Francesco Senatore Medioevo: istruzioni per l'uso
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Francesco Senatore
Medioevo:
istruzioni per l'uso
Bruno Mondadori campus
La storia medievale è spesso percepita come disciplina "difficile". Le difficoltà esistono,
tuttavia sono diverse da quelle generalmente addotte: le troppe date, i troppi fatti, i
troppi personaggi storici. Si tratta piuttosto della naturalezza con cui il Medioevo un
po' fantasy del nostro immaginario cinematografico continuamente deforma l'oggetto
dello studio. E, ancora, le difficoltà derivano dallo sforzo di sintetizzare e semplificare,
vanificato dal fatto che il Medioevo, come civiltà caratterizzata da peculiarità specifiche,
non esiste, mentre esistono più Medioevi e più storie medievali. È perciò fondamentale
- come questo volume propone, una volta individuate le vere difficoltà - analizzare in
modo approfondito alcune fonti esemplari con lo scopo di portare l'attenzione sulla com
plessità della storia e della ricerca storica.
scritte con stile semplice e descrittivo e completate da riferimenti bibliografici essenziali,
queste "istruzioni" vogliono essere un utile sostegno per studenti e per chiunque sia
impegnato nell'insegnamento e nella divulgazione della storia medievale.
Francesco Senatore è professore associato di Storia medievale all'Università degli Studi
Federico 11 di Napoli. Si è occupato di storia politica e istituzionale dell'Italia quattrocen
tesca e di didattica della storia. Ha pubblicato, oltre a numerosi saggi in riviste e opere
collettive, le monografie uno mundo de carta. Forme e strutture della diplomazia sforzesca (Liguori, Napoli 1998) e, con F. Storti, Spazi e tempi della guerra nel Mezzogiorno aragonese. L'itinerario militare di re Ferrante (1458-1465) (Cariane, Salerno 2002).
In copertina: Ampolle per analisi, dal Tractatus de Pestilencia, National University Library, Praga,
Repubblica ceca © Getty/lmages.
€ 14,00
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Indice
l Premessa
3 l. Il soggetto studente e le insidie del nostro linguaggio
3 1 . 1 Luoghi e popoli 6 1 .2 Stati e stato 9 1 .3 La psicologia dei personaggi
13 1 .4 L'anacronismo, compagno della ricerca storica 1 6 1 .5 Per concludere: fatti e questioni
1 9 2 . L'oggetto Medioevo e la disciplina " storia medievale"
1 9 2 . 1 Che cos'è il Medioevo 2 1 2.2 La periodizzazione: problemi di ricerca e di studio 25 2.3 Periodi diversi per storie diverse 3 0 2 . 4 Geografia della storia medievale 34 2.5 La disciplina: problemi di focalizzazione 3 8 2.6 L'idolo delle origini 43 2.7 Il Medioevo come paradigma dell'antimoderno 45 2 .8 Il feudalesimo, mostro inafferrabile?
5 1 3 . Le fonti e i metodi
5 1 3 . 1 Le fonti 53 3 .2 Un monaco e l 'invasione dei longobardi
Oa fonte narrativa) 65 3 .3 Un coccio e la fine dell'età antica
(la fonte materiale) 77 3 .4 Parma nel X secolo
(la fonte documentaria: i diplomi) 90 3 .5 Un mulino amalfitano nell'xi secolo
(la fonte documentaria: il contratto notarile) 101 3 .6 Federico I I e la distinzione tra regnum e sacerdotium
Oa fonte legislativa) 1 15 3 .7 Dante in una riunione del Comune di Firenze
(la fonte amministrativa)
128 3.8 Il capitalismo medievale in una lettera di cambio (la fonte contabile)
143 Conclusioni
15 1 Nota bibliografica
1 6 1 Indice dei nomi
A Maria
Premessa
Questo libro vuole essere un sostegno per lo studente universitario alle prese con la storia medievale. Spesso questa disciplina è percepita come particolarmente " difficile" . Le difficoltà esistono, non c'è dubbio, ma sono un po' diverse da quelle che generalmente individuano gli studenti che non riescono a superare l'esame: troppe date, troppi fatti, troppi personaggi storici. Invece, la prima difficoltà è costituita proprio dal soggetto stesso dello studio, lo studente che, cercando di capire e di imparare il libro di testo, lo interpreta con categorie concettuali approssimative o inadeguate, fraintendendolo. Del resto, i chiarimenti necessari, pur presenti nei manuali, affondano veramente in un mare di informazioni indominabili. Questo è l'argomento del primo capitolo (Il soggetto studente e le insidie del nostro linguaggio).
Il secondo capitolo (L'oggetto Medioevo e la disciplina "storia medievale") affronta un secondo ordine di difficoltà per chi studia la storia medievale, connesse questa volta all'oggetto di studio, quel Medioevo così presente, come paradigma negativo, nei nostri discorsi di tutti i giorni eppure così inafferrabile. Da un lato, il Medioevo del nostro immaginario cinematografico o scolastico si sovrappone continuamente a quello narrato dal libro di testo, deformandolo. Dall'altro, per lo studente volenteroso risulta assai arduo aggrapparsi a pochi argomenti fondamentali, a presunti caratteri originali dell'epoca che gli possano servire come guida alla comprensione. In effetti il Medioevo, come civiltà caratterizzata da peculiarità specifiche, non esiste. O, meglio, come vedremo, esistono più Medioevi e più storie medievali.
