrebbe fatto certamente piace-

re.

Quindi...

Discorso chiuso.

E gli uomini?

Indovinate dove stanno gli uomini.

E i bambini, naturalmente.

Indovinato.

Ma non era poi così difficile.

Sono tutti nella rimessa dove Jack tiene la sua Betty.

Ma naturalmente il vecchio Tex non c'è, direte voi.

Ve l'ho già detto che siete proprio indiscreti?

I bambini stanno litigando perché l'aereo ha solo due posti e loro sono tre.

E naturalmente chi rimane a becco asciutto è il povero Charlie che è il più pic-

colo e Tex, il giovane naturalmente, ha il suo bel daffare per tenerlo buono.

E' sempre così.

Sono sempre i più deboli che devono subire le prepotenze dei più forti.

«Tex, non è James quello che sta arrivando di corsa?»

«E' proprio lui, Jack. »

«Chi è questo James?» 676

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Il treno per Santa Fé «E' l'aiutante dello sceriffo, William.»

«Grane in vista, allora.»

«Non dirmi che hai anche tu un sesto senso, Billy. Come il nonno.»

«Uhm. L'aiuto sceriffo che è venuto fin qui. E sta correndo. Grane.»

«Signor Willer...»

«Chi cerchi, James? Quale di noi quattro stai cercando?»

«Il signor William, l'agente federale.»

«Sono io, James. Sei l'aiutante dello sceriffo? Non ti ho visto stamattina. C'era

solo lo sceriffo e quel tizio. Come si chiama... Benny mi pare.»

«Proprio lui, signore. E' per questo che sono qui. L'hanno ammazzato.»

«Ammazzato? Come è successo? E chi è stato?»

«Non si sa, signore. L'ho trovato morto io. Verso l'una. Nell'ufficio dello scerif-

fo. Ero andato a pranzo e lui era rimasto lì. Poi sono tornato per dargli il cam-

bio. Sa, facciamo sempre così. Uno di noi due va a mangiare e l'altro resta. E

poi...»

«Sì, ho capito. Continua.»

«Oggi sono andato io a pranzo per primo. E quando sono tornato, l'ho trovato

vicino alla porta, tutto insanguinato.»

«Come è morto?»

«Accoltellato, signore. Una coltellata alla pancia e una al torace. Il Doc ha det-

to che gli hanno spaccato il cuore.»

William estrae il suo orologio dal panciotto.

«Peccato.»

«Perché peccato, Will?»

«Perché è tardi, Kit. Anche se partissi subito, non potrei essere di ritorno prima

delle dieci. E questa sera ho proprio voglia di stare con te e papà.»

«Ma se andrai domani, non sarà lo stesso, William?»

«No, Tex. Le ore più importanti nelle indagini sono quelle immediatamente

successive al crimine. E sono già passate circa quattro ore.»

«Bene. Allora ti ci porto io. In dieci minuti saremo ad Albuquerque.»

«Come? Vuoi dire che...»

«Certo, zio. Ti ci porto io con l'aereo.»

«Ma...»

«Non avrai mica paura di volare, vero?» 677

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Letizia «Paura? Ma che dici, Jack? E' vero che non ho mai messo piede su uno di que-

sti trabiccoli volanti, ma... Paura? Credo proprio di no.»

«E allora preparati. Vai a prendere la pistola e a dirlo agli altri. Io intanto con-

trollo l'aereo e vedo se ha il pieno.»

William non fa in tempo a dirlo.

«Vai in città con l'aereo di Jack, vero?»

«Papà. Come fai a saperlo?»

«Facile, Willy. James è prima passato da me e mi ha raccontato tutto. Sono

stato io a dirgli che eri nella rimessa. Dovevi assolutamente andare in città per

non far raffreddare la "pista". Ma è troppo tardi. L'unica soluzione è l'aereo di

Jack.»

«Hai sentito anche tu puzza di bruciato, papà?»

«Forte e chiara. Albuquerque è una città tranquilla. Non succede mai niente.

Arrivi tu e dopo poche ore c'è già un omicidio.»

«Già. Ci credo poco anch'io alle coincidenze.»

«E poi, chi vanno ad accoppare? L'aiutante dello sceriffo. E non uno a caso dei

due, ma proprio quello che stamattina ha sentito che tu sei venuto a indagare

sulla vecchia rapina al treno. Scommetto che non ha saputo tenere la bocca

chiusa ed è andato a spiattellarlo in giro. Magari è andato a raccontarlo proprio

al suo assassino.»

«La penso anch'io così, papà. E scommetto anche che...»

«... che questo sprovveduto è uno dei banditi della rapina al treno.»

«Già. E il suo assassino è uno dei suoi vecchi complici.»

«Ci puoi giocare la camicia.»

«A proposito di camicia, papà. Ho notato che l'hai cambiata. Non porti più la

tua bella camicia gialla?»

«Che fai, monellaccio? Hai voglia di essere sculacciato?»

«Ma no, mamma. Lo sai che...»

«E' meglio che ti levi subito dai piedi. E non nominare più quella orribile cami-

cia gialla. Credi che io non sapessi che tuo padre la indossava sempre quando

io non c'ero? Ma ora quei tempi sono finiti. Ora ci sono qua io e farò sparire

tutte le camicie gialle che trovo in giro.»

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Il treno per Santa Fé «Ma non puoi farlo, cara. Non sono tutte mie. Anche Kit e Jack ne hanno un

paio uguali.»

«Non temere. Il mio non sarà un furto, ma solo una sostituzione. Sono sicura

che nel cambio ci guadagneranno tutti.»

William si avvicina a Doris e la bacia.

«Ciao, amore. Ci vediamo fra un'ora, al massimo due.»

«Ciao, caro. Ma stai attento.»

«Amore, non parto per la guerra.»

«Lo so. Ma sai... L'aereo... ho un po' paura.»

«Ah, grazie, zia. Vedo che ti fidi molto di me.»

«Jack, non dire sciocchezze. Lo so che sei molto bravo. Il più bravo di tutti. Ti

hanno dato anche una medaglia. Però...»

«Ti hanno dato una medaglia?»

«Sì, Kit. Non lo sapevi?»

«No, William. Non lo sapevo.»

«Ma anche Tex ha ricevuto una medaglia. Non sapevi neanche questo?»

Si guardano tutti meravigliati.

Tranne naturalmente i due fratelli.

«E tu come fai a saperlo, zio?»

«Come faccio a saperlo? Ma a Washington lo sanno tutti. Al comando tutti i

miei colleghi non fanno che congratularsi con me come se le avessero date a

me.»

Kit si avvicina ai suoi due figli.

«Come mai non ne avete mai parlato?»

«Papà» è Tex che risponde, «quella medaglia è sporca del sangue di tutti quelli

che sono stato costretto a uccidere. Non ne vado fiero, sai? Anche se eravamo

in guerra, anche se erano nemici, anche se mi sono solo difeso. Ho comunque

spezzato delle vite umane. Inizialmente sparavo solo per ferire, ma poi... sono

stato costretto...»

«E tu, Jack? Cos'hai da dire?»

«Pa', lo sai come la penso. Hai letto le mie lettere, no? 3»

3 Vedi il romanzo "I due fratelli".

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Letizia «Ma non pensavate che avevamo il diritto di sapere che i nostri figli si erano

comportati da eroi? Non pensavate che la mamma sarebbe stata fiera di voi?»

E' sempre il figlio maggiore a rispondere.

«La mamma è già fiera di noi, papà. Non ha bisogno di patacche infiocchetta-

te.»

Un lungo silenzio.

Poi Kit si avvicina ancora di più ai figli e li stringe entrambi in un unico lungo

abbraccio.

«Ora va', Jack. Porta mio fratello in città e riportalo a casa il più presto possibi-

le.»

Neanche dieci minuti dopo Jack atterra in una pista di fortuna ricavata dietro

il corral di Miguel.

«Come è andato il volo, zio?»

«Liscio come l'olio, Jack. Sei veramente bravo.»

«Vorrà dire che al ritorno faremo qualche piroetta.»

«Fai come vuoi. Ricorda però che io sono armato e che sono alle tue spalle.»

«Bada che se mi spari precipiti anche tu.»

«Non ti devo mica ammazzare. Poi chi lo sente tuo padre? No, mi basta farti un

po' male.»

«Bah.»

«Ehi, William. Che mi venga un colpo.»

William si è girato come un fulmine.

La sua colt semiautomatica è comparsa nella sua destra come per incanto.

«Ti verrà, Sam Wilkinson, se continui a comportarti così.»

«Ehi, ehi. Metti via quel cannone. Che ti prende? Non riconosci più gli amici?»

«Conosci questo buontempone, zio?»

«Ehi, Jack. Diglielo anche tu di metter via l'artiglieria. Dove andate di bello?»

«Purtroppo sì, Jack. E' un amico dei bei tempi andati.»

«Ah ah. Ti ricordi anche tu, eh? Quante ne abbiamo combinate insieme.»

«Quante ne hai combinate, Sam. Eri sempre tu quello che si metteva nei

guai.»

«Dai, non te la prendere. Vieni, ti offro un bicchierino.»

«Ora ho da fare, Sam. Un'altra volta.»

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Il treno per Santa Fé «Ma cosa avrai di così importante da fare per...»

«Sam, un'altra volta ho detto.»

La voce di William è dura e decisa.

Come a voler significare: non rompere le scatole, Sam, ti conviene.

«Va bene, va bene. Non ti scaldare. Sarà per un'altra volta. Però toccherà a te

pagare.»

Proseguono verso l'ufficio dello sceriffo senza ribattere.

«Zio, ma davvero eri amico di quell'impiastro?»

«Ci si frequentava, Jack. Abbiamo la stessa età e siamo cresciuti insieme. Suo

padre lavorava al nostro ranch.»

«Già. Io ero molto piccolo, ma lo ricordo anch'io.»

Lo sceriffo, uscendo dal suo ufficio nota i due Willer venire verso di sé.

«Signor Willer, non la aspettavo così presto. Cos'ha, volato?»

Ride della sua battuta.

E' ovvio che, per essere lì a quell'ora, deve per forza essere venuto con l'aereo.

E poi c'è Jack con lui a confermarlo.

