Francesco Senatore Medioevo: istruzioni per l'uso

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Francesco Senatore Medioevo: istruzioni per l'uso Bruno Mondadori campus

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Francesco Senatore

Medioevo:

istruzioni per l'uso

Bruno Mondadori campus

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La storia medievale è spesso percepita come disciplina "difficile". Le difficoltà esistono,

tuttavia sono diverse da quelle generalmente addotte: le troppe date, i troppi fatti, i

troppi personaggi storici. Si tratta piuttosto della naturalezza con cui il Medioevo un

po' fantasy del nostro immaginario cinematografico continuamente deforma l'oggetto

dello studio. E, ancora, le difficoltà derivano dallo sforzo di sintetizzare e semplificare,

vanificato dal fatto che il Medioevo, come civiltà caratterizzata da peculiarità specifiche,

non esiste, mentre esistono più Medioevi e più storie medievali. È perciò fondamentale

- come questo volume propone, una volta individuate le vere difficoltà - analizzare in

modo approfondito alcune fonti esemplari con lo scopo di portare l'attenzione sulla com­

plessità della storia e della ricerca storica.

scritte con stile semplice e descrittivo e completate da riferimenti bibliografici essenziali,

queste "istruzioni" vogliono essere un utile sostegno per studenti e per chiunque sia

impegnato nell'insegnamento e nella divulgazione della storia medievale.

Francesco Senatore è professore associato di Storia medievale all'Università degli Studi

Federico 11 di Napoli. Si è occupato di storia politica e istituzionale dell'Italia quattrocen­

tesca e di didattica della storia. Ha pubblicato, oltre a numerosi saggi in riviste e opere

collettive, le monografie uno mundo de carta. Forme e strutture della diplomazia sfor­zesca (Liguori, Napoli 1998) e, con F. Storti, Spazi e tempi della guerra nel Mezzogiorno aragonese. L'itinerario militare di re Ferrante (1458-1465) (Cariane, Salerno 2002).

In copertina: Ampolle per analisi, dal Tractatus de Pestilencia, National University Library, Praga,

Repubblica ceca © Getty/lmages.

€ 14,00

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Indice

l Premessa

3 l. Il soggetto studente e le insidie del nostro linguaggio

3 1 . 1 Luoghi e popoli 6 1 .2 Stati e stato 9 1 .3 La psicologia dei personaggi

13 1 .4 L'anacronismo, compagno della ricerca storica 1 6 1 .5 Per concludere: fatti e questioni

1 9 2 . L'oggetto Medioevo e la disciplina " storia medievale"

1 9 2 . 1 Che cos'è il Medioevo 2 1 2.2 La periodizzazione: problemi di ricerca e di studio 25 2.3 Periodi diversi per storie diverse 3 0 2 . 4 Geografia della storia medievale 34 2.5 La disciplina: problemi di focalizzazione 3 8 2.6 L'idolo delle origini 43 2.7 Il Medioevo come paradigma dell'antimoderno 45 2 .8 Il feudalesimo, mostro inafferrabile?

5 1 3 . Le fonti e i metodi

5 1 3 . 1 Le fonti 53 3 .2 Un monaco e l 'invasione dei longobardi

Oa fonte narrativa) 65 3 .3 Un coccio e la fine dell'età antica

(la fonte materiale) 77 3 .4 Parma nel X secolo

(la fonte documentaria: i diplomi) 90 3 .5 Un mulino amalfitano nell'xi secolo

(la fonte documentaria: il contratto notarile) 101 3 .6 Federico I I e la distinzione tra regnum e sacerdotium

Oa fonte legislativa) 1 15 3 .7 Dante in una riunione del Comune di Firenze

(la fonte amministrativa)

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128 3.8 Il capitalismo medievale in una lettera di cambio (la fonte contabile)

143 Conclusioni

15 1 Nota bibliografica

1 6 1 Indice dei nomi

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A Maria

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Premessa

Questo libro vuole essere un sostegno per lo studente universita­rio alle prese con la storia medievale. Spesso questa disciplina è percepita come particolarmente " difficile" . Le difficoltà esistono, non c'è dubbio, ma sono un po' diverse da quelle che general­mente individuano gli studenti che non riescono a superare l'esa­me: troppe date, troppi fatti, troppi personaggi storici. Invece, la prima difficoltà è costituita proprio dal soggetto stesso dello stu­dio, lo studente che, cercando di capire e di imparare il libro di testo, lo interpreta con categorie concettuali approssimative o ina­deguate, fraintendendolo. Del resto, i chiarimenti necessari, pur presenti nei manuali, affondano veramente in un mare di informa­zioni indominabili. Questo è l'argomento del primo capitolo (Il soggetto studente e le insidie del nostro linguaggio).

Il secondo capitolo (L'oggetto Medioevo e la disciplina "storia medievale") affronta un secondo ordine di difficoltà per chi stu­dia la storia medievale, connesse questa volta all'oggetto di stu­dio, quel Medioevo così presente, come paradigma negativo, nei nostri discorsi di tutti i giorni eppure così inafferrabile. Da un lato, il Medioevo del nostro immaginario cinematografico o sco­lastico si sovrappone continuamente a quello narrato dal libro di testo, deformandolo. Dall'altro, per lo studente volenteroso ri­sulta assai arduo aggrapparsi a pochi argomenti fondamentali, a presunti caratteri originali dell'epoca che gli possano servire co­me guida alla comprensione. In effetti il Medioevo, come civiltà caratterizzata da peculiarità specifiche, non esiste. O, meglio, co­me vedremo, esistono più Medioevi e più storie medievali.

Spesso si dice, a ragione, che la storia si fa con le fonti, e spesso i docenti e i libri di testo si sforzano di mettere lo studente a con­tatto con le fonti, per fargli gustare una storia non libresca, ma ve­ra e palpitante di vita. Purtroppo, tali buone intenzioni possono

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avere, sia nelle scuole che nelle università, due esiti negativi: la presentazione delle fonti consiste nella loro classificazione con rin­vio ai relativi repertori, assai utile per chi si avvia alla ricerca stori­ca, ma inadatta e noiosa per chi prepara un esame. Quando inve­ce si pubblica integralmente o parzialmente una fonte, essa finisce per assolvere a una funzione meramente esornativa, come accade alla valanga di immagini che abbelliscono i libri scolastici o i siti web. Nel migliore dei casi la fonte conferma ciò che dice il testo, che - quello sì - deve essere letto e imparato. In effetti, la storia non si fa tanto con le fonti, quanto con la critica delle fonti, un'at­tività complessa e raffinata che si è sviluppata grazie al concorso di molte intelligenze nel corso di svariati secoli, in un percorso che non si può scindere dall'evoluzione della disciplina medievistica e dalla correlata riflessione metodologica. Pretendere che uno stu­dente alle prime armi si impossessi del metodo della ricerca stori­ca quando deve semplicemente preparare un esame è forse un po' troppo. Per questo, nel terzo capitolo (Le fonti e i metodi) , l'anali­si abbastanza attenta di alcune fonti esemplari ha il solo scopo di far riflettere sulla complessità della storia e della ricerca storica, mostrando esempi concreti di quei problemi "soggettivi" e "og­gettivi" dello studio della storia medievale, presentati nei primi due capitoli.

Un'ultima precisazione: questa guida è scritta in uno stile abba­stanza semplice ed è priva di rinvii bibliografici puntuali perché essa vuole parlare agli studenti, non agli studiosi o aspiranti tali. Mi auguro che possa risultare interessante anche per chiunque fosse impegnato nell'insegnamento e nella divulgazione della sto­ria medievale.

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l. Il soggetto studente e le insidie del nostro linguaggio

1 . 1 Luoghi e popoli

Apriamo un atlante storico, osserviamo la posizione e l'estensione degli stati europei dal v fino al xv secolo, o, perché no, fino ai giorni nostri. Dal regno dei franchi alla Francia di oggi, dai regni anglosassoni al Regno Unito, dal regno degli ostrogoti alla Repub­blica italiana. Certo, cambiano i confini: si riducono, si ampliano, si frammentano, ma l'impressione della continuità resta. Ognuno di quegli stati, contrassegnato sulla cartina da un colore che a vol­te resta lo stesso per comodità del lettore, sembra agire come un organismo vivente autonomo, impegnato a difendersi o ad accre­scersi nel corso di una infinità di guerre o di passaggi di dinastia.

L'impressione della continuità è del tutto sbagliata, e per molti motivi.

In primo luogo, quei nomi di stati e di popoli (Inghilterra e in­glesi, Napoli e napoletani, per fare due esempi), che restano appa­rentemente identici nel corso di molti secoli nascondono realtà profondamente differenti. Sarebbe facile dimostrare che l'Inghil­terra normanna del XII secolo era totalmente diversa da quella at­tuale, 1 e che, più in generale, uno stato non è un individuo, tutto sommato abbastanza uguale a se stesso nonostante le pur grandi trasformazioni che vive nel corso della vita. Eppure ... Eppure la forza delle parole è irresistibile, e dobbiamo fare molta fatica a pronunciare la parola napoletano, riferendoci al ducato bizantino

1 Nel 1066 Guglielmo, duca di Normandia (Francia) , conquistò l'Inghilterra ponendo fine ai regni preesistenti, frutto delle conquiste di angli e sassoni, popoli germanici (V sec . ) . Guglielmo, chiamato il conquistatore, fondò così il regno d'Inghilterra, dominato da una aristocrazia di lingua francese e di provenienza normanna, e abitato da popolazioni di lingua inglese.

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del IX secolo,2 senza che nella nostra mente appaia all'istante l'im­magine indelebile della Napoli di oggi, o meglio - per la maggior parte di noi - della Napoli letteraria e giornalistica. Stati e popoli vivono nella nostra immaginazione come enti dotati di una pro­pria individualità. Come un individuo, anche uno stato e un po­polo ci appaiono il prodotto della complessa interazione tra il pro­prio patrimonio "genetico" e i condizionamenti dell'ambiente e delle esperienze. Questo atteggiamento mentale, del tutto natura­le, è un ostacolo assai grave alla conoscenza del passato, che è sem­pre, prima di ogni cosa, conoscenza di qualcosa che è diverso da noi e dal nostro tempo. Impariamo, o tentiamo di imparare, inter­minabili successioni di fatti, ognuno con la sua data, senza inter­rogarci sui protagonisti (stati e popoli) di quei fatti, e dando per scontato che essi siano sempre, o in gran parte, uguali a se stessi.

Ora, non c'è dubbio che qualcosa accomuni, oggi, gli inglesi, non solo nella lingua e nella comune appartenenza alla medesima comunità nazionale, ma anche nei comportamenti, nei modi di vi­ta, nella cultura, in una parola. Questa " identità" dell'inglese cer­tamente esiste oggi, nonostante la difficoltà che ci sarebbero a de­finirla (provate a chiedere a un inglese di farlo) , e certamente essa è un prodotto della storia. È però assai pericoloso studiare la sto­ria medievale inglese con il solo scopo di rintracciare le lontanissi­me origini di quell'identità, risalendo il più possibile indietro, fino agli angli e ai sassoni dell'alto Medioevo appunto. Ciò si faceva so­prattutto in età romantica (anche prima, in verità) , e noi, oggi, su­biamo ancora il fascino, senza rendercene conto, della concezione romantica del popolo o della nazione, anche quando apriamo un atlante e, leggendo la scritta " regni anglosassoni" posizionata in corrispondenza dell'attuale Inghilterra, operiamo l 'immediata equivalenza anglosassoni= inglesi. Ecco che nasce, da solo, quel popolo-individuo sempre uguale a se stesso, protagonista scontato

2 Dopo la conquista longobarda della penisola italiana (568), Napoli e la zona circostante rimasero sotto il controllo dell'Impero bizantino, che era rappresen­tato localmente da un duca. A metà del IX secolo, il ducato di Napoli divenne in­dipendente, perché la carica di duca era controllata dalla aristocrazia locale (pro­prio come successe a Venezia, dove il duca divenne, per evoluzione linguistica, doge), e tale rimase fino al XII secolo, quando nacque il regno di Sicilia (com­prendente il Mezzogiorno e l'isola siciliana) .

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di una storia noiosa (che impariamo a fare tante cose se gli anglo­sassoni-inglesi restano sempre gli stessi? ) .

In secondo luogo nel Medioevo sono esistiti molti stati e popoli, e molte aggregazioni di stati e popoli che non sembrano avere cor­rispondenze nel nostro presente. Il nostro sguardo tende a trascu­rarli, per un meccanismo del tutto ovvio, perché è facile dimenti­care che la storia poteva andare anche in un modo del tutto diver­so, che poteva anche non esistere oggi uno stato chiamato Regno Unito (comprensivo dell'Inghilterra e di regioni come il Galles e la Scozia) , o che poteva avere confini e struttura istituzionali assai di­versi (del resto, si dice che la storia non si/a con i se). Vero è che talvolta qualcuno, spinto da motivi politici, riesuma i fantasmi del passato, per rivendicare la propria "identità" oggi, per chiedere maggiore autonomia amministrativa a livello locale, o magari sol­tanto per organizzare un corteo in costume durante una sagra pae­sana. Ecco che si ricade nel primo errore: gli abitanti del Galles o della Scozia di oggi sono considerati identici ai celti del v secolo, quei celti (di cui in verità sappiamo ben poco) che non furono sot­tomessi dagli angli e dai sassoni dopo il dissolversi della domina­zione romana. La scoperta delle proprie " radici" locali - oggi di gran moda - polemicamente contrapposte all'identità nazionale (longobardi e sanniti contro italiani, per esempio) si fonda infatti sulla stessa presunzione dei patrioti risorgimentali. Questi ultimi assumevano che l'italiano, nonostante la mancante unità politica, fosse sempre esistito, almeno a partire dal Medioevo (ma c'era chi si spingeva all'antico romano) . Gli attuali fautori del localismo, in maniera analoga, assumono, per esempio, che gli abitanti della pianura padana siano i diretti discendenti, in sostanza identici, dei longobardi (ma c'è chi si spinge fino ai celti, o meglio ai galli cisal­pini sottomessi da Roma3) . Ne risulta una storia che non cambia mai nulla, perché i popoli restano sempre gli stessi, sia quando rie­scono a riunirsi in uno stato (l'Italia ) , sia quando non ci riescono (il Galles, la Padania).

> I romani cominciarono le loro conquiste nella pianura padana tra il 200 e il 190 a.C., quando ne conquistarono la parte orientale. Le locali popolazioni celti­che (della Gallia "cisalpina", cioè al di qua delle Alpi) furono completamente ro­manizzate. I longobardi, invece, non conquistarono mai tutto il settentrione d'I­talia, perché i bizantini riuscirono a difendere alcune aree costiere (in particola­re la laguna veneta e la Romagna orientale) .

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La storia, per nostra fortuna (o sfortuna? ) , è molto più complessa. Popoli e stati sono il prodotto della storia, ma anche i nomi dei

popoli e degli stati sono un prodotto della storia: non sempre un popolo ha mantenuto lo stesso nome, e viceversa. Ancora più vari sono i rapporti tra i popoli e i territori in cui essi vivevano, cui hanno dato o da cui hanno ricevuto il nome. In ogni caso, studia­re la storia significa comprendere tutte queste vicende, evitando le equivalenze meccaniche che sopra abbiamo indicato (anglosas­soni= inglesi, longobardi= padani). I libri di testo e gli atlanti lo fanno molto bene, ma chi legge spesso non sfugge agli errori che abbiamo evidenziato.

1 .2 Stati e stato

Purtroppo, le insidie dell'atlante, e del nostro linguaggio, non so­no finite qui. Se passiamo dai nomi geografici ed etnici (Inghilter­ra e inglesi, Napoli e napoletani) alla definizione di "stato" o a quella apparentemente più corretta di " regno" , la situazione peg­giora. Da quasi un secolo gli storici insistono sulla totale diversità degli "stati" del passato rispetto a quelli attuali, tanto che alcuni negano l 'esistenza stessa di qualcosa che si possa chiamare "stato" non soltanto nell'età medievale (476- 1492) , ma anche nel corso dell'intera età moderna ( 1492- 1 8 15) .

Viene giustamente argomentato che l'unico vero stato sia quello esistito nel mondo occidentale nel corso dell'Ottocento e della pri­ma parte del Novecento. Questo stato è dotato di caratteristiche precise: la piena sovranit-à su un �rritorio ben definito nei suoi coofini, difeso da ingerenze esterne (stati confinanti) e interne (per esempio quella ecclesiastica) , il monopolio della forza e del diritto (sono leggi solo quelle dell'autorità statale, che, attraverso apposi­ti tribunali, giudica e condanna chi non le rispetta) , il controllo più o meno esteso delle principali risorse di interesse pubblico (mari e corsi d'acqua per esempio, il demanio insomma), un appa­rato burocratico stabile e indipendente da condizionamenti che non siano quelli della legge statale.4 Questo Stato, per il quale si

4 Nella seconda metà del Novecento questo modello di Stato è entrato in crisi: la piena sovranità è intaccata dall'interventismo di organizzazioni internazionali

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preferisce usare la maiuscola, è un'entità astratta, che prescinde dagli individui che operano in suo nome, dall'eventuale sovrano o presidente della repubblica all'ultimo dei funzionari pubblici.

Viene osservato che gli "stati" medievali (rigorosamente da seri­versi con la minuscola e al plurale) non possono essere paragonati neppure lontamente allo Stato ottocentesco, manifestazione di una determinata cultura giuridica e politica e di un'altrettanto ben individuata ideologia, quella liberale e borghese. È dunque un er­rore marchiano cercare nel passato i segni anticipatori dello Stato liberale, enfatizzandoli talmente da offuscare la reale natura di quelle organizzazioni, che anzi sarebbe molto meglio non chiama­re neppure "stati" .

Che cos'era, per esempio, lo "stat_o" q.rolingio (VIII-IX secolo) ? Esso era amministrato d a funzionari locali, i comites (conti) , rap­presentanti diretti dell'imperatore nelle circoscrizioni territoriali loro affidate, i comitatus (contee) .5 I poteri del conte possono es­sere riassunti nella formula, attestata dalla documentazione, di ba­ste, via ac placito (esercito, strada e assemblea giudiziaria, in tre ablativi del latino medievale) . Il conte adunava l'esercito quando necessario, controllando attraverso suoi emissari che tutti gli uo­mini liberi della sua circoscrizione obbedissero alla chiamata alle armi; curava la manutenzione delle strade e delle fortificazioni pubbliche; presiedeva il placitum, l 'udienza in cui venivano giudi­cati i colpevoli di un reato. Per mantenere se stesso e i suoi colla­boratori, oltre che per le attività suddette, il comes costringeva gli uomini liberi a lavorare per l'interesse pubblico, a fornire fieno e altre derrate alimentari, a ospitare gratuitamente il suo seguito o i suoi guerrieri e giudici.

Dovendo sintetizzare, i libri di testo definiscono tutte queste funzioni come pubbliche (lo fanno del resto anche le fonti del tem­po) , e presentano il conte come un funzionario pubblico cui era affidata l'amministrazione di una circoscrizione territoriale, la con-

(sanzioni economiche, forze militari di pace e di occupazione) o, in alcuni paesi, da potentissime organizzazioni criminali. L'ordinamento giuridico, poi, subisce interferenze non irrilevanti da fonti del diritto esterno allo Stato (per esempio l'Unione Europea) .

� Esistevano funzionari territoriali con diversa qualificazione, i duces (duchi) e i marchiones (marchesi) , ma avevano sostanzialmente le stesse funzioni dei conti.

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tea. È giusto, non c'è dubbio. L'uso di queste parole, che sono le stesse del nostrb tempo, ha però il medesimo effetto dell'uso di nomi geografici ed etnici. Il conte sembra agire in alcuni ambiti ti­pici del potere statale attuale: nell'ordine: la difesa, le opere pub­bliche, la giustizia, il fisco. Tuttavia, egli non è affatto paragonabi­le a un funzionario statale di oggi, e neppure a uno del xv secolo. Egli non aveva una formazione scolastica e professionale, perché non esistevano scuole e università, né corsi di formazione, né tan­tomeno aveva superato un concorso: molto probabilmente non sa­peva né leggere né scrivere. Non aveva a disposizione un comples­so omogeneo e non contraddittorio di norme che delimitassero i suoi compiti, ma solo provvedimenti slegati tra loro, che gli erano inviati dall'imperatore, e che qualcuno gli traduceva dal latino nel­la sua lingua, germanica o romanza. Non aveva un ufficio né una sede stabile, perché era impossibile controllare un territorio senza percorrerlo continuamente. Del resto, quel territorio non aveva confini precisi rappresentati da carte geografiche, ma era segnato da elementi naturali o, al massimo, da bastoni e altri segni confi­nari: in genere la gente del luogo ricordava e, all'occorrenza, testi­moniava che quello era veramente il territorio del tal conte.

Il conte carolingio era semplicemente un guerriero, e tutte le sue competenze si riassumevano nella capacità di dare ordini e farli ri­spettare. Egli viveva e governava in un contesto che si reggeva sul­l' oralità, cioè sulla parola e non sullo scritto, e sui rapporti perso­nali. Lo "stato" era per lui la fedeltà giurata al suo imperatore, che lo ricambiava con fiducia e benefici, era la protezione militare e quasi paterna che egli assicurava ai suoi " ragazzi" o vassalli, ovve­ro i migliori guerrieri che lo accompagnavano, e in generale a tut­ti gli uomini liberi del suo territorio. Uno "stato" fatto dunque di persone e di forza militare.

Eppure, la parola pubblico era usata abitualmente dai pochi let­terati del tempo, tutti ecclesiastici o monaci,6 i quali scrivevano le

6 Sono detti ecclesiastici i membri dell'organizzazione della Chiesa (ekklesia in greco), in particolare sacerdori e vescovi. I monaci e le monache sono invece laici che decidono di consacrare la propria esistenza alla preghiera, da soli o in comunità (eremiti o cenobiti, riuniti in residenze detti cenobi o monasteri), sempre però in una situazione di isolamento dal mondo, al fine di elevarsi spiritualmente fino a Dio (ascesi) . I monaci, come ad esempio i benedettini, non erano necessariamente

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leggi che l 'imperatore inviava ai suoi conti, i capitolari. Con quella parola ci si richiamava proprio alla tradizione del passato, dell'im­pero romano, e questo richiamo non era privo di significato, nep-

1 pure per un rozzo guerriero come il nostro conte. Le azioni e le decisioni degli uomini non sono infatti condizionate soltanto dal­la realtà, ma anche dalla rappresentazione ideologica della realtà, dai vagheggiamenti, dalle suggestioni. E coloro che conoscevano, anche se molto superficialmente, la storia romana riuscivano a in­fluenzare i potenti di allora, dall'imperatore, ai suoi conti, ai loro vassalli, dando un significato più elevato e complesso a quello che essi facevano.

Ma, certo, quanta distanza dallo Stato che noi oggi conosciamo . . .

1 .3 La psicologia dei personaggi

«Alarico invase l'impero romano d'Occidente per estendere il suo territorio». Un'affermazione del genere, che ho sentito in occasio­ne degli esami di Storia medievale, attribuisce al visigoto Alarico, responsabile di un celebre saccheggio di Roma (4 1 0) , un progetto politico semplice, di immediata comprensione: quello di costruire un dominio territoriale all'interno dell'impero romano, come in effetti fecero i visigoti, dopo la morte di Alarico, nella penisola iberica. Nessun manuale di storia contiene quella frase, ma lo stu­dente ricostruisce automaticamente la motivazione dell'attacco di Alarico, attribuendogli desideri e appetiti che sembrano del tutto ovvi. Alarico non era forse un invasore, per di più un barbaro? E che cosa può volere un barbaro invasore se non distruggere, sot­tomettere, conquistare? Un fatto del passato (l'invasione visigota) è così spiegato con la motivazione psicologica del protagonista (il desiderio di potere di Alari co) . Questa motivazione psicologica torna identica in affermazioni come «Carlo Magno attaccò i lon­gobardi per estendere il suo territorio», riferita alla guerra franco-

sacerdoti (oggi, invece, lo sono in pratica quasi tutti). Dai monaci e dalle monache vanno distinti i frati e le suore, che appartengono a ordini religiosi nati a partire dal XII secolo: essi, riuniti nei conventi (non nei monasteri) non intendevano iso­larsi dalla società, in cui erano attivi come predicatori o come testimoni di una vi­ta ispirata al vangelo e fondata sulla povertà.

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longobarda del 774, o come «Bush ha attaccato l'Iraq nel 2003 per estendere il potere imperialista degli Stati Uniti», frase non infre­quente nella pubblicistica antiamericana dei nostri giorni. Le azio­ni di Alarico, Carlo Magno, George W. Bush sono dunque spiega­te in base a due presupposti impliciti, ben radicati dentro di noi: primo, l'uomo è rimasto uguale a se stesso nel corso dei millenni; secondo, chi intraprende una guerra senza un motivo giusto è giu­dicato malvagio, dunque i suoi comportamenti non hanno altra giustificazione che la sua malvagità, alla quale si contrappone eventualmente la bontà dell'avversario (il romano del v secolo, il longobardo dell'viii, l'iracheno del XXI).

Quanto ho appena detto non sarebbe certamente condiviso da nessuno: è evidente a qualsiasi studente che le guerre e in genera­le gli eventi storici hanno ragioni, condizionamenti, sviluppi assai diversi. Tuttavia, lo sforzo di chi studia un manuale di storia me­dievale è spesso così concentrato sulla memorizzazione dei dati (l'anno, l'evento, il protagonista) , che si riduce l'apprendimento all'osso, fraintendendo o dimenticando tutto il resto. Al momento dell'esposizione davanti al docente, un momento sempre critico, quei dati si colorano inevitabilmente di motivazioni banali - quel­le che ho provato ad esplicitare - tratte non tanto dalla contem­poraneità, ma piuttosto dall'esperienza quotidiana. Poiché un gio­vane, ovviamente, ha frequentato più i cartoni animati, i film d'av­ventura, i videogiochi che i quotidiani o i saggi di storia, succede che all'informazione così faticosamente memorizzata si sovrap­ponga il nostro immaginario narrativo: il buono e il cattivo, l'inva­sore e il resistente, il barbaro e il civilizzato, categorie eterne che non sembrano smentite dall'ennesimo fatto storico da imparare.

Se un vantaggio ha lo studio della storia, questo è quello di mo­strare la complessità dell'agire umano, nel passato e nel presente. Primo: l'uomo non è rimasto uguale a se stesso nel corso dei mil­lenni. La sua psicologia, la sua mentalità cambiano nel corso della storia (e quello che non è cambiato è oggetto di studio di altre di­scipline, come l 'antropologia culturale, per esempio) . E cambiano naturalmente i contesti materiali e culturali in cui egli opera. La stessa azione (un'uccisione, un attacco militare) assume forme e si­gnificati assolutamente diversi. Purtroppo un manuale di storia generale non può soffermarsi a lungo sulla psicologia, sulla men­talità, sui valori culturali delle società del passato, se non margi-

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nalmente, o magari in capitoli diversi, lontani da quello in cui si narra di Alarico o Carlo Magno. Non per questo dobbiamo so­vrapporre la nostra psicologia, la nostra mentalità, i nostri valori culturali ai fatti del passato.

E con questo veniamo al secondo punto: non ha senso, infatti, leggere il passato sulla base dei nostri giudizi di valore, assumendo come negative e condannabili (per di più col senno di poi) tutte le varie manifestazioni dell'aggressività umana. Per quanto possa sembrare cinico affermarlo, la guerra e la violenza non erano in passato, e non sono ancora in alcuni luoghi della terra, dei disva­lori in sé. Dal versante opposto, la stessa vita umana non ha sem­pre avuto quel valore assoluto che oggi le attribuiamo, indipen­dentemente dalla condizione sociale, dal sesso e dall'età del singo­lo. Per gran parte della storia umana, infatti, un povero, uno schia­vo, una donna, un neonato hanno avuto un valore assai inferiore a quello di un guerriero maschio adulto, nell'ambito concreto della vita sociale, ma anche in quello della vita affettiva. Proprio così: anche l'amore più tenero e scontato, quello per un figlio appena nato, magari oggetto di aspettative familiari e dinastiche, non si esprimeva con l'intensità e l'esclusività di oggi. Prima di giudicare il passato, cui era del tutto estranea l'attuale concezione dei diritti umani e della loro inalienabilità, bisogna comprenderlo. Allo stes­so modo, per fare un altro esempio, fino alla prima metà del No­vecento l' «estensione del proprio territorio» o del «proprio pote­re» erano comunemente considerati un fattore positivo, il segno del successo di un individuo, di un popolo, di uno Stato e non un obiettivo politico di cui, eventualmente, vergognarsi.

Per_Alarko,_.saccheggiare Roma non significava sconfigger� l'im­pero romano impadronendosi della sua capitale. Egli non voleva né era in grado di concepire un progetto militare e politico di que­sta portata. Altrimenti, una volta presa Roma, si sarebbe procla­mato imperatore, o quanto meno si sarebbe fermato un po' più di tre giorni in quella città. Al contrario, la sua era una semplice rap­presaglia, perché egli si sentiva come un alleato tradito, e un allea­to di Roma era senza alcun dubbio. I visigoti che egli guidava era­no da oltre una generazione/oederati (alleati) dell'impero, al qua­le garantivano un indispensabile supporto militare. Le tribù fede­rate, infatti, combattevano insieme con l'esercito imperiale, anche se non erano inquadrate in esso stabilmente. I federati, che pur

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mantenevano la loro organizzazione sociale e la loro diversità cul­turale, vivevano all'interno dell'impero, avevano a che fare quoti­dianamente con genti di lingua latina e greca, collaboravano con funzionari civili e militari romani. Alarico non si sentiva e non era un invasore, ma piuttosto un ospite/ ora gradito, ora sgradito, che all'occorrenza poteva salvare l 'impero dai suoi nemici. La forza militare barbarica era infatti diventata indispensabile per l'impero romano, e questo era ben noto a personaggi come Alarico, che al­zavano continuamente il prezzo delle loro "prestazioni" . Così, da alcuni anni, Alarico pretendeva un risarcimento per una spedizio­ne militare che gli era stata affidata e che non aveva avuto seguito, con suo danno. Inoltre, aspirava a qualche carica più prestigiosa e remunerativa nell' amministrazione romana, come quella di magi­ster utriusque militiae, comandante generale di tutte le forze mili­tari (fanteria e cavalleria) . Effettivamente, i senatori romani prese­ro con lui un impegno del genere in occasione del sacco di Roma, pur di allontanarlo dalla città.

In conclusione, Alarico nel 4 1 0 non voleva affatto fondare un regno dei visigoti, voleva invece " fare carriera" nell'impero, come altri barbari, utilizzando il canale consueto per le genti barbariche, quello militare, e cercandosi interlocutori tra i personaggi più po­tenti della corte imperiale o del Senato. Doveva passare ancora una generazione, altri 25-30 anni, prima che si sperimentassero forme diverse di organizzazione politica, come i regni romano­barbarici, i quali nacquero quando fu chiaro alle élite imperiali ( i più potenti romani, da un lato, i capi militari romani e barbarici dall'altro) , che l ' impero (o meglio la sua parte occidentale) non poteva più sopravvivere.

Torniamo alla frase «estendere il suo territorio». Un territorio i visigoti ancora non l 'avevano. Essi erano stati autorizzati a inse­diarsi nell'Illirico (nella penisola balcanica), ma non si erano an­cora trasformati in sedentari. La loro migrazione, cominciata un secolo prima nella pianura del Don, non era ancora finita. Nep­pure quando si insediarono in Spagna, nella seconda metà del v secolo, avevano una concezione territoriale del loro potere, anche se erano molto cambiati. Dunque Alarico non aveva alcun territo-

7 Si veda, per la qualifica di ospiti (hospites), p. 56.

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rio da estendere, ma magari era alla ricerca di un insediamento soddisfacente per i suoi.

Carlo Magno, lui sì, aveva un territorio, ma il suo attacco ai lon­gobardi non fu il risultato di una semplice espansione militare. Egli aveva contratto un debito con il vescovo di Roma, il papa, che aveva riconosciuto a lui e al padre, Pipino il Breve, la funzione di patritius Romanorum, cioè, con uso non classico dell'espressione, di "protettore" dei romani, laddove i romani erano semplicemen­te coloro che non vivevano nel regno longobardo d'Italia, ma nel­le regioni rimaste bizantine, come Roma e il Lazio (la definizione richiamava però inevitabilmente l'impero romano: non dimenti­chiamo il piano ideologico cui abbiamo accennato nel § 1 .2 ) . Pi­pino e Carlo si assunsero dunque il compito di difendere la chiesa di Roma dagli attacchi dei longobardi, i quali da. due secoli domi­navano ampie aree della penisola. Anche questa conquista ha dun­que le sue specifiche motivazioni, i suoi particolari contesti, su cui però ora non ci soffermiamo. Saltiamo anche Bush, il cui caso con­ferma il pericolo delle semplificazioni anche nella contempora­neità,8 e passiamo a un'altra questione.

1 .4 L'anacronismo, compagno della ricerca storica

Insomma, se i nomi di luoghi e di popoli creano l'effetto di prota­gonisti eterni della storia medievale (laddove esso sono l'ultimo esito di quella storia) , concetti come "stato" o "pubblico" sem­brano essere un ostacolo ancora più grande alla comprensione del passato. Nell'uno e nell'altro caso si cade nel peggiore errore che possa esistere per chi studia la storia: l'anacronismo. Vuol dire at­tribuire al passato caratteri del presente, allora inesistenti. «Con­tro tempo», cioè «nel tempo sbagliato» è l'etimologia di anacroni­smo, dunque esattamente l'opposto della storia, che è la «scienza

8 Gli Stati Uniti - si sente dire- avrebbero attaccato l'Iraq "soltanto" per con­trollarne i giacimenti petroliferi. Ora, prescindendo da giudizi sulla politica del presente, è interessante notare che tale obiettivo è comunemente inteso come vergognoso, persino da chi sostiene la giustezza di quella "guerra preventiva" . Prima della seconda guerra mondiale mettere l e mani sulle risorse d i un'altra na­zione non era considerata un'azione vergognosa.

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Medioevo: istruzioni per l'uso

degli uomini nel tempo», secondo una bella definizione coniata da uno dei più grandi storici del Novecento, il francese Mare Bloch.

Per evitare tali semplificazioni, gli storici hanno aggiunto alla pa­rola stato molte aggettivazioni e specificazioni, descrittive o inter­pretative, al fine di sottolineare le radicali differenze tra le orga­nizzazioni politiche che si sono succedute nel tempo: stato roma­no-barbarico, stato carolingio, stato feudale, stato territoriale, sta­to regionale, stato rinascimentale, stato per ceti, stato composito, stato moderno, stato. di diritto.

Tuttavia, parole come "stato" hanno una forza tale, da evocare continuamente lo Stato che oggi pervade ancora ogni aspetto del­la nostra esistenza, nonostante le ricorrenti richieste politiche di liberalizzazioni economiche e devolution amministrative. Lo stesso avviene per molti, se non tutti, i concetti usati dagli storici.

Da questo punto di vista, la storia si differenzia dalle scienze definite " dure" , come la fisica o la biologia. Esse si giovano di un linguaggio assai tecnico, fatto di definizioni rigorose o addirittura di simboli, numeri, formule. Lo storico è costretto a servirsi di metafore, paragoni, perifrasi del linguaggio corrente, con tutte le loro ambiguità. Per evitare le insidie del nostro linguaggio, lo sto­rico sceglie alcune soluzioni alternative: usa direttamente il ter­mine del passato, senza tradurlo, come il latino curtis9 e il germa­nico arimanno, 10 oppure sostituisce le parole più fraintese, prefe­rendo comitatus a contea, o vincolo vassallatico-bene/iciario a feu­dalesimo. 11 Ma si tratta, come è evidente, di piccoli accorgimenti,

"Cfr. p. 29, nota 12 . 10 Varimannus o, con parola latina, exercitalis era nell'Italia longobarda il pro­

prietario terriero libero, unico titolare di diritti e doveri nei confronti dell'auto­rità pubblica, in primo luogo il diritto-dovere di combattere. Dopo la conquista franca, il termine è sopravvissuto in alcune aree dell'Italia con significati diversi.

1 1 Gli storici italiani preferiscono distinguere il vincolo vassallatico-beneficia­rio (il legame personale tra due guerrieri, detti senior e vassus: il primo concede un beneficio terriero, il secondo assicura il servizio militare) e il feudalesimo co­me sistema di coordinamento politico tra potere centrale e poteri locali. Il vin­colo vassallatico-beneficiario è comparso nella Gallia merovingica dell'viii seco­lo e si è poi diffuso in tutta l 'Europa carolingia. Il feudalesimo "vero e proprio" è da datare ai secoli XI-XIII e oltre. Il termine feudalesimo, però, ha altre acce­zioni (cfr. § 2 .8) .

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che, pur agevolando l'estraniamento dal presente, non sono co-munque sufficienti.

·

In sostanza, siamo inevitabilmente prigionieri del nostro lin­guaggio, uno strumento imperfetto e, in rapporto al passato, ana­cronistico. Tuttavia, non possiamo farne a meno. In ciò sta tutta la difficoltà, la paradossale difficoltà della storia: il passato, anche il più lontano, è compreso e narrato con le parole e i concetti del presente. È una difficoltà del mestiere di storico, e del mestiere di studente di storia. Bisogna esserne consapevoli, e assumersi tutti i rischi del caso.

L'anacronismo, del resto, non è solo e sempre un nemico per chi chi studia la storia. Talvolta, esso può aiutarci molto a compren­dere il passato, e ciò avviene secondo due modalità principali: quella dell'analogia e quella del contrasto. È quanto abbiamo fat­to nei paragrafi precedenti. Le funzioni del comes carolingio sono state spiegate mediante un paragone con il funzionario pubblico del nostro tempo, rispetto al quale sono state evidenziate le enor­mi differenze, ma anche le analogie fondamentali (il comes è co­munque definibile come un funzionario pubblico) , distinguendo perfino tra la situazione concreta (un guerriero analfabeta legato da fedeltà e amicizia al suo imperatore) e le rappresentazioni ideo­logiche elaborate dagli uomini di cultura. Le motivazioni dell'at­tacco a Roma da parte di Alarico sono state spiegate per contrasto con il concetto di conquista del nostro immaginario letterario e te­levisivo, insistendo sul concetto attuale di territorio, che Alarico non era in grado di capire.

Come si vede, per comprendere la storia è inevitabile muoversi continuamente tra passato e presente: ma qui non intendiamo di­re, banalmente, che il passato spiega il presente. Anzi: abbiamo in­sistito sul rischio che corre chi intende lo studio della storia sol­tanto come una ricerca delle origini del presente (vedi anche § 2.6) . Al contrario: è il presente che necessariamente spiega il pas­sato, inteso come il presente della nostra cultura, della nostra esperienza, del nostro linguaggio.

Purtroppo, la compagnia inevitabile dell'anacronismo, o alme­no di un anacronismo "buono" , non sempre favorisce lo studente di storia, in difficoltà perché l 'ignoranza del passato raddoppia con l 'ignoranza del presente che spiega quel passato.

I testi e i docenti ricorrono continuamente all'attualità per spie-

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gare il passato, per far sì che nozioni e concetti così diversi e lon­tani da noi possano essere ancorati in qualche modo alle cono­scenze e alle esperienze dello studente. Affermazioni come «l'im­pero carolingio era diviso in circoscrizioni affidate a funzionari pubblici, i comites», «l longobardi scesero in Italia dalla Panno­nia, attuale Ungheria» implicano che chi le legge sappia che cosa vogliono dire le espressioni " circoscrizione" e "funzionario pub­blico" e dove si trovi oggi l'Ungheria. Implicano dunque che lo studente possieda nozioni e concetti fondamentali di diritto pub­blico (una volta si parlava di educazione civica) e di geografia. Ciò non sempre avviene. Il primo compito di chi studia un manuale di storia medievale (o di qualsiasi altro periodo) è allora quello di avere un dizionario della lingua italiana (o un dizionario del Me­dioevo) e un atlante storico a portata di mano. Sono raccomanda­zioni ovvie, ma spesso disattese.

1 .5 Per concludere: fatti e questioni

E allora: stati, popoli, concetti, motivazioni, valori, sentimenti: tut­to può essere ed è costantemente frainteso e riportato alla nostra esperienza. Ecco spiegata la noia della storia. Se i protagonisti so­no gli stessi di oggi, se il contesto in cui essi operano è il medesi­mo, se le motivazioni che spingono gli uomini a combattere e mo­rire sono le stesse di oggi e di sempre, che gusto c'è a imparare storie così lontane da noi? Tanto vale accendere il televisore colle­gato all'antenna satellitare e guardarsi un bel film.

In effetti, è sorprendente il contrasto tra il successo che da lun­go tempo ha il Medioevo nellajidion di qualsiasi genere e la diffi­denza per la storia medievale nelle scuole e nelle università. Tante date, tanti fatti, tanti personaggi continuano a spaventare quello stesso studente che adora Bravehearth o Robin Hood.

La presenza del Medioevo nel nostro immaginario non è certo da demonizzare: esso è ormai una costante del nostro presente, un luogo esotico di dame e di cavalieri, di castelli e di invasioni, di santi e di streghe, di celti e di templari, oppure, in senso negativo, un pericolo sempre vivo da evitare (§ 2 .7) . Questo Medioevo im­maginario, ma non del tutto inventato, potrebbe essere un ottimo punto di partenza per una conoscenza più approfondita. L'inte-

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resse per una disciplina può nascere anche da suggestioni e frain­tendimenti di qualsiasi genere.

Non è possibile però fermarsi a questo punto, almeno se si è iscritti all'università, il che presuppone un desiderio di conoscen­za. Ogni conoscenza comporta uno sforzo, questo è ovvio: le istru­zioni per l'uso qui presentate non sono una formula magica per su­perare in quattro e quattr'otto un esame universitario di storia me­dievale. Esse non possono evitare che lo studente studi, e anche con una certa fatica. Potrebbero però, almeno questo è nelle in­tenzioni di chi scrive, evitare che quella fatica sia insensata e in­fruttuosa.

Semplificando, due sono le operazioni che uno studente deve fa­re: memorizzare fatti, comprendere questioni. Riprendiamo gli esempi fatti sopra: per gli argomenti "I visigoti" o "L'impero caro­lingio" bisogna memorizzare (memorizzare, non c'è altro modo) i dati informativi contenuti nelle seguenti frasi «Alarico, re dei visi­goti, saccheggiò Roma nel 4 10», e «Carlo Magno fu incoronato imperatore nell'800. Il suo impero era diviso in circoscrizioni affi­date a funzionari pubblici, conti, duchi e marchesi». Già la sem­plice memorizzazione non è un'operazione meccanica: prima di tutto bisogna sapere dove si trova Roma e dove si trovavano i visi­goti prima di attaccarla, avere cioè alcune conoscenze generali e specifiche in cui inserire la nuova informazione.

Inoltre, bisogna comprendere, come si è visto, quali erano le motivazioni di Alarico. Si tratta di affrontare l 'argomento: "L'in­contro latino-germanico" , che implica la risposta a domande come «Perché Alarico saccheggiò Roma? Quali differenze culturali c'e­rano tra germani e romani? Quali contatti avevano avuto prima del 4 1 0?» ecc. Per l' impero carolingio, la frase sopra riportata comporta invece la conoscenza del concetto di «funzionario pub­blico» e la piena comprensione della particolare struttura istitu­zionale dell'impero, una «associazione personale» più che uno sta­to territoriale, come è stato sostenuto, un'associazione che però si nutriva di un suggestivo richiamo alla res publica romana.

Quale che sia la domanda d'esame ( " Il sacco visigoto di Roma" o "L'incontro latino-germanico" ) , una buona risposta comprende tutti gli elementi che abbiamo indicato, ed è compito dello stu­dente saper passare con scioltezza dal piano meramente informa­tivo (Alarico, il 4 1 0) a quello, per così dire, interpretativo. Memo-

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rizzazione (di persone, luoghi, date, fatti) e comprensione (di que­stioni politiche, economiche, religiose ecc.) non sono mai due ope­razioni mentali separate. Allo stesso modo, la conoscenza degli eventi non è separabile da quella delle strutture: il sacco del 410 e la struttura politica e militare del tardo impero romano (fondato sulla collaborazione con l 'elemento barbarico) . Pretendere di ri­cordare tutti i fatti di un manuale di storia medievale è impresa folle come imparare a memoria un elenco telefonico. Ma preten­dere di conoscere le società del passato senza ricordare fatti e da­te equivale a leggere una serie di SMS senza conoscere né il nome dei mittenti, né l 'ordine e la data dei messaggi!

Quasi sempre, nei manuali scolastici e universitari, la semplice narrazione dei fatti, che sono sintetizzabili solo fino a un certo punto, prende materialmente più spazio della presentazione delle questioni e delle strutture, che talvolta si giovano di approfondi­menti a parte. Chi studia deve imparare a selezionare l'enorme quantità di informazioni, memorizzandone soltanto una parte', e a individuare i passaggi più pregnanti del suo manuale, dove lo sfor­zo di comprensione prevale su quello della memorizzazione.

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2 . L'oggetto Medioevo e la disciplina "storia medievale"

2 . 1 Che cos'è i l Medioevo

Il Medioevo è un periodo della storia europea che comincia nel 476, data della. depo�iziQrte dell'ultimo imperatore romano d'Oc­aciente, e termina nel 1492 , data della scoperta dell'America da parte di Cristoforo Colombo.

Medioevo vuol dire età (evo) di mezzo (medio), cioè periodo in­termedio tra l 'età antica, terminata appunto con la fine dell'impe­ro romano d'occidente, e l'età moderna, cominciata con le grandi scoperte geografiche. Si tratta di una definizione all'apparenza neutra (tutti i periodi sono di mezzo . . . ) , ma che fin dal principio ha avuto una connotazione negativa, legata all'idea della barbarie e della decadenza.

I primi ad usare il termine di media tempestas, cioè "tempo di mezzo" , furono uomini del xv secolo, in particolare umanisti, cioè filologi, e artisti italiani. Essi non coniarono questa definizione perché intendevano condurre uno studio storico su questo perio­do di mezzo, manifestando dunque un interesse per esso, ma solo perché volevano isolare con una definizione semplice il periodo di mezzo tra la loro epoca (i tempi moderni, cioè " recenti" ) , e l'anti­chità classica, a cui essi si richiamavano per trame ispirazione, e concretamente per reperire modelli linguistico-letterari (la lettera­tura, la storiografia) , artistici (la scultura, l 'architettura, meno la pittura, per la scarsa quantità di opere sopravvissute) e persino grafici (le iscrizioni romane, i più antichi manoscritti) . La lettera­tura e l'arte dell'età di mezzo erano da rifiutare in blocco.

Gli umanisti infatti inorridivano di fronte al latino scorretto del­le università e delle cancellerie (vedi § 3 .4) , cui sostituirono l'imi­tazione degli autori classici latini; ed erano infastiditi dai chiaro­scuri e dalle spigolosità della grafia detta gotica, cui contrappose-

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Medioevo: istruzioni per l'uso

ro una nuova grafia ( "umanistica" 1 ) e l 'alfabeto capitale delle iscri­zioni romane disseminate in tutt'Europa e in particolare in Italia. Allo stesso modo, gli artisti aborrivano le forme dell'architettura e della scultura dette anch'esse gotiche, per rivolgersi all'arte greca e romana.

Il Medioevo di questi umanisti e artisti non era dunque un' epo­ca definita nei suoi caratteri specifici, ma un contenitore di opere rifiutate. Tale giudizio negativo non coinvolgeva in alcun modo gli altri aspetti del periodo (istituzioni, economia ecc.) , che non erano proprio presi in considerazione.

La reale identificazione del Medioevo come una precisa parti­zione della storia europea (che allora era assimilata alla storia uni­versale dell'uomo) si ebbe molto più tardi, nel corso del XVI, XVII

e XVIII secolo, via via che quel periodo era effettivamente studiato da vari punti di vista. La definizione "Medioevo" si cristallizzò a fine Seicento, in particolare grazie a un fortunato manuale del pro­fessore tedesco Christof Keller (il cui nome latinizzato era Cella­rius ) , pubblicato nel 1688: Historia medii evi.2 La scansione storia antica l storia medievale l storia moderna si diffuse così nell'inse­gnamento e nella ricerca, restando valida fino ad oggi, nonostante la sua genericità. La scelta di Keller, che aveva una funzione meta­mente pratica, definì per sempre il nome di quel periodo.