Spesso si dice, a ragione, che la storia si fa con le fonti, e spesso i docenti e i libri di testo si sforzano di mettere lo studente a contatto con le fonti, per fargli gustare una storia non libresca, ma vera e palpitante di vita. Purtroppo, tali buone intenzioni possono
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Medioevo: istruzioni per l'uso
avere, sia nelle scuole che nelle università, due esiti negativi: la presentazione delle fonti consiste nella loro classificazione con rinvio ai relativi repertori, assai utile per chi si avvia alla ricerca storica, ma inadatta e noiosa per chi prepara un esame. Quando invece si pubblica integralmente o parzialmente una fonte, essa finisce per assolvere a una funzione meramente esornativa, come accade alla valanga di immagini che abbelliscono i libri scolastici o i siti web. Nel migliore dei casi la fonte conferma ciò che dice il testo, che - quello sì - deve essere letto e imparato. In effetti, la storia non si fa tanto con le fonti, quanto con la critica delle fonti, un'attività complessa e raffinata che si è sviluppata grazie al concorso di molte intelligenze nel corso di svariati secoli, in un percorso che non si può scindere dall'evoluzione della disciplina medievistica e dalla correlata riflessione metodologica. Pretendere che uno studente alle prime armi si impossessi del metodo della ricerca storica quando deve semplicemente preparare un esame è forse un po' troppo. Per questo, nel terzo capitolo (Le fonti e i metodi) , l'analisi abbastanza attenta di alcune fonti esemplari ha il solo scopo di far riflettere sulla complessità della storia e della ricerca storica, mostrando esempi concreti di quei problemi "soggettivi" e "oggettivi" dello studio della storia medievale, presentati nei primi due capitoli.
Un'ultima precisazione: questa guida è scritta in uno stile abbastanza semplice ed è priva di rinvii bibliografici puntuali perché essa vuole parlare agli studenti, non agli studiosi o aspiranti tali. Mi auguro che possa risultare interessante anche per chiunque fosse impegnato nell'insegnamento e nella divulgazione della storia medievale.
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l. Il soggetto studente e le insidie del nostro linguaggio
1 . 1 Luoghi e popoli
Apriamo un atlante storico, osserviamo la posizione e l'estensione degli stati europei dal v fino al xv secolo, o, perché no, fino ai giorni nostri. Dal regno dei franchi alla Francia di oggi, dai regni anglosassoni al Regno Unito, dal regno degli ostrogoti alla Repubblica italiana. Certo, cambiano i confini: si riducono, si ampliano, si frammentano, ma l'impressione della continuità resta. Ognuno di quegli stati, contrassegnato sulla cartina da un colore che a volte resta lo stesso per comodità del lettore, sembra agire come un organismo vivente autonomo, impegnato a difendersi o ad accrescersi nel corso di una infinità di guerre o di passaggi di dinastia.
L'impressione della continuità è del tutto sbagliata, e per molti motivi.
In primo luogo, quei nomi di stati e di popoli (Inghilterra e inglesi, Napoli e napoletani, per fare due esempi), che restano apparentemente identici nel corso di molti secoli nascondono realtà profondamente differenti. Sarebbe facile dimostrare che l'Inghilterra normanna del XII secolo era totalmente diversa da quella attuale, 1 e che, più in generale, uno stato non è un individuo, tutto sommato abbastanza uguale a se stesso nonostante le pur grandi trasformazioni che vive nel corso della vita. Eppure ... Eppure la forza delle parole è irresistibile, e dobbiamo fare molta fatica a pronunciare la parola napoletano, riferendoci al ducato bizantino
1 Nel 1066 Guglielmo, duca di Normandia (Francia) , conquistò l'Inghilterra ponendo fine ai regni preesistenti, frutto delle conquiste di angli e sassoni, popoli germanici (V sec . ) . Guglielmo, chiamato il conquistatore, fondò così il regno d'Inghilterra, dominato da una aristocrazia di lingua francese e di provenienza normanna, e abitato da popolazioni di lingua inglese.
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Medioevo: istruzioni per l'uso
del IX secolo,2 senza che nella nostra mente appaia all'istante l'immagine indelebile della Napoli di oggi, o meglio - per la maggior parte di noi - della Napoli letteraria e giornalistica. Stati e popoli vivono nella nostra immaginazione come enti dotati di una propria individualità. Come un individuo, anche uno stato e un popolo ci appaiono il prodotto della complessa interazione tra il proprio patrimonio "genetico" e i condizionamenti dell'ambiente e delle esperienze. Questo atteggiamento mentale, del tutto naturale, è un ostacolo assai grave alla conoscenza del passato, che è sempre, prima di ogni cosa, conoscenza di qualcosa che è diverso da noi e dal nostro tempo. Impariamo, o tentiamo di imparare, interminabili successioni di fatti, ognuno con la sua data, senza interrogarci sui protagonisti (stati e popoli) di quei fatti, e dando per scontato che essi siano sempre, o in gran parte, uguali a se stessi.
Ora, non c'è dubbio che qualcosa accomuni, oggi, gli inglesi, non solo nella lingua e nella comune appartenenza alla medesima comunità nazionale, ma anche nei comportamenti, nei modi di vita, nella cultura, in una parola. Questa " identità" dell'inglese certamente esiste oggi, nonostante la difficoltà che ci sarebbero a definirla (provate a chiedere a un inglese di farlo) , e certamente essa è un prodotto della storia. È però assai pericoloso studiare la storia medievale inglese con il solo scopo di rintracciare le lontanissime origini di quell'identità, risalendo il più possibile indietro, fino agli angli e ai sassoni dell'alto Medioevo appunto. Ciò si faceva soprattutto in età romantica (anche prima, in verità) , e noi, oggi, subiamo ancora il fascino, senza rendercene conto, della concezione romantica del popolo o della nazione, anche quando apriamo un atlante e, leggendo la scritta " regni anglosassoni" posizionata in corrispondenza dell'attuale Inghilterra, operiamo l 'immediata equivalenza anglosassoni= inglesi. Ecco che nasce, da solo, quel popolo-individuo sempre uguale a se stesso, protagonista scontato
2 Dopo la conquista longobarda della penisola italiana (568), Napoli e la zona circostante rimasero sotto il controllo dell'Impero bizantino, che era rappresentato localmente da un duca. A metà del IX secolo, il ducato di Napoli divenne indipendente, perché la carica di duca era controllata dalla aristocrazia locale (proprio come successe a Venezia, dove il duca divenne, per evoluzione linguistica, doge), e tale rimase fino al XII secolo, quando nacque il regno di Sicilia (comprendente il Mezzogiorno e l'isola siciliana) .
