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Gelo nella taigà – Buryatiya febbraio 2011 Il percorso: Milano – Mosca 2700 km (aereo) Mosca – Krasnoyarsk 4000 km (aereo) Krasnoyarsk – Severobajkalsk 1488 km (treno) Severobajkalsk – Nizhneangarsk 25 km (autobus) Nizhneangarsk - Novyj Uoyan 152 km (treno) N. Uoyan – lago Bultarynda e rit. 220 km circa (slitte/a piedi) Novyj Uoyan – Taksimo 226 km (treno) Taksimo – Nizhneangarsk 378 km (treno) Nizhneangarsk – Severobajkalsk 25 km (autobus) Severobajkalsk – Krasnoyarsk 1488 km (treno) Krasnoyarsk – Mosca 4000 km (aereo) Mosca – Milano 2700 km (aereo) Totale: 17.402 km L’essenza dell’inverno Sono già stato in Siberia d’inverno, più di una volta e spaziando in gran parte dei suoi territori. Ho già respirato l’aria ghiacciata e il mio viso è già stato schiaffeggiato dai venti artici; il corpo intero ha già subito gli effetti del freddo e la mente ha già combattuto contro il gelo, nemico subdolo e invisibile. Eppure sono sempre stato convinto di non aver provato il vero inverno siberiano, il freddo genuino, il vero rapporto con l’aria di ghiaccio in tutte le sue dimensioni. Perché affermo questo? Per una ragione ovvia: tutte le mie precedenti esperienze invernali sono sempre state troppo legate, a mio parere, ad un approccio eccessivamente urbano o antropocentrico, connesso alle visite di paesi e città, oppure a spostamenti seguendo ordinarie e frequentate vie di comunicazione ferroviarie, marittime, fluviali. Insomma mi sono trovato immerso in luoghi e paesaggi tendenzialmente pervasi dalla presenza dell’uomo, privi, in tutto o in parte, di caratteristiche fondamentali e intrinseche alla loro naturale essenza: la solitudine, l’asprezza selvaggia, la purezza dell’ambiente, la possibilità reale di relazionarsi con la natura. Ho sempre avvertito questa mancanza “metafisica” nelle mie precedenti esperienze invernali, perciò è giunto il momento di realizzare un viaggio che possa farmi immergere pienamente nelle condizioni ideali per vivere la Siberia d’inverno. Questa sensazione intima mi punzecchia da anni e lentamente, pensando e riflettendo sulle modalità adatte a portare a termine un nuovo passo verso l’interiorizzazione del “senso” della Siberia, ho plasmato l’idea di viaggio che intendo portare a termine per arricchire la mia esperienza siberiana. Alla fine del 2010 sono pronto per definire gli ultimi dettagli in vista del febbraio del nuovo anno, mese scelto per consacrare la nuova avventura ad est degli Urali. Il viaggio vero nell’inverno siberiano mi porterà nella taigà gelata, assopita in attesa del disgelo, irrigidita sotto una coltre bianca e silenziosamente immobile. La taigà è stata scelta come ambiente ideale, come perfetto luogo in cui abbandonarsi all’abbraccio gelido della natura. In Siberia la taigà è la vita, è maestra e legge, nutre e circonda, protegge e cresce chi ci si avventura con rispetto e devozione. Copre migliaia di chilometri quadrati, lambisce i territori che vanno dalla ferrovia alle tundre settentrionali, dagli Urali al Pacifico, inghiotte città e villaggi, custodisce ancora, sebbene ferita e indebolita dalla mano dell’uomo, segreti e miti siberiani primordiali. La mia scelta non poteva dunque ricadere che su questo ambiente maestoso, sconfinato e affascinante, libero e insidioso, magico e misterioso. Vivere l’inverno nella taigà significa viverlo veramente, non come passare giorni o mesi nelle città e nei paesi della Siberia, dove ai primi sintomi del freddo è sempre possibile rifugiarsi in un bar, in un negozio, in una casa e riprendersi dall’assalto gelido dell’aria. È nella taigà che si fa sul serio esperienza dell’inverno, in mezzo agli alberi e ai fiumi, là dove, lasciandosi alle spalle ogni cosa superflua, ogni possibilità “antropica” di lenire gli effetti del gelo, si può sinceramente dire di vivere ogni minuto confrontandosi e mettendosi alla prova con il micidiale inverno siberiano. Nella foresta si è soli con la natura ed è in questa condizione che si assorbe l’essenza dell’inverno stesso, una sensazione che matura e si fa propria in questo contesto estremo ma naturale. Nei precedenti viaggi, sia estivi che

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Gelo nella taigà – Buryatiya febbraio 2011

Il percorso:

Milano – Mosca 2700 km (aereo) Mosca – Krasnoyarsk 4000 km (aereo) Krasnoyarsk – Severobajkalsk 1488 km (treno) Severobajkalsk – Nizhneangarsk 25 km (autobus) Nizhneangarsk - Novyj Uoyan 152 km (treno) N. Uoyan – lago Bultarynda e rit. 220 km circa (slitte/a piedi) Novyj Uoyan – Taksimo 226 km (treno) Taksimo – Nizhneangarsk 378 km (treno) Nizhneangarsk – Severobajkalsk 25 km (autobus) Severobajkalsk – Krasnoyarsk 1488 km (treno) Krasnoyarsk – Mosca 4000 km (aereo) Mosca – Milano 2700 km (aereo) Totale: 17.402 km

L’essenza dell’inverno Sono già stato in Siberia d’inverno, più di una volta e spaziando in gran parte dei suoi territori. Ho già respirato l’aria ghiacciata e il mio viso è già stato schiaffeggiato dai venti artici; il corpo intero ha già subito gli effetti del freddo e la mente ha già combattuto contro il gelo, nemico subdolo e invisibile. Eppure sono sempre stato convinto di non aver provato il vero inverno siberiano, il freddo genuino, il vero rapporto con l’aria di ghiaccio in tutte le sue dimensioni. Perché affermo questo? Per una ragione ovvia: tutte le mie precedenti esperienze invernali sono sempre state troppo legate, a mio parere, ad un approccio eccessivamente urbano o antropocentrico, connesso alle visite di paesi e città, oppure a spostamenti seguendo ordinarie e frequentate vie di comunicazione ferroviarie, marittime, fluviali. Insomma mi sono trovato immerso in luoghi e paesaggi tendenzialmente pervasi dalla presenza dell’uomo, privi, in tutto o in parte, di caratteristiche fondamentali e intrinseche alla loro naturale essenza: la solitudine, l’asprezza selvaggia, la purezza dell’ambiente, la possibilità reale di relazionarsi con la natura. Ho sempre avvertito questa mancanza “metafisica” nelle mie precedenti esperienze invernali, perciò è giunto il momento di realizzare un viaggio che possa farmi immergere pienamente nelle condizioni ideali per vivere la Siberia d’inverno. Questa sensazione intima mi punzecchia da anni e lentamente, pensando e riflettendo sulle modalità adatte a portare a termine un nuovo passo verso l’interiorizzazione del “senso” della Siberia, ho plasmato l’idea di viaggio che intendo portare a termine per arricchire la mia esperienza siberiana. Alla fine del 2010 sono pronto per definire gli ultimi dettagli in vista del febbraio del nuovo anno, mese scelto per consacrare la nuova avventura ad est degli Urali. Il viaggio vero nell’inverno siberiano mi porterà nella taigà gelata, assopita in attesa del disgelo, irrigidita sotto una coltre bianca e silenziosamente immobile. La taigà è stata scelta come ambiente ideale, come perfetto luogo in cui abbandonarsi all’abbraccio gelido della natura. In Siberia la taigà è la vita, è maestra e legge, nutre e circonda, protegge e cresce chi ci si avventura con rispetto e devozione. Copre migliaia di chilometri quadrati, lambisce i territori che vanno dalla ferrovia alle tundre settentrionali, dagli Urali al Pacifico, inghiotte città e villaggi, custodisce ancora, sebbene ferita e indebolita dalla mano dell’uomo, segreti e miti siberiani primordiali. La mia scelta non poteva dunque ricadere che su questo ambiente maestoso, sconfinato e affascinante, libero e insidioso, magico e misterioso. Vivere l’inverno nella taigà significa viverlo veramente, non come passare giorni o mesi nelle città e nei paesi della Siberia, dove ai primi sintomi del freddo è sempre possibile rifugiarsi in un bar, in un negozio, in una casa e riprendersi dall’assalto gelido dell’aria. È nella taigà che si fa sul serio esperienza dell’inverno, in mezzo agli alberi e ai fiumi, là dove, lasciandosi alle spalle ogni cosa superflua, ogni possibilità “antropica” di lenire gli effetti del gelo, si può sinceramente dire di vivere ogni minuto confrontandosi e mettendosi alla prova con il micidiale inverno siberiano. Nella foresta si è soli con la natura ed è in questa condizione che si assorbe l’essenza dell’inverno stesso, una sensazione che matura e si fa propria in questo contesto estremo ma naturale. Nei precedenti viaggi, sia estivi che

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invernali, durante le mie letture sulla “terra addormentata”, ogni volta che osservo la taigà dal finestrino di un treno, dalla costa del Bajkal, dal limite di una città, non riesco a non pensare alle sensazioni che il trascorrere dei giorni invernali può trasmettere a chi vive entro i suoi confini. Passare i giorni, le settimane, i mesi invernali nella foresta è una prova di maturità ben diversa dal passeggiare negli agglomerati urbani, salire su un autobus, intabarrarsi in un colbacco negli spazi e nei tempi tra un ambiente chiuso riscaldato e un altro durante una giornata della stagione più rigida dell’anno. Stabilito lo scopo del mio viaggio, mi rimane da capire come plasmare fattivamente tutte queste mie congetture astratte, in modo tale da dare una forma reale a quanto ho finora solo immaginato. Mi rivolgo ai miei amici di stanza sul nord del Bajkal: Volodya di Nizhneangarsk e Rashit di Severobajkalsk. Inizio a parlargli delle mie intenzioni alcuni mesi prima della partenza e, grazie al loro aiuto, non impiego molto a concretizzare il progetto di visita alla taigà gelida. Tappe di avvicinamento

So già che, trattandosi di un viaggio in Siberia, non è possibile definirne in anticipo tutti i dettagli, ma cerco ugualmente di pianificare con la maggior precisione possibile il mio itinerario e le relative modalità di svolgimento. Volodya è il mio tramite con una famiglia di cacciatori di Novyj Uoyan, paesino sulla BAM, da cui avrà inizio la mia gelida avventura. Dopo aver capito ciò che intendo fare, è il mio amico stesso a consigliarmi con chi andare e ad organizzarmi l’itinerario. Mi dice che Sasha, che conosce bene, è una brava persona e si muove da decenni nella foresta senza problemi. Volodya si accorda con il cacciatore circa il giorno in cui quest’ultimo dovrà incontrarmi alla stazione del piccolo centro della ferrovia Bajkal-Amur, per poi inoltrarsi insieme con me nelle solitudini gelate. Prima della partenza è l’unica cosa che devo organizzare: stabilire e comunicare in anticipo il giorno del mio arrivo a Novyj Uoyan. Trascorrerò una settimana nella foresta con i cacciatori, condividendo la loro vita abituale, nulla di speciale infatti verrà per me predisposto, così potrò gustarmi un’esperienza genuina nella natura con persone del luogo. Di ritorno dalla taigà, nella seconda parte del viaggio, cercherò la modalità migliore per visitare, qualche centinaio di chilometri più ad est, il passo ferroviario di Severomujsk, variante alpina all’omonimo tunnel lungo la ferrovia BAM. Da anni intendo vedere quest’opera interessantissima, una autentica pista ferroviaria tracciata sulle montagne, costruita negli anni ’80, quando ci si rese conto che la realizzazione del tunnel necessario a superare la catena montuosa Severomujsk avrebbe avuto una durata indeterminata. Nel preparare lo zaino, prima della partenza, riempio tasche e scomparti con gli indumenti più caldi di cui dispongo, tra cui quelli acquistati in Siberia nei miei precedenti viaggi invernali, ma il dubbio di non avere un abbigliamento del tutto adeguato aleggia nella mia mente e si rivelerà in parte esatto… Atterro a Krasnoyarsk con uno zaino gonfio e la solita borsa cinese stipata di indumenti caldi e spessi. La stanchezza, che sempre mi accompagna nei trasferimenti aerei, e l’emozione per essere giunto in Siberia, mi aiutano a scrollarmi di dosso le angosce relative ai momenti dell’atterraggio, movimentato da folate violente e improvvise di vento che scuotono le ali e la fusoliera dell’aereo. Anche a terra l’aria imperversa sulle piste, sollevando nuvole di neve cristallizzata. La temperatura è di 3° sotto lo zero ed è inusitatamente mite per essere il primo di febbraio: tre giorni fa c’erano - 30°, ma il vento, spesso altro segno del riscaldamento globale, probabilmente ha portato masse d’aria tiepida fin qui. È ancora buio quando percorro la dritta superstrada verso la città, striata dalla neve bianca, infiltrata e luccicante nelle crepe dell’asfalto. Trovo una sistemazione nell’anonima ulitsa Kachinskaya, guarda caso la strada che fra un anno e mezzo perderà per me il suo status anonimo che ha in questo momento per diventare la mitica base della casa per viaggiatori dell’Accademia dei Viaggi Indipendenti. L’hotel Kolos si presenta proprio male: la facciata cade a pezzi, metà è avvolta in un ponteggio arrugginito su cui nessuno sta lavorando, i gradini per salire all’ingresso sono sgretolati e sporchi, la scritta con il nome dell’hotel ha alcune lettere storte. Ho scelto questo rudere scrostato per il prezzo, molto vantaggioso rispetto a tutti gli altri posti della città. Sono finiti i tempi in cui con una decina di euro si dormiva nell’albergo migliore; sono finiti anche tempi in cui mi riferivo in genere agli hotel per soggiornare, adesso infatti trovo da dormire con metodi più “scientifici”, ma ogni tanto trovo ancora modo di far visita a qualche pensione a basso costo. Alla reception, come spesso mi accade, sono titubanti di fronte alla mia richiesta di fermarmi per una notte, probabilmente non sono abituati ad avere clientela straniera in un luogo dagli standard bassi anche per i russi. “Ha davvero intenzione di dormire da noi?”; “È sicuro?”. Davanti alle mie insistenze

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cedono, ma non prima di avermi mostrato la stanza, che, mi avvisano, non è rimodernata e non è confortevole. Insomma fanno di tutto per cercare di farmi pagare una camera più cara, senza però riuscirci. L’addetta alle pulizie mi spalanca la porta su una squallida quanto perfetta stanzetta dove riposarmi per una notte. Getto i miei bagagli a terra e mi faccio consegnare la chiave, implicito segno sulle mie intenzioni di rimanere.

Ho un pomeriggio intero per girovagare per la città e ne approfitto per fare un salto alla lunga passeggiata sullo Yenisej, che non è gelato, come noto senza stupirmi più di tanto. Altro segno terribile dei cambiamenti climatici in atto. Le rive del fiume sono coperte di ghiaccio per decine di metri, ma la parte centrale dello stesso, vasta e grigia, è completamente libera dal ghiaccio ed in balia della corrente. Un pescatore solitario se ne sta ritto al limite della crosta gelata e muove oziosamente la lenza, facendola penzolare nel fiume. Torno indietro passando per la solita piazza abbellita con le sculture di ghiaccio, in cui troneggia uno scivolo trasparente dai riflessi azzurri, teatro delle scivolate di parecchi bambini. I marciapiedi, le aiuole, i bordi delle strade, tutto è coperto da uno strato di neve grigiastra ghiacciata, rotta in blocchi dagli addetti alla pulizia delle strade, che d’inverno spaccano la neve dura in tante piccole mattonelle, per accumularle ai bordi delle strade e agli angoli delle vie fino a primavera. Krasnoyarsk è sempre una bella città, sicuramente più viva e moderna rispetto al 2003, anno della mia prima visita. Quello che ora colpisce esteticamente sono le centinaia di cartelloni pubblicitari che reclamizzano i “gostinitsy v kvartire”, cioè i cosiddetti alberghi in appartamento, stanze affittate per uno o più giorni dai padroni di casa, sparse in tutto l’agglomerato urbano. Davanti alla stazione, nelle vie principali, lungo il fiume…ovunque troneggiano queste scritte accompagnate dal numero di telefono cui riferirsi per prenotare la propria camera. Non ricordo nulla di simile otto anni fa. Il sole sparisce presto e non resta che dormire, riposandosi per l’indomani, quando il mio viaggio di avvicinamento al Bajkal continuerà proprio da qui, in treno. Rotaie e neve gelata: ancora la BAM d’inverno La stazione di Krasnoyarsk è molto elegante e spaziosa, è pulita e luccica ancora: il restauro è terminato solo nel 2005. Ho preso un biglietto scontato del 50% per viaggiare in vagone kupe praticamente al prezzo del platskartnyj sul treno Mosca – Severobajkalsk. Il viaggio fino al Bajkal durerà circa trenta ore, un lasso di tempo di permanenza sul treno che ormai considero breve. Il vagone che mi ospita è diverso da tutti gli altri ed è una novità anche per me: per metà è un normale vagone kupe, per l’altra metà si tratta di una carrozza ristorante. Molto meglio: così ci sono ancora meno passeggeri stanziali e ciò significa meno rischi di avere a che fare con qualche ubriaco impazzito, nel mio stesso scompartimento o in quelli limitrofi. Per quanto riguarda il ristorante, non ho la minima intenzione di metterci piede, quindi non mi interessano le sue ebbre frequentazioni. Insieme a me viaggiano una nonnina simpatica con la figlia di mezza età ed un corpulento anziano i cui occhi spariscono dietro allo spessore delle lenti degli occhiali. Mi basta una rapida occhiata per inquadrarli e capire che il viaggio sarà tranquillo, almeno finchè sarò in loro compagnia. Mi sdraio sulla cuccetta superiore, appoggio il mento sul cuscino e, con lo sguardo incollato al finestrino, mi perdo con lo sguardo, per alcune ore, nel paesaggio imbiancato. A Tajshet, come da mia consuetudine, durante la sosta scendo per fotografare il convoglio, la stazione, i binari e quant’altro dalla passerella sovrastante la ferrovia. Quante volte sono già transitato di qui! Eppure ogni occasione è sempre particolare, caratterizzata da diverse sensazioni. La porta della BAM inizia a schiudersi e lascia filtrare tutta la gelida forza dell’inverno: nevica intensamente e i fiocchi iniziano ad accumularsi sulle sommità dei vagoni, sui cavi dell’alta tensione, sui berretti delle babushki che vendono pietanze calde ai viaggiatori. L’ovattato silenzio nevoso smorza i suoni e attutisce i rumori della strada ferrata, un debole fischio riecheggia dalla locomotiva lontana, invisibile tra i vortici di neve che precipitano a terra. La provodnitsa, da sotto il cappuccio imbiancato, richiama i passeggeri sul mio vagone, emettendo sbuffi di fiato vaporoso ad ogni parola. È tempo di scendere gli scalini metallici della passerella e riguadagnare il mio posto in cuccetta: la BAM inizia qui e mi porterà a destinazione, verso la taigà gelata, per addentrarmi nell’essenza dell’inverno. La notte passa in una calma quasi monotona, interrotta solo da qualche risata proveniente dal ristorante. Passiamo sopra la diga di Bratsk nell’oscurità e riesco ad intravedere niente di più che qualche bagliore lanciato dai lampioni sulla neve che ricopre la superficie gelata del lago. Purtroppo anche questa è una costante dei miei viaggi sulla BAM: il tratto da Bratsk a Ust-Kut lo percorro sempre in notturna e non riesco mai a vedere nulla dal finestrino. Il mattino seguente, verso le otto, siamo a Lena, la stazione di Ust-Kut. Di per sé non sarebbe così

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presto, ma in inverno il sole a quest’ora non si vede ancora e la stazione è avvolta in una penombra sonnolenta. Il vagone, ma sarebbe meglio dire l’intero treno, si svuota silenziosamente e rimango solo nel mio scompartimento. Anche se il capolinea ufficiale del percorso di questo convoglio è Severobajkalsk, in pratica è qui che termina la sua corsa per la maggior parte dei passeggeri. Prima di tornare a sdraiarmi per continuare a dormicchiare, rimango un po’ ad osservare l’andirivieni frettoloso delle persone attorno al treno: i passeggeri appena scesi si dividono in due gruppi, il primo che si accalca in massa verso le porte della stazione, l’altro che si disperde tra le nuvolette di fumo dei tubi di scappamento delle auto di amici e parenti giunti nel vicino parcheggio per accogliere i propri conoscenti. In pochi minuti ognuno ha trovato la sua sistemazione e sulla banchina rimane solo la neve calpestata, rilucente di un pallido colore giallo per il riflesso della luce di lampioni della stessa tonalità. Senza più gente a vociare fuori dai vagoni, si incominciano a sentire risuonare i tipici colpi sulle ruote del treno, scanditi da un ritmo fiacco ma costante, che corrisponde ai passi dell’operaio tra una carrozza e la seguente. La scritta “Lena” sul muro della stazione spicca tra le luci ambrate, poco più in là l’ultimo tassista, rimasto senza clienti, tira ampie boccate dall’ennesima sigaretta, espirando adagio sotto l’immancabile coppola scura, tipico copricapo degli uomini di mezza età in Russia. Le porte della sala d’attesa non sbattono più, i bambini hanno finito di strillare sulle piattaforme innevate, mentre, tirati per le braccia da genitori e nonni impazienti, cercano di stare al passo dei grandi. I facchini seguono le indicazioni di chi li ha ingaggiati, trascinandosi appresso carrelli colmi di borse pesanti. Ecco che in pochi attimi tutto e tutti spariscono come in un’illusione magica e le banchine della stazione, i binari, le scale ed il piazzale tornano ad essere inghiottiti dal silenzio gelido dell’inverno, come se quest’ultimo fosse il vero padrone del tempo e dello spazio circostante e imponesse ritmi frenetici per limitare al massimo le piccole interruzioni quotidiane del suo immutabile status quo. Pare un’anticipazione, seppur minima, di ciò che mi aspetta nella prosecuzione del mio viaggio, di quelle stesse sensazioni che mi attendono nella taigà, che anche qui, a pochi chilometri, circonda e delimita la città. Il resto del viaggio fino al Bajkal si contraddistingue per la marcata contrapposizione di due limpidissime tonalità cromatiche che interagiscono nel paesaggio: l’azzurro pulito del cielo ed il bianco della neve. Le montagne che attraversa la BAM sono coperte da un buon manto candido, sono alcuni dei luoghi più nevosi di tutta la Siberia. Sopra le cime, illuminato dal sole sfavillante, il cielo luccica di una intensa tonalità turchese, nella più totale assenza di nubi. Si susseguono le ormai classiche, per i miei viaggi, piccole stazioni di Niya, Nebel e Kirenga. Sono semi-sepolte sotto la neve e paiono ancora addormentate, come se rifiutassero l’incedere ormai inoltrato della mattinata. Sorseggio il tè addolcito con qualche cucchiaiata di sgushonka, il latte condensato e zuccherato popolare in tutto il paese. Inzuppo i biscotti nella mia tazza d’alluminio, preparo anche un panino e lentamente mi gusto una tarda colazione, sufficiente a riempirmi lo stomaco fino all’arrivo, quando sarò a pranzo da Volodya. Solo nello scompartimento, nella quiete mattutina del vagone ristorante, mi godo il panorama montagnoso dal finestrino, dove regna la taigà. Cerco di penetrare con lo sguardo nella sua vastità, tra i rami imbiancati delle conifere, lungo il corso di piccoli ruscelli gelati, nei burroni scoscesi sui fianchi dei monti. Provo a rintracciare un segno, una traccia, una possibile interruzione della continuità omogenea dell’ambiente naturale, ma non riesco a rinvenire nulla del genere, la taigà immensa pare eternamente identica e immutabile. Fra meno di ventiquattr’ore mi troverò a tu per tu con la foresta in inverno e una strana sensazione, che è un misto di senso di inadeguatezza e di curioso interesse, comincia a sollecitarmi la mente. I soliti modi Dopo i voli per Mosca e Krasnoyarsk, la giornata passata lungo le rive dell’Yenisej e l’ultima trascorsa in treno, finalmente verso le due del pomeriggio arrivo a destinazione a Severobajkalsk e scendo dal vagone tranquillo e rilassato, infatti so che Volodya mi sta aspettando per andare insieme alla sua casa di Nizhneangarsk, venticinque chilometri più a nord, sempre lungo il lago. Non mi abbottono nemmeno la giacca, tanto so che il mio amico mi aiuterà a portare i bagagli e, penso, potrò sistemarmi con gli strati di indumenti invernali direttamente sulla banchina, senza fretta. Una luce accecante mi investe in pieno fuori dal corridoio, la mia vista è abituata alla penombra della carrozza e faccio fatica a spaziare con lo sguardo, alla ricerca di Volodya. Gli ho comunicato da parecchio tempo treno, orario di arrivo e numero del vagone, probabilmente è qui intorno che cerca appunto il vagone da cui sono sbucato. Qui fa freddo, non c’è la stessa temperatura di Krasnoyarsk, percepisco subito una

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ventina di gradi sottozero: gli sbuffi di fiato dalla bocca sono corposi e fitti, le mani si indolenziscono in fretta, gli occhi lacrimano...insomma i soliti ingredienti dell’inverno. Getto le borse a terra, sistemo sciarpa e giacca, mi abituo meglio al riverbero della neve, ma non c’è traccia del mio amico. Aguzzo la vista su e giù rispetto alla testa del treno, scruto le pensiline adiacenti, passeggio avanti e indietro osservando tutte le persone. Niente. Inizio a capire, penso che dovevo aspettarmelo, non può essere così facile, qualche imprevisto deve sempre manifestarsi in Siberia. L’abitudine e l’esperienza che ho interiorizzato in questi anni mi rende immune ormai a ogni “incidente” e non mi stupisco più di tanto: può benissimo capitare che non ci si trovi ad un appuntamento, anche se meticolosamente preparato con quasi due mesi di anticipo! Chissà cosa è successo: una dimenticanza, forse una causa di forza maggiore, uno sbaglio, un pisolino durato troppo a lungo? Ciò che più mi costa fatica adesso è rimettere in moto il cervello per sbrogliare la situazione prima che faccia buio, infatti d’inverno e a questa latitudine non manca molto al crepuscolo. Potrei chiamare Volodya a casa, ma non ho riportato il suo numero sull’agenda tascabile, pensando di non averne bisogno, visto che eravamo già d’accordo sull’incontrarci. In generale la situazione non mi trova impreparato, infatti ho già pronto un elenco di alberghi economici di Severobajkalsk presso cui cercare ospitalità. Mi ero preparato questa lista nell’eventualità del verificarsi di imprevisti... Ciò che mi preme è che l’indomani ho appuntamento a Novyj Uoyan con il cacciatore Sasha e non posso mancare, ma la sensazione di tranquillità che pervade il mio corpo è un ottimo segnale, è il mio sesto senso siberiano che mi vuole comunicare che tutto andrà secondo i piani. Ora il mio piano è il seguente: intendo sistemarmi al piccolo albergo Cherembass, quindi raggiungere a piedi la casa del mio amico Rashit e da lì chiamare Volodya per un chiarimento. Il tassista con cui mi accordo non si fa pregare e in qualche minuto siamo ai margini della parte “cementificata” di Severobajkalsk. Eccomi là dove si delinea il confine urbano, tra la zona più centrale e meglio costruita del paese e la distesa disordinata di isbe di legno e casupole varie, residuo del primo villaggio, teoricamente temporaneo, dove soggiornavano i fondatori della città. Ad oggi Rashit, proprio uno dei primi ingegneri arrivati qui con i binari della BAM, vive ancora nel suo quartiere “provvisorio”. Sono passati quasi quattro anni da quando l’ho visto l’ultima volta, ma ricordo bene o male come arrivare alla sua elegante dimora lignea, d’estate ornata da un’edera vivace, che dalla palizzata esterna si innalza verso il tetto, serpeggiando tra le ampie finestre. Il pianerottolo d’ingresso del Cherembass è scivolosamente insicuro, cosparso di neve pressata e ghiaccio lucido, grondante dai tubi rotti del tetto. Afferro la porta e mi sostengo ad essa per entrare, cercando di mantenere l’equilibrio tra l’ultimo lembo del ghiaccio e lo zerbino. Dentro è deserto e silenzioso. Devo percorrere un paio di corridoi ed entrare nei bagni comuni prima di trovare qualcuno che mi possa indicare a chi rivolgermi per il pernottamento. La paciosa buriata che mi accoglie dietro ad una scrivania, in una stanzetta seminascosta rispetto all’atrio principale, sta lavorando a maglia davanti ad una tazza di tè fumante. Per fortuna si dimostra cordiale e si sposta su di un’altra scrivania, cercando un quaderno con le presenze, per capire che letto assegnarmi. Questo piccolo albergo è più simile ad un affittacamere a gestione familiare, è comodo e pervaso da un’atmosfera amichevole e serena, sarebbe un ottimo posto per passare qualche giorno in città, se non avessi ben altro da fare. La cucina comune, il grosso tavolo di legno chiaro che domina al centro della stessa, le tendine curate che filtrano il riverbero di luce dallo strato di ghiaccio interno sui vetri delle finestre, la gradevole temperatura, sono elementi che si ricompongono in un quadro di ovattata intimità, più tipico di una dacha russa che di un luogo adibito a ospitalità per gente di passaggio. La descrizione del Cherembass che avevo trovato: “nello stile di una grande e amichevole compagnia di costruttori della BAM” calza proprio a pennello. Spiego alla signora la mia situazione (cioè che potrei anche non fermarmi la notte, nel caso in cui riuscissi a parlare con Volodya), lascio i bagagli accanto al letto che mi assegna e mi precipito alla ricerca della casa di Rashit. Il sole corre veloce a nascondersi, quindi devo fare presto, non penso che riuscirei a ritrovare la casa del mio amico al buio, in fondo ci sono stato solo una volta quasi quattro anni orsono. Il labirinto di vicoli e stradine fangose (ora gelate), martoriate da buche e avvallamenti, disorienta anche i tassisti locali, che non sanno come trovare la ulitsa Oktyabrya, come ho già sperimentato ai tempi della mia prima visita. Chiedo ad un paio di persone, qualcosa me lo ricordo, evito alcuni cani randagi ringhiosi...ed ecco la palizzata che confina con la proprietà di Rashit, proprio come mi è rimasta impressa! Salgo la scaletta rossa e premo il dito contro il campanello, sperando che questa visita inaspettata non colga troppo di sorpresa i due anziani residenti. Mi apre la porta la moglie di Rashit, che non mi riconosce, (“Di qui passa un sacco di gente!”) ma mi invita a entrare e

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sorridendo mi porge un paio di calde pantofole. Rashit è, come sempre, ai posti di comando, nella camera attigua alla sala, dove una grande vetrata inonda di luce scaffali di libri, centinaia di oggetti ammassati alla rinfusa ai bordi dei muri e il computer che consente il collegamento con il resto del mondo. Mi scuso per la visita senza preavviso e spiego ciò che mi è successo, i due anziani sono contenti di vedermi, Rashit mi ricorda bene e iniziamo a chiacchierare davanti all’immancabile tavola imbandita, sorseggiando tè scuro bollente. Le conseguenze dell’ictus che lo ha colpito nel ’95 non sembrano essere peggiorate in questi ultimi anni e questo tataro si dimostra sempre un combattivo, pieno di progetti e proiettato nel futuro. Immediatamente contattiamo Volodya, che è a casa e, come spesso accade, ha sbagliato nel ricordare il treno del nostro appuntamento e mi ha aspettato in stazione alcune ore prima del mio arrivo, per poi tornarsene a Nizhneangarsk. Incredibile! Ogni volta riescono a stupirmi! Ci sono solo due treni a lunga percorrenza transitanti da Severobajkalsk e siamo riusciti a non capirci! Decido di raggiungere Nizhneangarsk la sera stessa con l’autobus che ogni ora parte dalla stazione ferroviaria di Severobajkalsk. Intanto approfitto del tempo da passare ancora con Rashit, fermandomi un paio d’ore a chiacchierare a 360°. Ripasso dal Cherembass per recuperare le borse e pago comunque il pernottamento, anche se me ne sto andando da Volodya, perché voglio ricompensare la gentilezza e disponibilità con cui mi hanno accolto e, inoltre, non intendo lasciare un “cattivo” ricordo legato agli stranieri. Il mese bianco

L’autobus per Nizhneangarsk ha i finestrini gelati e appannati dal fiato dei passeggeri, ma mi ricordo bene dove si trova la rybzavod, la fabbrica per la lavorazione del pesce vicino a casa del mio amico, e non ho problemi ad individuare la fermata. Sulla scalinata di legno scricchiolante mi attende Volodya, che mi saluta con un abbraccio e mi aiuta con i bagagli. Finalmente sono arrivato. È sera e il Bajkal ghiacciato, spettacolo che non ho ancora ammirato nelle mie peregrinazioni siberiane, rimane invisibile a pochi passi da noi. La casa si trova praticamente sulla riva, ma l’assenza di luci, la neve e le staccionate che delimitano il cortile impediscono di scorgere la grandiosità del lago, che al momento si rivela solo come un’immensa macchia nera senza confini e priva di luci, che inizia a qualche metro da me e termina verso i confini del cielo scuro sulla riva di fronte. Ed eccomi in casa, carico di borse e di freddo, ma anche del giusto entusiasmo. Per la prima volta conosco la famiglia di Volodya, che risulta, come spessissimo accade in Russia, composta da persone approdate qui in seguito alla deriva di altri matrimoni. La ragazza più grande, Ayuna, di circa quindici anni, è figlia dell’ex marito dell’attuale moglie di Volodya; poi c’è Milya, una vivace bimbetta di quattro anni, figlia di Volodya e appunto della sua attuale compagna. Lascio l’ultimo posto, nelle presentazioni, alla donna buriata che vive ora con il mio amico: si chiama Stalina ed il suo nome mi riporta nella storia, nell’Unione Sovietica, negli anni della Siberia vietata. Rimango stupito e interessato dal nome di questa signora elegante, dai fini tratti somatici buriati e dalla parlantina sciolta. Quando mi dice il suo nome, stringendomi la mano, sgrano gli occhi e resto un attimo impietrito a fissarla…quindi pronuncio queste parole: “Stalina?! Davvero?”. Lei si mette a ridere e mi parla un po’ della genesi del suo nome: “Mia mamma non intendeva adulare con il mio nome il grande saggio, il padre dei popoli, ma ha voluto donarmi un appellativo che indicasse la forza e la tenacia che avrei dovuto avere nella vita” (in russo stal significa acciaio). Questa spiegazione, unita ai veloci calcoli che ho appena fatto sulla sua data di nascita e quindi sull’epoca storica in cui è nata, non mi convince affatto. Probabilmente a qualcuno faceva piacere che la madre di Stalina si dimostrasse fedele anche nel nome della figlia...oppure era comodo per altri motivi fare così, oppure…come sempre non deve esserci una ragione specifica e comprensibile, siamo in Russia. Milya sgambetta attorno a me e mi tira subito in cucina, dove posso constatare con gioia che è pronta la tipica tavola imbandita per gli ospiti. Ho una discreta fame e mi siedo volentieri a cenare, ma mentre mangiamo capisco che la mia presenza non è l’unica ragione per festeggiare, infatti oggi si celebra in Buryatiya l’inizio del “mese bianco”. Si tratta di una festa legata all’inverno, la cui celebrazione incarna la tipica mescolanza siberiana tra spiritualità buddista, culti della tradizione sciamanica, influenze del calendario cinese e antiche consuetudini locali. Le usanze richiedono che oggi a tavola ci sia almeno una pietanza di colore bianco e infatti davanti a me ci sono scodelle con smetana, kefir, latte, ricotta. La purezza dell’inverno, i suoi colori, ma anche il prossimo avvicinarsi del timido inizio della primavera sono tutti temi ricordati in questa festa. Milya trangugia latte, affonda il cucchiaio