Dunque, il Medioevo è nato quasi per caso, come nasce un so­prannome di cui lo sfortunato portatore non riesce più a liberarsi. Come sono esistiti "malpeli" senza attitudini malvage e magari senza neppure i capelli rossi/ così vive oggi un Medioevo che è

1 Gli umanisti italiani inventarono una nuova grafia, imitando i più antichi ma­noscritti di opere classiche di cui disponevano, i quali risalivano all'età carolingia. Dalle grafie create dagli umanisti sono derivati i nostri caratteri a stampa e il cor­sivo. Per grafia si intende il modo in cui sono materialmente tracciate le lettere: gli occhielli, le aste ecc.

2 Keller pubblicò tre libri di storia, uno dedicato all'antichità, uno al Medioevo (dai tempi di Costantino al 1453 ) e una Historia nova dedicata al XVI e XVII seco­lo. La storia nuova era quella a lui contemporanea. Soltanto nel corso del Nove­cento si è distinto tra la storia moderna e quella contemporanea, due definizioni che sono cariche di ambiguità come quella di Medioevo.

3 Il riferimento è a Rosso Malpelo ( 1878) , celebre novella di Giovanni Verga. È un fatto che in passato i soprannomi si tramandavano facilmente ai figli o agli al­tri congiunti, anche se essi non possedevano le caratteristiche evidenziate dal

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L: oggetto Medioevo e w disciplina "storia medievale"

nato soltanto nel XV secolo e che talvolta non ha niente a che fare con il vero Medioevo, il periodo che va dal 476 al 1492 . Non è un paradosso: il Medioevo come concetto storiografico (cioè come concetto elaborato in sede di studio della storia) , come suggestio­ne, come paradigma negativo (vedi § 2 .7 ) ha avuto e ha un'esi­stenza e una fortuna indipendentemente dal Medioevo reale, quel­lo che ricostruiscono gli studiosi e che i docenti dell'università e della scuola hanno il compito di insegnare.

La soluzione a questa situazione è all'apparenza semplicissima: basta definire esattamente che cosa fu il Medioevo, quali furono i suoi caratteri originali, in che cosa quest'epoca si differenziò dalle altre. Non sono queste le risposte che si attende chi legge un libro di istruzioni per lo studio della storia medievale? Dunque, che co­s'è il Medioevo?

Il Medioevo è un periodo della storia europea che comincia nel 476 e termina nel 1492 . La risposta non può che essere questa, perché il Medioevo non fu una civiltà, un'epoca unitaria, non eb­be caratteri omogenei nettamente distinguibili da quelli dei perio­di precedenti e successivi. Se intendiamo per Medioevo una civiltà unitaria, allora il Medioevo non esiste, o - meglio - sono esistiti molti Medioevi, più brevi e più lunghi di quello convenzionale.

2.2 La periodizzazione: problemi di ricerca e di studio

Dividere in periodi (o periodizzare) vuoi dire in realtà interpretare. Il primo compito di uno storico è datare il fenomeno di cui egli si occupa. A livello generale, gli storici italiani preferiscono dividere il Medioevo in due periodi: l'alto Medioevo (secoli V-XI) e il basso Medioevo (secoli XI-XV) , dove il primo periodo sarebbe quello della stagnazione demografica ed economica e della travagliata sperimentazione di nuove organizzazioni istituzionali dopo la fine dell'impero romano d'Occidente, mentre il basso Medioevo sa-

soprannome stesso, come il colore dei capelli e la presunta malvagità. Pur­troppo, nel caso di Rosso Ma/pelo, il soprannome, frutto di pregiudizi cultu­rali, finisce per condizionare i comportamenti di chi lo porta. È un po' quel-lo che avviene al Medioevo storico o " reale " , sempre condizionato dlJ.Al�UN� immaginario.

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Medioevo: istruzioni per l'uso

reb be all'opposto il periodo della crescita demografica ed econo­mica e della nascita di regni e altre formazioni territoriali stabili destinate spesso a una lunga durata. Si tratta di una semplificazio­ne, anche in questo caso, ma di una semplificazione necessaria perché lo studente cominci ad avere un primo punto di riferimen­to. Storici di altre tradizioni culturali preferiscono la tripartizione alto o primo Medioevo (v-x sec. ) , pieno o alto Medioevo (X-XIII) ,

basso o tardo Medioevo (xm-xv).4 Definizioni come "pienome­dievale" o " tardomedievale" possono quindi comparire anche in manuali italiani, anche se raramente vengono indicati i caratteri originali di ciascuna di queste due o tre epoche.

La differenza assai più consistente tra alto e basso Medioevo è un'altra, spesso ignota agli studenti: occuparsi dell'uno o dell'altro significa quasi praticare due discipline diverse, perché i rispettivi studiosi dispongono di fonti diverse e devono sviluppare compe­tenze scientifiche e metodi di analisi differenti. Tranne poche ec­cezioni, infatti, le fonti della storia europea in età altomedievale sono da un punto di vista tipologico le stesse della storia antica:5 atti legislativi delle autorità maggiori (l'imperatore, il papa, i re) , opere scritte, naturalmente in latino (storie, cronache, epistolari di grandi personalità, opere letterarie) , resti materiali (edifici, scultu­re e pitture, cimiteri, oggetti, monete) . Rarissimi sono i documen­ti giuridici, come donazioni, compravendite, testamenti e contrat­ti commerciali, o i documenti patrimoniali, come gli inventari di beni (questi tipi di documenti sono quasi totalmente assenti nel periodo VI-VII secc. ) , mentre per il basso Medioevo disponiamo di

4 Dal tedesco Friihmittelalter, Hochmittelalter, Splitmittelalter, dove la parola Medioevo (Mittelalter) è preceduta dagli aggettivi/riih (antico), bach (pieno, al­to) e spàt (tardivo) . Gli aggettivi corrispondenti in inglese sono early, high, late (Middle Ages). Le storiografie italiana e francese concordano in realtà sull'origi­nalità del periodo X-XIll secolo, ma non hanno una terminologia inequivocabile per distinguerlo. Inoltre, non esistono date convenzionali che separino i periodi tra loro (c'è dunque incertezza riguardo ai secoli di "passaggio" : l'XI per la pe­riodizzazione bipartita, il X e il XIII per quella tripartita) .

' Ma la storia antica si giova di giacimenti documentari inesistenti per l'alto Medioevo: interi archivi amministrativi, come quelli su tavolette cerate ritrovati in molte località del Vicino Oriente e dell'Egitto, o come quelli su papiro delle le­gioni romane di stanza sempre in Egitto e in Britannia, per non parlare delle de­cine di migliaia di iscrizioni pervenuteci.

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[;oggetto Medioevo e la disàplina "stona medievale"

fonti scritte in quantità molto maggiore e di tipologie molto diffe­renti, non solo per motivi casuali (cioè perché tali documenti si so­no conservati fino al nostro tempo), ma perché in quel periodo au­mentò enormemente il ricorso alla scrittura in tutte le occasioni e contesti: atti notarili e atti dell'autorità politica, serie cospicue di registri amministrativi, giudiziari, contabili, fiscali, censimenti, prediche, verbali, diari, lettere ecc. , ad opera di vari autori (prin­cipi e comunità, privati, uomini e donne di differenti strati sociali e formazioni culturali) . 6

Questa diversità di fonti ha conseguenze assai pesanti sulla di­sciplina Medioevo. Chi si occupa di alto Medioevo è costretto a li­mitare drasticamente gli argomenti da studiare, ma è anche stimo­lato ad ampliare il ventaglio delle sue competenze e l 'area geogra­fica di interesse, raffinando la sua interpretazione. Per esempio, per accrescere le nostre conoscenze sull'impatto dell'invasione longobarda in Italia, non è possibile limitarsi alle pochissime testi­monianze scritte disponibili (vedi § 3 .2 ) , ma bisogna ricorrere a fonti e metodi di altre discipline: i prodotti artistici e gli oggetti di uso quotidiano, le analisi biometriche e strutturali dei resti ossei, i residui alimentari contenuti nel vasellame, il polline, l'onomastica e la toponomastica (lo studio, rispettivamente, dei nomi di perso­na e di luogo) , le leggendarie vite dei santi (fonti dette agiografi­che) , anche se scritte molti secoli dopo, l'iconografia. Archeolo­gia, agiografia, antropologia culturale, etnografia sono diventate competenze indispensabili per uno storico dell'alto Medioevo, nel senso che egli deve necessariamente essere in grado di compren­derne i presupposti epistemologicF e i metodi di ricerca. Una se­poltura germanica nella pianura sarmatica può far avanzare così le nostre conoscenze dell'Italia longobarda.

L'interdisciplinarità e la comparazione sono praticate anche da­gli storici del basso Medioevo - ovviamente - ma essi, avendo una ricchezza di fonti molto maggiore, possono approfondire molto di

6 Per le fonti vedi il cap. 3 . 7 Per presupposti epistemologici di una disciplina si intende il complesso dei

principi su cui essa si fonda, che sono necessariamente diversi da quelli di altre discipline. Per fare un esempio banale: la storiografia non può mai prescindere dalla collocazione cronologica e spaziale dei fenomeni che studia.

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Medioevo: istruzioni per l'uso

più la conoscenza di un singolo territorio, di un singolo periodo, di una singola questione, di una singola fonte, e tendono infatti a specializzarsi nell'una o nell'altra direzione.

Le caratteristiche della ricerca storica sull'alto e sul basso Me­dioevo si ripercuotono naturalmente sulle narrazioni del manua­le universitario. La parte bassomedievale è molto più articolata semplicemente perché sappiamo molte più cose. Lo capiscono bene gli studenti che tentano invano di mettere insieme in uno schema cronologico le diverse storie degli stati europei (l'Inghil­terra, gli stati iberici, la Francia, l'Impero, per non parlare del­l 'Ordine teutonico, della Polonia ecc . ) e italiani (chi riuscirà a memorizzare perfettamente le infinite guerre interitaliane fra Tre­cento e Quattrocento? ) .

I capitoli d i questa seconda parte del manuale solitamente di­stinguono le osservazioni generali dalle esemplificazioni: da un lato il fenomeno della signoria cittadina in Italia, dall'altro la presentazione di singole signorie (non mancano mai i Visconti di Milano); da un lato il fenomeno del rafforzamento delle strut­ture di governo nelle monarchie e negli altri stati europei, dal­l' altro le elencazioni di istituzioni e vicende dinastiche dei prin­cipali stati.

Naturalmente lo studente deve assolutamente comprendere e ritenere le questioni, selezionando poche, pochissime informazio­ni sul resto (rinunciando, per esempio, alla signoria dei Della Sca­la a Verona, o all'assassinio di Thomas Becket in Inghilterra) . Non che gli argomenti appena indicati tra parentesi siano meno " im­portanti" di altri in assoluto (nulla è per definizione importante e interessante in assoluto) , ma certo non rispondere a una domanda sugli Scaligeri è meno grave che non rispondere a una domanda sul passaggio dal Comune alla Signoria. Le priorità, owero le co­se da ricordare assolutamente, dipendono, per questa parte della storia, o meglio, del manuale di storia medievale, da altri fattori: lo spazio che il singolo manuale dedica alla dinastia scaligera, la col­locazione geografica della propria università (non conoscere gli Scaligeri mi sembra imbarazzante per lo studente di un ateneo ve­neto) , infine - bisogna riconoscerlo - gli interessi del docente (in­dividuabili seguendone le lezioni) .

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L.: oggetto Medioevo e la disciplina "storia medievale"

2 .3 Periodi diversi per storie diverse

Le esemplificazioni che abbiamo fatto in questo e nel capitolo pre­cedente riguardano quasi sempre la storia politica e istituzionale. In effetti essa prevale nettamente, dal punto di vista della quan­tità, in quasi tutti i manuali di storia medievale. Certamente, oggi la semplice, arida narrazione dei grandi eventi storici, quella che alcuni studiosi francesi definirono polemicamente l' histoire événe­mentielle o histoire-bataille,8 ha lasciato spazio alla presentazione più approfondita delle strutture sociali e delle organizzazioni poli­tiche: se non manca mai la cronologia delle conquiste di Carlo Ma­gno, molto più spazio è dedicato infatti all'ordinamento pubblico del suo impero, indicazione questa di cui lo studente deve far te­soro, come abbiamo visto (§ 1 .2 ) .

Le periodizzazioni tradizionali però restano, ed esse sono state elaborate dal punto di vista della storia politica e istituzionale. Tut­tavia, si può fare storia anche di altro, per esempio dell'economia. I fenomeni economici hanno tempi assai diversi rispetto a quelli politici e istituzionali. Una battaglia può esaurirsi in una giornata, una guerra può durare diversi decenni e anche cento anni, un'or­ganizzazione istituzionale può resistere per qualche secolo, ma le strutture economiche hanno una durata molto più prolungata per­ché, prima della rivoluzione tecnologica dovuta all'industrializza­zione (cominciata in Inghilterra alla fine del XVIII secolo), i cam­biamenti in ambito produttivo (gli strumenti e le tecniche per col­tivare e allevare animali, per la metallurgia, la ceramica, la tessitu­ra) erano molto più modesti e di molto più lenta diffusione. In al­cuni casi estremi, l 'attività economica è rimasta identica a se stes­sa quasi per tutta la storia umana. Si pensi alla raccolta di mitili, praticata dalla Preistoria ai giorni nostri in maniera pressoché

8 Le definizioni significano storia evenemenziale (cioè dell'avvenimento) e sto­ria-battaglia. Alcuni grandi storici francesi del Novecento, in particolare medie­visti e modernisti, hanno avviato un grande rinnovamento della ricerca storica, che partiva dal rifiuto della storia come semplice narrazione di fatti, ampliando all'infinito gli oggetti di studio (la mentalità, i sentimenti per esempio), le fonti utilizzate (le fotografie aeree) , i metodi di analisi (l'antropologia, la psicologia ecc. ) . Il rinnovamento è partito dagli studiosi che fondarono negli anni venti la ri­vista ''Annales" (Mare Bloch e Lucien Febvre) .

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Medioevo: istruzioni per l'uso

identica: siamo in presenza della " raccolta" di un "prodotto" spontaneo della natura, nonostante le eventuali innovazioni (gli utensili, la disponibilità di frigoriferi, l'allevamento). Altro esem­pio è la ruota del vasaio, uno strumento e con esso una tecnica che sono oggi, nella sostanza, gli stessi del Neolitico, quando gli uomi­ni scoprirono le qualità dell'argilla impastata con l'acqua. Una sto­ria di queste due attività avrà certamente una periodizzazione ben diversa da quella della storia politica. Come la produzione, così anche il commercio prima dell'industrializzazione ha dovuto tener conto di alcuni condizionamenti che sono rimasti identici per mil­lenni: la meteorologia, l'oro grafia, i corsi d'acqua, le distanze, la forza di uomini e bestie.

La struttura economica e commerciale dell'impero romano non si dissolse nell'arco di un anno o di un secolo. Essa aveva alcune caratteristiche fondamentali: un grande movimento circolare con­vogliava al centro, cioè a Roma, presso l'imperatore e le famiglie più eminenti e ricche dell'impero, appartenenti al ceto senatorio, le ricchezze sottratte con la violenza e con la pressione fiscale alle regioni sottomesse (oro e schiavi, in particolare) . Dal centro, una congrua parte di quelle ricchezze tornava alla periferia sotto for­ma, diremmo oggi, di infrastrutture e servizi: era utilizzata cioè per costruire strade, ponti, acquedotti, per pagare soldati e funzionari imperiali. Un'economia di Stato, ha detto qualcuno.

L'integrazione economica dell'impero era inoltre caratterizzata anche dalla commercializzazione su lunghe distanze di prodotti agricoli come il grano, l'olio, il vino, e di merci " industriali" come gli oggetti in ceramica (vedi § 3 . 3 ) . Protagonisti di questa attività produttiva e commerciale erano i mercanti e i grandi proprietari terrieri, attivi anche nel commercio, i quali disponevano di impo­nenti quantità di schiavi e di enormi distese di terre. Centri ne­vralgici del movimento economico erano le città.

Il dibattito sulla crisi di questo sistema economico e commercia­le è ancora aperto: un celebre storico belga, Henri Pirenne (morto nel 1 93 5), riteneva che la sua fine fosse da datare al VII secolo e che fosse da imputare all'espansione islamica, che ruppe l'unità economica del Mediterraneo. Per Pirenne, dunque, il Medioevo sarebbe cominciato soltanto nell'viii secolo. Oggi la tesi di Piren­ne è stata rifiutata, ma è rimasta aperta la questione del trapasso dall'età antica a quella medievale dal punto di vista della storia so-

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L: oggetto Medioevo e la disciplina "storia medievale"

ciale ed economica (vedi pp. 75-77) . Senza entrare nel merito, è diffusa la convinzione che bisogna introdurre una nuova epoca tra Antichità e Medioevo, un'epoca di transizione (naturalmente ! ) con caratteristiche sue specifiche, che prende la definizione, anco­ra una volta, dal mondo degli storici dell'arte: il Tardoantico, che va dal m al VI sec . , dall'imperatore Diocleziano a Giustiniano.9 Anche in questo caso, nei manuali lo studente incontrerà sia l'ag­gettivo tardoantico sia quello di altomedievale, magari in riferi­mento allo stesso secolo. Non si tratta di definizioni neutre, ma di interpretazioni, o almeno punti di vista differenti: la prima insiste sulla continuità, la seconda sulla rottura.

Come l ' inizio, così anche la fine del Medioevo è incerta dal punto di vista socio-economico. Non c'è tempo di dilungarsi in questo paragrafo: limitiamoci a dire che la particolare struttura giuridica ed economica delle campagne europee dei secoli bas­somedievali e moderni (XIV-XVIII secolo) fu giudicata da alcuni osservatori settecenteschi (economisti, filosofi, politici) come ar­retrata e assolutamente da riformare o abolire: il termine di an­cien régime, o antico regime, con il quale si intendevano anche alcune particolarità dell'organizzazione sociale di lontana origine (i privilegi di nobiltà e clero) , fu allora utilizzato per definire tut­to questo complesso di fenomeni. Anch'esso ha avuto fortuna come termine periodizzante.

Riassumiamo quanto detto nello schema alla pagina seguente. Spero che esso non disorienti il lettore: è preferibile che egli riten­ga, nel primo approccio alla storia medievale, la partizione più semplice tra alto e basso Medioevo, che sarà seguita in questo vo­lume. Tuttavia, è meglio tener presente che l'oggetto dello studio (le istituzioni, l'economia, la mentalità) determina non solo la pe­riodizzazione, ma anche il contenuto e la forma di esposizione di un manuale di storia medievale.

" Diocleziano fu imperatore dal 284 al 305 . Giustiniano, che dalla parte orien­tale riconquistò ampie regioni di quella occidentale, regnò dal 527 al 565. La de­finizione di Tardoantico (in tedesco Spiitantik) fu coniata nel l901 da un austria­co, Alois Riegel.

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Medioevo: istruzioni per l'uso

Il Medioevo convenzionale

Partizione italiana

Partizione inglese e tedesca

V sec . ......: -- � xv sec. Medioevo

v sec. ...: • XI ......: - ---- - --- -• xv sec. alto Medioevo basso Medioevo

v sec. .... . - -� x ......: � XIII ......: � xv sec. alto pieno tardo

Medioevo Medioevo Medioevo

Periodizzazioni III sec . ............ VI sec. XIV sec . ......: .- XVIII sec. alternative Tardoantico Ancien régime

Di Diocleziano, di Costantino, dell'economia "statale" dell'im­pero romano si parla in ogni manuale di storia medievale, anche se non con lo stesso grado di approfondimento di un manuale di storia romana, e il motivo è quello che si è detto sopra: l'impossi­bilità di separare nettamente età antica ed età medievale. Lo stes­sa incertezza si riscontra anche per quanto riguarda l'altro capo del Medioevo, cioè la sua fine: le trattazioni di storia moderna (un altro esame ! ) partono dal XIV secolo: quel periodo, caratte­rizzato dalla cesura dell'epidemia di peste nera (dal 1348) e dalla crisi demografica ad essa collegata (ma non causata soltanto dal­la peste) , è stato separato dal resto del Medioevo nell'insegna­mento scolastico a partire dal 1997 . La nuova partizione non è stata però adottata nell'università, e talvolta non ha successo nep­pure a scuola. 10

Tutto ciò rende più difficile lo studio. Inoltre, il manuale uni­versitario procede a velocità diverse: in certi capitoli narra fatti po­litici e descrive istituzioni, scandendole nell'arco di decenni e di

10 In tutte le scuole superiori italiane, tranne i professionali, il Medioevo do­vrebbe essere studiato al secondo anno, insieme con gli ultimi secoli della storia romana (III-XIV secolo) , mentre il periodo 1350- 1492 è accorpato all'inizio del­l'età moderna (fino al l650) nel terzo anno. Non sempre si riesce però a "finire il programma" : ne soffre in particolare il Medioevo, perché, non trattato comple­tamente nel secondo anno, non può essere recuperato dal docente del terzo an­no, che per di più è cambiato. Perciò gli studenti universitari trovano maggiori difficoltà nello studio del Medioevo, che conoscono pochissimo.

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secoli, alla peculiare velocità di trasformazione dei fenomeni di quella natura, in altri si sofferma su strutture e questioni di lunga durata: qui le date sono poche, e si va avanti tra "crisi " , "svolte" , " rivoluzioni" che durano due o tre secoliP 1 Nei manuali non man­ca mai un capitolo sull'economia nell'alto Medioevo, il cui centro è il sistema curtense, 12 così come non manca mai una trattazione della crescita produttiva, commerciale e urbana nei secoli centrali del Medioevo, 13 o della demografia nel tardo Medioevo, affronta­ta quando si parla della crisi del XIV secolo. Lo studente deve stu­diare queste parti come delle mini-monografie: sia perché esse narrano un'altra storia, con diversa velocità e durata, rispetto alle parti politico-istituzionali, sia perché esse utilizzano il linguaggio di altre discipline, diverse dalla storia medievale ma, in questo ca­so, ad essa complementari: la storia economica, la demografia, la storia del diritto. Anche qui, l'uso di un vocabolario o di un dizio­nario del Medioevo (ce ne sono diversi in commercio) è utilissi­mo: vi si cercheranno, per esempio, termini come rotazione delle colture, conduzione diretta e indiretta, rendimenti agricoli, tran­sumanza, trend demografico, ciclo malthusiano, tasso di natalità, stagnazione economica, obbligazioni, canoni ecc.

1 1 La riflessione sulle diverse velocità dei tempi della storia è stata portata avan­ti, nel Novecento, dallo storico francese Fernand Braudel.

12 Per curtis si intende sia l'azienda agraria (edifici e terre), sia una particolare forma di organizzazione agraria dell'alto Medioevo (il sistema curtense) basata sull'integrazione funzionale tra la conduzione diretta e quella indiretta, cioè tra le terre coltivate dai contadini alle dirette dipendenze del padrone e le terre (di­stinte in lotti definiti mansi) affidate in gestione ad altri contadini, più autonomi dei primi anche se di condizione servile. L'integrazione non era solo assicurata dai versamenti in denaro o natura che i contadini dei mansi dovevano al padro­ne, ma anche dalle corvées (prestazioni d'opera gratuite) . Nei periodi di mag­giore attività agricola, i detentori dei mansi su p portavano con il loro lavoro, non retribuito, i contadini delle terre a gestione diretta. Dunque la forza-lavoro dei contadini dei mansi era un elemento di "flessibilità" per il padrone, il quale non avrebbe potuto procurarsi in alcun modo braccianti per i periodi di maggiore attività.

1 3 Questo argomento è ancora tradizionalmente chiamato la ripresa dopo il Mil­le, anche se ora si ritiene che la lenta crescita demografica ed economica dell'Oc­cidente sia cominciata almeno nell'VIII secolo, e che - semplicemente - nell'xi se­colo essa si manifesta con evidenza nelle fonti disponibili.

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2 .4 Geografia della storia medievale

L'eterogeneità e dunque la difficoltà della disciplina storia medie­vale si manifesta anche in un altro modo. Se non è esistita una ci­viltà medievale perfettamente coincidente con quel periodo detto medievale, qual è, per così dire, il soggetto del Medioevo? La di­sciplina storia romana ha un centro di interesse evidentissimo: lo stato romano, dalla fondazione di Roma alla costituzione di un im­pero enorme. Nonostante le grandi trasformazioni, la storia roma­na deriva da questa condizione una sua coerenza interna, occu­pandosi, dal punto di vista geografico, delle regioni che via via Ro­ma conquistò o con le quali semplicemente entrò in contatto. Esi­stevano del resto, ed erano percepiti dagli stessi romani, dei lega­mi, talvolta contraddittori, talvolta deboli, tra la società, le istitu­zioni, la cultura della Roma monarchica e quelle della Roma im­periale tardoantica. Così, chi studia storia romana è favorito dalla continuità dell'oggetto di interesse e dalla sua chiara collocazione geografica, anche se, come dichiarava candida una bambina delle scuole elementari, potrebbe non capire perché «l'anno scorso i ro­mani vincevano sempre, mentre quest'anno perdono sempre» . . .

Se s i osservano in successione i capitoli d i un manuale d i storia medievale, si può facilmente notare come al centro della trattazio­ne vi siano invece aree geografiche e soggetti politici diversi, stu­diati con un diverso grado di attenzione a seconda del punto del manuale in cui essi sono trattati. La tradizione dell'insegnamento ha selezionato una serie di contenuti che non possono mancare mai, ma di essi alcuni riguardano la storia politica e religiosa di tutta l'area latino-germanica, la parte dell'impero romano che fu occupata da popolazioni germaniche tra V e VI secolo (mi riferisco ad argomenti come le invasioni barbariche, l'impero carolingio e la sua dissoluzione, la riforma della Chiesa e la lotta per le investi­ture, le crociate) ; altri si limitano ad alcuni passaggi fondamentali della storia dell'Italia (i Comuni e lo scontro con Federico Barba­rossa, la fondazione del regno di Sicilia da parte dei normanni, la nascita delle Signorie cittadine, la formazione degli stati regionali) . C i sono argomenti che naturalmente non mancano mai, ma che appaiono allo studente come scollegati dagli altri, e dunque diffi­cili da ricordare: il Meridione d'Italia nell'Alto Medioevo, tutta la storia dell'impero bizantino dopo Giustiniano, per non parlare

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dell'Europa orientale e dell'Asia. Molte aree dell'Europa e dell'I­talia restano chiaramente ai margini della trattazione: si pensi solo - quattro esempi per tutti - a Portogallo e Svizzera, a Sardegna e principato di Trento, pressoché assenti negli indici dei luoghi dei manuali.

Un altro esempio: l'islam è trattato approfonditamente nella pri­ma parte del manuale, in un capitolo specifico (caratteri della pre­dicazione di Maometto, espansione araba) . Dopo il 750 (fine del califfato degli Omayyadi) il mondo islamico compare rapsodica­mente nella trattazione: quando si parla delle incursioni dei sara­ceni del x secolo, della Sicilia araba prima della conquista nor­manna, della reconquista cristiana della penisola iberica, delle cro­ciate, della conquista turca di Costantinopoli. In tutti questi casi il punto di vista del narratore, potremmo dire, è quello dell' antago­nista, ovvero l'Occidente.

Lo studente dovrebbe allora sforzarsi di collegare tra loro para­grafi diversi del manuale, e soprattutto di comprendere perché un certo argomento è posto in un dato punto dell'esposizione, per­ché a un altro si dedica molto poco spazio rispetto alla trattazione principale.

Siamo ritornati alla domanda iniziale: di cosa si occupa la tratta­zione principale?

La disciplina storia medievale che si studia nelle nostre scuole e università si occupa in sostanza della storia dell'Europa occiden­tale, con un occhio di riguardo per la penisola italiana. L'Europa occidentale non va però intesa come mero concetto geografico (che pure, nel linguaggio comune, presenta qualche difficoltà di identificazione: l'isola britannica fa parte geograficamente del­l 'Europa occidentale? ) , ma come un concetto culturale: il vero centro d' interesse è dunque l 'Occidente, la civiltà occidentale, quella peculiare civiltà che sarebbe nata dall'incontro latino-ger­manico, che è profondamente segnata dall'esperienza del cristia­nesimo, che ha avuto il suo centro politico nell'Impero e poi nei grandi regni del basso Medioevo, e che in età moderna e contem­poranea ha sottomesso aree vastissime del globo esportando i pro­pri modelli istituzionali (lo Stato) , economici (il capitalismo, ma anche il comunismo), culturali e religiosi. Il concetto di civiltà oc­cidentale, talvolta sovrapposto a quello di Europa, continua a es­sere usato oggi, in quanto elemento di identità di gran parte del-

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Medioevo: istruzioni per l'uso

l'Europa e di alcune aree del mondo storicamente legate all'Euro­pa, come gli Stati Uniti, in primo luogo. Esso è però assai ambi­guo e incerto, oltre a essere oggetto di contestazioni. Si pensi a quello che sta succedendo nel processo di integrazione europea. L'Unione Europea è da identificarsi con l'Europa, come specifica area di civiltà? La Turchia fa parte dell'Europa? La religione cri­stiana occupa un posto decisivo nelle origini e nell'identità del­l 'D nione Europea/Europa? 14

Nessun manuale affronta sistematicamente tali interrogativi, che però aleggiano nella trattazione quando si parla di "Carlo Magno padre dell'Europa" , "espansione dell'Occidente" , di capitalismo medievale, di civiltà medievale: parlarne significherebbe occupar­si più del presente che del passato, e rischierebbe di appiattire l'e­sposizione su un piano ideologico, un piano in cui le ragioni della conoscenza scientifica non hanno purtroppo nessuna priorità, op­pure favorire una lettura teleologica della storia europea, cioè co­me se essa avesse avuto sin dal principio una direzione precisa.

D'altra parte il manuale dedica grande spazio alla storia dell'Ita­lia. L'interesse per la nostra penisola è del tutto ovvio, ma, anche qui, la selezione dei fatti, delle questioni, delle aree geografiche da trattare sistematicamente nell'ambito di una varietà enorme di svi­luppi (tipica della nostra storia) mantiene traccia di vecchie prio­rità culturali e ideologiche. I manuali, infatti, dedicano ancora molto spazio ad argomenti che erano stati individuati come im­portanti durante il Risorgimento e soprattutto dopo l'unità, quan­do si ricercò nel passato medievale e moderno tutto ciò che potes­se rafforzare il senso di appartenenza a una tradizione comune (che c'era, ma era letteraria e culturale ! ) , che potesse essere letto come una anticipazione del processo unitario, o che almeno pro­vasse le virtù di un popolo che, benché sempre diviso politica­mente, sarebbe stato uno solo fin dal principio. Da ciò derivarono l'attenzione per Arduino d'Ivrea, visto come primo " re d'Italia" , per l a guerra della Lega lombarda contro Federico Barbarossa e per la rivolta del Vespro contro Carlo I d'Angiò, episodi letti come eroico rifiuto dello straniero invasore.

1 4 Il testo della costituzione europea ha sollevato, qualche anno fa, lunghe po­lemiche perché non vi era un riferimento esplicito alle radici cristiane dell'Eu­ropa.

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L oggetto Medioevo e la disciplina "storia medievale"

L'immancabile descrizione di tutte le fasi dello scontro tra Co­muni e Barbarossa ( 1 154- 1 189) , che distrae lo studente dalle mo­tivazioni di fondo di quel conflitto (che certo non mancano in nes­sun manuale), è ancora oggi una conseguenza di quell'approccio tradizionale. L'autore del manuale fa fatica a non elencare tutti quei fatti . Eppure essi sono ormai ex fatti, come è stato notato, nel senso che sono venuti a cadere i presupposti culturali che, molto tempo fa, avevano portato alla loro selezione tra infiniti altri: quel­la guerra non è più giudicata dagli studiosi come una manifesta­zione della libertà italiana (né tanto meno padana ! ), un esempio esaltante in chiave politica attuale (l'Italia risorgimentale, l'aspira­zione al federalismo dei nostri tempi) , dunque un evento da cono­scere in tutti i suoi particolari, nella cronologia degli scontri e nei nomi di tutti i protagonisti. I manuali si soffermano più efficace­mente su altri aspetti, come la funzione decisiva dei giuristi nell'e­laborazione della concezione pubblica imperiale (vedi § 3 .6) . Que­stioni complesse, per far posto alle quali sarebbe necessario scac­ciare gli ex/atti. Ciò non sempre avviene, e lo studente si trova co­sì a dover gestire una quantità di dati di differente qualità, con il pericolo che in lui prendano il sopravvento luoghi comuni o rico­struzioni a senso, anche se assenti nel manuale che egli legge.

Per concludere l'esemplificazione, ho ascoltato a un esame che i Comuni non volevano più pagare le tasse a Federico Barbarossa. Ora, deve esser chiaro che l'imperatore non controllava diretta­mente ed efficacemente il regno i tali co, l'area in cui si svilupparo­no i Comuni, da almeno due secoli, dal periodo cioè della disloca­zione signorile del potere (nei secoli X-XI il potere pubblico non era più esercitato da funzionari dipendenti da un centro, ma da si­gnori locali: vedi § 3 .4 ) . Ecco la novità della spedizione di Barba­rossa rispetto a quelle dei predecessori: ecco perché le sue pur mo­derate richieste (un palazzo imperiale in città, un giuramento di fedeltà ai suoi vicari da parte dei consoli comunali) erano ritenute inaccettabili da parte di cittadinanze che, di fatto, erano indipen­denti da prima che nascesse l 'organizzazione comunale. Eppure Barbarossa cercava di fare esattamente quello che riuscì ai re di Francia: centralizzare, anche se lentamente e moderatamente, il potere pubblico, costruendo un regno più solido. Perché la stessa operazione ha un significato positivo per la storia francese e nega­tivo per quella italiana? Perché la monarchia francese e il Comune

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Medioevo.· ùtruzioni per l'uso

italiano sono, nella nostra tradizione culturale, manifestazioni di civiltà e positività, anche se per motivi diversi.

Altro esempio: che bisogno c'è di ricordare che la rivolta del Ve­spro (Palermo, 1282 ) fu originata da un gruppo di francesi che im­portunarono una donna siciliana, se subito dopo si precisa che si tratta di una spiegazione priva di fondamento (risalente a un cro­nista coevo) e che le vere cause di quella ribellione furono altre? Lo studente è disturbato da quell'informazione inutile, un altro ex /atto, superstite di un diverso e più antiquato modo di fare la sto­ria d'Italia (una galleria di eroi " italiani" da Orazi e Curiazi a En­rico Toti ! ) e finisce per ricordare l'aneddoto e dimenticare la so­stanza, come ho verificato agli esami in più di un caso.

Se non lo fa il manuale o il professore a lezione, spetta allora al­lo studente il compito di selezionare i contenuti più rilevanti te­nendo fermo che il soggetto della trattazione è l'Occidente, anche se forse per qualcuno potrebbe essere imbarazzante ammetterlo.

2 .5 La disciplina: problemi di focalizzazione

Il manuale si muove continuamente tra storia politica e istituzio­nale e storia religiosa, sociale, economica, della mentalità, della tecnologia, della medicina, della cultura, della lingua, della gra­fia, e così via, all'infinito. Passa inoltre dalla storia dell'Occidente a quella dell'Italia, occupandosi rapsodicamente di altre civiltà, come l'aria asiatica al tempo dell'espansione mongola. Non solo la categoria " Medioevo" è dunque un contenitore di diversi pe­riodi storici, determinabili diversamente a seconda dell'interpre­tazione o del punto di vista, ma anche la categoria "storia medie­vale" è un contenitore di diverse discipline, ognuna con i sui ter­mini tecnici, i suoi metodi, le sue fonti. Il manuale finisce per es­sere, inevitabilmente, il surrogato di una enciclopedia multidisci­plinare, che sconfina continuamente dal punto di vista tematico e cronologico.

A partire dalla seconda metà del Novecento lo studio del Me­dioevo (e di altri periodi storici) ha vissuto una costante dilatazio­ne di prospettive. Tale dilatazione ha intasato oltre ogni misura i manuali, che hanno assorbito tutte le sollecitazioni della ricerca storica, mentre è stata abbandonata definitivamente (e giustamen-

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L oggetto Medioevo e la disciplina "storia medievale"

te) la prospettiva nazionalistica, che però dava una certa omoge­neità allo studio mettendo al centro l'Italia e la nazione italiana, come si è osservato.

Si tratta di un fenomeno tipico delle discipline umanistiche: le nuove acquisizioni (le nuove scoperte documentarie, le nuove prospettive, le fruttuose interferenze di altre discipline . . . ) e le nuove interpretazioni, anche quando sono accettate da tutti gli studiosi, non scacciano mai del tutto le vecchie, ma si aggiungono ad esse per accumulazione o contrapposizione. Mi spiego: mentre nell'insegnamento della biologia la genetica ha provocato e pro­voca continuamente una riorganizzazione dei contenuti da inse­gnare, lo stesso non avviene nell'insegnamento della storia, che a fatica si libera degli ex-fatti, cioè di fatti, questioni, ma anche in­terpretazioni che oggi nessuno studioso più considera prioritari o corretti.

Ne consegue, ripetiamo, che lo studente trova difficile indivi­duare le informazioni e le questioni più importanti, ciò che biso­gna assolutamente sapere per superare l'esame. In realtà, una sele­zione nella gran quantità di cose che un manuale spiega o raccon­ta c'è, ma essa si va formando spontaneamente e disordinatamen­te nella comunità degli studiosi.

Facciamo altri esempi: la storia del regno italico dopo la disgre­gazione dell'impero carolingio (887 -962 ) fu caratterizzata da una grande instabilità, perché la carica regia, cui era collegata quella imperiale, fu contesa tra due o tre famiglie di grandi signori terri­toriali, detentori di cariche pubbliche. La successione dei re, gli schieramenti degli altri signori locali e del papato romano per l'u­no o l'altro contendente sono riferiti da molti manuali con mag­giore approfondimento rispetto alle vicende contemporanee degli altri regni postcarolingi (Franchi occidentali e Franchi orientali) . Tale trattazione particolareggiata risulta difficile da memorizzare, sia perché le vicende sono effettivamente complicate, sia perché per comodità espositiva esse sono trattate separatamente da altre questioni, di cui la storiografia si è molto occupata nel Novecen­to: mi riferisco alla allodialità del potere, un fenomeno definito dallo storico Giovanni Tabacco che uno studente di storia medie­vale non può non conoscere (vedi pp. 85 -86) , ma anche alle in­cursioni di saraceni e ungari in quelle stesse regioni e in quello stesso tempo in cui si scontravano i vari aspiranti alla corona ita-

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Medioevo: istruzioni per l'uso

lica, con il fenomeno dell'incastellamento. 15 La riflessione a parte su tali questioni di difficile comprensione (sono del resto assolu­tamente lontane alla nostra esperienza) , ha un effetto collaterale paradossale, riducendo la trattazione delle vicende politiche del regno a una mera elencazione, che resta tale nonostante i rinvii ai fenomeni suddetti. Lo studente si chiederà, a questo punto, se può trascurare il nome di Berengario d'Ivrea. Direi che dovrebbe comunque fare lo sforzo di ricordare le forze in campo in quel periodo, concentrandosi però sul resto. Sono certo, però, che egli dimenticherà presto quei nomi, ma non, se l'avrà ben capita, la allodialità del potere.

Non tutto è possibile ricordare, non tutto è possibile sapere. Si tenga presente, comunque, che chi supera un esame di storia me­dievale non deve dimostrare di conoscere perfettamente la storia medievale (con tutte le ambiguità di questa definizione), ma sem­plicemente un manuale, dunque deve sapersi orientare in quei se­coli e in quelle questioni.

Secondo esempio: il Comune, argomento tra i più rilevanti della storia italiana, non tanto per la deformazione ideologica cui si è accennato, ma per l'unicità e importanza di quell'esperienza poli­tica, sociale, culturale vissuta da numerose città del centro e del nord della penisola. Lo studente attento si accorgerà che non può ricordare tutti gli esempi cui accenna il manuale, ma che conviene soffermarsi su quelli di Milano e di Firenze, la prima soprattutto per la questione delle origini del Comune e della composizione so­ciale delle sue élite dirigenti (XI secolo) , la seconda per il Comune di popolo e il fenomeno delle leggi antimagnatizie, dunque per un periodo successivo (XIII secolo: vedi pp. 12 1 - 123 ) . In effetti, Mila­no e Firenze sono una sorta di modello, una pietra di paragone per gli studiosi della civiltà comunale italiana, per ragioni storiche e storiografiche, cioè sia per l'effettiva importanza politica delle

15 È definito incastellamento il fenomeno della diffusione di castelli e altre for­tificazioni tra x e XII secolo. Il fenomeno è interessante perché i castelli, costruiti a volte da signori fuori da ogni collegamento con l'autorità pubblica, diventaro­no la base di poteri locali autonomi, e perché in alcune aree la nascita dei castel­li, nuovi centri di popolamento e di sfruttamento della popolazione, modificaro­no fortemente l'organizzazione del territorio.

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I: oggetto Medioevo e la disciplina "storia medievale"

due città, sia per la disponibilità di fonti e, conseguentemente, di studi su entrambe. Con maggiore difficoltà lo studente indivi­duerà un'altra questione fondamentale, che è finita al centro del dibattito storiografico da tempi più recenti (ma ciò significa quasi un secolo . . . ) , quella dell'espansione nel contado.16 Si tratta di un fenomeno tipico dei Comuni italiani, foriero di interessanti svi­luppi, al quale i manuali non possono dedicare molto spazio, ma che una serie di indizi rivelano fondamentale: i titoli dei paragrafi, gli eventuali approfondimenti.

La difficoltà dello studio della storia medievale deriva, per con­cludere, dalle contraddizioni della tradizione scientifica e didatti­ca. Uno studio fruttuoso deve dedicarsi in primo luogo all'indivi­duazione di ciò che è veramente importante, e naturalmente alla sua comprensione e memorizzazione (le tre operazioni sono con­temporanee) . Il metodo di studio che spesso gli studenti lamenta­no di non avere non è altro che questo. Leggere più volte il ma­nuale, dall'inizio alla fine, come se fosse un romanzo o un'esposi­zione coerente e strutturata al pari di quella, mettiamo, delle isti­tuzioni di diritto privato, è un errore. Non si riuscirà mai a me­morizzare un flusso così disomogeneo di argomenti. Converrebbe invece saltare liberamente da un capitolo all'altro, dalla fine all'i­nizio, smontando l 'artificiosa costruzione sequenziale del testo. Purtroppo, fornire allo studente un elenco di cose importanti (date, fatti, spiegazioni lapidarie di alcune questioni) , dunque un bignami di storia medievale non serve a nulla, perché è la selezio­ne stessa che facilita la comprensione e memorizzazione di un ar­gomento, come ben sanno quelli che vanno male all'esame dopo che, a lezione, avevano preso appunti meccanicamente, senza ri­scontrare subito le preziose istruzioni per l'uso fornite oralmente dal docente con ciò che è scritto nel libro di testo. Fanno ancora peggio quelli che copiano le sottolineature del compagno di cor­so (ne ho conosciuto qualcuno . . . ) .

16 Si definiva «contado» il territorio su cui un Comune estendeva la sua auto­rità. La parola deriva da comitatus «circoscrizione del conte, contea». Il cambia­mento di significato è interessante: i Comuni italiani pretendevano di controllare i territori che nell'età carolingia dipendevano dal conte, un funzionario imperia­le che generalmente risiedeva in città.

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Medioevo: istruzioni per l'uso

Per capire quali sono le priorità della disciplina storia medieva­le, cioè le cose importanti che non si possono non sapere, lo stu­dente deve ovviamente leggere con attenzione il manuale, senza badare tanto all'estensione quantitativa dell'uno o dell'altro argo­mento, ma riflettendo, per esempio, sui titoli dei paragrafi e dei capitoli. Lo studente dovrebbe sempre chiedersi perché una cer­ta parte del manuale è stata intitolata in quel modo, e magari, sia dopo la prima lettura che al momento della ripetizione, provare a ricordare la tesi centrale di quella parte (capitolo o paragrafo che sia) , a libro chiuso, cioè scorrendo l'indice. Scoprirà che alcuni paragrafi e perfino alcuni capoversi sono assai più importanti di altri, e vanno quindi compresi fino in fondo e fissati nella mente, perché intorno ad essi verteranno sia la domanda che la risposta in sede di esame.

Naturalmente, seguire con profitto le lezioni (con profitto signi­fica studiare il manuale contemporaneamente al corso, magari chiedendo immediatamente chiarimenti al docente) è la strada principe per ben impostare lo studio di questa, come di tutte le al­tre discipline, ma purtroppo ciò non è sempre possibile.

Un altro modo, più empirico ma pericoloso, per individuare le cose più importanti è ascoltare le interrogazioni dei propri colle­ghi. Non mancano mai, in alcune particolari sessioni, quelli che un mio amico - peraltro mai laureatosi ! - chiamava sprezzantemente i giornalisti, cioè gli studenti che, armati di penna e taccuino, se­gnano tutte le domande del professore durante l'esame di altri. Perché questa operazione dia risultati significativi lo studente­giornalista (come i veri giornalisti) dovrebbe già conoscere la sto­ria medievale, ovvero ciò di cui si parla, altrimenti confonderà la gerarchia delle domande, non distinguendo tra quelle sostanziali («Mi parli dell'incastellamento») e quelle casuali e talvolta bizzar­re, generate da risposte sbagliate dello studente, le quali finiranno per spaventarlo. In più, non avrà comunque modo di sapere quali sono le risposte giuste !

2 .6 L'idolo delle origini

Abbiamo accennato a una affermazione molto comune, quella del passato che spiega il presente. La ragione principale per la quale si

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L oggetto Medioevo e la dirciplina "storia medievale"

studia la storia (non solo medievale) sarebbe appunto quella di co­noscere le origini delle nostre istituzioni politiche, sociali ed eco­nomiche, della nostra cultura, dei nostri problemi: in una parola le origini del nostro presente, come recita qualche titolo di manuali scolastici di storia.

Alla dipendenza del passato dal presente si collega un'altra con­siderazione, che riguarda il rapporto di causa-effetto tra gli eventi storici. Essa si può sintetizzare nell'espressione latina: post hoc, propter hoc: ciò che viene dopo è causato da ciò che viene prima. Di conseguenza, per capire il dopo bisogna risalire al prima.

Mare Bloch, che abbiamo già citato, ha definito «idolo delle ori­gini» l'ossessione che porta a ricercare a tutti i costi le origini dei fenomeni storici. Al contrario, un fenomeno del presente o del passato (un'istituzione, una struttura economica, un fatto cultura­le) andrebbe innanzitutto analizzato e compreso nel tempo in cui si manifestò appieno, e solo in un secondo momento ne andreb­bero rintracciate le origini. Bloch non negava la possibilità di rin­tracciare le origini, si opponeva semplicemente all'identificazione delle origini con le cause. Le origini - scrive Bloch - sono nel vo­cabolario corrente «un cominciamento che spiega. Peggio ancora: che è sufficiente a spiegare. Qui sta l'ambiguità; qui sta il perico­lo». Il grande storico metteva in guardia dalle spiegazioni banali: per esempio, sapere che le prime tribù germaniche entrarono in contatto con lo stato romano già nel II secolo a.C. non fornisce nessun elemento alla comprensione delle migrazioni del v e VI se­colo, ben diverse dalle incursioni di cimbri e teutoni sconfitti da Mario ( 1 13 - 1 0 1 a .C. ) , un "precedente" che potremmo anche tra­scurare perché riguarda soggetti storici e contesti assolutamente differenti.

Veniamo alle cause, che ovviamente sono oggetto privilegiato della ricerca storica. È difficile che di un fenomeno storico si pos­sano individuare con certezza incontrovertibile le cause: perché esse possono essere diverse e concomitanti, perché potremmo non avere sufficienti informazioni al riguardo, ma soprattutto perché i fatti umani non si possono spiegare come delle reazioni chimiche. Due sostanze, messe a contatto in condizioni determinate, reagi­ranno tra loro sempre nello stesso modo. In storia, invece, non esi­stono leggi necessarie: come le stesse origini non danno inizio a evoluzioni uguali, così le stesse cause non hanno gli stessi effetti.

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Del resto, anche dopo aver raggiunto una spiegazione assai pro­babile di un fatto storico, basata su dati sicuri, non potremo mai riprodurlo in laboratorio. Per questo motivo, è fallace anche la convinzione che la storia sia maestra di vita (bistorta magistra vitae, si dice con un'altra espressione latina) , se con questa affermazione si intende che, una volta conosciuto il passato, sia possibile rica­varne infallibili istruzioni pratiche per il presente.