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Il soggetto studente e le instdie del nostro linguaggio
di una storia noiosa (che impariamo a fare tante cose se gli anglosassoni-inglesi restano sempre gli stessi? ) .
In secondo luogo nel Medioevo sono esistiti molti stati e popoli, e molte aggregazioni di stati e popoli che non sembrano avere corrispondenze nel nostro presente. Il nostro sguardo tende a trascurarli, per un meccanismo del tutto ovvio, perché è facile dimenticare che la storia poteva andare anche in un modo del tutto diverso, che poteva anche non esistere oggi uno stato chiamato Regno Unito (comprensivo dell'Inghilterra e di regioni come il Galles e la Scozia) , o che poteva avere confini e struttura istituzionali assai diversi (del resto, si dice che la storia non si/a con i se). Vero è che talvolta qualcuno, spinto da motivi politici, riesuma i fantasmi del passato, per rivendicare la propria "identità" oggi, per chiedere maggiore autonomia amministrativa a livello locale, o magari soltanto per organizzare un corteo in costume durante una sagra paesana. Ecco che si ricade nel primo errore: gli abitanti del Galles o della Scozia di oggi sono considerati identici ai celti del v secolo, quei celti (di cui in verità sappiamo ben poco) che non furono sottomessi dagli angli e dai sassoni dopo il dissolversi della dominazione romana. La scoperta delle proprie " radici" locali - oggi di gran moda - polemicamente contrapposte all'identità nazionale (longobardi e sanniti contro italiani, per esempio) si fonda infatti sulla stessa presunzione dei patrioti risorgimentali. Questi ultimi assumevano che l'italiano, nonostante la mancante unità politica, fosse sempre esistito, almeno a partire dal Medioevo (ma c'era chi si spingeva all'antico romano) . Gli attuali fautori del localismo, in maniera analoga, assumono, per esempio, che gli abitanti della pianura padana siano i diretti discendenti, in sostanza identici, dei longobardi (ma c'è chi si spinge fino ai celti, o meglio ai galli cisalpini sottomessi da Roma3) . Ne risulta una storia che non cambia mai nulla, perché i popoli restano sempre gli stessi, sia quando riescono a riunirsi in uno stato (l'Italia ) , sia quando non ci riescono (il Galles, la Padania).
> I romani cominciarono le loro conquiste nella pianura padana tra il 200 e il 190 a.C., quando ne conquistarono la parte orientale. Le locali popolazioni celtiche (della Gallia "cisalpina", cioè al di qua delle Alpi) furono completamente romanizzate. I longobardi, invece, non conquistarono mai tutto il settentrione d'Italia, perché i bizantini riuscirono a difendere alcune aree costiere (in particolare la laguna veneta e la Romagna orientale) .
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Medioevo: istruzioni per l'uso
La storia, per nostra fortuna (o sfortuna? ) , è molto più complessa. Popoli e stati sono il prodotto della storia, ma anche i nomi dei
popoli e degli stati sono un prodotto della storia: non sempre un popolo ha mantenuto lo stesso nome, e viceversa. Ancora più vari sono i rapporti tra i popoli e i territori in cui essi vivevano, cui hanno dato o da cui hanno ricevuto il nome. In ogni caso, studiare la storia significa comprendere tutte queste vicende, evitando le equivalenze meccaniche che sopra abbiamo indicato (anglosassoni= inglesi, longobardi= padani). I libri di testo e gli atlanti lo fanno molto bene, ma chi legge spesso non sfugge agli errori che abbiamo evidenziato.
1 .2 Stati e stato
Purtroppo, le insidie dell'atlante, e del nostro linguaggio, non sono finite qui. Se passiamo dai nomi geografici ed etnici (Inghilterra e inglesi, Napoli e napoletani) alla definizione di "stato" o a quella apparentemente più corretta di " regno" , la situazione peggiora. Da quasi un secolo gli storici insistono sulla totale diversità degli "stati" del passato rispetto a quelli attuali, tanto che alcuni negano l 'esistenza stessa di qualcosa che si possa chiamare "stato" non soltanto nell'età medievale (476- 1492) , ma anche nel corso dell'intera età moderna ( 1492- 1 8 15) .
Viene giustamente argomentato che l'unico vero stato sia quello esistito nel mondo occidentale nel corso dell'Ottocento e della prima parte del Novecento. Questo stato è dotato di caratteristiche precise: la piena sovranit-à su un �rritorio ben definito nei suoi coofini, difeso da ingerenze esterne (stati confinanti) e interne (per esempio quella ecclesiastica) , il monopolio della forza e del diritto (sono leggi solo quelle dell'autorità statale, che, attraverso appositi tribunali, giudica e condanna chi non le rispetta) , il controllo più o meno esteso delle principali risorse di interesse pubblico (mari e corsi d'acqua per esempio, il demanio insomma), un apparato burocratico stabile e indipendente da condizionamenti che non siano quelli della legge statale.4 Questo Stato, per il quale si
4 Nella seconda metà del Novecento questo modello di Stato è entrato in crisi: la piena sovranità è intaccata dall'interventismo di organizzazioni internazionali
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Il soggetto studente e le insidie del nostro linguaggio
preferisce usare la maiuscola, è un'entità astratta, che prescinde dagli individui che operano in suo nome, dall'eventuale sovrano o presidente della repubblica all'ultimo dei funzionari pubblici.