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nella ricotta e mi invita a fare altrettanto, allargando il viso in un sorriso incorniciato da rimasugli di ricotta sulle labbra. Con Stalina parlo della mia famiglia, del percorso che sto per affrontare nella taigà e dei miei viaggi passati. Volodya interviene per ricordare alcuni momenti del nostro viaggio sul Bajkal del 2007 e, come da tradizione, propone svariati brindisi riempiendo i nostri bicchieri di vodka gelata. Stalina è attenta e istruita e dimostra anche di essere una buriata orgogliosa: parla della sua famiglia, del suo lavoro di insegnante nella scuola di Nizhneangarsk e di questa grande regione che abbraccia il Bajkal e vive in simbiosi con esso da millenni. Ha conosciuto Volodya presso la scuola dove entrambi lavorano. Anche lui veniva da un matrimonio finito, ha lasciato la moglie perché quest’ultima, negli anni ’90, voleva andare a vivere a S.Pietroburgo, in cerca di condizioni di vita materiale migliori, lasciando quindi il Bajkal. Volodya si è opposto, affermando di non voler lasciare questo lago per nessuna ragione e le loro strade si sono divise per sempre. Questo è un esempio della magnetica attrattiva del Bajkal, del suo richiamo per chi l’ha conosciuto, a maggior ragione per chi ha vissuto decenni presso le sue rive. Ora Volodya vive a qualche metro dalla riva e può saziarsi della sua energia tutti i giorni. Volodya, come Stalina, adora questo lago e probabilmente è il destino che li ha uniti. Ci sono molte storie enigmatiche legate al Bajkal, alla sua posizione al centro di correnti di energia cosmica che già gli sciamani avevano individuato, alla sua forza attrattiva, ai miraggi che appaiono nelle sue spesse nebbie, al verificarsi di fenomeni inspiegabili presso certe coste e baie. Per me si tratta della quinta visita preso il lago e forse anch’io devo iniziare a fare i conti con il lago sacro e la sua potenza. Per la prima volta SUL Bajkal I colpi all’indietro della nuca si susseguono finchè la vodka non è finita e sulla tovaglia restano solo gli scarti della battaglia culinaria: briciole, brandelli di pesce, lische e tovaglioli unti. La bottiglia vuota, come da consuetudine inviolabile, viene subito tolta dalla tavola e appoggiata sul pavimento, altrimenti la sfortuna è in agguato. Milya è decisa a portare tutti nella sua stanza per far vedere le sue qualità nella danza, che le insegna la mamma ogni pomeriggio. Ci trasferiamo per qualche minuto nella camera della bambina per lo spettacolo, che si svolge al ritmo di una melodica musica da cartone animato. Una piccola lampada portatile getta luci cangianti a intermittenza nel locale buio, mentre Milya volteggia, salta, si distende e piroetta con l’elegante goffaggine di una bimba di quattro anni. Approfitto di questi minuti di tranquillità per rilassarmi e iniziare a compiacermi dell’essere in viaggio, dell’essere sulla riva del Bajkal, in inverno, in casa di amici, pronto ad inoltrarmi nella taigà. Terminato il balletto Stalina mi racconta del centro ricreativo per bambini, dove lavora al pomeriggio insieme a Volodya e altri insegnanti. Insegnano varie discipline ai piccoli del paese, ricevendo in cambio un contributo simbolico, vista la cronica mancanza di fondi in paese e di soldi nelle tasche dei genitori dei bimbi. Ognuno dispone di un locale (l’unica cosa che non manca è lo spazio), più o meno ampio in base alle esigenze della materia trattata, nel grande centro educativo giovanile di Nizhneangarsk. Volodya addirittura ha a disposizione una rimessa dove sta realizzando lentamente, pezzo dopo pezzo con materiali riciclati, un piccolo yacht da utilizzare sul lago d’estate. I bambini stanno insieme, si divertono e imparano: danza, modellismo, arti marziali, pittura, canto. Gli insegnanti sono da lodare per l’attività praticamente gratuita che svolgono, in un contesto altrimenti potenzialmente pericoloso per l’educazione dei giovani, dove l’isolamento, l’accidia e le poche attrattive della zona limitrofa (se si escludono quelle naturali) potrebbero far prendere strade sbagliate a molti. Quanto mi viene raccontato mi ricorda moltissimo il centro giovanile di Okha sull’isola di Sakhalin, visitato durante uno dei miei precedenti viaggi. Sparecchiata la tavola sento tutti gli effetti della vodka trangugiata, ho la testa leggera, euforica, e mi sento molto rilassato. Penso sia giunto il momento di stendermi sul divano per riprendere un po’ di forze prima del giorno seguente, in cui è già fissato l’appuntamento con i cacciatori che mi accompagneranno nella foresta. Non ho, però, fatto i conti con la prosecuzione delle celebrazioni per il “mese bianco”, infatti è il momento di bere l’acqua del Bajkal, quindi bisogna uscire per raggiungere la riva. In un attimo ci vestiamo adeguatamente per andar fuori un po’ al gelo notturno. Dalla casa di Volodya proseguiamo sulla costa verso nord per un centinaio di metri, giusto per superare un vicino pontile d’attracco delle barche. Scendiamo qualche metro su un pendio minimo e siamo nella neve fresca, alta, non ancora toccata. Stalina e Volodya vanno avanti con Milya, mentre resto indietro a godermi la passeggiata, con andatura ondeggiante a causa della vodka. Ad un certo punto mi fermo e osservo tutto ciò che ho attorno, girando su me stesso a 360°. Anche se è molto buio cerco di spaziare con lo sguardo il più possibile nelle

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nere vastità che mi circondano, ma è un punto molto più vicino ad attirare la mia attenzione: una sensazione mi spinge a guardare verso i piedi, poi osservo la riva, la strada e la distesa di neve tra me e quest’ultima. Inizio a calciare la neve con gli scarponi, fino a spazzarne via un bel po’, fino a raggiungere uno strato duro, inscalfibile e scuro: il ghiaccio! Sono sul ghiaccio, sono sul lago! Sul Bajkal! Allargo lo scavo nella neve e vedo bene la massa di acqua solida, ho da poco superato la soglia della riva e mi trovo per qualche metro sopra a quelle che normalmente sono le acque del Bajkal. Ecco spiegata quella sensazione, che inconsciamente mi ha fatto fermare a riflettere su qualcosa di importante che stava accadendo, semplicemente ho appena superato il limite della costa e me ne sono reso conto. Si tratta di un momento a lungo atteso, è giusto celebrarlo. Sto vivendo uno di quegli attimi che entrano di diritto nella hall of fame degli eventi più significativi e storici delle mie esplorazioni della Siberia, uno di quegli eventi da ricordare per sempre, da segnare sul calendario siberiano. L’euforia viene amplificata dagli effetti dell’alcool e imprime nella mente quest’istante quasi religiosamente solenne. Faccio dei piccoli passi in avanti, verso Volodya, spingendomi sempre più lontano dalla riva e assaporando la bellezza di passeggiare sull’acqua del lago sacro. Le luci della strada si allontanano, i pochi rumori si ovattano, sento sempre più forte il crepitio gracchiante della neve calpestata. Gli occhi si sono abituati all’oscurità e vedo bene la massicciata della BAM stagliarsi sopra la strada, la costa è puntellata di deboli luci in direzione nord, poi più nulla, il buio totale e silenzioso circonda il Bajkal. Se mi giro verso sud lo sguardo si smarrisce in una vastità nera, misteriosa e solo intuibile, un vuoto cupo inghiotte anche la mente che cerca dei punti di riferimento inesistenti, ci si sente smarriti e si può solo percepire come qui la Siberia spalanchi molto bene le porte della sua irrazionalità. Sono sopra il Bajkal. Ho raggiunto gli altri, che sono accovacciati nell’intento di perforare il ghiaccio. Qui, non troppo lontano dalla riva, è ancora possibile riuscire a praticare, in maniera relativamente facile, un piccolo foro da cui subito zampilla l’acqua gelida del lago, che risale furiosamente tra le strette e profonde pareti del buco. Milya corre in cerchio attorno a noi, già bevendo dal suo bicchierino. Stalina me ne porge un altro e in un attimo, uno di quegli attimi solenni dell’esperienza siberiana, ne trangugio il contenuto, in onore della festa buriata che stiamo celebrando, in onore del Bajkal, dei miei amici e del viaggio che sto compiendo. L’acqua ghiacciata scende nello stomaco e purifica l’anima, il rito si è compiuto. Mentre rientriamo verso casa incontriamo alcune persone, che passeggiano bevendo da una bottiglia di vodka, sono conoscenti di Volodya e subito ci scambiamo gli auguri per la festa in corso. Finalmente arriviamo a casa e posso stendermi sul divano per riposare qualche ora (è quasi mezzanotte e alle cinque devo svegliarmi) prima di ripartire verso Novyj Uoyan. Devo prima, però, preparare la zaino per l’avventura nella taigà, quindi impiego altro tempo per concentrarmi, nonostante il malefico influsso dell’alcool sulla mente, per non dimenticare nulla di quanto è indispensabile per vivere all’aria aperta nella foresta in pieno inverno. Alla fine riempio lo zaino, lasciando le cose superflue nella borsa che rimane a casa di Volodya. Mi getto sul divano e sto già dormendo. Rabochij poesd Quando suona la sveglia poco prima delle cinque sto dormendo profondamente e l’ultima cosa che vorrei fare è alzarmi dal divano e uscire. Mi duole e mi rimbomba la testa, che percepisco come una pesantissima appendice appesa al collo. Nella bocca è incollata al palato la lingua, asciutta e rugosa. Con uno sforzo insensato, reso possibile dall’esperienza accumulata in questi anni, mi catapulto giù dal letto per trasferirmi in cucina, dove mi attende una colazione che non ho alcuna intenzione di assaggiare. Volodya è di sicuro più pimpante di me, ormai ho da tempo capito che i russi geneticamente assorbono l’alcool molto più “elegantemente” di chiunque altro. La tazza di tè ustionante che mi fuma sul viso non ha alcuna attrattiva, ma le insistenze di Volodya mi obbligano a fingere di berne alcuni sorsi, accompagnati da qualche piccolo biscotto e da minimi rimasugli della cena. Sto attendendo l’unico rimedio in grado di mitigare il disagio di questa precoce mattinata: l’uscita dalla casa, lo scaraventare il mio corpo direttamente al freddo esterno. Per esperienza so già che, con una temperatura che si aggira tra i 20° e i 30° sotto lo zero, come quella che mi aspetta ora, le malefiche conseguenze dell’intorpidimento, della nausea e del mal di testa saranno grandemente attenuate. In pratica una sberla gelata mi farà rinsavire. Per velocizzare ulteriormente il processo e renderlo più efficace, esco di casa senza guanti e senza sciarpa, in modo da essere più esposto al freddo. Il gelo mi sveglia subito e sto un po’ meglio, mentre seguo con fatica Volodya per la deserta ulitsa Pobeda, per fortuna non battuta dal vento di questa precoce mattina di febbraio. Il mio amico si

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allontana sempre più velocemente, provo almeno a raggiungerlo trotterellando sotto il peso dello zaino, ma posso solo avvicinarmi, non cammino in maniera sciolta e rischio di scivolare sul ghiaccio ai bordi della strada. In circa dieci, quindici minuti, usciamo dalla parte meridionale dell’abitato di Nizhneangarsk, per raggiungere nel nulla un punto di fermata del rabochij poesd, “treno dei lavoratori” (una sorta di convoglio minimo che ferma in ogni dove su distanze entro i duecento chilometri). Le luci si diradano sempre più, fino a scomparire del tutto. Cammino seguendo la scia delle orme di Volodya, gli occhi si sono abituati al buio e, per intuire una pista nella neve, bastano i riverberi provenienti dalla cittadina. Da solo non avrei mai trovato il tetro punto di fermata chiamato Molokon (il più vicino a casa di Volodya), a cui si arriva arrampicandosi su di una riva scoscesa della massicciata della BAM, tenendosi alla meglio sul corrimano gelato, mentre in qualche modo ci si arrangia cercando di rimanere in piedi, puntando un piede alla volta nella neve indurita e scivolosa, il cui accumulo ha deformato del tutto i gradini di per sé già estremamente ripidi. Arrivare in cima alla scalinata non è per nulla scontato, soprattutto con uno zaino pesante sulle spalle. Il rischio di scivolare all’indietro e ritornare fino alla strada è molto concreto e un paio di volte rimango in piedi solo perché mi aggrappo al corrimano azzurro, mentre le gambe rullano in cerca di un appoggio sicuro. All’ultimo passo, per raggiungere la piattaforma, bisogna sollevare il ginocchio quasi oltre l’altezza del proprio bacino, Volodya mi aiuta tendendomi la mano. Quando mi fermo, finalmente arrivato, guardo all’indietro e la pendenza della “scalinata” non mi pare vera, non è una scala per giungere alla fermata di un treno, è un percorso per la vetta di una montagna. Mi sento meglio, lo sforzo e il freddo hanno scacciato per ora i fumi nocivi dell’alcool. Esiste solo una piattaforma grossolana in cemento ricavata sulla parte destra del binario. C’è anche una staccionata di legno a cui appoggiarsi per non rischiare di cadere dalla massicciata. Sono gli unici comfort. Tutto è avvolto dal buio, i lampioni sono assenti, la città è lontana e il lago è una macchia nera indistinta sotto di noi, oltre la strada. Appena ci si ferma il gelo morde e mi tocca coprirmi con sciarpa e guanti adatti. Mi accordo con Volodya sui tempi del mio ritorno, infatti più o meno tra una decina di giorni mi rifarò vivo e mi fermerò ancora da lui. Ed eccomi sulla BAM, sembra così semplice, è qui a qualche decina di centimetri da me, sto in piedi proprio di fianco al binario unico, un binario che parrebbe anonimo, identico a tutti gli altri, ma che cela, sotto la veste dell’ordinarietà, la storia e le fatiche, i progetti e le conquiste di un’epopea mai abbastanza celebrata: la costruzione della “seconda Transiberiana”. Un binario nel gelo, due file parallele di travicelli d’acciaio avvolti nella neve dura, al buio, incastonati tra le montagne e il lago. Con l’abituale precisione dei collegamenti ferroviari russi, alle 06.01 fanno capolino, in fondo al rettilineo dei binari che giungono da Severobajkalsk, i fari del locomotore. Prima si scorgono appunto le luci, il treno è ancora distante, quindi dopo qualche secondo quei puntini luminosi sono accompagnati dal solito fischio soffocato e sordo, che viene subito coperto dal fragoroso incedere delle ruote, dal trambusto che creano i freni in azione e i vagoni sballottati. Un fascio di luce taglia in due l’oscurità che avvolge me e Volodya, infrangendosi per un attimo sui nostri volti silenziosi, il locomotore passa poco oltre e si ferma. Saluto velocemente il mio amico, mentre una svogliata provodnitsa apre la scaletta che mi permette di accedere, per la prima volta, ad un rabochij poesd. Letteralmente si può tradurre con “treno dei lavoratori” e indica quel tipo di convogli che transitano soprattutto sulle linee meno frequentate, dove non esistono valide alternative ai pochi treni a lunga percorrenza, ma dove nemmeno esiste una domanda tale da giustificare l’esistenza regolare di treni locali. Ecco dunque la soluzione: un locomotore, un vagone passeggeri e un vagone scoperto, usato dai dipendenti delle ferrovie per riporvi attrezzi e materiali necessari per lavori di manutenzione della linea ferrata. In questo modo i convogli utilizzati per portare al lavoro sui binari i dipendenti delle ferrovie russe, i cosiddetti puteitsy, assolvono anche la funzione di trasporto locale. Questi mini-treni non risultano negli orari di nessuna stazione, ma tutte le persone del posto sanno quando passano e che percorso coprono. I biglietti si pagano direttamente sul vagone, nelle mani della provodnitsa, che rilascia un foglietto scritto a mano e porge il resto ai passeggeri, estraendo rotoli di banconote di piccolo taglio da una borsello a tracolla. Si può affermare con una certa precisione che questi treni collegano fra loro due punti di scambio delle brigate di lavoro sulle locomotive, cioè i macchinisti. In pratica viaggiano dal punto A al punto B, individuati dalle stazioni in cui generalmente è prevista la sostituzione dei macchinisti a bordo dei locomotori di qualunque treno (merci, passeggeri a lunga percorrenza, ecc.). Questo trenino fa servizio per circa centocinquanta chilometri, da Severobajkalsk a Novyj Uoyan, dove mi attende Sasha, il cacciatore con cui passerò una settimana nella foresta.

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Ciondolando con la testa: verso Novyj Uoyan Salgo la scaletta di ferro, passo nello spazio di accesso al vagone e ho già gli occhiali appannati per la differenza di temperatura. Già essere su questa carrozza è per me motivo di soddisfazione. Ad intuito apro la porta di accesso al vagone e una ventata calda mi investe, procurandomi solo all’inizio un po’ di sollievo. Con un gesto veloce libero le lenti dall’umidità vaporosa e cerco un posto dove sistemarmi. Non sono tranquillo: in un istante si ammassano nella mia mente, ingorgandola, tutti i racconti, le storie e ciò che mi è stato raccontato su questi convogli. Volodya dice “ci potrà essere gente che sta già bevendo alle sei del mattino”; su internet ho letto resoconti in cui si afferma che “gli operai RZD (Rossijskie Zhelesnye Dorogi) fumano anche dentro alle carrozze”, “persone in tuta da lavoro si sdraiano ovunque, prolungando il sonno fino al momento prima di scendere a lavorare”, “non esiste alcuna regola su quei vagoni, ognuno fa ciò che vuole”. Non vorrei che qualche strano comitato di accoglienza prenda la briga di accogliermi sul “suo” vagone con qualche strampalata o pericolosa modalità. Sono cotto dalla sera prima e sarebbe l’ultima cosa di cui avrei bisogno. Seguendo una strategia imparata sul campo, la mia tattica consiste nello scomparire in un posto il più vicino possibile all’ingresso del vagone, in modo tale da non dover sfilare per tutta la carrozza alla ricerca di uno spazio libero, facendomi notare da tutti. Butto lo zaino sull’ultimo tavolaccio in alto e mi inchiodo sulla panca inferiore, senza togliermi cappuccio e cappello. Di fianco e di fronte a me si trovano una signora sulla cinquantina con la figlia, tranquille, parlottano sottovoce con lo sguardo perso nell’oscurità del finestrino. Appena le ho notate mi sono immediatamente piazzato vicino, infatti non dovrei avere problemi con loro. So che sto ingigantendo le cose, che questi timori riverenziali possono essere un’esagerazione, ma tutto il mio comportamento deriva dall’esperienza, dalle situazioni già vissute in circa sessantamila chilometri percorsi su queste ferrovie e quindi adotto le misure per limitare gli inconvenienti. Le uniche due parole che pronuncio, sommessamente, sono quelle relative alla mia destinazione, quando la provodnitsa mi si avvicina per il biglietto: “Novyj Uoyan”, tiro fuori dalla giacca una o due banconote da cento rubli, accartoccio il foglietto che mi viene dato e torno a sonnecchiare. La temperatura interna del vagone è micidiale per le mie condizioni e poco dopo ne avverto tutte le conseguenze: devo sbottonare la giacca e almeno togliermi il cappuccio (il cappello rimane al suo posto, anche tutti gli altri passeggeri, nonostante gli almeno 25°, indossano perennemente un copricapo). Non essendoci più il freddo a bilanciare gli effetti dell’alcool della sera prima, ripiombo nella mia tormentata condizione: mal di testa, spossatezza, vertigini e malessere generalizzato. Devo fare una pessima impressione alle due donne che ho vicino: dopo qualche chilometro smetto di rivolgere lo sguardo ora all’interno del vagone, ora fuori dal finestrino, per rimanere con la testa ciondolante sopra le ginocchia, con la schiena inarcata su sé stessa, in un atteggiamento “vegetativo” che la gente del posto riconosce fin troppo bene. Alzo il capo solo in prossimità delle stazioni, perché la curiosità di osservare i luoghi di fermata della BAM supera la sensazione di malessere. Sento che ogni tanto mamma e figlia mi osservano, ma non mi interessa, basta che il viaggio prosegua nella monotonia più totale fino a destinazione. Riesco anche a sonnecchiare, sprofondando in un torpore senza vero riposo. Sulla cuccetta superiore del vagone platskartnyj in cui mi trovo è disteso un operaio, intento a russare ritmicamente. È vestito come all’esterno: giacca imbottita, cappello pesante, valenki e guanti. Non c’è nessun materasso, né lenzuola, semplicemente le persone si stendono sulle cuccette per riposare il più possibile. Non mi ricordo di qualcuno che fumasse. Il treno ferma ovunque: sia alle stazioni e punti di fermata “regolari”, sia in luoghi in mezzo al nulla, presso foreste, acquitrini, colline o ponti, posti in cui gli operai sono chiamati a trascorrere l’intera giornata all’aperto, indipendentemente dalla temperatura dell’aria, fino a sera, quando un altro convoglio come questo li riporterà a casa. Queste persone sono da elogiare e rispettare: grazie al loro durissimo lavoro la ferrovia viene mantenuta efficiente ed in buono stato. Sul treno alcuni scherzano e ridono, passeggiano nel corridoio alla ricerca dei compagni buttatisi a dormire qua e là, svegliano i ritardatari e distribuiscono mansioni e piccoli attrezzi. Qualcuno gira con chiavi inglesi e martelli appesi alla cintura, altri leggono dei giornali o parlano al telefono. In ogni caso non sono nelle condizioni di osservarli e rimango assopito e semi-accovacciato al mio posto. Il viaggio dura circa quattro/cinque ore e, dopo le nove, la carrozza è invasa dalla luce del giorno, raggi obliqui riflessi dai finestrini, che mi creano ancora più fastidio e dolore alla testa. Le stazioni della BAM si susseguono con regolarità: Kholodnaya, Kichera, Dzelinda, Kiron...conosco i nomi a memoria e non me ne perdo una, osservandole

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dal mio stato soporoso. A Novyj Uoyan i pochi passeggeri rimasti scendono, il treno ha finito il servizio, oltre non si va. Mi risistemo velocemente, il peggio è passato ed in ogni caso ormai non c’è più tempo per dormicchiare come uno zombie, adesso è il momento di iniziare una nuova avventura.

Novyj Uoyan Scendo la scaletta del vagone e vengo investito da una fastidiosa luce intensa, si tratta del riverbero dei raggi solari sulla neve. La giornata serena ed il candore del suolo spargono bagliori intensi in ogni direzione, socchiudo gli occhi e fatico a mettere a fuoco bene la piattaforma accanto al binario, perché sono ancora abituato alla penombra interna alla carrozza. L’ultima volta che ho messo piede in questa stazione la temperatura era più o meno la stessa, ma le ombre crepuscolari iniziavano a calare su ogni cosa, compreso l’ultimo vagone del mio treno Mosca – Tynda, la cui foto scattata proprio a Novyj Uoyan è divenuta l’immagine di copertina del mio secondo libro dedicato alle scorribande siberiane. Ho un ricordo piacevole di questa fermata. Non so che aspetto possa avere Sasha, ma non ha importanza, sicuramente sarà lui a trovarmi. Un paio di secondi dopo essere sceso dal treno, infatti, spazio con lo sguardo a destra e sinistra e noto subito una figura scura che mi si avvicina lentamente. Mi tende la mano e ci presentiamo, dopo un minuto siamo già sulla jeep. Sasha è tarchiato, piuttosto basso, con il viso largo, baffi e occhi azzurri. Un pesante cappello nero gli avvolge la testa, rendendola di una strana forma ovale. Non è nell’immediato molto loquace, ma rimane nella media russa, ho incontrato sicuramente persone più chiuse, inoltre anch’io in questo momento non ho particolare interesse e brillantezza nella conversazione, ho cose importanti a cui pensare. Date le incomprensioni del giorno prima con Volodya, non ho avuto tempo di cambiare in banca i soldi e adesso il problema deve essere risolto in qualche modo, non posso continuare ad avere inservibili euro in tasca. La semplicità dell’operazione è annullata dalla complessità delle condizioni locali: una sola banca, l’ottusità degli impiegati bancari, un piccolo paese sulla BAM. Risultato: per cambiare qualche banconota ci vuole un’intera ora e parecchia pazienza. Mi viene anche dato, tra gli altri, un modulo assurdo da compilare, con i dati del luogo della mia registrazione del visto, da indicare in maniera precisa e completa. Ormai viaggio in Siberia da così tanto tempo che non mi scompongo davanti a questi ostacoli burocratici apparentemente insuperabili, so che a nessuno interessa ciò che sto per scrivere, l’importante è che i dati siano coerenti ed abbiano una logica: dunque invento completamente tutto quanto scrivo nei campi del modulo, formalmente è tutto regolare, l’impiegata a breve metterà quel foglio in un cassetto della scrivania, dove rimarrà giacente finchè non lo butteranno. Le mie banconote destano ansioso stupore, viene chiamato il direttore della filiale, affinchè siano esaminate con alcuni strumenti ottici, per verificarne l’autenticità. Quando il sottoscritto e gli altri componenti della fila allo sportello sono esausti, mi vengono consegnati i rubli e posso andarmene. La prossima volta devo evitare di compiere simili operazioni in luoghi sperduti. Dopo la banca ripuliamo un negozio per far scorta di viveri per l’intera settimana a venire. Tra le varie cose abbondiamo con mele, pane, zucchero, biscotti, formaggi, salami, caramelle, tè, cioccolato, vodka. Bisogna portarsi dietro i rifornimenti per cinque o sei persone e riempiamo un paio di sacchi. Dal negozio attraversiamo tutto il piccolo abitato di Novyj Uoyan per raggiungere il distributore di benzina e gasolio: la Lada Niva su cui mi trovo è in riserva. Passiamo per strade che si snodano tra isbe e alcuni modesti condomini, sulle cui facciate sono impresse scritte celebrative in onore della ferrovia BAM. La neve grumosa scricchiola sotto le ruote, mentre lentamente lasciamo il paese. Sasha conosce tutti, praticamente fa un cenno di saluto a chiunque incontri. Senza di lui già al negozio avrei potuto avere dei problemi, magari avrebbero chiamato la polizia, per dire che “C’è uno straniero che compra da mangiare, cosa dobbiamo fare?”. Il distributore di gasolio è all’estrema “periferia” dell’abitato. Tutt’intorno domina la foresta e il suo silenzio. Scendo dal fuoristrada mentre Sasha fa rifornimento, voglio testare un po’ la temperatura, iniziare ad abituarmi a ciò che mi aspetta. Respirare ha un impatto visivo: ad ogni atto respiratorio corrisponde infatti uno sbuffo vaporoso in uscita dalle narici o dalla bocca, un fumo grigio e denso, segno evidente della temperatura attorno ai venti gradi sotto lo zero. Un bel sole spande nel cielo e sull’intera regione una luce vivida, che mi rende fiducioso ed entusiasta per i giorni a venire. A qualche metro dalle pompe del carburante c’è una piccola costruzione bassa, con una finestrella minuscola rinchiusa dalla solita maglia di sbarre metalliche, che difendono chissà da chi o da che cosa quella persona che passa la giornata a dare il resto e a prendere i soldi di chi riempie i serbatoi. Partendo da questa “cassa”, una rete con filo spinato cinge il perimetro

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dell’area in cui è stoccata la riserva di carburante, due o tre grosse cisterne arrugginite dal tempo, che si stagliano tra i rottami ferruginosi di qualche rifiuto semisepolto dalla neve. Un cancello chiuso con un grosso lucchetto divide la zona accessibile del distributore da quella vietata. A metà delle due inferriate del cancello una riproduzione metallica di falce e martello, rispettivamente la prima rossa e l’altro nero, funge da decorazione politica. Nella parte più visibile dell’edificio più alto, realizzato oltre la rete, è formata con i mattoni la scritta “1984 anno della posa dell’ultimo tratto (della BAM)”. Tutto risale ai tempi gloriosi della costruzione della BAM, tutto è di quell’epoca o riporta a quell’epoca, ogni edificio, strada, traliccio, infrastruttura grande o minima deve la sua esistenza all’arrivo della strada ferrata. Dopo il 1990 non ci sono stati più investimenti, né progressi, né nuove speranze e questo declino è concretamente e quotidianamente ricordato alla popolazione da questi simboli, dalle scritte celebrative sui muri, dai monumenti e dai ricordi di chi partecipò alla strojka veka (costruzione del secolo). Da qui inizio a sentire l’atmosfera autentica del viaggio che sto compiendo, infatti se fino a questo punto è relativamente semplice addentrarsi nella Siberia “minore”, d’ora in avanti tutto sarà sempre più complesso e soprattutto irrealizzabile senza l’appoggio delle persone locali. Lasciamo il distributore per seguire per circa trenta chilometri la pista parallela alla massicciata della ferrovia, tenendoci sempre sulla destra della stessa. La Niva sobbalza sulle innumerevoli buche, che a volte costringono a degli improvvisati slalom tra le “corsie”, facendoci continuamente invadere l’altra carreggiata. Questo procedere a zig-zag ha comunque un’importanza relativa, visto che il già ridottissimo traffico, man mano che ci allontaniamo da Novyj Uoyan proseguendo verso est, sparisce del tutto per lasciare posto solo a qualche camion Kamaz carico di tronchi. Lungo tutta la strada c’è una grande quantità di legna tagliata, di tronchi, di travi e mucchi indistinti di legna parzialmente coperti dalla neve. Alcuni sembrano abbandonati, altri invece paiono di recente collocazione. Proprio qualche mia domanda sulla gestione attuale di queste risorse pone le basi per un lungo e accorato discorso di Sasha, incentrato su degli argomenti che ritorneranno spesso durante le nostre chiacchierate. Senza mezzi termini questo cacciatore mi spiega come una volta il taglio del bosco fosse un’attività ben regolamentata e portata avanti in maniera scientifica. Mentre rimbalziamo tra buche e fossati, Sasha rimane con lo sguardo fisso in avanti, intanto porta avanti il suo discorso con un tono malinconico e disfattista: “La foresta veniva tagliata a fette di territorio determinate a tavolino, e in queste fette venivano poi lasciate ricrescere le piante per un certo numero di anni e così via, per dare alla natura il tempo di rigenerarsi”. “A Novyj Uoyan ora l’unica attività lavorativa seria è rimasta la ferrovia, il resto non conta nulla, si basa sull’improvvisazione e non ha alcuna programmazione”. “Dopo il taglio il sottobosco veniva pulito e trattato in modo che per la natura fosse più facile e veloce far crescere nuove piante, adesso invece si taglia e basta, non portano via nemmeno i mucchi di segatura dal bosco”. Resto in silenzio, guardo fuori dal finestrino e vedo avvicinarsi l’ennesima catasta di legna a bordo della pista. Sasha incalza: “Guarda: la legna è lasciata qui senza protezioni, pioggia, neve, gelo, sole…tutto la può rovinare”. “I tagli alla foresta diventano indiscriminati e tutto il legname va all’estero, i soldi a Mosca o a qualche pezzo grosso, la taigà soffre e a noi non resta nulla”. Rallentiamo, quasi ci fermiamo, il sole diretto che ci colpisce a tratti dal parabrezza acceca, bisogna diminuire la velocità e cercare rifugio verso l’ombra gettata dalle conifere a bordo strada, per riuscire a tornare a vedere dove si sta andando. Per adesso queste conifere ci sono ancora e le ringraziamo. Verkhnyaya Angarà Tutto ruota attorno alla BAM, nel bene e nel male. Anche concretamente, come la pista gelata che stiamo percorrendo in fuoristrada proprio di fianco all’alta massicciata, che continuo ad osservare. Non passa nessun treno mentre corriamo di lato alla ferrovia, la coppia di binari rimane muta, in perenne attesa di un convoglio da est o da ovest, che viene fatto circolare a transito alternato sul binario unico. La BAM attira a sé tutta l’attenzione, la specie di strada su cui viaggio è solo una via di comunicazione di servizio, realizzata ai tempi della costruzione della linea ferrata, che ora è praticamente priva di importanza. Lo sguardo è rapito e si perde nel seguire la linea della ferrovia, che qui è una striscia esattamente dritta per decine e decine di chilometri. Nei pressi del fiume Churo un breve e molto basso viadotto apre un pertugio nella massicciata, permettendo di attraversarla e dirigersi verso nord, passando sotto ai binari. Al di là del viadotto inizia una sorta di largo sentiero, non si può nemmeno definire pista, sepolto dalla neve e visibilmente privo di qualunque manutenzione, che per pochissimo costeggia sulla sinistra la BAM, per poi sparire nella foresta, in direzione delle montagne. Il viadotto è un confine netto e lo si avverte:

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passare dalla pista a sud della ferrovia a questa mulattiera innevata a nord trasmette la precisa sensazione di lasciare un mondo per un altro, si abbandona ogni residuo di civiltà, di antropizzazione dei luoghi, per tuffarsi nei domini della taigà. Sto attraversando una vera e propria porta verso un’altra dimensione, verso altre regole e altre priorità. La Niva prosegue con le marce ridotte, affondando nella neve e seguendo con fatica la traccia intuibile tra gli alberi. Viaggiamo a passo d’uomo. Un’ulteriore conferma dell’ingresso in una nuova dimensione mi viene dal comportamento di Sasha. Poco dopo essere usciti con fatica da un fossato coperto di neve ci fermiamo in mezzo alla foresta, Sasha spegne il motore e si rilassa, dicendo di voler mangiare qualcosa. Prendiamo un sacco ed affettiamo un salame e del pane. Immediatamente mi viene posta la richiesta “Vuoi qualche goccia? Solo qualche goccia…”. L’invito è inequivocabile, stiamo per aprire una bottiglia di vodka. Rifiuto, dico di aver già bevuto con Volodya la sera prima…cerco di respingere l’offerta, ma Sasha tanto per cambiare mi ha chiesto solo formalmente se voglio bere, due bicchierini pieni di benzina per lo stomaco sono già pronti e brindiamo. Per fortuna facciamo solo tre brindisi, poi riprendiamo la marcia. Bere al volante è una cosa che i russi con cui ho avuto a che fare evitano quasi sempre, a causa delle leggi sempre più rigide. Il fatto che Sasha si sia concesso un po’ di vodka significa che da qui in poi tutto è permesso, siamo fuori da ogni controllo e regola, siamo liberi nella foresta. Come per i detenuti del GULag la legge è la taigà, e basta. Siamo appena entrati in questo regno e dunque un’offerta, intesa anche come dono agli spiriti del luogo, di alcool è comprensibile, in base alle tradizioni legate allo sciamanesimo. Sasha è perfettamente rilassato e calmo, si sente nel suo ambiente. Mi faccio spiegare il percorso che seguiranno i nostri spostamenti in questi giorni: in auto ci stiamo dirigendo solo fino al fiume Verkhnyaya Angarà, uno dei due maggiori affluenti settentrionali del Bajkal, la cui foce è presso la parte più orientale dell’isola Yarki. Lì lasceremo il fuoristrada e resteremo per una notte, per poi proseguire in motoslitta fino alle montagne, dove i cacciatori hanno una grande capanna dove dormire. Da quel punto al terzo giorno si potrà proseguire, a piedi e con le renne, per un lago ghiacciato all’altezza di circa millecinquecento metri, raggiungibile attraverso un difficile percorso nella foresta. La catena montuosa in cui ci muoveremo è la Verkhneangarskij. L’indomani, quindi ormai il quarto giorno nella foresta, ci sarà il rientro alla capanna più grande, seguito da un altro giorno di trasferimento per il fiume Verkhnyaya Angarà. Il sesto giorno rientreremo a casa, a Uoyan. Ci muoviamo a passo d’uomo nella neve alta, attraversando tratti di foresta e zone paludose, ora ridotte a lisce distese ghiacciate e innevate. Si riconosce subito una radura paludosa: gli alberi sono radi e malandati, alcuni pennacchi di erbe alte spuntano qua e là, alternandosi a spazi aperti, in questo momento coperti solo da bianchi fiocchi, ma che in estate sono il dominio di acque torbide e miliardi di zanzare. In uno di questi spazi paludosi sento avvicinarsi a noi il ronzio sempre più forte di un motore e mi stupisco, visto che so di trovarmi in zone disabitate. Forse un cacciatore che si muove in moto? Improbabile. Mi volto e vedo due persone in piedi, intente a guidare un paio di motoslitte tra gli ostacoli affioranti dalla neve. Sono molto più veloci di noi, appena ci raggiungono rallentano e scambiano due parole con Sasha, per poi dileguarsi nel bosco, sulla pista malridotta che stiamo faticosamente seguendo. Vengo subito a sapere che sono Viktor, fratello di Sasha, e Afonya, una persona che li aiuta nella caccia. Stanno portando le motoslitte sul fiume, in pratica ci precedono per preparare tutto l’occorrente per la spedizione di una settimana, durante la quale verranno insieme a noi. All’improvviso si nota che la penombra della taigà sta per essere squarciata da una luce vivida e forte, proveniente da una zona non protetta dagli alberi. Superiamo un piccolo dosso, terminano i fusti delle piante attorno e in un momento sbuchiamo sulla sponda sinistra del fiume Verkhnyaya Angarà! Siamo proprio sulla sommità scoscesa della riva, ecco il motivo di tanta luce e dell’assenza di alberi, siamo arrivati al fiume, che mi si apre davanti in tutta la sua semplice maestosità. Una striscia bianca, candida, immacolata, ampia, invasa dal riverbero dei raggi solari si protende da est ad ovest, dividendo in due la nera taigà. Resto senza parole. Mi accorgo che Sasha sta procedendo lentamente verso il bordo della riva, per prepararsi alla discesa ripida e veloce verso il fiume. La sponda è scoscesa, ha un angolo di circa trenta gradi a mio parere. Con una pesante auto stiamo per buttarci su di un fiume gelato da questa specie di trampolino...non mi sento sicuro, ho sempre il timore di sfondare lo strato di ghiaccio quando mi trovo sopra un fiume, soprattutto in macchina. Sasha accelera e precipitiamo nella scarpata per qualche metro, poi torniamo in equilibrio e siamo già sulla neve pressata sopra al fiume. Ora basta ingranare la prima e dirigersi verso l’altra sponda, dove presso un’ansa ci aspettano Viktor e Afonya. Mi prende sempre una sensazione di euforia quando mi trovo su un fiume ghiacciato e questa volta non fa eccezione. Scendo dalla Niva e mi presento velocemente agli altri, ma il mio unico pensiero è guardare bene attorno, far rimanere impresso nella memoria ogni dettaglio e

