Francesco Varanini Colui che cuce Il canto. Il formatore come narratore

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    Francesco Varanini

    COLUI CHE CUCE IL CANTO

    IL FORMATORE COME NARRATORE1

    1 Il testo apparso, in forma lievemente diversa, su FOR. Rivista per la formazione, 74, 2008.

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    Una monetina per terra

    Mi sono trovato un mese fa a fare formazione in una Business School, sessanta giovani laureati di

    talento provenienti da diversissimi paesi: tra gli altri nigeriani, australiani, angolani, russi, kazachi,

    italiani.Tutti venivano da lontano. L'Italia era per la maggior parte di loro un luogo esotico. Molti avevano

    appena appreso l'italiano e forse, per quanto ne sapevo, lo capivano a malapena.

    Avrei potuto 'prendermi cura': preoccuparmi delle difficolt, cercare di semplificare il discorso,

    spezzettare il pane nell'intento di non costringere a buttar gi un boccone troppo grosso. E' cos che

    si fa di solito. A cosa servono senn programmi, scalette, supporti didattici, presentazioni Power

    Point.

    Ma perch. Perch, non conoscendo i giovani che avevo di fronte, avrei dovuto rischiare di

    sottovalutarli. Cos ho esordito con quella frase di Jos Lezama Lima, scrittore cubano a me caro,

    quella frase che mi ronza sempre in testa: slo lo difcil es estimulante. Ho condiviso con loro la

    consapevolezza di come sia faticoso, ma bello, iniziare un percorso camminando su un terreno

    scarsamente noto; ho condiviso con loro l'incertezza speranzosa di chi guarda un mondo che nonconosce.

    Eravamo in una di quelle tipiche aule da Business School, a gradoni, modesto tentativo di

    anfiteatro, stavo parlando di come le difficolt siano stimolanti, di come valga la pena di affrontarle

    come un bel gioco -di solito passeggio per l'aula, non mi piace stare seduto in cattedra- quando mi

    cade l'occhio su una monetina dorata, l per terra. La raccolgo senza nemmeno guardarla, e mi trovo

    a chiedermi, e a chiedere a voce alta, come si dice 'moneta' nelle diverse lingue parlate dai presenti,

    e a interrogarmi attorno alla possibile storia di questa monetina: da dove verr, da quale luogo,

    attraverso quale percorso. Mentre mi chiedo, e chiedo, cosa c' scritto sopra, e in quale lingua, la

    monetina passa di mano in mano.

    Cos nasce un discorso collettivo, caldo. Come la monetina passa di mano in mano, passano di

    bocca in bocca le parole. Un discorso sulla narrazione e sul raccontare: quale testo avrebbero

    saputo raccontare, a partire da quella monetina, un poeta, un romanziere? Un discorso

    sull'interpretazione: un processo inferenziale che si fonda sulla capacit di dar valore a tracce,

    indizi, e si manifesta come costruzione di una rete di conoscenze via via pi fitta, eppure sempre

    ipotetica, soggetta al dubbio.

    Non ho ancora detto dell'argomento del corso. Ne accenno ora: Business Writing. E per aggiungo

    subito che il tema irrilevante. Non solo perch -al di l di come il programma era stato scritto

    prima, per motivi di controllo formale e certificazione- mi era stata lasciata ampia libert. Ma

    soprattutto perch credo stia a me, come formatore, non solo la scelta di come cominciare, ma

    anche, pi complessivamente, la scelta di dove, e come condurre. Il formatore un narratore orale

    sempre libero di occupare lo spazio e il tempo che gli dato. Libero in misura ben maggiore diquanto noi stessi vogliamo credere. Dobbiamo infatti ricordare sempre che in ogni situazione

    formativa esistono spazi di libert che, pi o meno giustificati da vincoli esterni, abbiamo rinunciato

    ad occupare. Vorrei ricordassimo che ben pi dei vincoli esterni influisce su di noi, in senso

    negativo e limitante, l'autocensura.

    Eccomi dunque l, ad occupare il mio spazio di formatore, insieme a queste persone. Siamo uniti da

    un discorso collettivo che cresce, da una narrazione che ci rende sempre meno ignoti e stranieri

    l'uno all'altro.