Il passato che spiega il presente, il poi che spiega il prima (post hoc, propter hoc), la storia che ci istruisce su come comportarci og­gi (historia magistra vitae) : nel sentire comune queste affermazioni hanno un significato assoluto, banale, perché corrispondono a una visione meccanicistica e rassicurante dei fatti umani, i quali invece sono sempre complessi, ambigui, imprevedibili. Nella nostra espe­rienza quotidiana ciò è ovvio: chi riterrà che conoscere le origini romane di Milano basti a spiegarne l'assetto urbanistico attuale? Chi indicherà una sola causa per una storia d'amore finita male, e chi sarà capace di trame un insegnamento certo per le esperienze affettive successive? Chi riuscirà a dimostrare una connessione causale inequivocabile tra fenomeni di natura diversa, indicare una causa economica per un fatto politico o culturale, e viceversa? Talvolta ci si dimentica che ciò è ovvio anche per il passato, che anche il passato è stato complesso, ambiguo, imprevedibile. Per queste difficoltà, naturalmente, non si rinuncia a cercare cause ed origini: bisogna però tener presente che si tratta di un'operazione complicata, che necessita di tempo e di metodo.

Nei manuali, l'allineamento bene ordinato, sull'asse della crono­logia, di tanti fatti, ormai immutabili (tutti quelli che la tradizione ha selezionato come fatti storici importanti) favorisce inevitabil­mente, contro la volontà dello stesso autore, l'impressione che es­si non potevano che andare così, che l'uno è causa dell'altro, che bisogna imparare tutto in successione per poter capire, in una ca­tena che non si spezza mai fino al presente.

Molti storici e filosofi hanno riflettuto sul rapporto tra passato e presente, sul concetto di causa, e non è questo il luogo per ap­profondire tali questioni. Le abbiamo richiamate in maniera sem­plificata perché esse hanno un effetto sullo studente di storia me­dievale. Nell'organizzare il suo apprendimento, e anche nell'espo­sizione in sede di esame, lo studente compie errori che dipendono da questa concezione meccanicistica della storia, intesa come una

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sequela di fatti legati tra loro da un vincolo di necessità, come se si trattasse di un congegno automatico.

Egli invece dovrebbe liberarsi dall'idolo delle origini e dalla schiavitù della cronologia (post hoc, propter hoc) e chiedersi subito, prima di imparare in bell'ordine tutti i fatti, che cos'è il fenomeno che gli viene presentato in una parte del libro di testo. Studiando la prima crociata, per esempio, lo studente dovrebbe sforzarsi di ricavare subito dal manuale una definizione breve ed efficace del­la stessa, e solo in un secondo momento riflettere sulle sue cause (spirituali? culturali? economiche? fu semplicemente la risposta all'appello di Urbano II a Clermont-Ferrand?) e sulle origini (la spedizione normanna in Sicilia? la reconquista nella penisola iberi­ca? le paci di Dio in Francia? ) .

«La prima crociata fu un pellegrinaggio armato di guerrieri cri­stiani, in prevalenza franchi e normanni, al sepolcro di Gesù Cri­sto. Essa si tenne nel 1 096-99 e portò alla conquista di Gerusa­lemme e di altri territori islamici nel Vicino Oriente». Una defini­zione come questa, completa di datazione e collocazione geografi­ca, dovrebbe essere sottolineata nel testo, o scritta al margine, in modo da essere fissata nella mente. Lo studente dovrebbe fornirla subito al docente (e a se stesso) durante l'esame, senza perdersi in inutili preamboli introduttivi. Solo dopo egli passerà a spiegare meglio ogni parola di quella definizione, a cominciare dal fatto che, per molto tempo, i contemporanei non usarono affatto la pa­rola crociata per quelle imprese. Chiarito che cosa è quella che i li­bri di testo definiscono prima crociata, quando e dove si è effettua­ta, si passerà al più difficile come e perché c'è stata una prima cro­ciata (preceduta peraltro da una crociata "zero" , quella cosiddetta dei poveri) .

Altra possibilità: durante l'esame lo studente, dopo aver fornito l'informazione essenziale che si è detto, potrebbe immediatamen­te distinguere tra la prima crociata, e l'idea di crociata, che nac­que dopo la prima crociata, l'idea cioè della guerra santa, giustifi­cata dal suo fine. Secondo questa concezione, un buon cristiano poteva servire Dio (e andare in Paradiso ! ) esercitando la violenza sui suoi simili; soltanto il papa, capo della Chiesa cattolica univer­sale, aveva l'autorità di proclamare la crociata contro chi fosse da lui individuato come nemico delle fede: il musulmano, il cristiano ortodosso, l'eretico, infine chiunque si opponesse in qualche m o-

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do al pontefice. Tutte queste affermazioni sarebbero anacronisti­che, se riferite al 1099, quando i cristiani conquistarono Gerusa­lemme, perché corrispondono piuttosto all'ideologia papale del tardo XII e del XIII secolo.

Dunque, la narrazione continua del manuale va disarticolata, rompendo l'ordine degli argomenti, estrapolando le definizioni da ricordare, cercando di classificare tutte le informazioni in una gri­glia basata sull'aurea regola che prescrive, quando si parla di qual­cosa, di definirla subito rispondendo a cinque domande essenzia­li: chi, dove, quando, che cosa, perché. Ogni argomento, classificato secondo questi parametri, andrebbe delimitato, sganciandolo da quelli precedenti. Convertire l'esposizione ampia e articolata del manuale in pochi elementi fondamentali significa capire e ricor­dare, rinunciando a memorizzare la successione argomentativa del testo, cosa impossibile. Gli studenti che fanno l'inutile sforzo di imparare il testo parola per parola si riconoscono subito, perché, già alla prima risposta, esordiscono con un «Come abbiamo vi­sto . . . » ripreso pari pari dal manuale! Consiglierei di schematizza­re tutti gli argomenti del manuale secondo quelle cinque doman­de, dedicando a ognuno un solo foglietto di quaderno, preferibil­mente sciolto per favorire la consultazione e la ripetizione.

Questa operazione di smontaggio del testo e di schematizzazio­ne di un numero limitato di argomenti (uno per capitolo, o per più capitoli) è molto diversa dal riassunto, che è da sconsigliare. A vol­te commento con gli studenti andati male all'esame i riassunti che essi hanno prodotto con grande impegno, riscontrando sempre er­rori gravi e altrettanto gravi omissioni. Il manuale è già un rias­sunto, fatto però da uno specialista, che ha molto ben ponderato quello che ha scritto. Fare il riassunto di ciascun paragrafo è un errore, specie se dopo lo studente leggerà soltanto quello, senza più tornare al testo originale, su cui invece è opportuno esercitare in tempi differenti la propria intelligenza. In più, il riassunto ac­centua ulteriormente quell'impressione di meccanica consequen­zialità delle trasformazioni storiche. Rileggendo i propri riassunti lo studente finirà per fissare nella sua mente formulazioni impre­cise, da lui elaborate quando aveva letto per la prima volta il testo, cioè nel momento in cui sapeva meno dell'argomento in esso trat­tato ! Rileggere il testo integralmente e confrontarlo con la propria breve schematizzazione è invece un esercizio molto più proficuo,

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che consente di riparare ad eventuali fraintendimenti. Se proprio si trova comodo fare un riassunto come primo approccio al testo, esso andrà subito gettato via, altrimenti alle tante contraddizioni del manuale e della storia generale che esso racconta si aggiunge­ranno le proprie insufficienze e ingenuità.

2 .7 Il Medioevo come paradigma dell'antimoderno

Nata come definizione sbrigativa nel XV secolo, la parola Medioe­vo e l'aggettivo medievale conservano una valenza negativa. Nel linguaggio comune medievale, lo abbiamo già detto, definisce ciò che è oscuro, arretrato, irrazionale, e che magari è suggestivo e at­traente proprio per queste sue caratteristiche. Antico ha invece una più precisa connotazione temporale: l 'età antica oppure sem­plicemente ciò che è finito per sempre, e dunque assume interesse e suscita ammirazione. Medievale è il passato che non passa, il ne­gativo che rispunta, contro il positivo del moderno. Medievale è, in una parola, ciò che non è moderno.

Le ragioni di questi significati di medievale e moderno sono na­turalmente storiche, legate cioè alla storia del concetto di Me­dioevo ( § 2 . 1 ) .

Come giudizi di valore, medievale e moderno sono speculari: so­no categorie del nostro linguaggio, indipendentemente dal loro si­gnificato cronologico convenzionale (medievale = ciò che è acca­duto tra V e XV secolo; moderno = ciò che è accaduto tra XVI e XVlll secolo) e, ancor più, dai caratteri peculiari che quelle due epoche avrebbero avuto (sappiamo però che, almeno per quanto riguarda l'età medievale, essa non ha un'identità di facile defini­zione, o non la ha affatto) .

Non casualmente, un fortunato filone letterario e cinematografi­co, che ha illustri precedenti, rappresenta il collasso della nostra attuale civiltà, della civiltà moderna, 17 come un ritorno al Medioe-

17 Il filosofo Giambattista Vico ( 1668·17 44) elaborò una visione ciclica della storia umana imperniata su una lettura originale dell'età medievale, intesa come un periodo di barbarie, dalla quale ricavò dei principi universali della vita socia· le (la Scienza nuova) . Una ricaduta nella barbarie era a suo giudizio possibile nel futuro, così come era avvenuto alla civiltà romana.

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Medioevo: istruzioni per l'uso

vo. A molti di noi, cullati dal benessere che ci assicurano i pro­gressi scientifici e tecnologici, piace infatti figurarci un futuro alla rovescia, dove la natura riprende il sopravvento sull'uomo (le ma­lattie, il buio, le distanze insormontabili, le bestie feroci) ; dove le regole del vivere civile vengono stravolte dalla violenza, dall'igno­ranza, dall'isolamento; dove gli uomini sono circondati, o credono di essere circondati da esseri mostruosi e da forze magiche, positi­ve o negative (i draghi, le streghe) .

Nella nostra quotidianità, poi, bastano un minimo disagio (il tre­no in ritardo, la lettera non recapitata, la strumentazione elettro­nica obsoleta) ; una regola di comportamento percepita come in­giusta (il genitore che impone un orario di rientro alla figlia, il pre­side che rimprovera gli alunni che si baciano nel corridoio) ; un ri­chiamo agli aspetti non razionali della fede cattolica, che nessun pontefice ha mai negato e che chi si definisce cattolico dovrebbe accettare (il prete che parla dell'esistenza del diavolo, il vescovo che non concede la celebrazione della messa funebre per un suici­da) , per gridare al Medioevo, per bollare quelle disfunzioni, quegli oggetti, quei comportamenti, quegli aspetti della religione come medievali, e perciò stesso da esecrare.

C'è però qualcosa di buono, in questo Medioevo immaginario che collochiamo ora nel passato, ora nel futuro: sono i valori del­l 'eroismo, della lealtà, dell'amicizia, della devozione alla donna amata, che poco spazio sembrano avere nella nostra società, in una parola i valori della cavalleria, che già nel Medioevo erano esaltati, ben oltre la loro forza effettiva, nella letteratura (poesie, chansons de geste, romanzi e poemi cavallereschi) . Siamo così lon­tani, nei nostri comportamenti, nella nostra vita affettiva, nelle no­stre relazioni con l'autorità, dal mondo letterario della cavalleria, che possiamo piacevolmente vagheggiarlo, dimenticando per un momento quegli aspetti che giudicheremmo senz' altro negativi (medievali) , come la subordinazione dell'individuo agli interessi della famiglia e della comunità, l'inferiorità della donna, l'obbe­dienza assoluta all'autorità.

Questi aspetti, in realtà, non sono legati necessariamente ai se­coli medievali , perché alcuni non sono affatto da attribuire a quel periodo ( i roghi delle streghe, per esempio, che si pratica­rono soprattutto tra il xv e il XVI secolo) , altri si possono tran­quillamente estendere a molte altre epoche, e persino al presen-

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te (l 'inferiorità della donna, che è ancora la normalità in alcune parti del mondo) .

Non avrebbe senso, se mai fosse possibile, estromettere dai no­stri discorsi tanti usi impropri dell'aggettivo medievale. Di esso abbiamo bisogno, tutto sommato. L'importante è, se si prepara un esame di storia medievale o se si vogliono davvero accrescere le proprie conoscenze, non confondere il Medioevo paradigma dell' antimoderno, il Medioevo immaginario con i tanti diversi Medioevi che ricostruisce la ricerca storica occupandosi dei seco­li dal v al xv.

2.8 Il feudalesimo, mostro inafferrabile?

Vicende analoghe alle parole Medioevo e medievale hanno vissuto, in verità, anche altri termini: boccaccesco è sinonimo di salace, dissoluto, ma Boccaccio non scrisse soltanto novelle boccacce­sche. Fascista è un insulto che qualifica qualsiasi comportamento violento, qualsiasi forma di sopraffazione. Chi lo usa in questo senso non lo riferisce, se non vagamente, a un movimento politico particolare o a un preciso periodo storico: nel linguaggio corrente, fascismo e nazismo sono divenuti categorie eterne dell'esistenza umana, e si accompagnano talvolta a medievale e feudale.

Feudale e tutti i termini ad esso apparentati (feudo, feudatario, feudalesimo, barone, vassallo) sono anch'essi usati come giudizi di valore, ancor più negativi di medievale. Un quartiere viene defini­to il feudo della famiglia mafiosa che lo controlla. Il primario ospe­daliero che fa vincere il concorso pubblico al figlio è un barone universitario. Baroni sono perfino quei professori universitari che saltano la lezione senza avvertire o che non rispettano l'orario di ricevimento ! Il partito politico che non è autonomo dal partito maggiore della propria coalizione è qualificato come suo vassallo. In tutti questi esempi le parole del lessico feudale potrebbero es­sere sostituite senza problemi da altre, le quali però non avrebbe­ro la sfumatura odiosa dell'aggettivo feudale.

Feudalesimo è, nel nostro linguaggio, sinonimo di anti-Stato, di esercizio abusivo del potere in un territorio sottratto all'auto­rità pubblica ( la mafia) ; di uso improprio, illegale dell'autorità che proviene dalla propria funzione pubblica (il primario ospe-

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daliero e il professore universitario) ; di subordinazione eccessiva all'altro (il partito minore) . Una concezione feudale viene rim­proverata a chi utilizza le risorse e le prerogative del proprio ruo­lo nell'amministrazione statale o in un'azienda per fini personali e senza rispettare alcuna regola. Allo stesso modo, chi impone ai collaboratori e dipendenti un ruolo assolutamente subalterno, o richiede loro incondizionata fedeltà in ogni occasione, ha una concezione feudale - si dice - delle relazioni umane e professio­nali. Anche feudale, dunque, si oppone spesso a moderno, so­vrapponendosi a medievale.

A quest'uso generico di feudalesimo corrisponde una rappre­sentazione che torna spesso in bocca agli studenti, benché essa non compaia in nessun manuale universitario, quella del sistema feudale come una piramide di obbligazioni personali (la piramide feudale) . Carlo Magno, si dice, divise il suo territorio in feudi as­segnati ai suoi vassalli, i quali a loro volta assegnarono feudi a propri vassalli (valvassori) . I valvassori fecero lo stesso con i val­vassini, sotto i quali si raccoglieva poi l 'intera popolazione, fatta prevalentemente di contadini. Sarebbe interessante fare la storia di questa rappresentazione, ma qui basti avvertire che essa è com­pletamente falsa, oltre che illogica. Se il governo di un territorio viene diviso secondo un sistema di dipendenze gerarchiche (la pi­ramide) , perché mai non dovrebbe funzionare, e per di più già al tempo di Carlo Magno? Soltanto per la malvagità dei vassalli, val­vassori e valvassini, cioè proprio quelli che erano stati scelti per la loro fedeltà? 18

Lo storico Giovanni Tabacco ha definito il feudalesimo come una «sorta di monstruum, divenuto concettualmente quasi inaf­ferrabile»: in effetti si tratta di uno degli argomenti più comples­si della storia medievale, a proposito del quale è opportuno ripe­tere la raccomandazione di consultare un dizionario del Medioe­vo, non essendo soddisfacenti le definizioni dei dizionari della lingua italiana.

L'accezione negativa del termine risale al XVIII secolo, quando fu definito feudale l'intero sistema di rapporti politico-sociali del Medioevo e dell'età moderna, caratterizzato da una certa fram-

18 Il termine valvassini, peraltro, fu usato solo in testi giuridici tardi.

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mentazione del potere pubblico, detenuto non soltanto dai fun­zionari statali ma anche dai feudatari; e dall'esistenza, nelle cam­pagne, di contribuzioni varie ( diritti signorili), cui erano tenuti i contadini affittuari o l'intera popolazione di un villaggio nei con­fronti di un signore locale ( feudatari, enti religiosi come chiese e monasteri). Si trattava di censi (versamenti in denaro o in natu­ra), di prestazioni lavorativ�-

-gratuite (corvées), di obblighi come quello di macinare il proprio grano nel mulino del signore, di mettere in vendita il vino solo dopo che il signore aveva venduto il suo ecc. Questo complesso di regole, comprensive di consue­tudini assai antiche di forte subordinazione del contadino rispet­to al padrone ( che oggi si preferisce definire signorili), furono chiamate genericamente " diritti feudali" , e furono prima critica­te da riformatori, economisti, illuministi del xvm secolo, poi abo­lite da uno dei primi provvedimenti dei rivoluzionari francesi (l' abolizione della feudalità data all'l l agosto 1789) . Esse erano infatti inconciliabili con la concezione romanistica (derivata cioè dal diritto romano) della sovranità nel diritto pubblico e della proprietà privata nel diritto privato, una concezione cui si ispira­vano riformatori e rivoluzionari ( e cui si ispira oggi il nostro or­dinamento giuridico).

Più tardi, il filosofo tedesco Karl Marx ( 18 18- 1 883 ) riprese dai pensatori settecenteschi questa accezione, definendo feudale un particolare tipo di sfruttamento dell'uomo: quello del padrone della terra nei confronti del proprio se�YS:4 legato per sempre al terreno assegnatogli e costretto a cedere la propria forza lavoro. Per Marx la storia umana andava periodizzata in base al tipo di organizzazione economica, e in particolare in base al modo di pro­duzione: quello primitivo; quello asiatico; quello antico, fondato sulla schiavitù; quello feudale che abbiamo detto (e che uno stori­co oggi classificherebbe come signorile); quello dei suoi tempi, ba­sato sull'oppressione dei proletari da parte dei borghesi, che con­trollavano i mezzi di produzione (le fabbriche).

Oggi, dopo oltre un secolo di ricerche più propriamente stori­che e giuridiche sul feudalesimo, sono stati identificati all'interno di questa definizione concetti differenti, fino al punto che molti studiosi preferiscono non usare questo vocabolo prima dell'xi se­colo. Si distingue dunque tra il vincolo vassallatico-beneficiario, il legame personale tra due guerrieri ( signore, senior = il più vec-

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Medioevo: istruzioni per l'uso

chio e vassallo, vassus = il giovane) che comparve nella Gallia del­l'VIII secolo e fu un elemento di coesione nel regno franco e nel­l'impero carolingio (VIII-IX secolo) ; la signoria fondiaria, cioè il potere economico e giuridico di un proprietario terriero sui con­tadini del proprio fondo, un fenomeno di lunghissima durata (ben diverso dal rapporto neutro che c'è oggi tra il proprietario e l 'affittuario, o tra il datore di lavoro e il bracciante) ; il feudalesi­mo come coordinamento organico di diversi poteri territoriali nel basso Medioevo.

Lo stato carolingio non era affatto fondato sul feudalesimo, nel senso che il potere pubblico non era ripartito tra l'imperatore e i guerrieri che gli avevano giurato fedeltà, i suoi vassalli, i quali ri­cevevano da lui una terra (il beneficio, detto più tardi feudo) . Cer­to, Carlo sceglieva i funzionari pubblici (i conti: vedi pp. 7 -8) tra i suoi vassalli, perché essi dovevano avere capacità militari ed esser­gli fedeli, ma non tutti i suoi vassalli erano funzionari pubblici, né tutti i vassalli erano legati a Carlo Magno (chiunque poteva co­struirsi un seguito di v assalii personali) . Dunque, il comitato o contea (la circoscrizione pubblica) non è assolutamente da assimi­lare al beneficio, né il beneficio aveva un contenuto politico: era solo un surrogato di stipendio, una fonte di reddito che assicurava maggiore ricchezza al vassallo per la durata della sua vita (il bene­ficio era revocabile, non era una proprietà) .

Tra x e X I secolo, con l a crisi dell'ordinamento pubblico nei re­gni post-carolingi (crisi che si verificò nonostante il legame vassal­latico-beneficiario, e non perché tutti i vassalli regi diventarono in­fedeli all'improvviso) , il potere pubblico assunse caratteri signori­li, si confuse cioè con il potere esercitato dal proprietario sulla propria terra e sui propri contadini. Qualche signore fondiario si impadronì spontaneamente di poteri pubblici. Tutti assimilarono il piano del potere pubblico con quello del potere fondiario. Que­st' epoca viene perciò definita dell'anarchia o dell'ordinamento si­gnorile (vedi pp. 85 -86) .

Nel basso Medioevo (dall'XI secolo) , il vincolo vassallatico fu utilizzato con finalità diverse: esso non collegava soltanto due per­sone, ma due poteri territoriali. Il beneficio (che per maggior chia­rezza chiamiamo ora feudo), concesso al vassallo (feudatario) con una cerimonia che, nella sostanza, è la stessa dell'alto Medioevo, è effettivamente un territorio che il feudatario governa.

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Nel regno di Sicilia del XIII secolo, per esempio, 1 9 il feudatario possedeva un territorio con la sua giurisdizione (diritto di giusti­zia; beni demaniali come laghi, corsi d'acqua, foreste; cespiti fi­scali come diritti di passo, tasse indirette sul commercio e sulle at­tività produttive; e monopòli come quelli di vendita del vino o del­la macina tura del grano) . Egli riconosceva di possedere tali terre e diritti a titolo feudale, cioè per assegnazione ricevuta dal proprio re e signore feudale. Si trattava di un'assegnazione perpetua, tra­smissibile agli eredi, ma soggetta a precise condizioni, pena la per­dita del feudo: la fedeltà al sovrano e l'impegno a difenderlo, pre­stando servizio militare o fornendo combattenti. Il legame tra il feudatario e il suo signore era ancora un legame personale, ma era regolato dalle norme del diritto feudale, codificate nel Liber Au­gustalis (vedi § 3 .6) , e dal documento di concessione feudale. I di­ritti signorili sopra esemplificati (censi, corvées) furono compresi nella concessione feudale, che li legittimava. Un feudatario non poteva sposarsi liberamente né liberamente dividere il feudo tra più figli: il re doveva approvare queste scelte, perché potevano ri­percuotersi sulla corresponsione del servizio nei suoi confronti.20

Nel feudo non vivevano soltanto i contadini del feudatario, ma anche una varietà di persone che esercitavano le più diverse atti­vità (nobili di rango inferiore, ecclesiastici, mercanti e altri im­prenditori, artigiani, proprietari terrieri ecc . ) : essi, pur chiamati "vassalli" , rispondevano al feudatario soltanto per le questioni di giustizia, o perché, ovviamente, erano tenuti a rispettare i mo­nopòli e pagare le tasse indirette possedute dal feudatario, come del resto chiunque transitasse per quel territorio.

Del resto, gli ecclesiastici non erano soggetti al feudatario, ma al tribunale del vescovo o del papa. Chi era condannato dal tribuna­le feudale poteva ricorrere in appello ai tribunali del re, i quali era­no gli unici competenti per alcuni reati (per esempio la falsifica­zione di moneta o la lesa maestà) .

Tra l'altro, il feudatario non era l'unico a esigere tasse nel suo territorio, perché da un lato il re poteva imporre a tutti quelli che

1" Questo esempio non deve far pensare che il feudalesimo fosse presente solo nelle monarchie: esso era diffuso in tutt'Europa, anche in regioni segnate dal fe­nomeno comunale, come la Lombardia.

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Medioevo: ùtruzioni per l'uso

non fossero ecclesiastici o suoi vassalli una tassazione generale, prima per situazioni d'emergenza, poi regolarmente; dall'altro la Chiesa esigeva le decime da tutti i fedeli (un prelievo chiamato così perché originariamente corrispondeva alla decima parte del raccolto) .

Come si vede, questo feudalesimo del basso Medioevo (che ef­fettivamente fu presentato con l'immagine della piramide da par­te di alcuni giuristi) è un sistema di amministrazione e di sfrutta­mento del territorio che non ha molto di illegale o arbitrario e che comunque non era l'unico modo di gestire il potere pubblico, per­ché esistevano aree amministrate da comunità con una loro auto­nomia, come le città, altre amministrate direttamente dai funzio­nari del re, i quali via via accrebbero le proprie competenze. Il si­stema poteva non funzionare, come tutti i sistemi, per il prevalere di interessi particolari o per l'insorgere di conflitti, ma aveva una sua razionalità, pur molto diversa dalla nostra.

Lo studente dovrà dunque sforzarsi di distinguere il feudalesimo del nostro linguaggio comune, lontano erede del feudalesimo av­versato da illuministi e rivoluzionari e di quello di Karl Marx, dai vari fenomeni, pur collegati in certa misura, in cui esso è scompo­sto dagli storici: il vassallaggio, la signoria, il feudalesimo "vero e proprio" del basso Medioevo e dell'età moderna.

2" Nel rispetto del diritto feudale, il feudatario poteva ulteriormente infeudare una parte del suo feudo, concederlo cioè a un valvassore (vassallo di un vassallo) o suffeudatario (detentore di un sotto-feudo), il quale vi esercitava analoghi di­ritti. Erano però chiamati feudi anche semplici proprietà terriere, il cui conces­sionario non aveva né diritti giurisdizionali né obblighi militari nei confronti del signore, cui versava soltanto, come un semplice affittuario, canoni in denaro o in natura, spesso irrisori. Questi feudi, detti " rustici" , restavano proprietà di chi li concedeva, come i feudi veri e propri (o "nobili" ) , ma il signore non poteva rien­trarne in possesso come sarebbe stato possibile fare nel caso di un normale fitto. La legittimazione dei diritti signorili in forma feudale, il feudo rustico, l'estensio­ne dell'appellativo di vassalli a tutti coloro che abitavano nel feudo sono tutti esempi di come, già nel basso Medioevo, il lessico feudale si fosse esteso a una pluralità di situazioni.

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3 . Le fonti e i metodi

3 . 1 Le fonti

Spesso si dice che la storia si fa con i documenti o - meglio - con le fonti. Per fonti 1 si intendono tutti i resti del passato, materiali e immateriali, scritti e non scritti, prodotti intenzionalmente da chi ci ha preceduto per lasciare memoria di sé e delle proprie azioni, o risultato meccanico delle varie attività umane: dunque leggi, lette­re, narrazioni, poesie, monete, edifici, gioielli, tombe, cocci, leg­gende, nomi di luoghi ecc. La storia si fa con le fonti: è giusto, ma meglio sarebbe dire che la storia si fa con la critica delle fonti. Es­se sono infatti spesso mute o ambigue, e necessitano di complesse tecniche di interrogazione e di trattamento delle informazioni che ci forniscono. In una parola, sono da interpretare secondo metodi complessi che sono stati elaborati e perfezionati nel corso di seco­li, e che possono essere padroneggiati soltanto dopo una specifica formazione e un apprendistato di una certa durata. Chi prepara il primo (a volte unico) esame di storia medievale non può certo ac­quisire queste competenze.

Tuttavia, avvicinarsi ad alcune fonti può essere utile anche per uno studente alle prime armi, che può così farsi un'idea di quan­to siano complesse la storia (ciò che è accaduto) e la storiografia (la ricostruzione e il racconto di ciò che è accaduto) .2 In questo capitolo verranno analizzate alcune fonti con due finalità: pre-

1 Si tratta di una metafora: dalle fonti (francese e inglese sources, tedesco Que!!en) sgorga la storia come acqua fresca e limpida.

2 Storia e storiografia, che rischiano di essere tra loro confuse dallo studente, sono talvolta definite con le seguenti espressioni latine: la storia corrisponde alle res gestae («ciò che è stato fatto, i fatti») , la storiografia alla historia re rum gesta­rum («la storia, il racconto delle cose che sono state fatte, dei fatti>>) .

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Medioevo: istruzioni per l'uso

sentare una tipologia abbastanza rappresentativa dei materiali con cui lavorano gli storici, dei metodi elaborati per analizzarli, delle altre discipline coinvolte in queste analisi, in secondo luogo approfondire questioni importanti della storia medievale, alcune di quelle che non si possono non sapere. Sono state scelte, senza alcuna pretesa di completezza e di originalità, fonti che effettiva­mente hanno condizionato la ricerca e la divulgazione della storia medievale. Il lettore non troverà una definizione rigorosa dei va­ri tipi di fonti, che del resto vengono classificate in vario modo. Si pensi solo che un'ottima collana editoriale intitolata "Tipolo­gia delle fonti del Medioevo occidentale" (Typologie des sources du Moyen Age occidental) è arrivata quasi al novantesimo volu­me, passando dalla fonte numismatica (le monete) , alle ossa, ai trattati di musica, ognuna delle quali necessita di uno specifico "trattamento" .3

Fare ricerca storica significa dunque avere a che fare con le fon­ti: lo studioso del passato non ha infatti alcun modo di vedere l'og­getto del suo studio, se non attraverso la mediazione incompleta, fallace, enigmatica dei resti di quel passato, resti che sono giunti a noi attraverso passaggi che li hanno talvolta deformati (la "tradi­zione" )4 e che in più hanno subito successive interpretazioni, più o meno consolidatesi nel tempo, anch'esse importanti per la ricerca storica. Lo studioso utilizza infatti la fonte tenendo sempre pre­sente la sua tradizione e la storia della sua interpretazione.

Il manuale tratta invece un livello di "storia generale" , come si dice, che tenta di mettere insieme, con una certa coerenza argo­mentativa, fatti, questioni assolutamente diverse, nonché prospetti­ve e interpretazioni sviluppate in tempi e contesti assai differenti.

3 È però utile ricordare alcune distinzioni di base, che ricorrono sia nel lin­guaggio comune che tra gli specialisti: tra fonti scritte e non scritte; tra fonti in­tenzionali (prodotte cioè per trasmettere informazioni) e non intenzionali o pre­terintenzionali; tra fonti narrative (i testi scritti allo scopo di trasmettere il ricor­do di fatti e persone, come le storie e le cronache) e documentarie (i documenti con effetti giuridici).

4 Un testo scritto è giunto spesso attraverso copie successive che lo hanno mo­dificato, volontariamente e non. Un intervento urbanistico può aver cancellato l'originario tracciato di una strada, il cui nome magari è passato a una strada del tutto diversa ecc. Anche i resti architettonici e archeologici, che pure possiamo vedere e toccare, possono aver subito notevoli trasformazioni.

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Le fonti e i metodi

La storia insegnata dai manuali (la cosiddètta storia-disciplina) , non è altro che un pratico sommario di informazioni e argomenta­zioni, un'entità ben diversa dalla concreta pratica storiografica (la storia-scienza) . E tuttavia, la sintesi manualistica resta necessaria, come primo approccio al passato, come una buona guida turistica che indica le cose più importanti da visitare e i ristoranti migliori di una città sconosciuta.

Sta poi al singolo mettersi in viaggio e in discussione, se vuole conoscere davvero quei posti.5

3 .2 Un monaco e l'invasione dei longobardi (la fonte narrativa)

I longobardi invasero la penisola italiana nel 568,6 occupandone una buona parte. La storia di quell'invasione, che ebbe effetti drammatici sull'assetto sociale e istituzionale dell'Italia, ci è nota grazie a pochissime fonti, tra le quali spicca la Historia Langobar­dorum, scritta più di 200 anni dopo da un monaco longobardo, Paolo di Warnefrid, detto Paolo Diacono. Leggiamo due passi dell'opera, relativi al periodo successivo alla morte di re Alboino, che aveva guidato la migrazione in Italia:

[ l ) In Italia intanto [anno 573) i longobardi tutti di comune accordo elessero re in Ticino Clefi, uomo nobilissimo della loro nazione. [2) Questi uccise o cacciò dall'Italia molti potenti romani. [3 ) Dopo aver tenuto il regno insieme alla moglie Masane per un anno e sei mesi, fu sgozzato con la spada da un giovane del suo seguito. [ 4) Dopo la sua morte [anno 57 4) i longobardi rimasero per dieci anni senza re e stettero sotto il comando dei duchi. [5) Ogni duca aveva la sua città: Zaban Ticino, Wallari Bergamo, Alichis Brescia, Euin Trento, Gisulfo Cividale. [6] Ma ci furono anche altri trenta duchi, oltre questi, ognuno nella sua città. [7] In questi giorni molti nobili romani furono uccisi per cupidigia. [8) Gli altri poi, divisi tra i longobardi secondo il sistema dell'ospitalità, vengono resi tributari con l'obbligo di versare la

5 I paragrafi di questo capitolo non devono necessariamente essere letti tutti, né è indispensabile rispettare la successione proposta. Naturalmente nessuna del­le fonti presentate è sufficiente per affrontare le questioni ad essa collegate.

6 Alcuni studiosi datano l'evento al 569.

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Medioevo: istruzioni per l'uso

terza parte dei loro raccolti ai longobardi. [9] Per opera di questi duchi, nel settimo anno dall'arrivo di Alboino e di tutta la sua gente, l'Italia fu per la massima parte (eccettuate le regioni che aveva conquistato Al­boino) presa e soggiogata dai longobardi, dopo che questi ebbero spo­gliato le chiese, ucciso i sacerdoti, rovinato le città e decimato le popo­lazioni che erano cresciute come messi sui campi [ . . . ] . [ 10] Intanto i longobardi, dopo che per dieci anni erano stati sotto il potere dei duchi, alla fine [anno 584 ] , per decisione comune, elessero come proprio re Autari, figlio del già ricordato principe Clefi, [ 1 1 ] e per qualificare la sua dignità gli attribuirono anche l'appellativo di Fla­vio: [ 12] prenome che fu poi usato felicemente da tutti i successivi re longobardi. [ 1 3 ] Ai suoi giorni, al fine di restaurare il regno, ogni du­ca cedette per gli usi regi la metà di tutti i propri beni, [ 14] per costi­tuire un patrimonio con cui il re, il suo seguito e coloro che si dedica­vano al suo servizio nelle diverse funzioni potessero mantenersi . [ 15] Invece le popolazioni sottomesse furono suddivise tra gli ospiti longo­bardi. [ 16] C'era però questo di meraviglioso nel regno dei longobardi: non c'erano violenze, non si tramavano insidie; [ 17] nessuno opprime­va gli altri ingiustamente, nessuno depredava; [ 18] non c'erano furti, non c'erano rapine; [ 1 9] ognuno andava dove voleva, sicuro e senza al­cun timore.

Testo latino

[ l ] Longobardi vero aput ltaliam omnes communi consilio Cleph, no­bilissimum de suis virum, in urbe Ticinensium sibi regem statuerunt. [2) Hic multos Romanorum viros potentes, alios gladiis extinxit, alios ab Italia exturbavit. [3 ] lste cum annum unum et sex menses cum Ma­sane sua coniuge regnum obtenuisset, a puero de suo obsequio gladio iugulatus est. [ 4] Post cuius mortem Langobardi per annos decem regem non ha­bentes, sub ducibus fuerunt. [5) Unusquisque enim ducum suam civi­tatem obtinebat: Zaban Ticinum, Wallari Bergamum, Alichis Brexiam, Eoin Trientum, Gisulfus Forumiuli. [6] Sed et alii extra hos in suis ur­bibus triginta duces fuerunt. [7] His diebus multi nobilium Romano­rum ob cupiditatem interfecti sunt. [8] Reliqui vero per hospites divi­si, ut terciam partem suarum frugum Langobardis persolverent, tribu­tarii efficiuntur. [9] Per hos Langobardorum duces, septimo anno ab adventu Alboin et totius gentis, spoliatis ecclesiis, sacerdotibus inter­fectis, civitatibus subrutis populisque, qui more segetum excreverant, extinctis, exceptis his regionibus quas Alboin ceperat, Italia ex maxima parte capta et a Langobardis subiugata est [. . . ] .

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Le fonti e i metodi

[ 10] At vero Langobardi cum per annos decem sub potestate ducum fuissent, tandem communi consilio Authari, Clephonis filium supra memorati principis, regem sibi statuerunt. [ 1 1 ] Quem etiam ob digni­tatem Flavium appellarunt. [ 12] Quo praenomine omnes qui postea fuerunt Langobardorum reges feliciter usi sunt. [ 1 3 ] Huius in diebus ob restaurationem regni duces qui tunc erant omnem substantiarum suarum medietatem regalibus usibus tribuunt, [ 14] ut esse possit, un­de rex ipse si ve qui ei adhaererent eiusque obsequiis per diversa officia dediti alerentur. [ 15 ] Populi tamen adgravati per Langobardos hospi­tes partiuntur. [ 16] Erat sane hoc mirabile in regno Langobardorum: nulla era t violentia, nullae struebantur insidiae; [ 17 ] nemo aliquem iniuste angariabat, nemo spoliabat; [ 1 8] non erant furta, non latroci­nia; [ 19] unusquisque quo libebat securus sine timore pergebat.

A differenza di un coccio di ceramica come quello di cui si parlerà nel § 3 . 3 , una fonte come questa sembra di facile interpretazione: si tratta infatti di un testo che è stato scritto con la precisa inten­zione di raccontarci una storia. L'occupazione dell'Italia da parte dei longobardi - racconta Paolo Diacono - fu caratterizzata da as­sassini e depredazioni. Le città furono distrutte, le popolazioni de­cimate, i romani sottomessi. Dopo dieci anni senza un re (574-584, periodo detto dell'interregno), i capi longobardi (duchi, duces) elessero re Autari, restauratore della monarchia, il quale si costituì un patrimonio di beni come base del suo potere grazie alla cessio­ne, da parte dei duchi, di metà dei loro averi.

La semplicità interpretativa è solo apparente, tant'è vero che i brani appena citati sono oggetto di discussione da oltre due seco­li. In particolare, sono cruciali i seguenti passaggi. Il primo ci informa che dopo la morte di re Clefi, durante l'interregno, mol­ti nobili romani furono uccisi da chi voleva impadronirsi dei loro beni (ab cupiditatem inter/ecti sunt) , mentre i restanti furono resi tributarii.

In questi giorni molti nobili romani furono uccisi per cupidigia. Gli al­tri poi, divisi tra i longobardi secondo il sistema dell'ospitalità, vengo­no resi tributari con l'obbligo di versare la terza parte dei loro raccolti ai longobardi [7 -8] .

Il periodo immediatamente successivo ritorna sulla violenza dei duchi, che durante l'interregno sottomisero gran parte dell'Italia:

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Medioevo: istruzioni per l'uso

L'Italia fu per la massima parte . . . presa e soggiogata dai longobardi, dopo che questi ebbero spogliato le chiese, ucciso i sacerdoti, rovinato le città e decimato le popolazioni che erano cresciute come messi sui campi (spoliatis ecclesiis, sacerdotibus interfectis, civitatibus subrutis po­pulisque, qui more segetum excreverant, extinctis) [9] .

Un disastro, insomma, con stragi e distruzioni che colpirono una regione caratterizzata dall'abbondanza della popolazione. Il terzo passaggio, riferito a un periodo posteriore, dopo che i duchi ave­vano di nuovo eletto un re, Autari, torna sul destino dei romani, o meglio dei populi della penisola assoggettati dai longobardi:

Invece le popolazioni sottomesse furono suddivise tra gli ospiti lon­gobardi (Populi tamen ad gravati per Langobardos hospites partiuntur) [ 15 ] .

Come si sarà notato, quando si parla dello sfruttamento dei reliqui (nobilium Romanorum [7-8] ) , cioè della parte restante dei nobili romani, e della popolazione in generale (i populi [ 15 ] ) , si defini­scono i longobardi con il termine di hospites, "ospiti " . Ci si riferi­sce a un celebre istituto della tarda antichità, quello della hospita­litas, secondo il quale ai nuclei di barbari insediati all'interno dei confini dell'impero romano veniva assegnato un terzo delle terre, confiscate a proprietari romani o, più probabilmente, un terzo dei proventi delle terre. In Paolo Diacono l'espressione, a quanto pa­re, è usata in questo secondo senso: potremmo pensare a una sor­ta di requisizione organizzata, un tributo in natura («con l'obbligo di versare la terza parte dei loro raccolti», terciam partem suarum /rugum [8] ) , che forse potrebbe essere stato esteso in un secondo momento a tutta la popolazione (populi adgravati [ 15 ] ) . È però difficile che in quelle condizioni di violenza e instabilità potesse essere organizzato un regolare prelievo della terza parte dei rac­colti. D'altra parte, se molti nobili romani - su questo il testo è chiarissimo - furono trucidati, qualche altro proprietario terriero doveva pur essere rimasto in vita e in possesso dei suoi beni per poter essere " tassato" .

Come s i vede, già una prima lettura d i questi brevi passaggi, condotta in modo non difforme da qualsiasi tipo di analisi del te­sto (un'attività assai diffusa nelle scuole italiane) , coinvolge natu­ralmente la conoscenza della lingua latina, ma del latino tardo o

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Le fonti e i metodi

latino medio (la letteratura in latino del Medioevo è appunto defi­nita mediolatina) . Dunque, il termine hospites va inteso in una spe­cifica accezione tecnica e giuridica.

Altra osservazione: quando Paolo scrisse, nel primo dei tre pas­saggi, nobili Romanorum, usò una parola della sua lingua di cul­tura, lingua che egli aveva appreso a un buon livello leggendo e imitando le sacre scritture e alcune opere della letteratura latina e cristiana (aveva anche imparato qualche rudimento della lingua greca) , e che però era utilizzata anche per definire i nobili del suo tempo, i guerrieri longobardi o franchi che controllavano l'orga­nizzazione pubblica e possedevano grandi quantità di terre e con­tadini (i franchi avevano conquistato il regno longobardo nel 774 ) . Noi, oggi, spogliamo quella parola del suo significato alto­medievale e leggiamo dietro ad essa una realtà che conosciamo per altre vie, quella della classe senatoria italo-romana, che nel VI

secolo, al tempo dell'invasione, era ancora caratterizzata da un buon livello culturale ed era al vertice della società, dell' econo­mia, delle istituzioni, benché non controllasse più la forza milita­re, generalmente in mano a capi barbari. Concludiamo quindi che il ceto senatoriale fu senz' altro decimato, costretto alla fuga (come confermano altre fonti) o comunque privato del proprio ruolo politico, ma non siamo in grado di ricavare dalle parole di Paolo molte altre informazioni sui reliqui (nobilium Romanorum) e sui populi tutti.

Per ognuna delle espressioni latine usate da Paolo dobbiamo dunque chiederci che cosa egli intendesse veramente e che cosa noi potremmo intendere rintracciando in quell'espressione speci­fica un fondo di realtà esterno alla dimensione linguistica, al di là della definizione ricavata dalla tradizione letteraria (nobili) , ovve­ro quel ceto reale di famiglie senatorie italo-romane che si è detto.

Inoltre, aggiungiamo restando sul piano della realtà, dobbia­mo chiederci come facesse Paolo a sapere quelle cose: da dove prendesse quelle notizie, messe per iscritto, come si è detto, oltre 200 anni dopo i fatti. Si tratta insomma di approfondire la nostra analisi sia sul piano della forma (la lingua, la tradizione lettera­ria) , che su quello del contenuto (l'origine e l'attendibilità del­l' informazione).

Per chiarire questi due punti è indispensabile conoscere meglio il testimone Paolo Diacono, passando dal testo all'autore e soffer-

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mandoci sul suo modo di scrivere, fare insomma un po' di storia della storiografia nel Medioevo.7 Ciò significa indagare sulla bio­grafia di Paolo Diacono, sulle motivazioni culturali, politiche, per­sonali, che lo spinsero a scrivere quell'opera, sulle fonti che uti­lizzò, sui modelli letterari e storiografici che seguì (gli autori che conosceva) , e in generale sui quadri mentali di riferimento della sua epoca e del suo ceto. Tutti questi elementi hanno certamente condizionato, in forme diverse e a livelli diversi, il testo che noi leggiamo. Non disponiamo però di informazioni sufficienti per nessuno di essi, a differenza di quanto accade per autori più vicini a noi (sui quali pure si esercitano i critici con differenti esiti inter­pretativi ! ) , e ciò complica molto le cose.

Per molte cronache e storie scritte nel Medioevo (sono, queste, fonti narrative) , la maggior parte delle notizie biografiche sull'au­tore sono ricavabili dalle sue opere, e vanno dunque valutate at­tentamente, perché selezionate dal soggetto stesso. Ciò vale anche per Paolo Diacono, che ci racconta la storia della sua famiglia e ci dà qualche notizia della sua vita. Tali informazioni sono " intenzio­nali" , sono quelle che Paolo Diacono ci ha voluto dare, o che un monaco del suo tempo e della sua formazione culturale riteneva necessario dare (ecco che passiamo continuamente dal piano del­l'individuo al piano della cultura di cui è espressione, cultura che conosciamo attraverso altre opere) . Al tempo stesso, dalle parole di Paolo sono ricavabili informazioni che egli non ci voleva dare, o che ci ha dato senza rendersene conto, cioè informazioni "prete­rintenzionali" : si potranno dunque considerare anche i silenzi di Paolo, le informazioni che generalmente un autore di quell'epoca o con quei modelli letterari e storiografici avrebbe dovuto dare e che Paolo non ha dato.

Per esempio, è interessante osservare che Paolo non racconta di un'origine mitica dei longobardi, come avviene nelle storie dei franchi, presentati come discendenti dei troiani. Grazie a questa leggenda i franchi erano stati collegati in qualche modo alla storia

7 Per storia della storiografia medievale si può intendere sia la storia degli au­tori e delle opere storiche scritte nel Medioevo (e dedicate al Medioevo stesso o ad altri periodi storici), sia la storia degli studi moderni sul Medioevo, cioè la sto­ria della medievistica. Nel testo abbiamo appena usato storia della storiografia nella prima accezione.

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Le fonti e i metodi

antica, anzi nobilitati dall'apparentamento con i romani, anch'essi discendenti, tramite Enea, dei troiani che furono sconfitti dai gre­ci. Ancora, non è diffusa nella tradizione storiografica antica e me­dievale la consuetudine che l' a'-:'tore narri la storia della propria fa­miglia, come fa Paolo, che ci dice del suo antenato Leupchis, ve­nuto in Italia insieme con Alboino.

L'uno e l'altro elemento sono stati interpretati come la prova che la cultura tradizionale longobarda era ancora vitale in Paolo e nel suo popolo. Nonostante l'avvicinamento alla cultura latina, i lon­gobardi non ebbero bisogno di inventarsi ascendenze nobili e an­tiche, e si riconobbero semplicemente come un popolo venuto dal Nord e dunque assolutamente estraneo rispetto al mondo roma­no. L'appartenenza etnica era ancora, al tempo di Paolo, un ele­mento decisivo nell'identità e nella cultura dei ceti egemoni del re­gno di Pavia, cui apparteneva il nostro autore. Ogni longobardo si sentiva in primo luogo parte di una stirpe, di cui ricordava e rac­contava la storia (anche se ormai la lingua longobarda non era più parlata da nessuno e la religione ariana era stata abbandonata8) , in secondo luogo parte di una famiglia specifica, i cui membri erano ricordati nominativamente e in successione cronologica da una ge­nerazione all'altra.

Quest'ultima osservazione ci mostra come la distinzione tra fon­ti intenzionali (una cronaca) e preterintenzionali (un resto archeo­logico) , pur utile a livello generale, non è tuttavia precisa, perché molte fonti possono rientrare in entrambe le categorie.

L'osservazione ci consente anche di passare alla questione, sopra evidenziata, delle fonti di Paolo Diacono. Egli infatti raccolse tra­dizioni orali della storia dei longobardi. Per esempio, racconta, pur rifiutandola a causa della sua formazione culturale, la saga del­le origini dei longobardi (Origo gentis Langobardorum) , che cono­sciamo anche in altre versioni scritte. Quella saga fu raccontata a voce per secoli, finchè non giunse alla scrittura, nella storia di Pao­lo e altrove, con inevitabili modificazioni. Anch'essa è dunque una fonte, ma, per la sua qualità originaria e per il modo e il tempo in

8 L'arianesimo, una dottrina cristologica condannata come eretica nel concilio di Nicea del 325 , e di conseguenza perseguitata dagli imperatori romani e dai ve­scovi cattolici, si era diffuso tra i germani prima ancora della migrazione verso oc­cidente ed era divenuto un elemento, pur recente, della loro identità.