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assorbire tutto il magico splendore di questa visione incredibile. Cammino sul ghiaccio del fiume, che è coperto da uno strato di neve non spessa, su cui è piacevole muoversi sentendola scricchiolare. Mi trovo nelle vicinanze di un’ansa molto larga, l’intero corso della Verkhnyaya Angarà è caratterizzato da decine e decine di anse, che, rappresentate sulla cartina, rendono questo fiume simile ad un lungo e sinuoso serpente. Angarà è il nome dell’unico emissario del Bajkal. Verkhnyaya Angarà significa Angarà superiore e, in teoria, è stato quindi scelto questo corso d’acqua come teorico immissario precursore del grande Angarà, anche se un vero legame tra i due fiumi non esiste. La Niva viene parcheggiata a qualche metro dalla costa e troneggia sopra al ghiaccio, come se volesse ricordare a tutti la magia della Siberia invernale, dove un’auto può sostare sopra il corso di un fiume. Mi trovo ora al centro di una pianura alluvionale abbastanza ampia, ma non così estesa da cancellare il profilo delle montagne settentrionali, verso cui sono diretto nei prossimi giorni, che incombono all’orizzonte, stagliandosi lungo tutta la pianura in un contorno di vette intensamente imbiancate. La foresta su alcuni tratti delle rive si dirada e permette allo sguardo di vagare negli spazi sconfinati, dal fiume fino ai piedi dei monti, attraverso acquitrini, zone collinari e immense distese nere, dove la taigà di conifere e betulle riconquista totalmente il territorio. Parecchie zone sono state visibilmente ferite dagli incendi estivi, fenomeni legati quasi sempre all’opera o all’incuria dell’uomo. Il fenomeno è particolarmente evidente adesso, d’inverno, quando in mezzo ad un paesaggio reso pressoché omogeneo da un’uniforme tonalità bianca, spicca qua e là un’intera area di scheletrici fusti neri, privi del verde scuro tipico delle chiome delle conifere. I colori predominanti sono appunto il bianco e il nero, ma l’azzurro purissimo del cielo ravviva tutto il paesaggio e rende il bianco ancor più candido, ancora più accecante. Mi sposto ad alcune centinaia di metri di distanza dagli altri, salgo su un punto particolarmente scosceso della riva destra e osservo la piana dell’Angarà superiore, che qui è largo circa un centinaio di metri. Non mi pare vero di essere qui, posso vedere e toccare con mano la realtà di questi luoghi, dopo aver cercato mille volte, mentalmente, di tradurre in immagini reali i segni convenzionali disegnati sulle cartine: la foresta, tutte quelle anse ingarbugliate, il verde della pianura, la vicinanza delle montagne e l’alternarsi delle zone paludose. È tutto qui davanti a me, dalle cime rocciose agli stagni gelati, dalla taigà all’eleganza del fiume, dalle orme degli animali al silenzio totale. Quest’ultimo è la caratteristica più immediatamente rilevabile e stordente per chi proviene da zone popolate. Quando mi fermo e non calpesto più la neve, non si sente alcun rumore. Sasha e gli altri sono troppo lontani, ciò che stanno facendo non crea disturbo. Nessun uccello vola o canta, a terra nessun movimento, il fiume non gorgoglia d’inverno e muto scorre sotto la sua coperta di ghiaccio, per l’assenza di vento non oscillano, scricchiolando, gli alberi. Tutto è fermo. Zitto, anch’io, resto in attesa. In cielo nessun aereo, neanche si vedono vecchie scie del loro passaggio. A suoni e rumori è collegata, nel nostro immaginario, la presenza di qualcuno o di qualcosa e il silenzio assoluto porta subito a dover constatare la totale assenza di persone, di animali immediatamente visibili, di segni in generale della presenza umana. Quest’assenza è tanto dura da sopportare, quanto più si è abituati a vivere in zone popolose o comunque antropizzate. Per ora ho avuto solo un assaggio di ciò che mi attende nei prossimi giorni. Il primo zimovyo Perso nelle mie riflessioni, vengo richiamato alla realtà dal baccano di una motosega. Gli altri si sono avvicinati al punto in cui mi trovo e stanno abbattendo due alberi morti, due tronchi rinsecchiti che penzolano sull’Angarà. Sono due grosse piante, il cui diametro è superiore ai cinquanta centimetri e quando, dalla riva, cadono sul ghiaccio del fiume temo per una possibile rottura di quest’ultimo, su cui sto camminando. Un veloce e secco strepitio, creato dall’infrangersi dei rami più piccoli e del tronco principale sul ghiaccio, è immediatamente seguito da un tonfo sordo, che rimbomba sotto di me, di certo portato dall’acqua sotto il ghiaccio. Il tonfo corrisponde al momento in cui tutto il peso dell’albero morto impatta con la superficie gelata dell’Angarà, che non viene nemmeno scalfita. Ancora una volta mi stupisco della robustezza del ghiaccio. La legna viene subito ridotta a ciocchi e pezzi più maneggiabili e servirà per scaldarci questa notte. Con le slitte portiamo questo discreto ammasso di legname fino al punto della sponda dove è parcheggiata la Niva. Dalla riva scoscesa, alta poco meno di tre metri, parte un accenno di sentiero che, su neve battuta e resti di segatura, sparisce nella foresta, apparentemente svanendo tra gli alberi. Sasha mi invita a raggiungere lo zimovyo, basta seguire il sentiero, non è lontano. Per quanto mi sforzi di scrutare, non vedo altro che neve, alberi e arbusti. Mi inoltro nella taigà portando in spalla un pesante ceppo di legno. Il sole

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comincia a dileguarsi velocemente e, a metà pomeriggio, dopo tutta la giornata passata all’aria aperta, è ora di cominciare a riscaldarsi in un riparo adeguato. Impiego meno di un minuto per arrivare allo zimovyo, una capanna di legno sempre aperta, a disposizione dei cacciatori. È davvero pittoresco e si amalgama perfettamente con l’ambiente circostante, infatti non lo noto subito, nascosto tra gli alberi e la neve. Questa è la prima capanna della famiglia di Sasha all’interno del loro territorio di caccia. La porta di ingresso è chiusa dall’esterno, semplicemente appoggiata all’intercapedine dove si incastra a pressione. Basta tirarla e si apre. Per consuetudine, chiunque può passare la notte in uno zimovyo, soprattutto d’inverno, ma deve lasciare tutto nello stato in cui l’ha trovato, compresa la riserva di legna, che deve essere rimpinguata se ne viene usata una certa quantità per scaldarsi. Logicamente è buona regola cercare di avvisare, prima dell’eventuale possibilità di pernottamento presso la capanna di un’altra famiglia di cacciatori. Comunque va da sé che per ovvie ragioni questi rifugi sono usati quasi esclusivamente da persone della zona, che si conoscono tutte tra loro. Trovare un “estraneo” in questi posti è possibile, ma è una rarità. In una piccola radura sorge questa baracca ben costruita e solida, piacevole a vedersi con la sua struttura orizzontale di tronchi, attraverso i quali, su di un lato, è stata ricavata la porta d’ingresso. La parte superiore esterna di questo parallelepipedo di legno, quella sopra al soffitto, è aperta e usata come deposito per vari oggetti. Due scalette sono appoggiate ai fianchi del capanno e permettono di salire a recuperare ciò che serve. Il tetto, formato da uno scheletro di tronchi a cui in cima sono appoggiate a volte delle lamiere, protegge dall’acqua e dalla neve, ma, come detto, non è chiuso sulla parte frontale nè su quella retrostante. La zona sotto il tetto è utilizzata quindi solo come deposito, mentre nelle nostre baite di montagna lo stesso vano sarebbe chiuso davanti e dietro e convertito a camera da letto. Butto la legna sulla catasta a fianco della radura ed entro, cercando riparo dal freddo, che inizia a mordere. All’interno mi attende una gradita sorpresa, infatti Afonya ha preceduto tutti ed ha già acceso la pechka, la stufa russa. L’unico problema per me è l’altezza della stanza, che non mi permette di stare dritto in piedi, viste le mie dimensioni. Il soffitto di tronchi è rivestito di cartoni di vecchie scatole di vodka, probabilmente per ammorbidire gli spigoli più appuntiti delle travi. Mi metto seduto su uno sgabello vicino alla stufa e penso solo a riscaldarmi. Afonya fa lo stesso. Non è il momento per fare conversazione, prima bisogna occuparsi della richiesta di calore del corpo. La differenza di temperatura tra l’esterno e le immediate vicinanze della stufa è tale, che dai miei pantaloni imbottiti escono densi sbuffi di vapore. Le ginocchia, le cosce, letteralmente fumano mentre mi scaldo. All’inizio si rimane al chiuso con gli stessi indumenti indossati fuori: cappello pesante, sciarpa, pantaloni imbottiti, giacca e felpa molto spessa. Dopo qualche minuto si comincia a togliere il cappello, poi la sciarpa, poi la giacca, man mano che il tepore viene assorbito dal corpo. In questo modo ognuno crea il proprio mucchietto di vestiti da qualche parte, pronto all’uso prima di uscire. Ovunque sulle pareti, ma soprattutto in alto, lungo i tronchi che delimitano il soffitto, spuntano decine di chiodi, conficcati nel legno e usati come appendini per qualunque vestito o oggetto. Sono comodi ma pericolosi: i vestiti possono strapparsi, lacerarsi, bucarsi e là dove i chiodi non vengono usati, si confondono nell’atmosfera scura dello zimovyo e c’è la possibilità di urtarci contro con la testa, le spalle, la schiena, con il rischio di ferirsi. Intanto che ispeziono con lo sguardo gli angoli della capanna, ridacchio dentro di me, poiché sono perfettamente consapevole di notare tutto questo solo perché ragiono con un’altra mentalità, mentre per Sasha, Afonya e gli altri se qualche chiodo spunta dalle pareti non ha alcuna importanza, anzi se non ce ne fosse uno subito a portata di mano, basta martellarne un altro vicino a dove si è seduti e appenderci ciò che si ha in mano in quel momento. Così facendo, con il passare del tempo, mi figuro lo zimovyo nel corso degli anni, sempre più rassomigliante ad una pelle di riccio rovesciata, irto di aculei all’interno! Tre-quattro spesse assi, fissate su piccoli ceppi tozzi alti circa un metro, costituiscono il tavolo al centro del locale. Ai lati due tavolacci rettangolari assolvono la funzione di giaciglio di notte e sedia di giorno. Sono coperti con pelli di renna e coperte grezze, di colore scuro, impregnate dell’odore della legna arsa nella pechka. Ci si sdraia su di un materasso molto snello, che serve giusto ad addolcire lo spessore e le irregolarità del legno su cui si dorme. Quando è buio, un po’ di luce, per leggere, preparare le pelli degli zibellini o rattoppare reti da pesca, è garantita da un paio di lampade a petrolio e dalle braci della pechka. Un rudimentale lavandino ed uno scolapiatti rappresentano la zona della cucina, dove sono raggruppate tazze, teiere, posate tutte diverse, scodelle e qualche piatto. Il tè viene preparato direttamente sul fuoco della pechka, così come le minestre a base di pesce o il bollito di carne di renna. All’esterno può infuriare una purga (tempesta di neve), il gelo può far scricchiolare la foresta, la pioggia inzuppare il terreno o il sole cuocere le paludi, ma qui dentro, nel ventre dello zimovyo, la temperatura è sempre gradevole, l’atmosfera rilassata, i rumori ovattati e la tranquillità garantita. Una fragranza di

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legna pervade l’intera stanza, dal momento in cui si varca la bassa porta d’ingresso, depositandosi su indumenti, attrezzi, pelli, corpi. Si tratta di un odore non invadente, che non dà fastidio, non stanca, ma rigenera e crea un legame tra la capanna e chi la frequenta, infatti ogni zimovyo ha il suo aroma, leggermente diverso dagli altri e subito riconoscibile da chi conosce bene il territorio. Ad ogni odore sono legati ricordi, avventure di caccia e di vita, giornate faticose passate nella taigà, alcune belle altre più dure; momenti passati con parenti e amici durante le varie fasi della vita di una famiglia di cacciatori. Sasha ricorda la costruzione di ogni zimovyo, tutti gli aneddoti e le loro caratteristiche, in pratica la loro storia, che è anche la sua, la sua vita. Fuori da questa baracca vicino all’Angarà sorge una piccola ma robusta tettoia che ripara dalle intemperie alcuni attrezzi e funziona anche da banco di lavoro, per intagliare oggetti di legno e per altre piccole faccende all’ordine del giorno nella foresta. Una larga tavola marrone chiaro, pitturata e decorata da una scritta, troneggia su questa tettoia: è dedicata al padre di Sasha e Viktor, il capofamiglia che ha insegnato a tutti i suoi figli a vivere e cacciare nella foresta, a rispettare la taigà e a custodirla, a prendere da essa solo ciò che serve per la propria famiglia e nulla di più, a proteggerla da bracconieri e incendi, ad omaggiare e riverire gli spiriti dei luoghi, a stabilire con l’ambiente un legame profondo e intenso, frutto di una proficua e perfetta simbiosi millenaria tra uomo e natura. È per questo che sono qui, per affacciarmi su questo mondo e imparare il più possibile, per approfondire l’esperienza della Siberia e delle sue genti e proseguire nella scoperta della sua anima, che in qualche modo è anche rivelazione interiore, un viaggio dentro me stesso.

Afonya L’elemento per me più incredibile di uno zimovyo è rappresentato dalle finestre. Ogni apertura nelle pareti laterali è “chiusa” da un semplicissimo foglio di cellophane inchiodato agli infissi. Il vetro è del tutto assente. Mi vengono i brividi a pensare a temperature di trenta, quaranta gradi sotto lo zero e collegarle alla realtà di questi serramenti. Quando finalmente riesco a sentire un discreto tepore distribuirsi nelle mie membra, smetto di contemplare in silenzio l’incandescente baluginare arancione, emanato dalla stufa, per chiedere ad Afonya spiegazioni su queste finestre, per me così strane. Lui allarga la bocca mostrando buchi neri tra i denti rimasti e sogghigna, facendo spostare i sottili e radi baffetti che spuntano sul labbro superiore. Afonya è metà russo e metà tunguso, sorride spesso e all’inizio si dimostra timido nei miei confronti, poiché non sa cosa dire, come conversare né quali argomenti trattare, come se si trovasse di fronte ad un alieno. Insistendo riesco a rompere il ghiaccio, riesco a fargli capire che può trattarmi, se non proprio come gli altri compagni di caccia, almeno come una persona normale. “Non ci sono vetri perché verrebbero continuamente rotti dagli orsi”. Mi spiega che questi plantigradi in primavera, al risveglio dopo il letargo, girano nella taigà alla ricerca di cibo, hanno lo stomaco vuoto da mesi e sono insaziabili. Una capanna tra gli alberi è per loro un interessantissimo luogo da esplorare. Oltre che affamati sono curiosi ed entrano spesso nelle casupole, prelevano degli oggetti, li usano per giocare un po’ nelle vicinanze, poi li abbandonano. Spesso d’estate, quando si gira per la foresta dormendo nelle capanne, come ora, si deve setacciare i dintorni delle baracche per recuperare tazze, posate, coperte, legna e ogni altro oggetto che è servito per far divertire qualche orso. Non viene mai lasciato del cibo negli zimovyo, poiché sarebbe un’esca irresistibile e attirerebbe orsi con regolarità, compromettendo l’esistenza stessa del rifugio. Gli orsi dunque rompono le finestre, scardinano le porte, peraltro sempre aperte, nel tentativo di entrare nelle capanne. Per questi motivi le finestre in vetro non esistono, sarebbero un inutile e continuo problema da sistemare. È molto più comodo e utile coprire con della plastica trasparente le aperture nelle pareti, così la luce entra e sostituire un foglio di plastica richiede pochissimo sforzo. Qualche chiodo tiene adeso all’intelaiatura il cellophane, infatti non ci sono spifferi e un minimo isolamento è garantito. Appoggio una mano su uno di essi e non sento filtrare dell’aria gelida dall’esterno, in compenso è bagnato di condensa per la differenza di temperatura. Sembra un’assurdità, ma la piccola stufa in dotazione ad ogni zimovyo funziona egregiamente e in pochi minuti si diffonde un intenso calore, tale che è possibile stare in maglietta a maniche corte, altrimenti si rischia di sudare continuamente. Anche Afanasij (Afonya è il diminutivo) avverte il caldo ora, infatti si “sgela” e si sdraia sopra un tavolaccio, lasciando lo sgabello vicino alla stufa, dove è rimasto impietrito per una decina di minuti. È piccolo di statura e non ha problemi ad allungare le gambe per rilassarsi. Non so se arriva a un metro e sessanta, come del resto tutti i popoli indigeni del nord della Siberia. Sbocconcelliamo del pane assieme a qualche cetriolo, in attesa che gli altri finiscano di preparare le slitte

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da utilizzare il giorno seguente per addentrarsi nella taigà. Afonya è simile ad un eterno ragazzo, anche se deve avere circa quarant’anni o poco più. Questa constatazione è riferita al suo modo di comportarsi con gli altri, alla sua personalità e a come Sasha e Viktor si relazionano con lui; mentre dal punto di vista fisico dimostra molto più dei suoi anni. Ha degli occhi molto piccoli, vispi, grigio perla, in perenne movimento, che non guardano quasi mai una persona in faccia, anche quando è in corso una conversazione. La fisionomia del volto ricorda bene l’etnia tungusa a cui dice di appartenere per metà, ha dei lineamenti molto somiglianti alle descrizioni delle tribù indigene della Siberia centrale, proprio quei Tungusi di lingua manciù che sono descritti nei libri di etnografia. Dai suoi occhi si capisce bene che la Cina non è lontana. Qualunque cosa non vada, ogni guaio, incomprensione, inconveniente, viene addebitato proprio ad Afonya. Se non si trova la pila che è stata messa sul tavolo, se finiscono i fiammiferi, se il tempo si guasta, se nelle trappole non ci sono zibellini...è colpa di Afonya! In effetti questo piccolo uomo è maldestro, impacciato, insicuro, lamentoso, inaffidabile e superficiale. Viktor lo tratta come una specie di cagnolino, anche se in fondo non lo disprezza veramente, ma non si fida per nulla di lui. Sasha dice che la sua mancanza di temperamento, fiducia in sé stesso, sicurezza, riflettono la sua visione pessimista della vita, del futuro, di tutto ciò che lo circonda. Lui tira a campare e non si sforza di migliorare ciò che lo circonda né di migliorarsi e, per questo motivo, viene visto come uno iettatore, una persona la cui compagnia non è mai proficua. Sasha mi parla in questo modo:“Oggi quando abbiamo controllato le trappole, venendo qui, abbiamo trovato un paio di zibellini giusto?”; “Sì, e allora?” rispondo. “È stato così perché c’eri tu e non Afonya. Con lui non trovo mai niente nelle trappole, perché non porta fortuna, pensa sempre al peggio, non è positivo”. In una cosa Afonya non è di certo meno degli altri, forse addirittura eccelle: fuma continuamente, senza sosta, ovunque e qualunque cosa stia facendo o non facendo. Mentre taglia la legna fuma, quando cammina nella taigà è sempre avvolto da sbuffi di fumo di sigaretta, quando pesca è lo stesso, dopo mangiato uguale, quando prepara le slitte ha sempre un mozzicone fumante tra le dita. Trenta sigarette al giorno penso sia la sua dose minima. Tutti i cacciatori con cui mi trovo fumano, e non poco, ma qualcuno, come Afonya, esagera in maniera terribilmente pericolosa. Ma a lui cosa importa? La tosse grassa ed inquietante che gli scuote i polmoni regolarmente, il catarro che sputa dalla bocca, i denti resi marroni dalle cicche consumate, non lo preoccupano minimamente. Oggi siamo vivi, abbiamo mangiato e la giornata è trascorsa, ce la siamo cavata, domani si vedrà. Non esiste alcuna certezza, nessun punto di riferimento, nessun obiettivo nella vita di persone come Afonya, semplicemente si sopravvive finché si sta in piedi, fino all’ultimo respiro. Quello che si fa nel mentre o come si sopravvive non ha importanza. Si tratta di una mentalità che ho già incontrato e ancora incontrerò in Siberia e in Russia, potrei dire che è un attributo russo della Siberia, attualmente territorio in gran parte “russificato”. In casi come questo si assiste al trionfo di quella mentalità decadente russa che si adagia ed attribuisce il massimo valore al destino, inteso come forza ineluttabile, di fronte alla quale gli uomini possono solo adeguarsi, mai opporsi e che li lascia naufraghi nell’oceano tempestoso della vita. Afonya è un’icona di questa mentalità. L’altra “virtù” in cui eccelle è la pigrizia, vera e propria ignavia esistenziale, totale, che abbraccia ogni aspetto della sua assente personalità. Si muove solo per eseguire comandi dei suoi “padroni” Sasha e Viktor, altrimenti conduce la giornata in una monotona modalità apatica, senza alcuno scopo o sussulto. Quando non sta con gli altri è perennemente seduto vicino al fuoco o sdraiato a dormicchiare sulle coperte degli zimovyo. Per completare questo simpatico quadretto non può mancare in Afonya la giusta dedizione alla vodka, panacea di ogni male e di ogni avversità della vita. D’altra parte basta stendersi sui tavolacci, intorpidire la mente senza pensare a nulla, nel complice silenzio della taigà, guardare il soffitto e perdersi con gli occhi sulle scritte delle decine di cartoni di scatole di vodka che lo tappezzano, per far sorgere il desiderio di alzare il gomito con uno scatto secco e far tuffare l’anima nell’assurda euforia del bicchiere. Nella taigà, dentro gli zimovyo, esiste un cielo spietato, guardando in alto le stelle sono sostituite dai nomi delle marche di vodka già consumata, che ammiccano dentro lo spirito di chi le osserva, solleticando la smania di bere. Dopo questa descrizione viene spontaneo chiedersi perché mai Sasha e Viktor debbano portarsi dietro un tale “collaboratore”. Che bisogno ne hanno? È presto detto: Afonya è uno dei pochi elementi a cui si può chiedere di condividere una vita così dura, senza garanzie, da trascorrere per lungo tempo nella foresta, lontano da ogni minima comodità legata ai centri abitati, sempre in movimento e in ogni stagione dell’anno. D’altra parte Afonya stesso non può rifiutare, perché è una di quelle persone che sarebbero perse, sarebbe già morto se non fosse per Sasha, che gli dà un’occupazione, qualche soldo, vitto e alloggio nei periodi in cui pattugliano la taigà per la caccia. Lui stesso non può sottrarsi all’offerta di Sasha, che comunque

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rappresenta un aiuto concreto, un’ancora a cui aggrapparsi per non perdersi definitivamente. Sasha stesso ha confermato questa mia intuizione con parole molto simili. Reti nel ghiaccio Viktor entra all’improvviso nello zimovyo, imbrattando l’ingresso con mucchietti di neve sparsa dagli stivali di feltro. Si rivolge bruscamente ad Afonya, rimproverandolo per non avere preparato il tè per tutti e gli dice di prepararsi alla svelta per il controllo delle reti sul fiume. Quindi cambia tono e si gira verso di me, invitandomi a seguirli nell’ispezione sull’Angarà, dicendo che probabilmente per me sarà interessante. Mi vesto ed usciamo all’aria aperta, dopo aver bevuto l’ennesima tazza di tè bollente per scaldarci. Mentre raggiungiamo la riva, Viktor mi descrive ciò che stiamo per fare, sottolineando la sua intenzione di mostrarmi tutto della vita nella taigà, facendomi vivere come loro, condividendo le loro giornate in ogni particolare. Apprezzo i suoi sforzi per coinvolgermi nel loro stile di vita e gli sono grato per avermi dato la possibilità di condividere la quotidianità della foresta. Ognuno si occupa di faccende più o meno importanti, che però non sono slegate l’una dall’altra, anzi sono collegate e coordinate tra loro, sono parti di un unico scopo: vivere e portare avanti un progetto nella taigà. Tutti sono sempre presi da mille piccole incombenze: preparare un fuoco, fare la legna, rattoppare vestiti, predisporre le pelli per la vendita, cucinare, riparare i motori delle motoslitte, dare una sistemata a parti delle capanne. In questo momento Sasha, sul fiume, sta preparando le slitte per domani. Viktor deve controllare le reti per la pesca, Afonya si adegua, seguendo le indicazioni dei “capi”. Balziamo su di una motoslitta già pronta per raggiungere un posto prestabilito, ad un paio di anse di distanza dalla riva da cui siamo sbucati dalla foresta. In tutto sarà all’incirca un chilometro. Non sono mai salito a bordo di una motoslitta, è un’esperienza divertente se non si bada alle ventate gelide che frustano il corpo, ma soprattutto il viso. I rigori delle già basse temperature sono acuiti dalla velocità del mezzo, che fendendo l’aria imprime per lo più sulla faccia, sulle mani e sulle gambe folate ancor più estreme. Anche per questo motivo Viktor e Afonya mi fanno sistemare sulla slitta di legno agganciata, seduto in fondo ad essa, con le spalle alla motoslitta, in modo da non essere esposto con testa, petto, gambe e mani direttamente all’aria gelida. Riparato dal piumino, dai guanti e dal cappuccio, non soffro particolarmente mentre voliamo sulla neve vergine dell’Angarà. Ogni tanto giro la testa per osservare come se la cavano gli altri due, seduti davanti, in balia delle raffiche più intense. Così scopro che Afonya, da comodone qual è, si è sdraiato sul corpo della slitta a poco spazio da me, tenendo il capo rivolto controvento per proteggersi proprio come il sottoscritto. Viktor invece troneggia in piedi sul sedile della slitta a motore che ci sta trainando, senza sciarpa, senza occhiali, con il berretto di pelliccia aperto, che non gli copre neanche le orecchie. Resto girato solo per qualche secondo, poi l’aria tagliente mi obbliga a tornare nella posizione di partenza, rivolgendo lo sguardo in direzione opposta a quella in cui stiamo andando, in modo da proteggere il viso da una sgradevole sensazione di gelo. Siamo quasi al tramonto e la temperatura è scesa rispetto al momento in cui siamo arrivati sul fiume. Con venti e più gradi sotto lo zero viaggiare sotto vento a 30-40 km/h deve portare ad una temperatura percepita di circa -40° o - 50°. Punto i piedi sulle due estremità sporgenti della mia slitta, che cigola ritmicamente sulla neve immacolata, e osservo sotto di me le tracce che il cingolo lascia sul manto bianco sopra le acque dell’Angarà. Dal basso poi rivolgo lo sguardo verso il tratto già percorso, verso la riva dove è rimasto Sasha, che si allontana sempre di più, inglobandosi e confondendosi con il paesaggio circostante, schiacciato dalla prospettiva sotto al cielo turchese. A destra e a sinistra è la taigà, muta e gelata. Afonya è sdraiato come in un letto, con gli occhi chiusi, raggomitolato su sé stesso sia per ripararsi dalle folate, sia per non far spegnere l’immancabile cicca che gli penzola dalle labbra, perché naturalmente sta fumando anche adesso. Usiamo il fiume come strada, a volte tagliamo le anse attraversando piccole isolette riconoscibili solo per qualche arbusto che spunta dalla neve, mentre quando si è sul fiume la superficie su cui corriamo è liscia e priva di ostacoli. Il frastuono del motore accompagna come una musica violenta questa gelida corsa sul nulla di ghiaccio. Ad un certo punto inizio a percepire un fastidio alle dita delle mani, inizio a capire che si stanno raffreddando, dopo solo qualche minuto di strada. Come farò nei giorni seguenti, quando ci sposteremo per ore in motoslitta? In questo stesso momento rallentiamo, scivoliamo sulla destra, presso la riva, per bloccarci in un punto preciso, in cui dalle acque ghiacciate esce una fila di pali di legno, presso cui è a terra adagiato un telo, tenuto fermo da qualche bastone, che probabilmente copre qualcosa. Quando ci fermiamo il volto di Viktor è paonazzo. Afonya si sveglia dal letargo tabagista e scende saltando dalla slitta, con in mano un bastone, alla cui

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estremità è fissata una rete metallica che funge da grosso retino da pesca, ed un grosso punteruolo, alto quasi come lui. Viktor sposta i legni che tengono fermo il telo e lo solleva, rivelando così una buca rettangolare della misura di un metro e mezzo per un metro circa. Rispetto al livello del ghiaccio sul fiume, questa piccola vasca è più bassa di una trentina di centimetri, ma è comunque chiusa da uno strato di ghiaccio anch’esso solido e spesso. Il punteruolo serve per sfondare questa seconda crosta gelata, che è più sottile proprio perché viene regolarmente rotta, per arrivare all’acqua del fiume. Il lavoro è parecchio faticoso: prima bisogna con tutte le proprie forze rompere il ghiaccio, dello spessore di circa quaranta centimetri, partendo dai bordi; quindi si deve liberare completamente la vasca dai residui di pezzi di ghiaccio rotti, che galleggiano e ostruiscono lo spazio appena liberato. L’acqua dell’Angarà scorre da parte a parte della buca, è di colore verde scuro e mulinella vorticosamente facendo roteare i piccoli iceberg che restano a galla. Afonya lentamente raccoglie i pezzi di ghiaccio con il retino e li butta a fianco della buca, dove si accumulano in una piramide gelata. Si tratta di un compito pesante, il ghiaccio da spostare pesa decine e decine di chili e deve essere spostato con il retino montato sul bastone, allontanando in questo modo il baricentro del peso dal corpo e rendendo questo sforzo ancor più gravoso per la schiena. Dato che deve reggere il bastone con due mani, Afonya tiene stretta la sigaretta tra le labbra mentre sbuffa per liberare la buca. In ogni caso non smette di fumare. Intanto Viktor sta trafficando con i pali conficcati sul fondo del fiume e appiccicati al bordo gelato della vasca appena liberata. Un meccanismo di chiusura realizzato con dei rami tiene unito il tutto e deve essere sbloccato per recuperare la gabbia a cui è attaccata la rete da pesca che è immersa nella profondità di quest’ansa. Incitato da un vortice di parolacce, Afonya termina di liberare completamente la superficie della vasca dal ghiaccio e Viktor può dunque sollevare i pali più alti che sono attaccati alla struttura della gabbia che lentamente emerge. Con essa si solleva anche la rete, lunga approssimativamente un metro e mezzo, di forma conica, aperta da una sola parte, quella posizionata controcorrente, chiusa all’altra estremità. I pesci, seguendo la corrente, entrano nella rete e non riescono più a uscirne, perché non sono in grado di nuotare più velocemente della massa d’acqua che li tiene imprigionati verso la parte chiusa della rete stessa. Ogni volta che i cacciatori si spingono nella taigà controllano, una volta al giorno, la quantità di pesci imprigionati, per poi rivenderli al paese o mangiarli al momento. A volte il lavoro può essere inutile e la fatica sprecata: non si può infatti sapere prima quanti pesci siano rimasti in trappola, poiché lo strato di ghiaccio impedisce di vedere la gabbia immersa. Una sola volta, però, mi è capitato di estrarre una rete vuota. In questo caso il raccolto non è abbondante, ma almeno due esemplari di kharius ci sono e vengono gettati subito sul ghiaccio del fiume, dove muoiono in qualche minuto, dimenandosi sempre più lentamente e acquistando una patina biancastra a contatto con la neve. In pratica vengono surgelati all’istante e non si deve far nient’altro che lasciarli all’aperto per conservarli. In una ventina di minuti sono rigidi come pietre. Ci si riposa un momento sedendosi sulla slitta, in attesa che le prede ittiche smettano di contorcersi per sempre, assumendo una forma eterna. Osservarli mentre lottano per tornare in acqua, cercando di fuggire dall’aria, sopraffatti in pochissimo tempo dal gelo feroce, acuisce in me la consapevolezza del clima spietato della Siberia, in particolare dei pericoli che il freddo intensissimo comporta. Con questo freddo l’uomo convive qui da migliaia di anni, a me toccherà coabitarci per una settimana, per cercare con questa esperienza di farmi un’idea della vita nella taigà invernale.

Guardo la vasca pulita dal ghiaccio, dove l’Angarà ogni tanto gorgoglia espellendo qualche bolla in superficie. Ora l’acqua è calma e ci si può specchiare, così decido di fissare la mia immagine riflessa in quel liquido dalle fosche tonalità verdognole. Si distingue bene solo parte del viso, il resto del corpo, avvolto in abiti neri o blu, si confonde con le tinte scure delle acque. Resto per qualche secondo a guardarmi allo specchio dell’Angarà, cogliendo in quest’attimo una straordinaria fotografia dell’esperienza siberiana: sto guardando me stesso, ma contemporaneamente osservo anche il fiume, è tutto in uno e tutto abbracciato dal ghiaccio che incornicia questa visione. Non solo sto osservando la Siberia, ma ne sto facendo parte, incorporato sulla superficie del fiume. Sono a tu per tu con la Siberia.

Quando il pesce è “pronto” la rete viene inabissata ancora una volta, i pali fissati e il telo riposizionato sulla vasca, su cui a breve si riformerà una patina di ghiaccio che diverrà via via sempre più spessa. Rimontiamo sulla slitta e controlliamo un altro paio di reti in punti diversi del fiume, prima di tornare presso lo zimovyo.