    Ed eccomi qui ora a ricordare quei momenti. Sto ancora narrando. Ogni narrazione si fonda su

    narrazioni precedenti, e si connette ad altre narrazioni messe in atto in questo istante da altre

    persone, altrove. Ogni narrazione prepara, attende, anticipa narrazioni future. Sto narrando di quel

    momento a voi che mi state leggendo e vi dico quello che sto pensando. Sto pensando che se fosse

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    stato presente l, in quell'aula, un qualche studioso di scienza della formazione, o un qualche

    'formatore normale', ligio al compito ma allo stesso tempo orientato al quieto vivere, se fosse stato

    presente un tutor, tutti loro avrebbero pensato che avevo ad arte lasciato furtivamente cadere a terra

    quella monetina. Sarei stato ammirato per la mia tecnica. Ma appunto, l'emergere del qui ed ora,

    diverso da ogni istante presente e futuro, sarebbe stato rimosso.

    La semplice e profonda storia della Olla Podrida e le sue conseguenze per tutti noi

    Ho pensato valesse la pena di passare poi a un lavoro che avevo previsto in programma, ma che

    certo non avevo collocato all'inizio del primo incontro. Non mi stanco di ripeterlo. I programmi dei

    corsi servono solo per essere violati. Cos come i tentativi di trama e gli abbozzi che il romanziere

    scrive prima di iniziare la stesura, la vera scrittura del romanzo.

    L'inglese meltig pot, il francesepot pourri, lo spagnolo olla podrida rimandano ad una scena

    primaria che riassume in s gli aspetti fondamentali di quel modo di leggere il mondo che

    potremmo chiamare 'sguardo etnografico'.

    C' in ognuna delle capanne del villaggio in ogni casa, il focolare sempre acceso. L, su un letto di

    cenere, sulle braci ardenti, c' una pentola, in origine forse una pentola di coccio. Nella pentola

    sobbolle il cibo in costante preparazione. Quando si deve mangiare si estrae quello che serve,quando si ritorna dalla foresta, o dall'orto, dalla caccia o dalla pesca, o dal mercato, si aggiunge

    qualcosa. Non c' soluzione di continuit, la pentola non mai del tutto svuotata. E' un continuum,

    un processo al contempo materiale e culturale. Si mette in pentola ci che ci si pu permettere, ma

    anche ci che piace di pi, ci che capita di trovare e ci che porta in dono un viaggiatore. Cos il

    cibo di ogni casa diverso istante dopo istante, ma anche inconfondibile, diverso da quello della

    casa vicina. Eppure ci saranno elementi in comune tra i cibi di case vicine, villaggi vicini, regioni.

    Le differenze esistono, ma i confini sono sempre sfumati.

    Cos propongo ai partecipanti di dividersi per culture, i kazachi con i kazaki, i russi con i russi, chi

    vuole pu scegliere di stare da solo, o di fare gruppo con chi sente meno lontano. Si formano gruppi

    di riconosciuta omogeneit, ma anche gruppi che hanno ospiti 'stranieri', per ragioni che solo i

    membri del gruppo sanno. Gli italiani scelgono di dividersi in tre gruppi, nord, centro e sud.

    Ogni gruppo narra della propria cultura presentando un proverbio, un cibo esemplare, un'opera

    letteraria.

    E, attraverso le parole dei gruppi che si autopresentano, viaggiamo a lungo tra i versi di Dante e di

    Antnio Agostinho Neto, il padre dell'Angola indipendente, Dostoevskij, l'anima slava e la cultura

    russa, a cavallo tra occidente e oriente, leggende kazake incentrate sull'arte dell'ospitalit, che solo

    una cultura nomade pu veramente conoscere, la polenta, la carne cotta a fuoco vivo nella steppa, il

    borsch, il cibo mediterraneo.

    Olla podrida, melting pot. Sapori inconfondibili, che resteranno diversi, ma che pur restando se

    stessi cambiano contaminandosi e mescolandosi l'uno con l'altro.

    Riconoscere le proprie radici e accettare la diversit: in fondo anche qui troviamo una metafora utilead osservare il ruolo del formatore: inutile per il formatore fingersi neutrale, o esterno, privo di una

    propria cultura anche lui, come ognuno dei presenti in un'aula, ha un proprio sistema di valori,

    conoscenze, e anche pregiudizi. Ma a lui in pi compete mantenere sempre accesso il fuoco sotto la

    pentola. Favorire connessioni, contaminazioni, meticciamento.