«Stava andandosene, sceriffo?»

«Beh, sì. Andavo a fare il mio solito giro e poi me ne andavo a casa.»

«Vorrei vedere il povero Benny, se non le dispiace.»

«Venga, l'accompagno dal becchino.»

«Volete dire che già l'avete schiaffato dentro una cassa?»

«Beh, sì. Ma...»

«Meno male che non lo avete ancora sotterrato.»

Il becchino però c'era andato molto vicino.

Ci ha messo cinque minuti buoni a schiodare il coperchio della bara.

William esamina attentamente il poveraccio, soprattutto le due ferite da taglio.

E nota anche qualcosa sotto le unghie delle mani di Benny.

«Uhm.»

«Cosa c'è, zio? Cosa hai scoperto?»

«Frammenti di pelle sotto le unghie. Quest'uomo ha cercato di difendersi. Ha

graffiato il suo assassino. L'uomo che cerchiamo ha dei graffi da qualche parte.

Magari sul viso o sul collo.»

«Allora basterà cercare un uomo con dei graffi. Bravo, zio.»

«O magari una donna.» 681

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Letizia «No, sceriffo. L'assassino è un uomo. Ci vuole una forza notevole per infliggere

coltellate così profonde. Nel suo giro cerchi di scoprire se qualcuno ha qualche

graffio, magari coperto dal fazzoletto al collo.»

«Bene, inizio subito il mio giro.»

«No. prima voglio dare un'occhiata al suo ufficio. E' lì che è stato trovato. Vo-

glio vedere se riesco a trovare qualche indizio.»

Lo sceriffo appare un po' contrariato, ma non può certo dire no a un agente fe-

derale.

Una breve perlustrazione e i due si congedano dallo sceriffo che tira un sospiro

di sollievo.

Finalmente questo seccatore lo lascerà in pace.

«Andiamo, Jack. Si ritorna a casa.»

Quando sono sull'aereo Jack chiede: «Hai trovato qualcosa nell'ufficio dello

sceriffo?»

«Purtroppo no, Jack. E poi chissà quante persone sono entrate in quella stanza

dopo l'omicidio.»

«Strano, perché m'era parso che tu fossi interessato a qualche particolare che

mi è sfuggito.»

«L'ho fatto intenzionalmente, Jack.»

«Cosa?»

«Dare l'impressione di avere scoperto qualcosa.»

«Come? Vuoi dire che sospetti dello sceriffo?»

«Non sospetto nessuno e non escludo nessuno. Neanche lo sceriffo. Non ha

graffi, ma può essere complice dell'omicida.»

«Non sospetterai per caso anche di me?»

«No. Tu hai un alibi di ferro. Eri con me al ranch all'ora del delitto.»

«Ah, bene. Meno male perché, se non avevo un alibi, ero nei pasticci. Grazie,

zio.»

«Oh, Jack. Possibile che non riesci a capire quando ti prendo in giro?»

«Oh, zio. Possibile che non riesci a capire quando ti prendo in giro?»

Non finisce nemmeno la frase che l'aereo perde improvvisamente quota.

Sarà stato un vuoto d'aria?

«Burt, io ho paura.»

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Il treno per Santa Fé «Paura? E di cosa, Slim?»

«Ma come, Kelvin? Non lo capisci? Benny è morto, dannazione. E' stato am-

mazzato. Non può essere una coincidenza.»

«Slim ha ragione, Kelvin. Quel maledetto federale arriva in città per indagare

sulla rapina e poche ore dopo uno di noi ci lascia la pelle. Credevamo che il ca-

so fosse stato chiuso e invece...»

«Ma chi può essere stato? E quel Willer? Ha qualche sospetto?»

«Non lo so, Kelvin. Credevamo tutti che fosse venuto a trovare i parenti. Si è

portato dietro anche moglie e figli.»

«Io dico che quello sa qualcosa, capo. Ci scoprirà tutti. Magari è stato lui a uc-

cidere Benny. Magari si è accorto che lo sbirro ha scoperto qualcosa, ha cerca-

to di ammazzarlo e ha avuto la peggio.»

«Non dire idiozie, Slim. James ha detto che Willer si trovava al ranch di suo

padre. Non poteva essere qui ad ammazzare Benny.»

«Ma, Burt. Con l'aereo sarebbe arrivato qui in tempo. Poteva ammazzarlo e ri-

tornarsene tranquillo al ranch.»

«Sei proprio uno scemo, Slim. Non credi che qualcuno avrebbe visto l'aereo

dietro il corral di Miguel?»

«Ma allora chi è stato, Burt?»

«Non vorrei che lo sbirro si fosse portato dietro qualcuno che, a sua insaputa,

fosse interessato alla rapina.»

«Uhm. Forse hai ragione, Kelvin. Quei soldi farebbero gola a un sacco di per-

sone.»

«Potrebbe essere qualcos'altro e non solo i soldi, Burt.»

«Che vuoi dire, Kelvin?»

«Potrebbe essere anche vendetta, Burt. Qualcuno che magari crede che ab-

biamo abbandonato Tim nel posto dove è stato sbranato dall'orso. Dopo avergli

fregato il malloppo, naturalmente. So che aveva un fratello all'Est.»

«Ma noi non abbiamo abbandonato nessuno. E tantomeno non gli abbiamo fre-

gato i soldi. Siamo squattrinati che più di così non si può.»

«Sì, Slim. E' vero. Ma questo tizio non lo sa. Io penso che Kelvin possa avere

ragione. La sua ipotesi è plausibile.»

«Cos'è un'ipotesi, Burt?»

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Letizia «Ignorante. Vuol dire che quello che pensa Kelvin è possibile. Spiegherebbe

molte cose. L'assassino potrebbe essere andato da Benny per scoprire qualco-

sa sulle indagini del federale. Benny potrebbe aver capito qualcosa ed essersi

tradito. E quello l'ha fatto fuori. Non credo di trovare una spiegazione migliore.

Non è stato certamente uno di noi a far fuori il nostro amico.»

«Sicuro, Burt. Ma non dire più che sono un ignorante solo perché non conosco

qualche parola difficile.»

«Non dire così, Slim. Lo sai che tu per Burt sei come un fratello.»

«E' vero, Kelvin. Ma anche lui per me è come un fratello. E' stato Burt che mi

ha trovato lavoro al saloon. E mi ha aiutato tante volte quando ero in difficoltà.

Non so neppure quanti soldi mi ha prestato. Anzi, me li ha praticamente rega-

lati, perché non ce l'ho mai fatta a restituirglieli tutti.»

«Non ci pensare, Slim. Me li restituirai quando metteremo le mani sul mallop-

po. Ma adesso prudenza. Non sappiamo chi è questo misterioso assassino e

dobbiamo fare in modo che non sospetti minimamente di noi. E soprattutto,

nessuno ci deve più vedere insieme.»

«OK, Burt. Intanto io voglio tenere d'occhio un tizio che è arrivato ad Albu-

querque un paio di giorni fa. Potrebbe essere lui il nostro uomo.»

«Però stai attento, Kelvin. Non vorrei che ci lasciassi la pelle anche tu.»

«Tranquillo, capo. Ci tengo alla mia pelle.»

«Jack, se ti alzi da terra anche di un solo pollice...»

«Tranquillo, zio Billy. Faccio solo un paio di giri della pista. Promesso.»

Doris sta guardando la scena un po' apprensiva, tenendo la piccola Lilyth in

braccio.

Sta cominciando a piangere.

L'aereo sta facendo troppo rumore e lei si è spaventata.

«Adesso basta, Kit. Ferma l'aereo, Jack, e fallo scendere.»

«Ancora un po', mamma. Cinque minuti e poi scendo. Va bene?»

Il piccolo Kit, con un paio di occhialoni più grandi di lui, si sta divertendo come

un matto.

Armeggia con chissà cosa fingendo di pilotare l'aereo nella postazione dietro il

cugino Jack.

«Ora basta davvero, Kit.»

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Il treno per Santa Fé Che strano.

Gli riesce difficile chiamare un ragazzino di otto anni con il nome di suo padre.

Ma d'altronde i Willer non hanno avuto grande fantasia nello scegliere il nome

dei loro figli.

Con esclusione di suo fratello Tex che li ha chiamati con nomi completamente

nuovi.

E neanche nella famiglia di Sara c'è nessuno che si chiami Tommy e Charlie.

O Thomas e Charles e derivati.

«Ora basta davvero. Sto consumando tutto il carburante. E senza quello il mo-

tore si ferma. Lo sai?»

«Certo che lo so. A casa papà si ferma sempre a rifornire la sua macchina. Dice

che beve più di un cammello.»

«Ah. Quindi ora ci facciamo quest'ultimo giro fino alla rimessa. E poi te ne vai a

giocare con i tuoi cuginetti. OK?»

«OK. Ma loro non sono i miei cuginetti. Tu sei mio cugino. Tu e tuo fratello

Tex.»

«Ah. Non ci avevo pensato. E allora tu cosa sei per loro?»

Jack sorride divertito.

«Mah. Non lo so. Forse sono suo zio.»

«Si dice "il loro zio", birbante. E poi non credo proprio. Io sono il loro zio.»

«Lo chiederò a papà.»

Jack si dirige lentamente con l'aereo verso la rimessa.

Pochi minuti dopo lo scatenato ragazzino è insieme ai suoi "cuginetti".

«Jack, che ne diresti di fare un'altra capatina in città?»

«Sicuro, Billy. Non hai che da chiedere. La mia Betty e io siamo a tua completa

disposizione, lo sai. L'aereo volevo dire.»

William lo guarda divertito.

C'era proprio bisogno di precisare.

«Devo andare anch'io in città. Perché non ci andiamo tutti e tre con la macchi-

na? Magari ci fermiamo lì a pranzo e torniamo nel pomeriggio.»

«Perché no, Tex? Che ne dici, zio Billy? Non credo che se mancheremo a pran-

zo le donne troveranno da dire.»

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Letizia «Uhm. Potrebbe essere un'idea. Se andiamo dal vecchio Bruce, potrebbero ar-

rivarci alle orecchie pettegolezzi interessanti. E poi la sua cucina non è niente

male. E' ancora così, vero?»