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Una notte sull’Angarà Il sole sparisce in fretta d’inverno e, durante le poche ore di luce, si è sempre indaffarati per portare a termine le mille incombenze della giornata, prima che il tramonto interrompa ogni lavoro per rimandarlo al giorno seguente. Quando raggiungiamo la riva, i bagliori scarlatti del crepuscolo giocano già a riflettersi attraverso il ghiaccio dei cumuli di detriti gelati, lasciati presso le anse del fiume, dove sono inabissate le reti per la pesca. Sasha non c’è più, ha già terminato di preparare tutto l’occorrente per l’indomani e si è ritirato a riposare nella baracca. Entriamo tutti insieme e portiamo della legna per alimentare la pechka durante la notte. I nostri vestiti, le nostre teste, le mani stesse alitano vapore per la differenza di temperatura tra la trentina di gradi sotto lo zero dell’esterno e l’aria calda che ravviva lo zimovyo. Afonya si accuccia vicino alla stufa, estraendo meccanicamente la millesima sigaretta del giorno e fumando presso la porta aperta. La porta aperta??! Sì, nello zimovyo è così caldo che la piccola porta verso la taigà deve restare semi-spalancata per far circolare aria fresca, altrimenti all’interno iniziamo a sudare anche se stiamo con una sola maglietta. Sasha ha preparato bene la stufa per la notte! Come ogni volta, rientrando da fuori, occorrono parecchi minuti prima di riprendere il controllo del proprio corpo in pieno. All’inizio il calore è percepito positivamente, come un abbraccio dopo le sberle del gelo, ma poi fiacca le membra, lo sbalzo di temperatura riempie di astenia e disorienta il corpo, che è chiamato ad adeguarsi troppo in fretta ad un microclima rovente. La differenza di temperatura è troppa e solo dopo circa mezz’ora ci si sente rilassati e si comincia a riposare davvero. Non mi piace proprio l’abitudine russa di esagerare con il calore negli spazi chiusi d’inverno. Per questa ragione cerco di limitare le escursioni termiche estreme, rimanendo di giorno più ore possibili di fila all’aperto, interrotte da qualche sosta obbligata al chiuso per non gelare, mentre di notte rimango al caldo della capanna, uscendo solo per i bisogni fisiologici e non ogni cinque minuti come ad esempio continua a fare Afonya, per prender legna, cercare chissà cosa o semplicemente per fumare. La cena è costituita per metà dalle pietanze che abbiamo preso al paese prima di addentrarci nella foresta e per metà da una zuppa di pesce, ukha, preparata con una parte dei kharius trovati nelle tre reti controllate nel pomeriggio. Pane nero, qualche spicchio di mela, pesce, patate, caramelle di cioccolato, salame e qualche pezzo di formaggio. La vodka non può mancare e si susseguono vari brindisi alla luce tremolante della lampada a petrolio e di qualche candela. Sistemato lo stomaco, ognuno si siede o si sdraia comodamente sui tavolacci e iniziamo a chiacchierare, facendo rilassare anche la mente. Inizio a chiedere molte cose della vita nella foresta, sulle giornate dei cacciatori e della gente della repubblica dei Buriati. D’altra parte Sasha e Viktor sono curiosi di sapere di più sulla vita in Europa e in Italia, così iniziamo un fuoco incrociato di domande e risposte. Afonya partecipa divertito, interrompendo a volte il discorso con delle risatine sarcastiche e dei brevi commenti fuori luogo. Viktor spesso lo zittisce, rimproverandolo perchè non ha quasi nulla di intelligente da dire.

Sasha e Viktor sono figli di un uomo russo e una donna evenka ed hanno tre sorelle e un altro fratello maggiore, già deceduto. Una caratteristica balza subito agi occhi: i geni russi e degli indigeni evenki si sono mescolati in modo bizzarro, infatti tutte le figlie femmine sono copie della madre (viso rotondo, occhi a mandorla, capelli scuri), mentre i maschi, al contrario, sono molto simili solo al padre (capelli, occhi e carnagione chiari, viso e taglio degli occhi dai tratti quasi esclusivamente “caucasici”). Il loro padre è sempre stato un cacciatore, ha sempre cacciato per vivere e per sostenere la famiglia. L’unione con la famiglia della madre sicuramente ha acuito il legame con la taigà e le sue regole, con la caccia e il rispetto della natura, con le tradizioni sciamaniche e le leggi della vita all’aperto. L’intero stile di vita e la mentalità della famiglia si sono plasmati intorno ai riti della caccia e del rapporto con la natura della regione. Il loro territorio di caccia è vastissimo per la concezione europea della terra: approssimativamente copre ottocento chilometri quadrati. All’interno di questa terra si trovano almeno cinque zimovyo, costruiti e gestiti da loro, ma aperti all’uso occasionale o alle necessità di altri cacciatori, come ho già detto prima. La pelle dello zibellino è ciò che rende di più e in pratica il motivo della caccia stessa. Ogni pelliccia vale tremila rubli (circa ottanta euro) e viene consegnata ad un unico grossista di Novyj Uoyan, che provvede a pagare i vari cacciatori. Oltre allo zibellino, sono ricercati, ma in misura minore, pelli di ermellino e volpe. Altri animali, come ad esempio pecore o capre selvatiche, non hanno valore per la pelle, ma vengono occasionalmente cacciati per procurarsi della carne. Alci, cervi e orsi possono rientrare anch’essi nell’elenco delle prede in base a particolari situazioni o necessità. Lo zibellino resta comunque l’unico e autentico oro nero della foresta. Per cacciare si utilizzano delle trappole con esche, costituite da piccoli pezzetti di carne o frammenti di legno tenero

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che allo zibellino piace rosicchiare. Le tagliole (non le ho osservate bene, ma il funzionamento è quello) sono circa trecento, disseminate ovunque. Sasha e Viktor si ricordano a memoria ogni punto in cui sono posizionate, sia in posti non distanti dai sentieri o dalle piste percorse nella taigà, sia in luoghi all’interno della foresta. Ogni trappola è nascosta da ramoscelli, frasche, foglie, terriccio in estate o neve d’inverno. Resto esterrefatto dalle capacità della memoria visiva di Sasha, che nei giorni seguenti, mentre camminiamo o ci muoviamo in motoslitta nella taigà, si ferma, scende dal mezzo, si addentra qualche metro tra gli alberi e controlla lo stato di una o più trappole. Alla mia domanda “Come fai a ricordarti che proprio qui c’è una trappola?” risponde semplicemente: “Ma sì, vedi quell’albero a bordo della pista? Mi ricordo che l’avevo preso come punto di riferimento per la trappola”. Non capisco nemmeno di quale albero stia parlando, non noto nessuna differenza tra le conifere lungo questo tratto di sentiero. Questa operazione avviene decine e decine di volte in tutto il loro territorio. Non è un compito facile né scontato, ad esempio mi accorgo che Afonya non è altrettanto capace, non rammenta la collocazione delle trappole, ma probabilmente non gli interessa nemmeno sforzarsi per farlo. Viktor e Sasha vivono a Uoyan, a qualche chilometro dalla “nuova” cittadina costruita sulla ferrovia negli anni Settanta e si spostano nella taigà ogni dieci giorni circa appunto per controllare le trappole. Gli zibellini catturati, infatti, muoiono entro qualche giorno al massimo e rimangono legati alla trappola e sia d’estate che d’inverno c’è il rischio che le carcasse siano preda di altri animali della foresta, tra cui i topi, con la conseguenza di perdere o trovare rovinata la pelliccia dell’animale, preso quindi inutilmente. Per questo motivo i cacciatori sono costretti a continue esplorazioni del loro territorio, per non vanificare gli sforzi e il “sacrificio” delle prede. Indicativamente si vive, in ogni stagione dell’anno, dieci giorni in paese e sette nella foresta, ma variazioni e imprevisti sono sempre possibili. Questo stile di vita è impegnativo, duro, gravoso, insicuro? Me lo chiedo, ma per rispondere non posso affidarmi solo a parametri della società da cui provengo e, dunque, cerco di capire come sia il vissuto dei diretti interessati. Forse… Siamo in Siberia A Sasha, Viktor, Afonya e agli altri che sto per incontrare piace stare nella taigà, che è vista come madre che nutre, protegge e arricchisce chi le si avvicina con rispetto. Il rispetto è insito nello stesso modo di approcciarsi alla caccia e alla foresta: “Noi prendiamo solo ciò che ci serve per vivere, non facciamo incetta di pelli o di animali” mi dice Sasha. Sorvegliamo le terre dai bracconieri (anche cinesi che si spingono illegalmente fin qui) e dagli incendi, cerchiamo di mantenere un equilibrio con la vita della taigà, come ci ha insegnato nostro padre. “Vivere qui negli zimovyo è bello” – continua Viktor – “Siamo immersi nel silenzio e siamo tranquilli, l’aria è pulita e beviamo l’acqua dei laghi e dei fiumi”. Inoltre ci si può dedicare alla raccolta di particolari funghi, bacche, erbe e altri frutti della natura che hanno caratteristiche benefiche per l’organismo. Tra questi miracolosi doni della natura è d’obbligo annoverare il “succo” delle corna primaverili in crescita delle renne, dei cervi, dette panty. Se prelevato nel momento giusto, dall’animale giusto, questo elisir ha la capacità di ringiovanire gli organi interni di trent’anni e di guarire le malattie. Non va però bevuto da soggetti sani e prima dei quarantacinque anni, altrimenti ha un effetto contrario sul corpo; in questo caso si ritrova un’applicazione dell’universale legge di natura che afferma “nulla di troppo” e che pretende il rispetto di un arcaico quanto essenziale equilibrio. Proseguiamo la nostra interessantissima conversazione parlando dei “turni di guardia” negli zimovyo. Domani partiremo per raggiungere i monti, per arrivare alla capanna più grande, più lontana e isolata nella foresta, dove sono già presenti due persone, che collaborano con Sasha nella caccia e nella gestione del territorio. Mi viene spiegato che un paio di uomini devono sempre rimanere lassù tra le montagne, per sorvegliare le varie attività legate alla vita nella foresta, per la manutenzione della baracca, per controllare le trappole più lontane e nascoste e per portare avanti il nuovo progetto di Sasha e Viktor, iniziato da poco e molto promettente. Si tratta della costituzione di un allevamento di renne, che ovviamente vanno tenute sotto controllo, affinchè non si perdano nella foresta, non restino vittima di lupi o orsi, non scappino con le renne selvatiche senza fare più ritorno. In pratica va sorvegliato il branco, vanno aiutati i capi malati o deboli, soccorsi i piccoli appena nati e così via. Sasha prevede la realizzazione di un branco di circa duecento renne, per ora ne hanno dieci, tra esemplari comprati e altri trovati nella taigà. Mi viene spiegato che l’intento è di riportare questo territorio alle antiche tradizioni degli Evenki, che vivevano e allevavano proprio le renne in questi luoghi, anche durante l’URSS. Tutto dopo il 1991 è stato abbandonato e non ci sono più significativi raggruppamenti di animali allevati in questa regione. Quando Viktor finisce di illustrarmi brevemente

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il loro progetto, Sasha mi guarda serio e, mentre una tremula candela illumina la sua faccia russo-evenka, dice: “Noi vogliamo riportare in vita le tradizioni. Vogliamo che la taigà viva. Questo è ciò che ci preme di più”. Queste parole di Sasha non hanno bisogno di commenti ed esprimono bene il pensiero di questa famiglia di cacciatori, la loro filosofia di vita, permeata di una giusta mentalità con radici tanto arcaiche quanto infallibili e ammirevoli. È in momenti come questo che si percepisce il ruolo e l’autorità di Sasha, che dopo la morte del padre e del fratello maggiore ha assunto la guida della famiglia e rappresenta un punto di riferimento ed un esempio per tutti, compreso il fratello minore Viktor.

Badare alle renne è quindi ora tra i compiti prioritari dei due uomini che vivono nello zimovyo più lontano, nel folto della taigà presso il fiume Pravaya Mama. Quindi un paio di persone devono vivere tutto l’anno in un posto così remoto, dandosi il cambio con altri e tornando in paese ogni tre-quattro mesi. Far rimanere sempre gli stessi in un contesto così isolato e difficile non sarebbe opportuno, per questo Sasha ha istituito dei turni di rotazione, per dare la possibilità a tutti i suoi “aiutanti” di mantenere i rapporti non solo con la foresta, ma anche con la civiltà lungo la linea ferroviaria BAM. In questo modo mi riallaccio alle considerazioni sopra esposte circa la qualità di questo tipo di vita. È possibile darne un intrinseco giudizio o si può solamente esprimerne uno relativo e condizionato dal vissuto e dalla cultura di chi giudica? Domani è il dieci febbraio e raggiungeremo questo zimovyo sperduto, dove troveremo due individui che sono là ininterrottamente dal ventitré ottobre. Afonya darà il cambio a Sergej, che tornerà poi a valle insieme a noi nei giorni seguenti. Come nel resto della taigà non esiste rete per i telefoni cellulari, ma è possibile captare i programmi di una radio regionale, unico possibile svago oltre al lavoro, alle renne e alla taigà. In caso di bisogno non esiste possibilità di avvisare nessuno, né si può tornare sull’Angarà in fretta, dato che le motoslitte non rimangono nella capanna più lontana, ma ritornano a valle ogni volta con Sasha e Viktor. Non esistono vicini di “zimovyo” né tracce di umanità con cui relazionarsi. Un generatore diesel garantisce qualche ora di corrente la sera, se si ha voglia di usarlo e se si ha abbastanza carburante. Le visite regolari di Sasha, che giunge qui con gli altri durante le sue perlustrazioni del territorio, restano forse l’unico modo per scandire il tempo, per non perdere ogni contatto con la realtà del mondo e restare obnubilati nel silenzio della taigà. Forse è così, forse no…forse…forse non riesco a depurarmi dalle scorie interiori della cosiddetta civiltà e della mia cultura di appartenenza, che inquinano la mia capacità di riflessione e formulazione di un possibile giudizio imparziale? Forse, semplicemente, devo umilmente fare un passo indietro ed esimermi dal pensare di poter anche solo abbozzare una riflessione sulla vita nella taigà, senza aver mai vissuto a lungo tra il suo abbraccio frondoso, senza essermi lasciato trasportare nell’animo dalla sua essenza? Probabilmente è così e, con queste meditazioni, sento riemergere prepotentemente quella sensazione legata alla Siberia e che permea ogni montagna, valle, fiume, palude, essere vivente (uomo compreso) che si trovi o si sposti nelle sue immensità selvagge e solitarie. Sento aleggiare l’infinita ricerca del senso della Siberia, ricerca di un approccio consapevole e maturo ad essa, alla sua forza attrattrice e ammaliatrice, che lega a sé quanti vi si accostino con intenzioni pure ed animo dischiuso, disponibile a lasciarsi affascinare dalla sorpresa e dall’ignoto. È proprio questa sua forza che si accosta alla mente di quanti la ricercano e, con la delicatezza di una carezza, gentile ma decisa, ne scaccia i superflui preconcetti per far percepire l’inutilità, l’inaffidabilità e la fallacia dell’approccio razionale alla Siberia.

Parallelamente a queste riflessioni sulle mie possibilità di formulare un giudizio ponderato e intrinseco sulla vita nella taigà, si insinuano nella mia mente altre considerazioni, che scaturiscono dal prosieguo del discorso con i cacciatori. Ripenso alle loro parole “Prendiamo solo quello che ci serve per vivere”: ma vivere come e in base a quali criteri/stili di vita? Come conciliare le parole sagge di Sasha e Viktor con la concretezza della loro esistenza, perlomeno con alcuni aspetti della loro vita? Ecco un esempio: avere dei cellulari e pagare le ricariche, un computer, internet, degli elettrodomestici e via dicendo...queste cose rientrano in “quello che ci serve” o si tratta di beni superflui, il cui uso è dettato da controproducenti spinte consumistiche della società? Il cellulare serve nella taigà? No. A maggior ragione c’è da chiedersi: un cellulare, un televisore e i beni in genere non necessari, non legati alla sopravvivenza di un individuo, sono “scambiabili” con la pelle degli zibellini? Vale la pena, è giusto moralmente uccidere altri esseri viventi per possedere dei prodotti non legati alle esigenze della vita di una persona? La regola “Prendiamo solo quello che ci serve” come va dunque parametrata? In base alle consuetudini millenarie degli indigeni locali, che uccidevano per mangiare, vestirsi, realizzare utensili con ossa e tendini degli animali; oppure si può applicare alle esigenze di ogni società, compresa quella attuale, che si è voluta unilateralmente privare di un legame reciproco verso la natura? Un ultimo spunto per meditare: Sasha ha iscritto il

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figlio maggiore all’università, a Irkutsk o in qualche altra grande città della Siberia, non ricordo. I proventi della caccia devono servire anche a mantenere gli studi del ragazzo. “L’ho mandato a studiare per cercare di garantirgli una vita più sicura”. Da queste frasi nasce un fascio di riflessioni. La prima è già stata affrontata e riguarda la questione morale incentrata sulla correttezza di utilizzare i soldi della caccia per finanziare tutto ciò che non sia direttamente legato alla sussistenza di una o più persone. Inoltre, si può approfondire il tema della scelta per i figli di una strada diversa da quella delle tradizioni, delle consuetudini locali, dei valori che ogni giorno portano invece avanti questi cacciatori. C’è anche da considerare un ultimo aspetto: emancipare le future generazioni dal legame con la natura, con la taigà, può portare ad un beneficio o ad un danno per la foresta stessa? Avremo meno cacciatori e dunque la vita nelle selve siberiane sarà più libera per ogni essere vivente oppure saranno gli stessi futuri rampolli “viziati” e “civilizzati” ad arrecare ulteriore danno alla taigà, ad esempio costruendo nuove strade, città, infrastrutture in nome di un ipotetico progresso, vedendo nelle libere distese della foresta un incomprensibile mondo da soggiogare?

Posso permettermi di formulare dei giudizi in questo senso? Posso, senza aver mai vissuto nella foresta, senza aver mai affrontato le difficoltà della vita all’aperto per anni e anni, imporre la mia logica ad altri? Posso influenzare o commentare le scelte altrui, di gente che vive un’altra vita e cerca di restare a galla, in bilico tra il mondo della tradizione e le sirene della modernità? Probabilmente sarà il destino stesso a fornire la risposta a tutti questi quesiti, mostrando la giusta via alle generazioni future che, sulla base degli errori, dei successi e delle scelte del passato, sapranno coniugare l’antica saggezza con le conoscenze del presente. Mi piace immaginare che il figlio di Sasha studi agraria o veterinaria e sappia un giorno portare nella taigà le proprie competenze, per continuare a vivere come i suoi avi e, contemporaneamente, aver cura nel modo migliore delle renne e dell’ambiente. Educazione siberiana D’inverno le ore di buio sono lunghe, tetre, si protraggono da metà pomeriggio fino alla mattina inoltrata. La sera è quindi il momento ideale per le lunghe chiacchierate, a maggior ragione se nello zimovyo si trova un ospite che viene da lontano e con cui la conversazione diventa reciprocamente interessante. Sono seduto sul bordo di un tavolaccio con le mani appoggiate a un banco di legno grezzo, davanti a me siede Viktor, a sinistra c’è Sasha, un po’ defilato, che sta sistemando una rete da pesca, mentre appollaiato dietro di me si muove qua e là Afonya, che, illuminato dalla luce delle candele, sembra un folletto vispo e burlone. Viktor mi incalza con le domande sull’Italia/Europa, a cui rispondo esaurientemente senza sottrarmi, replicando poi con le mie sulla loro regione e sulla loro vita. Sasha ascolta tutto attentamente, ma per lo più in silenzio, intervenendo quando si tocca un argomento a cui è più interessato di altri. Afonya parla sempre a sproposito e butta tutto sul ridere, prodigandosi nel tentativo di trovare delle battute ben riuscite. Viktor quasi sempre lo zittisce rudemente, sgridandolo per la sua mancanza di attenzione e di serietà: “Hai l’occasione di parlare con una persona che viene da lontano, da un’altra cultura, e continui a dire solo cavolate”. Si capisce benissimo che Afonya è considerato alla stregua di una nullità, come una specie di animale domestico non sempre utile. Spesso la conversazione cade sull’epoca dell’Unione Sovietica, sulla vita socialista e sul modo di vivere di quegli anni a Uoyan, il paese in cui vivono questi uomini. È in questo caso che Sasha interviene con un lungo discorso, che rivela tante cose della Russia contemporanea e mostra il pensiero di molte persone che vivono lontano dalla parte europea dello stato. Sasha aveva più o meno una decina d’anni quando veniva realizzato “il progetto del secolo”, la costruzione della linea ferroviaria BAM. Gli enormi cantieri, l’arrivo di mezzi e uomini, il vedere in concreto la messa in opera di piani tanto propagandati ha sicuramente influito sulla sua mente di ragazzo. Sottolinea l’importanza della BAM e la svolta importantissima per le genti della pianura superiore dell’Angarà: “Prima dell’arrivo della ferrovia non c’era l’elettricità in tutte le case a Uoyan” e “Tutto è arrivato con la ferrovia”. I fratelli Viktor e Sasha abitano nella via “dell’aeroporto”, che in quegli anni viveva il suo massimo splendore e collegava tanti centri piccoli e grandi della repubblica buryata. Oggi l’aeroporto è praticamente abbandonato. Gli operai e i volontari del Komsomol, soprattutto lettoni, costruirono la cittadina di Novyj Uoyan, dove oggi c’è la fermata della BAM, che dista qualche chilometro dal più vecchio centro abitato di Uoyan. Chiedo a Sasha, senza mezzi termini, cosa pensi dell’URSS, della vita di quegli anni rispetto a ciò che avviene adesso. Risponde senza alcuna esitazione, come tante altre volte ho avuto modo di sentire nei miei viaggi siberiani: “Durante l’Unione

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Sovietica lo stato si occupava delle persone, senza distinzioni”; “Anche il più povero dei ragazzi aveva tutto l’abbigliamento di cui necessitava, dalla cravatta alle scarpe”; “Non c’erano problemi con il lavoro”; “Lo sfruttamento delle risorse era controllato e regolamentato”. Mi riferisce del costo irrisorio dei biglietti del treno e di come ognuno potesse visitare il Paese, andare a Mosca, incontrare nuove realtà e persone, accrescere la propria cultura e seguire le proprie inclinazioni. “Adesso Mosca se ne frega di noi, prendono i nostri soldi, le nostre risorse naturali e basta, senza restituire nulla”. “Cosa mi interessa dei monumenti e di ciò che c’è a Mosca??! Tanto non potrò mai vederli. Spero che un giorno possa esplodere la capitale e che venga cancellata dalla terra. Ci vorrebbe un enorme attentato atomico”. Queste parole non lasciano spazio a dubbi sulla loro interpretazione e rendono bene l’idea dei sentimenti che alcuni strati della popolazione nutrono verso lo stato russo attuale. Seguono le già sentite riflessioni su una possibile autonomia delle regioni della Siberia orientale e dell’estremo oriente russo, condite da amare previsioni sulla sempre imminente invasione cinese. Ecco ancora questa frase: “Oggi a Novyi Uoyan l’unica cosa seria è la ferrovia (intesa come organizzazione che dà lavoro e che crea dipendenti), il resto non conta nulla”. Dal discorso di Sasha emerge un quadro in cui la popolazione è lasciata a sé stessa, alla mercé della taigà, in condizioni climatiche e sociali precarie, senza troppe speranze per il futuro. Eppure in Russia qualcosa si sta muovendo e, a mio parere, non ci sono più solo immorali e colossali ruberie di delinquenti infiltrati nello stato, ma assistiamo all’inizio di un ritorno delle risorse dal centro alla periferia. Per superare, però, le diffidenze del popolo, dopo vent’anni di rovine, è lecito attendere a dare un giudizio definitivo, aspettando di vedere risultati più concreti. Chiaramente un individuo cresciuto negli anni “del boom della BAM”, quando le migliori energie, la miglior gioventù di tutta l’URSS e l’attenzione mediatica si concentravano in queste zone, facendo parte della quotidianità di Uoyan, e che oggi vede il suo territorio spogliato da ogni interesse, privo di obiettivi, confrontando passato e futuro, rimane spaesato di fronte a tali cambiamenti. Sasha poi cambia tono e mi chiede del WTO (non è la prima volta che in Siberia affronto questo argomento!), dimostrandosi un uomo attento anche ai macro problemi economici, mi domanda cosa possa guadagnare la Russia dall’ingresso in questa organizzazione e quali potranno essere le ripercussioni sulla vita delle persone, quali i rischi per l’economia del Paese. Dalle mie risposte giunge alla conclusione che sia solo un’avventura negativa, da non intraprendere...Personalmente queste conversazioni mi danno conferma della bontà del sistema educativo sovietico, della sua qualità, infatti le persone formate in quegli anni, indipendentemente dalla propria posizione attuale, dimostrano di possedere una cultura generale valida, una predisposizione mentale all’analisi e al ragionamento, nozioni di storia, geografia e anche di lingua latina che mancano totalmente nei giovani russi di oggi, soprattutto in quelli “cresciuti” nelle periferie dell’immenso territorio. La famiglia La vita di questi uomini è fortemente legata a quella della famiglia, intesa come entità allargata, comprendente i genitori, i fratelli, le sorelle e i loro discendenti. Non saprei dire quanto influisca in tutto ciò una antica mentalità russa o il modo di concepire la società tipico degli evenki. Il territorio è diviso per gruppi di famiglie, non è affidato a individui singoli che cacciano individualmente. “Tutte le decisioni importanti si prendono con la famiglia, insieme”, afferma Sasha mentre controlla una pelle di zibellino. Per le spese straordinarie, i progetti su cui impostare il futuro, gli imprevisti della vita da affrontare all’improvviso, per tutte queste questioni ci si riunisce e si discute il da farsi. Sasha ha poco più di quarant’anni e qualche anno fa, probabilmente per le dure condizioni di vita a cui ha sottoposto il fisico fin da giovane, si è trovato a dover affrontare il problema della coxoartrosi ad un’anca. Il dolore ormai era tale da impedirgli di continuare la sua vita nella foresta. Bisognava decidere cosa fare, se sottoporsi all’operazione oppure continuare così ancora per degli anni. Ma come?! Dov’è il dilemma? La risposta è farsi operare. Con queste parole potrebbe esprimersi la maggior parte delle persone che leggono queste righe. Il problema sta nella mancata conoscenza del sistema sanitario russo. Esistono delle “classi” di prestazioni e di presidi medico-chirurgici che sono a totale carico dei pazienti. L’operazione di artroprotesi d’anca è tra queste. La decisione della famiglia di Sasha verteva dunque sulla possibilità o meno di effettuare l’operazione, in base alla disponibilità di denaro per pagarla. I parenti riuniti per la questione decisero di procedere con l’intervento, per consentire a Sasha di liberarsi dal dolore e di ritornare ad una vita il più possibile simile a quella di prima nella taigà. Si trattava di sostenere una spesa di varie migliaia di euro, bisognava capire se tutti i componenti della

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famiglia fossero disposti ad alcuni anni di sacrifici per restituire la somma alla banca, a cui ci si sarebbe rivolti per un mutuo. Ecco la realtà della vita, gli ostacoli con cui misurarsi tutti i giorni, le scommesse da affrontare e le preoccupazioni con cui convivere. Nel momento in cui scrivo Sasha è riuscito ad estinguere il debito con la banca, pagato con le pelli degli zibellini buryati. Vedendo come vive e lavora Sasha, però, risulta chiaro che l’endoprotesi impiantata a pagamento all’ospedale di Irkutsk non durerà a lungo, non avrà la stessa vita di un equivalente “arto artificiale” applicato a una persona che lavora in ufficio. “Ogni tanto anche adesso mi fa male, è vero, so che faccio dei movimenti che i dottori mi hanno vietato, ma cosa devo fare? Portare pesi, spostare tronchi, fare la legna, inginocchiarsi per controllare le trappole…questa è la nostra vita”. Sasha risponde in questo modo alle mie preoccupazioni. Resto zitto e penso alle immorali scene quotidiane dei nostri ospedali, dove si scatenano tutti gli smidollati senza rispetto che incontro ogni giorno al lavoro, i quali, credendo nell’immortalità, dato che l’idea della morte è stata abolita, pretendono miracoli per i loro parenti di novanta o cento anni, operati alle anche (gratuitamente) e stesi in un letto. La maggior parte degli europei si è talmente effeminata e privata di ogni riferimento morale che ormai non riesce più ad accettare alcun confine allo smisurato egoismo del proprio IO. Anche per questo ho deciso di viaggiare in Siberia, dove le genti sono poche ed autentiche, dove si riesce ancora a stare da soli nella natura, con i propri limiti e le proprie qualità per scoprire, affrontare e accettare ogni paura, ogni imprevisto, ogni difficoltà, sia che provenga dal mondo esterno come da quello interiore. In Siberia per crescere.

Verso le montagne Verso mezzanotte spegniamo la lampada a petrolio, diamo un’ultima ricarica di legna alla pechka e ci corichiamo. In poco tempo nello zimovyo regna il silenzio, dobbiamo riposare prima della lunga giornata che ci attende il giorno seguente. Immagino la baracca vista da fuori, avvolta nel buio, nel silenzio e nel gelo esterno della taigà, un ambiente nettamente contrastante rispetto a quello interno, dove sono sdraiato tranquillo, al caldo, nel sacco a pelo. I riverberi scarlatti delle fiamme guizzano sul soffitto, paiono rincorrersi sulle travi di legno di conifera, spuntano da destra, spingono poi delle lingue di luce gialla fino alla piccola finestra coperta di cellophane e spariscono, per ricominciare di nuovo un altro ciclo.

L’indomani verso le otto è ancora buio, un’ombra di sole fatica a mostrarsi lontano, sull’Angarà. Una luce metallica grigiastra si dipana nel cielo, offuscato da parecchie nuvole dall’aspetto pesante. La temperatura è calata, la stufa si è spenta, ma non fa freddo, il vero gelo è all’esterno. Due scodelle di zuppa di pesce bollente sono un ottimo modo per affrontare il risveglio. Recuperiamo gli zaini e i sacchi con tutto ciò che occorre portare fino allo zimovyo più lontano, dove siamo diretti. Sul fiume gelato prepariamo le slitte, legando bene ogni carico, mentre la capanna viene lasciata come di consueto con la porta solamente accostata, pronta ad accogliere i prossimi visitatori. Si controllano le motoslitte per l’ultima volta e possiamo partire. Dobbiamo stare all’aperto tutto il giorno, l’arrivo allo zimovyo presso il fiume Pravaya Mama è previsto per il tramonto, verso le cinque del pomeriggio. Bisogna attraversare un paio di passi all’interno della catena montuosa Verkhneangarskij, passare su un lago, transitare su qualche torrente ghiacciato, fino a raggiungere il cuore delle montagne che si stagliano all’orizzonte della pianura dell’Angarà. Sono un po’ preoccupato, non so se sarò in grado di sopportare così tante ore ininterrotte di gelo, ma, essendo con degli uomini espertissimi della zona e delle condizioni di vita invernali, mi affido a loro senza pensarci troppo, penso che se hanno accettato di portarmi con loro, significa che la cosa si può fare. Al momento di partire Viktor scopre un guasto in una delle due motoslitte e decide di ripararlo subito, per non rischiare di rimanere appiedati da quale parte nel folto della taigà. Per questo motivo mi viene detto di iniziare a incamminarmi verso le montagne, in modo da non prendere freddo restando fermo, e per poter ammirare il paesaggio della piana alluvionale del fiume, prima di inoltrarsi tra i monti. Naturalmente devo essere accompagnato, poiché non conosco la pista né la direzione da tenere e mi perderei subito. Ad Afonya viene affidato il compito di guidarmi, visto che non sa riparare un motore (non sa fare quasi niente) e non conta nulla rispetto ai due fratelli. Viktor gli ordina anche di spiegarmi ogni cosa e di mostrarmi tutte le impronte degli animali e degli uccelli sulla neve. Afonya non borbotta nemmeno, si accoda a me e mi indica la strada da seguire in mezzo alla neve. Bofonchia qualcosa ogni tanto, ma non capisco quasi nulla, ha la solita parlata strana delle persone semi-alcolizzate e stranite. Penzola costantemente dalle sue labbra socchiuse una sigaretta semi-piegata. Ad ogni modo non è antipatico né scontroso, ci facciamo anche qualche risata per delle mie battute sulla taigà.

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Intorno a noi c’è solo una distesa bianca: la perfettamente immacolata e piatta superficie del fiume, che attraversiamo velocemente e quindi ci lasciamo alle spalle in corrispondenza di un’ansa sulla riva destra. Da qui si dirama nella foresta un accenno di sentiero battuto, invisibile a chi non frequenti assiduamente queste zone. La taigà al di là dell’Angarà, in cui camminiamo, è rada e costituita per lo più da conifere, le betulle sono rare. La neve non è molta, ma nemmeno poco spessa e camminare dove non è già stata calpestata risulta alla lunga impraticabile. Il mio “Cicerone” mi mostra le orme degli zibellini e di altri animali di cui ignoro i nomi russi. La temperatura non è rigidissima, siamo circa sui venti/venticinque gradi sotto lo zero, lo intuisco dal fatto che riesco a camminare parecchi minuti senza mettere i guanti. Purtroppo il cielo è coperto e le nuvole grigio chiare, uniformandosi all’ambiente circostante, non consentono un adeguato risalto cromatico alla sagoma delle montagne, riunite in una linea che chiude l’orizzonte e si fa sempre più vicina. Afonya mi ciondola di fianco, muovendosi goffamente nell’immensa giacca imbottita blu che lo fa sembrare esageratamente gonfio, triplicandone le effettive dimensioni del corpo. La tasca destra del giaccone, ampia e dai bordi sgualciti, contiene tutto ciò di cui questo tunguso necessita: pacchetti di sigarette e fiammiferi. La mano continua ad affondare e riemergere dalla tasca, in un interminabile processione dalla bocca alla giacca e viceversa. Attorno a noi non si muove nulla, pare di attraversare un deserto bianco, ma le orme sulla neve indicano il contrario: c’è vita nella foresta, anche se per il momento non siamo proprio nel folto della stessa. Dalla conformazione del terreno e dall’assenza di una macchia fitta di alberi intuisco che ci stiamo muovendo su una zona che normalmente è acquitrinosa, durante la bella stagione. La neve uniforma il suolo, nascondendo le zolle gonfie tipiche delle paludi, ma le erbe gialle, alte e appassite che ci circondano fanno capire la realtà della zona e sono contento di passeggiare qui in pieno inverno: d’estate sarebbe un supplizio di zanzare e sabbie mobili. Quando non parliamo, l’unico rumore è dato dallo scricchiolare della neve sotto i nostri piedi. Sono tranquillo e rilassato solo perché non mi trovo da solo, provo infatti a immaginare di aggirarmi in queste zone senza Afonya e percepisco subito una sensazione di inquietudine, di perenne e ansiosa attesa di qualcosa che deve accadere. Come in un immenso deserto dei Tartari, la taigà, le paludi e l’infinita distesa pianeggiante paiono riservare incredibili e imminenti sorprese a chi si avventura in queste lande, ma in realtà riempiono solo di ansia il visitatore solitario, logorandone i nervi in un clima psicologico di perenne angosciosa sospensione.

All’improvviso, dopo circa un’ora di cammino, sento distintamente un ronzio provenire da lontano ed avvicinarsi sempre di più. È l’unico segno della presenza attiva di qualcuno/qualcosa da quando abbiamo lasciato il fiume e non può significare altro che l’arrivo di Sasha e Viktor con le motoslitte. Viaggiando nella taigà Ci siamo. I due fratelli ci raggiungono in poco tempo, mentre noi li attendiamo a bordo pista, fissando le loro sagome scure in rapido avvicinamento. Sulle slitte di legno è ammassato tutto ciò che va portato alla capanna verso cui siamo diretti: sacchi e borse sono impilati verso la parte anteriore e il centro della slitta stessa, lasciando libero solo lo spazio in fondo per i “passeggeri”. Il piccolo Afonya riesce addirittura a sdraiarsi sulle coperte che consentono di ammorbidire il solido legno su cui viaggiamo, mentre il sottoscritto, a causa delle proprie dimensioni, deve per forza sedersi di spalle sul bordo dell’estremità inferiore, come già fatto il giorno precedente durante le corse in motoslitta sul fiume Angarà. Rivolgo dunque la schiena a Viktor, che attende solo pochi secondi per muoversi, dopo che con un gesto convenuto della mano gli do il via libera per la partenza. Afonya invece viaggia con Sasha.