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cui è stata messa per iscritto, è stata analizzata con i metodi della ricerca etnografica e antropologica, metodi che si sono formati nello studio di popolazioni primitive, di cultura orale.

Il punto in cui Paolo riferisce dell'abbondante popolazione itali­ca prima dell'invasione (qui more segetum excreverant [9] ) è stato riconosciuto come un'iperbole ricavata da un'opera di papa Gre­gorio Magno,� aspro detrattore delle violenze longobarde. L'esa­gerazione è peraltro contraddetta da Paolo stesso in un altro luo­go della sua opera, oltre che dalle prove che abbiamo di un gene­ralizzato calo demografico nell'Italia della metà del VI secolo.

Altra fonte di Paolo Diacono è Secondo di Non o di Trento. Proprio quei passaggi cruciali che abbiamo commentato (in parti­colare Reliqui . . . efficiuntur [8] e Populi tamen . . . partiuntur [ 15 ] ) sono stati attribuiti per ragioni stilistiche a un'opera, che non ci è pervenuta, di questo autore, che era un chierico111 di origine italica, morto nel 6 12 . Secondo narrò le fasi più difficili della conquista, di cui ebbe esperienza diretta (le ostilità con i bizantini durarono a lungo, e ulteriori conquiste furono effettuate dai duchi e dai re longobardi dopo il 568) . La notizia dell'assoggettamento e il voca­bolo stesso di hospites risalgono dunque al testo di Secondo.

Si noti che immediatamente dopo aver citato i populi adgravati Paolo fa un'affermazione sorprendente:

C'era però questo di meraviglioso nel regno dei longobardi: non c'era­no violenze, non si tramavano insidie; nessuno opprimeva gli altri in­giustamente, nessuno depredava; non c'erano furti, non c'erano rapi­ne; ognuno andava dove voleva, sicuro e senza alcun timore [ 16-19] .

Questo quadretto idilliaco di pace e giustizia non può essere attri­buito a Secondo, che viene contraddetto. Evidentemente, si tratta

" Gregorio Magno, papa dal 590 al 604, ebbe un ruolo di primo piano nei rap· porti con i longobardi.

10 Erano detti chierici tutti quelli che avevano un qualche ruolo nell'organizza­zione amministrativa e religiosa di una chiesa, dunque non solo i sacerdoti, in contrapposizione con tutti gli altri fedeli, i laici (coloro che fanno parte del po­polo, in greco laas) . Erano considerati chierici sia quelli che si erano semplice­mente sottoposti alla tonsura (taglio circolare dei capelli sulla sommità della te­sta) , sia coloro che avevano ricevuto gli ordini sacri. Gli ordini minori erano con­feriti a vari collaboratori (il portiere o ostiario, il lettore ecc. ) . Gli ordini maggio­ri erano conferiti a diaconi, sacerdoti, vescovi.

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di una affermazione che risale a Paolo, il quale quasi nostalgica­mente evoca la pace e la giustizia che regnavano tra i longobardi. Nonostante la condanna delle violenze anticattoliche e, aggiungia­mo, l 'accettazione del destino del regno longobardo, conquistato dal re dei franchi Carlo Magno, Paolo non ci lascia un giudizio ne­gativo della storia del suo popolo.

Paolo, che apparteneva a una nobile famiglia longobarda radi­cata in Friuli (era nato a Cividale tra il 720 e il 730) , aveva vissu­to alla corte regia di Pavia prima delle guerre tra franchi e longo­bardi. Divenuto monaco benedettino a Montecassino, aveva assi­stito alla fine del regno (77 4) e alla rovina della sua famiglia, per­ché il fratello aveva partecipato a una ribellione antifranca (776) . Era poi stato per cinque anni alla corte di Carlo Magno, in un ambiente culturalmente assai vivace. La storia dei longobardi è la sua ultima opera, scritta dopo il rientro in Italia (786-787 ) e in­terrotta dalla morte negli ultimi anni del secolo. Tali esperienze non possono non averlo condizionato: per esempio, in quanto monaco cattolico non poteva che giudicare negativamente l'aria­nesimo dei primi longobardi, gli eccidi dei romani e il saccheggio delle chiese da essi praticati durante l'invasione. In quanto lon­gobardo, egli era però fiero della storia del suo popolo e riteneva opportuno tramandarla ai posteri, benché esso non sembrasse rientrare nel disegno provvidenziale che aveva fatto la fortuna dei franchi, da lui stimati.

Gli studiosi dei longobardi e di Paolo Diacono hanno fatto tut­te queste considerazioni riflettendo sulla scarne notizie biografi­che dell'autore, sulla rappresentazione che egli diede del suo po­polo, sulle contraddizioni che emergono in brani come quello ci­tato, sui suoi silenzi, sui confronti con opere sue e di altri.

Siamo però scivolati completamente dal testo all'autore, dalla storia dei longobardi alla storia della cultura di Paolo Diacono e del ceto dirigente del regno longobardo nell'viii secolo. E, in ef­fetti, l'opera di Paolo è una fonte per conoscere i longobardi nel periodo di cui parla la sua Historia (dalle mitiche origini del I sec. a.C. al 744 ) , ma anche e soprattutto nell'vm secolo, insomma è fonte del tempo che essa racconta e del tempo in cui fu scritta.

Ma torniamo alla questione iniziale. Che cosa successe vera­mente ai romani in occasione dell'invasione longobarda? Su que­sto punto, avevamo detto al principio del paragrafo, ci sono state

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molte discussioni, tutte prigioniere, per così dire, di quei tre pas­saggi fondamentali e di quelle espressioni (nobili Romanorum . . . populi adgravati) . Per Alessandro Manzoni, che scrisse un celebre saggio storico sui longobardi nel 1822 (Discorso sopra alcuni pun­ti della storia longobardica in Italia) , l ' invasione aveva provocato il totale asservimento dei romani, ovvero - secondo Manzoni - i fu­turi italiani, rispetto ai longobardi, che non si fusero affatto con le popolazioni indigene. Questa conclusione, supportata dalla fonte che abbiamo qui analizzato, aveva importanti conseguenze politi­che nell'epoca in cui Manzoni viveva: a parer suo e di altri l'iden­tità degli italiani, degni di vivere in una nazione unita e indipen­dente, risaliva alla tradizione romana, stravolta ma non annichili­ta da un elemento etnico e culturale totalmente estraneo, quello longobardo. Il «volgo disperso che nome non ha», come disse in sede poetica Manzoni definendo i romani rimasti in stato di sot­tomissione anche dopo la conquista franca del regno longobar­do,1 1 corrispondeva al popolo italiano che nel XIX secolo era sepa­rato in differenti stati e oppresso dallo straniero (il richiamo è ai domini austro-ungarici in Italia) .

Oggi la lettura manzoniana è giudicata scorretta, in primo luogo perché, pur essendo evidente che l'invasione causò la decimazione dell'aristocrazia senatoria, nessuno di quei passaggi afferma espli­citamente che l'intera popolazione romana fosse ridotta in schia­vitù. In secondo luogo, Manzoni compiva un'identificazione che è oggi rifiutata: i romani del 568-774 non sono gli italiani del 1822, anzi non sono neppure i romano-italici o romanici rimasti sotto il dominio bizantino (vedi § 1 . 1 ) ! Inoltre, i longobardi, per quante devastazioni e stragi abbiano procurato, non possono aver stermi­nato e schiavizzato l'intera popolazione, non foss'altro per ragione di numeri.

Non si creda però che Manzoni procedesse per grossolane sem­plificazioni. La sua analisi delle fonti è anzi seria, e le sue argo­mentazioni conservano, ancora oggi, motivo di interesse. Il fatto è che nei quasi due secoli che ci separano da Manzoni la storiografia

1 1 Si tratta della tragedia dell'Adelchi ( 1 820-22) , dedicata alla fine del regno longobardo. Il verso è nel coro del III atto, 66, che commenta la fine del regno longobardo. Il saggio sui longobardi nacque dalle ricerche di Manzoni in occa­sione della composizione della tragedia.

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Le /o n ti e i metodi

è progredita moltissimo: l'analisi delle fonti narrative si è fatta as­sai raffinata e direi smaliziata, come si è visto, e soprattutto questo tipo di fonte non è più al centro delle ricostruzioni storiche. Il pro­blema del destino dei romani dopo l'invasione dei longobardi non può essere risolto soltanto sulla base di quei famigerati passaggi, che di più non possono dire, ma deve fondarsi su altre fonti e altri metodi di indagine.

Oggi si ritiene che anche i longobardi, seppur con molta più len­tezza delle altre popolazioni germaniche migrate in Europa, per­corsero le medesime tappe di awicinamento alla residua tradizio­ne romana, trasformando una violenta dominazione tribale e mili­tare in un potere territoriale dotato di un essenziale apparato di uffici pubblici e diretto da una monarchia cattolica abbastanza stabile. Tali conclusioni, ancora in discussione, non capovolgono però le affermazioni di Paolo Diacono, che conservano un fondo di verità: l'invasione fu violenta, i ceti dirigenti furono, se non ster­minati in toto, privati dei loro diritti politici o emarginati, perché il controllo delle risorse economiche e del territorio passò tutto nel­le mani dei guerrieri longobardi.

I due secoli di ricerca storiografica non sono passati invano, per­ché la stratificazione delle discussioni, influenzate più o meno dal­le vicende contemporanee (il Risorgimento all'epoca di Manzoni, i flussi migratori extraeuropei al nostro tempo, con il connesso in­teresse per la questione dell'integrazione) , hanno migliorato le no­stre capacità e tecniche di analisi. Illuminato da altri testi e da fon­ti del tutto diverse quanto a collocazione geografica e a tipologia, il racconto di Paolo Diacono continua a dirci qualcosa, sia sul suo proprio tempo che su quello da lui trattato.

Parlando della restauratio regni con Autari [ 1 3 ] , Paolo Diacono fa affermazioni assai interessanti: nonostante la loro indiscutibile barbarie, i longobardi mostrano di aver compreso la necessità, già nel 584, di una più stabile organizzazione territoriale, certo estra­nea alle loro proprie tradizioni. Il re fu allora chiamato Flavio (quem etiam ab dignitatem Flavium appellarunt [ 1 1 ] : anche questa informazione era probabilmente ricavata da Secondo) . Il termine è usato come un titolo regale, del tutto impropriamente, perché designava originariamente una gens romana, quella da cui proven­nero alcuni imperatori di uno dei più gloriosi periodi della storia romana (I sec. d.C . ) . Qualcuno (consiglieri germanici o romani?

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chierici?) trovò però opportuna per un re longobardo una defini­zione romana, che, pur stravolta, era già stata utilizzata dai sovra­ni ostrogoti. L'integrazione era dunque già cominciata, e in essa un ruolo ebbero anche gli appartenenti al «volgo disperso».

Prima di concludere, riassumiamo metodi e discipline coinvolte nell'interpretazione dei brani di Paolo Diacono: l'analisi del testo, la storia della lingua e della letteratura latina, la storia della storia­grafia, la storia del diritto. Esse, si è detto, non bastano, perché ar­cheologia, numismatica, storia delle arti e così via concorrono a in­tegrare la testimonianza di Paolo Diacono attenuando il catastrofi­smo di quei passi e provando i contatti e gli scambi che avvennero precocemente tra l'elemento romano e quello longobardo.

Non abbiamo però fatto cenno a un punto di partenza fonda­mentale per lo studio e l'utilizzazione di una fonte narrativa e di altre fonti analoghe (opere di letteratura, filosofia, teologia, pure utili per la ricerca storica, leggende di santi, raccolte di lettere ecc. ) : e cioè la filologia.

Il testo di Paolo Diacono che abbiamo letto, con tutte le sue complessità, ci è stato materialmente tramandato da un centinaio di manoscritti, nessuno dei quali è quello approntato dall'autore, direttamente o tramite un copista. La filologia (in questo caso quella medievale o mediolatina) è appunto la disciplina che rico­struisce, mediante un metodo detto critica del testo o ecdotica, un testo che aspira a essere il più vicino possibile a quello originale, definito archetipo. Tutti i testimoni pervenutici, cioè i manoscritti o le stampe che, con differenze anche sostanziali (nella grafia e morfologia, nel lessico, nell'inclusione o esclusione di intere parti) , ci hanno trasmesso l a Historia, sono stati accuratamente analizza­ti dai filologi: prima ne è stata considerata la costituzione materia­le (grafia, disposizione dei fascicoli, rilegatura, organizzazione dei paragrafi, chiose) , poi la storia "esterna" (il copista che allestì il singolo manoscritto, il luogo in cui fu allestito, le biblioteche o i privati che possedettero e consultarono) , infine essi sono stati con­frontati tra loro alla ricerca di errori comuni. Un errore comune si­gnificativo (che non possa cioè essere lo stesso per mera coinci­denza) prova infatti che due manoscritti sono tra loro collegati (l 'uno è copiato dall'altro, o entrambi hanno un antenato comune, detto antigrafo) , e quindi la loro testimonianza, per così dire, non vale due, ma uno.

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La filologia è a sua volta sostenuta dalla paleografia (studio del­la scrittura) , codicologia (studio della struttura fisica del mano­scritto) , bibliografia (studio delle edizioni a stampa) .

Per Paolo Diacono e per molti testi storiografici del Medioevo siamo fortunati, perché la loro edizione critica è stata condotta dalle generazioni che ci hanno preceduto, ma molti altri testi re­stano da studiare o da ristudiare anche da questo fondamentale punto di vista. Di quasi tutti è poi ancora da accertare l'effettiva diffusione, mediante la storia dei singoli manoscritti e l 'identifica­zione degli autori che li hanno utilizzati.

In particolare, la Historia è stata pubblicata da Ludwig Beth­mann e Georg Waitz nel 1 878 , nella collana tedesca dei Monu­menta Germaniae Historica (Documenti storici della Germania) , una delle più importanti iniziative scientifiche in ambito storico. Se generazioni di studiosi, a partire dal 1 826 (quando nacquero i Monumenta , ancora oggi attivi) , non avessero dedicato le loro energie e la loro intelligenza all'edizione di fonti, la nostra cono­scenza della storia e delle fonti storiche (che è la stessa cosa) non avrebbe potuto fare alcun progresso.

3 .3 Un coccio e la fine dell'età antica (la fonte materiale)

Nella fotografia a p. 66 si vede un grande piatto tondo di cerami­ca del diametro di 25,5 cm: si tratta di un oggetto molto comune, usato per mangiare, prodotto nel VII secolo da officine africane, nella regione corrispondente all'attuale Tunisia (antica provincia romana dell'Africa proconsolare) . Il piatto non ha un rivestimen­to di smalto, come la maiolica: è semplicemente una terracotta fabbricata modellando un impasto di argilla e acqua e cuocendolo in un forno. Questo tipo di ceramica è definito "sigillata" perché la decorazione era ottenuta con matrici o punzoni usati a mo' di si­gillo sull'impasto ancora morbido.

La ceramica da mensa africana era un prodotto di grande suc­cesso commerciale: si diffuse in tutto il bacino del Mediterraneo tra la fine del I e il VII secolo d.C. , dunque tra età imperiale ed età tardoantica. A seconda delle differenze dell'impasto, delle forme e delle decorazioni, la sigillata africana è distinta per periodi di produzione e per tipi. Quella della foto è una sigillata africana D

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(dell'ultimo periodo, tra 61 0/620 e 680/700) del tipo Hayes 109, dal nome di uno studioso inglese.

Le parti più scure del piatto sono originali, il resto è stato rico­struito. Dunque, il piatto era rotto: i frammenti superstiti sono sta­ti pazientemente riattaccati tra loro e alla parte ricostruita. Essi so­no stati ritrovati da una squadra di archeologi nel 1993 , insieme con moltissimi altri cocci di ceramica (quasi 100 000 ! ) , in uno stra­to di terra alto circa un metro accumulato sul pavimento della Crypta Balbi (cripta di Balbo) , adiacente al teatro costruito a Roma nel 13 a .C. da Lucio Cornelio Balbo, un partigiano di Augusto. Nella Crypta Balbi gli spettatori del teatro, uno dei più importanti edifici pubblici dell'antica Roma, potevano passeggiare al coperto in caso di pioggia. Essi avevano a disposizione anche il giardino quadrato sovrastante. Su un lato della cripta si apriva un'esedra,

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cioè uno spazio semicircolare: è sul pavimento dell'esedra che si trovava il cumulo con i frammenti di ceramica.

L'esedra, portata alla luce dopo numerose campagne di scavo, è in un cortile alle spalle di via delle Botteghe Oscure, al centro di Roma, a pochi passi da piazza Venezia. Se, ai tempi delle grandi opere di ristrutturazione urbanistica della capitale volute da Beni­to Mussolini, le strutture del teatro e della cripta di Balbo fossero state almeno parzialmente visibili, probabilmente esse sarebbero state portate alla luce in tutto il loro splendore, mediante l'abbat­timento delle superfetazioni medievali e moderne, lo sterro delle architetture, liberate dai detriti accumulatisi in due millenni, lo scavo di tutta l'area, compresa la cripta. Il risultato sarebbe stato simile a quello delle aree archeologiche che oggi vediamo al centro di Roma: spazi più o meno ampi al di sotto dell'attuale livello del­la strada, con resti e basamenti di edifici (si pensi all'area dell' Ar­gentina, scavata nel 1 926-29, poco distante dal teatro di Balbo) .

In questo caso, quel cumulo alto un metro sarebbe stato sgom­berato, recuperando soltanto i frammenti di maggiore dimensione e valore che sarebbero finiti in un museo. Agli archeologi di allora interessava ripristinare le forme originarie degli edifici del passato, depurandoli dalle aggiunte successive: venivano risparmiate sol­tanto le strutture di particolare pregio, come è accaduto al celebre teatro di Marcello, le cui arcate, che in parte non sono originali ma risalgono al 1 926-32 , costituiscono la base di un bel palazzo nella medesima zona della città. Lo stesso accadeva con i monu­menti dell'età medievale, che tra Otto e Novecento furono libera­ti delle parti più recenti e talvolta restaurati pesantemente, con l'aggiunta di merli, guglie, pennacchi e gargouilles12 che risponde­vano a un gusto medievaleggiante di ascendenza romantica.

Oggi, gli archeologi si comportano in modo completamente di­verso: essi hanno studiato l'esedra della Crypta Balbi senza privile­giare nessuna epoca storica, ma raccogliendo tutte le informazioni possibili via via che scavavano. È un'operazione simile a quella che porta avanti la filologia quando ricostruisce la tradizione del testo scritto. Come i testi scritti (o - paragone ancora più calzante - le

12 Doccioni, cioè le parti terminali delle grondaie, spesso a forma di esseri mo­struosi.

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leggende orali tramandate da testi scritti) , ci sono arrivati attraver­so una serie di passaggi che ne hanno influenzato l'aspetto e tal­volta stravolto il contenuto, così i monumenti romani ci sono per­venuti con le trasformazioni, mutilazioni, distruzioni operate nel corso dei secoli. Studiare quelle trasformazioni, senza occuparsi soltanto di ripristinare lo stato originario, "puro", incrementa le nostre conoscenze sul passato medievale e moderno di Roma.

Gli archeologi hanno identificato le seguenti fasi di vita dell'esedra:

l . l'impianto originario, risalente al fondatore Lucio Balbo ( 1 3 a.C.); 2. la ristrutturazione del II secolo d.C., quando nell'esedra furono

costruite delle latrine; 3 . l 'abbandono del monumento e la sua distruzione in età tardoanti-

ca (V-VI sec. ) ; 4 . l'uso dell'area come luogo di sepoltura (VI sec.) ; 5 . i l nuovo abbandono tra VII e VIII sec.; 6. la costruzione di una calcara, cioè di un impianto di produzione

di calce, ricavata dallo scioglimento dei marmi antichi, tra fine VIII e inizi IX sec.

7 . l a definitiva distruzione del monumento antico a causa d i un ter­remoto nel IX sec . ;

8. la costruzione di un balneum (bagno) annesso a un vicino mona­stero intorno al Mille, con varie successive ristrutturazioni;

9. la sistemazione dell'area a giardino del Conservatorio di Santa Ca­terina della Rosa in età rinascimentale e moderna;

10. l'abbandono del Conservatorio, già decaduto nel corso dell'Otto­cento, intorno al 1 93 7 . Furono effettuate alcune demolizioni in vi­sta della costruzione, mai avvenuta, di una nuova sede per l'Isti­tuto Nazionale Cambi con l'Estero, che aveva acquisito l'area. Nel 1961 vennero fatti alcuni sondaggi archeologici nel giardino.

Come si vede, sei delle dieci fasi cadono nei secoli medievali, in particolare quelli più scarsi di fonti scritte. A partire dal v secolo la cripta era morta all'uso originario, il teatro non era più utilizzato come tale, non era più la manifestazione della potenza di Roma, quella potenza che i restauri del ventennio fascista intendevano esaltare. Di primo acchito ci sembra che l'abbandono, la trasfor­mazione in luogo di sepoltura o in discarica, la distruzione dei marmi per ricavare calce (fasi 3 -6, secoli V-IX) siano la prova ine­quivocabile di una terribile decadenza economica e culturale. Vi-

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cende simili attraversarono anche altri edifici monumentali di Ro­ma e di tutte le città dell'impero: del resto, è stato calcolato che la popolazione di Roma verso la metà del VI secolo arrivasse a circa 45 000-60 000 persone, a fronte di quasi mezzo milione di abitan­ti di un secolo prima. La città che era stato il centro di un impero enorme era ridotta a un cumulo di rovine, tra cui si aggiravano po­chi superstiti che ne distruggevano i resti per sopravvivere? An­che Roma, che pur era stata risparmiata dall'invasione longobarda ed era ancora controllata dall'impero bizantino, attraversava una crisi gravissima come le città distrutte ricordate da Paolo Diacono (p. 54, [9] ) ? La rappresentazione dell'alto Medioevo come arre­tramento generale della civiltà, come età buia riceve dunque una conferma da queste acquisizioni archeologiche?

45 000-60 000 persone in realtà non sono poche: pure esse do­vevano avere una qualche forma di organizzazione per soddisfare le proprie esigenze di vita, materiali e spirituali. Del resto, il calo demografico e il degrado delle strutture pubbliche antiche, so­prattutto quelle che non erano più utilizzate per le mutate esigen­ze istituzionali e religiose, non avvenne nel giro di pochi anni. Per capire i tempi e i motivi di queste trasformazioni dobbiamo anda­re oltre un giudizio liquidatorio di decadenza, che pure non è pos­sibile negare se paragoniamo la Roma di Augusto a quella del VI­

VII secolo, e cercare di ampliare le nostre conoscenze sui secoli tar­doantichi e altomedievali. Per questo periodo l'archeologia è un supporto indispensabile, come vedremo.

Ma come è stato possibile ricostruire così dettagliatamente le l O fasi sopra elencate? Se si trova qualcosa sottoterra, non è facile ca­pire a quale periodo essa appartenga, sia perché le tecniche di co­struzione e di decorazione (di edifici, di oggetti) sono rimaste le stesse per lunghi periodi, sia perché nella maggior parte dei casi non ci sono notizie sufficienti sul sito in cui si scava. Del teatro Bal­bo sapevamo molto dalle fonti scritte: ce ne è perfino pervenuta una pianta in un frammento marmoreo che apparteneva a una rap­presentazione grafica di Roma (la /orma urbis: forma della città) , eppure prima degli anni sessanta del secolo scorso non era stato ancora identificato il luogo in cui si trovava. In altri casi fonda­menta, colonne, murazioni, oggetti di età antica e medievale ven­gono trovati in luoghi inaspettati, mai menzionati dalle fonti scritte.

Gli archeologi risolvono il problema della datazione con un me-

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todo specifico, sviluppatosi a partire dalla metà del xx secolo: la stratigrafia. Nel corso del tempo, eventi naturali (inondazioni, fra­ne, accumulo di detriti) e umani (riempimenti di spazi vuoti per demolizioni o scarico di rifiuti, ristrutturazioni) innalzano il livel­lo del suolo o quello del pavimento di un edificio. Lo strato che sta sopra è necessariamente posteriore allo strato che sta sotto. A ciò si aggiunge che sottoterra possono trovarsi reperti di più precisa datazione: iscrizioni o graffiti, monete disperse, oggetti come i frammenti di ceramica di cui abbiamo parlato. Certo, ognuno di questi indizi va trattato con cautela: le monete potevano infatti cir­colare per molto tempo dopo essere state emesse: esse attestano con certezza la data dopo la quale sono state perdute. I marmi con iscrizioni potrebbero essere stati divelti dalla collocazione origina­ria. Quanto agli oggetti in ceramica, vale lo stesso discorso delle monete: la loro presenza permette di datare uno strato a un perio­do posteriore a quello in cui essi furono prodotti. Mentre però il periodo di coniazione di una moneta è ricostruibile dall'effige del­l' autorità emittente, che vi è impressa, per datare le fasi di produ­zione della ceramica sono necessari studi più complessi.

Guardiamo nuovamente il piatto della foto. Esso è stato rico­struito con tanta cura solo perché l'esatta identificazione del tipo consente la datazione dello strato in cui si trovava (il cumulo dei detriti sul pavimento dell'esedra) . La ricostruzione non è stata fat­ta perché si tratta un pezzo unico, di particolare pregio artistico. Tutt'altro: ci sono giunti milioni di cocci di sigillata africana, per­ché la ceramica è indistruttibile: non va in putrefazione come il cuoio, il legno, il tessuto, non è fragile come il vetro, non si corro­de come il metallo. Vetro e metallo potevano essere riciclati, come i marmi delle costruzioni e delle lapidi tombali, che furono riuti­lizzati in altri edifici o sciolti. La ceramica no: i piatti, le anfore, le lucerne rotte andavano gettati via. Cocci di ceramica comune si trovano perciò un po' dovunque e fanno la gioia degli studiosi.

Poiché le diverse fasi di produzione della sigillata africana sono ormai conosciute, essa è un "reperto guida" utilissimo per datare gli strati del terreno di I-VII secolo. Il nostro piatto è di sigillata afri­cana D, tipo Hayes 109: dunque prodotto tra 610/620 e 680/700. Questo dato, incrociato con le datazioni degli altri reperti, fa rite­nere che il relativo strato di terreno risalga alla seconda metà del VII secolo.

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Per identificare e trattare separatamente i differenti strati del terreno, ognuno corrispondente a un'epoca diversa, l'archeologo procede con grande cautela, mantenendo memoria scritta e foto­grafica di tutti i momenti dello scavo, producendo così una docu­mentazione assai formalizzata che sarà utilizzata più tardi da lui stesso o da altri. Lo scavo, poi, non è uno sterramento per libera­re un monumento dai detriti, ma assomiglia piuttosto ai rilievi del­la scientifica resi famosi dalla cronaca nera e dai telefilm. Tutte le tracce lasciate da chi ha frequentato quel sito per secoli devono essere recuperate con estrema attenzione, evitando che il nostro intervento danneggi le prove: una scavatrice meccanica o una pa­la usate male mescolano le stratificazioni, come la pedata di un in­vestigatore cancella l 'impronta insanguinata dell'assassino.

In un settore delimitato, l'archeologo identifica innanzitutto la "unità stratigrafica" grazie all'osservazione del colore e della con­sistenza del terreno e al confronto con i dati in suo possesso. Ogni unità stratigrafica è l'effetto di un evento più o meno rilevante che, per opera della natura o dell'uomo, ha modificato l'aspetto o la struttura del sito. L'unità stratigrafica, che non ha necessariamen­te la stessa altezza ed estensione in tutta l'area di scavo, è contras­segnata da un suo numero, è fotografata, di essa viene fatto un ac­curato rilievo. Poi si comincia a rimuovere il terreno, facendo at­tenzione a eventuali tracce del movimento dello stesso: può essere successo che in qualche punto il terreno abbia ceduto finendo più in basso, in un'altro strato, o che interventi dell'uomo (fognature, ristrutturazioni, scavo di buche per nascondere qualcosa, cunico­li, scavi archeologici come quelli del 1961 nel cortile del Conser­vatorio di Santa Caterina) abbiano confuso gli strati. Tutti i reper­ti, anche i più piccoli recuperati con un setaccio, sono raccolti in cassette dotate del numero identificativo dell'unità stratigrafica.

La figura che segue rappresenta schematicamente la sequenza stratigrafica dell'esedra della Crypta Balbi, elaborata da Lucia Sa­guì. Sono messi in evidenza gli strati di terreno attribuiti al perio­do che va dal v al x secolo, con l'indicazione dei blocchi di tufo e travertino risalenti all'età augustea (i quadra tini alla base delle strutture murarie) e pilastri in laterizio del II secolo, quando nel­l' esedra fu costruita la latrina. Queste strutture edilizie erano state progressivamente seppellite da cinque strati (seconda metà del VI

secolo, seconda metà del VII secolo, prima metà dell'VIII secolo, fi-

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ne dell 'v i i i secolo, IX-X secolo) . Datazioni più ristrette sono im­possibili in archeologia, a meno che lo scavo non documenti un evento traumatico di cui conosciamo la data da altre fonti (fonda­zioni, distruzioni per incendi o calamità naturali) . Gli archeologi che hanno lavorato nella Crypta Balbi hanno pro­ceduto dall'alto verso il basso, dunque a ritroso nella successione storica (dalla n. lO alla n. l delle fasi sopra elencate) , e soltanto nel 1 993 (dopo una prima serie di campagne di scavo nel 198 1 -86) so­no arrivati allo strato che qui ci interessa: quello della seconda metà del V I I secolo. In esso sono stati trovati non solo 1 00 000 frammenti (di piatti, vasi, anfore, lucerne, unguentari ecc . ) , ma anche 460 monete, 1 0 500 frammenti di vetro, alcune centinaia di oggetti in metallo, osso, avorio e pietre preziose, ben 5000 re­perti organici (ossa di animali, resti di pesci e di molluschi) . Que­sta enorme quantità di reperti è stata analizzata con estrema at­tenzione da una folta équipe di studiosi: i frammenti sono stati tutti minuziosamente misurati, fotografati e riprodotti in disegni, identificati (per questo scopo sono più utili i frammenti delle an­se o degli orli delle ceramiche rispetto a quelli delle parti non mo­danate) sulla base dei repertori disponibili (per esempio quelli del citato Hayes) .

Una volta suddivisi per tipi, i reperti sono stati valutati quantita­tivamente: per esempio, si è calcolato che il 47 % dei frammenti di

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ceramica proviene da contenitori per il trasporto di liquidi (come le anfore) e per la conservazione e il consumo di alimenti; il 3 % da stoviglie, come il piatto in sigillata africana. Tra i 3000 frammenti di sigillata africana 422 sono orli, ma non è stato possibile ricom­porli tutti. Tuttavia, è stato stimato che i 422 orli corrispondevano a un minimo di 229 piatti. La stessa operazione è stata effettuata per le anfore e tutti gli altri contenitori, calcolando la loro quantità e persino la capacità complessiva.

La presenza di tanta sigillata africana dell'ultimo periodo rende indubbia la datazione del deposito alla seconda metà del VII seco­lo: pochi pezzi non sarebbero stati sufficienti, poiché oggetti del genere possono essere utilizzati anche dopo la cessazione della lo­ro produzione, come si è detto.

Un importante obiettivo degli archeologi medievali è ricostruire la produzione di tipi diversi di ceramica per altri periodi (la pro­duzione della sigillata si interruppe a fine VII secolo, ma nel corso del Medioevo comparvero vari tipi di ceramiche invetriate e smal­tate) e per le diverse aree dell'Europa, in modo da individuare al­tri reperti-guida per la datazione degli strati del terreno. Questa operazione è contestuale alla stratigrafia: se un determinato tipo di ceramica è stato datato in un determinato sito di scavo grazie al­la prova stratigrafica, il suo ritrovamento altrove da parte di un al­tro studioso costituirà a sua volta elemento di datazione dello stra­to relativo, con tutte le cautele del caso.

Datati gli oggetti e datato lo strato, ci si sforza di capire che co­sa sia successo: perché quei frammenti si trovavano lì? La forma del nostro strato corrisponde a quello che si definisce "butto" , cioè l'effetto d i una discarica, un immondezzaio che è più alto nel luogo più vicino al punto di lancio. La parte più elevata dello stra­to di Vll secolo è a nord della cripta (a sinistra del disegno), verso il muro perimetrale dell'esedra. È stato ipotizzato che il lancio provenisse da un monastero attiguo, quello di S. Lorenzo in Palla­cinis, oggi scomparso. L'eccessiva quantità di monete e la datazio­ne omogenea di tutti i reperti fa supporre che il butto sia avvenu­to in un periodo breve: ecco che si pensa a una inondazione del Tevere, che si trova a circa 250 metri in linea d'aria, e alla necessità di sgombrare materiale accumulato dalle acque nei locali del vici­no monastero (L. Saguì) .

Di ipotesi in ipotesi, l 'archeologo passa dalla stratigrafia e dalla

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classificazione dei materiali alla ricostruzione storica, utilizzando naturalmente anche altre fonti (per identificare il monastero, per esempio) . Ma la ricostruzione non si ferma alle vicende di quel si­to. La massa dei reperti, datati e classificati, può essere utilizzata per conoscere l'economia del VII secolo: ciò che una fonte come la storia di Paolo Diacono (§ 3 .2) non può assolutamente consentir­ci di fare.

La presenza, nel deposito della cripta di Balbo, di sigillata afri­cana proveniente dalla Tunisia, di unguentari prodotti forse in Pa­lestina, di lucerne che si potrebbero attribuire alla Sicilia, di anfo­re e altri contenitori alimentari provenienti da tutto il Mediterra­neo (attuale Tunisia, Egitto, Palestina, Asia Minore, cioè attuale Turchia, e altre aree del Mediterraneo orientale, Sicilia, Italia me­ridionale) prova che i centri di produzione elencati erano attivi, che esisteva un commercio a lunghe distanze di oggetti e di pro­dotti alimentari, che Roma era inserita in queste reti commerciali.

Non essendoci residui del prodotto trasportato all'interno dei contenitori, sono in questo caso la forma e la provenienza a essere prese in considerazione. È probabile che nelle anfore africane vi fosse olio, in quelle palestinesi vino. La presenza di un particolare tipo di anfora riconducibile a Samo fa ipotizzare che essa conte­nesse il vino di quell'isola greca, celebre e costoso.

L'impressione di decadenza ricavata dal degrado del monu­mento antico si attenua. A Roma la situazione economica non era poi così drammatica se qualcuno vi importava e qualcun altro vi comprava vino di Samo, piatti e olio africani. Altri reperti del de­posito confermano questa valutazione, ma di essi qui non ci oc­cuperemo.

Quello che è importante sottolineare è come l'archeologia uti­lizzi fonti materiali preterintenzionali per lo studio dell'economia e della società. Quei cocci buttati via, che non avrebbero avuto al­cun significato se fossero stati estrapolati dallo strato di terreno in cui si trovavano, ci danno informazioni preziosissime. È però ne­cessario un lavoro assai paziente, che è durato decine di anni e ha coinvolto decine di studiosi per un'area tutto sommato limitata come gli scavi della Crypta Balbi. La ricerca archeologica ha biso­gno di molte energie finanziarie e scientifiche. Spesso si ricorre a laboratori per fare analizzare la composizione chimica di un ma­teriale (argilla, metalli, pollini) o per misurare la radioattività di

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Le fonti e i metodi

un reperto organico (esame del Carbonio 14 1 l ) . L'analisi delle os­sa umane consente di stabilire sesso, età, alimentazione degli in­dividui. Dunque, la ricerca archeologica è necessariamente un la­voro di gruppo: i reperti del solo deposito del VII secolo sono sta­ti studiati da persone diverse a seconda della fonte trattata (mo­nete, ceramica e vetro, reperti di animali: sono almeno tre gruppi di studiosi) .

Ci vuole dunque molto tempo per arrivare alla sintesi, per con­cludere per esempio, sulla base di questo deposito e di altri ritro­vamenti, che fino a tutto il VII secolo il commercio del Mediterra­neo funzionava grossoQJ.odo come nell'epoca tardo antica: stessi prodotti, stesse rotte. Il drastico calo demografico, il decadimen­to urbanistico (abbiamo visto i dati di Roma) , le invasioni barba­riche danneggiarono, ma forse non distrussero la struttura eco­nomica del Mediterraneo.

Così riteneva Pirenne, lo storico belga che abbiamo già citato a pp. 26-27 . Anche lui aveva individuato dei " reperti guida" per so­stenere la sua tesi: si trattava però di notizie trasmesse dalle poche fonti scritte disponibili. La citazione di monete d'oro e di pro­dotti come il papiro sarebbe stata la prova che il commercio in­ternazionale nel Mediterraneo era ancora vivo fino a tutto il VII

secolo. La vera cesura economica e sociale, a giudizio di Pirenne molto più grave di quella politica verificatasi con le invasioni bar­bariche e il dissolvimento dell'impero romano d'Occidente, sa­rebbe avvenuta nell'viii secolo e sarebbe da attribuire all'espan­sione dell'Islam nel Mediterraneo (seconda metà del VII secolo) , cui sarebbero conseguiti l a rottura diquegli scambi internaziona­li, la crisi definitiva delle città, la ruralizzazione dell'Europa, l'ini­zio del Medioevo come epoca assolutamente diversa da quella an­tica. Maometto e Carlomagno titolò Pirenne la sua opera, a signi­ficare che la predicazione di Maometto (prima metà VII secolo) fu all'origine del mondo carolingio, dunque della nascita dell'Euro­pa (VIII-IX secolo) . 14

1 1 Il Carbonio 14, che si trova nei vegetali e negli animali, è una sostanza ra­dioattiva. Misurando la diminuzione della radioattività dopo la morte dell'orga­nismo, è possibile datarlo con una approssimazione di uno o due secoli.

14 Un celebre volume di due archeologi si chiama proprio Maometto, Carloma­gno e le origini dell'Europa.

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Oggi la tesi Pirenne non è generalmente accettata, sia per il ruo­lo che egli attribuì all 'Islam, sia per il quadro eccessivamente ne­gativo del commercio e dell'urbanesimo in età carolingia. Resta in­vece ancora aperta la questione che lo studioso aprì, quella di una periodizzazione più efficace del passaggio da Antichità a Medioe­vo, una periodizzazione che non si fondi su eventi politici ma in­dividui il momento del collasso di una struttura economica e so­ciale. Al dibattito danno un forte contributo le ricerche archeolo­giche: il deposito della cripta di Balbo, per esempio, sembra pro­prio dar ragione a Pirenne, perché gli strati dei secoli successivi al VII non contengono oggetti di così varia provenienza: il Medioevo, almeno a Roma, sarebbe cominciato nell'viii secolo. Altri ritrova­menti archeologici anticipano la fine del commercio mediterraneo al VII secolo.

Se Pirenne fu contestato perché aveva voluto trarre conclusioni generali da poche attestazioni documentarie relative solo ad alcu­ne aree geografiche, lo stesso rilievo potrebbe essere fatto alla ri­cerca archeologica, che ricava conclusioni generali da reperti rac­colti in pochi scavi relativi a minuscole porzioni del territorio di poche città del Mediterraneo. Può darsi infatti che le persistenze o i cambiamenti rilevati non coinvolgessero tutte le città nello stesso modo e nello stesso periodo. Può darsi che il commercio interna­zionale emarginasse alcune aree e altre no, che il caso di Roma sia un'eccezione, o che la commercializzazione di quei particolari prodotti non debba essere valutata nello stesso modo in secoli e in luoghi diversi.

Il problema, comune a chi tratta la fonte scritta e a chi tratta quella materiale, è come passare dal piano del particolare a quello generale. Generalizzare le conclusioni raggiunte studiando casi e fonti locali è sempre un'operazione assai rischiosa, ma inevitabile nella ricerca storica e archeologica. All'apparenza, il salto dell'ar­cheologo dai cocci della foto alla ricostruzione dell'economia è molto più azzardato di quello che si fa dando credito alla testimo­nianza di Paolo Diacono sulle conseguenze dell'invasione longa­barda. Questo perché la testimonianza di Paolo, per la sua stessa natura, si pone già a un livello generale. L'impressione è però sba­gliata, perché un testimone come Paolo (o Secondo di Non) può mentire, può non sapere, può aver frainteso, come abbiamo visto.

D'altra parte, è molto difficile mettere a confronto le informa-

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Le fonti e i metodi

zioni ricavate dai reperti archeologici con quelle ricavate dalle fon­ti scritte, per la inconciliabile diversità. La paleografia, la filologia, la storia della letteratura latina sono, nel metodo e nello statuto epistemologico, discipline autonome dalla storia, che ad esse ri­corre per analizzare l'opera di Paolo Diacono, ma pure hanno tut­te a che fare con testi scritti. La distanza tra l'archeologia e la sto­ria è maggiore, e molto diverso è l 'addestramento alla ricerca per un archeologo e per uno storico.

Tuttavia, l 'integrazione tra archeologia e storia è assolutamente indispensabile per lo studio dell'Alto Medioevo. Per questo, stu­diosi di formazione storica (abituati cioè a leggere fonti scritte) e studiosi di formazione archeologica hanno imparato a confrontar­si e a riflettere sulle fonti e sui metodi di entrambe le discipline.

3 .4 Parma nel X secolo (la fonte documentaria: i diplomi)

Nel 962 il re di Germania Ottone I di Sassonia scese per la secon­da volta in Italia, dove fu incoronato imperatore dal pontefice ro­mano.

Leggiamo un diploma che fu emanato in quell'occasione dalla sua cancelleria, un "ufficio" più o meno articolato che nel Me­dioevo si occupava della produzione di documenti di imperatori, re, papi e di qualsiasi titolare di autorità pubblica:

[ l ] In nome della santa e indivisibile Trinità, [2] Ottone, imperatore au­gusto per volontà della divina prowidenza. [3 ] Per questo fine credia­mo di essere stati elevati all'altezza imperiale, cioè per prenderei cura del vantaggio di tutti, in particolare delle chiese di Dio, perché se le esalteremo, senza dubbio ce ne gioveremo moltissimo per la stabilità del nostro impero e per avere un'eterna remunerazione. [ 4] Pertanto, sia a conoscenza di tutti i fedeli della santa Chiesa di Dio e nostri, tanto presenti come futuri, la solerzia, [5] come Uberto, vescovo della chiesa di Parma, presentandosi alla nostra clemenza ha chiesto che noi, gio­vando alla sua chiesa, al modo dei nostri predecessori, lo arricchissimo di quelle cose che spettavano al regio potere e alla pubblica funzione, [6] e specialmente di quelle per le quali la sua chiesa veniva lacerata da parte del comitato, cioè che noi trasferissimo le cose e i servi, tanto di tutto il clero di quello stesso vescovato in qualunque luogo si trovino, quanto di tutti gli uomini che abitano dentro la medesima città dalla

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giurisdizione pubblica alla giurisdizione e dominio e distretto della stes­sa chiesa, [7 ] così che abbia la potestà di deliberare, giudicare e ordina­re - tanto sulle cose e sui servi del clero sopraddetto, quanto anche su­gli uomini che abitano dentro la stessa città e le cose e i servi loro, [8] come se fosse presente il conte del nostro palazzo. [9] Noi, consideran­do e valutando l'utilità per la dignità dell'impero sopraddetto e per tut­ti gli inconvenienti che spesso si verificano fra i conti di uno stesso co­mitato e i vescovi della medesima Chiesa, [ l O] perché sia eliminata in­teramente ogni passata lite e scisma e perché lo stesso vescovo con il clero a lui affidato viva pacificamente e attenda senza alcuna molestia alle preghiere, tanto per la salvezza nostra come per la stabilità del re­gno e di tutti coloro che vivono nel nostro regno, [ 1 1 ] concediamo e permettiamo e dalla nostra giurisdizione e dominio trasferiamo nel di lui diritto e dominio completamente e gli affidiamo le mura della stessa città ed il distretto ed il teloneo ed ogni altra pubblica funzione tanto entro la città, quanto fuori da ogni parte della città per lo spazio di tre miglia attorno, segnato e determinato nella linea di confine con pietre terminali [ . . . ] , [ 12] e le strade regie e il corso delle acque e tutto il terri­torio coltivato e incolto che vi si trova e tutto ciò che è di pertinenza dello Stato. [ 1 3 ] Inoltre concediamo anche che tutti gli uomini abitanti nella città e nei confini sopraindicati, ovunque abbiano beni ereditari o acquisiti, o dei servi, tanto nel comitato parmense quanto nei comitati vicini, non corrispondano alcuna prestazione ad alcuna persona del no­stro regno, [ 14] né osservino il placito di alcuno se non del vescovo di Parma che sarà in carica in quel momento, [15] ma abbia il vescovo del­la stessa chiesa licenza come se fosse il conte del nostro palazzo di ordi­nare, decidere e deliberare su tutte le cose e i servi tanto di tutti i chie­rici dello stesso vescovato, quanto anche di tutti gli uomini che abitano entro la predetta città, con contratto di livello ovvero di precaria ovve­ro castellani, [ 16] e così trasferiamo dalla nostra giurisdizione e dominio nella sua giurisdizione e dominio, [ 17] in modo che nessun marchese, conte, viceconte né alcuna persona grande o piccola del nostro regno si ingerisca delle predette cose e famiglie e di tutto ciò che si legge più so­pra né tenti di esigere alcun diritto.

Testo latino

[ l ] In nomine sanctae et individuae trinitatis. [2 ] Otto divinae dispo­sitione providentiae imperator augustus. [3 ] Ad hoc nos ad imperiale culmen sublimatos esse credimus, ut omnium, maxime ecclesiarum Dei utilitatibus consulamus, quia si eas exaltaverimus, plurimum nobis ad imperii nostri stabilitatem et ad aeternae remunerationis emolu­mentum proficere non ambigimus. [4] Quapropter noverit omnium

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Le /onti e i metodi

sanctae Dei ecclesiae fidelium nostrorumque praesentium scilicet et fu­turorum solertia, [5] qualiter Hubertus Parmensis ecclesiae episcopus nostram adiens clementiam petiit, ut more praedecessorum nostrorum ecclesiam suam proficiendo augmentaremus ex his guae regiae pote­stati et publicae functioni debebantur et maxime ex his quibus eius­dem ecclesia lacerabatur ex parte scilicet comitatus, [6] videlicet ut res et familias tam cuncti cleri eiusdem episcopii in quocunque loco in­ventae fuerint quamque et cunctorum hominum infra eandem civita­tem habitantium de iure publico in eiusdem ecclesiae ius et dominium et districtum transfunderemus, [7] ut deliberandi et diiudicandi seu distringendi potestatem haberet tam supradicti cleri res et familias quamque et homines infra eandem civitatem habitantes et res et fami­lias eorum, [8) velut si praesens adesset nostri comes palatii. [9] Nos vero considerantes et commodum ducentes per supradicti imperii di­gnitatem et per mala omnia guae acciderint saepe inter comites ipsius comitatus et episcopos eiusdem ecclesiae, [ lO] ut penitus praeterita lis et schisma evelleretur et ut ipse pontifex cum clero sibi commisso pa­cifice viveret et sine aliqua inquietudine oracionibus vacaret, tam pro salute nostra guam stabilitate regni et omnium in nostro regno degen­tium [ 1 1 ] concedimus et largimur et de nostro iure et dominio in eius ius et dominium omnino transfundimus atque delegamus murum ipsius civitatis et districtum et telonium et omnem publicam functio­nem tam infra civitatem guam extra ex omni parte civitatis infra tria milliaria, destinata scilicet atque determinata per fines et terminos [. .. ] , [ 12] nec non et regias vias aquarumque decursus et omne territorium cultum et incultum ibidem adiacens et omne quidquid rei publicae pertinet. [ 1 3 ] Insuper etiam concedimus ut omnes homines infra ean­dem civitatem vel praelibatos fines habitantes, ubicunque eorum fuerit haereditas sive adquaestus sive familia, tam infra comitatum Parmen­sem quamque in vicinis comitatibus, nullam exinde functionem alicui nostri regni personae persolvant [ 14] sive alicuius placitum custodiant, nisi Parmensis ecclesiae episcopi qui pro tempore fuerit, [ 15] sed ha­beat ipsius ecclesiae episcopus licentiam tamquam nostri comes palatii distringendi et definiendi vel deliberandi omnes res et familias tam om­nium clericorum eiusdem episcopii guam et omnium hominum habitantium infra praedictam civitatem nec non et omnium residen­tium supra praefatae ecclesiae terram sive libellariorum sive precario­rum seu castellanorum, [ 16] et ita de nostro iure et dominio in eius ius et dominium transfundimus, [ 17] ut nullus marchio comes vicecomes aut aliqua regni nostri magna remissaque persona exinde de praedictis rebus et familiis et omnibus guae superius leguntur se intromittat aut aliquam functionem inde recipere tentat.