«Verissimo, Billy. Da Bruce si mangia benissimo. Sua moglie è un'ottima cuo-

ca.»

«Bene, allora. Andiamo a sentire cosa ne pensano le "ragazze".»

«Non mi dire che hai bisogno del benestare di tua moglie, zio Billy. O addirittu-

ra della nonna.»

«Non si tratta di benestare, Jack. Si tratta che in una coppia le decisioni si

prendono in due. Non fai anche tu così con la tua Beth?»

«Ma chissà quante decisioni prendi sul lavoro senza neanche sentire Doris.»

«E' diverso, Kit. E lo...»

«Sei proprio una frana, zio. Possibile che non riesci a capire quando ti prendo

in giro? Credi che anch'io non lo chiederò a Beth?»

«Ho capito, ho capito. Anch'io lo chiederò a Sara.»

Mezzora dopo, sono tutti e quattro in macchina diretti verso Albuquerque.

Sì, avete indovinato.

Elisabeth ha voluto accompagnare Jack.

Ne approfitterà per andare allo store a fare un po' di acquisti.

«Allora, Jack. Quand'è che tu e Beth vi deciderete a fare il gran passo?»

IL volto di Elisabeth si colora leggermente.

«Non abbiamo ancora deciso, zio. E poi io vorrei una casa tutta per noi. E' vero

che la casa di papà è molto grande. Ma c'è già Tex con la sua famiglia. I suoi

bambini sono cresciuti e... Insomma, vorrei costruirmi una casa tutta mia.

Sempre lì al ranch. Ho già in mente il posto.»

«Certo. Ma intanto potreste sposarvi. Beth verrebbe ad abitare con te e nel

frattempo tu potresti costruire la vostra casa.»

«Li vuoi proprio vedere sposati questi ragazzi, William.»

«E ci sposeremo presto. La prossima primavera, penso. Se Beth naturalmente

mi vorrà sposare.»

«Ci devo ancora pensare, sai. Non credo che tu sia proprio il massimo come

marito. Sì, credo che dovrò pensarci molto bene.»

«Il massimo? Non troveresti uno migliore di me neanche in cent'anni.»

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Il treno per Santa Fé «Dici? Beh, qui in macchina ce ne sono già due che sono sicuramente meglio di

te. Peccato che siano già sposati.»

«Ma l'avete sentita, la signorina?»

«Certo. E secondo me ha ragione.»

«Ti ci metti anche tu adesso, Tex?»

«Devi dare sempre ascolto al fratello maggiore, Jack. E più saggio di te. E poi

la penso anch'io come lui.»

«Bah, siete impossibili. Tutti e tre.»

Sorridono mentre Elisabeth si stringe al suo Jack.

«Ehi, voi due. Non c'è abbastanza posto lì dietro?»

«Tu pensa a guidare, Tex.»

«Eh, caro Tex. Penso proprio che abbiano bisogno di accelerare i tempi delle

nozze.»

Il tempo passa velocemente quando regna l'allegria.

A metà mattinata l'allegra combriccola arriva ad Albuquerque.

«Ragazzi, io devo sbrigare alcune faccende. Ci vediamo per l'ora di pranzo dal

vecchio Bruce. D'accordo?»

«Certo, Tex. Mentre Jack e Beth vanno allo store, io faccio un salto dallo scerif-

fo e poi vado un po' in giro a fare qualche domanda. Vediamo se riesco a sco-

prire qualcosa.»

«No, zio. Io vengo con te.»

«Vuoi lasciare la tua Beth da sola, Jack?»

«Ma non è una bambina e...»

«Nessuno ha detto che lo è. Ma non ti stai comportando da vero gentleman.

Non la vuoi aiutare nei suoi acquisti e portarle i pacchi?»

«I pacchi? Quali pacchi?»

Jack appare un po' impacciato mentre Elisabeth guarda la scena trattenendo a

stento un sorriso divertito.

«Beh, quando Doris va a far spese, ritorna sempre con un sacco di pacchi, pac-

chetti e pacchettini. Non fanno così anche le ragazze di qui? Siete fortunati.»

Lo sapete come andrà a finire?

No?

Scarsa fantasia.

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Letizia Non solo Jack si annoierà a morte accompagnando Elisabeth a far spese, ma

lei, forse influenzata da quanto ha detto William sulle donne dell'Est, comprerà

un sacco di ninnoli e cianfrusaglie.

Almeno Jack pensa che siano oggetti inutili.

Elisabeth invece è convintissima che siano tutte cose indispensabili.

E indovinate chi le pagherà?

Questa volta era facile.

Mezzogiorno è passato da poco.

Tex ha sbrigato le sue faccende e si avvia verso la locanda di Bruce.

Entra per vedere se qualcuno l'ha preceduto.

E' il primo.

Si siede a un buon tavolo e aspetta.

Ma prima passa dalla cucina e chiede alla cuoca di preparare qualcosa di spe-

ciale per quattro.

«Magari anche una bella torta di mirtilli.4»

«Stia tranquillo, signor Willer. Le preparerò una mia specialità. Sarà una sor-

presa. E naturalmente anche un paio di torte. Ho paura che una sola non ba-

sterà.»

Da lì a poco arriva anche William.

«Sei solo, Tex? I piccioncini non sono ancora arrivati?»

«Non ancora. Temo che tra un po' vedremo arrivare il nostro Jack carico di

pacchetti.»

Ma, quando i due "piccioncini" arrivano, di pacchi neanche l'ombra.

«Com'è, Elisabeth? Non hai trovato niente di tuo gradimento?»

«Non conosci le donne, Tex. Beth ha quasi svuotato l'emporio. Abbiamo porta-

to tutto in macchina. Ho dovuto fare tre viaggi.»

«Esagerato. Tutto quello che ho comprato lo hai portato con una mano sola.

Non ho preso che pochissima roba. E solo quello di cui avevo uno stretto biso-

gno.»

«Sarà. E tu, zio, come ti è andata? Hai scoperto qualcosa?»

«Praticamente nulla. Qualcuno ha visto andare Benny verso sud nella main

street. Così praticamente posso escludere "solo" mezza città.»

4 Credevate che ordinasse una torta di mele? Allora avete sbagliato Tex. Questo è Tex Junior.

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Il treno per Santa Fé Insomma, una delusione.

Ma il modo per consolarsi c'è.

Eccome se c'è.

Il pranzo è stato ottimo.

La moglie di Bruce è davvero un'ottima cuoca.

Ha pure insegnato qualche ricetta a Mamie.

E la torta di mirtilli.

Non hanno mai mangiato niente di più buono.

Mentre Tex e William stanno litigando su chi deve pagare il conto, si ode uno

sparo.

In un attimo sono in strada per vedere cosa è successo.

«Stai qui dentro, Beth. Non uscire.»

«No, Jack. Non andare.»

Ma Jack è già fuori con Tex e lo zio.

William si guarda intorno e improvvisamente salta letteralmente addosso ai

suoi nipoti facendoli ruzzolare per terra.

I colpi sparati da una finestra della casa di fronte vanno così a vuoto.

«Jack. Mio Dio, Jack.»

Elisabeth, disobbedendo al fidanzato, è uscita in strada e urla.

«Tranquilla, Beth. Sto bene. Rientra nella locanda.»

Tex, dopo una rapida occhiata al fratello e allo zio, raggiunge di corsa la parte

opposta della strada.

William e Jack intanto rispondono al fuoco sparando verso la finestra.

Tex, svelto come un felino, con un salto si aggrappa al pavimento del balcone

al primo piano e velocemente raggiunge la ringhiera.

In un attimo si trova sulla balconata vicino alla finestra dalla quale sono partiti

i colpi.

Tenendosi al riparo, getta il suo Stetson all'interno della stanza.

Nessuna reazione.

Si affaccia velocemente e butta un rapido sguardo all'interno della stanza.

Un corpo a terra e nessun altro.

Salta nella stanza e si dirige verso la porta spalancata.

Il corpo che giace a terra ha il volto sfigurato da un colpo di arma da fuoco.

Esce dalla stanza e dà un'occhiata alle scale che scendono a terra. 689

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Letizia Alla prima rampa c'è una finestra.

E' aperta e di sicuro l'assassino è fuggito da lì.

Scende ed è raggiunto dallo zio e da Jack.

Guardano tutti e tre dalla finestra.

Ma non si vede nessuno.

L'assassino si è dileguato in un dedalo di cortili e viuzze.

Jack salta dalla finestra che si trova a poco più di un metro da terra.

«Vedo se riesco a trovare qualche traccia di quel maledetto.»

«Sta' attento Jack.»

«Non ti preoccupare, fratellone. Sono un esperto di guerriglia. Lo hai dimenti-

cato?»

«Stai attento lo stesso. OK?»

Intanto William è salito nella stanza e sta guardando il corpo sul pavimento.

«Chi è? Lo conosci Tex?»

«E' Kelvin Douglas. Il barbiere.»

«Questa è casa sua?»

«Sì. Abitava qui da solo» risponde Tex chinandosi a raccogliere il suo cappello.

«Hai visto qualcuno?» chiede William guardandosi intorno con attenzione.

«Purtroppo no, zio.»

«Sei stato un fulmine ad arrivare fin qui. Con un po' di fortuna in più avresti

potuto impallinare l'assassino.»

«Sei stato bravo anche tu, William. Se tu non ti fossi accorto di niente, a

quest'ora sarei disteso nella polvere in strada. Io non avevo visto nulla di so-

spetto.»

«Ho solo l'occhio più allenato.»

«Cribbio, a questo poveraccio hanno fatto saltare le cervella.»

«Già. Sono certo che conosceva il suo assassino. Era seduto al tavolo su que-

sta sedia e, quando è stato colpito, è caduto all'indietro. L'altro probabilmente

era seduto di fronte a lui.»

Jack rientra proprio in quel momento da una caccia purtroppo infruttuosa.

«Oh, cavolo. Kelvin ha fatto proprio una brutta fine.»

William si china sul corpo.

«Che fai, zio? Controlli se ha dei graffi sul collo?»

690

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Il treno per Santa Fé «Sì, Jack.»

«Credi allora che gli assassini siano due?»