In un attimo sono catapultato come in un’altra dimensione. Il frastuono dei motori permea la taigà, a circa tre metri di distanza non è possibile alcuna conversazione con chi guida, anche perché ho il viso rivolto al contrario rispetto al senso di marcia: Viktor guarda avanti, a me tocca invece osservare la nostra scia, che lasciano i cingolati sulla neve, perdersi lontano, tra erbe smunte e alberi gelati. Viaggiando di schiena riesco a proteggermi abbastanza dal freddo che mi sferzerebbe la faccia, così ogni tanto, per capire cosa si proverebbe a dare la faccia la vento, provo a girarmi verso la motoslitta e subito le guance sono punte dalle sciabolate di mille folate gelide, gli occhi diventano due fessure gocciolanti lacrime, che istantaneamente si solidificano sui lembi più vicini della sciarpa, il naso viene investito da mille turbinii di ghiaccio. Capisco che non potrei resistere a viaggiare guardando il paesaggio nella direzione di marcia della motoslitta e mi rimetto a mio agio, voltandomi all’indietro, in una

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posizione in cui il gelo è meglio sopportabile. Il piumino, sulla parte della schiena, è investito dall’aria che si crea nel nostro correre verso le montagne e devo contrarre i muscoli dorsali, spesso irrigiditi dal freddo che vi sbatte contro, per non intirizzirli. Le mani, coperte da un paio di pesanti moffole di pelle, datemi da Viktor dopo aver constatato l’inadeguatezza dei miei guanti (eppure presi in Siberia e finora sempre validi negli inverni russi!), sono avvinghiate saldamente ai bordi superiori della slitta e insieme alle braccia devono essere costantemente contratte in sforzi pluridirezionali, per farmi mantenere l’equilibrio nei cambi di direzione e mentre sobbalziamo in piccoli canaloni, su mille buche innevate o sopra tentacolari radici. I piedi, immersi negli immensi stivali di feltro ricoperti di pelle e gomma naturale, sono appoggiati sui bordi inferiori della slitta, con le punte sollevate per non strisciare o impigliarsi sul fondo. Soffrono la temperatura rigida, quindi devo tenerli in perenne movimento, continuando a muovere le dita sprofondate nel feltro, per evitare di iniziare a percepire il tipico dolore dei primi stadi di congelamento. In pratica sembro immobile, visto da lontano, appollaiato sul bordo posteriore della slitta, ma quasi tutti i miei muscoli sono in tensione: schiena, gambe, mani, braccia, piedi; fanno eccezione il collo e la testa, immobili al centro della slitta, mentre tutto il corpo oscilla seguendo il movimento e la corsa che Viktor imprime al mezzo. Il capo deve stare al centro, in linea con la slitta, per evitare pericolosissimi scontri violenti con rami e tronchi sporgenti verso la pista, insidie potenzialmente mortali se colpiti alla velocità di cinquanta all’ora. Il mio corpo dondola dunque attorno ad un punto fisso, la testa, che rimane protetta al centro della retta tracciata nella taigà dal conducente. Stando di spalle non vedo nemmeno avvicinarsi i rami, le fronde o i tronchi più pericolosi, ma, conscio del rischio, rimango bene allineato al centro della slitta e scorgo tutti questi ostacoli solo dopo il loro passaggio sopra o lateralmente a me, a volte accompagnati da sbuffi di neve ghiacciata che si deposita sul mio viso.

Per decine e decine di minuti proseguiamo verso le montagne, attraversando la taigà, dopo aver lasciato definitivamente la pianura dell’Angarà. La foresta diventa sempre più fitta, scura, intricata e, parallelamente, si restringe la pista, rami e rametti adesso mi solleticano sempre le braccia, si strusciano, mi accarezzano, mi avvolgono quasi come se la taigà volesse conoscermi, studiarmi, entrare in contatto con chi la sta attraversando. L’unico rumore percepibile è il borbottio del motore della motoslitta, alternato ai cigolii del legno su cui sono seduto, che sobbalza e scivola sulla neve dura. A destra e sinistra scorre davanti agli occhi una interminabile serie di conifere e betulle imprigionate nel ghiaccio e spolverate di neve cristallizzata. Lo scorrere monocromatico del paesaggio, il ronzio sempre uguale del motore, l’infinita distesa di piante sono elementi che contribuiscono a creare un’atmosfera unica, che stordisce e distoglie dalla realtà, proiettando la mente in un mondo a parte, in un regno metafisico del gelo, dove un candido e freddo abbraccio salda l’anima alla taigà, facendo perdere la coscienza di sé e delle coordinate spazio-temporali con cui normalmente ci si relaziona. Il viaggio, inteso come spostamento fisico, assume ora delle caratteristiche per cui diviene viaggio mentale. Rimango ipnotizzato dalla taigà alleata con il gelo, proseguire con questa andatura e in queste condizioni fa sprofondare in uno stato di onirica trance, da cui a volte vengo violentemente strappato, quando ci fermiamo per delle soste in cui i conducenti possano riposarsi, riscaldarsi e i motori rifiatare dalla faticosa corsa verso i monti. Nei primi momenti di ogni sosta, quando bruscamente si interrompe il perenne alternarsi di alberi e il solco della nostra scia sulla neve della pista, fatico a dialogare e a rapportarmi con gli altri, non ne ho alcuna voglia, devo abituarmi a pensare, a parlare, a stare con altre persone attorno a me, poiché mi sono assuefatto all’andatura ipnotica nella foresta, a viaggiare con la mente svuotata, immergendomi nella ammaliante e silenziosa compagnia della taigà. La sosta più lunga è sul letto di una torrente in secca, che infatti si chiama sukhaya rechka, ma non capisco se davvero si tratti del corso di un torrente in estate o se la pista, qui abbastanza larga, sia semplicemente stata nominata in questo modo proprio perché qui assomiglia al greto di un piccolo fiume, cosparsa di sassi e scavata tra due muri di foresta ai lati. Afonya approfitta per fumare, pigramente coricato sulla slitta, quando siamo in movimento è infatti troppo freddo per stare a mani nude e accendere l’ennesima sigaretta. Nel complesso sono soddisfatto, sono già passate alcune ore da quando abbiamo lasciato lo zimovyo e, senza mai stare al caldo, riesco a sopportare gli spostamenti, stare all’aria aperta, insomma posso proseguire senza problemi.

Kapkany (trappole) Se Afonya si trastulla con il tabacco ed il sottoscritto cerca di testare la propria resistenza al freddo, Sasha e Viktor sono impegnati con varie altre occupazioni, tra cui la più importante è costituita dal controllo delle trappole

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disseminate sul loro territorio. Quelle che a me paiono soste casuali, in punti qualsiasi del percorso in mezzo alla foresta, in realtà sono fermate in luoghi prestabiliti e ben definiti. Ad ogni arresto della marcia corrisponde la verifica di un punto in cui è sistemata un’esca per gli animali. È impressionante la capacità della memoria di questi cacciatori, che, in un tragitto apparentemente sempre uguale, dominato dall’uniformità del bianco della neve, conoscono e si ricordano alla perfezione la collocazione di ognuna delle circa trecento trappole da loro sparse qua e là. Sasha arresta la motoslitta, scende e si incammina tra gli alberi per una decina di metri, affondando nella neve fresca, facendosi largo tra rami e cespugli spogli, finchè si ferma ai piedi di un albero identico, ai miei occhi, alle altre migliaia di piante che ci circondano. Con i guanti raspa un poco tra i residui delle foglie autunnali imbiancate e ispeziona il punto esatto in cui è collocata un’esca e una trappola, in questo momento vuota, priva di vittime dalla preziosa pelliccia. L’esca viene sostituita, poiché ormai degradata, con una nuova, che consta di un piccolo pezzetto di carne gelata. Sopra alla trappola a forma di tenaglia è stato posizionato un piccolo “gazebo” di rametti d’abete e foglie secche, che serve a proteggere l’esca e la trappola stessa dall’accumulo di neve e dalla pioggia della stagione calda. Anche da questo si riesce a individuare le trappole, ma ci vuole un occhio abituato, da anni di esperienza, a distinguere tutte le sfumature di colori della taigà e tutte le forme di foglie accartocciate, rami spezzati e terreno smosso, per poter sapientemente e velocemente riconoscere la collocazione di una trappola lasciata in quel punto magari da alcuni anni.

In una sosta verso la fine della mattinata, il controllo dell’ennesima trappola si rivela redditizio: uno zibellino è intrappolato, con una zampa incastrata in una piccola tagliola, e viene subito prelevato da Viktor, che me lo mostra con aria soddisfatta. Questa povera bestiola è rimasta gelidamente irrigidita, conservando la posizione del momento in cui la morte l’ha colta: ha la testa eretta, con il collo leggermente piegato da un lato, gli occhi spalancati, neri e lucidi, la zampa libera rivolta verso l’alto. Ha lo sguardo fisso verso il tronco della pianta presso cui è morto, la bocca spalancata e dà le spalle alla foresta. Da quando la famiglia Stroganov e la prima banda di Ermak fecero irruzione in Siberia, alla fine del 1500, milioni di animali hanno subito lo stesso destino di questo piccolo mammifero. Il colpo di grazia ad ogni specie vivente sul pianeta, compresa quella al vertice della catena alimentare, lo sta dando il riscaldamento globale, causato proprio dall’uomo. Lo zibellino più pregiato è quello di Barguzin, dalla pelliccia nera. Il suo habitat dista solo due-trecento km da qui e infatti l’esemplare che sto ora osservando ha il manto molto scuro, anche se non proprio nero. Accarezzo la pelliccia luccicante e sento che sotto di essa il corpo è completamente rigido, duro come una pietra. Viktor lo mette con cura in un sacco e lo lancia sulla slitta, dove piomba con un tonfo sordo. Ha appena depositato tremila rubli. L’ispezione regolare delle trappole è di fondamentale importanza, per non vanificare il lavoro relativo al loro posizionamento e la morte stessa degli animali. D’inverno come d’estate, i corpi senza vita degli animali da pelliccia catturati sono esposti all’azione degli spazzini della foresta: roditori di varie specie che di buon grado si impegnano a far sparire le carcasse e/o le esche, rosicchiando, mangiucchiando e, nel fare questo, distruggendo irrimediabilmente le preziose qualità del vello di ogni vittima delle trappole. Ogni dieci giorni circa il “giro” delle trappole deve essere fatto, in ogni stagione. La taigà non ammette tentennamenti, indecisioni, non fa sconti a nessuno e non ammette al suo cospetto riflessioni per leggi differenti da quelle della vera vita nella natura: si potrebbe esaltarla come un tempio del “diritto naturale”, come la forma più sublime e pura di quest’ultimo. Qui ed ora non avrebbe alcun senso una disputa sulla predazione delle pellicce, non servirebbe a niente e a nessuno. Schegge di pensieri in tal senso fanno capolino all’improvviso nella mia mente, ma vengono subito allontanate, disperse dalla voce di Viktor e Sasha, dal rumore dei motori che riprendono la marcia, nella taigà.

Proseguiamo verso nord, sempre in linea retta, stavolta su una vera e propria pista, percorsa anche dai grandi camion Ural, a giudicare dai profondi solchi con i segni delle gomme a bordo “strada”. Mi dicono che questi enormi mezzi pesanti percorrono a volte la foresta per raggiungere delle miniere d’oro sperdute, distanti alcune ore, di faticosa marcia, dalla ferrovia. Seguendo sempre il corso del cosiddetto sukhaya rechka, arriviamo ad un bivio: a sinistra si incunea il letto del torrente nella taigà, perdendosi tra tronchi e rami, dritto prosegue la pista, che inizia a inerpicarsi lungo i pendii delle montagne. Affrontiamo lunghe salite non troppo ripide, intervallate da alcuni tornanti che, invece, puntano decisi verso l’alto. Qui si viaggia più velocemente e la larghezza della carreggiata permette anche di muoversi affiancati. A un certo punto noto che la strada perde sempre più pendenza, per poi appiattirsi e diventare del tutto pianeggiante e, proprio in questo momento, le motoslitte si fermano. Capisco che siamo in cima a un passo, infatti poco dopo si vede la pista iniziare una lunga discesa verso il basso, anche se

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sarebbe meglio dire che riesco solo a intravedere una traccia bianca che perde fisionomia nel grigiore della nebbia che si è lentamente accumulata nel nostro spostamento verso nord e verso l’alto. L’ombra di sole del mattino è sparita per lasciare il posto a uno strato grigiastro, quasi lattescente, che impedisce una buona visuale, avvolgendo noi, la foresta e le cime delle montagne circostanti. Cristalli di neve si sparpagliano nell’aria, sembrano soffiati da una forza che ne trattiene la caduta al suolo, rallentandola il più possibile. A terra è tutto bianco e sopra è tutto grigio, siamo al passo Burkan e, come presso tutti i valichi delle zone buryate o limitrofe, bisogna fermarsi per celebrare la sacralità del momento. Alcune conifere e qualche arbusto insignificante, posti sul lato destro della pista presso la cima del passo stesso, hanno assunto chissà da quanto tempo la funzione di altare, di luogo sacro, di totem sciamanico. Tutti quelli che transitano di qui depositano qualcosa e trovano sempre il tempo per una preghiera propiziatoria. Attorno ai fusti degli abeti del fil di ferro raccoglie parecchi proiettili, lasciati dai cacciatori per buon auspicio nella caccia. Per terra ci sono decine e decine di copechi, rubli e altre monete, insieme a bicchierini per la vodka, con cui si innaffia il terreno cercando di soddisfare gli spiriti del posto, degli alberi, delle pietre, dei fiumi e di ogni altro elemento naturale. L’alcool nella tradizione sciamanica è ritenuto una sostanza molto potente, da usare con disciplina e coscienza nei riti propiziatori. Viktor mi versa qualche goccia di vodka in un bicchierino e mi invita a spargerne il contenuto presso il totem. Su altri ramoscelli sono appese lattine arrugginite, bandiere di preghiera, stoffe varie e parecchie sigarette intere. Afonya sbuffa fumo in continuazione, con lo sguardo fisso sulle sigarette sacre appese ai rami davanti a lui. Tutti si soffermano meditabondi davanti a questo punto, davanti al passo che dobbiamo passare e da cui si spera di tornare con la giusta dose di pelli, pesci, ma soprattutto si spera di attraversare incolumi la taigà e fare ritorno a casa sani e salvi. Quando torneremo, passando da questo stesso punto, non ci fermeremo neppure, infatti mi viene spiegato che tutto questo si deve fare solo quando ci si inoltra verso la foresta, all’andata, e mai al ritorno, per nessuna ragione. Banya (sauna) Senza nemmeno rendermene conto, iniziamo ad entrare nel pomeriggio, quindi bisogna imprimere la giusta velocità alla marcia, per non farsi sorprendere dall’oscurità nella foresta. Tra le tre e le quattro è meglio essere già in vista dell’ultimo zimovyo, dato che il sole inizia a tramontare a quell’ora e forse anche prima viste le nubi e la nebbia in agguato. In ogni caso le soste per controllare almeno le trappole più vicine alla pista non vengono saltate. Proprio durante uno di questi sopralluoghi noto una certa agitazione tra Viktor e Afonya, che mi chiama, gridando “Sobol, sobol !” e dicendo di fare alla svelta, verso una trappola a pochi metri dalla pista. Hanno trovato uno zibellino ancora vivo intrappolato. Deve essere li da poco tempo, poiché è parecchio arzillo e si dimena furiosamente tra le mani di Viktor, che lo ha appena liberato. Tenta di morderlo con i denti aguzzi, tenendo perennemente aperta la piccola bocca. Un suo morso non sarebbe certo una buona cosa, più che altro per la possibilità di trasmettere malattie. Viktor si avvicina a me e mi mostra lo zibellino sfortunato, che riprendo con la telecamera per alcuni secondi. Finite le “riprese” termina anche la vita di questa bestiola: Viktor comincia a serrare forte la mano con cui lo tiene, premendogli la gola, soffocandolo in una trentina di secondi o spezzandogli il collo, il risultato è lo stesso, la pelliccia è integra e l’animale morto. Il sacco in cui si accumula l’oro peloso della taigà conta ora un altro elemento. Di li a poco è la volta di un’altra fermata ispettiva, ma stavolta bisogna addentrarsi per una decina di minuti nella foresta, lasciando la pista e le motoslitte lontane. Viktor mi invita a seguirlo e lo faccio volentieri. Camminiamo fuori da ogni traccia di sentiero, senza riferimenti, almeno per quanto mi riguarda, tra rami secchi e spezzati a terra, ruscelli gelati coperti di neve e di arbusti intricati, per arrivare, quando quasi penso di aver perso la mia guida, sotto ad una roccia scoscesa e nuda, che da un’altezza di venti/trenta metri sovrasta una radura nel folto della taigà. Viktor mi spiega che loro passano di qui ogni volta, poiché a volte dalle rocce sovrastanti precipitano degli animali incauti, le cui carcasse restano a terra proprio nel punto in cui ci troviamo. A volte sono animali da pelliccia, a volte sono bestie che hanno solo la propria carne da offrire, gelata e perfettamente conservata dal freddo, infine possono essere fiere di grandi dimensioni, da cui è redditizio prendere anche le corna ad esempio (alci, cervi, capre selvatiche, renne). Ad ogni modo, quest’oggi non c’è nulla di sfracellato ai nostri piedi, quindi non resta che dare un’occhiata alla trappola posta sul lato opposto della radura e andarsene. Si tratta della trappola più grande che ho visto finora, coperta da un baldacchino di rami e ramoscelli intrecciati lungo più di un metro, che come sempre serve a non far nascondere dalla neve eventuali prede cadute nella tagliola. Non c’è nulla nemmeno

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qui, ci voltiamo e iniziamo a tornare alle motoslitte, quando un palo arrugginito, sulla cui sommità brilla un piccolo cartello argentato, attira la mia attenzione. Si trova a una decina di metri dalla trappola, lo raggiungo in fretta e dico a Viktor di cominciare pure ad avviarsi verso la pista. Non capisco subito di cosa si tratti e ci metto un po’ ad ispezionarlo. Una tabella color argento di circa venti cm per lato è inchiodata sulla sommità di un banalissimo palo arrugginito dal tempo. Nella parte alta del cartello è raffigurata, a sbalzo, una falce e un martello, sotto a cui è scritto in russo e in stampatello “il punto geodetico è protetto dallo stato”. Viktor si è già allontanato parecchio e i suoi passi nella neve non si sentono più. Sono immobile e riesco a sentire distintamente il mio respiro nella taigà muta. Perlustro con lo sguardo a destra e a sinistra, giro la testa, guardo in alto tra le chiome delle conifere…non c’è nessun altro artefatto umano ad eccezione di questo palo arrugginito. È un avamposto solitario nella solitudine, da chissà quanti anni. Sicuramente qui si trova l’incontro di qualche retta che serve a determinare, secondo la geodesia, misure relative alle dimensioni della Terra. Non c’è nessun altro riferimento o spiegazione a parte queste poche lettere impresse sul metallo argenteo cui sono di fronte. In mezzo alla Siberia, in mezzo alla foresta, in mezzo alla natura l’uomo ha posto un segno della sua presenza, un piccolo stuzzicadenti di metallo tra la catena dei monti Verkhneangarskij. Un dettaglio insignificante, forse. A mio parere rappresenta, invece, un perfetto esempio della realtà della Russia e della Siberia in particolare: questo territorio è così, è severo, è solitario, è muto, aspro e immacolato nella sua purezza, anche là dove essa è intaccata dalla mano dell’uomo. Non ha nessun senso questo cartello in mezzo alla foresta, come non ha senso quello che vi è scritto, ma è sempre e comunque così, è l’ennesimo irrompere dell’irrazionalità in Siberia…ed è l’unica chiave per poter afferrare la sua ideale essenza, che tutto permea qui. Il senso della Siberia passa anche da qui e l’essermi trovato faccia a faccia con uno dei suoi simboli, l’aver trovato sulla mia strada questo “totem” misticamente significativo, non è un avvenimento casuale, ma è parte del disegno di cui mi rende per ora partecipe il destino. Questo luogo mitico rimarrà per sempre impresso nella mia memoria. La pista poco più avanti comincia a scendere verso una nuova vallata, stretta e buia, avvolta nella solita nebbia. A metà di una discesa di una certa ripidità ci fermiamo, per fare fiatare i motori surriscaldati dalle ore di viaggio già compiute. Afonya è un robot malato, intaccato da un virus inguaribile: nel momento in cui poggia i piedi giù dalla slitta ha già le dita sprofondate nella tasca, pronte ad estrarre il fiammifero con cui accendere una nuova sigaretta. Inizio a passeggiare su e giù per la discesa, per riscaldarmi facendo un po’ di moto e per guardarmi in giro. Sulla sinistra della strada c’è uno spiazzo largo, piatto, coperto di neve e circondato ai bordi dalle solite magre conifere. Al centro spicca una strana costruzione, a forma di parallelepipedo, interamente di legno, ma con le bordature e gli angoli della struttura avvolti in travi e rinforzi di metallo. In pratica è un grosso container di legno rinforzato nei punti cardine. La porta è spalancata e penzola, mezza storta, verso la strada, quasi invitando chi passi di qui ad entrare. Di cosa si tratta? Sasha mi risponde subito: “È un banya (sauna)”. Qui, in mezzo alla neve e agli alberi? – rispondo. “Certo, era per gli operai che hanno sistemato la pista d’estate”. Questo container ligneo è stato portato qui non so quando ma sicuramente d’inverno, poiché è letteralmente costruito su due lunghi pattini di metallo, che ne percorrono tutta la lunghezza e sono serviti per il suo trasporto fino a queste montagne, trascinato da qualche immenso camion. Mi immagino gli operai d’estate, avvolti dalle zanzare, che verso sera trovano un minimo di ristoro, dopo una giornata di fatica al sole, dentro questo cassone. Attorno l’acqua non manca, infatti mi viene indicato il corso di un ruscello gelato, che affianca la carreggiata poco lontano. Dal manto uniforme della neve emerge una chiazza giallastra, ondulata e coperta da un fragile ghiaccio. L’acqua è di un giallo sporco poco invitante, ma questa è una zona anche termale e, non essendo le fonti ancora tutte note, penso che si tratti della qualità di qualche acqua gorgogliante dalle viscere della terra, magari ricca di zolfo. Dentro il container è buio, spettrale e vuoto, non c’è nemmeno una stufa per la sauna, restano solo delle rozze panche in un angolo. Probabilmente i “lavori” sono finiti e tutto ciò che c’era da portarsi indietro è stato trasportato via. Aspettare l’inverno per spostare anche questa ingombrante sauna semovente non aveva senso, dunque è stata abbandonata qui per sempre, tanto la legna per farne un’altra in un altro posto non manca.

Voltandomi verso sud, mi accorgo che iniziano a mimetizzarsi nella nebbia i fianchi più distanti della catena di monti che abbiamo scollinato in mattinata, che hanno le cime tondeggianti e ricoperte di nera foresta, adagiata sulla neve tanto bianca quanto dura. Un denso e mobile banco di grigiore oscura il sole, in questo momento non più visibile di un vecchio lampione dotato di una lampadina troppo stanca. La neve continua a cadere, ma estremamente rarefatta e svolazzante, come se sia indecisa su dove posarsi, forse alla ricerca invana di

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un ultimo lembo di terra scoperta, da ricoprire. L’orologio scorre impietosamente in avanti e non c’è tempo per osservare ancora il paesaggio, dobbiamo riprendere a correre verso nord, per incunearci da sud est verso nord ovest, in direzione dello zimovyo più lontano di questa famiglia di cacciatori, se non vogliamo farci sorprendere dall’oscurità. Verso il lago Amut Durante la corsa verso settentrione il tempo cambia. Ci fermiamo per un’altra sosta “tecnica”, per circa un quarto d’ora, in un piccolo zimovyo, localizzato presso una curva assolata e spoglia dagli alberi. Più saliamo e più l’aria diventa tersa, il cielo si apre e inizia a mostrare interi spicchi di sereno, vincendo l’umidità della nebbia. L’angusto interno della capanna è ora invaso dalla luce, che pare sfondare il cellophane della minuscola finestra, per dilagare all’interno della costruzione di tronchi. Due cartoni di vecchie casse di vodka sono buttati alla sommità dei tavolacci/letti, il cui unico comfort è dato dalle morbide coperte dipanate su tutta la lunghezza del legno su cui sdraiarsi. Sopra la finestra sono appese, ai soliti chiodi sporgenti, delle forbici, un pettine, fil di ferro, carta igienica, una penna. Una lampada a petrolio fa mostra di sé sulla tavola. Stando seduto sul tavolaccio sfioro con la testa il soffitto, ma questo non ha importanza, queste capanne sono dei rifugi per la notte, per scampare alle tempeste estive o alle furiose bufere di neve dell’inverno, non devono certo essere un luogo confortevole in cui vivere tutta la giornata. La pechka scalda subito l’ambiente e, per qualche istante, resto solo qui dentro a gustarmi il calore e a riposare, disteso ad occhi chiusi sulla branda. Per la differenza di temperatura i vestiti fumano, emettono vapore che, in corpose nuvolette e molteplici sbuffi, si diffonde nella stanzetta.

Da qui parte un percorso che si snoda lungo un’interminabile e immacolata salita attraverso la taigà, lasciamo infatti la pista principale e ci destreggiamo nella foresta, inseguendo percorsi noti solo ai miei accompagnatori, che scivolano su sentieri ora invisibili per la neve, superano versanti ricoperti di vegetazione, si perdono nel folto della taigà vergine. È il tratto più bello visto oggi, reso ancora migliore dall’ormai pressoché totale assenza di nubi e nebbia, che si dileguano rapidamente, mentre saliamo in quota. Prima dal grigio compaiono nette le sagome dei monti, poi pare intravedersi un colore sotto al caliginoso spessore uniforme, che quindi si apre qua e là mostrando dei buchi azzurri, i quali in breve tempo diventano sempre più estesi e compatti, fino ad esplodere in una baldoria di colori limpidi: azzurro, bianco accecante, nero dei tronchi, emergono anche le sfumature del verde delle conifere. Ci sono tratti si salita impegnativi, in cui le motoslitte faticano e dove decido di scendere per rendere più agevole il passaggio, privando il motore della necessità di trascinare il mio peso. I sentieri nella neve fresca non sono facili da seguire e, nei punti in cui la pendenza è significativa (circa 30°), c’è il pericolo costante di ribaltarsi e finire tra le piante del pendio più vicino. In un’occasione occorre effettuare una riparazione “al volo” di uno dei due mezzi, operazione portata a termine velocemente e con successo dai due fratelli cacciatori. Qui bisogna sapere fare tutto: accendere un fuoco in pochi secondi, trovare la legna adatta da bruciare sotto la neve, intendersi di motori e meccanica, costruire le slitte, saper governare questi mezzi cingolati su pendii nevosi e salite rischiose, capire i punti migliori per la pesca in laghi e fiumi, leggere le orme degli animali sul manto bianco...la taigà richiede tutto, non si accontenta, non si può avere la sufficienza con questa maestra severa ma giusta, o ti promuove a pieni voti oppure ti lascia indietro, senza appello e senza voltarsi ad aiutarti. Non esistono esami di riparazione. Con il cielo terso questi luoghi appaiono come un incanto, come una fiaba della natura oltre ogni immaginaria aspettativa. Dopo la riparazione di un motore, anche Sasha e Viktor si fermano, vedono che sto fotografando e anch’essi si voltano verso la valle che stiamo risalendo e osservano intorno, senza fretta, facendo spaziare lo sguardo su tutto l’orizzonte. Nessuno dice una parola. Non ce n’è alcun bisogno, qualunque espressione non avrebbe senso di fronte a questo grazia fascinosa. Perfino Afonya guarda lontano, con i suoi occhi piccoli e stretti, scrutando la natura tra gli sbuffi di fumo che gli salgono dalla bocca. Le chiome scure delle conifere salgono all’azzurro del cielo, fino a perdita d’occhio, ma nella loro corsa verso l’alto sono sempre sormontate dal profilo immacolato delle montagne, che sovrastano tutto e racchiudono l’orizzonte, dandogli certamente profondità, ma privandolo della dimensione infinita che altrimenti avrebbe la sola foresta. Le piante salgono lungo i pendii più dolci, si raggruppano e si sparpagliano a seconda dei luoghi più esposti ai venti gelidi, in ogni caso non arrivano mai sulle cime, che restano spoglie ed emergenti, ora più tondeggianti ora più aguzze. In questa zona si arriva a circa 1500 metri di altezza, ma nella stessa catena le cime più elevate raggiungono i 2600 m di quota. Le sommità

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arrotondate e senza vegetazione spuntano dal vello verde scuro delle valli, ovattate nelle loro insenature più profonde dagli ultimi banchi di nebbia: pare di poterle toccare, sembra che siano così vicine, eppure per raggiungerle ci vuole un’intera giornata di spostamenti, o anche di più. Ai nostri lati spuntano tronchi, tronchi e ancora tronchi, spolverati di neve gelati sui fianchi, a volte concentrati e ammassati fino a costituire una barriera anche per lo sguardo, altre volte molto radi, sparsi su un’ampia superficie libera, mescolati a fragili arbusti. Gli occhi trasmettono così tante informazioni al cervello, che quest’ultimo non riesce a decifrarne immediatamente la mole e si ha l’impressione, fugace, di poter affermare con sicurezza di aver visto tutto ciò che c’è da vedere con un solo sguardo, girando la testa da destra a sinistra velocemente e scorrendo tutto il paesaggio in un baleno. Quando si pensa di “aver già visto tutto”, ecco che un’attrazione magnetica calamita l’attenzione, attraverso lo strumento degli occhi, e diviene impossibile distogliere lo sguardo dalla natura circostante. Nel momento in cui si pensa di avere la piena consapevolezza di quello che ci circonda, sopraggiunge un senso di smania per averne una conoscenza ulteriore e, man mano che ci si avvicina più profondamente all’ambiente attorno, si scivola in un senso di smarrimento, destato dalla crescente cognizione di non aver neppure cominciato a decifrare la taigà. Quel versante assolato, gli abeti intrisi di neve, quella cima dalla forma bizzarra…e quella piantina sul dirupo più vicino, un torrente ghiacciato, i disegni del vento sulle superfici gelate, i punti più reconditi delle valli…quanto c’è da scoprire e da meravigliarsi, in un’infinita ricerca, prima visiva e poi mentale. E, così facendo, ci si accorge che non si riesce più a distogliere lo sguardo dalla taigà stessa e dai suoi sconfinati stimoli, ritrovandosi tutti quanti ad osservare, silenziosi, in ogni direzione.

La crudeltà del silenzio – gli elementi invisibili della taigà Guardo, osservo, guardo ancora. E, dopo aver osservato a lungo e un po’ ovunque, emerge una costante, un elemento fondamentale e onnipresente, il primo di una formidabile triade: dappertutto è silenzio. Si tratta di un silenzio strano, soprattutto per chi proviene da regioni densamente popolate, strano perché vero silenzio. È un silenzio non inteso come assenza o limitazione estrema di rumori o suoni, ma silenzio vero, autentico, originario, millenario. Si percepisce immediatamente ogni volta che ci fermiamo e spegniamo le motoslitte, ogni volta che nessuno cammina o muove degli oggetti. Osservare il paesaggio è il primo passo, il più facile, poi immancabilmente arriva il momento del confronto con il silenzio, il vero confronto con la taigà. Guardare qua e là implica muovere gli occhi, la testa, rivolgersi ad una parte piuttosto che ad un’altra della zona in cui ci si trova e tutto ciò porta ad una forma, almeno primitiva, di interazione con quello che ci circonda. Mano a mano che si osserva emerge, però, in modo preponderante la dimensione del silenzio, che prima circonda le percezioni in corso, poi le restringe sempre più fino a irretirle del tutto e a soffocarle, eliminando ogni stimolo, costringendo a fare i conti solo con esso. Non c’è più, dunque, interazione con il mondo esterno, ma solo con sé stessi. Si passa in questo modo dall’estasi e dallo stupore che suscita la superba dimensione estetica all’atto dell’osservazione, alla serietà, alla severità e all’angoscia, ai dubbi ed alla consapevolezza della paura che scatena il silenzio. Più correttamente occorre dire che la taigà non è silenziosa, ma è muta: niente e nessuno si muove, gli alberi non scricchiolano ondeggiando, i corsi d’acqua sono imprigionati nel gelo e non gorgogliano, gli animali sono in letargo o si muovono invisibili e impercettibili, le montagne incombono severe, la neve smorza e smussa ogni angolo, ogni asperità e ogni lembo del terreno. Questo non è silenzio, ma è realtà muta, non c’è spazio infatti per rumori o suoni affievoliti, semplicemente non c’è nulla. Al cospetto di tale estrema situazione, si inizia a prendere consapevolezza della propria condizione: si è soli, abbandonati a sé stessi dinanzi alla bellissima asprezza selvaggia della taigà gelata. Il gelo è il secondo elemento da considerare, validissimo alleato della taigà muta. Non si vede, lo stesso come il silenzio, ma ugualmente si percepisce e bisogna confrontarsi con lui senza compromessi o mezze misure. È lui che si impone e detta le regole, a cui possiamo solo adeguarci. L’ultimo elemento invisibile e altrettanto pericoloso è la solitudine, il trovarsi di fronte al’assenza della presenza umana, ma non solo. Allora ecco che mi immagino la scena, una scena tanto semplice quanto cruda: uno di noi o semplicemente un viaggiatore, un cacciatore, un allevatore di renne solo nella foresta, solo al cospetto di queste forze soprannaturali. Un individuo solitario immerso nel gelo silenzioso, cammina nella taigà. Qualunque imprevisto di una certa gravità accada, costituisce per lui la fine. Nessuno a cui chiedere aiuto, il gelo che stringe in una morsa coloro che non riescono più a muoversi, il silenzio crudele che osserva la fine di una persona, nell’indifferenza totale della realtà circostante. Le

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montagne sono così vivide, le valli e gli alberi paiono così vicini, tutti questi elementi sembrano osservare il viaggiatore solitario, ma si tratta di una partecipazione finta, passiva, simulata solo dalla mente di chi si trova in difficoltà e cerca disperatamente un appiglio, scivolando nell’irrazionale speranza che qualcuno o qualcosa possa aiutarlo, confortarlo o anche solo accompagnarlo con lo sguardo nei momenti più difficili. La mente è così consapevole della tragicità della situazione, della mancanza di una via d’uscita, che rifiuta di accettare una realtà talmente ostile, cercando una via di scampo nell’irrazionale. Ed ecco il viaggiatore sfortunato, che, nell’ipotesi più semplice, inciampa e si procura un danno ad una gamba, oppure si accascia stanco per la lunga marcia nella neve. In casi del genere i tre nemici invisibili prendono il sopravvento alla svelta, così velocemente che l’uomo nemmeno si rende conto del precipitare degli eventi e rimane disteso nel gelo, solo, abbandonato alla crudeltà del silenzio. Mentre si ingegna per trovare una soluzione impossibile, attorno a lui non succede niente. Può gridare quanto vuole, dimenarsi, lanciare neve o pietre, ma la taigà non si smuove, il silenzio crudele lo schiaccia, lo priva di ogni fiducia nelle proprie forze, nelle proprie capacità. Privo di ogni conforto, comprende che la fine sta avvenendo nell’indifferenza più totale, niente attorno a lui cambia atteggiamento, si accorge di qualcosa o pensa. Il vento continua a soffiare, le montagne rimangono immobili, le piante coperte di neve, il cielo imperturbabile. Lui guarda, senza essere guardato. Questo è ciò che mi viene in mente al cospetto del silenzio, del gelo e della solitudine. La taigà incute questi pensieri e, attraverso queste riflessioni, si guadagna il rispetto che si merita e con il quale le persone possono muoversi indenni al suo interno. Solo essendo consapevoli delle difficoltà e non prendendo alla leggera nessun gesto della vita quotidiana nella foresta si può uscirne indenni e rafforzati. Deve essere necessariamente abbandonata, al limitare della foresta, la superbia di cui troppo si nutre l’uomo moderno, la fiducia incondizionata in sé stesso e nelle proprie capacità, nelle capacità razionali. Solo spogliandosi di queste arie di superiorità l’uomo può entrare in contatto con la natura, che qui è rappresentata dalla taigà e dalle sue leggi, per imparare di nuovo come comportarsi e come vivere in armonia, innanzitutto con sé stesso. Questo è il salto verso ciò che viene definito l’irrazionale, una dimensione alternativa che può risultare immensamente più intensa e ricca di quella razionale. Non è dato a tutti di compiere questo salto verso la vera essenza della vita, verso l’interiorizzazione di esperienze rivolte al credere in forze diverse da quelle riconducibili a leggi asetticamente riproducibili e calcolabili. In questo cammino la Siberia, secondo il mio parere, è uno dei luoghi migliori in cui sperimentare la fede per “l’irrazionale”.