Viene osservato che gli "stati" medievali (rigorosamente da seriversi con la minuscola e al plurale) non possono essere paragonati neppure lontamente allo Stato ottocentesco, manifestazione di una determinata cultura giuridica e politica e di un'altrettanto ben individuata ideologia, quella liberale e borghese. È dunque un errore marchiano cercare nel passato i segni anticipatori dello Stato liberale, enfatizzandoli talmente da offuscare la reale natura di quelle organizzazioni, che anzi sarebbe molto meglio non chiamare neppure "stati" .
Che cos'era, per esempio, lo "stat_o" q.rolingio (VIII-IX secolo) ? Esso era amministrato d a funzionari locali, i comites (conti) , rappresentanti diretti dell'imperatore nelle circoscrizioni territoriali loro affidate, i comitatus (contee) .5 I poteri del conte possono essere riassunti nella formula, attestata dalla documentazione, di baste, via ac placito (esercito, strada e assemblea giudiziaria, in tre ablativi del latino medievale) . Il conte adunava l'esercito quando necessario, controllando attraverso suoi emissari che tutti gli uomini liberi della sua circoscrizione obbedissero alla chiamata alle armi; curava la manutenzione delle strade e delle fortificazioni pubbliche; presiedeva il placitum, l 'udienza in cui venivano giudicati i colpevoli di un reato. Per mantenere se stesso e i suoi collaboratori, oltre che per le attività suddette, il comes costringeva gli uomini liberi a lavorare per l'interesse pubblico, a fornire fieno e altre derrate alimentari, a ospitare gratuitamente il suo seguito o i suoi guerrieri e giudici.
Dovendo sintetizzare, i libri di testo definiscono tutte queste funzioni come pubbliche (lo fanno del resto anche le fonti del tempo) , e presentano il conte come un funzionario pubblico cui era affidata l'amministrazione di una circoscrizione territoriale, la con-
(sanzioni economiche, forze militari di pace e di occupazione) o, in alcuni paesi, da potentissime organizzazioni criminali. L'ordinamento giuridico, poi, subisce interferenze non irrilevanti da fonti del diritto esterno allo Stato (per esempio l'Unione Europea) .
� Esistevano funzionari territoriali con diversa qualificazione, i duces (duchi) e i marchiones (marchesi) , ma avevano sostanzialmente le stesse funzioni dei conti.
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Medioevo: istruzioni per l'uso
tea. È giusto, non c'è dubbio. L'uso di queste parole, che sono le stesse del nostrb tempo, ha però il medesimo effetto dell'uso di nomi geografici ed etnici. Il conte sembra agire in alcuni ambiti tipici del potere statale attuale: nell'ordine: la difesa, le opere pubbliche, la giustizia, il fisco. Tuttavia, egli non è affatto paragonabile a un funzionario statale di oggi, e neppure a uno del xv secolo. Egli non aveva una formazione scolastica e professionale, perché non esistevano scuole e università, né corsi di formazione, né tantomeno aveva superato un concorso: molto probabilmente non sapeva né leggere né scrivere. Non aveva a disposizione un complesso omogeneo e non contraddittorio di norme che delimitassero i suoi compiti, ma solo provvedimenti slegati tra loro, che gli erano inviati dall'imperatore, e che qualcuno gli traduceva dal latino nella sua lingua, germanica o romanza. Non aveva un ufficio né una sede stabile, perché era impossibile controllare un territorio senza percorrerlo continuamente. Del resto, quel territorio non aveva confini precisi rappresentati da carte geografiche, ma era segnato da elementi naturali o, al massimo, da bastoni e altri segni confinari: in genere la gente del luogo ricordava e, all'occorrenza, testimoniava che quello era veramente il territorio del tal conte.
Il conte carolingio era semplicemente un guerriero, e tutte le sue competenze si riassumevano nella capacità di dare ordini e farli rispettare. Egli viveva e governava in un contesto che si reggeva sull' oralità, cioè sulla parola e non sullo scritto, e sui rapporti personali. Lo "stato" era per lui la fedeltà giurata al suo imperatore, che lo ricambiava con fiducia e benefici, era la protezione militare e quasi paterna che egli assicurava ai suoi " ragazzi" o vassalli, ovvero i migliori guerrieri che lo accompagnavano, e in generale a tutti gli uomini liberi del suo territorio. Uno "stato" fatto dunque di persone e di forza militare.
Eppure, la parola pubblico era usata abitualmente dai pochi letterati del tempo, tutti ecclesiastici o monaci,6 i quali scrivevano le
6 Sono detti ecclesiastici i membri dell'organizzazione della Chiesa (ekklesia in greco), in particolare sacerdori e vescovi. I monaci e le monache sono invece laici che decidono di consacrare la propria esistenza alla preghiera, da soli o in comunità (eremiti o cenobiti, riuniti in residenze detti cenobi o monasteri), sempre però in una situazione di isolamento dal mondo, al fine di elevarsi spiritualmente fino a Dio (ascesi) . I monaci, come ad esempio i benedettini, non erano necessariamente
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Il soggetto studente e le inszdie del nostro linguaggio
leggi che l 'imperatore inviava ai suoi conti, i capitolari. Con quella parola ci si richiamava proprio alla tradizione del passato, dell'impero romano, e questo richiamo non era privo di significato, nep-
1 pure per un rozzo guerriero come il nostro conte. Le azioni e le decisioni degli uomini non sono infatti condizionate soltanto dalla realtà, ma anche dalla rappresentazione ideologica della realtà, dai vagheggiamenti, dalle suggestioni. E coloro che conoscevano, anche se molto superficialmente, la storia romana riuscivano a influenzare i potenti di allora, dall'imperatore, ai suoi conti, ai loro vassalli, dando un significato più elevato e complesso a quello che essi facevano.