    La Torre di Babele secondo Dante

    Pluralit e delle lingue e delle culture, causa e fonte di incomprensioni, di conflitti, di dispersione di

    risorse: ogni ragionamento a questo proposito rimanda inevitabilmente ad una scena primaria: la

    Torre, la Babele delle lingue.

    Leggiamo Genesi, 11, 1. Dopo il Diluvio tutta la terra aveva una lingua sola e parole uguali, ma

    poi un qualcosa, una inopinata catastrofe, un momento di discontinuit interviene, e gli uomini si

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    ritrovano nella drammatica situazione che viviamo tuttoggi: non comprendiamo pi luno la lingua

    dellaltro. Sappiamo come il passaggio narrato nel Genesi. Gli uomini si erano detti:

    costruiamoci una citt ed una torre con la cima al cielo. Fabbrichiamoci cos un segno (di unione),

    altrimenti saremo dispersi sulla faccia della terra (Genesi, 11, 4). Al Signore questo desiderio

    appare come gesto di arroganza: Ecco, essi sono un popolo solo e parlano tutti la stessa lingua,

    questo il principio dellopera loro. Niente ormai impedir loro di condurre a termine tutto quelloche hanno in mente di fare (Genesi, 11, 6). Cos il Signore si sente in dovere di intervenire. Si dice:

    Discendiamo e confondiamo in questo stesso luogo la loro lingua, in modo che essi non

    comprendano pi la lingua luno dellaltro (Genesi, 11, 7). Cos il Signore, confondendo loro le

    lingue, li disperse sulla faccia di tutta la terra, allontanandoli da quel luogo, da quella torre in

    costruzione e quella citt, alla quale fu dato il nome di Babele (Genesi, 11, 8).

    Gli esegeti biblici, e anche Bacone e Comenio e Descartes e Leibnitz e Humboldt, fino a Umberto

    Eco, chiunque insomma, interpreta questo passo avendo in mente le lingue naturali, materne.

    Ognuno in grado di esprimersi pienamente solo nella propria lingua. Ma le lingue sono diverse tra

    loro. I progetti di interlingua, di una lingua capace di permettere a tutti di partecipare ad un unico,

    universale colloquio, sono destinati al fallimento. Si condannati a comunicare attraverso una

    insoddisfacente, impoverente traduzione.Porto all'attenzione la metafora della Torre di Babele perch la situazione che stiamo vivendo in

    aula: si parla soprattutto in italiano, la cui comprensione per per molti superficialissima.

    Qualcuno traduce per la persona seduta accanto. Qualcuno si aiuta con un dizionario, con il

    software caricato su un palmare. Nei momenti in cui emerge l'emozione o magari l'arrabbiatura, si

    passa inconsapevolmente all'inglese, o alla lingua materna. Per un kazako alla lingua materna si

    sovrappone il russo e poi l'inglese. Per angolani che hanno studiato a Cuba al portoghese si

    sovrappone lo spagnolo. Gli italiani, da parte loro, ricordano che dietro la lingua nazionale

    aleggiano ancora i dialetti.

    Passiamo da una lingua all'altra. Comunichiamo nonostante tutto. Ma inevitabile chiedersi: nella

    costruzione collettiva di senso, quanta ricchezza perdiamo a causa della Babele delle lingue?

    Qui interviene Dante. Aggiunge qualcosa, adottando una chiave di lettura che non offre nessuna

    facile soluzione, ma ci aiuta grandemente nel cogliere la difficolt in tutta la sua drammatica

    complessit.

    Dante, infatti, nelDe vulgari eloquentia (I, VII, 4-7), offre una interpretazione della confusio

    linguarum diversa da tutte le altre.

    Presumpsit ergo in corde suo incurabilis homo () arte sua non solum superare naturam, set etiam ipsum naturantem,

    quid Deus est, et cepit edificare turrim in Sennaar, que postea dicta est Babel, hoc est confusio, per quam celum

    ascendere, intendens inscius non equare, sed suum superare Factorem. ()

    Siquidem pene totum humanum genus ad opus iniquitatis coierat: pars imperabant, pars architectabantur, pars muros

    moliebantur, pars amussibus regulabant, pars trullis linebant, pars scindere rupes, pars mari, pars terra vehere

    intendebant, partesque diverse diversis aliis operibus indulgebant; cum celitus tanta confusione percussi sunt , ut quiomnes una eademque loquela deserviebant ad opus, ab opere multis diversificati loquelis desinerent et nunquam ad

    idem commertium convenirent.