Il lago Amut

Mi siedo ancora sulla slitta e con il braccio segnalo a Viktor che può ripartire. Saliamo, saliamo, tra curve piene di neve, strettoie in mezzo agli alberi e tratti di falso piano. La neve è sempre più alta, nessuna orma ne segna la superficie e, chiaramente, su questi sentieri nel bosco non c’è traccia di nessun passaggio di mezzi con pneumatici. Siamo soli. Al culmine dell’ennesima salita il panorama si apre e il sole può irraggiare una vasta area, non più chiuso all’orizzonte dai pendii che abbiamo scavalcato. Una svolta a destra ed ecco un rettilineo, incassato tra le sponde di un lago, che si intravede da una parte in lontananza, e la foresta dall’altra. Alla fine del tratto dritto vedo la motoslitta di Sasha ferma a bordo pista, presso un incantevole zimovyo nascosto da qualche arbusto e piccole piante senza foglie. Ormai è il primo pomeriggio e questa veloce sosta per il pranzo sarà anche l’ultima, prima che il sole sparisca fino a domani. Lo zimovyo è più alto della media, addirittura quasi riesco a passare in piedi dalla porta d’ingresso e dentro posso stare dritto senza problemi. È una piccola casetta di assi di legno chiare, non sono tronchi quasi grezzi come nelle altre capanne, qui sono proprio assi tagliate e incastrate, dal basso fino alla sommità della costruzione. Il tetto è coperto dalle solite lamiere ondulate (e probabilmente ricche di amianto). Alla veranda esterna sono appesi dei secchi e dei catini per l’approvvigionamento dell’acqua. Proprio in questo sta la particolarità e la bellezza di questo avamposto nella taigà: si trova a pochi metri da un grande lago, il lago Amut, lungo e relativamente stretto, incastonato come un gioiello tra le montagne e la foresta. La costa sud è infatti delimitata da una fila di monti, che scendono a picco nel lago stesso, mentre la riva opposta è più dolce, quasi piatta e coperta di conifere. Scendo con Afonya lungo il sentierino che conduce sulla superficie gelata del lago, per prendere un secchio d’acqua. La neve è immacolata, vergine su tutta l’area lacustre, non è passato sopra il manto bianco né un uomo, né un mezzo, né un animale. Con gli scarponi liberiamo un metro quadrato finchè arriviamo a

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vedere il ghiaccio del lago e iniziamo a bucarlo, con una specie di enorme cavatappi, proprio là dove è visibile ciò che resta del precedente buco, praticato dagli stessi cacciatori giorni e giorni prima. È importante continuare a bucare il ghiaccio nello stesso punto, per non doversi trovare ogni volta a dover forare uno strato magari di ottanta cm o più. Bucando sempre nella stessa posizione si riesce a fare meno fatica, risparmiando alcune decine di cm rispetto al resto della massa gelata. A causa della pressione, quando si fora l’ultimo diaframma di acqua solida esce uno spruzzo di liquido fin sopra al buco stesso, come se si trattasse di un piccolo pozzo di petrolio, ma quasi immediatamente il fenomeno cessa e l’acqua torna in fondo al foro cilindrico, da cui poi è prelevata con il secchio. Afonya rientra subito nello zimovyo, mentre rimango a contemplare il fascino del paesaggio. Dietro alle montagne innevate spunta ancora il sole, con i suoi ultimi potenti raggi sparge calore e gioiosa luminosità sulla distesa di conifere, che altrimenti apparirebbero come tetre figure inanimate. Lingue di bosco risalgono sui fianchi e si incuneano nelle vallate dai pendii più dolci delle montagne, rincorrendo le cime svettanti. Veloci nubi stratificate solcano il cielo, graffiandone il brillante turchese, a cui viene dato magnifico risalto dal sole appollaiato dietro le catene montuose. Lo stesso panorama si può godere dalle finestre della capanna, che per questa collocazione risulta la più bella di tutte, a mio parere. Un’ulteriore particolarità è data dal fatto che qui le finestre sono ancora in vetro, gli orsi non le hanno rotte e, anche se il cellophane per sostituirle c’è già nello zimovyo, per ora rimangono al loro posto. La parte interna dei vetri, lungo i bordi, è coperta da uno spesso strato di ghiaccio inscalfibile, che le cementa contro gli infissi. La temperatura è scesa e all’aperto c’è poco da scherzare se si resta fermi, tutto ciò me lo conferma la macchina fotografica, sul cui display continua a lampeggiare l’icona della batteria. Sarà meglio rientrare e scaldarmi un po’ vicino alla pechka e mangiare, come stanno facendo gli altri. Sasha si è sdraiato su una panca, Afonya fuma all’interno della capanna e Viktor mi invita a sedermi al tavolo apparecchiato: lardo affumicato, salami, del formaggio, mele, maionese, ketchup, pane, biscotti, tè. Mangio con calma e chiacchiero con gli altri, mentre il corpo lentamente si abitua alla temperatura interna della capanna, sciogliendosi e ritemprandosi pian piano. Il legno chiaro di cui è fatto lo zimovyo rallegra l’atmosfera, rende gli spazi visivamente più ampi e tutto sommato mi sembra meglio del marrone scuro con cui sono realizzate le altre capanne. Sulle pareti campeggiano i poster di qualche cantante commerciale russa, il calendario del 2007 decorato dalla caricatura di un porcellino (“l’anno del maiale”), mensole precarie con pezzi di lampade a petrolio, rotoli di spago, lattine, fogli di carta. C’è anche un grande disegno diviso in tre scenette, in cui sono rappresentati momenti di vita di uno sciamano nella foresta e nei villaggi. Immediatamente sotto a questo disegno si trova una piccola icona dorata della Madonna con il Bambino. Mi pare un ottimo esempio di sincretismo religioso. Una volta rifocillati, usciamo e inforchiamo ancora le motoslitte, per l’ultimo sforzo della giornata. Manca poco al grande zimovyo cui siamo diretti, ma prima dobbiamo effettuare l’incantevole passaggio sul lago Amut. Pochi metri oltre lo zimovyo c’è una discesa dolce verso il lago gelato, Sasha passa per primo e dietro ci accodiamo noi. In un attimo siamo sul lago, sopra le sue acque gelide, che riposano sotto una coperta di ghiaccio e neve. I solchi lasciati dalla motoslitte sono l’unico segno che interrompe l’omogenea uniformità del manto nevoso. Tra le cime dei monti ammicca il sole, quasi nascondendosi in mezzo a creste e rocce lontane. Da lassù illumina a fette l’area lacustre, colpendo anche la nostra motoslitta in movimento. In fondo, verso sud-ovest, frotte di nuvole si ammassano veloci, nascondendo i bagliori purpurei del tramonto e riempiendo la taigà di un riverbero di fredda luce metallica: la notte si sta avvicinando a grandi passi. Una sensazione di assoluta esaltante euforia si sprigiona a scivolare su questo lago lungo e stretto, tra montagne solitarie, neve immacolata, gelo intenso e luci del tramonto. È uno dei momenti più significativi del viaggio, lo sento, lo capisco subito, come è successo altre volte in differenti occasioni siberiane, sono le stesse sensazioni di trovarsi nel posto giusto al momento giusto. Estraggo velocemente la videocamera per regalare l’eternità a questi intensi attimi sul lago: segnalo a Viktor di rallentare, così posso meglio godere dell’incantevole paesaggio e registrare in modo più efficace. Guardando dritto vedo la nostra scia perdersi a pochi metri della riva sinistra, scalfendo appena l’immutabile superficie nevosa. Vedo le montagne sul lato opposto digradare lentamente, fino a perdersi in altre catene meridionali, già invisibili alla vista per l’oscurità incombente. Su tutto questo si impone l’assoluta magnificenza del cielo turchese: là dove ancora la luce solare ha la meglio, fa risplendere il suo colore sulla taigà nera, là dove, invece, le tenebre cominciano a trionfare, si confonde con gli strati di nubi, amalgamandosi ad esse in una cupa tonalità blu elettrico. Potrei stare delle ore a scivolare su questo ghiaccio, guardando a destra e sinistra, assorbendo l’energia, la forza e l’intrinseca positività dei luoghi. Mi

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immagino uno sciamano nel suo costume sgargiante e tintinnante, seduto su un tronco al limite del bosco, con lo sguardo rivolto alle montagne, separato da esse dalle acque immobili del lago Amut. Una fitta nevicata fa ballonzolare cristalli di neve tutt’intorno all’uomo sacro: gli spiriti della foresta ne avvertono la presenza e lo proteggono, manifestandosi sotto forma di solide goccioline d’acqua, geometricamente perfette. Sono richiamati e ravvivati dal suono ripetitivo e incantato del tamburo che incessantemente batte lo sciamano, fino a raggiungere lo stato ideale di trance, unendosi in totale simbiosi agli elementi della natura. Il ronzio sommesso (stiamo procedendo a velocità ridotta) e monotono della motoslitta funziona nei miei confronti come le vibrazioni del bubin, il tamburo sciamanico. Mi abbandono alla contemplazione dei luoghi e della loro essenza, interiorizzandone la magica energia. Le rive si assottigliano e si avvicinano sempre più, fino a congiungersi all’improvviso, nel punto in cui la slitta sobbalza ed esce dalla superficie del lago, superando un dosso di neve e inoltrandosi nella taigà. Mi sveglio dai miei pensieri e, con gli occhi incollati al punto in cui abbiamo abbandonato le acque, rivolgo il mio saluto rispettoso all’incredibile lago Amut. L’avamposto nella taigà Quando ormai la luce sta fuggendo, per sparire definitivamente dalla foresta, giungiamo al grande zimovyo presso il fiume Pravaya Mama. Pesanti ombre già si stagliano attorno ad ogni cosa, mescolandosi in un buio quanto fitto intreccio. Una ripida salita nasconde dalla pista la vista della capanna di tronchi, grane, spaziosa, alta, robusta. Si tratta della capanna più lontana della famiglia di Sasha e Viktor, è il loro avamposto nella foresta e quindi è anche il posto più attrezzato e dove due persone vivono costantemente, tutto l’anno, alternandosi in turni di permanenza. Avvisati dal rumore delle motoslitte, i due uomini presenti si catapultano all’esterno, indossando velocemente giacche e berretti contro il freddo. Strette di mano, saluti a voce alta, un abbraccio: gli occhi che brillano di novità: dopo una pausa indefinita dai contatti con il mondo, ecco che i due abitanti della taigà ritrovano i loro amici, qualcuno con cui parlare, nuove provviste e il solito rifornimento di vodka. Tutti sono felici, non smettono di parlare, di scambiarsi informazioni su chi è rimasto a Uoyan, sui parenti, su come vive il branco di renne, sulle eventuali riparazioni da fare alla casa, sulle condizioni meteo durante l’assenza di Sasha. Il più attivo ed entusiasta è Sergej, un coetaneo nonché grande amico di Sasha. Saltella da una slitta all’altra, saluta tutti, me compreso, con una forte stretta di mano, aiuta a scaricare il cibo, calma i cani impazziti per la gioia, ragguaglia sulle condizioni delle renne e continua a muoversi tra la capanna e le slitte. La taigà rimbomba delle nostre voci. Tutti sono stanchi, ma ci sono ancora alcune faccende da sbrigare, prima di chiudersi dentro lo zimovyo per la notte. Bisogna con cura far “scongelare” e quindi scuoiare gli zibellini trovati durante la giornata, sistemare le provviste per chi rimarrà qui per un altro turno di lavoro/permanenza, recuperare l’acqua per cucinare. Mentre tutti sono indaffarati in varie incombenze, mi offro dunque per andare a prendere l’acqua. Mi indicano il sentiero e, con un paio di secchi, mi incammino verso il fiume. Esco da uno steccato che circonda in più punti il territorio attorno allo zimovyo, mi volto e lo osservo meglio: è una grossa capanna rettangolare, alta, con il tetto coperto da lamiere grigie, coperte di neve. Sulla sommità spunta il tubo della stufa più grande. Come al solito, lo spazio tra le lamiere (il tetto) e il soffitto della capanna è vuoto, usato come deposito di vari attrezzi. C’è anche una veranda davanti alla porta di ingresso, dove sono sistemate le trappole per la caccia e qualche giacca imbottita. Poco distante dalla casa ci sono quattro pali di ferro, alti, e nudi, che spuntano dal terreno lontano dagli alberi e ad una certa distanza l’uno dall’altro. Sono i pali su cui d’estate vengono appese le cibarie nei sacchi, per evitare che gli orsi ne facciano razzia. In cima ad essi, stretti, lunghi e senza appigli, gli orsi non possono arrivare. Sull’area adiacente alla capanna pascola una decina di renne, intente a scoprire dalla neve qualche arbusto, un filo d’erba o del muschio. Sono le renne dell’allevamento di cui mi ha parlato Sasha, questi animali sono il nucleo da cui, secondo il progetto, dovrò svilupparsi un branco di duecento esemplari. Proseguo per il sentierino tracciato nella neve, finchè scompare la vista dello zimovyo. Giungo sulla riva ripida sopra al fiume, dove inizia una sorta di scalinata, ricavata con terra e tronchi nel fianco della collina, fino al letto del fiume. Scendo e mi trovo a tu per tu con il Pravaya Mama, ramo destro del fiume Mama, affluente del Vitim, che a sua volta riversa le sue acque nella Lena. L’acqua che sto attingendo dal buco nel ghiaccio scorre dunque verso nord e termina la sua lunga corsa nell’artico, nel Mare dei Laptev, presso il delta della Lena, luogo che visiterò nei miei futuri viaggi. Mentre i secchi si riempiono osservo intorno: due ali di conifere circondano il fiume, largo circa trenta metri e coperto di lastre di ghiaccio. L’acqua non

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è per niente fonda e deve essere gelata a scaglioni, rimanendo accatastata una sull’altra. Dal foro osservo direttamente i sassi del letto del fiume, dove l’acqua continua a fluire, dimenandosi verso il mar glaciale artico. A monte, sopra gli alberi, incombono le cime delle montagne. Il solito silenzio permea la foresta e questo fiume siberiano, isolato e misterioso. Risalgo con l’acqua per la cena e mi faccio strada, barcollando con i secchi, tra le renne e i cani da slitta, che sono delle specie di lupi di colore chiaro, che continuano a saltarmi addosso cercando di leccarmi in faccia. Le renne non smettono mai di leccare alcuni ceppi di alberi tagliati che spuntano dal terreno, ormai levigati dall’incessante contatto delle loro lingue. Attorno ad essi la neve è giallognola, come sporca: Sasha mi dice che è di quel colore a causa dell’urina delle persone che vivono qui, che fanno la pipi sempre su questi tronchi recisi, apposta per le renne, per fornire loro i sali minerali, che ottengono proprio leccando queste specie di vespasiani della taigà. Vengo invitato a urinare ogni volta in questi punti, per il bene delle renne. Si potrebbe instaurare quest’usanza anche da noi per la notte di Natale, facendo innaffiare dai bambini l’albero in salotto, per il bene delle renne di Santa Klaus. Dentro allo zimovyo la temperatura è piacevolmente tiepida, riscaldata da due stufe a legna. C’è anche un po’ di corrente, generata da un gruppo elettrogeno, per qualche lampadina. Tre letti-tavolacci occupano gli angoli e la parte centrale dell’ambiente, su una parete è sistemato un lavandino e sotto le due finestre si trovano due letti con la rete in metallo intrecciato, quasi sfondata. Un vano con due ante funge da mobile della cucina, in cui riporre forchette e coltelli spaiati, tazze, piatti e qualche bicchiere. Tutto è molto semplice e spartano anche qui, nonostante il fatto che questo luogo non sia un bivacco di fortuna, al contrario sia sempre abitato, ma tutto ciò rispecchia l’attitudine filosofica ed il “brodo culturale” della gente che ci vive da sempre, ma di questo parlerò più avanti. La cena fumante è presto servita: una zuppa di pesce con contorno di stufato di renna, pane, mele, lardo, salame. La vodka non può mancare, è uno dei motivi della gioia di Sergej e Vanya, un evenko schivo e trasandato, spesso taciturno, che è rimasto con Sergej qui negli ultimi mesi. Sasha, portando le provviste, non ha certo dimenticato di prendere la giusta quantità di vodka, non troppa in verità, per non rischiare che i suoi uomini si ubriachino in maniera indiscriminata e a lungo (almeno questa è la mia intuizione). In ogni caso sul tavolo ci sono circa tre litri di superalcolico liquido trasparente, che non durerà sessanta ore. Una bottiglia viene svuotata la sera stessa da Sergej, dall’evenko e…da me, coinvolto mio malgrado in questo turpe turbinio di festeggiamenti. Già! Quale migliore occasione per bere, che l’inaspettata visita di uno straniero dall’Italia! Bisogna festeggiare l’evento! Tutti quelli che non hanno intenzione di ubriacarsi spariscono, o si rintanano in qualche angolo immersi nelle loro faccende, durante la lunga serata invernale. Sasha e Viktor si occupano della pelle degli zibellini, Afonya continua a entrare e uscire per fumare e radunare le renne nel recinto. Rimane solo il sottoscritto a far compagnia a due persone che non vedono l’ora di sbronzarsi, dopo probabilmente giorni e giorni (o settimane) di forzata vita astemia. Sergej è qui dal ventitré ottobre. Siamo al 6 febbraio…ma il suo turno ormai è finito, Afonya lo rimpiazzerà e lui tra un paio di giorni rientrerà a Uoyan con noi. I brindisi si susseguono incessanti:”All’Italia!”, “Alla Russia!”, “All’amicizia tra i popoli!”. Cerco di limitare il più possibile i danni, l’indomani ci attende una dura marcia verso le montagne e non intendo affrontarla con un mal di testa incessante ed il corpo sconquassato. Riesco, ad un certo punto, a lasciare il tavolo con la scusa della stanchezza, del non essere abituato a vivere nella taigà...e letteralmente mi nascondo sotto le coperte per sparire alle loro ebbre attenzioni. Intanto ne approfitto per riflettere, per ascoltare i discorsi dello zimovyo e farmi un’idea più precisa di tutto. Vanya, l’evenko Continuo a pensare a Sergej e al fatto che sia qui da ottobre, da solo (se si esclude Vanya e le visite periodiche di Sasha). Più di tre mesi immerso nel silenzio e nella solitudine della taigà, nel gelo e nella neve, esposto al vento e ai pensieri che nascono nei luoghi selvaggi. Penso a come mi sentirei se capitasse a me, non come un diversivo della mia vita quotidiana (qualche mese e basta), ma come un’abitudine a intervalli regolari. Qualche mese nella foresta da solo, poi un po’ di tempo al paese e via ancora all’infinito, rincorrendo un ritmo cadenzato dal destino, dove l’uomo non ha alcuna possibilità nè volontà per intervenire e spezzare la catena. Sasha parla e si lamenta dei due “custodi” dello zimovyo con suo fratello, ma non a bassa voce, tutti sanno bene ciò che sta dicendo, nessuno lo mette in dubbio: “Seryoga. Dov’è la scala che ti avevo detto di riparare? L’hai fatta?” e Sergej, biascicando, risponde “Ne poluchilos!”, “Non è stato possibile, la sega non era affilata e non ho trovato un’altra lama”. Sasha

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resta zitto un secondo e quindi lo incalza: “Ma l’hai cercata un’altra lama?? Hai guardato sul tetto?”. Dall’altra parte silenzio. Dopo alcuni minuti Sergej si rianima, giusto per dire: “Ahh! Erano là sopra! Non ho avuto il tempo di guardare”. Il discorso termina qui. Queste parole, questo scambio di battute, racchiudono in sé la totalità dell’esperienza nella taigà per i vari custodi che si alternano in questo “lavoro”. Come mi dirà in seguito Sasha, quando c’è qua lui e Viktor fanno ancora finta di fare qualcosa, di darsi da fare, di riparare o migliorare attrezzi, parti della capanna e della zona esterna...ma quando i “capi” se ne vanno, chi rimane passa tutto il tempo a dormire, girandosi da una parte all’altra dei letti, a mangiucchiare qualcosa, a fumare e a bere quello che rimane, fino ad esaurimento delle scorte. Sergej ha il coraggio di dire che non ha avuto tempo per fare una cosa, una sola cosa che gli è stata chiesta, quando le sue giornate trascorrono nel più assoluto ozio, nell’inedia totale. Non si può dire riposo, perché questa parola presuppone che prima o dopo si è fatto qualcosa. Invece qui è il nulla, è la taigà ch prende il sopravvento, annullando animi e corpi già debilitati, già fragili, ormai alla deriva dell’esistenza, spinti fin qui dalle onde del destino, rifugiatisi in quest’ultimo approdo per evitare le insidie del mare della vita. Continuo a rimuginare dentro di me: “Se fossi qui sistemerei il sentierino verso il fiume, basterebbe dotarlo di corde per renderlo più sicuro…poi c’è da rinforzare lo steccato in più punti per non far fuggire le renne…e la veranda va puntellata, sembra stia cedendo ai lati, inoltre dentro la capanna farei….”. No. Sto sbagliando tutto. Sto giudicando questa esistenza, queste persone, questa situazione, senza averne né il diritto né la capacità di farlo. Probabilmente vivrei al loro stesso modo, assorbirei l’essenza dei luoghi e delle vite che qui si sono susseguite, amalgamandomi allo status quo della taigà. Forse è proprio la taigà che non permetterebbe un’altra via. Un nichilismo esistenziale prenderebbe il sopravvento, l’antica mentalità, da me definita “paleo asiatica” (perché in netto contrasto con i dogmi della vita frenetica dell’Asia moderna: Taiwan, Corea del Sud, Giappone…) andrebbe a permeare il mio spirito, dominandolo con la filosofia del paradigma fondamentale: “Se posso fare questa cosa domani, perché farla oggi?”. Vivendo a stretto contatto con gli spiriti degli sciamani dei luoghi, delle pietre, degli alberi, dell’erba, della pioggia, di tutti gli elementi, si arriva a forzare e a scardinare la mentalità dell’uomo moderno, fino a minare le sue certezze e a lasciarlo nudo, condizione essenziale e prioritaria alla rivelazione e all’apertura del vero scrigno della natura, pieno di gioiosi segreti e di perfette verità, che rende consapevoli delle reali priorità esistenziali. Ecco che in poche ore analizzo il mio pensiero e la mia concezione sulla vita di questi uomini, e sulla vita in generale. Sasha deve lasciare in questo luogo degli uomini per sorvegliare le renne, in estate e in inverno, poiché ci sono vari pericoli. Possono scappare con altre renne selvatiche, essere preda degli orsi, perdersi in montagna o sparpagliarsi su un territorio troppo vasto da controllare. Poi ci sono le trappole da controllare regolarmente e lo zimovyo da mantenere. Un paio di persone devono starsene quindi in questo avamposto, baluardi nella taigà. Chiaramente Sasha è consapevole delle difficoltà e di cosa significhi vivere per mesi in queste condizioni di isolamento, per questo, oltre ad istituire turni di rotazione dei custodi, sa anche che deve saper scegliere a chi proporre l’incarico, in pratica deve essere una persona che non può rifiutare. Il caso di Vanya è esemplare. È un uomo che ha da poco superato i quaranta, ne dimostra ovviamente di più, porta dei baffi neri mal curati e parla male in russo, infarcendo le frasi con parecchi termini evenki. I capelli scuri, arruffati, sono divisi in ciocche unte e mai pettinate che gli rendono la testa ispida. Il taglio dei suoi occhi rivela l’origine asiatica della sua stirpe, gli evenki, una delle etnie presenti da secoli in Siberia al momento dell’arrivo dei russi. Popolo nomade di cacciatori e pescatori, diffuso un po’ in tutta la zona centro-orientale della Siberia stessa, depositario dei suoi segreti e delle sue leggende. Indossa una giacca e dei pantaloni molto spessi e sporchi, con le maniche e la zona delle ginocchia coperte da strati di sudiciume ormai secco. Non ama parlare se non quando è ubriaco, mentre, quando è sobrio, si rintana spesso in qualche angolo dove non si riesce a vederlo immediatamente. Quando gli altri, in disparte, lo invitano a parlare con me, a scambiare due chiacchiere, continua a ripetere, seccato: “Perché?! E di che cosa dovrei parlare? Cos’abbiamo in comune?”. Chiaramente per lui sono una specie di alieno, temporaneamente precipitato nello stesso luogo dove trascorre le giornate. Già, le giornate…le sue ore passano nell’ignavia più totale ed è un ottimo esempio delle righe che ho sopra scritto. Sasha mi parla a quattr’occhi, a distanza dagli altri, raccontandomi la storia di questa persona ruvida. Mi dice che l’ha raccolto praticamente dalla strada nell’autunno precedente, a Uoyan e dintorni. Vanya non aveva un posto dove passare l’inverno. Sasha mi dice proprio così: “Non aveva un posto dove passare l’inverno…” come se si trattasse di un animale da pelliccia in cerca di una tana per il letargo. Ed ecco come questo evenko è finito nella taigà, nello zimovyo più sperduto di questa famiglia, posto che Sasha gli ha fornito come rifugio e tana per l’inverno siberiano. “Se non ci fosse stato Sasha, ormai sarei già morto. Mi ha dato

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lui la possibilità di superare questo inverno, mi ha dato lui questa occasione di lavoro” replica Vanya, parlandomi del suo “capo” durante la cena della prima sera trascorsa qui, durante la quale i gradi dell’alcool lo rendono loquace. “Io non ho nessuno. Nè ho un posto dove andare. Senza di Sasha non avrei fatto altro che bere fino ad uccidermi. O qualcun altro mi avrebbe ucciso, per strada”. Sasha mi confessa di sapere già che, appena farà primavera, questo riconoscente evenko lascerà lo zimovyo per sparire nel nulla. “Gli serve solo una sistemazione per l’inverno. Ora dice e giura di rimanere, che si trova bene, che gli piace il lavoro, ma non è così, non ha voglia di fare niente e so che quando non sono qui presente, passa le giornate a dormire e oziare. Mi serve solo per guardare le renne”. A Sasha serviva un aiutante per sorvegliare renne e capanna, a Vanya un tetto caldo e una scodella di zuppa di pesce. L’evenko è l’unico che è qui fisso dall’autunno, senza turnistica di riposo. Per ora va bene in questo modo ad entrambi. Lo scioglimento della neve coinciderà con la liberazione dai vincoli che legano queste due persone. Vanya tornerà a valle, non si sa a fare cosa, se non a svuotare bottiglie della peggior vodka in commercio e, se sopravviverà, forse il prossimo inverno farà ritorno allo zimovyo presso il fiume Pravaya Mama, promettendo ancora di rimanerci per sempre. Personalmente, ritengo che gli serva un posto dove riuscire a passare indenne l’estate, la stagione per lui più rischiosa, non l’inverno. Tayozhnaya zhisn - la vera Russia Dopo cena, per tutti arriva il momento di rientrare definitivamente nella capanna, nessuno si muove più per varie incombenze, le pelli sono state sistemate, fuori fa freddo ed è buio, i cani hanno mangiato, le renne sono legate ed è ora di riposarsi e rilassarsi. Sasha riunisce tutti attorno a un tavolo, vicino alla lampadina più luminescente, per una partita a carte. Il gioco, molto semplice e divertente, è sempre il solito, mille e uno, una variante del più praticato cento e uno. In Siberia tutti conoscono questi modi di spassarsela a carte. Afonya e Sergej (ubriaco), Viktor e Sasha siedono l’uno di fronte all’altro e si sfidano per circa un’ora. Vanya si è buttato su un tavolaccio con le pelli di renna, sfinito dalla vodka. Esco dal sacco a pelo per distrarmi un po’, seguendo la partita appollaiato su una panca dietro al tavolo di gioco. I quattro cacciatori si stanno proprio svagando, lanciano le carte sul tavolo come se fossero coltelli, commentano ad alta voce, ridono fragorosamente e, chiaramente, accompagnano ogni frase con abbondanti dosi di volgare turpiloquio. Non si tratta solo di parolacce, è un vero e proprio linguaggio (matovaya rech), un modo di esprimersi, tipico degli ambienti rurali, sperduti o dell’estremo nord della Russia. I verbi e parecchie parole sono storpiati con suffissi o prefissi derivati da parole volgari, per creare un nuovo tipo di lessico, autenticamente originale. Nessuno lo fa apposta o accentua esageratamente la cattiva parlata, è così e basta, è un modo di comunicare. Non riesco a capire tutte le sfumature delle oscenità che vengono proferite, ma non è importante, è l’atmosfera che mi circonda che è importante da comprendere, che insegna molte cose a chi viaggia in questi luoghi. Sasha ha acceso una vecchia radio adagiata sul davanzale di una finestra, di piccole dimensioni e con un’antenna di metallo sorretta dal nastro isolante. Bisogna muovere la rotella delle frequenze fino a trovare l’unica emittente ricevibile anche qui, radio Mayak mi pare, che fornisce previsioni del tempo e notizie locali, della provincia di Severobajkalsk, intervallate dalle solite canzonette commerciali russe. Il gingle associato al nome della radio stessa, che accompagna le trasmissioni, preannuncia le pubblicità e viene ripetuto spesso, è quello che ho già sentito molte volte all’interno dei vecchi film e programmi sovietici, è come un marchio di riconoscimento culturale. Poche note gracchiate dalle casse arrugginite della radio, ma che significano tutto, identificano immediatamente un ambiente e la sua storia, mille ricordi, valori, idee. Quando sento questa musichetta mi estranio, mi giro e osservo fuori dalla finestra, le voci dei cacciatori si stemperano nella mia testa, mi perdo con lo sguardo nel buio esterno e penso alla scena di cui sono parte. Una capanna di tronchi sperduta nella tenebrosa taigà invernale, il micidiale gelo esterno, la stufa rovente all’interno, la luce tremolante della lampadina che getta appena delle ombre sulla notte, al di là della finestra di cellophane, le note sovietiche di radio Mayak, la puzza di pesce mista all’odore di sigaretta e al sapore della vodka… Mi immagino la scena dall’alto, da lontano: questa è la Russia, questa è la Siberia, è una distesa buia e vuota come appare dallo spazio, qua e là invisibilmente illuminata da minuscoli barlumi di camini, stufe e candele, sparsi a centinaia di chilometri gli uni dagli altri, nella tetra foresta gelata. Avanguardie isolate, fragili e silenziose, disseminate in un contesto illogico, senza alcuna possibilità di collegamento fra loro, popolate da uomini duri, leali, con proprie regole di vita, avvezzi ad ogni difficoltà. Ecco la Russia: la semplicità della vita nella taigà e i suoi

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gesti quotidiani come spaccare la legna, riparare le reti per la pesca e controllare le trappole della caccia, come migliaia di anni fa, sorvegliare i branchi di renne e seguirle nei loro spostamenti, rifornirsi di acqua nei fiumi e preparare il tè. Tutto questo e la sua vastità non viene però considerato da quella minima parte di territorio che detiene il potere e comanda, estraniandosi completamente da queste leggi e da questa vita e tuttavia influenzandone il decorso. Ecco un pugno di persone rinchiuse in questo zimovyo e nella sua atmosfera, simbolo di una condizione e di una società che deve fare i conti con la natura della Siberia, in cui le grandi e medie città, che pure sono presenti, non servono a nulla, non sono d’aiuto nel cogliere l’essenza dei luoghi, il loro significato e la loro storia. Per provare ad intuire ciò che il poeta Tyutchev intende comunicare con le parole “Non si può capire la Russia con la ragione, si può solo credere in Lei”, bisogna calarsi in questa realtà, in questo zimovyo, con queste persone e in questa vita. Solo allora si potrà dire di avere gli strumenti iniziali per approcciarsi alla vastità della Siberia, della Russia, alla severità delle sue leggi, all’asprezza selvaggia della sua essenza. Da qui, da questa capanna sul fiume Pravaya Mama, fuori da ogni via e forma di comunicazione, nel gelo della taigà, nel buio della notte invernale, nel silenzio delle montagne disabitate, parte il sentiero all’interiorizzazione di ciò che significa la Siberia. Afonya stravince ancora una volta l’ennesima mano e trionfa nella partita a carte, facendo infuriare Sergej che lo insulta in un modo irripetibile e prende a pugni il tavolo, scuotendolo abbastanza da farmi riprendere dai miei pensieri, dopo il mio ideale viaggio nella foresta dall’alto, tra le oscure terre e le sparute capanne che costituiscono la realtà della maggior parte della Russia. Verso Bultarynda Verso mezzanotte tutti dormono o, perlomeno, sono sdraiati. La notte nello zimovyo non è, tuttavia, silenziosa, oltre allo scoppiettio della pechka, spesso infatti mi sveglio per ben altri motivi. Senza alcun preavviso, alcune volte Vanya si solleva con il busto sul tavolaccio, imprecando e rivolgendosi, in uno stato allucinato di dormiveglia, a Sergej, con parole tutt’altro che garbate. Nel cuore della notte si sentono grida rauche: “Yobannyj ty, nakhuj blyad!!!”. Non serve tradurre, non avrebbe alcun significato dare compiutezza semantica a questi insulti sguaiati. Viktor dorme vicino a Vanya e, ogni volta che urla, lo sgrida parlando sottovoce, dicendo di smetterla, perché ci sono degli ospiti nella capanna e non bisogna comportarsi male, altrimenti Sasha non porterà più nessuno fin qui. Nel sentire frasi come questa, ghigno dentro al sacco a pelo, pensando che Vanya non si scompone per nulla nell’essere rimproverato, anzi probabilmente nemmeno capisce ciò che gli viene detto. La mattina seguente ci svegliamo relativamente presto, la stufa riposa tranquilla e fa dunque freddo anche dentro la baracca, fuori la taigà è avvolta nella nebbia, il cielo è coperto e grigio, non c’è vento e la neve crocchia sotto i piedi. È una giornata perfetta per l’escursione a cui si sta preparando un’allegra brigata. Afonya, Sergej, Viktor e il sottoscritto si stanno organizzando per raggiungere il lago Bultarynda, che si trova ad alcune ore di marcia, in mezzo alle montagne, ad un’altezza di circa 1000 m. I resti della zuppa di pesce, riscaldata, vanno benissimo per la colazione, non c’è tempo per cucinare altro, bisogna sfruttare ogni ora di luce, per arrivare in tempo allo zimovyo in cui passeremo la notte presso il lago montano. La preparazione delle renne e delle slitte procede sotto la guida di Viktor, che è il “responsabile” del nostro gruppo. Sasha rimane qui sul fiume Mama, per portare a termine vari lavori, forse con l’aiuto di Vanya…

Partiamo con due slitte, su cui carichiamo un paio di sacchi e il mio zaino, non siamo troppo carichi, in fondo dobbiamo star via meno di due giorni interi. È importante scegliere bene le renne da portarsi, alcune infatti sono più malleabili e disponibili rispetto ad altre, che, come i muli più testardi, spesso rifiutano di portare pesi e semplicemente non si muovono, non corrono, non seguono la direzione impostata da chi le guida. Questa spedizione tra le montagne, ancora più lontano dall’ultimo zimovyo della famiglia di Sasha, al di fuori del loro stesso territorio di caccia, è pensata e organizzata per farmi assaporare un percorso nel cuore delle montagne circostanti, nel folto della taigà, su fiumi e laghi gelati. Sono un po’ preoccupato, infatti non so bene a cosa andremo incontro, temo sempre di dover stare troppe ore all’aperto, di dover superare ostacoli troppo duri, camminare nella neve eccessivamente profonda o trovarmi di fronte a prove cui non sono abituato. In fin dei conti, da quando abbiamo lasciato la ferrovia, ogni giorno di viaggio ha significato spingersi sempre più verso terre inospitali, isolate, fredde, misteriose e sconosciute. Pensavo di aver raggiunto il massimo di questa progressione proprio giungendo qui, invece scopro che sono diretto ancora più in là, oltre ogni limite immaginato. Quasi stiamo

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per raggiungere la parte settentrionale della regione di Irkutsk a piedi, infatti siamo non troppo distanti dai suoi confini. Mi sento come quelli a cui veniva chiesto di oltrepassare le colonne d’Ercole. Dalla capanna dove rimane Sasha dobbiamo seguire il corso del Pravaya Mama, fino alla confluenza del torrente Bultarynda, che proviene dal lago omonimo. Bisogna risalire questo veloce corso d’acqua nel mezzo della taigà, fino al lago sovrastante, accoccolato in una conca tra una cornice di montagne brulle. Questa è la breve descrizione che Viktor mi fornisce circa il percorso da seguire, poi si siede sul bordo anteriore della slitta e si mette a gridare, facendo scalpitare le renne giù dalla discesa. Seryoga Sulla prima slitta siamo seduti io e Viktor, dietro di noi seguono “a ruota” Sergej e Afonya. Le redini della seconda slitta sono affidate proprio a Sergej. Afonya fuma sdraiato. Mentre scendiamo velocemente dalla collina su cui sorge lo zimovyo, mi volto e saluto Seryoga (diminutivo di Sergej), il cui viso mi appare tra gli sbuffi del fiato delle renne. Percorriamo il tratto di foresta tra la capanna e il fiume molto velocemente, le bestie sono fresche e la neve compatta, le slitte scivolano senza problemi. Gli alberi con le chiome incorniciate di neve scorrono a lato del nostro sentierino, le grida dei conducenti si alternano allo scampanellio incessante delle renne. Voliamo letteralmente nella taigà, in un’atmosfera che ha un che di natalizio. Riprendo la scena con la videocamera e, girandomi, immortalo i musi sbuffanti delle renne guidate da Sergej, che mi sorride bonariamente mentre impugna le redini. Seryoga è nato e cresciuto a Uoyan, come Sasha, che è suo coscritto e con cui ha condiviso praticamente tutta la vita. Sasha mi ha raccontato un po’della loro amicizia, insistendo nel sottolineare che, per lui, Seryoga è come un fratello. Hanno fatto anche il militare insieme, probabilmente rischiando di finire in Afghanistan, per poi tornare al paese per trovare la propria strada nella vita. Sergej esagera un po’ con l’alcool, o almeno penso questo, e, dopo qualche anno tribolato, per non farlo finire allo sbando, Sasha lo recluta nella sua famiglia, per aiutarlo nella caccia e nella vita nella taigà. Tra le parole di Sasha e ciò che vedo in questi giorni, mi immagino che sia andata in questo modo. Sergej dimostra molto di più dei suoi quarant’anni, ha il viso scavato, le guance stesse incavate, che lasciano intravedere le fattezze della mandibola e del cranio, la cui forma è accentuata dai capelli rasati. Due occhietti azzurri brillano infossati nelle orbite, spesso eccitati anche dalle vicende quotidiane apparentemente più banali. Indossa sempre una salopette esageratamente spessa, interamente di feltro mi pare, di colore marrone chiaro. È così larga che le sembianze del suo corpo spariscono del tutto, uniformandosi in uno scafandro caldo che lo isola dal mondo. Quando si mette anche il pesante cappello di pelliccia, con i paraorecchi, assomiglia a una specie di orso uscito dal letargo più che a una persona. Nel momento in cui si spoglia, al tepore delle capanne, la magrezza del suo corpo stride con l’enormità vuota della giacca e dei pantaloni che lo avvolgono. Le sue coste si contano senza problemi, ogni osso spunta dalla pelle in maniera sinistra, mostrando i segni di una alimentazione certo non sufficiente. Penso che non si nutra abbastanza per pigrizia, non per mancanza di cibo. Tre mesi nella taigà, passati senza impegnarsi seriamente in nessuna occupazione, portano anche all’accidia culinaria, al pigro rifiuto di cucinare, di impegnarsi per preparare qualcosa da mangiare.