Ma, certo, quanta distanza dallo Stato che noi oggi conosciamo . . .
1 .3 La psicologia dei personaggi
«Alarico invase l'impero romano d'Occidente per estendere il suo territorio». Un'affermazione del genere, che ho sentito in occasione degli esami di Storia medievale, attribuisce al visigoto Alarico, responsabile di un celebre saccheggio di Roma (4 1 0) , un progetto politico semplice, di immediata comprensione: quello di costruire un dominio territoriale all'interno dell'impero romano, come in effetti fecero i visigoti, dopo la morte di Alarico, nella penisola iberica. Nessun manuale di storia contiene quella frase, ma lo studente ricostruisce automaticamente la motivazione dell'attacco di Alarico, attribuendogli desideri e appetiti che sembrano del tutto ovvi. Alarico non era forse un invasore, per di più un barbaro? E che cosa può volere un barbaro invasore se non distruggere, sottomettere, conquistare? Un fatto del passato (l'invasione visigota) è così spiegato con la motivazione psicologica del protagonista (il desiderio di potere di Alari co) . Questa motivazione psicologica torna identica in affermazioni come «Carlo Magno attaccò i longobardi per estendere il suo territorio», riferita alla guerra franco-
sacerdoti (oggi, invece, lo sono in pratica quasi tutti). Dai monaci e dalle monache vanno distinti i frati e le suore, che appartengono a ordini religiosi nati a partire dal XII secolo: essi, riuniti nei conventi (non nei monasteri) non intendevano isolarsi dalla società, in cui erano attivi come predicatori o come testimoni di una vita ispirata al vangelo e fondata sulla povertà.
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Medioevo: istruzioni per l'uso
longobarda del 774, o come «Bush ha attaccato l'Iraq nel 2003 per estendere il potere imperialista degli Stati Uniti», frase non infrequente nella pubblicistica antiamericana dei nostri giorni. Le azioni di Alarico, Carlo Magno, George W. Bush sono dunque spiegate in base a due presupposti impliciti, ben radicati dentro di noi: primo, l'uomo è rimasto uguale a se stesso nel corso dei millenni; secondo, chi intraprende una guerra senza un motivo giusto è giudicato malvagio, dunque i suoi comportamenti non hanno altra giustificazione che la sua malvagità, alla quale si contrappone eventualmente la bontà dell'avversario (il romano del v secolo, il longobardo dell'viii, l'iracheno del XXI).
Quanto ho appena detto non sarebbe certamente condiviso da nessuno: è evidente a qualsiasi studente che le guerre e in generale gli eventi storici hanno ragioni, condizionamenti, sviluppi assai diversi. Tuttavia, lo sforzo di chi studia un manuale di storia medievale è spesso così concentrato sulla memorizzazione dei dati (l'anno, l'evento, il protagonista) , che si riduce l'apprendimento all'osso, fraintendendo o dimenticando tutto il resto. Al momento dell'esposizione davanti al docente, un momento sempre critico, quei dati si colorano inevitabilmente di motivazioni banali - quelle che ho provato ad esplicitare - tratte non tanto dalla contemporaneità, ma piuttosto dall'esperienza quotidiana. Poiché un giovane, ovviamente, ha frequentato più i cartoni animati, i film d'avventura, i videogiochi che i quotidiani o i saggi di storia, succede che all'informazione così faticosamente memorizzata si sovrapponga il nostro immaginario narrativo: il buono e il cattivo, l'invasore e il resistente, il barbaro e il civilizzato, categorie eterne che non sembrano smentite dall'ennesimo fatto storico da imparare.
Se un vantaggio ha lo studio della storia, questo è quello di mostrare la complessità dell'agire umano, nel passato e nel presente. Primo: l'uomo non è rimasto uguale a se stesso nel corso dei millenni. La sua psicologia, la sua mentalità cambiano nel corso della storia (e quello che non è cambiato è oggetto di studio di altre discipline, come l 'antropologia culturale, per esempio) . E cambiano naturalmente i contesti materiali e culturali in cui egli opera. La stessa azione (un'uccisione, un attacco militare) assume forme e significati assolutamente diversi. Purtroppo un manuale di storia generale non può soffermarsi a lungo sulla psicologia, sulla mentalità, sui valori culturali delle società del passato, se non margi-
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Il soggetto studente e le instdie del nostro linguaggio
nalmente, o magari in capitoli diversi, lontani da quello in cui si narra di Alarico o Carlo Magno. Non per questo dobbiamo sovrapporre la nostra psicologia, la nostra mentalità, i nostri valori culturali ai fatti del passato.