«No. Solo non voglio escludere nessuna ipotesi.»

«Graffi sul collo?»

«Sì, Tex. Lo zio ha notato della pelle sotto le unghie di Benny. Ha graffiato il

suo assassino prima di morire.»

«I due omicidi sono certamente collegati.»

«Sì, Tex. E credo di non sbagliare dicendo che questo Kelvin è uno dei rapina-

tori del treno per Santa Fé.»

In quel momento arriva lo sceriffo con il suo aiutante James.

E, dietro di loro, indovinate un po'?

Esatto.

Elisabeth era in ansia per il suo Jack.

Corre ad abbracciarlo.

«Oh, Jack. Stai bene? Sei ferito?»

«Va' con lei fuori della stanza, Jack. Questo non è certo un bello spettacolo.»

«OK, zio. Vieni Beth.»

«Cosa è successo, signor Willer?»

«Presto detto, sceriffo. C'è stato un altro omicidio. L'assassino ha poi cercato di

farci la pelle con quel fucile a canne mozze.»

Indica il fucile sul pavimento.

«E meno male che William si è accorto in tempo che ci stava sparando addos-

so.»

«Vi è sfuggito?»

«Purtroppo sì.»

«E non avete visto chi era?»

«No, sceriffo.»

«Kelvin conosceva sicuramente il suo assassino, sceriffo.»

«Come fai a dirlo, Tex?»

«Stavano tutti e due seduti a questo tavolo. Poi Kelvin si è preso una revolve-

rata e il suo cervello ora sta su quella parete. L'assassino poi ci ha visto dalla

finestra, ha preso la doppietta di Kelvin e ce l'ha scaricata addosso. Senza col-

pirci per fortuna.»

«La doppietta di Kelvin?» 691

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Letizia «Sì, sceriffo» risponde il suo aiutante James.

«Io ero un suo amico e sono venuto qui qualche volta. Era appesa a quel chio-

do, là su quella parete.»

«Certo che lei è una bella calamita per i guai, Willer. E' appena arrivato e ci

sono già stati due omicidi. E in meno di ventiquattro ore. Crede che questi due

delitti siano collegati?»

«Può essere. Ma ora ci perdoni, sceriffo. Vorrei tornare al ranch. La povera Eli-

sabeth è rimasta un po' scossa. Ha bisogno di stare un po' in pace con le per-

sone care. Pensa lei a questo poveretto, vero?»

«Certo, signor Willer. Certo. Arrivederci, signor Willer.»

William e Tex scendono in strada e raggiungono Jack ed Elisabeth.

«Zio, mi sei sembrato un po' distaccato con lo sceriffo. Non dirmi che sospetti

che lui c'entri in questa faccenda.»

«Oh no, Tex. Lo sceriffo è solo un ingenuo. Penso solo che non mi sarà di alcun

aiuto in queste indagini. Inoltre meno cose sa e meglio è. Potrebbe tradirsi e

dire qualche parola di troppo. L'assassino andrà sicuramente in giro ad ascolta-

re tutto quello che può essere utile per non farsi scoprire.»

«Non mi dire che hai già dei sospetti, William.»

«E allora non te lo dico.»

«Per tutti i diavoli, William...»

«Ehi, William. Certo che dove vai ci scappa il morto. Oggi è toccato a Kelvin.

Domani a chi toccherà?»

«Dannazione, Sam. Sei tu. Come fai a sapere che il morto è Kelvin Douglas?»

«Ma ne parlano tutti. E poi quella è la sua casa, no?»

«Ciao, Wilkinson. Come te la passi?»

«Ciao, Tex. Si tira a campare.»

«Ho sentito che hai qualche problema. Se ti servono dei soldi, sai che puoi

sempre contare su di me.»

«Oh no, Tex. Ti ringrazio. Le cose stanno cominciando ad andare per il verso

giusto.»

«Comunque lo sai che io ci sarò sempre per te, Wilkinson. Tuo padre era un

gran amico di mio padre e...»

«Grazie, Tex. Lo so. Anzi, quando torni al ranch, salutamelo. E porta anche i

miei saluti a tua madre e alla tua signora.» 692

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Il treno per Santa Fé «Certo, lo farò.»

«Beh, allora ciao. Ci vediamo, William.»

«Ciao, Sam.»

Guardano entrambi Sam Wilkinson che si allontana.

«Che strano tipo, vero?»

«Già.»

«Non dirmi che sospetti di lui.»

«No davvero, Tex.»

«Zio, prima stavamo alludendo che hai dei sospetti...»

«E' solo un'intuizione, Tex. Ne parlerò quando avrò qualche elemento in più.»

«OK, William. Raggiungiamo Jack ed Elisabeth. Torniamo al ranch.»

«Faccio prima un salto alla stazione, Tex.»

«Alla stazione, zio? E che ci vai a fare?»

«Un paio di cose, Tex. Tu intanto raggiungi i ragazzi. Ci vediamo alla rimessa

tra un quarto d'ora.»

Mentre William si avvia verso la stazione, James, l'aiutante dello sceriffo apre

la porta girevole di uno dei saloon di Albuquerque.

Al banco Slim è intento a versare un whisky a un cliente.

«Ehi, Slim. Versane uno anche a me. Hai sentito quello che è successo? Hanno

accoppato il barbiere.»

Ovviamente Slim ha già sentito la notizia.

Ne parla già tutta la città.

Cerca di nascondere il proprio nervosismo.

Noi sappiamo il perché.

Ma James sembra non accorgersene.

«Ehm... sì. Povero Kelvin.»

«Già povero Kelvin. Un'altra bella rogna per quell'agente federale. Secondo me

sta brancolando nel buio e non ha la più pallida idea di quello che sta succe-

dendo.»

«Dici?»

«Certo. Credo che sia convinto che questi omicidi abbiano qualcosa a che fare

con la rapina al treno per Santa Fé. Figurati se quei furboni, con un milione di

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Letizia dollari in tasca, se ne vanno in giro in una città come questa. Con tutta quella

grana, lo saprei io dove andare.»

«E già. Anch'io. Non me ne starei certo qua a servire whisky di pessima qualità

a una marmaglia di cowboy ubriachi.»

«Vero. E hai proprio ragione. Questo whisky fa schifo. Ehi, ma quello che sta

entrando non è il tuo amico Burt Cooper?»

«Ehm... è proprio lui.»

Burt si avvicina al banco e fa un cenno d'intesa con gli occhi a Slim.

«Ciao, Burt. Il solito?»

«Sì. Ma servimelo a quel tavolo laggiù per favore. Ho dei documenti da esami-

nare.»

«Vai pure, ti servo subito.»

«Guai, Burt?»

«No, James. Sono documenti su una terra che avrei intenzione di comprare.

Sempre se la banca mi presterà il denaro.»

Burt si allontana verso un tavolo in fondo al locale.

Un attimo dopo Slim gli porta una bottiglia con un bicchiere.

Burt bisbiglia qualcosa al suo amico.

«Ci vediamo a mezzanotte al tuo capanno da pesca a Corrales.»

Slim risponde con un cenno del capo e ritorna al bancone.

James rimane a guardare Burt che sembra immerso nella lettura di alcuni fogli.

Dopo aver tracannato l'ultimo sorso di bruciabudella, si avvia verso la porta ed

esce dal locale.

«Un altro omicidio? Peste.»

«E ho paura che la cosa non sia finita, papà.»

«Uhm. Presto altri due moriranno.»

«Come?»

«Presto altri due moriranno.»

«Ho capito, Tiger. Ma come puoi dirlo?»

«L'ho visto.»

«Cosa hai visto?»

«Ho avuto una visione. Due bianchi uccisi.»

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Il treno per Santa Fé «Tiger, vuoi farmi credere che hai avuto una visione in cui altri due uomini

vengono assassinati?»

«Così è.»

«Ma non è possibile. Tu non puoi...»

«Calma, ragazzino. Se Tiger dice che ci sarà un duplice omicidio e che l'ha vi-

sto in una visione, ci puoi scommettere la camicia.»

«Senti, bambino mio. Lo so che sembra incredibile. Conosci tuo padre e cono-

sci anche Tiger Jack. Sono persone serie con la testa sulle spalle...»

«Ma, mamma...»

«... Oddio, serie. Diciamo che non hanno mai raccontato frottole.»

«Ma, mamma. Questa è una cosa soprannaturale. Adesso mi verrà a dire an-

che chi è l'assassino.»

«E' un bianco. Con una lunga barba.»

«Come?»

«Un bianco con la barba.»

«Oh, questa poi.»

«William, Tiger ha visto veramente questi omicidi.»

«Oh, Kit. Ti ci metti anche tu adesso?»

«Ho le prove.»

«Cosa?»

«E anch'io ho avuto delle visioni soprannaturali.»

«Anche tu?»

«Ho visto mia madre Lilyth. E anche Jack l'ha vista. Credi che siamo tutti dei

pazzi visionari?»

«Non ho mai detto una cosa del genere. Ma spero che ti renderai conto che è

una cosa dura da mandar giù. Davvero anche tu hai avuto delle visioni?»

«Sì. Ho visto veramente mia madre. Due volte.5 E se ti dicessi cosa mi è suc-

cesso, non mi crederesti mai.»

«E anche tu, Jack...»

«Sì, zio Billy. Ho visto una ragazza bellissima.6 Non sapevo chi fosse. Ho sapu-

to in seguito che era la nonna. Cioè la prima moglie del nonno.»

«Ma è... è incredibile.» 5 Vedi i romanzi "La luce nelle tenebre" e "L'urlo del Falco". 6 Vedi il romanzo "I due fratelli".

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Letizia «Eppure è la verità, William.»

«E quando succederà, Tiger?»

«Non lo so. So però che non ci saranno altre uccisioni.»

«Uhm. Quattro morti. Il conto torna. I rapinatori del treno erano cinque e uno

è morto tre anni fa. E anche l'assassino con la barba. Corrisponde all'idea che

mi son fatto di lui.»

«Hai già dei sospetti, zio Billy?»

«Solo un'idea, Jack. Temo che domattina mi dovrai dare un altro passaggio in

città con la tua Betty.»

«Neanche a chiedere, zio. Considerami il tuo pilota personale.»