    Solis etenim in uno convenientibus actu eadem loquela remansit: puta cunctis architectoribus una, cunctis saxa

    volventibus una, cunctis ea parantibus una; et sic de singulis operantibus accidit. Quot quot autem exercitii varietates

    tendebant ad opus, tot tot ydiomatibus tunc genus humanum disiungitur; et quanto excellentius exercebant, tanto rudius

    nunc barbariusque locuntur.

    Presunse dunque in cuor suo linguaribile uomo () non solo di superare la natura, ma anche lo stesso creatore, che

    Dio. Gli uomini cominciarono a costruire una torre a Sennar, che poi fu detta Babele, cio confusione, con la quale

    speravano di salire al cielo, con lintenzione incosciente non di eguagliare, ma di superare il proprio creatore. ()

    Certamente quasi tutto il genere umano si era unito per quellimpresa iniqua. Vi era chi dava ordini, chi progettava, chi

    fabbricava muri, chi li squadrava con le livelle, chi li intonacava con le cazzuole, chi spaccava le pietre, chi le

    trasportava per terra e per mare; gruppi diversi erano intenti a lavori diversi. Furono colpiti da tanta confusione dallalto

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    del cielo che, mentre tutti si dedicavano allimpresa usando la stessa lingua, resi diversi da molte lingue lasciarono

    lopera, e mai pi si aggregarono per una intesa comune.

    Rimase la stessa lingua solo a coloro che si accordavano in ununica operazione: per esempio ununica lingua per tutti

    gli architetti, una per coloro che rotolavano massi, una per coloro che li preparavano. Cos accadde per i singoli gruppi

    di lavoratori. Quante erano le variet di lavoro per lacostruzione, in altrettante lingue si divise allora il genere umano. Equanto pi elevata era la loro attivit, tanto pi rozzamente e barbaramente allora parlarono.

    Mi sono sempre chiesto se questa lettura di Dante mi appare chiara solo perch ho una esperienza di

    vita organizzativa e di lavoro su progetto. Voglio dire, sicuramente leggendo il brano aggiungo

    qualcosa di mio, ma insomma, il brano mi appare illuminante. Mette sotto i nostri occhi il fatto che

    la difficolt di colloquio, e quindi il difficile funzionamento di gruppi e organizzazioni, non dipende

    solo da differenze culturali e linguistiche. Dipende, in misura uguale, o forse maggiore, dalle

    differenti vocazioni professionali.

    Fino all'estrema situazione, al paradosso che Dante esprime con mirabile sintesi: Quot quot autem

    exercitii varietates tendebant ad opus, tot tot ydiomatibus tunc genus humanum disiungitur; et

    quanto excellentius exercebant, tanto rudius nunc barbariusque locuntur.

    Ogni famiglia professionale ha il suo linguaggio, giusto doveroso: solo esprimendosi in termini

    precisi (i semiologi direbbero: ipercodificati) ogni famiglia professionale pu svolgere il meglio ilproprio lavoro, e conservare e accrescere la propria conoscenza. Ma, ammonisce Dante, pi ci

    esprimiamo in modo significativo all'interno del gruppo professionale, pi le nostre parole risultano

    -agli orecchi degli altri, agli orecchi di coloro che esercitano altre professioni- rozze e barbare,

    straniere appunto, incomprensibili.

    E' la situazione che stiamo vivendo in aula: ci sono geologi, biologi, ingegneri di diverse

    specializzazioni, economisti di diverse specie, legali. Ogni comunit professionale (o come pi di

    moda oggi dire: ogni comunit di pratica) di loro porta con s una visione del mondo.

    Cos propongo ai partecipanti di dividersi per comunit professionali. Le differenze di lingua

    naturale perdono di peso, sembrano scomparire. Emergono conflitti fondati sul contributo che ogni

    famiglia professionale fornisce al business, al progetto. Ognuno tende a considerare la propria

    professionalit 'la pi importante'. Emergono paure, che qualcuno, alla fine, coraggiosamente

    esplicita: se, in funzione di un risultato complessivo, di un colloquio interfunzionale, dobbiamo

    rinunciare a qualcosa della nostra identit professionale, cosa ci resta. Su cosa fonderemo le nostre

    sicurezze. Avevamo studiato per essere ammessi in questa comunit professionale, ed ora dobbiamo

    mettere in discussione i suoi valori e la sua visione del mondo?