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Quello presentato è un atto ufficiale dell'imperatore, emesso a Lucca il 1 3 marzo 962 . Esso si presentava come una pergamena dotata di un grande sigillo pendente protetto da una custodia e assicurato al lembo inferiore del documento mediante strisce di pergamena o di stoffa. Diplomi di questo genere, conservati arro­tolati come si vede in ogni film storico che si rispetti, sono stati sempre oggetto di grande attenzione, sia nel periodo in cui furo­no emessi che nei secoli successivi, perché promanavano dalla massima autorità secolare e perché istituivano diritti e riconosce­vano prerogative a enti (in questo caso la diocesi di Parma) e a privati. Come i documenti pubblici del nostro tempo (un diplo­ma di laurea, una patente di guida) , i diplomi medievali erano confezionati in modo particolare, secondo forme che ne garantis­sero l 'autenticità: il materiale scrittorio (qui la pergamena), il si­gillo, la grafia, le sottoscrizioni, le formule del testo assolvevano alla stessa funzione che oggi è propria della carta multicolore di una patente, del bollo tondo della Motorizzazione civile, della fir­ma del funzionario, o, più semplicemente, del chip incorporato nelle patenti elettroniche.

Il paragone non è peregrino: la patente deriva il suo nome da documenti come questo, che erano appunto definiti litterae paten­tes, lettere aperte che dovevano essere esibite a terzi, a differenza delle litterae clausae indirizzate al solo destinatario. La patente di guida certifica che l'intestatario, essendo stato riconosciuto in pos­sesso di specifici requisiti fisici, di competenze normative e di abi­lità tecniche mediante procedure particolari ( insomma le visite mediche e l'esame) , ha ricevuto dall'autorità (la Repubblica italia­na tramite la Motorizzazione) il permesso di guidare un'automo­bile o altri veicoli. Essa è appunto destinata a essere esibita a terzi (le forze dell'ordine, ma anche chi ci noleggia una vettura) .

Ora, come la patente autorizza a guidare, così il diploma di Ot­tone autorizzava il vescovo di Parma e i suoi successori a governa­re la città tamquam nostri com es palatii [7 , 15] , come se fosse un conte del palazzo imperiale. I conti, ricorderemo, erano i funzio­nari pubblici dell'impero carolingio.

Il diploma descrive in tre punti il contenuto del potere concesso:

quelle cose che spettavano al regio potere e alla pubblica funzione (his qua e regia e potestati et publicae functioni debebantur) [5] .

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Le /o n ti e i metodi

potestà di deliberare, giudicare e ordinare (deliberandi et diiudicandi seu distringendi potestatem) [7] . licenza di ordinare, decidere e deliberare (/icentiam . . . distringendi et de/iniendi ve! deliberandi) [ 15] .

Chi ha composto questo documento aveva un'idea del potere pub­blico: esso viene infatti definito con termini che si richiamano na­turalmente al diritto romano (regia potestas, publica /unctio) e che sono completati dalla specificazione di quelle funzioni che oggi chiameremmo legislativa (deliberare) , giudiziaria (diudicare) ed ese­cutiva (distringere) . Siamo ottocento anni prima di Montesquieu, che teorizzò la divisione di questi tre poteri, 1 5 e dunque la distin­zione è anacronistica. In effetti, il testo si riferisce semplicemente alle tradizionali attribuzioni di un conte carolingio (e infatti due volte le espressioni citate sono accompagnate dal paragone «come se fosse il nostro conte») , che come abbiamo detto erano tutti indi­stintamente derivati dalla sua forza militare, dalla sua capacità di costringere gli altri uomini ad obbedirgli (vedi p. 8) . Questa capa­cità era definita, nel latino dei documenti giuridici medievali (leggi, diplomi, contratti notarili) , districtio, non nel senso "territoriale" del nostro distretto ( area su cui si esercità un'autorità) , ma nel sen­so relazionale di distringere "costringere" . Con un termine deriva­to dalle lingue germaniche si diceva anche bannum (comando) .

Il potere trasferito al vescovo è poi descritto più concretamente con riferimento a una serie di prerogative, di "oggetti" e di perso­ne su cui esso è esercitato:

le mura della stessa città ed il distretto ed il teloneo ed ogni altra pub­blica funzione tanto entro la città, quanto fuori da ogni parte della città per lo spazio di tre miglia attorno, [. .. ] e le strade regie e il corso delle acque e tutto il territorio coltivato e incolto che vi si trova e tutto ciò che è di pertinenza dello Stato (murum ipsius civitatis et districtum et tclonium et omnem publicam functionem tam in fra civitatem qua m extra ex amni parte civitatis in fra tria milliaria [. . .] nec non et regias vias aqua­rumque decursus et omnc territorium cultum et incultum ibidem adia­ccns et o m ne quidquid rei publicae pertinet) [ 1 1 , 12] .

1 5 Le riflessioni a l riguardo di Ch.L. de Montesquieu, uno dei principali espo­nenti dell'illuminismo francese, furono pubblicate nel celebre Esprit des lois ( 1748) .

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Il potere si esercita sul muro della città, sulle vie regie, sui corsi d'acqua, ciò che oggi definiremmo "demanio" , ovvero, dice il do­cumento con un termine del latino classico, tutto ciò che attiene alla res publica. Il vescovo può e deve occuparsi delle mura citta­dine e delle strade pubbliche e dunque ripararle, rinforzarle, con­trollarle assicurando così la difesa della città. Può imporre dazi a chi naviga nei corsi d'acqua e percorre le strade regie. Può riscuo­tere il teloneo, una tassa indiretta sui prodotti di consumo. Può esercitare il districtum, dunque arrestare, multare, eseguire una sentenza. La sentenza la emette lui stesso nel suo placitum, 16 come si dice in un altro punto [ 14] .

Ma chi è soggetto al vescovo? Il documento è contraddittorio a questo proposito, perché nel periodo appena citato si riferisce chiaramente alla città e a un'area (di cui si danno i confini, che non abbiano riportato) che si estende per tre miglia fuori dalla città. In altri punti ci si riferisce non a un territorio, ma alle perso­ne e ai loro beni. Sono soggetti al vescovo:

le cose e i servi, tanto di tutto il clero di quello stesso vescovato in qua­lunque luogo si trovino, quanto di tutti gli uomini che abitano dentro la medesima città (res et familias tam cuncti cleri eiusdem episcopii in quocunque loco inventae fuerint quamque et cunctorum hominum in/ra eandem civitatem habitantium) [6] . tutti gli uomini abitanti nella città e nei confini sopraindicati, ovunque abbiano beni ereditari o acquisiti, o dei servi, tanto nel comitato par­mense quanto nei comitati vicini (omnes homines in/ra eandem civita­tem vel praelibatos /in es habitantes, ubicunque eorum /uerit haereditas sive adquaestus sive /amilia tam in/ra comitatum Parmensem quamque in vicinù comitatibus) [ 1 3 ] . tutte l e cose e i servi tanto d i tutti i chierici dello stesso vescovato, quanto anche di tutti gli uomini che abitano entro la predetta città (omnes res et /amilias tam omnium clericorum eiusdem episcopii quam et omnium hominum habitantium in/ra praedictam civitatem) [ 15 ] .

16 Il placito era l'udienza giudiziaria presieduta dal re o da un suo rappresen­tante. Custodire placitum di qualcuno vuoi dire essere sottoposti alla sua autorità giudiziaria, e forse anche presenziare a tali riunioni, come erano tenuti a fare gli uomini liberi.

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Le fonti e i metodi

Sono ricordati prima i chierici, 17 che fin dall'epoca tardoantica rientravano nella giurisdizione separata del loro vescovo (cuncti cleri eiusdem episcopii [6] e [ 15 ] ) , poi tutti gli abitanti della città e del circondario (entro tre miglia). Ma nella competenza vescovile rientrano anche le res et familiae di tutti costoro, dovunque esse si trovino. Per res et familiae si intendono i beni immobili (si precisa che possono essere posseduti a titolo ereditario o essere stati ac­quisiti in un secondo momento [ 1 3 ] ) , e i servi personali, la familia che ogni persona di una certa ricchezza possedeva e di cui dispo­neva come delle proprie res. È assolutamente importante la preci­sazione che tali possessi sono soggetti del vescovo per ciò che a t­tiene, diremmo oggi, al diritto civile o penale (ma allora non esi­steva tale distinzione) dovunque essi si trovino, nel comitato (con­tea) di Parma o nei comitati vicini.

La giurisdizione, per così dire, è attaccata alle persone: un "uo­mo" del vescovo di Parma, laico o chierico, libero o servo, non ob­bedisce ad altri che a lui, e a lui ricorrerà, sulla base di questa con­cessione, se un'autorità pubblica (i conti, viceconti, marchesi cita­ti in fine) , anche oltre quel limite dei tre miglia, vorrà arrestarlo per un delitto, multarlo perché una sua bestia ha fatto danni a un vicino, o gli vorrà chiedere di pagare una gabella, di fornire fieno ai suoi cavalieri, di prestare un servizio lavorativo. Nell'assenza, ti­pica dell'Alto Medioevo, di un sistema fiscale centralizzato e basa­to sulla circolazione monetaria, infatti, il prelievo fiscale del ve­scovo, come di qualsiasi autorità, avveniva soprattutto attraverso l'ospitalità forzosa, la consegna di derrate alimentari a uomini e cavalli del vescovo, la prestazione d'opera (per riparare le mura e le strade, pulire le strade e i canali ecc.) .

Occupiamoci ora della natura della concessione di Ottone: dob­biamo fare attenzione ai verbi che venivano definiti dispositivi (perché esprimono le disposizioni o ordini dell'autore) e che qua­lificavano in documenti di questo genere l'atto compiuto dal so­vrano. Essi sono sempre in prima persona plurale (plurale maie­statis) , riferita all'autore giuridico del documento, l'imperatore:

17 Vedi p. 60, nota 10.

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- concediamo e permettiamo e dalla nostra giurisdizione e dominio tra­sferiamo nel di lui diritto e dominio completamente (concedimus et largimur et de nostro iure et dominio in eius ius et dominium omnino trans/undimus atque delegamus) [ 1 1 ] . e così trasferiamo dalla nostra giurisdizione e dominio nella sua giuri­sdizione e dominio (et ita de nostro iure et dominio in eius ius et domi­nium trans/undimus) [ 16] .

Il complemento oggetto di questi verbi è costituito, in astratto, dalla regia potestas sopra citata, in concreto dalle prerogative ap­pena descritte su res et /amiliae dei cittadini parmensi. Come si sarà capito, è tipico dei documenti medievali questa pluralità di definizioni (concedere, largiri, tras/undere, delegare): a differenza del linguaggio giuridico attuale, fondato su una inequivoca classi­ficazione di istituti e di fattispecie, si individua l'azione compiuta e il suo ambito mediante il semplice accumulo di tutti i termini di­sponibili, sia quando il loro significato è totalmente o parzialmen­te sovrapponibile, sia quando essi entrano in contraddizione: con­cedere è sinonimo di largiri (elargire) , mentre tras/undere (trasmet­tere) potrebbe essere considerato l'opposto di delegare, in quanto la delega dovrebbe prevedere la possibilità di revoca. Invece, co­me si specifica chiaramente, la concessione non è soggetta a nes­sun tipo di condizione, dunque non può essere revocata per nes­sun motivo: il potere pubblico su Parma è per sempre del vescovo e dei suoi successori (Parmensis ecclesiae episcopi qui pro tempore fuerit [ 14] ) . Egli ha uno ius (diritto) e un dominium (dominio, so­vranità) del tutto autonomi, è un signore indipendente.

Siamo in presenza di una donazione o alienazione: il potere è donato come se fosse una proprietà privata. Il vescovo non diven­ta un funzionario dell'imperatore, non è nominato conte (è come se fosse conte, cioè fa le stesse cose che fa un conte), e neppure di­venta feudatario di Ottone. Il documento non contiene alcun ter­mine che richiami il rapporto tra un vassallo e il suo signore (vedi § 2 .8 ) . Nel primo caso, se fosse cioè funzionario, il vescovo do­vrebbe amministrare Parma per conto di Ottone, in qualità di suo rappresentante. Nel secondo caso, se fosse feudatario, dovrebbe giurare di essere fedele a Ottone, prestandogli omaggio vassallati­co, pena la perdita del feudo che gli sarebbe stato assegnato. Dun­que l'area che governa il vescovo non è una circoscrizione pubbli-

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ca come un comitatus di Carlo Magno, né è un feudo, pùr eredita­rio, come quelli che verranno concessi dall'imperatore Federico Barbarossa di lì a due secoli. 1 H

Ottone rinuncia, s i direbbe oggi, a un "pezzo di stato" , che di­venta del vescovo. Non è però questa una definizione corretta, per­ché Parma non si costituisce in stato autonomo. Parma, anzi i cit­tadini di Parma e i loro beni in un'area di incerta definizione, han­no un dominus, un signore-padrone che esercita su di loro il suo potere, un potere che gli storici preferiscono definire «signoria lo­cale» o, in latino dominatus loci, perché le fonti parlano semplice­mente di signori del luogo. 19 Signore-padrone perché il vescovo possiede materialmente le mura, i corsi d'acqua e le pubbliche fun­zioni collegate a questi "oggetti" . Il potere è incorporato nelle cose e nelle persone, nel muro come nell'uomo del vescovo.

Siamo in presenza di una concezione del potere lontana sia da quella del tempo di Carlo Magno (VIII-IX secolo) che da quella del­l'epoca propriamente feudale (XI-XIII secolo) , una concezione si­gnorile del potere, che Giovanni Tabacco ha definito con un ter­mine spesso presente nei manuali: allodialità del potere. Il potere pubblico, che per definizione sarebbe astratto e impersonale, e che nel Medioevo dovrebbe sempre essere riconducibile all'auto­rità suprema (l'imperatore, e per suo tramite Dio, ma si veda § 3 .6) è trattato come un allodio, termine germanico per indicare la pro­prietas, una proprietà piena, che dunque è alienabile, per donazio­ne o trasmissione ereditaria.

In una situazione di dissoluzione dell'ordinamento pubblico conseguente alla crisi dell'impero carolingio un imperatore come

1 8 È dunque errata la frettolosa definizione di vescovi-conti per personaggi co­me Uberto, come se fossimo in presenza di vescovi nominati funzionari o - peg­gio - infeudati delle contee imperiali. Errori del genere, ancora frequenti in ma­nuali scolastici, riemergono con prepotenza negli studenti.

19 Le definizioni di dominatus loci, poteri signorili, poteri locali comprendono le varie forme di signoria "territoriale" del X-XI secolo (periodo detto dell'ordi­namento signorile) , da quelle di dignitari ecclesiastici e abati, a quelle di dinastie che avevano patrimonializzato la carica pubblica di antica ascendenza carolin­gia, a quelle sorte spontaneamente dal basso, ad opera di agguerriti proprietari fondiari, ovvero le signorie di banno e di castello. Tante definizioni possono di­sorientare lo studente: si consiglia di consultare la trattazione di Sandra Carocci citata nella Nota bibliografica.

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Medioevo: istruzioni per l'uso

Ottone, che si propose di rinnovare l'istituzione imperiale, non aveva altro strumento che il proprio carisma e la sacralità della propria carica per tenere insieme una serie di poteri autonomi, lo­calizzati intorno a vescovi come Uberto o a potenti che spesso (ma non sempre) si chiamavano conti, duchi, marchesi, ma che non erano affatto funzionari pubblici, bensì - anche loro - autonomi signori locali (domini loci) : padroni di terre, uomini e diritti. Il do­cumento legittimava dunque un potere che probabilmente Uber­to già aveva, ma che gli era contestato da altri signori (si afferma che la chiesa è «lacerata da parte del comitato», cioè del conte [6] ) , e lo faceva attraverso l'istituto privato della proprietas, che garantiva l 'autonomia del potere locale. L'imperatore manteneva così il suo ruolo di protezione nei confronti delle chiese, dunque anche quella di Parma, come si dice nella parte iniziale del docu­mento, e si procurava naturalmente un alleato nella persona del vescovo Uberto.

Notiamo en passant che un documento del genere è utile, oltre che per conoscere un tassello della storia di Parma e un fenomeno come la concessione iure proprietario («a titolo di proprietà» se­condo la definizione di Tabacco) , anche per ricostruire il funzio­namento della cancelleria imperiale e le giustificazioni ideologiche delle azioni di Ottone I. Non dobbiamo pensare che Ottone inter­venisse personalmente nella composizione dell'atto di cui era l'au­tore giuridico. Esso era composto nella sua cancelleria secondo procedure rigide, sia per quanto riguarda le partizioni del testo, le formule, che per quanto riguarda la distinzione dei compiti tra chi lo componeva, o dettava come si diceva, chi lo ricopiava in bella forma, chi lo registrava, chi apponeva il sigillo dopo aver control­lato tutto ecc. Per questo è assai proficuo il confronto tra vari di­plomi, al fine di riscontrare le eventuali variazioni significative.

Al principio si trovano sempre l'invocatio, l'invocazione (qui al­la Trinità [ 1 ] ) , e l'intitulatio, intitolazione del re [2] , che è sempre la stessa per il singolo sovrano (a meno che non intervengano altre conquiste territoriali o acquisizioni di altri titoli) . Seguono l'aren­ga, una premessa al testo vero e proprio in cui vengono dichiarate le più generali motivazioni (etiche o politiche) dell'azione docu­mentaria [3 ] . Ottone, e la cancelleria per lui, afferma che compito precipuo del re è esaltare le chiese di Dio, questo è anzi il motivo per cui egli è stato elevato al ruolo imperiale. Ciò procura stabilità

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al regno (e infatti Uberto è ora alleato di Ottone) e una ricompen­sa eterna (Ottone pensa anche alla sua anima, ma sul serio, non è una dichiarazione opportunistica ! Vedi § 3 .6) .

Dopo l' arenga si narra come si è giunti alla specifica decisione: nella parte che è appunto definita narratio [ 4-8] si afferma che Uberto stesso ha sollecitato la concessione, che viene esplicitata nella successiva dispositio (disposizione, determinazione) [9- 16) .2° Ancora oggi, le disposizioni di leggi mostrano le tracce di quelle partizioni: nella parte introduttiva si enuncia l'autorità emittente (il presidente della Repubblica, il ministro ecc.) e si citano le di­sposizioni precedenti, da cui deriva o che deve rispettare quella presente (questi rinvii sono introdotti dalla parola VISTO); mentre il corpo del provvedimento è preceduto dal verbo dispositivo, in terza persona singolare, messo al centro del rigo (per esempio: PROMULGA, DECRETA) .

Tutte le azioni politiche dell'imperatore Ottone e delle altre au­torità pubbliche dell'età medievale, nella loro infinita varietà, ven­gono costrette in questo schema (il diploma è datato a Lucca, e chissà quali e quante circostanze e mediazioni a noi sconosciute erano dietro alla richiesta di Uberto) . Ma, nonostante la sua fis­sità, anche lo schema può darci informazioni, che naturalmente andranno valutate tenendo presente da un lato la ripetitività delle formule, dall'altro gli scarti dall'uso di ciascuna cancelleria in un tempo determinato. Di queste cose si occupa una disciplina parti­colare, la diplomatica, cioè lo studio dei diplomi.

Torniamo al paragone iniziale con la patente di guida. Come tut­ti i documenti ufficiali, anche un diploma medievale poteva essere falsificato. E in effetti ci sono pervenute numerose falsificazioni di documenti imperiali, papali, regi: la diplomatica è nata proprio al fi­ne di accertare l'autenticità della documentazione giuridica medie­vale. Essa è stata così definita dal titolo della prima trattazione si­stematica della disciplina, il De re diplomatica (Sulla questione dei diplomi) di un monaco benedettino francese, Jean Mabillon ( 168 1 ) . Tale disciplina, che nell'analisi del documento e nella ricostruzione delle cancellerie che lo produssero è affiancata da altre come la pa­leografia, la sigillografia (storia dei sigilli) , la storia della lingua e del

20 Del documento non è stata riprodotta la parte finale.

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Medioevo: ùtruzioni per l' um

diritto, l 'archivistica (storia degli archivi e delle istituzioni che li hanno creati) , ha in comune con la filologia l'attenzione al testo, ma se ne distacca perché ha a che fare generalmente con originali o con falsi in forma di originale.2 1 Tuttavia, anche quando viene trasmesso in copia, un documento ha generalmente un tasso minore di va­rianti, perché interesse del copista è quello di riprodurre perfetta­mente il testo che ha davanti, cosa che non sempre avviene con le fonti narrative e le opere letterarie.

Il diploma di Ottone ci è giunto nell'edizione che ne diede uno studioso italiano di metà Seicento, Ferdinando Ughelli, sulla base di un manoscritto della Biblioteca Apostolica Vaticana (dunque non dell'originale disperso) . Questa versione è stata integrata o corretta dagli editori mediante il confronto con un diploma dell'imperatore Enrico II ( l 004) , conservato in originale nell'Archivio capitolare di Lucca, e consistente in una conferma della donazione del 962.22 Nella frase res et /amilias tam cuncti cleri eiusdem episcopii in quo­cunque loco inventae /uerint [6] l'edizione Ughelli non presenta il participio inventae, che è stato introdotto dall'editore integrandolo dalla versione di Enrico II: è stato cioè ipotizzato che Ughelli o il suo tipografo avessero fatto un semplice errore meccanico, saltando una parola. Non è però stata presa in considerazione la parola comitatu al posto di loco nel diploma di Enrico, perché difficilmente Ughelli avrebbe potuto fare una modifica volontaria o involontaria del ge­nere, mentre è possibile che la cancelleria di Enrico n fosse interve­nuta su questo punto. Dato il loro carattere formulare, infine, invo­cazione, intitolazione e prime parole dell' arenga, mancanti in Ughelli, sono state facilmente integrate da altri diplomi di Ottone.

2 1 Ricordiamo che anche nella storia della filologia testuale ha avuto un gran­de rilievo lo smascheramento di un falso. Nel 1440, con l'opera De falso eredita et ementita Constantini donatione declamatio, l'umanista Lorenzo Valla dimo­strò infatti, con prove linguistiche e stilistiche, la falsità della cosiddetta Dona­zione di Costantino, un atto con il quale l'imperatore romano avrebbe donato al papa il dominio temporale sull'Occidente, ma che invece fu confezionato ad ar­te nell'vili secolo. Valla poté effettuare la sua dimostrazione grazie alla sua ec­cellente conoscenza della lingua latina nella sua evoluzione storica. Egli fu un campione della filologia, in tempi in cui non esistevano ancora vocabolari, re­pertori, edizioni critiche come quelle di cui oggi disponiamo.

22 Confermare i diplomi dei predecessori fu prassi comune nel Medioevo e nel­l'età moderna.

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L'accertamento dell'autenticità di diplomi come questo è all'o­rigine del metodo di critica delle fonti, dunque della medievistica come disciplina scientifica. Nel corso dell'età moderna, via via che si passava da una definizione generica del Medioevo a un ef­fettivo studio dello stesso, le fonti medievali furono oggetto di grande interesse. In particolare, per rispondere alle polemiche dei protestanti contro le fantasiose leggende dei santi, la cui funzione di intercessione è da essi rifiutata, un gruppo di gesuiti raccolti intorno al francese Jean Bolland cominciò l'edizione critica delle vite dei santi ( 1 64 3 ) , mentre lo stesso Mabillon concepì il suo trattato in risposta alle accuse di falsità del gesuita Daniel Pape­brok nei confronti dei diplomi dei re merovingi. La lingua dei do­cumenti del Medioevo fu invece indagata dal francese Charles Du Fresne Du Cange, autore di un importante vocabolario di latino medievale ( 1678 ) .

S i noti che quegli studiosi erano spesso uomini d i Chiesa: l a cri­tica delle fonti nacque in ambienti religiosi e comunque non acca­demici, perché la ricerca storica non si insegnava nelle università, né la scrittura di opere storiche era legata necessariamente allo stu­dio delle fonti. Molti letterati, politici, filosofi scrivevano la storia del passato attingendo soltanto a fonti narrative; o la storia del proprio tempo riferendo le loro dirette esperienze e magari utiliz­zando la documentazione cui avevano avuto accesso per i loro in­carichi professionali (nel caso di titolari di cariche pubbliche, am­basciatori, giuristi, cancellieri, cortigiani) . Lo studio umile dei molteplici resti del passato era praticato da filologi, collezionisti, archivisti, in una parola "eruditi" , come si dice con una sfumatura negativa. È però attraverso queste iniziative erudite dell'età mo­derna, e soprattutto dei secoli XVII e XVIII, che è nata e si è svilup­pata l 'esegesi delle fonti, dunque la storiografia critica attuale, la quale soltanto a partire dall'Ottocento ha conquistato le univer­sità e ha dato origine a istituzioni pubbliche e private specifica­mente preposte a questa attività.

Tale processo ha anch'esso un effetto sull'ignaro studente di sto­ria medievale, che subisce inconsapevolmente l'originaria distin­zione tra storiografia ed erudizione, le quali oggi convivono nella storia-scienza e nella storia-disciplina (vedi p. 53 ) . Il manuale, in­fatti, da un lato è costruito come una narrazione continua, una sto­ria generale, come si dice, che per quanto possa essere articolata

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resta rispettosa delle periodizzazioni tradizionali e delle cesure po­litiche (guerre, cambi di dinastia ecc. ) , al pari della storia di un Paolo Diacono; dall'altro si sforza di dar conto della multiforme ricerca scientifica (ovvero erudita) , che ha come oggetto singole aree geografiche, segmenti cronologici minimi, tematiche specifi­che, e che rimette continuamente in discussione le generalizzazio­ni della storia generale (la ripetizione è voluta) .

3 .5 Un mulino amalfitano nell'xr secolo (la fonte documentaria: il contratto notarile)

Nell'Archivio di Stato di Napoli era conservata una pergamena di forma quadrata (circa 20 cm per lato) scritta in una particolare grafia detta curiale amalfitana, che recitava:

[ l ] t lo Maria figlia di Giovanni figlio di Mauro di Giovanni di Leone di Pardo conte [2] nel giorno presente con volontà perfetta do, trasfe­risco e confermo per iscritto a voi signor Giovanni nostro genitore la piena e integra mia porzione di mesi due meno giorni cinque del muli­no di questa città di Atrani [3 ] che a me, ovvero a mia sorella e a me la­sciò la signora Anna, mia genitrice, ai sensi del suo testamento, [4] dunque demmo a voi la nostra porzione con la sua strada e ogni sua pertinenza, [5] di modo che a noi non rimanesse nulla e che nulla vi sottraessimo di essa, [6] perché mi deste la cassa con la coperta di lana [7] che similmente la predetta nostra genitrice aveva lasciato a noi tre ai sensi del predetto testamento, [8] e ho presso di me la cassa con la sopradetta coperta di lana vellutata cioè [seguono due lettere non leggi­bili] , [9] così come abbiamo pattuito tra noi con delibera e decisione assoluta, [ 10] in modo che, se in qualche tempo o in qualche modo o con qualche inganno noi o i nostri eredi, anche mediante terzi, osassi­mo importunare voi e i vostri eredi o qualunque vostro uomo per quanto riguarda la predetta mia porzione dei predetti mesi due meno giorni cinque, [ 1 1 ] promettiamo di pagare a voi una sanzione di trenta bisanti, [ 12 ] e questa carta sia valida per sempre. [ 1 3 ] Aggiungiamo invero quanto non abbiamo scritto sopra: [ 14] dichiariamo che voi sie­te liberi di fare tutto quanto vorrete della porzione dei predetti mesi del soprascritto mulino senza alcuna opposizione o richiesta nostra e dei nostri eredi per sempre a pena della sanzione soprascritta. [ 15] t Pietro figlio di Stefano di Marino, testimone, ha sottoscritto. [ 16] t Mauro figlio di Sergio di Pantaleone, testimone, ha sottoscritto.

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Le fonti e i metodi

[ 17 ] t Costantino figlio di Giovanni di Leone di Costantino di Leone conte, testimone, ha sottoscritto. [ 18] t Io Giovanni scriba figlio di Sergio ho scritto a metà del mese di febbraio, seconda indizione.

Testo latino

[ l ] t Ego quidem Maria filia Iohannis filii Mauri de Iohanne de Leone de Pardo camite [2] a presenti die prumtissima volumtate dare et tra­dere seu scribere et firmare visa sum vobis [domino] Iohanni genitori nostro, idest plenaria[m] et in [tegra]m ipsam portionem meam de ipsis duobus mensibus minus dies quinque de ipsa molaquaria de hac civitate Atrano, [3] quod michi et at ipse ambe vero germane mee di­misit domina Anna genitrix mea per suum testamentum, [ 4] deinde dedimus vobis exinde ipsam portionem nostram cum via sua et omnia sua pertinentia, [5] unde nichil nobis rem[ansit aut aliquid vo]bis exin­de excep[tuavimus] , [6] pro eo quod didisti michi ipsum scibru[m] cum ipsa lena [7] quod [simi]liter nobis tribus personis dimiserat pre­dicta genitrix nostra per predictum suum testamen[tum], [8] et habeo apud me ipsum predictum scibrum cum ipsa suprascripta lena villuta­ta sive [seguono due lettere non leggibilt] , [9] sicut imer nos conbenit in omnem deliberationem et in omnem decisionem, [ lO] ut, si quolibet tempore per quovis modum vel ingenium sibe nos et nostri heredes seu per summissam personam vos et vestros heredes sibe alium qualem­cumque hominem pro vestra parte de ipsam predictam portionem meam de ipsis predictis mensibus dui minus dies quinque querere aut molestare presumserimus, [ 1 1 ] triginta [byzantios vo]bis componere pro[mit] timus, [ 12] et hec chartula sit firma imperpetuum. [ 13 ] Ve­rum [tamen hoc] quod superius mi[nime scri]psimus [ 14] reclaramus ut faciatis vobis de ipsam portionem de predictis mensibus de supra­scripta mola aquaria [omn]ia que volueritis sine omni nostra et de no­stris heredibus contrarietatem vel requesitionem imperpetuum et in suprascripta obligata pena. [ 15] t Petrus filius Stephano de Marino testis subscripsit. [ 16] t Mauro filius Sergii de Pantaleone testis subscripsit. [ 17] t Costantinus filius Iohannis de Leone de Constantino de Leone camite testis subscripsit. [ 18] t Ego Iohannes scriba filius Sergii scripsi medio mense februario indictione secunda.

La pergamena fu distrutta dal fuoco nel 1943 , quando i documen­ti più preziosi dell'Archivio napoletano, messi al riparo dai horn-

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bardamenti in una villa presso Nola, furono incendiati da una pat­tuglia di soldati tedeschi in circostanze poco chiare. Fortunata­mente, essa era stata pubblicata da Riccardo Filangieri nel 1917 in una raccolta di documenti prodotti nel ducato Amalfi, che prima della conquista normanna ( 1 073 ) fu un minuscolo stato costiero, resosi autonomo dall'impero bizantino, cui originariamente ap­parteneva. Il documento è un contratto privato del 1034: si tratta una permuta (scambio di beni) tra Maria e suo padre Giovanni: Maria cede la parte di un mulino ad acqua (mola aquara) sito in Atrani, centro vicinissimo ad Amalfi, in cambio di una cassa (o forse un cassettone, o una cesta: scibrum) e una coperta di lana (le­na villutata) .

Alcune lettere o intere parole non erano leggibili: esse sono state riportate, secondo una convenzione delle edizioni critiche, tra pa­rentesi quadre (la filologia e la diplomatica hanno sviluppato un particolare linguaggio convenzionale, fatto di segni come asterischi e croci23 e di particolari usi del corsivo e delle parentesi, per esem­pio) . L'editore ha integrato le parti illeggibili sulla base di docu­menti simili. Ciò è stato possibile perché, come il diploma di Otto­ne (§ 3 .4 ) , un contratto come questo, redatto non da un cancellie­re ma da un notaio, era scritto in un linguaggio ricco di formule fis­se. Anche oggi, transazioni di questo genere (permute, compraven­dite, testamenti, donazioni) sono redatte dai notai secondo model­li raccolti in formulari, ormai memorizzati nel computer.

Il notaio è un professionista della scrittura che gode della pub­blica fiducia, sicché egli è in grado di dare validità e pubblicità agli atti che scrive (o roga si dice con termine tecnico). Si tratta di una delle più originali creazioni del Medioevo. Ad Amalfi era detto scriba, come Giovanni di questo atto [ 18] , oppure, a partire dalla seconda metà dell'xi secolo, curiale.

Nel nostro tempo l'azione del notaio, un laureato in Giurispru­denza, è regolamentata da leggi dello Stato, che si occupa del con­corso pubblico relativo. Egli resta però una fonte di autenticazio­ne indipendente dagli uffici pubblici. Nel Medioevo, invece, i no­tai si tramandavano l'un l'altro una serie di forme che garantivano

23 Qui le croci riproducono quella all'inizio del documento (invocazione sim­bolica di Cristo) e quelle che abitualmente precedono le sottoscrizioni.

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Le fonti e i metodi

l'autenticità dei loro atti: dalla grafia, che ad Amalfi assunse cara t­teristiche veramente particolari (la curiale amalfitana è una grafia usata soltanto dai curiali, difficilmente leggibile da parte di chi non apparteneva a quella categoria), alle formule del testo. Ogni notaio imparava a scrivere e a redigere contratti da un altro no­taio, in un rapporto privato di apprendistato. In altre aree e in al­tri periodi i notai avevano anche un proprio segno di riconosci­mento (un disegno, un monogramma ecc. ) , posto dopo la sotto­scrizione o firma.

Dunque chi utilizza un atto del genere deve per forza conoscer­ne le modalità di produzione e le formule: anche se non fa una ri­cerca di diplomatica, la diplomatica gli è necessaria per valutare come "trattare" le informazioni della fonte.

L'atto non contiene una datazione completa: alla fine si scrive soltanto: «a metà del mese di febbraio, seconda indizione» (medio mense /ebruario indictione secunda [ 18] ) . In un atto che lo stesso scriba Giovanni aveva redatto nell'agosto del l 03 3 la datazione, completa dell'indicazione del luogo, si trova al principio, prece­duta dall'invocazione di Gesù: Temporibus domini Iohannis glo­riosi ducis et imperialis patricii anno nono decimo et tertio anno do­mini Sergii gloriosi ducis filii eius di e vicesima mensis augusti indie­tione prima Amal/i.24 Come si vede, non si indica l'anno 1033 , ma l'anno di governo del duca di Amalfi Giovanni e del figlio Sergio, associato a lui. Per calcolare l'anno giusto bisogna dunque cono­scere la successione dei duchi di Amalfi e confrontarla con un'al­tra indicazione preziosa, l 'indizione. Nel Medioevo, infatti, si sud­dividevano gli anni in cicli di quindici anni, secondo un uso che ri­saliva al fisco bizantino. Gli anni erano numerati da l a 15, e poi si ricominciava. L'anno indizionale era come l'anno scolastico o ac­cademico: non corrispondeva a quello solare, perché cominciava il l settembre e finiva il 3 1 agosto dell'anno successivo. Per secoli le tasse continuarono ad esigersi secondo questo sistema. Quindi la seconda indizione del nostro atto cominciava il l settembre 1033 e finiva il 3 1 agosto 1034.

24 «Al tempo del signor Giovanni, duca glorioso e patrizio imperiale, nell'anno diciannovesimo e nel terzo anno del signor Sergio figlio del glorioso duca, nel giorno 20 del mese di agosto, prima indizione, in Amalfi>>.

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In mancanza dell'indicazione degli anni di governo, l'editore non è sicuro dell'attribuzione del documento al 1 034, ma indica come possibile anche il 1 049, che pure era anno di seconda indi­zione. Entrambe le date sono compatibili con altri elementi di da­tazione: il fatto che Giovanni scriba avesse rogato anche l'atto so­pra citato del l 03 3 e la presenza del testimone Costantino [ 17] in un atto del l 044.

Abbiamo fatto conoscenza con un'altra disciplina, "ausiliaria" della diplomatica: la cronologia, una materia molto arida, davve­ro " erudita " , ma essenziale per la critica delle fonti. La cronolo­gia è il miglior sussidio per smascherare eventuali falsi: per un falsario era molto difficile esprimere la datazione secondo l'uso corretto di una determinata località in un determinato periodo. Ogni parte d'Europa si regolava infatti in modo diverso (vedi an­che pp. 134- 1 3 5 ) .

Tuttavia, s e l a datazione incompleta fosse dovuta a un falsario (ciò che non è, perché sono molti gli atti amalfitani scritti in que­sta forma abbreviata ) , non per questo il documento andrebbe ignorato: sarebbe allora assai interessante datarlo, individuare il suo autore e ricostruirne le motivazioni (ciò vale a maggior ragio­ne per i diplomi imperiali) .

Che cosa possiamo ricavare d i interessante da questo contratto, simile a centinaia di migliaia che affollano gli archivi europei dal basso Medioevo all'età moderna? Certo, se le parti, come si dice con linguaggio tecnico, fossero personaggi importanti, sovrani, nobili, artisti, letterati, la notizia di questa permuta avrebbe un va­lore per la loro biografia. Siamo invece di fronte a due sconosciu­ti: Maria e il padre Giovanni, cui si aggiunge una sorella, che qua­si resta nell'ombra, perché l'atto consiste in una sorta di attesta­zione di Maria, la quale dichiara di aver effettuato lo scambio e di non aver nulla a pretendere. In realtà, a una attenta lettura emer­ge che la parte del mulino, la cassa e la coperta facevano parte del­l'eredità di Anna, madre di Maria e moglie di Giovanni. Anna, mediante un testamento (anch'esso scritto da un curiale) , aveva la­sciato quei beni alle due figlie e al marito, senza dividerli. Ora, me­diante una permuta, Giovanni si prende il mulino e le due sorelle, o forse la maggiore a nome della minore (il documento passa stra­namente dalla prima persona singolare alla plurale) si tengono cas­sa e coperta.

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Poche cose, dunque, relative a sconosciuti di cui è difficile sape­re altro.

Eppure questo atto, se analizzato insieme a tanti altri della stes­sa zona e dello stesso tempo, può illuminare la società, l'economia, la mentalità amalfitana dell'XI secolo, ciò che sarebbe impossibile se disponessimo soltanto di storie come quella di Paolo Diacono e di documenti pubblici come il diploma di Ottone 1. In un certo senso, una fonte di questo genere è paragonabile ai frammenti ce­ramici di cui abbiamo parlato nel § 3 .3 . La modestia e ripetitività del singolo elemento (un piatto, un contratto di permuta) è bilan­ciata dall'abbondanza dei reperti rispetto alle fonti apparente­mente più solenni e appariscenti (un monumento, un diploma im­periale) . L'accurata classificazione e interpretazione di tutte le informazioni ricavabili da fonti di questo tipo può far avanzare le nostre conoscenze, forse estendibili anche ad aree diverse da quel­la considerata.

Cominciamo dagli aspetti formali e giuridici: è evidente che tra­mite questa documentazione possiamo conoscere il "diritto priva­to" dell'epoca. Era questa una materia di cui il potere pubblico si disinteressava, e che era regolata da consuetudini locali, traman­date prima di tutto dai notai. Le regole da rispettare quando si comprava e vendeva, si lasciava in eredità, si faceva una donazione o costituiva una dote, si assumeva un apprendista nella propria bottega, si costituiva una società commerciale, si contraeva un mu­tuo, non rientravano dunque nelle competenze dello Stato, come avviene oggi, quando tutti questi contratti sono rigidamente rego­lati dal codice civile, approvato dal Parlamento e promulgato dal presidente della Repubblica, codice che ha validità in tutto il ter­ritorio italiano e per tutti i cittadini. Nel Medioevo e oltre, fino a tutto il XVIII secolo, non era affatto così. Il diritto non era prodot­to dallo Stato, ma dalla società stessa, che lo trasmetteva ai poste­ri e lo trasformava nel corso di secoli, in maniera diversa da zona a zona. Per esempio, Maria compie la permuta in piena libertà, così come probabilmente aveva fatto la madre col suo testamento. En­trambe avevano la stessa capacità giuridica di un uomo: erano in­fatti «di legge romana», seguivano cioè la tradizione giuridica di lontana ascendenza romana. A neanche 20 chilometri di distanza, a Salerno e nell'entroterra, le donne seguivano invece la tradizione longobarda, e per questo, al pari dei minori, non potevano com-

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piere transazioni economiche senza la presenza di una sorta di " tutore" , chiamato con termine di origine germanica mundualdo (era il padre, il marito o un altro uomo della famiglia).

L'atto è molto formalizzato, come abbiamo già detto, con diffe­renze rispetto al documento pubblico. Le formule sono prolisse, perché ci si vuole cautelare da ripensamenti e da eventuali conte­stazioni. Ecco che non basta dire che Maria ha ceduto la parte del mulino al padre, bisogna precisare, con espressioni che sono ripe­tute in tutti i passaggi di proprietà, indipendentemente dal bene in oggetto, che la parte del mulino si cede interamente (plenariam et integram ipsam portionem meam [2] ) , che la cessione è valida per sempre (in perpetuum) , che nulla di quel bene resta a Maria, che di nulla Giovanni è defraudato (unde nichil nobis remansit aut ali­quid vobis exinde exceptuavimus [5] ) , che egli può fare quello che vuole. Ciò è del tutto ovvio in caso di alienazione di un bene, ma è così necessario precisarlo, che un'ulteriore formula viene aggiunta alla fine: «dichiariamo che voi siete liberi di fare tutto quanto vor­rete della porzione dei predetti mesi del soprascritto mulino senza alcuna opposizione o richiesta nostra e dei nostri eredi per sempre a pena della sanzione soprascritta» [ 14] .

Oggi, in una transazione del genere, si troverebbe il rinvio al­l' articolo del codice civile che regolamenta le permute (anche se non mancherebbero le ripetizioni, tipiche del linguaggio notati­le) . Le formule, nel nostro documento, servono a ribadire carat­teristiche e eventuali limiti dell'azione giuridica, ma in più il loro stesso continuo ricorrere garantisce, come in un rito religioso, l'irrevocabilità della cessione.

In questo contesto, le trasformazioni giuridiche, economiche, sociali (nuove attività, nuovi contratti) si facevano strada lenta­mente, mediante forzature degli schemi prefissati, chiarificazioni, piccole innovazioni che non stravolgevano mai la successione del­le sezioni del documento, su cui non ci soffermeremo. Nella parte finale, dove si esplicita la sanzione prevista nel caso di inosservan­za di quanto pattuito (è questa un'altra partizione del documento: la sanctio) , si parla di trenta bisanti (moneta d'oro bizantina) che Maria deve versare se non rispetta la transazione. La somma è as­solutamente sproporzionata rispetto al valore dei beni permutati. Ma l'atto non sarebbe stato valido senza una sanzione. Ancora una volta siamo in presenza di una formula: non possiamo neppure es-

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Le fonti e i metodi

sere sicuri che i bisanti d'oro avessero una così capillare circola­zione nella Amalfi dell'XI secolo.

Restando sul piano dello scriba, il testo rispecchia non solo la cultura professionale di Giovanni, una cultura pratica, come si è detto, appresa al fianco di un altro curiale, ma anche le sue cono­scenze linguistiche. Non c'è bisogno di evidenziare la ridicola scor­rettezza del latino, se paragonato alla lingua classica ma anche al dettato della cancelleria di Ottone, dove lavoravano persone con una discreta formazione letteraria, appresa in monasteri, vescovati, nella medesima cancelleria o da maestri privati (sono queste le "scuole" e le " università" dell'alto Medioevo) . Il latino di Giovan­ni è invece un linguaggio all'apparenza surreale, che sbaglia l'orto­grafia (conbenit invece di convenz"t, imperpetuum invece di in per­petuum) ; non rispetta i casi (de ipsam predictam portionem, sine amni nostra et de nostris heredibus contrarietatem: sine regge l'a­blativo, mentre al de + ablativo sarebbe da sostituire un genitivo) ; coniuga male i verbi (didimus invece di dedimus) o li usa in signifi­cati bizzarri (visa sum vobis . . . ) ; ripete l'aggettivo ipse (stesso) come se fosse l'articolo determinativo (didisti michi ipsum scibrum cum ipsa lena, ma è la prima volta che si parla di questi due oggetti) ; in­troduce vocaboli sconosciuti ai dizionari di latino più comuni.

Non è affatto latino, verrebbe da dire, ma non è neppure il vol­gare italiano che quegli amalfitani parlavano tra loro. Anche se correggessimo tutti gli errori di ortografia, morfologia e sintassi non avremmo un latino "corretto" . Ragionare in termini di corret­tezza non è però il modo giusto per capire. Siamo in presenza di una lingua artificiale, inventata da anonimi specialisti della scrittu­ra in una società che, benché ancora si regga per gran parte sull'o­ralità, ha assolutamente bisogno della scrittura, e ad essa ricorre abitualmente, anche per una permuta tra padre e figlie. L'atto, tra l 'altro, era redatto in due originali, perché ciascuna delle parti conservava il suo: molti nel ducato di Amalfi avevano dunque un piccolo archivio personale.

In tutt'Europa, in questi secoli, si assiste a una grande rivoluzio­ne, che qui vediamo già compiuta: l'estensione della scrittura a una infinità di situazioni familiari, sociali, politiche.

Le sottoscrizioni dei testimoni ci informano sul loro grado di cultura: sia quando non sono autografe (il teste traccia o lascia tracciare una croce, dunque è analfabeta) , sia quando sono auto-

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grafe, come pare avvenga in questo caso (l'editore non è chiaro al riguardo) , perché dalla resa grafica si può dedurre il grado di ap­prendimento del soggetto.

È una lingua artificiale, abbiamo detto, che non è quella della vita quotidiana, ancora ritenuta indegna di essere messa per iscritto (le prime testimonianze dell'italiano scritto risalgono pro­prio a questo periodo, tra metà x e metà XI secolo) , ma non è nep­pure la lingua della Chiesa e della cultura. Essa ci documenta fe­nomeni fonetici tipici dei volgari meridionali, come l'oscillazione tra v e b di convenit/conbenit, tra d e r in reclaremus per declare­mus, oggi ancora vivi nell'area linguistica napoletana, e su parole, in una veste latina, che nessun altro testo riporta: scibrum è forse derivato da un vocabolo del greco medievale.25 Il nostro atto va dunque analizzato con gli strumenti della storia della lingua ita­liana, della dialettologia, della lessicografia, ma è al tempo stesso fonte di informazioni per queste discipline per periodi, aree geo­grafiche, contesti sociali che non ci hanno lasciato testimonianze scritte in volgare.

In questo strano latino e negli schemi fissi della tradizione (essi stessi interessanti per conoscere diritto e cultura degli amalfitani di allora) veniva costretta una realtà concreta, che è possibile rico­struire valorizzando tutti i dati presenti in contratti del genere: no­mi di centri abitati e di località attestate per la prima volta, notizie di oggetti, arnesi, edifici, tecniche di coltivazione, tipologie di con­tratti di lavoro, verbali di assemblee della comunità del villaggio, accordi tra il signore del luogo e gli uomini a lui soggetti.

Qui la notizia più interessante è la cessione di una parte del mu­lino ad acqua. Il confronto con altri atti dello stesso genere prova infatti che nel ducato di Amalfi la proprietà dei mulini era divisa in quote. Esse non erano indicate in quantità (metà, un quarto ecc. ) , ma in durata: la defunta madre di Maria possedeva i l mulino per due mesi meno cinque giorni. Tale quota era poi passata in eredità a Maria, alla sorella e al loro padre Giovanni, che, come si dice con termine tecnico, la possedevano pro indiviso finché, in que-

25 La parola greca da cui deriverebbe scibrum è skebrion. Anche lena deriva dal greco chldina, latino laena "stoffa di lana".

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Le fonti e i metodi

st' atto, Maria non cede la sua porzione della quota parte al padre («porzione di mesi due meno giorni cinque del mulino», portio­nem meam de ipsis duobus mensibus minus dies quinque de ipsa molaquaria [2] ) .