«Ma ora basta parlare di omicidi. E' una bellissima giornata e me la voglio gu-

stare insieme a voi. Sono con tutte le persone a cui voglio bene. Tutti i Willer

sono qui accanto a me. E presto, se qualcuno di mia conoscenza si deciderà, la

famiglia aumenterà di numero. Cosa posso volere di più?»

E' quasi mezzanotte.

Slim è nel suo capanno sulla riva destra del Rio Grande.

Aspetta il suo amico Burt.

E' nervoso e ha paura.

Da quando è arrivato quel maledetto sbirro son morti già due componenti della

vecchia banda.

Ora rimangono solo lui e Burt.

Pensa che l'assassino non si fermerà.

Pensa che presto toccherà a lui e a Burt.

Ma chi è questo maledetto?

E perché?

Cosa cerca?

Vendetta?

Ma per quale motivo?

La rapina è andata liscia come l'olio.

Non ci sono state vittime e nessuno ci ha rimesso.

Il treno trasportava una riserva in denaro per la banca federale di Santa Fé.

In seguito il denaro rapinato è arrivato comunque con un altro convoglio.

Slim esclude anche che l'assassino possa essere Burt.

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Il treno per Santa Fé Se non fosse per lui l'amico che è, avrebbe anche potuto sospettare di lui.

Sarebbe plausibile.

Recuperare un milione di dollari e tenerlo tutto per sé è un valido movente.

Ma perché proprio ora?

Ma Burt non farebbe mai una cosa del genere.

Per lui è quasi un fratello.

A meno che...

Certo, Burt potrebbe aver ucciso gli altri due e poi dividere il malloppo solo con

lui.

Cinquecento mila dollari a testa.

Una bella sommetta.

Ma perché non gliene ha parlato prima?

E come mai solo adesso?

Perché non ha agito prima?

Mille congetture e mille interrogativi tormentano la mente di Slim.

E Burt non arriva.

Ma è ancora presto.

Non è ancora mezzanotte.

Burt è sempre stato un maniaco della precisione e della puntualità.

E' lui che ha ideato il colpo in ogni minimo dettaglio.

Nella rapina è filato tutto liscio perché aveva previsto tutto.

Il suo piano era perfetto.

E anche quella di fidarsi di Tim e affidargli tutto il malloppo non è stata una

cattiva idea.

Tim era un galantuomo e conosceva un nascondiglio perfetto.

Hanno solo avuto una maledetta sfortuna.

Sente poi un colpo alla porta.

E' mezzanotte.

Burt è puntuale come un orologio.

Slim apre.

Burt, con un'espressione terribile in volto, si avventa su di lui.

L'urlo di Slim rompe il silenzio della notte.

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Letizia

«Ehi, zio. Guarda là sotto. E' la macchina dello sceriffo. Sta dirigendosi verso

il nostro ranch. Vuoi scommettere che stanno cercando te?»

«Già. E ho un brutto presentimento. Ce la fai ad abbassarti in modo che ci pos-

sa vedere? Gli farò cenno di tornare indietro.»

«Scherzi, zio? Con la mia Betty gli passerò così vicino che gli potrai togliere il

cappello.»

Non ha neanche finito la frase che effettua un'ampia virata che ha il doppio

scopo di rallentare e di abbassarsi di quota.

Lo sceriffo, alla guida della sua auto, vede l'aereo e rallenta a sua volta il vei-

colo.

Jack riesce davvero a volare a pochi metri dal suolo e William fa cenno allo

sceriffo di tornare indietro.

Lo sceriffo deve aver capito perché fa un largo giro e torna da dove era venuto.

Jack prende di nuovo quota e dirige la sua Betty verso la città che è ormai vici-

na.

Pochi minuti dopo l'aereo atterra dietro la rimessa di Miguel.

A attenderlo c'è James, l'aiutante dello sceriffo.

Deve aver visto l'aereo di Jack.

E soprattutto deve averne sentito il rumore.

«Signor Willer, signor Willer.»

«Cosa c'è, James? Un altro delitto? O magari due?»

«Come... come fa a saperlo?»

«Gli agenti federali sanno tutto, James. Dovresti saperlo.»

Jack si diverte a prendere in giro James che è sempre stato un po' credulone.

«Non fargli caso, James. Jack sta scherzando. E' stata solo un'intuizione. In ve-

rità me l'aspettavo. Chi sono i morti?»

«Burt Cooper e Slim Sullivan.»

«Burt e Slim?»

«Li conosci, Jack?»

«Sì, sono due brave persone. Una lavora nel saloon di...»

«Non importa, Jack. Dove è successo, James? E quando?»

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Il treno per Santa Fé «Al capanno di pesca di Sullivan, in riva al Rio Grande, nella località di Corra-

les. Quando non lo so. Li abbiamo trovati stamattina presto. Burt con una frec-

cia nella schiena e Slim con la gola tagliata.»

«Una freccia?»

«Andiamo sul posto allora. I cadaveri sono ancora là, vero?»

«Sì, signore. Ma non aspettiamo lo sceriffo?»

«No. Non voglio perdere tempo. Andiamo.»

Raggiungono in poco tempo il capanno.

E' come ha detto James.

Il corpo di Burt, disteso sull'ingresso, ha una freccia piantata nella schiena e

Slim, nell'interno del capanno, ha la gola squarciata.

La freccia non è sicuramente un oggetto indiano.

E' una grossolana imitazione che si può trovare in uno dei tanti negozi dove

vendono oggetti per turisti.

«A quanto pare, Burt non ha fatto neanche in tempo a entrare.»

«Sì, Jack. La freccia deve averlo colpito proprio mentre stava bussando alla

porta. Quando Slim gli ha aperto la porta, Burt deve essergli caduto addosso.

Scommetto che questo poveraccio ha pensato per un attimo che l'amico voles-

se ucciderlo.»

Sul pavimento di legno Slim ha tracciato un segno.

Ha le dita sporche del suo stesso sangue.

«Guarda, zio. Slim ha cercato di scrivere qualcosa. E' una X.»

«Uhm.»

«Potrebbe essere un indizio, zio. Ha sicuramente visto il suo assassino. Ma da

queste parti non c'è nessuno che ha una X nel nome.»

«E' vero, signor Willer. Non c'è nessuno ad Albuquerque con il nome che inizi

con la X. Forse è uno straniero. Ah! A proposito di straniero. Il capostazione mi

ha dato un biglietto per lei, signor Willer.»

«E perché non me lo hai dato subito, maledizione?»

«Mi è passato di mente, signore. Dice che uno straniero con la barba ha preso

il treno delle 8 e 15 per Santa Fé.»

«Lo hai letto?»

Il tono duro di William intimorisce il ragazzo.

«Sì, signore. Pensavo che potesse essere utile per le indagini. Mi dispiace.» 699

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Letizia «Va bene, va bene. Fai vedere.»

James gli porge il biglietto.

«Cosa dice, zio?»

«Quello che ha detto James. L'assassino ha preso il treno delle 8 e un quarto.»

«L'assassino, zio?»

«Sì, l'uomo con la barba. Tiger aveva visto giusto.»

«Ma... ma... cos'è questa storia? E cosa c'entra il signor Tiger Jack?»

«Non ti preoccupare, James. Poi ti racconteremo. Quando torna lo sceriffo, rac-

contagli tutto. Io e Jack inseguiremo l'assassino.»

«Ma cosa gli devo dire? Non ho capito niente.»

Ma William non lo ascolta.

Ha un aereo da prendere.

«Se James non ci ha capito niente, zio...»

«Sì, lo so. Tu ci hai capito poco.»

«Già. Perché il capostazione ti ha mandato quel biglietto, zio?»

«Perché gliel'ho chiesto io.»

«Tu?»

«Sì, Jack. Ieri, poco dopo l'omicidio. Tu non te ne sei accorto perché eri con

Beth che si era spaventata. Sospetto che l'assassino abbia scoperto il nascon-

diglio del denaro rubato. Oggi ha eliminato gli ultimi due vecchi complici e ora

sta andando a recuperare il malloppo. E porta la barba lunga per nascondere i

graffi che gli ha lasciato Benny.»

«E' vero. I graffi. E magari la barba è finta.»

«Ma ora andiamo.»

«Si va a Santa Fé?»

«Sì, ma non atterreremo là. Seguirai in volo la pista che va a Est. Andiamo al

Monastery Lake.»

«Mi vuoi spiegare, zio Billy, perché credi che l'uomo che cerchiamo sia andato

proprio da quelle parti?»

«Per una serie di ragioni, Jack. Sospetti, intuizioni. Conosci il sesto senso del

nonno. Io credo di aver ereditato da lui questa "dote", se così si può chiamare.

Me lo sento nelle ossa. E' come se qualcuno mi avesse messo una pulce nell'o-

recchio.»

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Il treno per Santa Fé «Già. Hai sentito uno spiritello che ti diceva: Vai al Monastery Lake. E' là che è

diretto il cattivo. E' la che è stato nascosto il tesoro.»

«Scherza, scherza, Jack. Parleranno i fatti.»

«E se ti fossi sbagliato? Se da quelle parti non ci fosse anima viva?»

«Non è possibile.»

«Ne sei così sicuro?»

«Sì. Io non sbaglio mai.»

«Non ti sembra di esagerare, Billy. Neanche tuo padre, il grande Tex Willer era

poi così infallibile.»

«Sei proprio una frana, Jack. Possibile che non riesci a capire quando ti prendo

in giro?»

Toccato.

«Certo che posso sbagliarmi, nipote incredulo. Ma qualcosa mi dice che non è

così.»

«Vedremo. Intanto siamo quasi arrivati alla radura in cui si trova il lago. E con

l'aereo ho seguito tutta la pista, da Santa Fé fin qui. Se il bandito è passato di

qua, non possiamo non averlo visto. Il terreno offre mille nascondigli, ma è

impossibile far sparire un cavallo. L'avremmo notato per forza e...»

«Abbassati un po', Jack. Là. E' lui, se sono sicuro.»

«Dove?»

«Là, a ore undici.»

«Perbacco, zio. Conosci il gergo dei piloti? E che vista che ti ritrovi. Io non l'a-

vevo notato.»