    Ecco qui emergere un altro aspetto del nostro ruolo: il formatore , passatemi l'espressione, il

    sostituto del dio assente. Non potremo salire al cielo, non potremo eguagliare il creatore: l'arroganza

    implicita in questa pretesa ci allontana dalla realt, dal qui ed ora. Per possiamo cucire tra di loro i

    diversi discorsi, proponendo sia pure imperfette traduzioni e ponti tra le diverse lingue naturali,

    ovvero le diverse culture di origine; e tra le diverse appartenenze professionali. Cos il formatore, in

    virt della sua maggiore esperienza, mostra il compito relazionale che dovranno assolvere, inconcrete situazioni di lavoro, manager, coordinatori, capiprogetto.

    Carver vs. Lish

    Nella quotidiana pratica, lavorando,si agisce sempre su discorsi altrui, testi altrui, rileggendoli,

    interpretandoli, traducendoli.

    Particolarmente utile , per riflettere su tutto questo, l'esperienza di chi lavora nel mondo editoriale,

    in ruoli diversi: autore, redattore editoriale (in inglese: editor), traduttore, critico, recensore, lettore.

    I diversi soggetti guardano, con atteggiamenti e competenze e compiti diversi, allo stesso testo.

    Chiediamoci come il testo cambia passando tra le mani dei diversi attori.

    Conosco un caso esemplare, e lo propongo in aula.

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    Raymond Carver (1938-1988) ha tutto quello che deve avere lo scrittore americano che credo, suo

    malgrado giunge ad essere oggetto di culto. Lui davvero uno che ha fatto tutti i mestieri, che

    stato alcolista incallito. Uno che ha scritto poco e a prima vista sempre le stesse cose, uno che

    muore di cancro ai polmoni a cinquantanni, uno che ha imparato a dura pena a scrivere perch

    aveva qualcosa da raccontare e aveva bisogno di raccontarlo.

    Leggendo i racconti restiamo colpiti per come riesce ad individuare la soglia impalpabile sulla qualelautore si muove quando lima il testo, il momento nel quale si deve smettere di correggere la

    pagina scritta, il momento in cui non si pu pi togliere un aggettivo, un inciso, il momento in cui i

    verbi non possono essere pi sostituiti da verbi pi apparentemente piani e per questo pi

    profondamente significativi.

    Non a caso considerato maestro del minimalismo: stile costruito sul togliere, sulleliminazione di

    qualsiasi cosa che assomigliasse al tocco in pi.

    Ma siamo costretti a chiederci se lo stile dei racconti di Carver era veramente farina del suo sacco, o

    era frutto di un progetto di Gordon Lish, editor della casa editrice Knopf e docente di scrittura

    creativa.

    Mostro ai partecipanti l'incipit di un racconto esemplare di Carver, forse il pi famoso, A Small

    Good Thing.2 Chiedo a loro se da quel testo, allo scopo di migliorarlo, pu essere tolto qualcosa:aggettivi, giri ridondanti, frasi intere. Chiedo, lavorando sul testo originale inglese, di provare a

    lavorare sul testo cancellando l'inutile.

    Poi mostro come la versione originale di Carver stata, indubbiamente con l'obiettivo di

    migliorarla, rivista da Gordon Lish. Sono due testi completamente diversi.

    Cito qui solo una frase, che in fondo la cifra, la sintesi estrema e, trovo, efficacissima del progetto

    estetico di Carver. Carver scrive:

    There were no pleasantries between them. Just the minimum exchange of words, the necessary information.

    Ma per l'occhiuto Lish la frase non ancora a posto. E corregge:

    No pleasantries, just this small exchange, the barest information, nothing that was not necessary.

    Nonostante i critici sostengano che resta migliore la pi stringata versione di Lish, non si pu dire

    che la versione di Carver, che qui riprendiamo, abbia un grammo in meno di poesia, e risulti meno

    efficace.