Si muove a scatti, spesso dimenticandosi di finire di compiere qualche azione nel modo appropriato e continuando a imprecare in ogni momento. È Sergej quello che utilizza maggiormente il turpiloquio quando parla. La sua stessa parlata, con parole e frasi intere biascicate alla maniera degli alcolisti, è intrinsecamente connessa alle parolacce. Quando bolle il tè, annuncia a tutti che è pronto in una maniera molto personale: “Chaj gotov, Ura!..Blyad!” (Il tè è pronto! Evviva! Porca puttana!). La stessa inflessione della voce, quando pronuncia la parolaccia finale di questa frase, completamente slegata dal contesto e priva di significato in questo caso, muta improvvisamente, per assumere un’intonazione quasi sacra, a sottolineare l’irrinunciabilità del turpiloquio stesso in ogni momento ed in ogni occasione. In ogni caso, con lui si può parlare, è disponibile al dialogo e mi spiega parecchie cose della vita nella foresta, oltre a vari aneddoti di caccia e di incontri con gli orsi. In fondo Seryoga è un amico, un amico di tutti, pronto a sacrificarsi per i suoi “fratelli”, cresciuto da una madre sola, che lo aspetta ancora a casa, al paese, abbracciandolo ogni volta che ritorna dopo mesi nella taigà. Sergej non è come Vanya, non è ontologicamente pigro e svogliato, privo di iniziativa e ignorante, ma ormai non può fare altro che adeguarsi a una vita che gli è sfuggita di mano e su cui non ha più controllo. Segue le indicazioni di Sasha e vivacchia nella taigà. Ciò che rimane di buono in lui resta sospeso in mezzo alle difficoltà concrete di una vita dura, ma emerge

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comunque dal suo animo, soprattutto quando ci si parla, rivelando in fin dei conti uno spirito positivo, una “buona pasta”. Mentre sostiamo sul Pravaya Mama, appena usciti dalla foresta, vedo che estrae da un sacco una bottiglia di plastica e beve un liquido opalescente, bianchiccio. Fa alcuni sorsi e passa ad Afonya. Quando si accorge che lo sto inquadrando con la videocamera, alza la bottiglia in segno di brindisi e propone un sorso per l’Italia. Ecco svelato il mistero: stanno bevendo. Sergej mi rivela: “È il nostro doping. Oggi la marcia è dura e questo ci aiuta: vodka e latte”. Prima di terminare il video, si affretta a salutare e a celebrare Celentano che, come tutti quelli della sua età, ricorda positivamente: “Noi rispettiamo Celentano in maniera assoluta”. Bianco accecante Sul Mama viaggiamo spediti, sopra al ghiaccio azzurro di questa strada della taigà invernale. Le renne spingono senza fatica, ma l’idillio dura poco: alcune anse del fiume sono piene di neve spessa e le renne, appena iniziano a faticare, smettono di correre e anche di muoversi. Si fermano in mezzo al fiume e sbuffano. Viktor scende dalla slitta e caparbiamente le tira per le briglie, facendole riprendere a marciare, ma appena si siede sulla slitta loro si immobilizzano. Deve quindi, tra imprecazioni varie, condurle a mano, camminando nella neve e rallentando parecchio la nostra velocità. Sembra quasi che le renne intendano procedere solo a patto che l’uomo stesso le guidi nelle stesse condizioni in cui loro devono procedere. Quindi o Viktor si affatica come loro, oppure non se ne fa niente. In questa maniera proseguiamo per circa uno’due chilometri, fino ad un vasto naled. Questo termine non esiste in italiano, indica una crosta di ghiaccio che rimane depositata sopra ad un altro strato di fiume gelato, oppure un nevaio perenne sui fiumi. In questo caso si tratta della prima ipotesi: sul Mama si stende davanti a noi una lunga striscia di ghiaccio sottile, sotto cui scorre una lingua di acqua. Viktor lancia le renne per superare velocemente questo tratto, ma il ghiaccio cede in più punti e la slitta inizia ad affondare, mi bagno uno scarpone, lui stesso si impregna i pantaloni e, dunque, si deve trovare una soluzione al più presto per uscire da questo ostacolo. Ci scostiamo verso riva e decidiamo di scendere tutti e proseguire a piedi, per alleggerire il peso delle slitte. Mi muovo seguendo le tracce degli altri, poggiando i piedi su umidi ammassi di ghiaccio bagnato, scricchiolante e insicuro. Scaglie di ghiaccio azzurrognolo emergono da sotto le scarpe, facendo fluire spruzzi di acqua gelida. Non mi sento per niente a mio agio. Le renne comunque marciano più spedite e, in qualche minuto, superiamo il naled. Corriamo ancora sul fiume per una mezz’ora, fino ad un punto stranissimo, dove una lingua di acqua gelata gialla e marrone esce dalla foresta, sulla sinistra, per gettarsi sopra e dentro al fiume Mama. Pare che dalla foresta qualcuno abbia sbrodolato una minestra colorita che, fuoriuscita dagli argini costituiti dagli alberi, abbia poi invaso il fiume. Fino a metà del corso del Mama si infiltra questa brodaglia gelata, per poi sparire sotto la neve. Si tratta del torrente Bultarynda, sono le sue acque veloci e turbolente che, portando con sé detriti dal bosco, hanno generato questo colorito ammasso di ghiaccio giallognolo. Da questo punto lasciamo il Mama, per proseguire nel folto della taigà, in salita e nella neve. Ci attende qualche ora di marcia faticosa. Il punto più difficile è, però, questo tratto iniziale: le renne sul ghiaccio nudo, liscio e privo di neve, hanno enormi difficoltà a proseguire e slittano ad ogni passo, continuando a cadere e a rialzarsi, puntandosi sugli zoccoli e scivolando inesorabilmente ogni volta, incastrandosi una con l’altra nelle loro stesse corna. A furia di spintoni, parolacce e cadute, tutte riescono a portarsi nella neve del bosco, trascinando le slitte, senza rompersi le zampe. Noi le seguiamo barcollando, ma senza cadere. Seguo Afonya, che con una mano fuma e con l’altra si regge a un bastone. Quando mi giro verso il Mama, che ci ha fatto da strada invernale fino a qui, mi rendo conto della pendenza e della difficoltà di questo tratto sul ghiaccio marroncino, che per fortuna è alle spalle. Proviamo a percorrere la salita nella taigà a bordo delle slitte, ma le renne non ne vogliono sapere. Non si muovono di un centimetro. La neve alta, il percorso tortuoso, i pesi da trascinare sono per loro impossibili. Stiamo camminando sopra al torrente gelato, coperto anche di un bello strato di neve compatta, che però in alcuni punti è cedevole e, ai lati dello strato già battuto dai primi di noi, rende rischiosa la marcia. Non è difficile affondare fino alla vita e oltre, sprofondando con i piedi nell’acqua turbinante del fiumiciattolo sottostante. Una volta mi capita e, per fortuna, bagno solo la parte esteriore dei miei scarponi, lasciando i piedi all’asciutto. Quindi, per facilitare le renne nel loro compito, tutti camminiamo affondando nella neve fino alle ginocchia, stando attenti a non uscire dalla traccia segnata e lasciando alle bestie solo il peso di slitte e zaini. Viktor e Afonya guidano il gruppetto e portano le renne fino al lago Bultarynda. Raggiunta la sommità del pendio che ci impegna da un paio d’ore, la

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foresta si dirada e permette allo sguardo di spaziare su un’area immensa. Alcuni grandi massi, che segnano il confine tra la parte finale del lago e l’inizio del torrente, sono avvolti da un cumulo di neve che li ricopre smussandone le parti aguzze, rendendoli simili a dei giganteschi panettoni sfornati in fila e adagiati vicino al bosco. Da qui vedo l’intero lago, di discrete dimensioni, direi qualche centinaio di metri di diametro. Tutto è avvolto nel grigiore. Nebbia, nebbia e solo nebbia, ad offuscare il sole, a cancellare le sagome dei monti, degli alberi, del suolo, uniformando tutto in una bolla monotona e malinconica. Eppure qualcosa all’orizzonte si smuove, le ore più fredde sono finite e il tepore dei raggi solari inizia a dare dei deboli segni di ripresa. Magari fra un paio d’ore si potrà osservare l’intero paesaggio. La superficie del lago è scalfita solo dalle orme di Viktor, che ci ha preceduti e, dal fumo che si vede sul lato nord-est del lago stesso, è già allo zimovyo ed ha acceso la stufa. Senza le sue impronte mi troverei davanti ad un manto privo assolutamente di segni di riferimento, probabilmente non è mai passato nessuno di qui da mesi, forse dall’inizio dell’inverno. Una tale distesa bianca spiazza il cervello e disorienta: bianco il lago, bianche le poche montagne che si intravedono per ora, bianche le cime degli alberi, lattescente è anche il cielo, immobile, senza vento. All’improvviso mi viene freddo, tremo, capisco che devo continuare a camminare, non posso stare fermo, altrimenti il sudore mi si gela sulla schiena e non promette nulla di buono. Ecco ancora quella sensazione di solitaria angoscia, qui non è possibile ammalarsi, non è possibile chiedere aiuto, non è possibile fermarsi, devo andare avanti e raggiungere l’approdo sicuro, facendomi largo nella neve sulle acque del lago: devo raggiungere il caldo dello zimovyo. Ci metto molto di più di quanto avrei immaginato, ad ogni passo affondo con tutto lo scarpone e , quando arrivo alla capanna, sono stanco, devo sedermi. Qui siamo fuori dal territorio di caccia di Sasha e Viktor, questo zimovyo non è loro, qui siamo ospiti e tutto questo mi viene subito ricordato da Viktor stesso, appena varco la soglia di questa baracca di legno. “Dobbiamo trattare tutto con rispetto e lasciare una riserva di legna” e “Qui non siamo noi i padroni”: queste sono le sue prime parole appena entro. Questa piccola isba è la più minuscola che abbia mai visto: all’esterno per metà è sepolta dalla neve, il tetto mi arriva sotto al mento, la porta d’ingresso mi lascia sbalordito, non avrei mai pensato di riuscire a passarci. Bisogna quasi mettersi in ginocchio per entrare e, una volta dentro, si può solo stare seduti su uno dei due tavolacci/panche laterali, sfiorando con la testa il soffitto. Tra i due posti per dormire c’è un piccolo tavolino. La stufa è a sinistra dell’ingresso e arde di una fiamma arancione. Questa è l’unica cosa importante: fa caldo e posso riprendermi dai brividi. In tutto la capanna è lunga poco più di un paio di metri, larga forse due e alta circa un metro e mezzo. Si tratta di un rifugio di fortuna per un paio di persone, che stanno comunque strette qui dentro. Noi dobbiamo starci in quattro. Gli altri escono in fretta, vanno a pescare qualcosa per la cena, facendo qualche buco nel ghiaccio del lago per tirar fuori dei pesci. Per ora ho solo voglia di riprendermi, riposarmi, quindi rimango da solo nello zimovyo. La pechka scalda molto bene, grazie anche all’ambiente angusto e in breve tempo mi spoglio degli indumenti più caldi, mi rilasso e mi sdraio su una panca, con gli occhi chiusi. Il silenzio assoluto è rotto solo dallo scoppiettio della stufa. Resto così per un tempo indefinito, finché dalla porticina sbuca Afonya con dei pesci da cucinare. Viktor Appena inizia a nascondersi il sole, tutti rientrano nella capanna, creando un intasamento di corpi, mani, braccia, gambe. Per la cena ci dividiamo mettendoci seduti in due per branda, poi Viktor, in preparazione della notte, sradica il tavolo centrale temporaneamente e con alcuni chiodi fissa tra la finestra e le altre panche due travi, realizzando in questo modo un terzo “letto”. Quando ci sdraieremo, ad ognuno sarà assegnato un posticino in cui rannicchiarsi, da dividere spalla a spalla con gli altri. Mangiamo quello che ci siamo portati dietro negli zaini, insieme alla zuppa di pesce fresco del lago. Afonya non ha pulito a dovere il pesce, non cura la stufa con la dovuta attenzione e, in generale, dimentica sempre di fare qualcosa o non lo fa come si deve. Per questi motivi viene quasi continuamente sgridato da Viktor, che in un’occasione, quando Afonya è fuori per la legna, parlando di lui con Sergej dice, con tono serio: “A volte mi viene voglia di picchiare un po’ per bene qualcuno, così poi le cose magari le impara a fare come si deve”. Dalla sua voce si capisce che non scherza, non si sta semplicemente sfogando a parole. Finchè Sasha mantiene il ruolo di capofamiglia, Viktor può solo pensare e proporre, ma non agire in maniera impulsiva. Si può affermare che è in qualche modo controllato dal fratello maggiore. Appare comunque la diversa pasta del carattere di Viktor, istintivo, passionale, soggetto a sbalzi di umore. Il mio amico Volodya di Nizhneangarsk, che mi ha messo in contatto con questa famiglia di cacciatori, mi aveva già avvisato: “Guardati da

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Viktor, il fratello di Sasha. Non è onesto, non è del tutto sincero e affidabile. E gli piace bere. Quando era in vita ancora il fratello più grande e il padre, in qualche modo riuscivano a controllarlo. Ora Sasha fatica a tenerlo d’occhio”. Sinceramente non noto tutta questa negatività in Viktor, anche se non posso dire di averlo conosciuto veramente, poiché sono rimasto con lui solo una settimana. Ogni tanto, quando si beve insieme agli altri, quando si alzano i gomiti per un brindisi, mi guarda e si raccomanda di non dire nulla a Volodya: “Non dirgli che abbiamo bevuto va bene? Non dirgli che ho bevuto in tua presenza.”. Forse queste frasi svelano qualcosa di lui più di mille altri gesti. A guardare le fattezze di Viktor, si nota in lui una maggior presenza dei caratteri genetici russi, dal colore dei capelli a quello degli occhi, alla carnagione più chiara, alla statura più elevata. Magari è per questo che ama anche farsi qualche bicchiere più di Sasha, magari è per questo che è più irascibile e scontroso? Non è possibile dare una risposta univoca, ma di primo acchito posso dire che sicuramente appare come il più russo di tutti i suoi fratelli (tra i quali ho conosciuto di persona solo Sasha, ma ho visto in foto gli altri). Afonya è per Viktor come un pupazzo, un mezzo uomo con cui giocare e scherzare come con un cane. Non lo rispetta e non fa nulla per nasconderlo. È con lui che mostra il lato peggiore del suo carattere, con Sergej, con Vanya e con gli altri non si comporta con questa aria di superiorità. Nei miei confronti è attento e sollecito, mi chiede spesso se tutto vada bene e, quando c’è da fare qualcosa, mi spiega come normalmente avviene ogni gesto in base alla loro vita nella taigà. Si dimostra anche interessato alla vita in Europa, mi riempie di domande sulle condizioni economiche, sanitarie, sociali e in questo il suo interesse mi sembra genuino, non mi pare fingere. Mi racconta spesso di come è bella la taigà a fine estate/inizio autunno, quando gli alberi si colorano di tonalità sgargianti, le zanzare spariscono, la prima neve imbianca i monti e si può stare seduti tranquilli, in riva al fiume Angarà, fumando e guardando il panorama. Viktor è probabilmente l’ultimo discendente della famiglia a vivere nella e della taigà. Dopo di lui, gli eredi di questa stirpe di cacciatori già non sono più legati in maniera inscindibile alla foresta, alle sue leggi e alla sua energia. Alcuni figli di Sasha studiano per diventare impiegati o quant’altro, altri conclusi gli studi torneranno nella foresta, ma comunque non avranno più quel contatto puro e primitivo con questa terra. Hanno conosciuto le grandi città, il sapere, altre genti e un’altra vita e le loro scelte future saranno inevitabilmente influenzate da tutto ciò. Anche qualora decidessero di vivere come il padre, porteranno per sempre dentro di loro un’educazione diversa e una contaminazione di valori.

Quando parlo con Viktor mi viene inevitabile fissare i suoi occhi slavati, vitrei, che mostrano una certa agitazione interiore, forse dettata dalla curiosità di parlare con uno straniero, cosa certo non frequente in queste zone. In questi momenti mi sembra simpatico, ma poi, quando si comporta in modo arrogante, prepotente, sento che non conviene dargli troppa confidenza, forse cela veramente qualche aspetto negativo sotto l’apparente condotta bonaria nei miei confronti. Non lo riesco a capire bene e così nei suoi confronti non mi sbilancerò mai del tutto, restando sulla difensiva, fino al nostro commiato, quando lo saluterò per continuare il mio viaggio.

A pesca Di notte cerchiamo di riposare come meglio possiamo, accartocciati gli uni agli altri su tavole di legno, con le teste appoggiate ai tronchi delle pareti. La cosa più fastidiosa, però, è…il caldo! Sembra incredibile, ma dentro alla capanna si suda, l’aria è pesante e non si riesce a dormire, quindi decidiamo di aprire la porta della piccola isba che ci ospita, dormendo senza più rinnovare la legna nella stufa. Dall’esterno entrano folate di aria a quaranta gradi sotto lo zero, che si miscela con i quaranta gradi sopra lo zero interni, concedendoci un addolcimento della calura insopportabile. Alle sette del mattino, quando fuori è ancora buio, ci alziamo per prepararci alla battuta di pesca, che ci terrà impegnati fino a mezzogiorno, quasi senza alcun risultato ittico. Esco dall’isba per sgranchirmi e mi fermo a fissare le renne che, come le mucche in montagna, mi guardano con fare instupidito e continuano a raspare nel terreno alla ricerca di erbe e arbusti. Il maschio del gruppo è completamente bianco e si mimetizza perfettamente nella neve. Ci metto un po’ ad individuarlo nella zona attorno allo zimovyo. L’alba sta nascendo dietro ai monti e il cielo si riempie di luminosità: è completamente sereno, non una traccia di nuvola, niente nebbia. Ogni minuto permette di osservare una nuova fetta di paesaggio: mi posiziono nel mezzo del lago, vicino alla zona scelta dagli altri per pescare e, attorno a me, si apre a ventaglio una cresta di monti candidi, brulli, del tutto immacolati. L’azzurro del cielo risalta intorno ai profili delle cime, spicca oltre il bianco. Il sole, dal momento in

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cui sorge, non è possibile nemmeno guardarlo di sbieco, tanto è forte il suo potere accecante, moltiplicato centinaia di volte dal riverbero sul lago, sulle montagne, su ogni cosa su cui si è depositata la neve. Le parti più elevate delle catene montuose svettano prive di alberi e di qualsiasi vegetazione, come immense colonne vertebrali di un corpo sommerso nella neve e intrappolato dal gelo. Il lago Bultarynda, adagiato in questa conca chiusa dai rilievi, si gode la tranquillità silenziosa dell’inverno, riposando sotto la sua coperta bianca. Le uniche interruzioni all’uniformità dello strato gelato del lago sono costituite dalle nostre trivellazioni per la pesca. Proviamo lontano dalla riva, vicino, lontano dagli alberi, vicino ai sassi, verso l’ingresso di un torrente nel lago…insomma proviamo in quattro per quattro ore, ma non peschiamo nulla. Nemmeno un pesce. Stare fermi per così tanto tempo, facendo penzolare la lenza con l’esca in un piccolo buco di circa dieci centimetri di diametro, espone in modo violento aggressività del gelo. Ogni cinque minuti bisogna, a mani nude, pulire la parte terminale della lenza dal ghiaccio che si forma nell’entrare e uscire dall’acqua. Questo provoca dolori lancinanti alle dita e poi alle mani intere. Dopo circa un quarto d’ora senza camminare, fermi sopra al buco, iniziano a far male i piedi, poi le guance, il naso, le spalle...la mente si intorpidisce anch’essa, nel suo sterile fissare un vuoto diaframma su una superficie gelata. Quando finalmente un pesce dà segno di sé, tirando la lenza, con colpevole ritardo nei movimenti, a causa degli arti ormai ingessati, mi muovo per tirare con forza la preda dal buco, invano, infatti il pesce ha già spezzato l’esca o la lenza stessa e mi ritrovo con un pezzo di filo di plastica in mano, completamente demoralizzato e infreddolito. Non so perché gli altri non demordano dopo ore di insuccessi, ma dopo tre ore immobile al freddo non resisto più e inizio a camminare, senza meta, solo per scaldarmi, girando in tondo lungo il perimetro del lago. Guardo le montagne sagomate dal “turchese celeste”. Stringo e rilascio mani e piedi all’interno di guanti e scarponi, per far riprendere la circolazione. Ad un certo punto Viktor richiama tutti e decreta la fine di questa farsa gelida: carichiamo le slitte e ce ne andiamo, torniamo allo zimovyo sul fiume Mama. Di nuovo i panettoni di sasso, di nuovo la discesa sul torrente, l’uscita dalla foresta sul ghiaccio insidioso del Mama, la corsa con le renne sul fiume, la grande capanna dove Sasha ci attende con del tè bollente.

A piedi nella taigà Quando finalmente raggiungiamo il grande zimovyo sul Pravaya Mama, mi sembra di essere arrivato a casa. So che qui c’è un grande spazio caldo, del mangiare, altre persone, le motoslitte, i cani, le lampadine… Sasha è intento a mille lavoretti quando arriviamo e, interrompendosi un attimo, viene da me a salutarmi e a chiedermi se mi sia piaciuta l’escursione di due giorni fino al lago. “Se tu sei contento lo sono anch’io”: questa è la sua risposta ai miei commenti positivi. La sera, mentre la stufa borbotta, si fanno gli ultimi preparativi per il giorno seguente, quando tutti torneranno verso la ferrovia con le motoslitte, tranne Afonya e Vanya, designati dalla turnistica di Sasha a restare qui alcuni mesi. Chiedo ad Afonya se abbia abbastanza sigarette per resistere in questo posto privo di rifornimenti: “Sì, ne ho abbastanza, non è un problema”. Questa è la sua laconica risposta. Forse ha un baule nascosto nella capanna oppure confida in Sasha per avere altri pacchetti ad ogni visita, perché è impossibile che abbia portato con sé davvero tutte le sigarette di cui ha bisogno.

In tutto finora sono stati catturati cinque zibellini, un ermellino ed una capra selvatica. Bisogna scuoiarli per bene, prepararli per essere venduti al paese. Durante la serata si predispongono queste pelli, che vanno a finire in un sacco custodito da Sasha sulla sua slitta. Dopo i lavori c’è spazio ancora per la solita partita a carte, condita da parolacce, prese in giro, spintoni e raccomandazioni a chi resta per i compiti da portare a termine in assenza dei “capi”. Afonya stesso prepara un programma che già sa che non porterà mai a compimento e viene sbeffeggiato da tutti. La musica e le sigle di Radio Mayak fanno da sfondo sonoro a questa scenetta, che osservo sdraiato, sul mio letto a molle sfondato. Fuori le renne leccano la nostra urina alla sfolgorante luce della luna. Un cielo stellato senza confini si estende sopra una terra altrettanto vasta, la osserva con migliaia di occhi luccicanti e non può constatare altro se non che è fatta di uomini e storie semplici, senza fronzoli, come quelle che ho vissuto in questi giorni, in questa isba sulle rive del fiume Mama, in questa notte qualsiasi di febbraio.

Il mattino seguente il freddo è deciso. La temperatura si è riportata su valori abituali per febbraio, respingendo gli attacchi del riscaldamento globale. Vado a prendere l’acqua sul fiume e faccio fatica a respirare, l’aria mi prende a schiaffi sulle guance e mi pungola le narici con perfide stilettate. Arrivo fino alla riva e mi riposo. Alzo lo sguardo per l’ultima volta sulle montagne a sinistra del corso d’acqua. L’alba le sta colorando di

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rosa in maniera effimera. Le osservo probabilmente per l’ultima volta nella mia vita, proprio mentre le loro punte si tingono di una fresca tonalità rosata. Le cime degli alberi attorno a me nascondono i fianchi ancori bui dei monti, mentre le creste più alte emergono dal profilo della taigà. La macchina fotografica stenta a scattare più di qualche foto, l’aria è severamente fredda, all’incirca siamo sui quaranta sotto zero. È come se tutti gli elementi principali, che mi hanno accompagnato in questi giorni, si siano radunati per un saluto: il freddo, il silenzio, la solitudine dei luoghi. La giornata è splendidamente tersa, sarà spettacolare fare ritorno allo zimovyo sul fiume Angarà.

I cacciatori hanno capito che oggi sto soffrendo il freddo e mi propongono, per scaldarmi, di inoltrarmi da solo a piedi per la pista delle motoslitte, finchè non mi raggiungeranno e balzerò su di una slitta con loro. Accetto volentieri, ma prima mi assicuro che non ci siano possibili bivi lungo il percorso, per non rischiare di sbagliare strada e finire chissà dove nella foresta. Sasha mi assicura che l’unica traccia di motoslitta in zona, è quella lasciata un paio di giorni fa proprio da noi, quindi basta seguire quella e non mi posso perdere. Loro, intanto, finiscono di preparare tutto per il rientro, mi raggiungeranno strada facendo. Accetto di incamminarmi da solo anche perché so che d’inverno gli orsi sono in letargo, altrimenti non penso avrei acconsentito ad allontanarmi. Rimangono i lupi… La passeggiata nella taigà è speciale, è un bel regalo prima di lasciare questi posti. Il sole mi massacra gli occhi, non c’è posto in cui il riverbero dei raggi non riesca a raggiungermi. Per guardare il panorama bisogna coprirsi il volto con una mano, per schermare almeno qualche bagliore. Tenere gli occhi normalmente aperti è impossibile, un dolore fisico lo impedisce. Sono perennemente socchiusi. Cammino per quasi due ore. Ormai mi sono scaldato e non sento più l’atroce abbraccio del gelo. Riesco anche a camminare per un po’ senza guanti. A un certo punto mi fermo, per sentire il rumore dei motori delle motoslitte in arrivo. Nulla. Strano. “Ormai dovrebbero essere qui, cosa stanno facendo?”mi chiedo. Nel frattempo mi soffermo a godermi il paesaggio, i profili di piante e rocce resi ondulati dalla neve, la distesa bianca muta, le montagne circostanti il lago Amut, che ormai già intravedo da lontano. Nessun rumore, nessun suono, niente di niente. La taigà sembra essere senza vita nella sua veste invernale. Parlo ad alta voce, grido, resto in attesa di un’eventuale eco, senza risposta. All’improvviso sento ronzare un motore e in pochi secondi Sasha sopraggiunge, facendomi cenno di sedermi sulla sua slitta. Sasha Appena Sasha riparte mi vengono i brividi. Non per il freddo in sé, ma perché capisco che fa così freddo che non so quanto potrò resistere. Un conto è muoversi a piedi, un altro spostarsi con un mezzo che, seppur lento, fa mulinare aria attorno al corpo. Siamo anche sul lato ancora in ombra del lago Amut e la cosa è straziante. Ad ogni secondo sento la pelle della faccia irrigidirsi, le ciglia, le labbra e gli occhiali si riempiono di un pulviscolo bianco, neve fine e farinosa, quasi tagliente. Tengo gli occhi chiusi ma mi sembra di sentire che entri della polvere lo stesso, li apro e lacrimano gocce che solidificano all’istante sulle ciglia stesse. I piedi fanno subito male, come se non fossero avvolti da plurimi strati spessi di cuoio, feltro, lana. Le mani sono purpuree, anche se continuo a muoverle dentro le moffole che mi hanno dato. Ecco lo zimovyo sul lago. Sasha rallenta per una sosta. Meno male, sono sfinito e abbiamo percorso forse un chilometro, forse due o tre? Mi rintano al caldo della stufa appena accesa e guardo la foto che mi sono scattato prima di entrare: sopracciglia, cappello, sciarpa, ciglia, bocca, naso, tutto è avvolto nel vapore congelato del mio fiato. Minuscole pagliuzze sono appiccicate ad ogni pelo o filo di tessuto attorno al volto. Rimaniamo un po’ nella capanna, almeno il tempo per permettere al sole di irraggiare anche questa parte della foresta, così non sarà tremendamente gelido muoversi. Esco e cammino per far fluire la vita negli arti: muovo gambe e braccia, corro, faccio movimenti per scaldarmi. Indosso il passamontagna per proseguire e una ulteriore calzamaglia sulle gambe, oltre ai pantaloni imbottiti, jeans felpati e alla calzamaglia di lana già presente. In questo modo e con il sole “a favore”, riesco a sopportare meglio gli spostamenti in motoslitta. Per tutta la giornata viaggio in compagnia di Sasha, che a volte si attarda rispetto a Viktor per controllare meglio qualche trappola, posizionarne una nuova, scrutare la foresta in cerca di qualcosa. È lui ora che, dopo la morte del padre e del fratello maggiore, porta avanti la famiglia, ne ha la responsabilità morale e ne costituisce la guida. Spesso è assorto nei suoi pensieri, come se vivesse in un’altra realtà, ma all’improvviso mi domanda qualcosa di molto preciso, di tangibile, collegato ad un discorso che magari sto facendo con Viktor o a qualcosa che gli è rimasto in mente da precedenti chiacchierate. Volodya, il mio amico che vive sul Bajkal, non parla male di lui, ma nemmeno lo stima molto, mi ha detto chiaramente che non ha lo stesso polso del padre sui suoi uomini e

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familiari. Forse non è un leader, forse non ne ha la stoffa, ma è sicuramente la persona più equilibrata del gruppo, la più seria. Si è trovato in questa posizione e, secondo me, cerca di svolgerla nel migliore dei modi. Il suo sguardo è spesso molto serio, perso nei pensieri della vita quotidiana, ma Sasha non è scorbutico, indisponente, antipatico, è semplicemente il suo carattere e l’educazione che ha avuto che lo rendono così. Si ferma decine di volte lungo la pista più larga che porta all’Angarà, mostrandomi le orme sulla neve di vari tipi di bestiole, senza riuscire a farmene riconoscere nessuna. Ci vuole tempo per queste cose, tempo e pazienza, doti che certamente sono nel bagaglio personale di quest’uomo, che da almeno trent’anni convive con le leggi della taigà. Mentre corriamo spediti verso una curva, si ferma repentinamente con la motoslitta e mi fa cenno di scendere, ispeziona a destra e a sinistra della pista e mi fa vedere le orme degli zibellini, che in questo punto attraversano spesso la strada. Lui segue le impronte anche nel bosco, per alcuni metri. Si volta verso di me e dice: “Qui ne passano molti. Si vede”. Estrae da una borsa una trappola e va a posizionarla proprio sotto alla neve dove passano gli zibellini. Non sfiora nemmeno il manto nevoso su cui si scorgono le sagome delle zampette, riesce a posizionare la trappola senza muovere una pianta e nemmeno la neve, per non far insospettire gli animali. Con un piccolo coltello scava nella neve, inserisce la tagliola sotto di essa, poi strappa un rametto da un albero vicino e lo posiziona vicino a dove ha sistemato il tutto, a ulteriore nascondiglio del pericolo mortale per il prossimo zibellino che passerà di qui. Torniamo alla slitta. Attorno a noi tutto è uguale, come per centinaia di metri prima e dopo di questo punto. Mentre glielo chiedo, Sasha sorride e risponde: “Certo, non ho alcuna difficoltà a ricordarmi esattamente la collocazione di questo punto”. Si mette il berretto di pelliccia e riparte. Poco prima del tramonto arriviamo all’Angarà, dormiremo nello zimovyo della prima notte. Viktor e Sergej sono già dentro a preparare la cena e a scaldarsi. Sasha non entra, vuole prima controllare le reti per la pesca, posizionate presso le anse del fiume. Decido di aiutarlo. Dopo giorni dalla nostra ultima permanenza qui, il ghiaccio si è notevolmente ispessito ed entrambi facciamo una faticaccia tremenda a sgretolare il nuovo strato formatosi sul buco. Ad un certo punto lascio perdere, mi riposo un attimo. Lui invece non demorde, continua ad estrarre con il retino di metallo pezzi grossi di ghiaccio pesante, per liberare la rete. Quando finalmente finisce, solleva il palo che tiene la rete ed ecco che una decina di pesci guizzano spaesati sulla neve dell’Angarà, alcuni pronti per essere cucinati, altri per essere venduti l’indomani al paese. Mentre lo riprendo con la videocamera, gli chiedo: “Vuoi dire qualcosa?” e lui replica: “Voglio dire che oggi abbiamo fatto una buona pesca. Ci sazieremo, non sentiremo la fame per oggi”. Risponde con queste semplici parole, con il sorriso sulle labbra, soddisfatto per il risultato del suo lavoro. Non dice nemmeno una parolaccia, è l’unico della famiglia che riesce a parlare anche senza turpiloquio. Quando si sveglia al mattino, in ogni punto della foresta, anche nella capanna più remota e ogni volta che si toglie il cappello dopo averlo indossato un po’ di tempo, estrae un pettine da un taschino della giacca e si sistema i capelli, per essere sempre in ordine. Gli altri sono sempre tutti arruffati, spettinati, tendenzialmente sporchi e trasandati, il capo famiglia no, mantiene un proprio stile sempre e comunque.