Spese e ricavi dell'attività del mulino erano suddivisi tra i vari proprietari in ragione della quota posseduta. Altri documenti chia­riscono che, almeno nel X-XII secolo, la quota-durata non corri­spondeva infatti a un mese specifico: in questo caso si trattava dun­que di 55/36Ysimi del totale. Per fare un esempio più semplice, chi possedeva 2 mesi di un mulino partecipava agli utili annuali nella misura di 2/12 , dunque 116. Mario Del Treppo ha interpretato questo bizzarro fenomeno come il risultato di una commercializza­zione assai sviluppata dei mulini, istallazioni onerose che però assi­curavano proventi cospicui (vi si macinava il grano altrui a paga­mento) . Vi sono casi in cui uno stesso proprietario possedeva quo­te di mulini diversi, e non perché gli erano pervenute casualmente in eredità, ma perché in questo modo egli ripartiva il rischio dei suoi investimenti. Le quote dei mulini, che possono anche essere di pochi giorni, sono come le azioni di una società. Ecco che questa particolare pratica può essere letta come un indice della mentalità imprenditoriale degli amalfitani, della loro flessibilità, ma anche del loro attaccamento alla terra natìa. Tra i proprietari di quote-mulino e di terre troviamo infatti mercanti che, pur lasciando Amalfi per le destinazioni più varie, mantengono un piede nella loro terra.

Lo stesso Del Treppo ha tratto un'altra conclusione attinente al­la storia della mentalità dai nomi delle persone che occorrono nel documento: le parti, lo scriba, i testimoni. Non esistono ancora i cognomi, come si vede, ma solo i patronimici: ci si identifica con la specificazione che si è figlio o figlia di qualcuno. Maria si presenta come «figlia di Giovanni figlio di Mauro di Giovanni di Leone di Pardo conte» (jilia Iohannis /ilii Mauri de Iohanne de Leone de Pardo camite [ 1 ] ) . Di nome in nome si va indietro di ben cinque generazioni, si risale a oltre un secolo prima. È impressionante: chi ricorda oggi il nome di tutti i propri avi fino al bisnonno del pro­prio nonno? Tale pratica, diffusissima ad Amalfi, si spiega con la volontà tenace di mantenere memoria della propria discendenza, evidentemente perché la genealogia è considerata nobilitante. Si noti che anche uno dei testimoni ha una memoria così " lunga" : Costantinus filius Iohannis de Leone de Constantino de Leone co-

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mite [ 17 ] . Anche lui si ferma a un antenato che era comes, un tito­lo che non corrispondeva a una carica ma che distingueva un pre­ciso ceto di proprietari terrieri amalfitani. L'inserimento di una donna comitissa al principio di alcune genealogie dimostra che la nobiltà si trasmetteva anche per via femminile.

I nomi presenti nell'atto ci potrebbero inoltre informare sull'o­rigine etnica di chi li porta. Se ci fossero nomi normanni (come Ruggero) , saremmo sicuri, a questa data, che si tratta effettiva­mente di persone provenienti dalla Normandia. In periodi più avanzati, invece, i nomi provano la diffusione del culto dei santi e persino di opere letterarie (c'è stato chi ha studiato il successo della Chanson de Roland in relazione alla diffusione del nome Or­lando e Rolando) . Qui i nomi sono latini o greci: è improbabile che chi aveva un nome greco fosse di lingua greca, ma certo ciò avviene perché c'è un legame con la tradizione greca e bizantina. Più interessante è l 'assenza o rarità di nomi longobardi: essi pro­verebbero che il portatore proveniva dall'area di tradizione lon­gobarda (Salerno, Benevento, Capua) , o almeno che ad Amalfi si era diffusa, dunque per contatti culturali, una moda onomastica longobarda.

Conclusioni di questo genere vanno però supportate da spogli ampi della documentazione e, in particolare, dalla estrapolazione di serie ordinate e omogenee di dati come questi.

Come abbiamo visto, è possibile sfruttare questa fonte anche per la ricostruzione dei "quadri mentali" di quella società, che gli in­dividui Giovanni scriba e Maria hanno assorbito senza accorger­sene: la concezione del tempo e della discendenza, la memoria, i valori materiali e morali, le giustificazioni dei comportamenti pro­pri e altrui, le angosce, le aspirazioni, i sentimenti. La storia della mentalità, pur basandosi generalmente su fonti privilegiate, riesce a cogliere gli elementi comuni in testimonianze di diverso tipo e di differente livello culturale.26

26 Lo storico francese J acques Le Goff afferma che «il livello della storia delle mentalità è quello del quotidiano e dell'automatico, è ciò che sfugge ai soggetti individuali della storia, perché esprime il contenuto impersonale del loro pensie­ro, ciò che hanno in comune Cesare e l'ultimo soldato delle sue legioni» ( 1974).

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La pergamena scritta nel 1 034 o 1 049 da Giovanni è finita al­l'Archivio di Stato di Napoli per una via che è assai interessante, e che è stata ricostruita dall'editore. Essa faceva parte dell'archivio del monastero benedettino femminile di S. Maria di Fontanelle di Amalfi. Quindi, nel 1581 , passò al locale monastero della Santissi­ma Trinità, al quale fu accorpato quello di S. Maria di Fontanelle. L'ultima monaca di questo istituto portò con sé tutte le pergame­ne in una casa di Agerola, un paese interno della costa amalfitana, quando vi si trasferì nel 1 909. A lei lo Stato italiano, attraverso l 'amministrazione archivistica, è riuscita a sottrarre quella docu­mentazione che infine, per una beffa del destino, è finita in fumo nel 1943 .

Ma perché, al principio, un atto tra due privati finì in un mona­stero? Per un motivo semplicissimo: quando un bene (terre o quo­te di mulini) passava a un altro proprietario (per esempio a un mo­nastero a seguito di una donazione) , questi riceveva di norma tut­ta la documentazione legata al bene, come se le scritture fossero parte inscindibile di esso. Anche questo prova il valore della scrit­tura in quell'epoca.

Per studiare la storia europea fino all'xi secolo, gli archivi di en­ti ecclesiastici e religiosi (cioè cattedrali e monasteri) hanno un ruolo fondamentale, perché quelle sono state le uniche istituzioni in grado di conservare documenti giuridici ininterrottamente, fino ai nostri giorni. Le organizzazioni laiche, cioè le cancellerie dei re­gni, dei principati territoriali, delle città svilupparono questa ca­pacità più tardi. Chi vuole conoscere l 'economia, la società, la mentalità dell'XI secolo, capire fasi e caratteristiche della crescita che investì tutti gli aspetti delle società europee occidentali nei se­coli centrali del Medioevo, non può che rivolgersi ad atti privati di questo genere e ad archivi di enti religiosi.

3 .6 Federico II e la distinzione tra regnum e sacerdotium (la fonte legislativa)

Federico II di Svevia, imperatore del Sacro Romano Impero e re di Sicilia ( 1 1 98- 1250) , è una delle figure più suggestive di tutti i tem­pi. Le opere storiche e letterarie a lui dedicate non si contano: si può dire che il suo mito sia cominciato quando era ancora in vita.

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Una delle sue iniziative più significative fu la promulgazione del cosiddetto Liber Augustalis (libro di Augusto) , nel 123 1 . Si tratta di una raccolta delle leggi del regno di Sicilia, di cui presentiamo qui il Proemio:

[ l ] L'imperatore Federico, sempre Augusto, signore di Italia, Sicilia, Gerusalemme e Arles, il Felice, Pio, Vincitore e Trionfatore. [2] Dopo che la divina prowidenza ebbe rinsaldato la macchina del­l 'universo e dopo che essa, in virtù di un miglioramento apportato dalla natura, ebbe distribuito la materia primordiale nelle figure delle singole cose, [3 ] colui che aveva previsto ciò che doveva essere fatto, considerando quanto aveva creato e apprezzando quanto aveva consi­derato, [4] dispose con maturo consiglio che l'uomo, la più degna del­le creature che vivono al di sotto della sfera lunare, che egli aveva for­mato a propria immagine e somiglianza, che egli aveva fatto di poco inferiore agli angeli, fosse messo a capo di tutte le altre creature. [5] Trattolo dal limo della terra lo vivificò nello spirito [6] e, coronatolo col diadema dell'onore e della gloria, gli mise al fianco una moglie e compagna, parte del suo corpo, [7] e li dotò della protezione di un così grande privilegio, da renderli entrambi in principio immortali. [8] Li pose però sotto una legge, [9] ma poiché essi rifiutarono osti­natamente di rispettarla, li condannò alla pena meritata per la loro di­sobbedienza, [ lO] privandoli di quell'immortalità che precedenza ave­va loro conferito. [ 1 1 ] Perché, tuttavia, non avesse a disfare completamente, con rovina tanto precipitosa, ciò che prima aveva creato e perché alla distruzione della forma dell'uomo non seguisse come conseguenza la distruzione di quella di tutte le altre creature, venendo loro a mancare colui cui erano soggette, non servendo esse più all'uso dell'uomo, [ 12] la divina clementia fecondò con il seme di entrambi la terra dei mortali e la as­soggettò a loro; [ 1 3 ] ma essi, che conoscevano la scelta dei loro padri, ma che da questi avevano propagato in se stessi il vizio della disobbe­dienza, svilupparono odi vicendevoli tra di loro [ 14 ] e separarono il possesso delle cose che per diritto di natura era comune. [ 15] L'uomo, che Dio aveva creato giusto e semplice, non ebbe scrupoli ad immi­schiarsi in controversie. [ 16] Così per la stessa necessità contingente, non meno che per ispira­zione della prowidenza divina, furono creati i principi secolari, [ 17] per il cui tramite potesse essere repressa la sfrenatezza dei delitti e in modo che essi, arbitri della vita e della morte dei popoli, stabilissero, come esecutori in certo modo delle decisioni divine, quale destino, rango e condizione dovesse avere ciascuno. [ 18] Affinché le loro mani

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possano rendere buon conto dell'amministrazione loro affidata, il re dei re e prìncipe dei prìncipi richiede soprattutto che essi non permet­tano che la sacrosanta chiesa, madre della religione cristiana, venga im­brattata dalla subdola perfidia dei detrattori della fede; [ 19] che essi la difendano dagli attacchi dei pubblici nemici con la potenza della spa­da materiale; [20] che essi, per quanto possono, conservino ai popoli la pace e, dopo averli pacificati, la giustizia, le quali si abbracciano a vi­cenda come due sorelle. [2 1 ] Noi dunque, che solo la potenza della mano di Dio, al di là di ogni umana speranza, sublimò ai fastigi dell'impero romano e degli altri re­gni, volendo rendere raddoppiati al Dio vivente i talenti affidatici, per reverenza di Gesù Cristo, dal quale ricevemmo tutto quello che abbia­mo, [22] osservando la giustizia e fondando le leggi decidiamo di of­frire in sacrificio le nostre labbra, provvedendo in primo luogo a quel­la parte di nostri domìni, che al presente sembra avere maggiormente bisogno del nostro intervento circa la giustizia. [. .. ] [23 ] Vogliamo pertanto che le presenti disposizioni emanate in nostro nome abbiano vigore soltanto nel nostro regno di Sicilia; [24] e ordi­niamo che, cassata nel detto regno ogni altra legge e consuetudine in contrasto con queste nostre costituzioni, esse siano d'ora innanzi da tutti inviolabimente osservate. [25] Abbiamo ordinato che in queste fossero incluse tutte le disposizioni promulgate dai precedenti re di Si­cilia e da noi affinché non abbiano alcun vigore né alcuna autorità, in sede giudiziaria e extragiudiziaria, quelle costituzioni che non sono comprese nella presente raccolta.

Testo latino

[ l ] lmperator Fridericus semper Augustus, Ytalicus Siculus Ierosolo­mitanus Arelatensis, Felix Pius Vietar et Triumphator. [2] Post mundi machinam providentia divina firmatam et primordia­lem materiam nature melioris conditionis officio in rerum effigies di­stributam, [3 ] qui facienda previderat fa eta considerans et conside­rata commendans [ 4 ] a globo circuii lunaris inferius hominem, crea­turarum dignissimam ad ymaginem propriam effigiemque formatam, quem paulo minus minuerat ab angelis, consilio perpenso disposuit preponere ceteris creaturis; [5] quem de limo terre transumptum vi­vificavit in spiritu [6] ac eidem honoris et glorie dyademate coronato uxorem et sociam partem sui corporis aggregavit [7] eosque tante prerogative munimine decoravit, ut ambos efficeret primitus inmor­tales, [8] ipsosque verumtamen sub quadam lege precepti constituit; [9] guam quia servare tenaciter contempserunt, transgressionis eos-

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dem pena dampnatos ab ea, [ 10] quam ipsis ante contulerat, inmor­talitate prescripsit. [ 1 1 ] Ne tamen in totum, quod ante formaverat, tam ruinose, tam subi­to divina clementia deformaret et ne hominis forma destructa sequere­tur per consequens destructio ceterorum, dum carerent subiecta pre­posito et ipsorum comoditas ullius usibus non serviret, [ 12] ex ambo­rum semine terram mortalibus fecundavit ipsamque subiecit eisdem; [ 1 3 ] qui paterni discriminis non ignari, sed in ipsos a patri bus trans­gressionis vitio propagato inter se invicem odia conceperunt [ 14] re­rumque dominia iure naturali communia distinxerunt, [ 15 ] et homo, quem Deus rectum et simplicem procreaverat, inmiscere se questioni­bus non ambegit. [ 16] Sicque ipsarum rerum necessitate cogente nec minus divine pro­visionis instinctu principes gentium sunt creati, [ 17] per quos posset li­centia scelerum coherceri; qui vite necisque arbitri gentibus, qualem quisque fortunam, sortem statumque haberet, velud executores quo­dammodo divine sententie stabilirent; [ 18] de quorum manibus, ut vil­licationis sibi commisse perfecte valeant reddere rationem, a rege re­guru et principe principum ista potissime requiruntur, ut sacrosanctam ecclesiam, Christiane religionis matrem, detractorum fidei maculari clandestinis perfidiis non permittant [ 19] et ut ipsam ab hostium pu­blicorum incursibus gladii materialis potentia tueantur [20] atque pa­cem populis eisdemque pacificatis iustitiam, que velud due sorores se invicem amplexantur, pro posse conservent. [2 1 ] Nos itaque, quos ad imperii Romani fastigia et aliorum regnorum insignia sola divine potentie dextera preter spem hominum sublimavit, volentes duplicata talenta nobis eredita reddere Deo vivo in reveren­tiam lesu Christi, a quo cuncta suscepimus, que habemus, [22] colen­do iustitiam et iura condendo mactare disponimus vitulum labiorum ei parti nostrorum regiminum primitus providentes, que inpresentiarum provisione nostra circa iustitiam magis dignoscitur indigere. [ . . . ] [23 ] Presentes igitur nostri nominis sanctiones in regno tantum Sicilie

volumus obtinere, [24] quas cassatis in regno predicto legibus et con­suetudinibus hiis nostris constitutionibus adversantibus antiquatis, in­violabiliter ab omnibus in futurum precipimus observari; [25] in quas precedentes omnes regum Sicilie sanctiones et nostras iussimus esse transfusas, ut ex eis que in presenti constitutionum nostrarum corpore minime continentur, robur aliquod nec auctoritas aliqua in iudiciis vel extra iudicia possint assumi.

Nessuna delle fonti analizzate in questo capitolo è stata prodotta da istituzioni ecclesiastiche o è legata direttamente a finalità reli-

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giose, come un libro penitenziale o una predica.27 Tuttavia, gli uo­mini di Chiesa erano così importanti nelle società medievali e la fede cristiana pervadeva così intensamente ogni aspetto della vita in quel periodo che in ognuna delle fonti abbiamo trovato o tro­veremo un riferimento alla religione. Il cristianesimo, innanzitutto come forza spirituale, impregnò tanto il Medioevo, che qualche studioso ha ritenuto di individuare in esso il più importante ele­mento di unità di quell'età eterogenea.

Il Proemio del Liber Augustalis (o Costituzioni di Melfi, dalla città in cui furono emanate) è a questo proposito un esempio per­fetto: Federico II (e in suo nome i giuristi che scrissero il testo) ri­flette sul senso ultimo dell'esistenza umana al fine di giustificare la propria azione legislativa in uno stato determinato, quel regno di Sicilia, costituito dall'Italia meridionale e dall'isola, che il nor­manno Ruggero n d'Altavilla, suo nonno materno, aveva fondato nel 1 130 .

I l motivo è i l seguente: i l re di Sicilia, come qualsiasi altro prin­ceps (termine con cui si indica il titolare dell'autorità temporale) , ha il potere di legiferare perché ha ricevuto da Dio il compito di tenere a freno la malvagità degli uomini, manifestatasi con il pec­cato originale di Adamo ed Eva, propagatasi poi a tutta la loro di­scendenza [ 16-20] .

Si tratta di una concezione originale di Federico n? Che rappor­to ha questa concezione con il lungo conflitto che oppose quel­l'imperatore al papato?

Il testo del Proemio si può dividere in tre nuclei principali: il primo è il racconto biblico della Genesi, con la creazione del mondo, divisa in due fasi,28 la creazione del primo uomo e della

27 I penitenziali sono manuali destinati ai confessori con un catalogo di pene e pe­nitenze. Esiste un'ampia tipologia di fonti religiose, che sono oggetto di studio di discipline specifiche, come la storia del cristianesimo e delle Chiese, interessate al­la religione cristiana (il messaggio evangelico, la sua interpretazione e diffusione, le diverse forme di spiritualità di monaci e monache, frati e suore, laici e laiche) e al­le istituzioni ecclesiastiche (l'organizzazione delle comunità cristiane, la definizione della dottrina, le eresie, le trasformazioni dell'organizzazione ecclesiastica, il diritto canonico o ecclesiastico, i rapporti tra chiesa ortodossa e cattolica).

2B Il Proemio riprende la tesi dei commentatori della Genesi del XII secolo, a lo­ro volta derivate dal commento di Calcidio al Timeo di Platone, i quali distingue­vano il processo della creazione divina in due fasi: la prima, dal niente, la seconda

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sua compagna, Adamo ed Eva, la loro ribellione, la loro condan­na a vivere sulla terra come esseri mortali, cui sono però subordi­nate tutte le creature [2- 15 ] . Il secondo enuncia la giustificazione del potere imperiale, come si è appena detto [ 1 6-20] . Nel terzo si spiega perché si promulgano le leggi destinate al regno di Sicilia, che ne ha particolarmente bisogno, e si ordina di rispettarle [2 1 -2 2 e u n capoverso che abbiamo tagliato] . I tre nuclei sono inseri­ti nella struttura tradizionale di ogni documento pubblico, quale è l'intero Liber Augustalis. Come nel diploma di Ottone I (§ 3 .4) , infatti, abbiamo l'intitolazione [ 1 ] , l ' arenga (creazione e fonda­mento del potere temporale, [2-20] ) , la narratio (il regno di Sicilia [2 1 -22 ] ) , e infine la dispositio con due verbi dispositivi (volumus [23 ] , iussimus [25 ] ) .

Il Proemio presenta dunque una precisa concezione del potere temporale, della sua origine e legittimazione, del suo compito. Per spiegarla dobbiamo inquadrarla in una questione più ampia, quel­la del rapporto tra regnum (funzione o potere politico, cioè del rex) e sacerdotium (funzione o potere religioso, cioè del sacerdos) .

Tocchiamo qui un punto fondamentale: se volessimo dar conto di tutti i teologi, filosofi, giuristi che sono intervenuti a questo pro­posito ripercorreremmo infatti l 'intera storia del pensiero occi­dentale, fin dalle origini del cristianesimo. Ma non basterebbe, perché ci sarebbe da vedere se e in che misura le diverse posizioni teoriche e dottrinali sulla questione ebbero un effetto sui progetti e sulle realizzazioni del papa e dei prìncipi temporali (e vicever­sa), soprattutto nel periodo dello scontro politico, militare e ideo­logico tra il papato e l'impero, che caratterizzò quasi tre secoli del Medioevo. Ci riferiamo alla lotta per le investiture (XI-XII secolo) e ai conflitti tra il papato e gli imperatori svevi, Federico I Barbaros­sa e Federico II (XII-XIII secolo) . Ecco quindi che bisogna muover­si tra il piano plurisecolare della storia del pensiero, e quello, cro­nologicamente più contenuto, della storia politica.

in cui l'azione di Dio sarebbe stata sostenuta dalla natura. Non approfondiremo qui questo aspetto (si veda il passo <<Dopo che la provvidenza divina . . . in virtù di un miglioramento apportato dalla natura, ebbe distribuito la materia primordia· le nelle figure delle singole cose» [2] ) .

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Le fonti e i metodi

Punto di partenza ineludibile sono però le Sacre Scritture: oggi riesce forse difficile immaginare quanto esse fossero presenti nella vita di un individuo del Medioevo, soprattutto se colto come gli autori del nostro Proemio, i quali conoscevano a memoria molte parti della Bibbia (naturalmente in latino) , e ad esse, parola di Dio, cercavano di conformare i propri pensieri e le proprie azioni.

Il Proemio contiene alcune citazioni letterali dalla Bibbia. A pro­posito del compito del re vengono richiamate due importanti pa­rabole evangeliche, quella dell'amministratore cacciato dal suo pa­drone perché ne ha dissipato i beni, cui si contrappongono i prìn­cipi che intendono rendere buon conto del loro operato a Dio, e quella dei talenti nascosti sotto terra, che invece Federico farà fruttare.29

Passo del Nuovo Testamento

Il padrone lo chiamò e disse: «È vero quello che sento di te? Rendi conto della tua amministra­zione»,30vangelo di Luca 1 6,2.

Si presentò quello che aveva -ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque dicendo: «Signore, mi desti cinque talenti. Ecco, ne ho guadagnati altri cinque»,1 1 vangelo di Matteo 25,20.

Proemio

Affinché le loro mani possano rendere buon conto dell'ammi­nistrazione loro affidata [ 18]

volendo rendere raddoppiati al Dio vivente i talenti affidatici [2 1 ]

2 9 I l talento è una moneta. I l padrone n e distribuisce diverse quantità a i suoi servi. Due ne guadagnano altrettanti. Il terzo, che aveva ricevuto un solo talento, lo restituisce dopo averlo nascosto sotto terra per paura del padrone. Questi, do­po averlo rimproverato, gli sottrae il talento. Tra le altre citazioni dalle Sacre Scritture, la più rilevante è la ripresa a [15] del libro di Qoelet (o Ecclesiaste) 7 ,3 0: Ecce solummodo hoc inveni, quod /ecerit Deus hominem rectum et ipse se in­finitis miscuerit quaestionibus.

10 Et vocavit illum et ait illi: <<Quid hoc audio de te? Redde rationem vilicationis tuae».

31 Et accedens qui quinque talenta acceperat obtulit alia quinque talenta dicens: <<Domine, quinque talenta tradidisti mihz; ecce alia quinque superlucratus sum».

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Sono derivate dalla Bibbia anche la definizione di Dio come rex re­gum et princeps principum [ 18] , presente nella I lettera di Paolo a Timoteo (6, 15 : Rex regum et dominus dominantium), e nell'Apo­calisse (per esempio 17 , 14: Dominus dominorum est et rex regum, espressione a sua volta ripresa da vari passi dell'Antico Testamen­to) ; e la metafora del sacrificio del vitello («decidiamo di offrire in sacrificio le nostre labbra», mactare disponimus vitulum labiorum [22] ) . Secondo Federico II, provvedere alla legislazione della Sici­lia equivale a offrire un vitello a Dio (il vitulum labiorum si riferi­sce forse alle labbra di chi dice la legge) , al fine di ottenere il per­dono dei peccati, come fece Aronne per ordine del fratello Mosè (la vicenda è raccontata nel Levitico, 9 ,1 -8) .

Dunque Federico è presentato come un uomo che conforma il suo operato alla parola di Dio, svolgendo lo specifico compito che gli è stato affidato (la sua villicatio) . Come ogni cristiano, egli ri­sponde alla propria "vocazione" , è infatti stato chiamato (vocatus) al vertice dell'impero e dotato da Gesù Cristo di particolari talen­ti, ovvero di domìni e di virtù che deve far fruttare, come fanno i servi buoni della parabola che non nascondono le monete sotto terra, ma le investono e le presentano duplicate al padrone: «Noi dunque, che solo la potenza della mano di Dio, al di là di ogni umana speranza, sublimò ai fastigi dell'impero romano e degli al­tri regni, volendo rendere raddoppiati al Dio vivente i talenti affi­datici, per reverenza di Gesù Cristo, dal quale ricevemmo tutto quello che abbiamo . . . » [2 1 ] .

Rinviano alle Sacre Scritture anche altre parti del Proemio, pur senza citazioni letterali: ci riferiamo, oltre che ovviamente al rac­conto della creazione, al concetto della necessità del potere tempo­rale. Ne aveva parlato Paolo di Tarso nella sua Lettera ai Romani, 1 3 , 1 : «Ciascuno si sottometta alle autorità costituite. Non c'è infat­ti autorità se non da Dio, e le autorità attuali sono stabilite da Dio». Paolo sintetizzava il suo pensiero in una frase lapidaria: Necessitate subditi estate ( 1 3 ,5 «è necessario sottomettersi») e concludeva esor­tando a dare a ciascuno ciò che gli era dovuto, dunque a pagare le tasse all'autorità: «Date a ciascuno ciò che gli è dovuto, a chi l'im­posta, l'imposta, a chi il tributo il tributo» ( 13 ,7, Reddite ergo om­nibus debita, cui tributum tributum, cui vectigal vectigal) . Con que­ste parole Paolo spiegava un'importante affermazione di Gesù, narrata nel vangelo di Matteo. Ai farisei che gli chiesero se biso-

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Le fonti e i metodi

gnasse pagare le tasse, Gesù mostrò il profilo dell'imperatore im­presso su una moneta e disse: «Date dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Matteo 22,2 1 : Reddite ergo quae sunt Caesaris Caesari et quae sunt Dei Dea) .

Il Proemio si colloca in una lunghissima tradizione di riflessioni su questi due passi del Nuovo Testamento, il Reddite Caesari di Gesù e il Necessitate subditi estate di Paolo. Il primo passo impli­ca la separazione, concettuale e funzionale, tra regnum e sacerdo­tium, affermata da Cristo stesso, una separazione che non è pre­sente nei testi sacri delle altre due grandi religioni monoteiste, ebraismo e islam. Il secondo passo afferma il fondamento divino di ogni autorità temporale, a cominciare dall'impero romano, che al tempo di Paolo (I d.C.) era del tutto estraneo al cristianesimo.

La funzione politica (regnum) e quella religiosa (sacerdotium) so­no dunque separate ma, al tempo stesso, connesse. Quando il cri­stianesimo, nel corso del IV secolo (con gli imperatori Costantino e Teodosio32) divenne la religione dell'impero, la connessione si fece molto più stretta, perché impero e religione, entrambi universali, erano chiamati a collaborare.

Nel diploma del 962, Ottone I si diceva imperatore per volontà della divina provvidenza ( § 3 .4 , divinae dispositionis providentiae imperator augustus [2] ) , sublimato (lo stesso verbo del Proemio, qui a [2 1 ] ) al vertice dell'impero per prendersi cura del vantaggio di tutti, ma in particolare delle chiese di Dio (§ 3 .4 , ut omnium, maxime ecclesiarum Dei utilitatibus consulamus [3 ] ) . Federico af­ferma che i principes gentium sono stati creati dalla provvidenza divina (divina provisio [ 16] ) e cita come primo loro dovere la dife­sa della Chiesa dai suoi nemici, specie gli eretici che ne imbrattano la fede [ 18 - 19] .

La continuità della concezione imperiale da Ottone e Federico n

e la derivazione dalla comune tradizione cristiana sono evidenti, ma altrettanto evidenti sono le forti differenze. Al tempo di Otto­ne regnum e sacerdotium si sovrapponevano e si confondevano. Il problema del conflitto con il papato non si poneva in termini

32 Nel 3 1 3 Costantino, insieme con Licinio, mise fine alle persecuzioni contro il cristianesimo dichiarandone la liceità. Successivamente protesse le chiese e in­disse il primo concilio ecumenico (Nicea, 325 ) . Teodosio dichiarò il cristianesimo religione di Stato e proibì i culti pagani (editto di Tessalonica, 3 80).

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drammatici: il papa era a capo di una delle chiese che Ottone pro­teggeva (si noti il plurale nel passo appena citato) . Certo, rinno­vando un rapporto che era cominciato con i re franchi Pipino il Breve (752-768) e Carlo Magno (768-814) , fondatore dell'impero, il papa romano restava l'interlocutore più importante di Ottone, che del resto incoronò, ma non interferiva nella quotidiana colla­borazione tra il potere pubblico, i vescovi e gli abati.

Al tempo di Federico il papa romano era diventato il vertice as­soluto dell'organizzazione ecclesiastica, l 'incarnazione vivente del sacerdotium: non esistevano più singole chiese, ma un'unica sacro­sancta ecclesia [ 18] , che era la Chiesa cattolica romana, organizza­ta gerarchicamente sotto l'autorità del pontefice, infallibile perché santa, dunque custode dell'ortodossia (la Chiesa è Christian e reli­gionis mater [ 18] ) e feroce persecutrice dell'eresia.ll Inoltre, il pa­pa aspirava, per la superiorità della propria funzione, a indirizzare le azioni dell'imperatore (perfino a condizionarne la scelta) e in generale di tutti i principes gentium, i sovrani dei singoli stati eu­ropei che, a differenza del tempo di Ottone, erano ormai una realtà ineludibile nonostante la teorica universalità dell'impero (Federico era al tempo stesso imperator e rex, come si dice nel Proemio a [2 1 ] ) .

I papi teocratici o ierocratici,>4 Gregorio VII ( 1073 - 1085 ) e so­prattutto Innocenza III ( 1 198- 12 16) e Innocenza IV ( 1248- 1254) non negarono la separazione tra regnum e sacerdotium. Tuttavia, nel corso del tempo e in conseguenza dello scontro con gli impe­ratori svevi, interpretarono la derivazione del potere temporale da Dio affermata nella lettera di Paolo ai Romani come dipendenza dei principi dal papa, ritenuto il sostituto di Cristo in terra (vica­rius Christi) . Innocenza III, tutore di Federico II, si qualificò per primo in questo modo: sostituto di Cristo, non più di Pietro, il

H Tra Xli e Xlll secolo si diffusero forme innovative di spiritualità, alcune delle quali furono aspramente perseguitate dalla Chiesa. La lotta all'eresia divenne un aspetto importante dell'azione papale in tutto l'Occidente. I principi secolari era­no chiamati, anzi obbligati a collaborare, per esempio eseguendo le sentenze dei tribunali dell'Inquisizione, fondati ai primi del Duecento.

34 Quelli cioè che sostenevano che il mondo dovesse essere governato da Dio (teocrazia), o, meglio, dal sacerdos che lo rappresentava (ierocrazia) . In greco, theòs vuoi dire "Dio" e hieròs "sacro, sacerdotale" .

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Le /o n ti e i metodi

fondatore della chiesa romana. All'affermazione teorica corrispo­se, al tempo di questo pontefice, l 'effettivo condizionamento di tutta la politica europea.

La reazione a tale egemonia papale non poteva essere la " laiciz­zazione" del potere temporale, che era al di là degli orizzonti men­tali dell'epoca, ma al contrario la sua accentuata sacralizzazione. Il Proemio ne è la dimostrazione: parole e concetti presi dalla Bibbia sono in esso utilizzati per affermare il diretto collegamento dell'im­peratore e re con Dio. Anche lui, soprattutto lui è il vicarius Christi, è colui che ha diritto di vita e di morte su tutti i suoi sudditi. Que­st'ultima affermazione è fatta mediante una citazione letterale di Seneca/5 inserita però in un contesto che ne annulla la carica, per così dire, assolutistica, perché i principi secolari non sono sciolti da qualsiasi vincolo, ma stabiliscono «quale destino, rango e condizio­ne dovesse avere ciascuno» soltanto perché sono «esecutori in cer­to modo delle decisioni divine» (qui vite necisque arbitri gentibus qualem quisque /ortunam, sortem statumque haberet, velud executo­res quodammodo divine sententie stabilirent [ 17 ] ) .

I l Proemio non ricorre soltanto alle Sacre Scritture e alla lettera­tura latina, ma agli scritti degli stessi sostenitori della superiorità papale, e a documenti emanati dai papi, come, per esempio, una lettera di papa Onorio III, contemporaneo di Federico. La lettera era diretta ai nobili di Castiglia ( 12 18) , esortati a impegnarsi per la liberazione del loro re, Ferdinando III, e a obbedire alla regina ma­dre. Onorio, che cita anche il passo evangelico del «Date a Cesa­re», afferma la derivazione del potere temporale da Dio e la sua necessità: i principi sono stati stabiliti da Dio per reprimere la li­centia scelerum (vedi [ 17 ] ) e per assicurare la pace e la giustizia: es­si giovano agli uomini distribuendo pace e giustizia (pacis et iusti­tie copiam ministrando: vedi [22] ) . La lettera di Onorio si trova an­tologizzata, per così dire, nella raccolta epistolare del cardinale Tommaso di Capua (il principale diplomatico pontificio degli an­ni 12 16-39), dal quale fu forse copiata in una raccolta di Pier del­le Vigne, il celebre collaboratore di Federico II che contribuì alla

" Seneca, De clementia, I, 2: Ego vitae necisque gentibus arbiter; qualem quis­que sortem statumque habeat, in mea manu positum est. Anche l'uso di un'e­spressione di Lucrezio (machina mundi [2] , cfr. De rerum natura, v, 96) non si­gnifica adesione al meccanicismo di questo autore.

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Medioevo: istruzioni per l'uso

stesura del Liber Augustalis. Per queste vie era lo stesso papato a fornire argomenti al suo avversario.

Ernst Kantorowicz, studioso di Federico n e della dottrina della regalità, ha enfatizzato la novità espressa in un passo del Proemio: «Così per la stessa necessità contingente, non meno che per ispi­razione della provvidenza divina, furono creati i principi secolari» [ 16] . Il potere temporale esiste non solo per decisione della prov­videnza divina, ma per necessitas rerum, concetto presente anche nella lettera di Onorio. Esso deriva, indirettamente, da Aristotele, come molti altri concetti e procedimenti logici del Proemio (l'uo­mo che vive nella sfera sublunare [ 4 ] , la necessità che tutto il crea­to scompaia a seguito della sua scomparsa [ 1 1 ] ecc. ) , i quali pos­sono essere ricollegati alle opere di alcuni pensatori del xn secolo (prima che il pensiero aristotelico si diffondesse per opera di Tom­maso d'Aquino, nella seconda metà del secolo xm) . Kantorowicz ne ricavò un'esaltazione della personalità straordinaria di Federi­co, della sua immediata adesione al reale, della sua sublime classi­cità, secondo un'interpretazione molto suggestiva, che non è però condivisa da tutti gli studiosi.

Riprendiamo il paragone con i tempi di Ottone. Rispetto al pro­posito generico di operare per il vantaggio di tutti, espresso nell'a­renga del diploma del 962 , il Proemio presenta una differenza enorme. Sul piano concreto, infatti, Federico esegue la volontà di­vina e mette a frutto i suoi talenti «osservando la giustizia e fon­dando le leggi» (colendo iustitiam et iura condendo [22] ) . La giu­stizia e la legge sono ora al centro dell'attività di governo. Assicu­rare la giustizia è infatti la funzione precipua del potere tempora­le. Fondare le leggi è suo attributo esclusivo. I secoli XI-XIII segna­no una svolta straordinaria nella storia del pensiero e delle istitu­zioni occidentali non soltanto per la trasformazione della Chiesa a cominciare dal papato di Gregorio VII (primato del papato roma­no e progetto ierocratico) , ma anche per la rinascita degli studi del diritto, cioè del diritto romano così come tramandato dal Corpus iuris civilis dell'imperatore Giustiniano.36

Nel Proemio e in tutte le costituzioni del Liber Augustalis si ma­nifesta una chiara concezione romanistica del potere pubblico: il

36 Il Corpus iuris civilis (Corpo del diritto civile) fu pubblicato tra il 529 e il 533.

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Le fonti e i metodi

princeps (già questa definizione è derivata dal diritto romano) è il fondatore delle leggi ( iura) . La promulgazione di un unico corpo legislativo, che ingloba le leggi dei precedenti re di Sicilia e dello stesso Federico («Abbiamo ordinato che in queste fossero incluse tutte le disposizioni promulgate dai precedenti re di Sicilia e da noi» [25] ) è di per sé un'imitazione di Giustiniano, che infatti è ri­chiamato nell'intitolazione: Felix Pius Vietar et Triumphator [ l ] si definì tra l 'altro Giustiniano nel Proemio delle Istituzioni, una del­le parti del Corpus, e in altri suoi provvedimenti. Imita Giustinia­no anche l'indicazione dei regni attraverso un aggettivo etnico, a significare il dominio rispettivo (Ytalicus Siculus Ierosolomitanus Arelatensis [ 1 ] : il titolo di re di Gerusalemme era solo nominale, quello di Arelatensis si riferiva al regno di Borgogna o Arles, unito all'impero come il regno italico) .

Benché i l Liber Augustalis non sia certo assimilabile a i codici (penale, civile, delle procedure) oggi in vigore, pure esso è una compilazione organica, la più importante del Medioevo, organiz­zata per materie, che intendeva coprire tutti gli ambiti di compe­tenza regia. E, infatti, vennero annullate tutte le leggi e consuetu­dini precedenti che risultassero eventualmente in contrasto con le disposizioni del Liber [24] . Questo è un aspetto assai importante, perché nella tradizione germanica e altomedievale il diritto non è prodotto da un'autorità superiore, ma germina dal popolo stesso, è patrimonio di tradizioni e consuetudini preesistenti al singolo sovrano. Questa concezione tradizionale non è negata dai giuristi bassomedievali e neppure dal Liber Augustalis, che con essa fanno i conti mediante complicati procedimenti logici e pratici. Tuttavia, nel basso Medioevo i sovrani ampliarono moltissimo la loro sfera di competenza, costruendo organizzazioni pubbliche assai artico­late, regolate da norme centrali e affidate a ufficiali di nomina re­gia e a specifiche magistrature. È il massimo di razionalità e cen­tralizzazione che era possibile attuare in quel periodo: soltanto tra XVIII e XIX secolo lo Stato giungerà a porsi come unica fonte della legge, negando privilegi, esenzioni o giurisdizioni separate di indi­vidui, ceti, comunità (i nobili, il clero, singole città e territori) .

Se colorassimo in maniera diversa le riprese testuali e concettua­li dalle Sacre Scritture, dal Corpus iuris civilis, dagli autori classici come Seneca, dai teologi e filosofi, specie quelli del XII secolo, dai documenti precedenti e contemporanei delle cancellerie pontifi-

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Medroevo: istruzroniper l'uso

cie e imperiali, il Proemio ci apparirebbe come un collage multi­colore. E, in effetti, coloro che lo composero avevano imparato a scrivere per imitazione, secondo una tecnica combinatoria inven­tata nel basso Medioevo che prende il nome di ars dictaminis (tec­nica della composizione) . Quest'arte conferisce alla lingua del proemio una raffinatezza che è molto distante dal latino del diplo­ma di Ottone.37 Le raccolte di Tommaso da Capua e Pier delle Vi­gne erano appunto delle Summae dictaminis, e loro stessi erano dei dictatores, come si chiamavano gli esperti di scrittura epistolare e di oratoria pubblica.

Ciò non vuol dire assolutamente che non fosse possibile essere innovativi e originali. I materiali linguistici e concettuali a disposi­zione erano numerosi: la scelta o rielaborazione di una espressione testuale rispetto a un'altra, lo scarto del singolo autore assumeva un preciso significato.

Allo stesso modo, molte interpretazioni dei passi di Matteo (Reddite Caesari) e Paolo (Necessitate subditi estate) si erano sue­cedute dai tempi di Tertulliano e Agostino a quelli di Federico II, dal III al XIII secolo: rispetto a esse è possibile cogliere le peculia­rità delle affermazioni del Proemio.

La novità del Liber Augustalis e in generale dell'azione politica e ideologica di Federico II sono state contestate da chi ha sottoli­neato i legami con il passato, insistendo sull'aspetto "multicolo­re" del Proemio cui abbiamo accennato. Con una esagerazione di segno opposto, la figura e l 'azione di Federico II sono state tal­volta qualificate con aggettivi quali " laico" e "moderno" . Essi so­no stati usati come giudizi di valore, in opposizione a un uso ge­nerico e negativo dei loro contrari ( " clericale" e "medievale" ) . Nulla è però più lontano dal nostro concetto d i laicità quanto il Proemio del Liber Augustalis. La sacralizzazione del potere tem­porale, che è stata un punto di passaggio importante per la sepa­razione completa tra sfera politica e sfera religiosa, non pregiu­dicò una visione del mondo assolutamente intrisa di spiritualità cristiana. Il processo di secolarizzazione e laicizzazione dello Sta­to e della società, che si è realizzato molto più tardi attraverso ce­sure assai forti nella storia dell'Europa (la rivoluzione scientifica

37 Tipiche dell'ars dictaminis sono le figure retoriche come/acta considerans et considerata commendans [3] , quod . . . formaverat . . . deformare t [ 1 1 ] .

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Le fonti e i metodi

del Seicento, l'Illuminismo, la rivoluzione francese) ci allontana molto dal mondo del XIII secolo.

Il dibattito su Federico II è sempre aperto, ma certamente egli fu un personaggio di grande carisma: ispirò le sue azioni concrete al­la concezione sacra del potere temporale, all'ideale della giustizia, al proposito di rafforzare l'autorità centrale mediante una legisla­zione organica.

Il dibattito non può prescindere dall'analisi del Proemio, di cui abbiamo dato un assaggio. Per un'analisi siffatta, come abbiamo visto, è necessario ricorrere non solo alla storia politica (lo scontro con il papato) , alla storia del diritto e delle dottrine politiche, ma anche, come abbiamo visto, a molte altre discipline: lo studio del­le Sacre Scritture e delle opere dei Padri della Chiesa, la storia del­la letteratura latina, la retorica, la teologia, la storia della filosofia, la storia delle idee.

3 .7 Dante in una riunione del Comune di Firenze (la fonte amministrativa)

Il Liber fabarum n. 5 è un registro dei verbali del Comune di Fi­renze. In esso si trova traccia della partecipazione di Dante a una riunione del 19 giugno 130 1 :

[ l ] Nel Consiglio dei Cento uomini il signor capitano mise in discussio­ne i seguenti punti, alla presenza dei priori e del gonfaloniere. [2] Primo: che si presti al signor papa il servizio dei cento cavalieri per il tempo che parrà opportuno ai priori e al gonfaloniere presenti, [3] e che questo ser­vizio continui ad essere prestato dal signor Neri de' Giandonati, capita­no dei detti cavalieri, con ser Torello de' Bronci nella qualità di notaio di detto capitano, allo stipendio solito, [ 4] a condizione che detto servizio non duri oltre il primo settembre [5] e che detto denaro sia versato alla persona o alle persone indicate dai priori e dal gonfaloniere. [6] Secondo, che si versino 3000 libbre al gonfaloniere dei fanti del contado per il pagamento da farsi di alcuni fanti del contado. [7] Il signor Guidotto de' Canigiani, giudice, propose di approvare i predetti punti. [8] Dante Alighieri propose che non si deliberasse sul servizio al signor papa; in merito al secondo punto propose di approvarlo così come so­pra indicato.

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Medtoevo: istruztoni per l'uso

[9] Fatta la votazione per bossoli e ballotte, risultarono 49 voti a favo­re, 32 contrari. [ lO] Inoltre, sul secondo punto votarono a favore 80, contro l .

Testo latino

[ l ] In consilio centum virorum proposuit dominus capitaneus infra­scripta, presentibus prioribus et vexillifero: [2] primo, de servitio fa­ciendo domino pape de centum militibus pro illo tempore quo videbi­tur prioribus et vexillifero presentibus, [3 ] et quod in dicto serviti o morari debeat dominus Neri de' Giandonati, capitaneus dictorum mi­litum, et etiam ser Torello de Broncis pro notario dicti capitanei, ad so­litam rationem, [ 4] salvo quod tempus dicti servitii non ex ceda t kal. septembris, [5] dummodo dieta pecunia solvatur illi persone seu per­sonis quibus videbitur prioribus et vexillifero. [6] ltem, de solutione mm libr. facienda vexillifero peditum comitatus pro solutione facienda quibusdam peditibus comitatus. [7] D. Guidoctus de Canigianis iudex consuluit secundum propositio­nes predictas. [8] Dante Alagherii consuluit quod de servitio faciendo domino papae nichil fiat; in alia propositione consuluit secundum propositionem. [9] Factis partitis ad pissides et palloctas, placuit XLVIII! secundum propositionem; nolentes fuerunt XXXII. [ lO] Item, super secunda propositione placuit LXXX secundum propo­sitionem; nolentes fuerunt I .

Dante faceva parte del Consiglio dei Cento uomini ( Consilio cen­tum virorum: la carica era semestrale) , che quel giorno venne chia­mato a deliberare su due argomenti: la proroga di un sussidio mi­litare di 1 00 cavalieri inviati in servizio del papa, Bonifacio VIII,

contro gli Aldobrandeschi nella Toscana meridionale («che si pre­sti al signor papa il servizio dei cento cavalieri» [2] ) e il pagamen­to di un contingente di fanteria, reclutato nel contado di Firenze, per la difesa di Colle Valdelsa («che si versino 3000 libbre al gon­faloniere dei fanti del contado per il pagamento da farsi di alcuni fanti del contado» [6] ) .

La verbalizzazione della riunione avviene secondo criteri che so­no rimasti sostanzialmente immutati: esiste un ordine del giorno fatto di due propositiones, o punti (essi erano preventivamente an­nunciati a voce da banditori o commessi, ma più tardi saranno co­municati per iscritto) . In questo caso si votò a scrutinio segreto.

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Le fonti e i metodi

Furono consegnate a ciascun votante due pallottole di diverso co­lore (ballotte, palloctae, parola da cui viene il termine ballottag­gio) : una, in genere nera, valida per il sì, l 'altra, bianca, per il no. La pallottola era messa da ciascun votante in una scatoletta (bos­solo, pisside) . Tutto era verbalizzato accuratamente: la messa in votazione da parte di chi presiedeva la seduta, in questo caso il ca­pitano del popolo (dominus capitaneus [ l ] ) ; le manifestazioni di voto, fatte da Guidotto de' Canigiani (che si pronunciò per due sì) e da Dante (che propose un no e un sì) ; l'esito della votazione, separata in due parti perché due erano i punti su cui deliberare (dunque due diverse maggioranze approvarono le proposte) . I presenti con diritto di voto erano 8 1 , come si ricava dal totale: non sono stati verbalizzati i nomi di tutti, come avveniva in altri casi.

Il verbale fu redatto da un notaio che durante la seduta del Con­siglio dei Cento prese appunti su foglietti volanti o su un piccolo scartafaccio, e che poi mise tutto in bella forma nel Liber /abarum, un registro chiamato così perché le pallottole con cui si votava era­no anche dette fave (nei primi tempi si utilizzarono proprio i semi di quei legumi) . Come nei verbali del nostro tempo, di riunioni di condominio, assemblee di partito, consigli delle istituzioni più va­rie, il testo è molto sintetico e formalizzato38 e non contiene né una articolata presentazione delle proposte, né una sintesi di tutte le discussioni che si tennero. È evidente, infatti, che il capitano (che era Atto da Cornalto) , Guidotto de' Canigiani e Dante Alighieri argomentarono le rispettive posizioni, chiarendone le motivazioni, nel tentativo di convincere gli altri. Probabilmente ci furono altri interventi, ma il verbale ritiene solo gli elementi essenziali che as­sicurano legittimità alla votazione.

Tutti gli " organi collegiali" funzionavano così: i consigli delle Arti,l9 delle confraternite laiche, delle comunità religiose (conven­ti, capitoli generali) , delle diocesi (i sinodi) . È anzi nel mondo del­la Chiesa che probabilmente si svilupparono prima queste prati­che consiliari, perché la Chiesa era un'organizzazione collettiva e lo rimase anche dopo che il papato romano ne centralizzò pro-

38 Ciò non si verifica però nelle sedute parlamentari - peraltro registrate - del­le quali gli stenodattilografi trascrivono oggi ogni singola parola.

39 Le Arti o Corporazioni erano associazioni di persone che esercitavano lo stesso mestiere: mercanti, imprenditori, banchieri, artigiani, notai ecc.