E con questo veniamo al secondo punto: non ha senso, infatti, leggere il passato sulla base dei nostri giudizi di valore, assumendo come negative e condannabili (per di più col senno di poi) tutte le varie manifestazioni dell'aggressività umana. Per quanto possa sembrare cinico affermarlo, la guerra e la violenza non erano in passato, e non sono ancora in alcuni luoghi della terra, dei disvalori in sé. Dal versante opposto, la stessa vita umana non ha sempre avuto quel valore assoluto che oggi le attribuiamo, indipendentemente dalla condizione sociale, dal sesso e dall'età del singolo. Per gran parte della storia umana, infatti, un povero, uno schiavo, una donna, un neonato hanno avuto un valore assai inferiore a quello di un guerriero maschio adulto, nell'ambito concreto della vita sociale, ma anche in quello della vita affettiva. Proprio così: anche l'amore più tenero e scontato, quello per un figlio appena nato, magari oggetto di aspettative familiari e dinastiche, non si esprimeva con l'intensità e l'esclusività di oggi. Prima di giudicare il passato, cui era del tutto estranea l'attuale concezione dei diritti umani e della loro inalienabilità, bisogna comprenderlo. Allo stesso modo, per fare un altro esempio, fino alla prima metà del Novecento l' «estensione del proprio territorio» o del «proprio potere» erano comunemente considerati un fattore positivo, il segno del successo di un individuo, di un popolo, di uno Stato e non un obiettivo politico di cui, eventualmente, vergognarsi.
Per_Alarko,_.saccheggiare Roma non significava sconfigger� l'impero romano impadronendosi della sua capitale. Egli non voleva né era in grado di concepire un progetto militare e politico di questa portata. Altrimenti, una volta presa Roma, si sarebbe proclamato imperatore, o quanto meno si sarebbe fermato un po' più di tre giorni in quella città. Al contrario, la sua era una semplice rappresaglia, perché egli si sentiva come un alleato tradito, e un alleato di Roma era senza alcun dubbio. I visigoti che egli guidava erano da oltre una generazione/oederati (alleati) dell'impero, al quale garantivano un indispensabile supporto militare. Le tribù federate, infatti, combattevano insieme con l'esercito imperiale, anche se non erano inquadrate in esso stabilmente. I federati, che pur
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Medioevo: istruzioni per l'uso
mantenevano la loro organizzazione sociale e la loro diversità culturale, vivevano all'interno dell'impero, avevano a che fare quotidianamente con genti di lingua latina e greca, collaboravano con funzionari civili e militari romani. Alarico non si sentiva e non era un invasore, ma piuttosto un ospite/ ora gradito, ora sgradito, che all'occorrenza poteva salvare l 'impero dai suoi nemici. La forza militare barbarica era infatti diventata indispensabile per l'impero romano, e questo era ben noto a personaggi come Alarico, che alzavano continuamente il prezzo delle loro "prestazioni" . Così, da alcuni anni, Alarico pretendeva un risarcimento per una spedizione militare che gli era stata affidata e che non aveva avuto seguito, con suo danno. Inoltre, aspirava a qualche carica più prestigiosa e remunerativa nell' amministrazione romana, come quella di magister utriusque militiae, comandante generale di tutte le forze militari (fanteria e cavalleria) . Effettivamente, i senatori romani presero con lui un impegno del genere in occasione del sacco di Roma, pur di allontanarlo dalla città.
In conclusione, Alarico nel 4 1 0 non voleva affatto fondare un regno dei visigoti, voleva invece " fare carriera" nell'impero, come altri barbari, utilizzando il canale consueto per le genti barbariche, quello militare, e cercandosi interlocutori tra i personaggi più potenti della corte imperiale o del Senato. Doveva passare ancora una generazione, altri 25-30 anni, prima che si sperimentassero forme diverse di organizzazione politica, come i regni romanobarbarici, i quali nacquero quando fu chiaro alle élite imperiali ( i più potenti romani, da un lato, i capi militari romani e barbarici dall'altro) , che l ' impero (o meglio la sua parte occidentale) non poteva più sopravvivere.
Torniamo alla frase «estendere il suo territorio». Un territorio i visigoti ancora non l 'avevano. Essi erano stati autorizzati a insediarsi nell'Illirico (nella penisola balcanica), ma non si erano ancora trasformati in sedentari. La loro migrazione, cominciata un secolo prima nella pianura del Don, non era ancora finita. Neppure quando si insediarono in Spagna, nella seconda metà del v secolo, avevano una concezione territoriale del loro potere, anche se erano molto cambiati. Dunque Alarico non aveva alcun territo-
7 Si veda, per la qualifica di ospiti (hospites), p. 56.
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Il soggetto studente e le inszdie del nostro linguaggio
rio da estendere, ma magari era alla ricerca di un insediamento soddisfacente per i suoi.
Carlo Magno, lui sì, aveva un territorio, ma il suo attacco ai longobardi non fu il risultato di una semplice espansione militare. Egli aveva contratto un debito con il vescovo di Roma, il papa, che aveva riconosciuto a lui e al padre, Pipino il Breve, la funzione di patritius Romanorum, cioè, con uso non classico dell'espressione, di "protettore" dei romani, laddove i romani erano semplicemente coloro che non vivevano nel regno longobardo d'Italia, ma nelle regioni rimaste bizantine, come Roma e il Lazio (la definizione richiamava però inevitabilmente l'impero romano: non dimentichiamo il piano ideologico cui abbiamo accennato nel § 1 .2 ) . Pipino e Carlo si assunsero dunque il compito di difendere la chiesa di Roma dagli attacchi dei longobardi, i quali da. due secoli dominavano ampie aree della penisola. Anche questa conquista ha dunque le sue specifiche motivazioni, i suoi particolari contesti, su cui però ora non ci soffermiamo. Saltiamo anche Bush, il cui caso conferma il pericolo delle semplificazioni anche nella contemporaneità,8 e passiamo a un'altra questione.