    Lasciamo dunque ai critici i loro sfizi e badiamo alla sostanza: lautore scrive come gli pare, ogni

    scrittura imperfetta. Ci che conta non la meta che raggiunge la ricerca della perfezione

    sempre vana, ma la strada che intraprende. A ben guardare, il minimalismo, prima di essere un

    fatto estetico, un fatto etico. Non sta nella pura forma, ma innanzitutto nel contenuto. Sono

    minime le vicende che Carver racconta, esemplari ed efficacissime rappresentazioni di una vita resa

    arida dall'assenza di passione, dalla riduzione della persona a consumatore di merci elettrodomestici, automobili e magari anche merce formativa. Simile contenuto merita un

    linguaggio adeguato.

    2 A Small Good Thing, racconto di 25 pagine, esce inPrize Stories 1983: The O.Henry Awards, Doubleday, 1983.

    Carver aveva vinto il primo premio in quel concorso. Il racconto esce poi in Raymond Carver, Cathedral: Stories,Random House, 1984. Successivamente, riproposto in Raymond Carver, Where Im Calling From: Selected

    Stories, Random House, 1988.

    In italiano si trova (in due diverse traduzioni, la seconda nettamente migliore) in Cattedrale, Oscar Mondadori. E inDa dove sto chiamando, Minimum Fax, 1999 (a questa edizione rimandano i numeri di pagina).

    La versione del racconto limata da Gordon Lish, The Bath, era invece apparsa in What We Talk About When WeTalk About Love, Knopf, 1981. In italiano:Di cosa parliamo quando parliamo damore, Garzanti, 1987.

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    Emerge qui un altro aspetto della buona formazione. Dovrebbe, credo, mostrare come usare il

    linguaggio. L'espressione orale, la scrittura, costituiscono la via attraverso la quale possibile

    attingere alla conoscenza. Potremmo trovarci nel ruolo di Carver, che parla del proprio mondo; o

    nel ruolo di Lish, che svolge il legittimo ruolo di chi adatta il testo a un mercato, a un destinatario.

    Intimamente mi vedo dalla parte di Carver. Ma comprendo le ragioni, talvolta l'esigenza del ruolo di

    Lish.Quello che conta innanzitutto, direi, l'atteggiamento etico, con il quale mi accingo a lavorare sul

    testo. Cautela, rispetto: il testo, nella forma che emerge dalla penna che scorre, o dalle dita che

    scivolano sulla tastiera, conoscenza, una ricchezza sociale. Come ogni conoscenza non , in

    fondo, propriet di nessuno, nemmeno dello stesso autore.

    E il testo, che appare spesso a prima vista chiuso, sigillato, non migliorabile, in realt sempre

    aperto. Lo dimostra il pur criticabile lavoro che Lish riesce a fare sul bel testo di Carver. Lo

    dimostra il lavoro che, limitandoci alla prima pagina del racconto, facciamo in aula.

    La traduzione in lingue diverse l'esempio pi evidente di come la natura del testo, al di l

    dell'apparenza, sia sfuggente. La mamma si reca in un negozio per comprare la torta per il

    compleanno del suo bambino. In inglese baker. Convinti di rispettare il senso dell'originale, ci

    accorgiamo di aver tradotto in italiano, e in russo e in portoghese, con parole che pi precisamentesignificano 'fornaio', 'pasticciere', 'panettiere'.

    Ci troviamo a riflettere sulla traduzione. I russi e i kazachi si chiedono come possa essere tradotto

    Dostoevskij in un'altra lingua. Nello spiegare perch uno di loro si blocca su una parola che trova

    intraducibile non solo nel suo povero italiano, ma anche in inglese. Interroga il programma di

    traduzione che ha caricato sul palmare, e arriva cos alla parola italiana sfumatura, che non

    conosceva.

    Il formatore, rifletto, un traduttore, l'esploratore di confini sfumati, fuzzy concepts.

    Aprire e chiudere finestre

    Ricordo una volta, al termine di un master, nella cena di saluto, in quell'irripetibile momento di

    eccezionale intimit, quando ci si trova a ricordare, al di l dei ruoli, momenti intensi vissuti nei

    mesi passati insieme. Una partecipante mi dice che mi avevano soprannominato multitasking:

    perch parlando aprivo molte finestre, incisi, discorsi paralleli -tecnicamente potremmo dire

    ipotassi-. Ma, aggiunse, e qui stava ci che la ragazza ci teneva a sottolineare, queste finestre via

    via discorrendo, cos come le avevo aperte, le chiudevo quasi tutte.