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Medioevo: istruzioni per l'uso

gressivamente il governo (vedi p . 1 10) . I Comuni, come tutte le comunità territoriali (città, villaggi, gruppi di villaggi, indipenden­temente dall'eventuale grado di autonomia) , si autogovernavano mediante consigli come quello dei Cento, formati per elezione o sorteggio, con durata limitata nel tempo.

Un organo collegiale è tale perché le sue decisioni, anche se pre­se a maggioranza, valgono per tutti: sia quelli che, presenti nel col­legio, hanno votato contro (Dante, per esempio) , sia quelli che quel giorno erano assenti, ma che facevano parte del collegio, sia quelli che non ne facevano parte, ma che a quel collegio avevano delega­to i propri diritti (i cittadini di Firenze che indirettamente avevano eletto i membri del Consiglio del Cento) . Dunque un organo colle­giale, i cui membri cambiano continuamente (a Firenze i consigli e tutte le cariche comunali erano rinnovati ogni due, quattro, sei me­si) , ha un potere che prescinde dai singoli individui nel corso del tempo: esso assume decisioni che impegnano i futuri consiglieri e i futuri cittadini, anche quelli che non sono ancora nati.

Tutto ciò vale ancora oggi, ed è il fondamento di ogni organiz­zazione democratica.

I giuristi del basso Medioevo, e in particolare esperti di diritto canonico come Sinisbaldo de' Fieschi, che fu papa con il nome di Innocenza IV ( 1248- 125 1 ) , e teologi come Marsilio da Padova (morto tra il 1342 e il 1343 ) studiarono il funzionamento degli or­gani collegiali e la questione della sovranità di istituzioni collettive come il Comune, concorrendo all'elaborazione di concetti come quelli di maggioranza e di rappresentanza, che hanno per noi un grande valore, e che sono il risultato di una evoluzione cominciata nel Medioevo.

In un organo collegiale una decisione è considerata valida e le­gittima perché, all'interno di competenze prestabilire, è stata se­guita una corretta procedura: convocazione della riunione, pre­senza del numero legale, discussione e dichiarazioni di voto, scru­tinio segreto, verbalizzazione. La forma, in questo caso, è sostanza.

Perciò, in un organismo collettivo come il Comune era indispen­sabile che fossero elaborate regole di funzionamento assai analiti­che, che fosse mantenuta memoria scritta di ogni decisione e di ogni momento del processo decisionale, che fossero conservati ac­curatamente i verbali in registri pubblici accessibili a tutti, a co­minciare da quelli che sarebbero entrati in futuro a far parte del

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Le fonti e i metodi

medesimo consiglio. La partecipazione collettiva alla gestione del potere, potremmo dire la "democrazia" (anche se questa definizio­ne corrisponde a esperienze diverse nel corso del tempo) , non può che fondarsi sulla scrittura: è questa una regola che fu scoperta per la prima volta nelle città-stato greche, e che fu poi riscoperta nel Medioevo europeo. Si trattò di una riscoperta perché le istituzioni del Comune e di altre comunità medievali non derivarono in nes­sun modo dalle poleis greche, dai municipia romani, dai collegia professionali del tardo impero, come ritenevano alcuni storici otto­centeschi affascinati dall'idolo delle origini. È vero però che gli uo­mini del basso Medioevo guardarono all'antichità come modello, e infatti usarono spesso nomi antichi per le novità del loro tempo: basti pensare al nome di consoli per i primi ufficiali del Comune.40

I Comuni italiani sono stati un'esperienza straordinaria: essi hanno creato istituzioni originali, prodotto una normativa molto abbondante, dagli statuti generali (quasi delle " leggi costituziona­li" ) alle infinite regolamentazioni di molti aspetti della vita politi­ca, sociale ed economica; hanno infine elaborato accurate proce­dure di registrazione e di archiviazione le quali sono risultate così efficaci che, oggi, le città italiane conservano alcuni tra i più gran­di depositi di scritture medievali dell'Europa. Per questo motivo ci è pervenuto, nel suo registro originario, il verbale di quella riu­nione del 19 giugno 1301 , insieme con molte altre fonti ammini­strative, di varia tipologia.

Un atto amministrativo, sciolto o in registro, ha la funzione di mantenere memoria dell'attività svolta da un ufficio, una magi­stratura, un collegio. Esso non rientra quindi nella grande biparti­zione tra documenti pubblici (che emettono un ordine, fanno una concessione: vedi §§ 3 .4 e 3 .6) , e privati (che danno validità e pub­blicità a una transazione: vedi § 3 .5 ) . L'abbondanza e varietà delle fonti amministrative è direttamente proporzionale al grado di svi-

40 Nei secoli XII-XIV molti Comuni del centro e del nord Italia furono assoluta­mente indipendenti: essi furono cioè città-stato, a differenza di Comuni che, in Italia e in Europa, avevano molta autonomia, ma per concessione di una autorità superiore. Esistevano città-stato anche altrove, ma fu solo in Italia che, secondo alcuni studiosi, si può parlare di una vera e propria civiltà comunale, un fenome­no globale che attrae per il suo valore esemplare e per le straordinarie tracce che ha lasciato dietro di sé (l'arte, la cultura letteraria e giuridica, la documentazione).

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luppo delle istituzioni, che nel basso Medioevo cominciarono una crescita inarrestabile.

Grazie all 'archivio del Comune di Firenze, oggi custodito nel­l' Archivio di Stato di quella città, e agli archivi di tutti i centri con cui essa era in contatto possiamo sapere molto dell'età di Dante: per esempio quali competenze aveva il Consiglio dei Cento, come si chiamavano il capitano del popolo e gli altri personaggi citati nel verbale, a quale partito politico appartenevano, perché biso­gnava prendere quelle decisioni, perché Dante fu contrario a una delle due ecc.

Se a ciò si aggiunge che i protagonisti hanno lasciato anche ri­flessioni sulla loro esperienza (la Cronica di Dino Compagni, un mercante fiorentino che partecipò alla vita politica; la stessa Com­media, piena di riferimenti alle vicende della città) , possiamo con­cludere che, almeno per quanto riguarda la storia di alcune parti d'Europa, già da metà Duecento abbiamo così tante informazioni che la difficoltà dello storico non consiste più nel reperimento del­le fonti, ma nella selezione di quelle più significative all'interno di una massa notevole.

Il verbale fiorentino del 1301 è certo degno di considerazione in sé perché vi compare Dante, a differenza della permuta amalfitana con i suoi anonimi protagonisti ( § 3 .5 ) , ma anch'esso resta poco comprensibile se è separato dal complesso archivistico cui appar­tiene. Per reperire la notizia su Dante e valutare il significato di quella presenza bisogna conoscere le istituzioni fiorentine e gli ar­chivi che esse hanno prodotto. La storia politica deve passare per l'archivistica e la storia delle istituzioni.

Entriamo allora nello specifico dell'organizzazione comunale fiorentina: il Consiglio dei Cento era presieduto dal capitano del popolo, un ufficiale comunale che era stato introdotto nel 1250. Si dice spesso, per comodità, che le istituzioni dei Comuni italiani at­traversarono tre fasi: quella consolare (dalle origini a tutto il XII se­colo) , quella podestarile (dagli inizi del XIII secolo: il podestà, che sostituì i consoli, era uno straniero) , quella appunto di popolo (se­conda metà del XIII secolo) . Tale periodizzazione è una semplifica­zione: prima di tutto perché ogni Comune ebbe la sua storia indi­viduale, spesso molto diversa da quella degli altri, e poi perché la fase podestarile e quella di popolo si sovrapposero. Al tempo di Dante esisteva sempre il podestà, che veniva regolarmente eletto

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ogni anno e che era uno straniero. Egli divideva il potere, per così dire, con il capitano del popolo, che era l'espressione del partito­popolo, non del popolo in senso generico (tutti i fiorentini o tutti quelli che non erano nobili) . Sia il podestà che il capitano del po­polo avevano le proprie competenze giudiziarie e amministrative, il proprio " ufficio" , i propri consigli, la propria forza militare. I provvedimenti comunali dovevano spesso essere approvati dai consigli dell'uno e dell'altro.

Prima della riunione del Consiglio dei Cento, nella stessa giorna­ta del 1 9 giugno 13 0 1 , i due punti furono discussi anche nella riu­nione congiunta del Consiglio dei Cento, del Consiglio generale, speciale e delle Capitudini delle Arti, il cui verbale si trova nello stesso registro. Il Consiglio generale del capitano del popolo era composto di 25 rappresentanti per ogni sestiere, per un totale di 150 persone (Firenze era divisa in sei quartieri, detti perciò sestieri) e a esso partecipavano sempre i capi delle sette Arti maggiori (capi­tudine è il sostantivo astratto derivato da capo) . Il Consiglio spe­ciale del capitano del popolo era formato da 6 rappresentanti per ogni sestiere, per un totale di 36 persone. Anche in quell'occasione Dante fu l 'unico a proporre un voto contrario sul primo punto (l'invio dei 100 cavalieri) . La discussione dovette essere vivace, per­ché la questione fu rinviata e si approvò soltanto il secondo punto all'unanimità (il pagamento dei fanti per Colle Valdelsa: il voto fu palese, espresso alzandosi in piedi o restando seduti) .

Alle due riunioni erano presenti anche i priori (= "primi" ) delle Arti e il gonfaloniere di giustizia (presentibus prioribus et vexilli/e­ro [ 1 ] ) , che costituivano un unico organo comunale. Il priorato delle Arti era stato istituito nel 1282. Nel 1301 era costituito da sei persone, in carica per due mesi, in rappresentanza, oltre che delle Arti, di ognuno dei sestieri. Il priorato, nato in un momento di emergenza, deteneva in sostanza il massimo potere nella città, an­che se doveva tener conto di tutti i Consigli, tra cui quelli citati, e rispettare gli statuti comunali (per questo i priori parteciparono alle due riunioni) .

I l gonfaloniere d i giustizia era stato aggiunto ai priori nel 1293 . Egli fu chiamato così perché portava il vessillo (gonfalone) del partito-popolo, segno del suo potere (egli disponeva di una forza armata di cavalieri, balestrieri, fanti) , e perché vigilava sui provve­dimenti straordinari, gli "Ordinamenti di giustizia" , volti ad assi-

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Medzoevo: istruztoniper !'u_w

curare pace e giustizia alla città. Gli ordinamenti, proposti da Gia­no della Bella, uno dei priori di quel bimestre del 1293 , prevede­vano infatti l'esclusione definitiva dei nobili, definiti "magnati" (che vuol dire " grandi " , "potenti" ) da tutte le cariche comunali. Fu redatta una lista di ben 73 casate di Firenze e 74 del contado per un totale di circa 3000 persone. Una legislazione speciale, poi attenuata, consentì di punire rapidamente e con ferocia i magnati che si fossero macchiati di un delitto, colpendoli direttamente nel­le loro proprietà (che potevano essere distrutte o confiscate) e nel­le loro persone (condannate a morte o all'esilio) .

Nei priori e nel gonfaloniere di giustizia s i identificava il gover­no di Firenze, o " Signoria" . Il palazzo in cui si riunivano, e in cui dovevano obbligatoriamente abitare per tutta la durata dell'inca­rico, si chiamò perciò Palazzo della Signoria (detto anche Palazzo Vecchio: nel 1301 era ancora in costruzione) .

Anche Dante era stato priore, dal 15 giugno al 14 agosto del­l' anno prima. I priori non erano scelti dal basso, dai consigli o da altre assemblee, ma cooptati dall'alto. Due giorni prima della sca­denza del bimestre i priori uscenti si riunivano con i capi delle Ar­ti e con alcuni " saggi" e sceglievano i nuovi priori. Nel 1 301 il priorato era controllato dalla fazione cittadina detta dei Bianchi, guidata dalla famiglia Cerchi, che da qualche anno prevaleva sulla fazione awersaria dei Neri, capeggiata dalla famiglia Donati. Dan­te era persona gradita ai Cerchi: perciò era stato scelto per il prio­rato e il Consiglio dei Cento.

Il quadro è complicato, non c'è dubbio: dietro alla definizione "Comune di popolo" si cela una complessità di istituzioni che so­no occupate dall'una o dall'altra parte politica.

Allo stesso modo, l'opposizione nobiltà/popolo, presente in tut­ti i Comuni, si rivela insufficiente a descrivere l'articolazione so­ciale e politica fiorentina. I termini "nobile" e " aristocratico" , spesso usati nelle narrazioni storiche, sono in realtà generici: essi significano semplicemente i più "conosciuti" (nobili, dal latino) , i " migliori" (aristocratici, dal greco aristoi) , dunque quelli che in una società determinata e in un periodo determinato sono e sono considerati da tutti i migliori e i più importanti. Data l'enorme va­rietà delle vicende umane, tali termini hanno perciò contenuti di­versissimi: i libri di storia chiamano nobili gruppi sociali chiusi o aperti, con differenti professioni o attività preferite (esercizio delle

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armi, proprietà di terre, commerci, carriere amministrative ecc. ) , con l'obbligo o meno di dedicarsi a una attività particolare, con una maggiore o minore consapevolezza di sé ecc.

Sui nobili fiorentini, detti con un termine dell'epoca "magnati" , che furono esclusi dalla vita politica nel 1293 , s i è sviluppato un lungo dibattito storiografico: si trattava di una "classe" che fu emarginata dalla " classe" nemica, il " popolo " , i "mercanti" o "borghesia" ; oppure di un ceto politico di famiglie ricche e po­tenti, che avevano controllato in precedenza la città e che ora ve­nivano sconfitte da un gruppo più agguerrito? Lo scontro era in­somma sociale ( di " classe" ) o politico? La questione è ancora aperta.41 Certo, tra i popolani che si avvantaggiarono degli Ordi­namenti di giustizia c'erano famiglie ricchissime e assai influenti, come gli stessi Cerchi. I m agnati erano accomunati dall'avere un cavaliere in famiglia. Anche Dante ce l'aveva (era il suo antenato Cacciaguida, bisnonno di suo nonno) , ma non era assolutamente un magnate. In effetti, essere cavaliere aveva un significato diverso nel XII secolo, ai tempi di Cacciaguida, e negli anni intorno al 1300, quando la cavalleria era diventata un sinonimo di nobiltà.

A differenza nostra, chi si occupò di redigere quelle liste sapeva bene chi inserirvi: quelli che erano considerati da tutti magnati. Nelle società umane il piano della realtà (chi sono i nobili e quale è la base economica o giuridica su cui essi fondano il loro potere) si confonde sempre con quello della rappresentazione (i compor­tamenti, l'ideologia, la propaganda avversaria) . Si pensi solo a co­sa vogliano dire oggi le categorie di ricco/povero, borghese/prole­tario, libero professionista/dipendente pubblico, o quelle di "po­polo" , "gente" : esse non possono certo coprire la realtà dell'Italia contemporanea, eppure continuano a essere utilizzate nel parlare comune e hanno un effetto nel dibattito politico.

Il gruppo sociale che emarginò i magnati nel 1293 e che control­lava Firenze al tempo di Dante corrisponde ai membri delle sette Arti Maggiori: sono le Arti di giudici e notai, Calimala (importa­tori di stoffa all'ingrosso, residenti in una via così chiamata) , cam­biatori di moneta, produttori di panni di lana, mercanti di Por

41 Le due posizioni risalgono a due storici del Novecento: Gaetano Salvemini e Nicola Ottokar.

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Santa Maria (venditori di panni al minuto abitanti in un quartiere così chiamato) , medici e speziali, venditori di panni. Si tratta forse di categorie identificabili con il termine di "borghesi" ? Già le de­finizioni di " popolo" , "popolo grasso" , "grandi mercanti" sono una semplificazione, pur inevitabile.

La categoria di "borghese" (con quella speculare di proletario) e il concetto stesso di "classe" furono elaborati quasi due secoli fa da Karl Marx, dunque corrispondono a una interpretazione particola­re della storia umana, basata su un'esperienza storica determinata, quella di alcune società industriali dell'Ottocento: è un errore uti­lizzarle senz' altro ritenendole valide per tutti i periodi storici. Per questo i manuali di storia le usano soltanto dopo averle definite, oppure ricorrono ad altre espressioni. Siamo in presenza del corto circuito segnalato nel cap. l : per comprendere il passato siamo co­stretti a utilizzare definizioni ambigue, in quanto elaborate in pe­riodi e con finalità particolari. La riflessione sulla società del passa­to (l'oggetto) si traduce sempre in una messa alla prova delle cate­gorie interpretative del presente (il linguaggio del soggetto). Quan­do incontriamo definizioni moderne ( "borghesi" ) o antiche ( "ma­gnati" ) non dobbiamo dimenticare di chiederci, e di chiedere al li­bro di testo e al docente, che cosa esse vogliano dire.

Passiamo ora alle delibere di quella riunione del 19 giugno 1301 . Firenze aveva ricevuto la richiesta (scritta) di quei 100 cavalieri dal cardinale Matteo di Acquasparta, legato pontificio (suo ambascia­tore e vicario) in Toscana, Lombardia e Romagna. La città era po­liticamente guelfa, cioè vicina al papato: i ghibellini, partigiani del­l 'imperatore (che teoricamente era il sovrano del regno italico) , erano stati in buona parte espulsi da Firenze.42 Firenze era tra l'al­tro a capo della Lega guelfa della Toscana, un'alleanza di Comuni dotata di una autonoma forza militare. Non si poteva dir di no al papa, punto di riferimento di tutto il coordinamento internazio­nale guelfo, che comprendeva anche il re di Francia e gli angioini che nel 1266 avevano sottratto agli svevi il regno di Sicilia. Con­tingenti militari fiorentini affiancavano nel 1301 l'esercito angioi­no nella guerra contro gli aragonesi, che avevano occupato la Sici-

42 Esisteva un organismo, la Parte guelfa, che si occupava di vigilare sulla fede guelfa degli eletti alle cariche e ai consigli pubblici.

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lia (guerra del Vespro, dal 1282 ) . Perché Dante, membro della fa­zione dominante, si pronunciò per il no?

Nel 1301 non era in corso nessun conflitto tra papato e impero. Da oltre trent'anni, dalla fine cioè della dinastia imperiale sveva (vedi p. 1 06) , nessun re di Germania era venuto in Italia per pren­dere la corona imperiale e occuparsi della penisola. Il maggior pe­ricolo per l ' indipendenza del Comune di Firenze era costituito proprio da Bonifacio VIII, che, sostenuto dalla fazione dei Neri, in­tendeva trasformare il coordinamento guelfo in un'egemonia ef­fettiva del papato sulla Toscana. Nel settembre 1300 il cardinale di Acquasparta, lo stesso che ora chiedeva il sussidio, aveva scomu­nicato Firenze dopo aver tentato invano di pacificarla e di ottene­re la reintegrazione dei Neri. Tutti sapevano che stava per arrivare in Italia Carlo di Valois, fratello del re di Francia, assoldato dal pa­pa e destinato a una spedizione in Toscana, con tutta probabilità contro Firenze (come poi avvenne) . Insomma, la situazione era as­sai critica. Politica interna e politica esterna erano strettamente collegate: il potere dei Cerchi a Firenze, esercitato attraverso il controllo delle magistrature che si è descritto, era insidiato dai Ne­ri, rimasti in città o esuli, dal papa e dai Comuni guelfi che erano più vicini al papa. L'invio dei fanti a Colle Valdelsa, approvato an­che da Dante, significava portare almeno quel piccolo Comune dalla parte dei Bianchi, i quali potevano contare solo sull'appoggio di Pistoia e di Bologna.

Nello schieramento guelfo c'era dunque una sorda contrapposi­zione, che si giocava dentro e fuori Firenze, tra Bonifacio VIII e il governo cittadino. La maggioranza del Consiglio del 19 giugno preferì far buon viso a cattiva sorte, nella speranza di non irritare ulteriormente il pontefice, e prolungare il sussidio militare (tra l'al­tro, esso serviva per confiscare agli Aldobrandeschi feudi che era­no destinati ai nipoti del pontefice) . Eppure, il papa e il cardinale erano al centro delle manovre politiche e militari per abbattere il regime della città ! La posizione di Dante era meno ambigua, e coerente con l'attività durante il suo priorato, che non era mai sta­ta accondiscendente verso le interferenze di Bonifacio VIII nella politica interna fiorentina. Il fatto che fu proprio Dante a espri­mere l'opposizione alla richiesta prova che egli godeva di un certo rispetto nel consiglio e nella fazione. La verbalizzazione della ma­nifestazione del voto fa ipotizzare un intervento completo e arti-

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Medioevo: istruzioni per l'uso

colato, non l'espressione di generico dissenso o di perplessità. Il buon numero di voti contrari (32 a fronte di 49 a favore [8] ) pro­va che la posizione di Dante non era isolata, anche se l' opposizio­ne si dissolse nei successivi organismi chiamati a deliberare (i con­sigli del podestà) . Robert Davidsohn, storico tedesco di Firenze, ha definito Dante, con un anacronismo accettabile, «capo di una minoranza nella fazione dominante».

Le decisioni assunte l'anno prima durante il priorato e l'inter­vento del 1 9 giugno costarono cari a Dante: ai primi di novembre Carlo di Valois, nominato da Bonifacio VIII "paciere" generale del­la Toscana, consentì a tutti i Neri esiliati di rientrare in Firenze. Ne seguirono saccheggi e vendette politiche: fu insediato un nuo­vo podestà, ovviamente straniero ma alleato con i Neri, che con­dannò ingiustamente Dante prima al confino e poi a morte. I Ne­ri schiacciarono i Bianchi grazie a una legge speciale: quella che consentiva, contrariamente alla normativa precedente, un'indagi­ne d'ufficio (cioè senza preventiva denuncia) sui priori degli ultimi due anni, benché essi fossero già stati sottoposti a regolari verifi­che allo scadere del loro mandato. Uno di quei tanto sottili prove­dimenti tipici della turbinosa repubblica fiorentina allontanò per sempre Dante dalla sua amata città.43

Così funzionava la lotta politica a Firenze e in altri Comuni: le for­ze sociali (i magnati, il popolo, le Arti ) , e politiche (guelfi e ghibelli­ni, Neri e Bianchi, il partito-popolo) , si combattevano con la violen­za fisica (non si contano gli scontri armati e gli omicidi) e con la strumentalizzazione delle istituzioni, come diremmo oggi. Per con­trollare la città si creavano nuovi organi di governo che esautorava­no i vecchi (come il priorato e il gonfaloniere) , si promulgavano leg­gi speciali (quella che colpì Dante) , si perseguiva la morte civile del­l'avversario attraverso la confisca dei beni e l'esilio, oppure esclu­dendolo dalle cariche pubbliche di diritto (i magnati nel 1293 ) e di fatto (i Neri nel periodo dell'impegno politico di Dante) .

È evidente che la Firenze duecentesca non corrisponde al nostro ideale di democrazia. Tuttavia, bisogna riconoscere che nella no­stra epoca non mancano nel mondo i regimi "democratici" con ca-

43 Nel VI canto del Purgatorio Sordello da Goito rimprovera a Firenze di modi­ficare continuamente le sue leggi: «te, che fai tanto sottili l provedimenti, ch'a mezzo novembre l non giugne quel che tu d'ottobre fili» (vv. 142-144).

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Le fonti e i metodi

ratteristiche analoghe. Quello che è importante sottolineare è che, a differenza di quanto avviene oggi nelle democrazie mature, la violenza e l'instabilità delle istituzioni erano la normalità nei Co­muni italiani del XII-XIII secolo. La via d'uscita a tale condizione maturò lentamente, e in maniera diversa nei vari Comuni italiani: riduzione della violenza e stabilità istituzionale si raggiunsero me­diante il passaggio a un regime autocratico (la signoria cittadina, come i Visconti a Milano) o oligarchico (come a Venezia e a Fi­renze: una tappa importante furono proprio gli Ordinamenti di giustizia) , dunque mediante la fine del Comune come forma di go­verno collettivo !

Ma facciamo un'ultima osservazione sul nostro verbale: si noti che Dante non è qualificato dall'appellativo dominus o ser, tipico dei dottori e dei cavalieri. In effetti egli non era né l'uno né l'altro. Non aveva studiato all'università (teologia o diritto) , non era un notaio, non era un medico, anche se per accedere alle cariche po­litiche dovette iscriversi ali' arte dei medici e degli speziali (chi ven­de spezie e preparati medicinali) , non era un mercante, un "bor­ghese" (ma questo termine è inopportuno, come abbiamo detto) , né infine u n nobile, come lui stesso ammette quando richiama la poca nostra nobiltà di sangue a proposito del suo antenato Caccia­guida, che fu cavaliere (Par. XVI, 1 ) . Per estrazione sociale e per attività egli non rientrava insomma nei gruppi egemoni del Comu­ne: professionisti delle armi (nobili) , del denaro (mercanti), del di­ritto (giudici, notai) . Era un semplice cittadino, un cittadino ab­bastanza agiato per le proprietà che possedeva (terre, case) , ma non particolarmente ricco.

Grazie al Comune di popolo, anche Dante, che - pur vicino ai Bianchi - non condivideva in realtà gli interessi di nessuna delle fazioni in lotta né apparteneva alle vere élite dirigenti del Comune, poté accedere alle cariche più alte e mettere alla prova le sue ca­pacità. Si calcola che, nella fase popolare, partecipavano alla vita politica del Comune il 25 % circa della popolazione maschile (donne e stranieri erano comunque esclusi) , una percentuale mol­to alta se si pensa che prima del suffragio universale maschile (che in Italia si ebbe nel 19 1 1 ) votavano soltanto i cittadini istruiti o con un determinato reddito.

Dunque il Comune medievale, fatte le debite precisazioni, fu una democrazia.

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Medioevo: ùtruzioni per l'uso

3 .8 Il capitalismo medievale in una lettera di cambio (la fonte contabile)

Francesco Datini fu un importante mercante di Prato, morto nel 14 10. Egli merita un posto particolare nella storia dell'economia bassomedievale non solo per la vastità delle sue attività bancarie, finanziarie, commerciali, ma soprattutto perché il suo archivio, co­stituito da decine di migliaia di pezzi, ci è giunto pressoché integro (è oggi custodito nell'Archivio di Stato di Prato) . In esso si trova una lettera di piccole dimensioni, una semplice strisciolina di car­ta, che così recita:

[ l ] t Al nome di Dio, a dì 5 di febrao 1410

[2] Pagate, per questa prima lettera, a dì 16 vista, a Guirardo Catani, li­bre quatrociento otantatre, soldi dodixi, denari cinque, cioè l b. 483 , s . 12 , d. 5 barzelonesi; sono per franchi 617 , soldi 7 , denari 8 a oro, avu­ti da noi stesi, a soldi 15 denari 8 per franco. [3] Fatene buon paga­mento e ponete a conto di Bartolino di Nicolao Bartolini di Pari xi. [ 4] Cristo vi guardi. [5] Pagate a dì sedici vista.

[6] Antonio di Neve, di Monpulieri, salute.

La lettera era in origine chiusa, era stata cioè ripiegata più volte fi­no a raggiungere la forma di un piccolo rettangolo di carta bloc­cato da un sigillo di cera. In passato non si usava infatti la busta per la corrispondenza epistolare: l ' indirizzo era segnato sul retro del foglio, sulla parte esterna, come si fa ancora oggi per comuni­cazioni di rilievo giuridico (per esempio lettere raccomandate pie­gate su se stesse e spillate: in questo modo il destinatario non può negare di aver ricevuto proprio quella comunicazione) . Nella let­tera che presentiamo l'indirizzo era: «Francesco di Marcho da Prato, in Barzalona». Non ci sono altre indicazioni (via, numero civico, nazione) , superflue perché la lettera era recapitata da cor­rieri privati, al servizio dei mercanti o dei governi. Essi sapevano benissimo dove trovare il destinatario, oppure lo venivano a sa­pere facilmente sul posto. L'indirizzo è seguito da un particolare segno identificativo del mittente, Antonio di Neve. Questi scrive da Montpellier, in Linguadoca (Francia) , a Barcellona, in Catalo­gna (Spagna) , dove a ricevere la lettera non fu Francesco Datini in persona (Francesco di Marcho da Prato) , che viveva allora a Pra-

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Le fonti e i metodi

to, ma la sua azienda con sede in quella città, la compagnia Dati­ni di Barcellona. Datini aveva infatti una rete di società (compa­gnie erano dette le società commerciali e compagni i soci) sparse in città di mezza Europa: società che svolgevano attività creditizia (come banchi) e commerciale (come/andaci, parola che vuoi dire "magazzino" ) , importando ed esportando in proprio e per conto di altri.

Anche Antonio di Neve era un mercante-banchiere. La sua let­tera ha la stessa struttura di una lettera privata: come in molte scritture del Medioevo e dell'età moderna, non mancano i richia­mi alla fede: in alto, al centro del foglio, si legge l'invocazione a Dio, simbolica (la croce) e letterale (Al nome di Dio [ 1 ] ) , seguita dalla data, analogamente al diploma di Ottone I (§ 3 .4: la posizio­ne e le formule sono in sostanza le stesse) . La breve comunicazio­ne si chiude con un augurio (Cristo vi guardi [ 4] ) che per molti se­coli è stato usato nella corrispondenza epistolare, e che oggi sa­rebbe inopportuno in una lettera d'affari.

Rispetto a una lettera privata, manca l'allocuzione al destinatario (oggi sarebbe Caro . . . , Egregio . . . ) , perché questa non era una let­tera comune, come tante scritte da Antonio di Neve per affari o per ragioni personali e familiari, ma era un lettera "specializzata" , secondo l a definizione di Federigo Melis, uno dei più importanti storici economici del Novecento.

Si tratta infatti di una lettera di cambio: un documento che ren­deva possibile il trasferimento di denaro a distanza. Oggi queste funzioni sono effettuate dalle banche mediante documenti, elet­tronici e cartacei, grazie a reti informatiche cui ciascuno di noi può accedere in una certa misura mediante un bancomat, una carta di credito, una connessione al web. Il nostro sistema bancario, basa­to sul collegamento tra diversi istituti, risale proprio al Medioevo e a mercanti-banchieri come Antonio di Neve e Francesco Datini. Non esisteva infatti nulla di simile nell'antichità. In questo caso, dunque, la ricerca delle origini non è insensata (vedi § 2.6) , perché sappiamo esattamente quando (secoli XIII-XV) e dove (in Italia) nacquero la banca moderna, una " infrastruttura" indispensabile dell'economia attuale, un elemento fondamentale del capitalismo occidentale.

Ma cerchiamo di capire quale operazione venne effettuata con la lettera del 5 febbraio 14 10, che, come è subito evidente, è scritta

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Medioevo: istruzioni per l'uso

in un linguaggio tecnico, non del tutto comprensibile a una prima lettura, anche se si tratta di volgare toscano, dunque della nostra lingua italiana.

Da Montpellier Antonio di Neve spicca un ordine di pagamento a distanza (Pagate . . . a Guirardo Catani [2] ) a favore di tale Gerar­do Cattani, un mercante lucchese residente a Barcellona, benefi­ciario dell'operazione, il quale ritirerà il denaro presso il banco Da­tini di Barcellona, a cui appunto è indirizzata la lettera. La somma trasferita al Cattani per il tramite dei due banchieri, di Neve e Da­tini, è espressa in due differenti monete: la lira di Barcellona, e il franco del regno di Francia, l'una e l'altro indicati con i sottomulti­pli (libre quatrociento otantatre soldi dodixz; denari cinque . . . sono per franchi 61 7, soldi 7, denari 8 [2] ) . Ecco perché la lettera è detta di cambio: l'operazione effettuata è, in primo luogo, un cambio tra due valute (sono per) . Il tasso di cambio è infatti regolarmente in­dicato (a soldi 15 denari 8 per /ranco [2] ) ed è comprensivo dei co­sti dell'operazione, quelli che oggi si intendono sotto il termine di " commissione bancaria" . Si noti che la somma è indicata prima in lettere e poi è ripetuta per sicurezza in numeri, introdotti dal cioè: si tratta di una regola che rispettiamo anche noi, per esempio quan­do compiliamo un bollettino postale o un assegno, dove bisogna scrivere l'importo due volte, in lettere e in numeri.

L'ufficio postale che accetta il nostro bollettino e la banca che ci ha dato un libretto di assegni perché siamo titolari di un conto corrente presso di essa svolgono le stesse funzioni dei mercanti­banchieri medievali. Una banca, oltre a custodire il nostro denaro, fa da intermediaria per trasferirlo in altre parti d'Italia, oppure, mediante operazioni specifiche (bonifico bancario, pagamenti e prelievi mediante carta di credito o bancomat internazionale) , in altre parti del mondo e quindi in valute diverse dall'euro. Non è quindi Antonio di Neve a disporre da Montpellier un versamento al lucchese Cattani, ma un suo cliente, il Bartolino Bartolini di Pa­rigi citato alla fine del testo (Bartolino di Nicolao Bartolini di Parixi [3 ] ) , il quale aveva versato la somma a Antonio di Neve, come questi dichiara (avuti da noi stesi [3 ] ) . Anche Bartolini era un mer­cante: egli conosceva bene la compagnia Datini di Barcellona, per­ché vi aveva lavorato in un ruolo subalterno dal 1404 al 1406, quando si era messo in proprio.

Sono dunque quattro i soggetti di questa, come di qualsiasi let-

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Le fonti e i metodi

tera di cambio, tutti imprenditori italiani, come diremmo oggi: il datore (Bartolini) , cioè colui che versa il denaro, nella piazza di Montpellier; il prenditore o traente (Antonio di Neve) , che riceve (prende) la somma in Montpellier e scrive la lettera di cambio (trae) ; il beneficiario (Cattani) , che preleva la somma, in valuta lo­cale, a Barcellona, presso il pagatore o trattario (Datini) , cioè colui che riceve la lettera di cambio e paga il beneficiario, secondo il se­guente schema:

prima piazza (Montpellier) datore -----.. prenditore o traente l

seconda piazza (Barcellona) beneficiario ....,.._

movimento del denaro

- · - · _,. movimento della lettera di cambio

+ . pagato re o trattano

Grazie alla lettera di cambio era anche possibile mettersi in viag­gio senza portarsi appresso i contanti: in questo caso datore e be­neficiario erano la stessa persona, che versava in una località e pre­levava in un'altra.

L'operazione comportava un guadagno per gli istituti bancari, corrispondente al costo dell'operazione che abbiamo detto essere compreso nel cambio. L'indicazione a dì 1 6 vista [2] significava che la lettera doveva essere pagata 16 giorni dopo la sua ricezione (dopo che era stata vista ) . Nell'originale, a vista è aggiunto nell'in­terlineo, su a usanza (secondo il solito) depennato. Le varie piazze commerciali rispettavano infatti convenzioni che si erano create spontaneamente: tutti i mercanti sapevano qual era l 'usanza di Barcellona, diversa da quelle di altre città. Ma in questo caso, An­tonio di Neve ci ripensò e volle indicare esattamente il termine a partire dal quale bisognava cambiare la sua lettera. Forse ciò di­pendeva dall'andamento dei cambi tra le varie valute (cioè dalla "borsa valori " ) . Spesso, infatti, prima di inviare la lettera di cam­bio si prendevano informazioni, magari spedendo un'altra lettera a Barcellona.

La differenza spaziale e temporale (il pagamento avveniva in un

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Medioevo: istruzioni per l'uso

altro luogo e dopo un certo periodo di tempo) rese la lettera di cambio uno strumento assai versatile per gli usi più diversi: dunque non solo per gestire il commercio internazionale evitando il tra­sporto materiale del denaro e velocizzando le transazioni, ma anche per pagare un creditore su una piazza in cui il costo del denaro era inferiore, oppure per dilazionare la restituzione di un prestito. Tra Avignone, Barcellona, Firenze, Napoli, Venezia e tante altre località nacque, a partire dalla fine del XIV secolo, un'intensa circolazione di lettere di cambio, oltre che di merci. Circolazione commerciale e creditizia integrarono quei mercati, che divennero un unico, gran­de mercato "globale" , anche se quella precoce "globalizzazione" -quasi un'anticipazione di quella attuale - era limitata ad alcuni pro­dotti e a poche regioni, particolarmente sviluppate, dell'Europa.

Sia nell'antichità che nell'alto Medioevo c'erano individui spe­cializzati nel prestito e nel cambio delle monete (cambiavalute, banchieri) , che veniva effettuato sulla base del valore reale della moneta, cioè sulla base del metallo prezioso che essa conteneva (oro, argento) . Il sistema bancario del basso Medioevo è molto più raffinato, e per diversi motivi. I 617 franchi che Bartolini versa a Cattani (non sappiamo per quale motivo) non si spostano da Montpellier a Barcellona: dimentichiamo i mercanti che viaggiano a dorso di mulo con sacchi pieni di monete d'oro. Ormai nelle principali piazze commerciali europee avevano sede banche di di­versi operatori, in contatto tra loro come la compagnia di Antonio di Neve e quella di Datini. Il trasferimento di denaro era virtuale, esattamente come oggi, e ciò facilitava commerci e operazioni fi­nanziarie per importi molto superiori a quello delle monete effet­tivamente possedute dagli operatori.

Tutto era basato sulla fiducia reciproca: gli operatori si conosce­vano e si fidavano l'uno dell'altro, tanto da tirar fuori somme di de­naro in cambio di un foglietto di carta. Si rifletta su questo punto: la fiducia reciproca, la certezza che il proprio collega rispetterà l'im­pegno preso regge tutto il sistema, un sistema sviluppatosi lenta­mente nei mercati europei, attraverso i contatti tra gli operatori, a t­traverso crisi, fallimenti di singoli imprenditori, soluzioni tecniche come la lettera di cambio. Un sistema che si era dotato di regole da solo, non a seguito di decisioni prese da una qualche istituzione.

La lettera di cambio era infatti un documento con immediati ef­fetti giuridici, anche se non era emessa né da un'autorità pubblica

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Le fonti e i metodi

né da un notaio: ai mercanti bastava riconoscere la mano del pro­prio collega (la lettera era infatti autografa) e il suo particolare se­gno identificativo. I primi contratti di cambio (perché quest' ope­razione è, dal punto di vista giuridico, un contratto tra due parti) erano stipulati da un notaio. A partire dalla fine del XIII secolo, in­vece, i mercanti si resero autonomi: l 'enorme quantità di transa­zioni effettuate ogni giorno rendeva improponibile il ricorso al no­taio. Naturalmente, era necessario un sistema di compensazione tra chi incassava a Montpellier (Antonio di Neve) e chi pagava a Barcellona (Datini) . E infatti i mercanti elaborarono un originale e complesso sistema di registrazioni contabili, antenato della conta­bilità aziendale attuale.

Sia Antonio di Neve che la compagnia Datini di Barcellona regi­strarono l 'operazione che stiamo analizzando nei propri libri. Ab­biamo, nell'Archivio di Stato di Prato, il registro della compagnia Datini: un Libro grande nero segnato B, come veniva chiamato. Al­

la carta 1 16 verso44 dedicata a Bartolini si legge:

Bartolino di Nicholayo e conpagni, abitanti in Parigi, deono dare, a dì prosimo, dì 3 di marzo, l b. quatrocientoottantatrè s. dodici d. 5, ci tras­se per loro, da Monpulieri, Antonio di Neve in Gherardo Chattani; e per lui li demo, chome disse, a lachopo Aciettanti, a dì 6 detto, e per noi li disse la Tavola de la Città, in questo, c. 1 14,

lb . 483 , s. 12 , d. 5

Nel medesimo linguaggio formalizzato della lettera di cambio, un linguaggio in cui ogni parola, ogni singola preposizione ha un pre­ciso e inequivoco significato, viene registrato un addebito sul con­to corrente dell'azienda di Bartolino di Nicholayo e conpagnz; abi­tanti in Parigi. Essi deono dare, sono cioè debitori della somma che già conosciamo, secondo la lettera di cambio che viene citata con tutti i soggetti coinvolti: ci trasse per loro, da Monpulierz; Antonio di Neve [ = il traente] in Gherardo Chattani = [il beneficiario] .

44 Nei manoscritti e nei primi libri a stampa si numerava generalmente soltan­to la pagina di destra. Il retro (o verso) della carta non aveva un numero proprio. Per questo un manoscritto di 200 carte contiene in realtà 400 pagine. Per distin­guere le due pagine con lo stesso numero si aggiunge al numero la parola latina recto, abbreviata in r, per la pagina davanti; verso o v, per la pagina di dietro, in­dicata anche con t (= tergo) .

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Medioevo: istruzioni per l'uso

Quest'ultima frase significa: «secondo la lettera di cambio che ci inviò da Montpellier Antonio di Neve, con beneficiario Cattani». L'addebito sul conto era stato correttamente richiamato, del resto, dalla stessa lettera di cambio (ponete a conto di Bartolino [3 ] ) . In­somma, il conto corrente di Bartolini ha qui registrato un passivo, mentre nei registri di Antonio di Neve gli viene segnato un attivo, poiché lì egli ha versato la somma.

Ma la registrazione continua: per comprenderla dobbiamo tor­nare alla lettera di cambio, la quale conteneva, oltre al testo sopra riportato [ 1 -6] , le seguenti note, di differenti mani:

[7] Aciettata, di 15 febrayo 1409. [8] Io, Gherardo Chattani, sono contento che de' soprascritti danari ne faciate la volontà di Iachopo Aceptanti.

E, sul retro, al di sopra dell'indirizzo:

[9] Io, Iacopo Acettati, son contento ch'e' ditti danari date per me a 'Ndrea de' Pazi e conpagni. Chassata. [ 1 0] Prima.

Chiariamo subito che prima [ 10] significa che per sicurezza la lette­ra era stata spedita in due copie, di cui questa era la prima (anche nel testo si diceva Pagate, per questa prima lettera [ 1 ] ) . La registra­zione [7] è di mano del vicedirettore del fondaco Datini di Barcel­lona, il quale accettò la lettera. Una lettera di cambio poteva anche essere rifiutata, protestata, si diceva, con lo stesso vocabolo che si usa oggi quando una banca si rifiuta di cambiare un assegno. La compagnia Datini di Barcellona avrebbe potuto infatti rifiutare il pagamento nel caso in cui il datore o il traente non fossero stati affi­dabili, oppure nel caso in cui l'operazione non fosse stata conve­niente per ragioni di mercato. La lettera di cambio, protestata, sa­rebbe tornata indietro a Montpellier, con aggravio di spese. I prote­sti erano verbalizzati in atti notarili, che assicuravano la pubblicità.

Si noti che l 'accettazione è datata 15 febbraio 1409, mentre la lettera portava la data del 5 febbraio 14 10 . Non è un errore. La lettera ha impiegato 1 0 giorni da Montpellier a Barcellona, nel febbraio 14 10 . Il banco Datini usa la datazione secondo lo stile di Firenze, dove si faceva iniziare l'anno non il l o gennaio, ma tre mesi più tardi, nel giorno in cui il calendario liturgico stabiliva che

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Le fonti e i metodi

si fosse verificata l'incarnazione di Gesù; il suo divino concepi­mento nel grembo di Maria, cioè il 25 marzo (nove mesi esatti pri­ma della nascita, il 25 dicembre).4' Avevamo accennato ai proble­mi della cronologia medievale (pp. 93 -94) : ecco un altro esempio di quanto fossero diversi i modi di misurare il tempo. L'anno ini­ziava in momenti diversi nelle varie località dell'Europa, non sem­pre il 1 o gennaio (che pure è una data particolare del calendario li­turgico, quella della circoncisione di Gesù) . A Firenze e nel banco Datini di Barcellona il 1410 sarebbe cominciato il successivo 25 marzo, mentre fino al 24 marzo i fiorentini avrebbero continuato a datare 1409. In un documento fiorentino il 15 febbraio 1410 cor­risponde al 15 febbraio 14 1 1 del nostro calendario.

È complicato, non c'è dubbio, anche se a quel tempo tali diffe­renze non ponevano problemi, come a noi non pongono problemi le differenze di fuso orario tra le varie parti del globo. Ogni luogo aveva i suoi usi cronologici, le sue monete, le sue unità di peso e di misura, che i mercanti impararono a gestire perfettamente. Del re­sto, essi erano i principali responsabili del contatto tra ambiti ter­ritoriali, giuridici ed economici diversi. Quando si intensificarono i commerci, tutte queste differenze non furono affatto abolite, e non potevano esserlo, perché i contatti nacquero e si svilupparono spontaneamente, non per conquista politica o per accordi com­merciali.

Nell'Otto-Novecento, in una situazione tanto diversa dal Quat­trocento, la standardizzazione del calendario e delle unità di peso e di misura non è stata affatto semplice. La Russia, prima della ri­voluzione, rifiutava il calendario in uso nel resto dell'Europa, che era più avanti di dieci giorni (la rivoluzione d'ottobre si verificò in novembre) , la Gran Bretagna è rimasta a lungo fedele al sistema duodecimale (a base 12) in luogo di quello decimale.

La diversità di unità di misura coinvolgeva anche le monete. A quel tempo, infatti, le valute circolavano liberamente, anche oltre i confini delle autorità emittenti. A Barcellona si poteva pagare un prodotto in monete locali (diners de tern di rame, croats d'argento, fiorini barcellonesi d'oro) o anche in una qualsiasi altra moneta: du-

4' A Barcellona si faceva cominciare l'anno il giorno di Natale, dunque con set­te giorni di anticipo rispetto al l o gennaio, di contro al posticipo di tre mesi dei fiorentini.

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Medioevo: istruzioni per l'uso

cati veneziani, lire di Tours, provesini francesi, fiorini fiorentini. Og­gi, tranne eccezioni (le basi NATO e USA) , non si può pagare in dolla­ri se ci si trova sul territorio italiano, ma bisogna appunto cambiare la valuta statunitense in euro (fino al 2001 in lire) . I mercanti-ban­chieri convertivano tutte le monete reali in monete convenzionali, che permettevano loro di fare i conti. Le lire o libbre, i soldi e i de­nari barcellonesi indicati nella lettera di cambio come valuta in cui va pagato Gerardo Cattani sono dunque monete fittizie, immagina­rie, con rapporti fissi tra multipli e sottomultipli, secondo un sistema che risale all'età carolingia ( l lira = 20 soldi, l soldo = 20 denari) . La lira non era mai stata coniata, neppure ai tempi di Carlo Magno, quando già serviva soltanto come moneta di conto. Tutte le opera­zioni erano registrate in monete di conto, la cui corrispondenza con le monete reali cambiava nel tempo, a seconda dell'andamento del mercato (per esempio, a metà Quattrocento un croat, moneta conia­ta, valeva 15 denari di moneta di conto) . In più, ogni area usava le sue monete di conto: la Francia il franco, la Catalogna la lira. La let­tera ordinava dunque un cambio tra due monete di conto.

Rileggiamo la seconda registrazione in calce alla nostra lettera:

[8] Io, Gherardo Chattani, sono contento che de' soprascritti danari ne faciate la volontà di lachopo Aceptanti.

Gerardo Cattani scrive, probabilmente di suo pugno, che la som­ma accreditatagli dalla lettera di cambio va girata a un'altra perso­na, Jacopo Accettanti, un altro mercante. Si tratta, in assoluto, del­la prima attestazione della girata cambiaria, che consentiva di pas­sare ad altri la somma ricevuta utilizzando lo stesso titolo (cioè questo stesso documento) , come si fa oggi firmando sul retro di un assegno bancario, sotto la dicitura GIRATE. La naturalezza con cui la girata viene accettata fa pensare che era già una pratica ab­bastanza diffusa. Essa velocizzava ulteriormente i passaggi virtua­li di denaro. Anzi, i passaggi sarebbero dovuti essere tre, perché Jacopo Accettanti aveva deciso di girare a sua volta la somma a un terzo beneficiario, la compagnia fiorentina dei Pazzi, corrispon­dente a Barcellona del banco Medici di Firenze (Io, Iacopo Acetta­tz; sono contento ch'e' ditti danari date per me a 'Ndrea de' Pazi e conpagni [9] ) , se non fosse che quest'ultima operazione fu annul­lata (Chassata viene scritto, e la girata di Accettanti viene depen-

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Le fonti e i metodi

nata) . Infatti, nel citato Libro grande nero segnato B della compa­gnia Datini di Barcellona viene scritto: e per lui [Gerardo Cattani] li demo, chome disse, a Iachopo Aciettantz; a di 6 detto, e per noi li disse la Tavola de la Città. Si tratta della registrazione della sola prima girata, da Cattani a Accettanti, il quale viene pagato non dal banco Datini, ma dalla Banca pubblica di Barcellona (la Tavola de la Città) , che materialmente versa la somma, divenendo contem­poraneamente creditrice del banco Datini. La registrazione si con­clude infatti con un rinvio alla carta 1 14 del libro grande dedicata alla banca pubblica di Barcellona, dove è segnata in attivo la som­ma giunta da Montpellier (La Tavola della città de' avere: è un ac­credito, si dice de' avere invece di de' dare segnato sul conto di Bartolini) .