Sasha compie il suo dovere fino in fondo, anche a costo di essere sudato, rosso in volto e stanco come adesso. Sergej e Viktor sono nel caldo della capanna. Questa è la differenza tra di loro. Sasha tiene unita la famiglia, delinea gli obiettivi da raggiungere nel futuro, decide, insieme agli altri, come usare le risorse del presente. La strategia da seguire, i mezzi per portarla a termine, le responsabilità da dividere, sono incombenze quotidiane che il capo deve saper affrontare. Quanto resisterà la sua protesi in queste condizioni di vita? Riuscirà a trovare qualcuno per il prossimo inverno, per rimanere nello zimovyo più isolato a badare alle renne? Riuscirà il branco a riprodursi e a crescere di numero? Arriveranno nuove motoslitte? A queste domande non c’è fretta di rispondere, è inutile pensarci ora, sarà la vita, sarà la taigà, insieme all’impegno e alle capacità di Sasha, a dare una soluzione adeguata ad ognuna di esse, e sarà certamente la risposta più giusta. Uoyan

Passiamo l’ultima notte nella foresta. Ci si rilassa, si chiacchiera, si parla della gente e degli amici del paese, dove Sergej sta per fare ritorno dopo più di tre mesi. Viktor mi invita a fare ritorno quando voglio, magari d’estate, per nuove avventure nella foresta. C’è anche tempo, l’indomani mattina, per una veloce battuta di caccia, infruttuosa, fucili alla mano. Resto nella capanna mentre gli altri escono in cerca di prede, per tornare dopo un paio d’ore

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bestemmiando contro i bracconieri che, a dire dei miei amici, hanno fatto piazza pulita nella taigà. Il sole splende sull’Angarà. Il gelo abbraccia forte uomini e animali, piante e corsi d’acqua. Mi volto verso i monti che ho valicato e in cui ho vissuto negli ultimi giorni, per salutarli da lontano. È ora di andarsene, è ora di proseguire nel mio viaggio in Buryatiya. I sacchi con le pelli e le trappole sono ammucchiati vicino alla Lada Niva, che da una settimana è parcheggiata sopra al fiume. Ci mette un po’ a ripartire, ma funziona. Superiamo il dosso lungo la riva opposta e siamo nella foresta. L’Angarà è ormai alle spalle. Ci vuole un’ora per raggiungere la massicciata della ferrovia. Quando ci arriviamo, sostiamo un attimo per far fumare Sergej, nervoso per l’avvicinamento alla civiltà dopo mesi di solitudine. Accende una sigaretta e si mette in disparte, guardando fisso verso est, là dove si intravedono gli ultimi vagoni di un immenso treno merci che è appena transitato di fianco a noi. Mentre scorrono i carri sulle rotaie, il rumore è assordante e stordisce. Ognuno fissa un punto e non muove lo sguardo da lì, come se fosse in uno stato di trance. Il ritmico frastuono del treno in corsa sostituisce il suono del tamburo degli sciamani, che per secoli è riecheggiato nella foresta, ottenendo lo stesso risultato. La taigà per ora resiste, porta avanti le proprie leggende e forma ancora i suoi uomini.

Raggiungiamo in auto Uoyan, paese natale di tutti i miei amici cacciatori. Sceso dal fuoristrada resto incantato davanti alla vista che mi si prospetta: qui le montagne sono così vicine al centro abitato, che sembrano incombere su di esso dall’alto. Sono lì maestose e belle, piene di neve, investite dalla luce del tramonto. È una visione così bella che non riesco a fotografare, rimango inebetito, poi gli altri mi fanno fretta per entrare in cortile e mi estirpano da questa magnifica vista. La casa di Viktor è spaziosa ma gelida, dopo una settimana senza riscaldamento acceso. Mentre nelle stanze si diffonde un po’ di tepore, a turno ci si rilassa nella sauna esterna, portata a una temperatura di circa cento gradi. Quando esco dopo essermi lavato, la differenza è di centoquaranta gradi. Cammino sulle assi dell’orto indossando solo le mutande. Ho accumulato così tanto caldo che non percepisco la temperatura esterna. Non mi affretto nemmeno verso la casa, cammino tranquillamente. A cena c’è anche un cugino e la moglie di Sasha. La vodka non manca, anche se nessuno esagera, ma siamo stanchi e gli effetti si fanno sentire comunque. Sergej mi prende il taccuino e ci scrive sopra una dedica a nome dei cacciatori di Uoyan. Viktor rinnova l’invito a tornare presto. Sasha dice che sono una buona persona e, anche se tra di noi ci sono ovviamente delle differenze, gli ha fatto molto piacere conoscermi e sapere che lontano da qui ci sono persone semplici come loro. Ricambio i complimenti, ringraziandoli ancora tutti per l’esperienza che mi hanno fatto vivere.

Novyj Uoyan – stazione Alle cinque del mattino, dopo qualche ora di sonno profondo, con ancora i postumi della vodka da smaltire, l’unica cosa che non intendo fare è alzarmi e ancora meno uscire di casa. Purtroppo devo farlo, per portare a termine l’altro obiettivo del mio viaggio. Il martellante e robotico risuonare della sveglia mi fa aprire gli occhi, ma il corpo, sfinito e al caldo sotto le coperte, rimane incollato al letto. Naturalmente la sera prima non avevo alcuna intenzione di sistemare lo zaino e devo farlo ora, gettandoci dentro alla rinfusa tutto. Devo fare estrema attenzione almeno a non dimenticare nulla. Viktor è già in piedi e mi prepara un tè ustionante, che non riesco nemmeno a sorseggiare. Gli ho chiesto di accompagnarmi in stazione, per facilitare il piano che ho in mente. Alle cinque e venti un taxi (cioè il solito uomo o ragazzo che per arrotondare trasporta persone nella sua auto) aspetta fuori dal cancelletto, lascio la casa di Viktor e insieme partiamo per la ferrovia. Ci sono quarantaquattro gradi sotto lo zero e mi rifugio volentieri nell’abitacolo della macchina. Novyj Uoyan dista qualche chilometro dal vecchio paese di Uoyan, da cui ha preso il nome quando è arrivata la BAM, ma questa breve distanza è sufficiente al tassista per sciorinare il suo intero vocabolario di parolacce e volgarità. Impreca per la strada, per il freddo, per il telefono, impreca anche solo per imprecare e basta. Mi hanno confermato che alle sei e venti dovrebbe partire il treno rabochij (treno per operai, come quello preso per arrivare qui dal Bajkal), di cui ero riuscito ad avere notizie prima della partenza dall’Italia, diretto a Taksimo, attraverso la deviazione montana di Severomujsk. Ho intenzione di prenderlo per osservare questa mitica ascensione ferroviaria nei monti sopra al tunnel in cui, solo dal 2003, passa la linea principale della BAM. I lavori per realizzare il tunnel attraverso la catena montuosa di Severomujsk sono iniziati nel 1977 e sono terminati il cinque dicembre 2003. Le condizioni geomorfologiche del terreno in cui gli ingegneri hanno dovuto lavorare sono orrende e rappresentano una situazione unica al mondo, per cui sono state studiate soluzioni pensate unicamente per quest’opera. La ferrovia passa infatti sul terreno permanentemente gelato, in una zona fortemente

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sismica (circa quattrocento terremoti l’anno) e ricca di laghi e acque sotterranee. L’accumulo di gas radioattivi nelle rocce ha rappresentato un ulteriore problema. Prima di realizzare la vera e propria galleria di quindici chilometri (il tunnel ferroviario più lungo in Russia) si è dovuto fare i conti con le acque interne alla montagna, che sono state fatte gelare iniettando una miscela particolare di liquidi. Uno degli stop più lunghi ai lavori è stato dovuto proprio ad un incidente del 1979, in cui si riversarono in galleria le acque di un lago sotterraneo, uccidendo alcune decine di operai. A causa del prolungarsi sine die dei lavori di realizzazione del tunnel, si decise di costruire una variante di percorso attraverso le montagne, per poter garantire comunque la percorrenza dei treni da ovest ad est e viceversa su tutta la linea, costruendo una specie di Stelvio ferroviario, con pendenze pericolose, ponti audaci, veri e propri tornanti e serpentine sospese sulle valli sottostanti. Il mio obiettivo è di vedere da vicino questo percorso alternativo, tenuto sempre in funzione, nonostante l’esistenza del tunnel, per ragioni strategiche in caso di problemi, incidenti o lavori nella lunga galleria sotto le montagne. Il mio intento è, a dir la verità, ancora più ambizioso: voglio fotografare e registrare l’ascesa al passo ferroviario nella migliore visuale possibile, cioè dalla locomotiva. È arrivato quindi il momento di provare l’autostop di secondo genere, come descritto nei libri dei miei amici dell’Accademia dei Viaggi Indipendenti di Mosca: voglio farmi dare un passaggio dai macchinisti e provare il famoso treno-stop. La compagnia di Viktor è strategica, mi serve infatti una persona del posto che possa in prima battuta relazionarsi con i macchinisti, per rompere il ghiaccio, spiegare chi sono e cosa intendo fare. Giunti in stazione controllo che sul cellulare ci sia la linea del mio operatore russo e mi fermo per un minuto all’esterno perchè, anche se tremo per il freddo, devo chiamare mia moglie per salutarla e dare un cenno di vita, visto che non riesco a comunicare da più di una settimana e, una volta sul treno, quasi certamente la linea tornerà ad essere assente in questi luoghi semi-disabitati. La telefonata ha successo, in Italia sono le due del pomeriggio, dunque non ho svegliato nessuno. Essendo ancora presto, aspettiamo nella vuota e fredda (ma non come all’esterno) sala d’attesa di questa mitica stazione, già da me fotografata e visitata poco più di un anno prima, in occasione della crociera ferroviaria Tradate – Sakhalin e ritorno. Attendo tranquillo, ormai ciò che mi premeva di più (la telefonata) è stato fatto e quindi la giornata potrà solo volgere al meglio. A un certo punto l’altoparlante annuncia che il treno rabochij è pronto al binario uno. Viktor esce per compiere la sua missione e torna da me senza dirmi nulla, mi fa solo cenno di seguirlo. Per legge i macchinisti che prendono con sé dei terzi estranei sulla locomotiva sono passibili di licenziamento in tronco. Ma ci sono tante leggi al mondo, e i Paesi migliori sono quelli in cui una cosa è quello che c’è scritto in qualche codice e un’altra è la vita di tutti i giorni. Tra questi paesi c’è la Russia e, in misura minore, ma spero per ancora molto tempo, l’Italia. Supero l’unico vagone adibito al trasporto passeggeri di questo miniconvoglio e mi dirigo alla locomotiva, tra fumi di vapore, luci accecanti dei lampioni e neve scricchiolante. È tutto veloce, confuso, sono agitato ora, non capisco bene il susseguirsi degli eventi. Viktor dalla banchina mi indica ad uno dei due macchinisti. Faccio in tempo solo a chiedergli “Tutto a posto?!” e lui mi dice di salire, di sbrigarmi. Ci salutiamo in fretta, lo ringrazio ancora e lo lascio. Con la mano destra afferro il corrimano esterno alla locomotiva “Ermak”, piego e sollevo un ginocchio e...sono dentro allo scuro ventre della motrice. È un attimo, ma è uno dei momenti più significativi di questo viaggio e di tutti i miei viaggi in Siberia. Un attimo che rimarrà indelebile per sempre nella mia storia siberiana. Il mio primo passaggio in locomotore, sulla BAM, per il passo di Severomujsk. Tutto quello che ho pensato e studiato a tavolino a casa si sta realizzando, sta a significare la bontà del mio percorso di preparazione, delle mie ricerche, delle mie letture e delle mie amicizie, tra cui la gente russa dell’AVP (Accademia dei Viaggi Indipendenti) che ha contribuito a rivelarmi un intero mondo e nuove modalità di viaggio indipendente. Con immensa soddisfazione deposito lo zaino a terra nello stretto corridoio della locomotiva e varco la soglia calda della cabina di pilotaggio. Sono al posto giusto al momento giusto. Tutto è perfetto, è la solita sensazione che si prova in questi frangenti. Saluto e ringrazio umilmente per l’opportunità concessami e inizio a parlare con entrambi i macchinisti, che si rivelano subito cordiali e simpatici. C’è anche un altro individuo in cabina, che non saluta e mi guarda con sospetto e, forse non capendo subito che parlo russo, biascica rivolto agli altri qualche parola sulla possibilità che sia un terrorista, di non fidarsi di me ecc.ecc. Per fortuna scenderà di lì a poco in un punto in cui alcuni operai stanno lavorando sui binari.

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Trenostop Ed eccomi su un locomotiva elettrica delle ferrovie russe, sulla leggendaria BAM, in direzione del passo di Severomujsk. La fermata in cima al percorso, dove si scollina, è posta a 1200 metri di altitudine e si chiama proprio così: “passo (pereval)”. Novyj Uoyan è una delle stazione di cambio della brigata di macchinisti sulla BAM, la prossima è Taksimo, quattrocento chilometri più ad est e termine della corsa di questo treno. Ci vogliono dodici ore per percorrere questo tratto con questo convoglio, visto che ha una valenza più che locale, cioè ferma in tutte le stazioni, inoltre in tutti i punti di fermata (in Italia non esistono punti del genere, sono semplici paletti con indicazione chilometrica posti in mezzo al nulla, ma che valgono anche come possibili fermate dei treni) oltre che in qualunque altro luogo lungo la massicciata in cui ci siano operai da caricare o scaricare. I macchinisti viaggiano sempre in coppia, uno lavora all’andata e uno al ritorno del tratto di loro competenza. Più o meno ogni duecentocinquanta chilometri su ogni linea c’è un punto di cambio dei macchinisti stessi. Entrambi questi lavoratori sono di Taksimo, quindi stanno tornando a casa, dopo quasi tre giorni di lavoro. Possono condurre un treno merci, passeggeri, un treno di operai come questo, non importa, ogni duecentocinquanta chilometri c’è una stazione di cambio della guardia per altri due addetti alla locomotiva. Alla guida ora c’è Oleg, un uomo vivace sui quarantacinque/cinquant’anni, mentre sul sedile di sinistra, al posto di riposo/aiutante è seduto Egor, un ragazzo di venticinque anni simpatico e divertente, che ha guidato nel senso opposto all’andata del loro turno di lavoro. Non è difficile con queste due persone chiacchierare e divertirsi per tutto il tragitto, l’unica cosa poco piacevole è lo stare seduti così tanto tempo su un minuscolo seggiolino estraibile posto al centro della cabina, ma non è un grande inconveniente, l’importante è che sto viaggiando sulla locomotiva! Per circa tre ore viaggiamo nell’ombra, prima in quella della notte e poi in quella delle montagne che ci circondano fin proprio a lambire la linea ferrata. La BAM si incunea in una valle stretta tra due fila di montagne, splendidamente imbiancate di neve e assolutamente prive di segni della presenza umana (tralicci, strade, paesi). L’unica opera dell’uomo è la ferrovia che sto percorrendo. Ci fermiamo decine e decine di volte per scaricare gli operai delle ferrovie russe, che iniziano una dura giornata di lavoro all’aperto, sui binari o nelle vicinanze, per controllare la massicciata, i binari stessi e le loro giunzioni, per eseguire insomma lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria. Sono semplicemente un mito. Senza di loro la linea non potrebbe essere mantenuta in esercizio. Presso Angarakan la BAM è uno spettacolo: dal binario unico si propagano quattro o cinque coppie di rotaie parallele che riempiono la valle, sormontate dalla ragnatela della linea elettrica; ai lati le montagne precipitano quasi sui binari, soprattutto sul lato destro degli stessi. Davanti la strada è sbarrata dalla catena montuosa. Tutto è dipinto di bianco, neve candida mai sporca, abbondante e assolutamente decorativa. Sostiamo parecchio in attesa di altri treni in manovra e di qualcuno in arrivo dalla lunga galleria, che da questa stazione non si vede ancora. Da qui, sulla destra, parte la diramazione per il percorso alternativo sui monti, nel momento stesso in cui lasciamo la linea principale della BAM. Verso le nove del mattino il sole comincia a superare le vette delle catene montuose attorno a noi e illumina una splendida giornata, incorniciata da un cielo del tutto privo di nuvole. Il semaforo in fondo scatta sul verde e Oleg spinge la locomotiva avanti. Inizio a filmare e a fotografare. Il ponte dei diavoli La deviazione è lunga in tutto sessantatre chilometri. È stata realizzata tra il 1985 e il 1989, mentre in precedenza, tra il 1982 e il 1983, era stata realizzata una deviazione più breve, di circa venticinque chilometri, ma più pericolosa, con pendenze fino al 40‰ (dislivello di quaranta metri in un chilometro). Si dice che i macchinisti tenessero le porte aperte della locomotiva, per gettarsi fuori nel caso in cui perdessero il controllo dei convogli proprio a causa dell’eccessiva pendenza. Sono, però, solo delle voci. Di sicuro, in quegli anni come oggi, i lunghi treni merci venivano divisi e sospinti da molte locomotive per superare questa breve distanza. La circolazione dei passeggeri era proibita e le persone venivano portate da una parte all’altra a bordo di autobus, su una strada di servizio realizzata apposta per la costruzione della ferrovia. Ora le pendenze sono più dolci, ma comunque molto impegnative.

Ad oggi la velocità su questa deviazione montana è di circa venti chilometri all’ora. Permane il pericolo di valanghe sulla massicciata, che è protetta in alcuni punti, mentre in altri no. Sono state realizzate due gallerie e

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alcuni ponti. Un tunnel è particolare: al suo interno il treno effettua un percorso in salita e inverte la marcia di centottanta gradi, l’ingresso e l’uscita del tunnel stesso sono ad altezze notevolmente differenti. La salita è spettrale, non c’è quasi nemmeno un albero e tutto è coperto dalla neve. Il viadotto più interessante, strano e pauroso è posto all’inizio del percorso. È il ponte dei diavoli: è lungo trecentosessanta metri e poggia su stretti piloni di quaranta metri, posti sulla valle del fiume Itykit. Attraversarlo a velocità ridotta, d’inverno, osservando tutto frontalmente dalla locomotiva lascia senza fiato. Sembra di viaggiare nel vuoto. Ogni galleria e ponte, come sempre e ovunque in Russia, è presidiato da una guardia, per ragioni di sicurezza. Anche qui sono presenti, in questa tundra montana semideserta e inospitale. I macchinisti mi dicono di non filmare o fotografare quando passiamo vicino ai loro gabbiotti, perché possono insospettirsi e comunicare alla direzione locale delle ferrovie la presenza di una persona a bordo della locomotiva che sta facendo riprese video-fotografiche e, al termine della marcia del treno, potremmo trovarci di fronte la polizia per dei controlli e delle misure repressive nei confronti miei e dei macchinisti stessi. Chiaramente mi adeguo e, quando passiamo nei pressi di queste guardie, nascondo sotto le gambe il marsupio con videocamera e macchina fotografica. La strada ferrata continua con molte serpentine, proprio come i tornanti di una strada alpina, poi ci sono tratti diritti in cui è ben visibile la pendenza elevata, quindi si fiancheggiano le montagne, fino a giungere a un gruppetto di laghi presso il punto di scollinamento. Sono laghi di acqua calda, termale, non gelano mai segno evidente dell’attività vulcanico-sismica del sottosuolo. Il paesaggio è accecante e i macchinisti indossano sempre degli occhiali da sole. Giunti al piccolo insediamento di Pereval (il passo), sostiamo a lungo prima di ripartire. In questo momento ne approfitto per farmi fotografare alla guida della locomotiva, al posto del macchinista.

La cabina della locomotiva è spaziosa, con due sedili comodi, simili a poltrone, per i due addetti alla circolazione. Tra i due sedili, per tutta la lunghezza frontale del locomotore, c’è un pannello di comando con decine di pulsanti, spie ed indicatori, ma alla fine ne vengono meno di dieci. La radio trasmette musica commerciale come al solito. Un enigmatico volante al posto di guida mi lascia perplesso, non serve di certo a cambiare direzione, siamo sui binari! Durante la marcia una voce registrata continua a ripetere tutto ciò che si sta per incontrare sulla ferrovia, come un navigatore satellitare. Vengono annunciate le fermate, le distanze da percorrere e percorse, la tempistica dell’orario, l’avvicinarsi di ponti e viadotti. C’è una leva per la propulsione simile a quella degli aerei e uno strano aggeggio che ruota su sé stesso e viene spesso utilizzato. Appositamente non faccio troppe domande sul funzionamento del mezzo, per non creare possibili imbarazzi su ciò che si può e non si può dire ad un estraneo, visto che la Russia è spesso la terra dei segreti. In compenso parliamo di questa fantastica diramazione, delle sorgenti di acqua calda, del clima e della vita da macchinista. Poi è il mio turno per rispondere alle domande sull’Italia e sul mio lavoro, su possibili mete turistiche per vacanze in Europa...un macchinista guadagna circa quarantamila rubli (mille euro con il cambio del 2011) e non se la passa male. Puteitsy I puteitsy sono gli eroi della ferrovia. Sono gli operai che trasportiamo e raccogliamo durante la giornata lavorativa. Il termine deriva da put’ (direzione, strada) e significa letteralmente “quelli che sono per strada”, cioè in concreto chi lavora lungo la ferrovia. Lavorano in gruppi variabili, ma di solito non sono più di una decina. In ogni gruppo c’è un responsabile e tutti sono individuabili dalle sgargianti casacche arancioni che portano sulle giubbe imbottite, sporche e stracciate in più punti a causa dei lavori che fanno. Ogni centimetro di ferrovia è ispezionato e controllato, riparato, sostituito, cambiato ogni giorno. D’inverno con ogni condizione atmosferica si lavora all’aperto, ogni tanto questi operai improvvisano dei falò per scaldarsi, ma in genere sono alla mercé delle temperature rigide dell’inverno siberiano. Qui oltretutto siamo anche in montagna. Per legge non possono bere, ma come si fa a non scaldarsi mai le budella durante otto ore passate in questo modo? Spesso si vedono borracce e fiaschette penzolare dai pantaloni o dalle tasche di questi uomini forti, robusti, dall’atteggiamento serio e dallo sguardo inespressivo. Se non si superano certi limiti, ovviamente nessuno controlla il contenuto di quelle borracce. Mentre li osserviamo dall’alto della locomotiva, siamo concordi nel dire che questi uomini vanno rispettati profondamente, fanno un lavoro duro ed essenziale per pochi soldi, sopportando queste condizioni con spirito di sacrificio. Certamente non sono entusiasti di questa situazione lavorativa, ma spesso non c’è altra scelta in queste zone. Come dice Sasha “A parte la ferrovia non c’è nessuna seria istituzione che possa offrire lavoro qui”. Ci sono,

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però, anche persone che sono orgogliose del loro lavoro, che si sentono investite di una missione lungo la ferrovia, per far vivere la BAM. Leggo, su un giornale locale, la descrizione di una giornata di lavoro di una brigata di puteitsy proprio nei giorni in cui mi trovo qui e l’intervista la capo squadra conferma questa mia impressione. Egor e Oleg salutano ogni gruppetto che carichiamo da metà pomeriggio in avanti, operai che hanno terminato il turno e tornano a casa salendo sul vagone dietro alla nostra locomotiva. A fine giornata hanno le facce sporche, stanche, avvolte nel fumo dell’ennesima sigaretta, con gli occhi nascosti sotto la visiera del caschetto di protezione. Alcuni sono seduti per terra sopra agli attrezzi (il contatto diretto con il suolo gelato non è raccomandabile) e quando ci fermiamo si alzano lentamente, recuperano pale, picconi, chiavi inglesi giganti e salgono al caldo della carrozza. Oleg ha passato la giovinezza negli anni ’80, quando i miti dei giovani erano la musica italiana, su tutti Celentano e gli altri della solita banda apprezzata in Russia. Ricorda quegli anni e lo stereo con cui girava per il paese, mentre ancora si finiva di ultimare la BAM. Non è malinconico, ride e si compiace nel ricordo di quegli anni. Mi chiede di parlargli degli aspetti economici e sociali della vita in Italia e cerco di soddisfare ogni sua domanda. Con Egor i discorsi partono da un tono serio e, man mano che ci conosciamo, scivolano su argomenti più frivoli, fino a toccare le donne e il bere, temi che lo fanno divertire parecchio. A metà giornata, quando abbiamo già parlato di molte cose e ci siamo, per così dire, “conosciuti”, mi propone di cenare a casa sua la sera, quando arriveremo a Taksimo. Perfetto, accetto molto volentieri. Lui chiama la moglie, a casa con un bambino di qualche mese, per dirle di preparare qualcosa di diverso per la cena. Nel parlare di alcolici, di cosa si beve in Italia e di cosa penso della vodka, i due macchinisti mi raccontano dei controlli a cui sono sottoposti sul lavoro: devono fare un controllo (presumo l’etilometro) quando arrivano sul posto di lavoro, immediatamente prima di iniziare il servizio sulla locomotiva e al termine del turno stesso. Anche questo rende l’idea della diffusione in Russia dell’alcolismo e, in generale, della dedizione all’alcool. Si capisce subito che a Egor piace bere, anche se sul lavoro mi pare serio e responsabile, ma magari senza tutti questi controlli... Ladri d’oro La discesa dal passo è più lineare, ma non di molto, rispetto al percorso estremamente tortuoso della salita da Angarakan. A Severomujsk ci ricongiungiamo con la linea principale della BAM, che esce dalla galleria omonima. Da qui fino a Taksimo proseguiamo in una pianura sempre più ampia, attraversata dal largo fiume Muya e dal Muyakan. La ferrovia procede dritta, in mezzo a qualche betulla e parecchie conifere, in un lento incedere verso est. La vista frontale del binario unico della BAM, in mezzo agli alberi di quest’area disabitata, lascia senza fiato, rappresenta per me l’essenza stessa di questa ferrovia. Ore 18.30: il treno termina la corsa, siamo a Taksimo e, per la prima volta da quando viaggio in Siberia, scendo da un treno dalla locomotiva. Per lasciare un buon ricordo, regalo simbolicamente una piccola somma di rubli ai due macchinisti, per prendersi una buona bottiglia e bere alla mia salute. Egor deve cambiarsi, compilare dei moduli, sottoporsi all’alcool test e per tutto questo mi dice che impiegherà più di un’ora, quindi devo aspettarlo in stazione. Intanto ne approfitto per prendermi un biglietto per il treno notturno Novaya Chara – Severobajkalsk, che fra sette ore mi riporterà indietro, fino a Nizhneangarsk a casa di Volodya. Mi raccomando con la cassiera di applicare lo sconto del 50% sui posti delle cuccette superiore del vagone kupè, come da regola dell’orario invernale di quest’anno. A Taksimo non c’è grande fermento in stazione, che appare bella, grande, piena di spazi e colorata e ci metto poco a sistemarmi alla cassa. Dopo di che attendo per più di un’ora in sala d’attesa, dove c’è solo un’altra persona, un buryato mezzo ubriaco che non riesco a capire se sia un senzatetto o semplicemente uno sbandato. Nessuno vuole parlare con lui, quelle poche persone di passaggio non rispondono alle sue domande o semplicemente stanno alla larga da lui. Come già immaginavo, arriva il momento in cui si avvicina a me e farfuglia parole quasi incomprensibili. Ormai sono avvezzo alla parlata di questi relitti umani e capisco comunque cosa vuole. Gli dico che ore sono e quando arriverà il prossimo treno. Dal mio accento capisce che non sono russo e così, ancor prima che me lo chieda, gli rivelo che vengo dall’Italia, al che rimane del tutto stupito, mi stringe la mano e si allontana meditabondo, ripetendo “…dall’Italia!...dall’Italia!”. La sua presenza in stazione non può passare inosservata agli occhi dei soliti soldatini statali, così come la mia. Infatti dopo poco tempo si avvicina a noi un ragazzo di meno di trent’anni, della polizia ferroviaria, fiero nella sua vomitevole uniforme. Chiede i documenti all’alcolista, che prima di mostrarglieli fa un sorriso o ride un attimo per qualche motivo...e questo gli costa caro, in Russia non è d’uso allargare le labbra per mostrare i denti come degli

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stupidi, come si fa spesso in Europa. Quindi chi lo fa, chi non mantiene una maschera seriamente triste sul volto, nella mente sbirra, significa che sta prendendo in giro il servo del potere di turno e questo non va bene. Subito il tono del ragazzotto si fa minaccioso: “Si metta dritto, fuori il passaporto!” e “Cosa è qui a fare? Dove è diretto? Perché?”. Segue un silenzioso controllo delle pagine del documento di identità che viene restituito con queste parole: “La prossima volta che si mette a ridere durante un controllo le faccio vedere io. Chiaro? Che non si ripeta mai più!”. Dopo essersi sgranchito la voce con quel poveretto, è chiaro che il prossimo sono io. In due secondi si dirige verso di me e mi si para davanti. Rimango impassibile, lo osservo e resto seduto in maniera composta. “Salve. Posso vedere i suoi documenti?”. “Certamente signore”, rispondo, consegnandogli il passaporto che ho già preparato. Segue una conversazione senza senso, sul cui contenuto ero già stato avvertito e che quindi non mi stupisce. Diciamo che sono preparato e non cado in pericolosi equivoci. È la tipica conversazione con uno sbirro. “Da dove viene? Dov’è diretto?”. “Arrivo da Nizhneangarsk dove ho un amico da cui sto tornando. Ho appena valicato il passo di Severomujsk, sono un appassionato di ferrovie e mi interessava vederlo. Adesso torno subito indietro, guardi ho qui il biglietto per il treno di stanotte”. Come sempre resta stupito dal mio russo. “Ma come, non si ferma neanche un po’? Torna già indietro?”. “Sì, mi interessava solo il passo ferroviario, è stato molto bello, ma ora devo rientrare a casa in Italia, per lavorare e tornare dalla mia famiglia“ (con gli sbirri basta citare patria, lavoro e famiglia per essere automaticamente dalla parte giusta, sono argomenti che fanno sempre leva sui loro istinti e sul loro limitato e minuscolo cervello!). “Ah capisco. Ma per caso non è che è passato da Bodaibo? Non è che sta nascondendo o trasportando dell’oro?”. Questa domanda, ridicolmente formulata, è l’unico motivo per cui ha iniziato la conversazione con me. Lo sapevo già, la stavo aspettando. Si tratta del motivo delle azioni di controllo che i suoi capi gli hanno inculcato. Questo quesito non suscita nessuna sorpresa in me, ma vale la pena di delucidare il lettore con qualche riga, per far comprendere alcune delle trappole siberiane per gli stranieri e non solo. Taksimo è un centro di medie dimensioni, che è collegato alla ferrovia ma anche, grazie ad una strada in buone condizioni, ad una città importante della regione di Irkutsk (cioè Bodaibo), che si trova duecento chilometri più a nord, sul fiume Vitim. È un centro minerario famoso per l’estrazione dell’oro e i capi di queste regioni temono sempre che qualcosa possa sfuggire al loro controllo mafioso e finire nelle tasche di qualcun altro (straniero o locale non importa, ma chiaramente per gli stranieri l’attenzione è particolare) Da qui controlli e controlli attorno alla città, sul fiume e sulla città della ferrovia più vicina, che è appunto Taksimo, dove mi trovo ora. “Questo è l’unico oro che ho con me”. E gli mostro l’anulare con la fede. Entrambi scherziamo e mi augura buon proseguimento del viaggio. Non mi perquisisce nemmeno. Sono bastate due parole e una battuta sull’anello per imbambolarlo. Anche i macchinisti mi avevano avvisato di prestare attenzione ai controlli della polizia sull’oro. Le loro parole non sono state vane.

A casa del macchinista Quando mi sto per appisolare spunta Egor e mi porta a casa sua. Nel parcheggio della stazione c’è la sua immensa Volga, una delle auto più spaziose dell’URSS. Mi porta a fare benzina, poi passiamo in un negozietto per prendere qualche patatina e...la vodka. “Guarda che assortimento!” continua a ripetere nel negozio. Sceglie la bottiglia lui stesso, ma non mi permette di offrirla, posso solo pagare le patatine se voglio, mi dice. Così faccio ed estraggo decine di piccole monete di cui intendo liberarmi. Tra di esse cade un pezzo da due euro sul bancone della cassa e la ragazza, del tutto stupita, prende in mano questa strana moneta per osservarla meglio. Egor mi rimprovera, parlando sottovoce, ricordandomi di non palesare la mia condizione di straniero, perché potrebbero cercare di derubarmi o farmi del male. Dice che mi ha invitato a casa sua anche per non lasciarmi troppe ore da solo in stazione, perché avrei potuto involontariamente attirare l’attenzione di qualche malintenzionato. Queste fissazioni di Egor non sono tutte fantasie e, per esperienza, lo so bene. Comunque mi pare stia esagerando. Non ho fatto nulla per mettermi in mostra, mi è solo caduta una mia moneta in mezzo ai rubli. Appena entriamo in casa, una bella e davvero grande casa singola (la più grande che finora abbia mai visto in Russia) in una zona tranquilla della città, mi presenta la moglie Marina, scaccia il cane inferocito che intende farmi a brandelli e passa a salutare il suo piccolo bambino. Una volta in casa Egor entra nella modalità “marito e padre perfetto”, recitando un po’ troppo la parte di quello che non fuma, è devoto alla moglie, si occupa dei figli e beve…ma con moderazione. Fuma in bagno di nascosto dalla moglie, mentre in treno non faceva mistero di

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svuotare un pacchetto dopo l’altro. Con il bambino si comporta in maniera genuinamente affettuosa, lo lava, lo bacia, lo coccola e se ne prende cura con amore. La cena è abbondante e succulenta, mi congratulo con la moglie, che piano piano si scioglie alla mia presenza, dopo i primi timori iniziali, dovuti ad una generica diffidenza verso uno straniero sconosciuto. Alla fine ride e scherza con me ed il marito, quando capisce finalmente di aver di fronte una persona normale e non un alieno che non conosce la sua lingua. Egor beve vodka in un modo strano, dopo ogni brindisi si fa scivolare in bocca il liquido alcolico, ma immediatamente trangugia un bicchiere di succo di frutta, per stemperarne il fuoco nella gola. Mi adeguo, almeno questa volta non devo bere, come spesso accade, la solita birra per scacciare il sapore della vodka. Continuo a guardare l’orologio, per paura di perdere il treno, anche se sono le 22.30 e prima delle 00.30 non è previsto nemmeno l’arrivo del mio convoglio a Taksimo. “Quanti soldi ci vogliono per fare una vacanza in Italia?” e “quanto costano i pernottamenti, gli spostamenti?”; “Come si fa a ottenere il visto?” queste domande monopolizzano parte della conversazione a tavola. Marina cerca di tenere a bada il marito, pensando che mi possano infastidire tali e tante domande, ma la rassicuro, dicendole che non ho nessuna difficoltà a parlare con loro di ogni cosa. Qualora desiderassero visitare l’Italia, gli offro ospitalità presso di me, invitandoli a venirmi a trovare. Egor è parecchio interessato alla cosa e non smette di parlare. Questa cena è stata molto bella, interessante, un’esperienza positiva per chiudere al meglio questa parte del mio viaggio. Quando finisce la bottiglia di vodka è anche l’ora di uscire e lasciare il disturbo, il solito tassista, chiamato da Egor (non può accompagnarmi in stazione perché ha bevuto e non vuole/non può guidare), mi attende fuori dal cancello. Attraverso la Taksimo notturna con la già sperimentata felice consapevolezza della bontà dei viaggi indipendenti. In stazione il mio vagone è già sistemato sul primo binario, pronto ad accogliermi nel suo tepore. Il viaggio scorre piacevolmente tranquillo e la mattina seguente sono a casa di Volodya, dove passerò gli ultimi giorni prima di rientrare.

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persona interessante. Finora così non è stato, in futuro chissà. Per il momento li tengo attivi, ma ci scrivo raramente, quando c’è qualcosa di importante da dire. Non passo la vita davanti a un

computer, non ho un telefono collegato a internet, non passo le giornate a far scorrere i polpastrelli delle dita su schermi sensibili al tatto. Da come ho scritto queste dodici righe avrete capito anche

altre cose...