«Non l'avevi ancora notato, Jack. Guardavi dalla parte opposta. Anche tu hai

un'ottima vista. Forse più di me. Tu sei per metà un Navajo.»

«Ci ha visto, zio. E soprattutto ci ha sentito.»

«Cerca di tenerti fuori tiro. Ho visto che sta prendendo il suo winchester. Si

crede furbo l'amico. Ma noi saremo più furbi di lui.»

«Cosa hai intenzione di fare, zio? Non vorrai mica buttargli in testa una chiave

inglese?»

«No, no. Piombo caldo.»

«Ma, zio. Se noi saremo fuori tiro per lui, anche lui lo sarà per noi.»

«No. Tuo fratello mi ha prestato il suo winchester con la canna modificata. Ha

una gittata maggiore. E noi siamo in una posizione più favorevole.» 701

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Letizia «Diavolo d'un Billy. E diavolo d'un Tex.»

Jack si abbassa leggermente mentre il bandito comincia a far fuoco.

«Inutile, amico. Sei troppo lontano.»

William prende con calma la mira.

E' un tiro difficile.

Non ha mai sparato da un aereo.

Tre colpi in rapida successione.

Il bandito è colpito alla spalla.

La ferita non è così grave da gettarlo giù dalla sella.

Ma anche il cavallo è colpito e cade al suolo trascinando il cavaliere che rimane

con una gamba sotto il corpo della bestia.

L'aereo di Jack fa un ampio giro e torna indietro.

«Caspita, zio. Sei quasi meglio di me. L'hai preso.»

«Già. Deve essersi rotto una gamba. Vedo che è intrappolato sotto il cavallo e

non riesce a liberarsi.»

«Vedo. Ha la gamba destra sotto quella povera bestia. Credo anch'io che se la

sia rotta.»

«Cerca un posto dove tu possa atterrare con la tua Betty. Ma non troppo lon-

tano. Non vorrei che fosse tutto un trucco.»

«Non credo, zio. Comunque, perché non ti butti mentre passo sopra di lui? Così

te lo ritrovi tra le grinfie senza troppa fatica.»

«Buttarmi? Ma sei matto, Jack?»

«Ma che hai capito? Ai tuoi piedi c'è un bel paracadute.»

«Ho capito benissimo. E non mi butterei neanche se sotto di me ci fossero mi-

gliaia di cuscini di piume.»

«Che c'è? Hai paura?»

«Nossignore. Ma non mi butto ugualmente. Neanche morto. Chiaro?»

«OK, OK. Non ti arrabbiare. Ti porto giù dolcemente. Sulle rive del lago c'è una

pianura che mi sembra abbastanza solida.»

«Lo è. Anche se da quassù potrebbe sembrare acquitrinosa.»

«Conosci il posto, zio? Ci sei già stato?»

«Sì.»

Poco dopo l'aereo è a terra, sulla riva sinistra del lago.

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Il treno per Santa Fé Jack è atterrato venendo da nord, in modo da portare l'aereo più possibile ver-

so sud, dove si trova il bandito ferito.

«Attenzione, Jack. Quel furfante è ferito ma è ancora armato e non ha niente

da perdere.»

«Non temere, Billy. Stai parlando con un reduce esperto di guerriglia.»

«Monello impertinente.»

«Chissà chi è quel tipo, zio.»

«Non te lo immagini?»

«Vuoi dire che sai chi è?»

«Certo.»

«E chi è?»

«Tra poco lo vedrai.»

Un cappello che spunta da una roccia, uno sparo.

"Per fortuna non è il mio" pensa Jack guardando il buco nel coperchio di Wil-

liam.

«Ehi, pellegrino. Non ti sembra di essere tutto matto? Non ti trovi certo in una

bella situazione. Sei nel bel mezzo del nulla, a piedi, ferito e con una gamba

rotta. Se ci fai fuori ci lasci la pelle anche tu. Magari sbranato da un grizzly,

anche tu come il tuo compare Tim Carter.»

«Credi che se mi arrendo mi terrò la pelle cucita addosso? Per me c'è solo la

forca.»

«Non lo puoi dire. Avrai un regolare processo. Magari te la cavi andando a

spaccar pietre a Yuma.»

«Bella prospettiva.»

«Meglio così che cadavere, non trovi?»

Uno sparo come risposta.

Il masso dietro il quale Jack si è rintanato manda qualche scheggia.

«Ehi, aspirante suicida. Lo sai che se mi fai arrabbiare ti tolgo la pelle a strisce

sottili? Sono un Navajo per metà. Non lo sapevi?»

«Crepa.»

«Non ne ho alcuna intenzione, moscerino. Ho tutto il tempo che voglio. Ho ac-

qua e viveri a volontà. Posso aspettare. Tanto non mi scappi.»

«Come mi hai trovato, bastardo piedipiatti?»

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Letizia «Oh, è stato facile. Sapevo che saresti venuto qui.»

«Lo sapevi? E chi te l'ha detto?»

«Curioso, eh? Se ti arrendi, te lo dico.»

Un attimo di silenzio.

Magari Jack lo sapesse.

"Sono più curioso io di quel poveretto. Non vedo l'ora che lo zio mi racconti

tutto".

«E so anche chi sei, dilettante da strapazzo. Ho sospettato di te quasi subito.»

Bravo Jack.

Stuzzicalo, così magari te lo dice lui chi è.

«Stai bluffando, sbirro.»

«Ah sì? E a quale scopo? Se non sapessi chi sei, non mi ci vorrebbe molto a

scoprirlo.»

«Dovresti prima venire qui. E come metti il naso fuori da quella roccia, te lo

porto via con il winchester.»

«Ti ho detto che non ho fretta, bello mio.»

«Come hai scoperto che non ero io il morto?»

Ma che diavolo sta dicendo?

Non era lui il morto?

Certo che non era morto.

E' qui che sta parlando.

Jack non ci capisce nulla.

«La curiosità si paga. Non sai giocare a poker?»

Ma non vi siete chiesti come mai è soltanto Jack a parlare con il bandito?

E William?

Che fine ha fatto?

Presto detto.

Il bandito sta per rispondere a Jack quando un leggero fischio dietro di lui lo fa

girare di scatto.

«Ciao. E' stato bravo mio nipote a distrarti con le sue chiacchiere, vero?»

Sono le ultime parole che ascolta perché William lo colpisce al capo con la can-

na del winchester.

«Jack, esci pure da lì. Il manigoldo sta dormendo come un angioletto.»

«Finalmente. Mi ero stancato di tutte queste chiacchiere.» 704

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Il treno per Santa Fé Si avvicina a William e guarda il bandito svenuto.

«Che mi venga... Ma questo è...»

«... è Kelvin Douglas.»

«E non ha la barba. Logico, era finta. Ecco cosa intendeva quando mi ha det-

to che non era lui il morto. Ecco perché aveva il volto deturpato dalla pallotto-

la. Già. Ma allora il morto chi era?»

«Era un cowboy di passaggio. Uno dei tanti vagabondi che girano ancora per

l'Ovest senza una meta fissa. Credo addirittura che avesse intenzione di venire

a cercar lavoro al nostro ranch.»

«Adesso però mi racconti tutto.»

«Dopo, Jack. Quando questo bel tomo si sveglia. Sarà curioso anche lui. E poi

adesso vorrei che facessi una cosa per me.»

«Cosa, Billy?»

«Vai all'aereo e usa la radio per chiamare il ranch. Mi hai detto che avete una

radio, no?»

«Sì, certo. Vuoi che chiami papà?»

«Sì. Digli che chiamino Santa Fé col telegrafo. Devono mandare qualcuno qui

da noi con un paio di cavalli sellati. Anzi no, meglio tre.»

«Tre? Ma io non posso certo lasciare qui l'aereo.»

«Certo che no. Un cavallo per me, uno per questo gaglioffo e il terzo di riserva.

Non si sa mai.»

«Ci vorrà un bel po' di tempo però. Tex dovrà andare in automobile ad Albu-

querque. E da Santa Fé dovranno arrivare fin qui. Non è uno scherzo.»

«Abbiamo tempo, Jack. Temo che dovremo passarci la notte qui.»

«Bella prospettiva.»

«Beh, tu puoi sempre tornare al ranch con l'aereo.»

«Non ci penso nemmeno. Però posso fare una cosa che ci farà risparmiare del

tempo.»

«E cioè?»

«Posso andare con l'aereo a Santa Fé, noleggiare quattro cavalli e venire di

persona qui da te.»

«Ma Santa Fé è poco più di un paese. C'è una pista per far atterrare l'aereo? E

poi, se anche ci fosse, lasceresti l'aereo là?»

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Letizia «Uhm, hai ragione. Non mi fido a lasciare l'aereo. Ma la pista la trovo di sicuro.

La mia Betty sa atterrare in un fazzoletto. Avviserò lo sceriffo e sarò di ritorno

in quattro e quattr'otto.»

«Uhm. Se faranno alla svelta, potrò ripartire oggi stesso. Non importa se arri-

verò con il buio a Santa Fé. Mi basta arrivare prima del tramonto alla Cañada

de Los Alamos. Poi non rischierò più di azzoppare i cavalli.»

«OK, zio. Parto subito.»

Mezzora dopo Jack è già di ritorno con la sua Betty.

Il bandito ha ripreso i sensi ma ha ancora la gamba intrappolata sotto il corpo

del cavallo.

La povera bestia ha una bruciatura all'altezza dell'orecchio sinistro.

Durante l'assenza di Jack, William ha dovuto abbatterla con un colpo di pistola.

Evidentemente durante la caduta si era rotta una zampa.

«Ecco cos'era quel colpo. Hai dovuto abbattere il cavallo. Ho riconosciuto il tuo

gioiellino dal rumore dello sparo.»

«Dammi una mano, Jack. Dobbiamo liberare questo disgraziato. Da solo non ce

l'ho fatta.»

«In compenso ci hai provato con il solo risultato di farmi un male infernale,

maledetto sbirro.»

«E il bello è che te ne farò ancora, bello. Vedi se riesci a trovare un ramo o una

trave che ci serva come leva.»