I l movimento finanziario è, in sintesi, il seguente.

___ Q_Q_erato�i _

Bartolini

Istituti Bancari

� Compagnia Antonio di Neve a Montpellier: riceve il denaro da Bartolini e spicca la lettera in favore di Cattani

Cattani .....:- - _ .,.._ Compagnia Datini a Barcellona:

Accettanti """"

riceve la lettera, accetta la girata di Cattani in favore di Accettanti, paga tramite la banca pubblica di Barcellona

l

• Banca pubblica di Barcellona: versa ad Accettanti l'importo

Ci si potrebbe chiedere perché tutta questa complicazione. Essa è la stessa di oggi: un sistema creditizio e commerciale maturo è ca­ratterizzato da una molteplicità di operatori e di istituti in rappor­to tra di loro e da un'estrema circolazione virtuale del denaro. Cia­scuno dei soggetti ha un conto aperto con gli altri: Cattani, che non era un abituale frequentatore di Barcellona, approfitta della lettera di cambio ricevuta su quella piazza per estinguere un debi­to che aveva con Accettanti (evitando così i costi di un altro tra-

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Medioevo: istruzioni per l'uso

sferimento finanziario) , mentre il banco Datini aveva evidente­mente un credito nei confronti del Banco pubblico di Barcellona, attraverso il quale liquida il secondo beneficiario.

A cosa serve un'informazione del genere, tra l'altro acquisita me­diante una faticosa analisi delle tecniche contabili e dello specifico linguaggio mercantile? In passato molta documentazione contabi­le, privata e pubblica, è andata dispersa o è stata addirittura di­strutta, proprio perché si riteneva non utile per la ricerca storica, generalmente interessata ai fatti politici e culturali. Singole regi­strazioni hanno talvolta attratto l'attenzione degli studiosi perché riguardavano opere d'arte pagate attraverso i banchi. L'interesse di una fonte contabile non si esaurisce però nelle eventualità di questo tipo. In primo luogo, uno studio complessivo del sistema di scrit­ture e delle tecniche di calcolo elaborate dai mercanti (libri mastri, libri-giornale, libri di cassa, lettera di cambio, partita doppia, am­mortamento - per fare solo alcuni esempi) permette di ricostruire la storia della banca, e con essa del capitalismo medievale in gene­re. La raffinatezza degli strumenti creati dai mercanti-banchieri per misurare, comparare, valutare, registrare, controllare la multiforme realtà economica che essi vivevano è sintomo di una forte raziona­lità. Sarebbe superfluo insistere qui su quanto la razionalità econo­mica sia un elemento caratteristico della civiltà occidentale.

In secondo luogo, le infinite serie di dati contenuti nelle scrittu­re contabili (che come abbiamo visto sono collegate tra loro) pos­sono essere trattate statisticamente, al fine di ricostruire la storia della produzione, del commercio, della finanza bassomedievali. A differenza di oggi, infatti, le operazioni registrate dai mercanti­banchieri contenevano la causale delle stesse, che nel nostro esem­pio manca. Veniva cioè specificato il motivo per il quale si effet­tuava un certo movimento: la merce che si comprava, il servizio che si retribuiva, il prestito che si restituiva, la spedizione com­merciale che si assicurava.

Anche altre fonti scritte bassomedievali hanno le medesime ca­ratteristiche di abbondanza e serialità, e vanno quindi utilizzate con metodi quantitativi,46 mediante operazioni di classificazione e

46 Il metodo quantitativo consiste nello sfruttamento delle fonti per la costru­zione di serie omogenee di dati numerici, con elaborazione di grafici, tabelle, sta­tistiche. Non tutte le fonti consentono un approccio quantitativo.

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Le fonti e i metodi

trattamento statistico dei dati: mi riferisco per esempio alle fonti demografiche e fiscali ( i censimenti si eseguivano sempre per ra­gioni fiscali ) .

Abbiamo visto che i soggetti coinvolti nella nostra lettera di cam­bio sono tutti mercanti-banchieri italiani, professionisti del denaro. Interviene anche una banca pubblica, gestita dall'amministrazione cittadina di Barcellona, piazza mercantile molto evoluta. Il sistema creditizio era però a disposizione anche di altri clienti, in primo luogo lo Stato, nel senso che imperatori, re e altre autorità territo­riali si rivolgevano abitualmente ai mercanti banchieri per ottenere cospicui prestiti, per trasferire il proprio denaro, in uscita (stipen­di per funzionari, acquisti di beni, condotte militari ecc.) e in en­trata (prelievi fiscali) . Per combattere contro il re di Francia, nel­l' ambito della guerra dei cent'anni, il re d'Inghilterra si fece pre­stare somme assai ingenti dai mercanti italiani, in particolare i Bar­di e i Peruzzi, che non riuscì a rimborsare. Così, nel 1 343-45 quei banchi fallirono, senza alcuna via d'uscita (non esisteva nessuna forma di wel/are state per lavoratori e aziende47 ) . Tuttavia, il siste­ma era così forte che non crollò, e furono presto individuate le soluzioni per prevenire casi analoghi, come la separazione delle sedi, che da allora ebbero ragioni sociali diverse, in modo che il fallimento di una sede (la compagnia Datini di Barcellona, società autonoma) non coinvolgesse la casa-madre Oa compagnia Datini di Prato) .

Non c'è una delle guerre scoppiate tra i l XIII e i l xv secolo ( e ol­tre, naturalmente) che non sia stata finanziata dai mercanti-ban­chieri, gli unici in grado di assicurare un servizio efficiente di pre­stiti e di trasferimenti di denaro. Non c'è un edificio monumenta­le delle città europee che non sia stato costruito grazie a loro. Que­sto si intendeva definendo il sistema bancario una " infrastruttura"

47 Oggi lo Stato condiziona in molti modi l'attività di grandi istituti finanziari e aziende pubbliche e private, intervenendo talvolta in caso di crisi o fallimento, sia perché lo Stato ha creato degli organismi di controllo e riequilibrio del mercato Oe varie autorità per la concorrenza, la Consob che controlla le società quotate in Borsa, la Banca d'Italia ecc.), sia perché nessun governo può disinteressarsi della situazione economica e del destino dei lavoratori. Si tenga presente, a sottolinare l'enorme differenza tra il mercato nel basso Medioevo e oggi, che ogni aspetto dell'attività economica è ora regolamentato da normative statali o interstatali (i contratti di lavoro, la normativa sulla sicurezza, il diritto commerciale) .

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Medioevo: istruzioni per l'uso

indispensabile, della cui importanza non ci rendiamo quasi conto perché la sua esistenza ci sembra ovvia. Invece, le molte aree re­gionali che non erano coperte dalla rete delle banche nel Medioe­vo (come le poche che non lo sono oggi nel globo terrestre) erano tagliate fuori dai grandi commerci internazionali, restando a un li­vello economico molto inferiore. I mercanti-banchieri bassome­dievali (che abbiamo definito, con termine più ampio, imprendito­ri) integrarono fortemente alcune regioni dell'Europa e del Medi­terraneo creando un "sistema-mondo" organico, in cui tutti i sog­getti erano interdipendenti, secondo la definizione di uno studio­so statunitense (lmmanuel Wallerstein) .

Il mercante-banchiere del basso Medioevo fu un innovatore non solo dal punto di vista dell'economia e della mentalità, ma anche da quello della cultura, una cultura laica che comunicava in volga­re. Nelle loro città i mercanti organizzarono proprie scuole per l'i­struzione primaria (leggere, scrivere e far di conto), mentre la for­mazione tecnica avveniva mediante il tirocinio in un'azienda, dove i figli dei mercanti cominciavano a lavorare già a 10-12 anni, ma­gari all'estero. Giovanni Boccaccio, per esempio, venne a Napoli proprio per quello che oggi definiremmo uno stage presso la ban­ca Bardi Oa stessa che fallì ) . I primi manuali di economia azienda­le e di diritto commerciale sono stati scritti dai mercanti, che rac­colsero nei libri di mercatura regole generali e dati particolari: sul­le monete, sui cambi, sulle usanze, sul fisco, sulle merci, sull'anda­mento dei mercati ecc.

La ricchezza dei mercanti-banchieri italiani ha stimolato la pro­duzione letteraria (sono tanti i manoscritti della Commedia dante­sca copiati per loro), ma soprattutto ha conformato le istituzioni politiche e l'aspetto materiale delle città comunali. Le meraviglio­se architetture, le splendide opere d'arte delle città italiane, stu­diate in tutto il mondo e ammirate da milioni di turisti, testimo­niano ancora oggi quali straordinarie ricchezze avessero accumu­lato famiglie come i Medici e i Pazzi di Firenze (che abbiamo in­contrato nella nostra lettera di cambio), quanta eccezionale capa­cità imprenditoriale essi ebbero.

Quando Dante lanciava le sue invettive contro Firenze, donna di bordello perché non accettava di sottomettersi all'autorità impe­riale, egli non comprendeva (o forse non gli interessava sapere) che i disordini politici della città, le ininterrotte lotte tra fazioni

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Le fonti e i metodi

potevano forse essere considerati un segno di decadenza morale, ma non erano certo un segno di decadenza economica. Gli scontri erano feroci perché la posta in gioco era davvero cospicua: con­trollare Firenze significava controllare il centro economico e fi­nanziario del mondo d'allora, come ben sapeva Bonifacio VIII, il quale, quando Carlo di Valois, il paciere da lui inviato a Firenze contro i Bianchi (§ 3 .7 ) , gli chiese un sussidio economico, gli ri­spose che non ce n'era assolutamente bisogno, perché lui (il pa­pa) , aveva messo Carlo «nella fonte dell'oro» ! 48

48 «Poi che messer Carlo di Valois ebbe rimesso Parte nera in Firenze, andò a Roma: e domandato danari al Papa, gli rispose che l'avea messo nella fonte del­l'oro», Dino Compagni, Cronica delle cose occorrenti ne' tempi suoi, II, 25.

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Conclusioni

Gli studenti andati male all'esame di storia medievale, alla ricerca di una giustificazione del loro insuccesso, lamentano spesso la dif­ficoltà di ricordare tanti nomi e tante date, come abbiamo osser­vato nella Premessa. Al contrario, i manuali universitari non sono affatto un accumulo di nozioni da memorizzare. Gli autori sono sempre molto attenti a evidenziare le questioni più importanti, a chiarire i punti più difficili, a fornire interpretazioni equilibrate, a distinguere tra generalizzazioni e casi particolari, né mancano i ri­ferimenti alle fonti e al dibattito storiografico. Il guaio è che lo stu­dente inesperto legge tutto di seguito, cercando semplicemente di fissarselo nella mente, senza fare le speculari operazioni di com­prensione, selezione, approfondimento (non si dimentichi il con­siglio di avere sempre a portata di mano un atlante storico e un di­zionario, meglio se del Medioevo) .

Vediamo alcuni esempi: ecco quattro brani tratti d a manuali molto diffusi nell'università, corrispondenti ad altrettanti argo­menti affrontati nel cap. 3 :

Gli effetti dell'invasione longobarda (vedi § 3 .2 )

[I duchi longobardi] , dopo la scomparsa di Alboino, vittima di una congiura (572), e del suo successore Clefi (574) rinunciarono per ben dieci anni (574-584) a darsi un nuovo re. È il periodo della cosiddetta anarchia militare, in cui le condizioni di vita della popolazione latina dovettero essere molto difficili. A tal riguardo, in verità, le fonti sono assai scarse e di ardua interpretazione, per cui gli storici che se ne sono occupati nel corso dei secoli sono pervenuti a conclusioni contrastanti [. . .] Indipendentemente dall'entità delle requisizioni e dal numero dei proprietari che furono uccisi negli anni più duri della conquista [lon­gobarda] , è certo che la popolazione romana, se non fu ridotta in schiavitù, fu nondimeno completamente privata della capacità politica,

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Medioevo: ùtruzioni per l'uso

di conseguenza non esistette altra forma di ascesa sociale che l'inseri­mento nella società e quindi nella tradizione giuridica dei dominatori. Come ha osservato Paolo Delogu, non ci fu nel regno dei Longobardi il problema dei rapporti con la popolazione romana, intesa come entità giuridicamente autonoma e dotata di propri ordinamenti (Giovanni Vitolo, p. 67 ) .

L'economia altomedievale (vedi § 3 .3 )

Durante i secoli dell'Alto Medioevo si ebbe nelle diverse regioni del­l'Occidente una profonda trasformazione delle strutture economiche ereditate dal tardo impero romano; non si trattò di una cesura radica­le, della semplice sostituzione di un modello con un altro, totalmente diverso, ma piuttosto di un complicato processo di cambiamento, che partendo dalla situazione propria del mondo antico produsse graduali mutamenti e adattamenti a un quadro che si andava complessivamen­te modificando, in campo politico, sociale, culturale. I percorsi non fu­rono uguali dappertutto [ .. . ] ; tuttavia appare possibile rintracciare al­cuni fenomeni generali, che caratterizzarono il periodo compreso, al­l'incirca, fra il v e il X secolo. [ . . . ] Le città dei vari regni in cui si fran­tumò l'Occidente altomedievale si riadattarono in forza della mutata contingenza, innanzitutto sul piano urbanistico. Di fronte a un genera­le calo demografico, che ne ridusse il numero degli abitanti, i centri ur­bani rimodellarono i propri spazi e riutilizzarono le strutture ereditate dall'età antica a seconda dei propri nuovi bisogni, concentrando le abi­tazioni in determinati quartieri, destinando a usi diversi le zone perife­riche (per esempio, come cave di materiali da costruzione o come di­scariche), ritagliando aree specifiche per le attività agricole e per l'alle­vamento anche all'interno delle mura urbane. Non ci fu nemmeno una perdita generalizzata delle funzioni svolte in passato (Claudio Azzara, pp. 1 17 e 11 9) .

Federico I I e i l Liber Augustalis (vedi § 3 .6)

Non diversamente da quanto stavano facendo altre dinastie regie eu­ropee, nel regno di Sicilia Federico [II] rafforzò il potere monarchico, dotandolo di mezzi e strumenti che in passato qualcuno ha voluto ad­dirittura interpretare quasi come un'anticipazione dello Stato moder­no, ma che rappresentavano soprattutto il tentativo di imporsi sui feu­datari del regno «con un misto di forza e di consenso, anzi più spesso

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Conclusioni

di forza che di consenso - come scrive Salvatore Tramontana [ . . . ]» . Con la collaborazione di giuristi insigni come Taddeo di Sessa e Pier delle Vigne, che divenne il suo più stretto consigliere, costruì, infatti, una legislazione unificata per tutto il regno. La conclusione di questa opera legislativa fu il Liber Augustalis [ . . . ] , un codice di leggi che, rifa­cendosi al diritto romano e alla legislazione normanna, compiva un passo decisivo per superare il diritto consuetudinario. [. . . ] Le parole con le quali si apre il Liber Augustalis meritano la nostra attenzione. Federico, risalendo fino alla creazione dell'uomo per mano di Dio, si propone come il motore di tutte le attività umane: il principe è il cen­tro, la sua funzione di governo è un dovere ispirato dalla provvidenza divina, è intorno a lui che ruotano la burocrazia, la cultura, l'economia (Gabriella Piccioni, p. 178) .

La contabilità e la banca nel basso Medioevo (vedi § 3 .8)

Nel corso del Trecento si diffusero anche nuovi sistemi di contabilità, come la «partita doppia», che separava in conti diversi le operazioni in dare e in avere, o di pagamento, come la lettera di cambio, una sorta di antenato dell'odierno assegno. Si trattava in ambedue i casi di sistemi che permettevano di gestire i commerci in modo più proficuo. Le nuo­ve esigenze commerciali portarono a un parallelo sviluppo delle atti­vità creditizie, che assunsero una posizione sempre più rilevante non solo nell'ambito dei commerci. Anche i sovrani, impegnati in continue e costose guerre, ricorsero all'aiuto dei banchieri, soprattutto quelli fio­rentini, che in poche generazioni erano riusciti a costruirsi una notevo­le base finanziaria. E furono proprio loro i protagonisti del primo, grande crollo bancario della storia: ciò accadde tra il 1342 e il 1343 , quando l 'insolvenza del re d'Inghilterra Edoardo III e di altri sovrani portò al fallimento alcune delle principali banche fiorentine del tempo (Bardi e Peruzzi) (Massimo Montanari, pp. 243 -244) .

I brani sono fra quelli che uno studente dovrebbe subito identifi­care come importanti. Nonostante le differenze di stile e di pro­getto editoriale (il volume di Azzara, per esempio, è molto più contenuto degli altri tre) , i manuali sono tutti chiari e ben costrui­ti. Ogni parola è stata attentamente soppesata dagli autori, che in poche righe hanno dovuto riassumere una bibliografia enorme. Talvolta, resta traccia di quanto sia stato doloroso rinunciare, per ragioni di spazio e di efficacia didattica, ad approfondire un de-

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Medioevo: istruzioni per l' u.w

terminato argomento: ecco che Azzara, all'inizio del capitolo de­dicato all'economia altomedievale, insiste sulla complessità e gra­dualità delle trasformazioni, di cui non può dar conto dettagliata­mente («un complicato processo di cambiamento, . . . graduali mu­tamenti e adattamenti»: la presenza del termine "complicato" , di cui ho abusato anch'io in questo volume, è significativo) . Ecco che Montanari è costretto a dare una definizione volutamente appros­simativa della lettera di cambio («una sorta di antenato dell' odier­no assegno») . La brevità e la semplificazione sono una necessità inderogabile per un manuale. Lo studente dovrebbe però consi­derare che ogni ulteriore semplificazione è impossibile, perché produce errori. Bisognerebbe evitare di dire all'esame che «la let­tera di cambio è un assegno», affermazione sbagliata.

Nessuno degli autori si sottrae al compito specifico di chi si ri­volge agli studenti: quello di dare in primo luogo una chiara inter­pretazione dei fenomeni storici considerati, nonostante l'insuffi­cienza delle fonti («le fonti sono assai scarse e di ardua interpreta­zione», Vitolo) ; l'esistenza di posizioni differenti tra gli storici («gli storici . . . sono pervenuti a conclusioni contrastanti», Vitolo; «qual­cuno ha voluto addirittura interpretare . . . », Piccinni) ; le variazioni geografiche dei fenomeni considerati («l percorsi non furono uguali dappertutto [ . . . ] ; tuttavia appare possibile rintracciare al­cuni fenomeni generali», Azzara) .

Così Vitolo conclude che con l'invasione longobarda i romani furono emarginati («la popolazione romana, se non fu ridotta in schiavitù, fu nondimeno completamente privata della capacità po­litica») . Azzara insiste sulla lenta trasformazione delle strutture economiche tra tarda antichità e alto Medioevo («non si trattò di una cesura radicale, . . . ma piuttosto di un complicato processo di cambiamento») e nega la totale decadenza delle città («Non ci fu nemmeno una perdita generalizzata delle funzioni svolte in passa­to») . Piccinni indica le due novità più rilevanti dell'azione di Fe­derico II: la legislazione ispirata al diritto romano e la concezione della sovranità («costruì . . . una legislazione unificata per tutto il re­gno . . . rifacendosi al diritto romano», «il principe è il centro, la sua funzione di governo è un dovere ispirato alla provvidenza divi­na») . Montanari sottolinea l'importanza della contabilità e delle attività creditizie gestite dai mercanti nel basso Medioevo («nuovi sistemi di contabilità . . . permettevano di gestire i commerci in m o-

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Conclusioni

do più proficuo», le «attività creditizie, . . . assunsero una posizione sempre più rilevante non solo nell'ambito dei commerci) .

Le frasi appena messe tra parentesi sono di quelle che uno stu­dente dovrebbe sottolineare durante lo studio: esse corrispondono a quanto si ricava dalle lunghe considerazioni dei paragrafi 3 .2 , 3 . 3 , 3 .6, 3 .8.

Per correttezza, ma anche per introdurre gli studenti al dibattito storiografico, l 'autore del manuale rinvia talvolta a studiosi che si sono occupati direttamente di un tal argomento (Vitolo ricorda Paolo Delogu; Piccinni cita un passo di Salvatore Tramontana) . Lo studente non deve irritarsi per questi rinvii alla bibliografia: storia e storiografia non sono completamente separabili, come ab­biamo visto. Certo, i nomi dei pur importanti studiosi non an­dranno sottolineati, ma resteranno lì a disposizione, se mai lo stu­dente avesse bisogno di ritornare al manuale come punto di par­tenza per un ulteriore approfondimento. Tutti i manuali prevedo­no indicazioni bibliografiche per questo scopo: trovare anche nel testo il nome di Delogu è in sostanza un consiglio a partire da que­sto studioso per la propria ricerca.

Più bizzarro potrà sembrare allo studente distratto il riferimento alle fonti: nelle parole di Vitolo si riconoscono i famigerati passi di Paolo Diacono (ne sono una parafrasi espressioni come «entità del­le requisizioni e [ . .. ] numero dei proprietari che furono uccisi») . I.;Historia Langobardorum è ricordata esplicitamente poco prima del passo citato. Piccinni riassume brevemente il contenuto del Proemio del Liber Augustalis. Come abbiamo visto nei paragrafi 3 .2 e 3 .6, l'Historia Langobardorum e il Proemio sono fonti assolu­tamente imprescindibili: esse sono richiamate per dare concretezza alle affermazioni fatte, per coinvolgere maggiormente il lettore.

Nonostante la chiarezza dei quattro passi, non sono pochi gli studenti che li fraintendono o semplicemente non li ricordano af­fatto. La verità è che la comprensione di questioni complesse, che mettono in gioco le categorie mentali del presente, è una opera­zione molto più difficile della semplice memorizzazione. Imparare a memoria nomi e date è rassicurante, dà l'impressione fallace di sapere qualcosa: è invece soltanto un piccolo segmento dello stu­dio. Nessun libro, inoltre, è tanto perfetto da azzerare lo sforzo di chi lo legge. Chi vuole imparare e comprendere deve infatti com­piere uno sforzo, andando oltre la meccanica lettura del manuale,

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Medioevo: istruzioni per l'uso

ricorrendo al docente o ad altri testi, altrimenti avrà solo perduto il suo tempo, anche se il voto sarà soddisfacente per circostanze fortuite.

Un giorno, a lezione, uno studente del primo anno mi ha chiesto: «La Chiesa era molto importante nel Medioevo, è vero?». La do­manda potrebbe far sorridere chi ha letto con profitto il § 3 .6 . Es­sa, in primo luogo, contiene già la risposta. In secondo luogo, mo­stra quanto sia semplificata l'immagine comune del Medioevo, an­che quando non è esplicitamente connotata in senso negativo (ve­di § 2 .7 ) . È però assai utile che uno studente faccia una domanda del genere, perché essa rivela qual è il suo punto di partenza, fatto di pregiudizi e di ingenuità di cui non è il solo responsabile, non tanto per la mancanza di "basi" non fornitegli dalle scuole supe­riori, come spesso lamentano i professori universitari, quanto per la distanza stessa che ci separa dai secoli medievali. Dunque la pri­ma risposta a quella domanda sarebbe senz' altro sì, salvo poi pre­cisare che cosa è la Chiesa oggi e che cosa era allora . . . ma allora quando? Prima o dopo Gregorio VII? E non bisognerebbe forse distinguere tra la Chiesa-istituzione e il cristianesimo come espe­rienza spirituale? A partire da quella domanda si potrebbe riper­correre tutta la storia dell'Occidente cristiano.

Il docente è sempre contento di rispondere alle domande degli studenti, anche se banali. Esse consentono di affrontare argomenti nuovi o di precisare ciò che a lui sembrava owio, ma che owio non è per lo studente o che forse il docente non è stato capace di spie­gare. Inoltre, lo studente che fa la domanda manifesta un bisogno: per questo è più disposto a sforzarsi di capire, ed è opportuno non deluderlo né perdere l'occasione di un chiarimento efficace.

In questo libro ho tentato di farmi le domande da solo (quelle degli studenti a lezione non mi bastano mai) , e di rispondere ade­rendo alla concretezza dei fatti storici, delle fonti che abbiamo a disposizione per comprenderli, dei metodi per interrogarle, delle numerose discipline che possono essere coinvolte nell'interpreta­zione di un fatto o di una fonte. Il lettore che avrà avuto la pa­zienza di leggere tutto il capitolo 3 , il più esteso di questo volume, si sarà reso conto della complessità delle risposte date. Se era alla ricerca di una semplificazione rispetto al manuale, sarà forse rima­sto deluso. Resto tuttavia convinto che sia più difficile e certa-

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Conclusioni

mente più noioso studiare la storia medievale attraverso sintesi stringatissime che attraverso approfondimenti come quelli qui presentati (ciò vale anche per le altre discipline) . Le difficoltà sog­gettive e oggettive dello studio, dovute cioè a chi studia e alla di­sciplina in sé, come si è detto nei capitoli l e 2, non possono esse­re superate che mediante un'immersione, pur parziale, nella storia e nella storiografia.

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Nota bibliografica

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Non sarà qui presentata una bibliografia ampia di tutti gli argomenti toc­cati nel testo, ma si daranno soltanto alcuni suggerimenti, riferiti a volu­mi disponibili in libreria o a saggi di facile reperimento. In essi sono for­nite indicazioni bibliografiche per approfondire lo studio. Contengono buone bibliografie anche i manuali universitari di storia medievale (per esempio quelli citati nelle Conclusioni) .

Vi sono poi opere collettive in più volumi, possedute da molte biblio­teche, che comprendono saggi ottimi, anche per le dimensioni contenu­te, su tutti gli aspetti della storia e della storiografia medievali. Essi sono:

- La storia, i grandi problemi dal Medioevo all'Età Contemporanea, diret­tori N. Tranfaglia e M. Firpo, vol. 1, 1 : Il Medioevo. I quadri generali, vol. 1 ,2 : Il Medioevo. Popoli e strutture politiche, UTET, Torino 1 986-1 988. Gli strumenti del sapere contemporaneo, vol. 1: I concetti, vol. 2: Le di­scipline, Grande Dizionario Enciclopedico UTET, Torino 1 997 [ 1985] .

- Lo spazio letterario del medioevo. Parte l : Il medioevo latino, direttori G. Cavallo, C. Leonardi, E. Menestò, 5 voll., Salerno ed. , Roma 1 992-1 998; Parte 2: Il medioevo volgare, direttori P. Boitani, M. Mancini, A. Vàrvaro, 3 voll. , Salerno ed., Roma 1 999; Parte 3 : Le culture circostan­ti, direttori M. Capaldo et al., 3 voll. , Salerno ed. , Roma 2003 . Storia d'Europa e del Mediterraneo, dir. A. Barbero, Salerno ed., Roma 2006 (edizione in corso) .

Per l a storia della storiografia s i consigliano anche: Dizionario di storia­grafia, Bruno Mondadori, Milano 1996 e Dizionario di studi culturali, a c. di M. Cometa, R. Coglitore, F. Mazzara, Meltemi, Roma 2004.

Per ricerche in rete, si parta da Reti Medievali. Iniziative on line per gli studi medievistici, http:/ /www.retimedievali.it

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• Medioevo: istruzioni per l'uso

l . Il soggetto studente e le insidie del nostro linguaggio

Per le questioni affrontate nei capitoli l e 2 conviene consultare l'agile volume di P. Corrao e P. Viola, Introduzione agli studi di storia, Donzelli, Roma 2005 (se ne utilizzi la bibliografia) . Per lo stesso scopo sono utili le voci curate da J. Le Goff nell'Enciclopedia Einaudi, raccolte nel volume Storia e memoria, Einaudi, Torino 1 982 [ 1977] .

Tra i dizionari, si segnala quello, in edizione economica, di A. Barbero e C. Frugoni, Dizionario del Medioevo, Laterza, Roma-Bari 2001 [1994] .

La definizione della storia come l a «scienza degli uomini nel tempo» si trova nel volume, un classico di assai gradevole lettura, di M. Bloch, Apo­logia della storia o Mestiere di storico, Torino, Einaudi 1998 [ l• ed. , po­stuma, 1 944] .

Consigli acuti e spiritosi per l'organizzazione dello studio, validi anche per chi non è iscritto a Giurisprudenza, sono in R. Bin, Come si studia il diritto. Una guida pratica per affrontare con successo la facoltà di Giuri­sprudenza, il Mulino, Bologna 2006.

2. L'oggetto Medioevo e la disciplina " storia medievale"

Per la storia del concetto di Medioevo e della medievistica, si vedano P. Delogu, Introduzione allo studio della storia medievale, il Mulino, Bolo­gna 1994 ; P. Cammarosano, Guida allo studio della storia medievale, La­terza, Roma-Bari 2004.

Per la periodizzazione: S. Guarracino, Le età della storia. I concetti di Antico, Medievale, Moderno e Contemporaneo, Bruno Mondadori, Mila­no 200 1 . Per la tesi Pirenne si veda il saggio di G. Petralia cit. più avanti a § 3 . 3 . Di F. Braudel si può vedere Scritti sulla storia, Mondadori, Mila­no 1 973 .

Sulla scuola storiografica delle "Annales" e in generale sul rinnova­mento della storiografia nel Novecento: Fare storia. Temi e metodi della nuova storiografia, a c. di J. Le Goff e P. Nora, Einaudi, Torino 1981 [ed. or. 1 974] .

Sugli ex fatti e in generale sull'insegnamento della storia: M. Del Trep­po, La libertà della memoria, Viella, Roma 2006 (utile anche per la sto­riografia del Novecento) .

Sui luoghi comuni relativi alla storia medievale: G . Sergi, L'idea di Me­dioevo. Tra senso comune e pratica storica, Donzelli, Roma 1998 (già primo capitolo del volume di autori vari, Storia medievale, Donzelli, Roma 1998).

Per il concetto di feudalesimo è ottimo: G. Tabacco, Feudalesimo, in Storia delle idee politiche, economiche e sociali, diretta da L. Firpo, vol. II,

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Nota bibliografica

2 : Il Medioevo, UTET, Torino 1 983 , pp. 55- 1 15 . È disponibile in libreria: G. Albertoni, L. Provero, Il feudalesimo in Italia, Carocci, Roma 2003 .

3 . 1 Le fonti

La Typologie des sources du Moyen Age occidental, con fascicoli in fran­cese e inglese, è pubblicata dall'editore Brepols di Turnhout, Belgio. Per la classificazione delle fonti si consultino P. Delogu, Introduzione allo stu­dio, cit. , pp. 99-252. P. Cammarosano, Guida allo studio, cit., pp. 109-146, ricchi di indicazioni bibliografiche (entrambi sono citati a § 2) .

Una trattazione più estesa, riferita all'Italia, è P. Cammarosano, Italia medievale. Struttura e geografia delle fonti scritte, Carocci, Roma 1998 [ l • ed. 1 99 1 ] .

È d i utile e facile lettura F. Chabod, Lezioni di metodo storico, Laterza, Roma-Bari 2000 [ 1969] , un classico sull'argomento.

Per i singoli paragrafi del capitolo 3 sono indicati, preliminarmente, i la­vori utilizzati per l'edizione e il commento delle fonti:

3 .2 Un monaco e l'invasione dei Longobardi

Il testo latino e la traduzione italiana dell'Historia Langobardorum sono tratti da Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, a cura di L. Capo, Fon­dazione Lorenzo Valla, Mondadori, Milano 1992. I brani citati sono II, 3 1 -32 e III, 16. Lidi a Capo, la cui introduzione è stata qui utilizzata, pub­blica il testo latino come ricostruito da L. Bethmann e G. Waitz, in Mo­numenta Germaniae Historica, serie Scriptores Rerum Langobardicarum et Italicarum, Hannover 1 878. Per il commento ai passi sono stati con­sultati, tra gli altri, P. Delogu, Longobardi e bizantini in Italia, in La storia. l grandi problemi dal Medioevo all'Età Contemporanea, direttori N. Tran­faglia e M. Firpo, vol. n: Il Medioevo, tomo 2: Popoli e strutture politiche, UTET, Torino 1 986, pp. 145 - 1 69 e Langobardia, a c. di S. Gasparri e P. Cammarosano, Casamassima, Udine 2006.

Nel testo si ricorda A. Manzoni, Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, a c. di I . Becherucci, Centro nazionale studi man­zoniani, Milano 2005 .

Come punto di partenza per la storia dei longobardi e in generale del­l'incontro latino-germanico si consigliano il saggio .di P. Delogu appena citato e S. Gasparri, Prima delle nazioni. Popoli, etnie, e regni fra Anti­chità e Medioevo, Carocci, Roma 1 998 [ 1997 ] .

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Medioevo: istruzioni per l'uso

Per la paleografia si veda A. Petrucci, Prima lezione di Paleogra/ia, La­terza, Roma-Bari 2002.

3 .3 Un coccio e la fine dell'età antica

Le immagini e il quadro generale delle questioni affrontate in questo pa­ragrafo sono tratti da: Roma dall'antichità al Medioevo. Archeologia e sto­ria nel Museo Nazionale Romano Crypta Balbi, a c. di M.S. Arena et al., Electa, Roma 2001 (immagini a pp. 268 e 593 ), in particolare le sezioni curate da L. Saguì; D. Manacorda, Archeologia urbana a Roma: il proget­to della Crypta Balbi, all'Insegna del Giglio, Firenze 1982 ; e soprattutto, per il deposito di VII secolo, L. Saguì, Roma, i centri privilegiati e la lun­ga durata della Tarda Antichità. Dati archeologici dal deposito di VII secolo nell'esedra della Crypta Balbi, in "Archeologia Medievale" , XXIX, 2002, pp. 7 -42 .

Nel paragrafo viene citato il volume di R. Hodges, D. Whitehouse, Mohammed, Charlemagne and the Origins o/Europe. Archaeology and the Pirenne Thesis, lthaca, New York 1983 . Ringrazio Carlo Ebanista per i consigli che mi ha dato su questo paragrafo.

Per un'introduzione alla ricerca archeologica si vedano il capitolo che ad .essa dedica P. Delogu, Introduzione allo studio della storia medievale, pp. 233 -252 (cit. al § 2 ) , e G.P. Brogiolo, D. Gelichi, Le città nell'alto me­dioevo italiano. Archeologia e storia, Laterza, Roma-Bari 1998.

Per la questione Pirenne è proficua la lettura di G. Petralia, A proposi­to dell'immortalità di «Maometto e Carlomagno» (o di Costantino), in "Storica" , l , 1 995 , pp. 37-87.

3 .4 Parma nel x secolo

Il testo è tratto da Monumenta Germaniae Historica, serie Diplomatum regum et imperatorum Germaniae, vol. I, a c. di Th. Sickel, Hannover 1 879- 1884, pp. 332-334. La traduzione italiana, modificata in alcuni pun­ti , è presa da G. Fasoli, F. Bocchi, La città medievale italiana, Sansoni, Firenze 1 973 , pp. 126- 128. Il diploma di conferma di Enrico II è sempre nei Monumenta, serie Diplomatum, vol. III, Hannover 1900- 1903 , pp. 88-90. Il cistercense F. Ughelli pubblicò il diploma di Ottone I nella sua mo­numentale opera sulle diocesi italiane (Italia sacra, 9 voll . , 1 642-1648).

Per le donazioni iure proprietario e il concetto di allodialità del potere è stato consultato G. Tabacco, I.:allodialità del potere nel Medioevo, in " Studi Medievali" , XI, 1970, pp. 565-615, ripubblicato in G. Tabacco,

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Nota bibliografica

Dai re ai signori. Forme di trasmissione del potere nel Medioevo, Bollati Boringhieri, Torino 2000, pp. 15 -66.

Di Tabacco si trova in commercio Egemonie sociali e strutture del pote­re nel Medioevo italiano, Einaudi, Torino 1979 (corrisponde al lungo sag­gio intitolato La storia politica e sociale. Dal tramonto dell'impero alle pri­me formazioni di Stati regionali, nella Storia d'Italia, vol. II, 1: Dalla cadu­ta dell'impero romano al secolo XVIII, Einaudi, Torino 1974, recentemen­te ristampata da "La Repubblica" e distribuita in edicola) .

Una chiara e sintetica trattazione dei poteri signorili è in S. Carocci, Si­gnori, castelli, feudi, in Storia medievale, Donzelli, Roma 1998, pp. 247-267 . Per la diplomatica: A. Pratesi, Genesi e /orme del documento medie­vale, J ouvence, Roma 1 987 .

3 .5 Un mulino e la società amalfitana nell'XI secolo

La permuta, tradotta in italiano da me, è edita in R. Archivio di Stato di Napoli, Codice diplomatico amalfitano, a c. di R. Filangieri di Candida, vol. I: Le pergamene di Amalfi esistenti nel R. Archivio di Stato di Napoli (dall'anno 907 a/ 1200), Morano, Napoli 1917 , pp. 61 -62. Il commento è basato su M. Del Treppo, Amalfi� una città del Mezzogiorno nei secoli IX­XIV, in M. Del Treppo, A. Leone, Amalfi· medioevale, Giannini, Napoli 1 977, pp. 2 - 175.

Un capitolo del lavoro di Del Treppo è stato riedito in un volume di maggiore circolazione: La nobiltà dalla memoria lunga: evoluzione del ce­to dirigente di Amalfi· dal IX al XIV secolo, in Forme di potere e struttura so­ciale nel Medioevo, a c. di G. Rossetti, il Mulino, Bologna 1 977 , pp. 305-3 19.

La citazione di J. Le Goff è tratta dal saggio La mentalità: una storia ambigua, nel volume Fare storia, pp. 243 -244 (cit. a § 2 ) .

Per la storia economica s i può partire da P. Malanima, Economia prein­dustriale. Mille anni: dal IX al XVIII secolo, Bruno Mondadori, Milano 1997 . Per il diritto e la storia del diritto si consiglia P. Grossi, Prima le­zione di diritto, Laterza, Roma-Bari 2003 .

3 .6 Federico Il e la distinzione tra regnum e sacerdotium

Il testo latino e il commento al Proemio sono tratti da W. Stiirner, Re­rum necessitas und divina provisio. Zur Interpretation des Prooemiums der Konstitutionen von Melfi (123 1), in "Deutsches Archiv" 39, 1983 , pp. 467-554. Stiirner ha poi curato l'edizione delle Costituzioni: Die Konsti-

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Medioevo: istruzioni per l'uso

tutionen Friedrichs 2. fur das Konigreich Sizilien, hrsg. von W. Sturner, Hahnsche Buchhandlung, Hannover 1 996. La traduzione è mia, ma in alcuni punti critici ha beneficiato della consulenza di Giancarlo Abba­monte, che ringrazio. La lettera di Onorio III è stata studiata ed edita da E. Heller, Zur Frage des kurialen Stilein/lusses in der sizilischen Kanzlei Friedrichs Il. , in "Deutsches Archiv" , 19, 1963 , pp. 434-450.

Nel testo si cita E. Kantorowicz, Federico Il imperatore, Garzanti, Mi­lano 1 998 [ed. or. 1 927 - 1 93 1 ] . La bibliografia su Federico II è così impo­nente, che si consiglia di partire dalle indicazioni presenti nei manuali o nelle opere collettive citate in apertura. Esiste un'enciclopedia specifica: Federico Il: Enciclopedia /edericiana, 2 voli. , Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 2005 .

3 .7 Dante in una riunione del Comune di Firenze

Il verbale della riunione, tradotto da me, è tratto da Codice diplomatico dantesco edito da R. Piattoli, Firenze 1 940, pp. 95-96. Per Firenze: R. Davidsohn, Storia di Firenze, 8 voli . , S ansoni, Firenze 1 95 6 - 1 968 [ 1 896- 1 927] (sul consiglio del 1 9 giugno vedi vol. III, pp. 197 - 198: qui si trova la definizione di Dante come «capo di una minoranza della fa­zione dominante») . Nel testo sono richiamate le opere di G. Salvemi­ni, Magnati e popolani in Firenze da/ 1280 al 1295, Carnesecchi, Firen­ze 1 899 e N . Ottokar, Il Comune di Firenze alla fine del dugenta, Val­lecchi, Firenze 1 926.

La bibliografia su Dante è enorme. Anche per lui esiste una specifica Enciclopedia Dantesca, diretta da U. Bosco, 6 voli. , Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 1970- 1984 . Un breve ma assai effi­cace profilo della sua vita è quello di E. Malato, nella Storia della lettera­tura italiana da lui diretta, Salerno ed., Roma 1995 , ristampata nel 2005 , con distribuzione in edicola, da " Il Sole 24 ore" (vol. I, parte n, pp. 782-807) . In libreria si trova facilmente anche G. Petrocchi, Vita di Dante, Laterza, Roma-Bari 1 993 [l• ed. 1 983 ] .

Una buona guida tematica e bibliografica alla storia dell'Italia basso­medievale è: I. Lazzarini, !;Italia degli Stati territoriali. Secoli XIII-XV, La­terza, Roma-Bari 2003 .

3 .8 Il capitalismo medievale in una lettera di cambio

La lettera, le citazioni dal registro e il loro inquadramento sono tratti da F. Melis, Documenti per la storia economica dei secoli XIll-XVI, Olschki, Fi-

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Nota bibliografica

renze 1 972 , in particolare pp. 480-481 e da F. Melis, Una girata cambiaria del 14 10 nell'Archivio Datini di Prato, in F. Melis, La banca pisana e le origini della banca moderna, a c. di M. Spallanzani, Le Monnier, Firenze 1987 , pp. 295-306. Ringrazio Mario Del Treppo per la consulenza forni­tami durante la stesura di questo paragrafo.

Di I. Wallerstein si veda Il capitalismo storico. Economia, politica e cul­tura di un sistema-mondo, Einaudi, Torino 1985 [ 1 983 ] .

Per l a storia economica s i veda sempre P. Malanima, Economia prein­dustriale, cit. a § 3 .5 . Per un quadro generale del basso Medioevo italia­no: I. Lazzarini, L'Italia degli Stati regionali, cit. a § 3 .7 .

Conclusioni

I manuali citati sono, nell'ordine: G. Vitolo, Medioevo. I caratteri origi­nali di un 'età di transizione, Sansoni, Milano 2000; C. Azzara, Le civiltà del medioevo, il Mulino, Bologna 2004; G. Piccioni, Il Medioevo, Bruno Mondadori, Milano 2004; M. Montanari, Storia medievale, Laterza, Ro­ma-Bari 2002.

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Indice dei nomi

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Accettanti, Jacopo 136, 137 Agostino d'Ippona, santo 1 14 Alari co, re dei visigoti 9, 1 1 , 12,

15 , 17 Alboino, re dei longobardi 5 3 , 54,

59, 143 Alichis 53, 54 Antonio di Neve 128, 129, 130,

1 3 1 , 1 3 3 , 134, 137 Arduino d'Ivrea 3 2 Aristotele 1 12 Aronne 108 Atto da Cornalto 17 Augusto, Gaio Giulio Cesare

Ottaviano, imperatore 66, 69 Autari, re dei longobardi 54, 55,

56, 63 Azzara, Claudio 144, 145 , 146

Balbo, Lucio Cornelio 66, 68 Bartolini, Bartolino 130, 132, 133 ,

134, 137 Becket, Thomas 24 Berengario d'Ivrea 3 6 Bethmann, Ludwig 65 Bloch, Mare 14, 25, 3 9 Boccaccio, Giovanni 45 , 140 Bolland, J ean 89 Bonifacio VIII, papa 1 16, 125, 126,

14 1 Braudel, Fernand 29 Bush, George W. 10, 13

Cacciaguida 123 , 127 Calci dio l 05 Carlo I d'Angiò, re di Sicilia 32 Carlo di Valois 125 , 126, 14 1 Carlo Magno, imperatore 9, 10,

1 1 , 13, 17 , 25, 32, 46, 48, 61 , 85 , 1 10, 136

Cattani, Gerardo 130, 13 1 , 132, 134, 136, 137

Cesare, Gaio Giulio 100, 109, 1 1 1 Clefi, re dei longobardi 5 3 , 54,

55, 143 Compagni, Dino 120, 14 1 Costantino, imperatore 20, 28,

109

Dante Alighieri 1 15 , 1 16, 1 17, 1 18, 120, 12 1 , 122, 123 , 125, 126, 127, 140

163

Datini, Francesco 128, 129, 130, 1 3 1 , 132, 133 , 134, 135

Davidsohn, Robert 126 Della Scala 24 Delogu, Paolo 144, 147 Del Treppo, Mario 99 Diocleziano, imperatore 27, 28 Du Cange, Charles Du Fresne 89

Edoardo III, re d'Inghilterra 145 Enea 59 Enrico II, imperatore 88 Euin 53

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Indice dei nomi

Febvre, Lucien 25 Federico I Barbarossa, imperatore

30, 32 , 3 3 , 85 , 106 Federico II di Svevia, imperatore

101 , 102 , 105, 106, 107 , 108, 109, 1 10, 1 1 1 , 1 12 , 1 13 , 1 14, 1 15 , 144, 145, 146

Ferdinando III, re di Castiglia 1 1 1 Filangieri, Riccardo 92

Giano della Bella 122 Gisulfo 53 Giustiniano, imperatore 27, 50,

1 12 , 1 13 Gregorio Magno, papa 60 Gregorio VII, papa 1 10, 1 12 , 148 Guglielmo, duca di Normandia 3 Guidotto de' Canigiani 1 15 , 1 17

Hayes, John W. 66, 70, 72

Innocenza III, papa 1 10 Innocenza IV, papa 1 10, 1 18

Kantorowicz, Ernst 1 12 Keller, Christof (Cellarius) 20

Le Goff, J acques l 00 Licinio, Valerio Liciniano,

imperatore 109

Mabillon, J ean 87 , 89 Manzoni, Alessandro 62, 63 Maometto 3 1 , 75 Mario, Gaio 3 9 Marsilio d a Padova 1 18 Marx, Karl 47 , 50, 124 Masane 5 3 , 54 Matteo di Acquasparta, cardinale

124 Matteo, evangelista 108, 1 14 Melis, Federigo 129

Montanari, Massimo 145 , 146 Montesquieu, Charles-Louis de

Secondat de 81 Mosè 108 Mussolini, Benito 67

Onori o III, papa 1 1 1 , 1 12 Ottokar, Nicola 123 Ottone I di Sassonia 77, 80, 83 ,

84 , 85 , 86, 87 , 88, 92, 95 , 99, 106, 109, 1 10, 1 12 , 1 14, 129

Paolo Diacono (Paolo di Warne­frid) 53 , 55, 56, 57, 58, 59, 60, 6 1 , 63 , 64, 65 , 69, 74, 76, 77, 90, 95 , 147

Paolo di Tarso, santo 108, 109, 1 10, 1 14

Papebrok, Daniel 89 Piccioni, Gabriella 145, 146, 147 Pier delle Vigne 1 14 Pipino III il Breve, re dei franchi

1 3 , 1 10 Pirenne, Henri 26, 75, 76 Platone 105

Riegel, Alois 27 Ruggero n di Altavilla, re di

Sicilia 105

164

Saguì, Lucia 7 1 , 73 Salvemini, Gaetano 123 Scaligeri 24 Secondo di Non (o di Trento) 60,

63 , 76 Seneca 1 1 1 , 1 13 Sinisbaldo de' Fieschi, vedi

Innocenza IV

Sordello da Goito 126

Tabacco, Giovanni 35, 46, 85 , 86 Taddeo di Sessa 145

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Teodosio, imperatore 1 09 Tertulliano 1 14 Tommaso da Capua 1 1 1 , 1 14 Tommaso d'Aquino 1 12 Toti, Enrico 34 Tramontana, Salvatore 145 , 147

Uberto, vescovo 77 , 85 , 86, 87 Ughelli, Ferdinando 88 Urbano II, papa 4 1

Indice dei nomi

Valla, Lorenzo 88 Verga, Giovanni 20 Vico, Giambattista 43 Vitolo, Giovanni 144, 146, 147

Waitz, Georg 65 Wallari 5 3 , 54 Wallerstein, Immanuel 140

Zaban 53 , 54

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Senatore, Francesco. Medioevo : istruzioni per l 'uso l Francesco Senatore. - [Milano] : Bruno Mondadori, [2008] . 176 p. ; 21 cm. - (Campus). ISBN 978-88-424-2052- 1 .

l . Medioevo - Storiografia 2 . Medioevo - Concetto - Storia. 940. 1 072

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