1 .4 L'anacronismo, compagno della ricerca storica
Insomma, se i nomi di luoghi e di popoli creano l'effetto di protagonisti eterni della storia medievale (laddove esso sono l'ultimo esito di quella storia) , concetti come "stato" o "pubblico" sembrano essere un ostacolo ancora più grande alla comprensione del passato. Nell'uno e nell'altro caso si cade nel peggiore errore che possa esistere per chi studia la storia: l'anacronismo. Vuol dire attribuire al passato caratteri del presente, allora inesistenti. «Contro tempo», cioè «nel tempo sbagliato» è l'etimologia di anacronismo, dunque esattamente l'opposto della storia, che è la «scienza
8 Gli Stati Uniti - si sente dire- avrebbero attaccato l'Iraq "soltanto" per controllarne i giacimenti petroliferi. Ora, prescindendo da giudizi sulla politica del presente, è interessante notare che tale obiettivo è comunemente inteso come vergognoso, persino da chi sostiene la giustezza di quella "guerra preventiva" . Prima della seconda guerra mondiale mettere l e mani sulle risorse d i un'altra nazione non era considerata un'azione vergognosa.
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Medioevo: istruzioni per l'uso
degli uomini nel tempo», secondo una bella definizione coniata da uno dei più grandi storici del Novecento, il francese Mare Bloch.
Per evitare tali semplificazioni, gli storici hanno aggiunto alla parola stato molte aggettivazioni e specificazioni, descrittive o interpretative, al fine di sottolineare le radicali differenze tra le organizzazioni politiche che si sono succedute nel tempo: stato romano-barbarico, stato carolingio, stato feudale, stato territoriale, stato regionale, stato rinascimentale, stato per ceti, stato composito, stato moderno, stato. di diritto.
Tuttavia, parole come "stato" hanno una forza tale, da evocare continuamente lo Stato che oggi pervade ancora ogni aspetto della nostra esistenza, nonostante le ricorrenti richieste politiche di liberalizzazioni economiche e devolution amministrative. Lo stesso avviene per molti, se non tutti, i concetti usati dagli storici.
Da questo punto di vista, la storia si differenzia dalle scienze definite " dure" , come la fisica o la biologia. Esse si giovano di un linguaggio assai tecnico, fatto di definizioni rigorose o addirittura di simboli, numeri, formule. Lo storico è costretto a servirsi di metafore, paragoni, perifrasi del linguaggio corrente, con tutte le loro ambiguità. Per evitare le insidie del nostro linguaggio, lo storico sceglie alcune soluzioni alternative: usa direttamente il termine del passato, senza tradurlo, come il latino curtis9 e il germanico arimanno, 10 oppure sostituisce le parole più fraintese, preferendo comitatus a contea, o vincolo vassallatico-bene/iciario a feudalesimo. 11 Ma si tratta, come è evidente, di piccoli accorgimenti,
"Cfr. p. 29, nota 12 . 10 Varimannus o, con parola latina, exercitalis era nell'Italia longobarda il pro
prietario terriero libero, unico titolare di diritti e doveri nei confronti dell'autorità pubblica, in primo luogo il diritto-dovere di combattere. Dopo la conquista franca, il termine è sopravvissuto in alcune aree dell'Italia con significati diversi.
1 1 Gli storici italiani preferiscono distinguere il vincolo vassallatico-beneficiario (il legame personale tra due guerrieri, detti senior e vassus: il primo concede un beneficio terriero, il secondo assicura il servizio militare) e il feudalesimo come sistema di coordinamento politico tra potere centrale e poteri locali. Il vincolo vassallatico-beneficiario è comparso nella Gallia merovingica dell'viii secolo e si è poi diffuso in tutta l 'Europa carolingia. Il feudalesimo "vero e proprio" è da datare ai secoli XI-XIII e oltre. Il termine feudalesimo, però, ha altre accezioni (cfr. § 2 .8) .
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Il soggetto studente e le inszdie del nostro linguaggio
che, pur agevolando l'estraniamento dal presente, non sono co-munque sufficienti.
·
In sostanza, siamo inevitabilmente prigionieri del nostro linguaggio, uno strumento imperfetto e, in rapporto al passato, anacronistico. Tuttavia, non possiamo farne a meno. In ciò sta tutta la difficoltà, la paradossale difficoltà della storia: il passato, anche il più lontano, è compreso e narrato con le parole e i concetti del presente. È una difficoltà del mestiere di storico, e del mestiere di studente di storia. Bisogna esserne consapevoli, e assumersi tutti i rischi del caso.
L'anacronismo, del resto, non è solo e sempre un nemico per chi chi studia la storia. Talvolta, esso può aiutarci molto a comprendere il passato, e ciò avviene secondo due modalità principali: quella dell'analogia e quella del contrasto. È quanto abbiamo fatto nei paragrafi precedenti. Le funzioni del comes carolingio sono state spiegate mediante un paragone con il funzionario pubblico del nostro tempo, rispetto al quale sono state evidenziate le enormi differenze, ma anche le analogie fondamentali (il comes è comunque definibile come un funzionario pubblico) , distinguendo perfino tra la situazione concreta (un guerriero analfabeta legato da fedeltà e amicizia al suo imperatore) e le rappresentazioni ideologiche elaborate dagli uomini di cultura. Le motivazioni dell'attacco a Roma da parte di Alarico sono state spiegate per contrasto con il concetto di conquista del nostro immaginario letterario e televisivo, insistendo sul concetto attuale di territorio, che Alarico non era in grado di capire.
Come si vede, per comprendere la storia è inevitabile muoversi continuamente tra passato e presente: ma qui non intendiamo dire, banalmente, che il passato spiega il presente. Anzi: abbiamo insistito sul rischio che corre chi intende lo studio della storia soltanto come una ricerca delle origini del presente (vedi anche § 2.6) . Al contrario: è il presente che necessariamente spiega il passato, inteso come il presente della nostra cultura, della nostra esperienza, del nostro linguaggio.