Mentre Kelvin impreca, Jack si aggira nei paraggi e ritorna poco dopo con

un'asse di legno che pare abbastanza robusta.

E così una decina di minuti dopo i due Willer riescono a liberare il bandito che

però, per il dolore insopportabile, perde i sensi.

Quando rinviene si ritrova ammanettato.

La catenella delle manette è girata intorno alla cintura in modo da limitargli al

massimo il movimento delle braccia che sono praticamente incollate alla vita.

La gamba, che gli fa un male del diavolo, è tenuta diritta da due rami che sono

tenuti stretti da una fasciatura di fortuna ottenuta con delle strisce ottenute

dalla stoffa dei suoi pantaloni.

«Allora, Jack. Che ha detto lo sceriffo di Santa Fé?»

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Il treno per Santa Fé

«Quando sono ripartito con l'aereo per tornare qui da te, era già in viaggio

con il suo aiutante e tre cavalli per voi. Un paio d'ore, massimo tre, saranno

qui. Ho anche parlato via radio con Tex. C'è rimasto di sale quando gli ho detto

chi era il misterioso assassino.»

«Tex chi? Tuo fratello?»

«Sì, certo. Tuo padre non l'ho mai chiamato per nome. Solo nonno. Ma adesso

tocca a te raccontare.»

«Già, sbirro maledetto. Non mi hai ancora detto come mi hai scoperto. Chi ti

ha messo sulla buona strada?»

«Sei stato tu, Kelvin.»

«Io? Ma che diavolo dici?»

«Semplice. Il giorno del mio arrivo sono andato a parlare con lo sceriffo. Il suo

aiutante, Benjamin Miller, quando ha saputo il motivo della mia visita, mi è

sembrato un po' strano.»

«Quel cretino di Benny. Dovevo immaginarlo che ti avrebbe insospettito.»

«Già. Si comportava come se sapesse qualcosa. Ma cercava di far finta di nien-

te. E poi, dopo poche ore, la sua morte prematura. Troppe cose non mi qua-

dravano. Troppe coincidenze. Ero sicuro che Benny facesse parte della banda

che ha rapinato il treno tre anni fa. Quello che lo ha condannato a morte è sta-

to l'esser venuto da te a raccontare tutto.»

«Perché non ci hai parlato subito dei tuoi sospetti, zio?»

«Beh, Jack. Era solo una sensazione. Niente di particolare. Benny poteva anche

essere nervoso per qualsiasi altro motivo.»

«E poi?»

«Il secondo omicidio è stato quello che mi ha messo sulla pista giusta. Quello

del presunto Kelvin. Un colpo di pistola al volto. Quindi irriconoscibile. Hanno

tutti pensato che era lui perché era in casa di Kelvin e portava i suoi vestiti. Ma

quasi mai le cose sono come sembrano.»

«Però hai controllato che non avesse i graffi che Benny aveva procurato al suo

assassino. A proposito, lui ce l'ha?»

«Sì. Ho già controllato. Ce l'ha sul collo.»

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Letizia «Ma il secondo morto ammazzato non aveva i graffi. Non poteva averli. Era

soltanto un povero cowboy che aveva la dannata sfortuna di assomigliare va-

gamente a Kelvin.»

«Vero, Jack. Ma ho visto le mani di questo sfortunato. Non mi sembravano le

mani di un barbiere. Potevo anche sbagliarmi, naturalmente, Ma avevo la stra-

na sensazione di essere nel giusto. Se il morto non era Kelvin, chi poteva esse-

re? E perché si trovava in casa sua e con i suoi vestiti addosso? E soprattutto,

dov'era Kelvin?»

«Maledetto sbirro.»

«Hai voluto esagerare, signor Douglas. E ti sei accusato da solo. Tu dovevi

sparire e, per non essere sospettato, dovevi "sparire" del tutto. E hai inscenato

la tua morte. Ma sei stato troppo maldestro.»

«Non è vero, zio. Sei tu che sei troppo in gamba. L'avrebbe fatta in barba a

tutti. Già... è un barbiere.»

Ride.

«A tutti, ma non a te, zio.»

«Quello che poi mi ha dato la certezza sull'identità dell'assassino è stato il se-

gno che ha lasciato Slim.»

«La famosa X?»

«Non era una X, Jack. Era un K, l'iniziale di Kelvin.»

«Una K?»

«Sì, Jack. La mano tremolante di Slim che stava morendo non è stata molto

precisa. A osservare bene però, avresti notato che non poteva essere una X.

Se lo fosse stata, Slim avrebbe segnato due linee che si incrociavano.»

«E non era così, zio?»

«No. C'era un primo segno che doveva essere diritto ma che non lo era. E poi

altri due segni, le linee che completavano la K e che erano separate. Tre linee

in tutto e non due.»

«Diavolo. Ma perché uccidere anche gli altri due? E che ci stava venendo a fare

qui? E come facevi a sapere che stava venendo proprio qui?»

«Già, brutto sbirro. Come facevi a saperlo?»

«Semplice. Tim Carter è stato trovato ucciso da un orso proprio da queste par-

ti. Io l'ho detto allo sceriffo e Benny lo ha poi riferito ai suoi complici. Non so

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Il treno per Santa Fé gli altri due, ma questo bellimbusto ha sicuramente capito che il denaro, che

non è stato trovato addosso a Tim, doveva essere stato nascosto nei paraggi.»

«Non mi dire che il malloppo sta vicino al lago, zio. Magari nella capanna.»

«Io credo piuttosto nella miniera, ma controlleremo. Abbiamo tempo.»

«OK. Ma tu come l'hai capito. I quattro rapinatori potevano aver già preso il

denaro e...»

«Anch'io l'ho pensato in un primo momento. Ma poi ho capito che non avevano

la minima idea del nascondiglio. L'hanno capito dopo, o forse l'ha capito solo

Kelvin, quando Benny gli ha detto il luogo del ritrovamento del corpo di Tim.»

«Vuoi dire che non sapevano che il loro complice era morto?»

«Proprio così. Erano convinti che fosse sparito con tutto il malloppo.»

«Chissà come ci sono rimasti male, poverini.»

«Quando Kelvin è venuto a sapere che Tim Carter non era morto e che era sta-

to trovato qui, sbranato da un orso, ha fatto due più due. Il suo complice ave-

va nascosto il denaro e non ha fatto in tempo a dire agli altri dove l'aveva na-

scosto. Kelvin l'ha capito subito. Il nascondiglio poteva essere solo il Monastery

Lake. Ma l'ho capito anch'io. Questo manigoldo non è il solo a conoscere bene

questi posti.»

«Già. Ma tu come la conosci questa zona, zio Billy?»

«Mia madre, Jack. Ha rischiato di morire qui al lago.7»

«Davvero? E quando?»

«Tuo padre non ti ha mai detto niente?»

«No, mai. C'era anche lui quando è successo?»

«No, cera solo mio padre. O meglio, mio fratello e il vecchio Carson sono arri-

vati alla fine. Io non ero ancora nato.»

«Ma perché uccidere i suoi complici, zio? Non poteva semplicemente sparire e

godersi il suo maledetto denaro?»

«Mah. Ha ucciso Benny perché ha intuito che io sospettavo di lui. Se ne è sba-

razzato perché poteva tradirsi e condurmi da lui. Il cowboy è stata una scelta

obbligata. Doveva fare in modo che io non lo cercassi. Se fosse semplicemente

scappato a prendersi il malloppo, io avrei sicuramente sospettato qualcosa per

la sua strana assenza e non gli avrei dato tregua. Doveva "morire". Per gli altri 7 Vedi il romanzo "Lois".

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Letizia

due è stata ingordigia. Prendersi tutto era molto meglio che dividere in tre. E

poi due morti in più non avrebbero peggiorato la sua situazione. Senza contare

che anche gli altri due potevano arrivare alle sue stesse conclusioni sul na-

scondiglio.»

«Già.»

«Ma adesso è rimasto a bocca asciutta e noi andremo a recuperare il mal tol-

to.»

«Portatemi con voi.»

«Come?»

«State andando alla miniera. Voglio venire con voi. Voglio almeno vederlo, quel

maledetto milione di dollari.»

«Un milione di dollari, zio?»

«Già. Ma tu non sei in grado di camminare, Kelvin.»

«Voglio venire con voi. Fatemi una stampella, datemi una mano, ma portatemi

con voi.»

«Accontentiamolo, zio. Lo aiuterò io. Voglio guardare la sua faccia quando ve-

drà il malloppo che lo ha accecato al punto di fargli uccidere quattro uomini.»

«OK. Ma tu, niente scherzi o ti faccio saltare le cervella.»

«Che scherzi vuoi che faccia? Ho una gamba rotta, sono ammanettato e non

posso muovere le braccia.»

«Bene. E così resterai perché non ho intenzione di toglierti le manette per farti

camminare meglio.»

«Non te l'ho chiesto.»

«Bene.»

Jack prepara alla meglio una stampella per Kelvin e poi lo aiuta ad alzarsi.

Si incamminano tutti e tre molto lentamente verso la miniera dove probabil-

mente è nascosta una montagna di denaro.

«Prendi un po' di rami e fai una torcia, Jack. Qui dentro c'è buio pesto.»

«Tu siediti su questa pietra e fai il bravo, se non vuoi un altro bernoccolo sulla

tua capoccia.»

Kelvin, appoggiandosi su una stampella improvvisata, si siede con gran fatica

aiutato da Jack.

«Però voglio entrare anch'io.»

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Il treno per Santa Fé William fa un po' di luce con un fiammifero in attesa che Jack prepari una tor-

cia.

«Se speri di riuscire a venire qui dentro sei un illuso, Kelvin. Ci sono ostacoli

un po' dappertutto. Rischi di romperti anche la gamba sana.»

«Non mi interessa, voglio venire anch'io.»

«Non ti preoccupare. Te lo faremo vedere questo sporco denaro.»

«No. Voglio venire dentro quel buco anch'io.»

«Padronissimo. Io non te lo impedirò di certo, Ma nessuno di noi due ti darà

una mano. Dovrai arrangiarti.»

«Bastardo.»

Intanto Jack è andato all'aereo, ha preso uno straccio e l'ha inumidito col car-

burante.

L'ha poi arrotolato ben stretto ai rami che ha trovato.