    E' uno dei migliori complimenti che ho ricevuto. Dico per inciso che credo questi giudizi contino,

    nella valutazione dell'andamento di un corso o di un percorso, molto di pi di qualsiasi misurazione

    strutturata e schedulata.

    Ma qui voglio sottolineare soprattutto un aspetto: questo l'atteggiamento del narratore. E' la

    professionalit del narratore messa in gioco. Dico narratore perch la mia esperienza mi lega alla

    parola scritta, scrivo libri. La competenza dello scrittore, per, non che una delle possibilimanifestazioni di una competenza pi generale, quella del narratore, appunto.

    O del formatore-poeta: ci sar sempre meno bisogno di erogatori di contenuti, sempre pi bisogno

    di formatori capaci di lavorare sugli atteggiamenti e sul metodo. Formatori-poeti, che sappiano

    mostrare come danzare con leggerezza tra un mondo di conoscenze e un altro. Formatori-poeti che

    sappiano mostrare come leggere tracce, costruire tessuti a partire da fili sottili.

    E' in fondo la differenza tra mostrare e insegnare. Il mostrare un monito: 'avvertire', 'far sapere','ricordare', 'indicare', 'porre sotto gli occhi altrui'.

    Nel mostrare non uso la cattedra, non parlo dall'alto, sono indubbiamente diverso dagli altri,

    probabilmente, sul tema oggetto dell'incontro formativo, ma mi mostro come persona, non

    necessariamente come autorit. Persona con una autobiografia, mi faccio vedere, mi metto in gioco:

    non conta tanto ci che dico, che potrebbe essere letto in libri o detto da altri, ma come lo dico.

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    Disponibile a porre sotto lo sguardo, mio e altrui, ci che prima mi appariva impossibile da

    guardare e da dire: il mostro il prodigio, la cosa straordinaria, tanto nuova da far paura.

    Opposto l'insegnare. L'insegnare rimanda all'idea in fondo violenta dell''imprimere', del

    'marchiare', dell'apporre sull'altro il segno, il definitivo sigillo della mia azione.

    Ora, so bene che ci sono scrittori che proprio questo cercano: schiacciare il lettore sotto il proprio

    tallone, annichilirlo. Ma io sto da un'altra parte. Intendo veramente scrittori solo coloro che scrivonoinnanzitutto per s, scrittori che intendono la scrittura come un lavoro su di s, persone che scrivono

    per capire e per organizzare il proprio pensiero. Scrittori disposti ad esplicitare l'unica vera aggiunta

    alla conoscenza gi contenuta in altri testi: e cio la propria autobiografia e la propria esperienza, il

    proprio personale modo di vedere le cose e di organizzare il sapere.

    Il primo passo, per il formatore-poeta, dunque quello di essere, in aula, se stessi. Non macchine-

    per-erogare-contenuti. Ed invece consolidatori e testimoni di quella conoscenza che pu emergere

    solo nel qui ed ora, in questa aula, in questo momento, dalla rete di menti dei presenti.

    Quella monetina vista per terra il monito, il segno, il prodigio, il significato latente da svelare.

    Il formatore, credo, pu convenientemente allenarsi al suo ruolo scrivendo. Scrivendo senza troppi

    vincoli, lasciando spazio all'autobiografia. (Preparare materiali d'aula, e in particolare presentazioni

    in Power Point altra cosa, non scrittura).Ma poi, in aula, il formatore narratore in un modo preciso: un cantastorie. Il cantastorie non

    narra niente di nuovo, ma propone varianti legate alla situazione, rimette in scena la storia, le

    conoscenze, in un modo legato all'istante, ritesse la tela a partire da ci che si legge negli occhi dei

    presenti, offre il frutto di ci che chiede emerge dalla situazione, nel momento.

    Si tratta di tessere la tela, dare struttura, 'concatenare'. E' il tema stesso che impone il suo ritmo. E'

    nelle circostanze, nel rapporto con questo preciso uditorio che qui in aula oggi, qui che si

    costruisce la poesia, che creazione, nucleo essenziale della conoscenza emergente. Il formatore

    un tipo particolare di narratore. Bardo, rapsodo.Rhapsoids, 'colui che cuce il canto'.

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