Ecco pronta una bella torcia.

William lo sta aspettando all'ingresso della miniera.

«Ecco qua, zio. Questa dovrebbe durare un po'. Accendila ed entriamo.»

«Tu sta' qui e non tentare scherzi. Ci siamo capiti?»

Lasciano Kelvin a imprecare ed entrano nella miniera.

Il bandito vede la luce della torcia affievolirsi e sparire a poco a poco.

Dopo pochi minuti ode delle voci venire dall'oscurità.

«Maledizione. Questa non me la sarei mai aspettata.»

«Cosa diavolo è successo, zio? Io non vedo niente.»

«Reggimi la torcia, Jack. Io prendo un po' di questa roba.»

«Ehi, voi due là dentro. Che diavolo è successo? Avete trovato il denaro?»

Dalla caverna gli arriva la voce di William.

«Il denaro? Sì sì, l'abbiamo trovato. Eccome se l'abbiamo trovato.»

«Che mi venga un colpo, zio.»

Kelvin sente il rumore metallico di alcune monete che tintinnano.

«Ma che diavolo succede lì dentro?»

La luce della torcia comincia ad apparire flebile finché non diventa più viva.

I due Willer stanno uscendo dalla miniera.

«Allora? Il malloppo? Dov'è il malloppo.»

«Il malloppo? Eccolo.»

William rovescia per terra il contenuto delle sue tasche. 711

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Letizia Una manciata di monete d'argento da mezzo dollaro e qualche banconota ro-

sicchiata.

«Ma che diavolo significa? Dove sono i soldi?»

«I soldi? I castori hanno avuto tre anni per sgraffignarseli tutti.»

«I castori? Ma sei impazzito, sbirro?»

«No, Kelvin. Lo zio non è impazzito. I castori hanno usato i sacchi con il denaro

per costruirci una diga.»

«Una diga? Ma volete prendermi in giro?»

«Ci sono escrementi di castoro in tutta la miniera, Kelvin. Hanno fatto piazza

pulita di tutto. Hanno iniziato con i pali della miniera, con le travi e infine con la

carta dei vostri sporchi dollari. I dollari, per i quali hai ucciso quattro persone,

non esistono più, Kelvin.»

Il bandito tace incredulo.

Poi guarda le monete a terra e le poche banconote, o meglio quello che resta

delle banconote, rosicchiate e sporche di fango.

Tutto perduto.

Tutto inutile.

Poi scoppia in una fragorosa risata.

E ride, ride a lungo.

«Non so cosa ci trovi da ridere questo matto. Salirà sul patibolo per niente. Ci

sono solo poche decine di dollari ancora buoni. Solo le monete.»

«E' una risata isterica, Jack. Sta sfogando così la sua rabbia.»

«Lo sai invece perché rido, sbirro? Perché anche tu resti a bocca asciutta. Non

hai recuperato il denaro rubato. Hai fallito.»

«Davvero?»

«Sì, davvero. Non tornerai dai tuoi padroni con la refurtiva.»

«Povero Kelvin. I "miei padroni" sono gli Stati Uniti d'America. Un milione di

dollari sono solo spiccioli. Ma non temere. Non sono andati perduti.»

«Ah, no? E che farai? Andrai a cercare la diga dei castori e li recupererai?»

«No, bello. Basterà un mio rapporto che ne dichiari la distruzione e il governo li

ristamperà.»

«Come?»

«Davvero, zio? Li ristamperanno?»

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Il treno per Santa Fé «Certo, Jack. Ogni anno il governo ritira una certa quantità di biglietti deterio-

rati, li distrugge e li ristampa. E questi possono considerarsi distrutti. Meno che

questi pochi dollari d'argento. Quindi...»

«Povero Kelvin. Beffato due volte.»

Sono passate tre settimane.

William non è più tornato ad Albuquerque.

E' rimasto al ranch per tutto il tempo.

E' andato spesso a pescare con i due nipoti.

A proposito, la sapete una cosa?

Jack è diventato un vero maestro con la lenza.

E' diventato più bravo di suo fratello Tex che, a dir la verità, non è affatto invi-

dioso.

Anzi è contento che il fratello non va più a caccia con il winchester.

Beh, non ci va più.

Ci va ancora, ma molto meno di quanto faceva prima.

William è andato anche a trovare i Morgan che sono dei buoni amici per lui.

E poi tra poco diventeranno parenti.

Ma soprattutto ha passato giornate intere con il padre e con il vecchio Tiger

Jack.

E naturalmente si è fatto venire di nuovo i calli al posteriore.

Non era più abituato al cavallo.

E... sapete com'è.

A forza di stare in sella tutto il giorno...

Insomma, le parti molli...

Molto spesso si è portato dietro il figlio che sta cominciando a prendere confi-

denza con il cavallo.

Dietro preghiera della madre che era "leggermente" contraria, gli hanno dato

una puledrina molto docile e il ragazzino ha imparato a cavalcare.

In fondo è un Willer anche lui e buon sangue non mente.

La sua sorella più piccola è stata sempre con Luna d'Argento che l'ha riempita

di regali.

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Letizia

Le ha costruito con le sue mani due o tre bambole vestite con i variopinti colori

navajo e le ha cucito un delizioso abitino di pelle di daino adornato con i famosi

turchesi dell'Arizona.

E il tempo è volato.

«Insomma, domani ve ne andate.»

«Sì, papà. E' quasi un mese che siamo qui da voi. Purtroppo devo andare.»

«Spero che non aspetterai altri dieci anni per ritornare.»

«Oh no, papà. Tornerò per il matrimonio di Jack e Beth. Mi hanno detto che sa-

rà la prossima primavera.»

I due ragazzi si guardano impacciati.

«E poi sarò irremovibile. Caschi il mondo, mi prenderò un periodo di riposo più

spesso. E mi prenderò anche gli arretrati. Verrò qui da voi tutti gli anni. Kit sta

imparando a cavalcare e voglio che diventi più bravo di me. E, quando sarà più

grandicello, gli insegnerò anche a sparare.»

«Questo te lo scordi, Will.»

«Tua moglie ha ragione, Will. Tuo figlio diventerà un ottimo avvocato. Come

me.»

«Ho detto quando sarà più grande.»

«Vedremo.»

«Però, prima di andarmene, devo fare ancora una cosa. Nel pomeriggio devo

andare in un posto.»

«Io e tua madre verremo con te, Will.»

Quel pomeriggio tre cavalieri raggiungono la verde collina ad ovest della città.

Hanno fatto un lungo viaggio ma non sono stanchi.

Lei non indossa i suo soliti abiti dai colori sgargianti.

Nonostante l'età non ha mai indossato abiti "sobri".

Ma questo non significa che non ne abbia.

Ne ha qualcuno e li indossa solo per venire qui.

La sua figura esile e minuta contrasta in mezzo alla statura imponente dei due

uomini della sua vita.

Il marito le porge il suo braccio destro.

Indossa la sua camicia gialla.

Lei, quando gliel'ha vista indossare, non ha aperto bocca.

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Page 715: TuttoLet - Altervistapecosbill.altervista.org/Romanzi/TuttoLetizia.pdfTex Willer - Aquila della Notte Kit Carson - Capelli d'Argento Kit Willer - Piccolo Falco - Falco Nero - Mano

Il treno per Santa Fé Il figlio invece porta il suo solito abito elegante, un completo grigio scuro e un

cappello nero a cupola bassa.

Gli uomini si tolgono il cappello mentre si avvicinano alla sommità della collina.

Le due tombe sono vicine e sono adornate da numerosi fiori dai colori vivaci.

Il ragazzo si inginocchia su una delle due tombe, in silenzio, mentre i genitori

rimangono alle sue spalle.

Guarda quella tomba nel cui marmo è scolpito il suo stesso nome.

Accarezza il marmo riscaldato dal sole cocente.

Tocca la scritta con le dita quasi a voler di nuovo incidere il nome.

Guarda poi l'altra lapide, dove riposa una donna che sarebbe stata sua zia.

Sul marmo è scolpito un doppio cognome.

Il primo è quello che porta lui stesso.

Non ha mai conosciuto le persone che riposano sotto quella terra.

Sono morte prima che lui nascesse.

Ma i loro visi sono scolpiti nella sua mente come se li avesse visti mille e mille

volti.

E in realtà è come se lo fosse.

Perché il viso di Cora è identico a quello di sua madre.

E quello del ragazzo, quello di suo fratello, lo può vedere tutti i giorni quando si

rade.

Una somiglianza impressionante.

Glielo hanno sempre detto tutti, non solo i suoi genitori, anche tutti quelli che

hanno conosciuto lo sfortunato primogenito di suo padre.

Suo fratello Kit, il caro e buon vecchio Carson e qualcuno che non è più giova-

ne e che ha conosciuto anche Cora.

Pensa a suo fratello Kit.

pensa ai tre figli che Tex ha avuto da tre donne diverse.

Tre donne che ha amato intensamente tutte alla stessa maniera.

Tre donne che sono e saranno sempre nel suo cuore.

Poi pensa a suo padre.

Alla sua vita che è stata toppo dura con lui.

Gli ha tolto ben tre persone care.

Se non fosse la roccia che è, non avrebbe potuto resistere a tanto dolore.

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Letizia

Ma certe volte le rocce presentano delle rotture che non sono visibili dall'ester-

no.

William si alza e si avvicina al padre.

Lo stringe in un lungo abbraccio.

Lois li osserva in silenzio.

Una lacrima scende leggera sul suo viso.

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Il treno per Santa Fé

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Indice

Prefazione alla prima trilogia - I Navajo 31

Capitolo 1 - L'Aquila contro la Tigre 39

Capitolo x - Due amori 81

Capitolo 2 - La luce nelle tenebre 217

Capitolo 3 - L'urlo del Falco 281

Capitolo 7 - I due fratelli 329

Prefazione alla seconda trilogia - Albuquerque 441

Capitolo 4 - Il figlio di Tex 449

Capitolo 5 - Lois 505

Capitolo 6 - L'ultimo duello di Tex 573

Nota finale nella seconda trilogia - Albuquerque 653

Capitolo 8 - Il treno per Santa Fé 657

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