Purtroppo, la compagnia inevitabile dell'anacronismo, o almeno di un anacronismo "buono" , non sempre favorisce lo studente di storia, in difficoltà perché l 'ignoranza del passato raddoppia con l 'ignoranza del presente che spiega quel passato.
I testi e i docenti ricorrono continuamente all'attualità per spie-
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Medioevo: istruzioni per l'uso
gare il passato, per far sì che nozioni e concetti così diversi e lontani da noi possano essere ancorati in qualche modo alle conoscenze e alle esperienze dello studente. Affermazioni come «l'impero carolingio era diviso in circoscrizioni affidate a funzionari pubblici, i comites», «l longobardi scesero in Italia dalla Pannonia, attuale Ungheria» implicano che chi le legge sappia che cosa vogliono dire le espressioni " circoscrizione" e "funzionario pubblico" e dove si trovi oggi l'Ungheria. Implicano dunque che lo studente possieda nozioni e concetti fondamentali di diritto pubblico (una volta si parlava di educazione civica) e di geografia. Ciò non sempre avviene. Il primo compito di chi studia un manuale di storia medievale (o di qualsiasi altro periodo) è allora quello di avere un dizionario della lingua italiana (o un dizionario del Medioevo) e un atlante storico a portata di mano. Sono raccomandazioni ovvie, ma spesso disattese.
1 .5 Per concludere: fatti e questioni
E allora: stati, popoli, concetti, motivazioni, valori, sentimenti: tutto può essere ed è costantemente frainteso e riportato alla nostra esperienza. Ecco spiegata la noia della storia. Se i protagonisti sono gli stessi di oggi, se il contesto in cui essi operano è il medesimo, se le motivazioni che spingono gli uomini a combattere e morire sono le stesse di oggi e di sempre, che gusto c'è a imparare storie così lontane da noi? Tanto vale accendere il televisore collegato all'antenna satellitare e guardarsi un bel film.
In effetti, è sorprendente il contrasto tra il successo che da lungo tempo ha il Medioevo nellajidion di qualsiasi genere e la diffidenza per la storia medievale nelle scuole e nelle università. Tante date, tanti fatti, tanti personaggi continuano a spaventare quello stesso studente che adora Bravehearth o Robin Hood.
La presenza del Medioevo nel nostro immaginario non è certo da demonizzare: esso è ormai una costante del nostro presente, un luogo esotico di dame e di cavalieri, di castelli e di invasioni, di santi e di streghe, di celti e di templari, oppure, in senso negativo, un pericolo sempre vivo da evitare (§ 2 .7) . Questo Medioevo immaginario, ma non del tutto inventato, potrebbe essere un ottimo punto di partenza per una conoscenza più approfondita. L'inte-
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Il soggetto studente e le inszdie del nostro linguaggio
resse per una disciplina può nascere anche da suggestioni e fraintendimenti di qualsiasi genere.
Non è possibile però fermarsi a questo punto, almeno se si è iscritti all'università, il che presuppone un desiderio di conoscenza. Ogni conoscenza comporta uno sforzo, questo è ovvio: le istruzioni per l'uso qui presentate non sono una formula magica per superare in quattro e quattr'otto un esame universitario di storia medievale. Esse non possono evitare che lo studente studi, e anche con una certa fatica. Potrebbero però, almeno questo è nelle intenzioni di chi scrive, evitare che quella fatica sia insensata e infruttuosa.
Semplificando, due sono le operazioni che uno studente deve fare: memorizzare fatti, comprendere questioni. Riprendiamo gli esempi fatti sopra: per gli argomenti "I visigoti" o "L'impero carolingio" bisogna memorizzare (memorizzare, non c'è altro modo) i dati informativi contenuti nelle seguenti frasi «Alarico, re dei visigoti, saccheggiò Roma nel 4 10», e «Carlo Magno fu incoronato imperatore nell'800. Il suo impero era diviso in circoscrizioni affidate a funzionari pubblici, conti, duchi e marchesi». Già la semplice memorizzazione non è un'operazione meccanica: prima di tutto bisogna sapere dove si trova Roma e dove si trovavano i visigoti prima di attaccarla, avere cioè alcune conoscenze generali e specifiche in cui inserire la nuova informazione.
Inoltre, bisogna comprendere, come si è visto, quali erano le motivazioni di Alarico. Si tratta di affrontare l 'argomento: "L'incontro latino-germanico" , che implica la risposta a domande come «Perché Alarico saccheggiò Roma? Quali differenze culturali c'erano tra germani e romani? Quali contatti avevano avuto prima del 4 1 0?» ecc. Per l' impero carolingio, la frase sopra riportata comporta invece la conoscenza del concetto di «funzionario pubblico» e la piena comprensione della particolare struttura istituzionale dell'impero, una «associazione personale» più che uno stato territoriale, come è stato sostenuto, un'associazione che però si nutriva di un suggestivo richiamo alla res publica romana.
Quale che sia la domanda d'esame ( " Il sacco visigoto di Roma" o "L'incontro latino-germanico" ) , una buona risposta comprende tutti gli elementi che abbiamo indicato, ed è compito dello studente saper passare con scioltezza dal piano meramente informativo (Alarico, il 4 1 0) a quello, per così dire, interpretativo. Memo-
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Medioevo: istruzioni per l'uso
rizzazione (di persone, luoghi, date, fatti) e comprensione (di questioni politiche, economiche, religiose ecc.) non sono mai due operazioni mentali separate. Allo stesso modo, la conoscenza degli eventi non è separabile da quella delle strutture: il sacco del 410 e la struttura politica e militare del tardo impero romano (fondato sulla collaborazione con l 'elemento barbarico) . Pretendere di ricordare tutti i fatti di un manuale di storia medievale è impresa folle come imparare a memoria un elenco telefonico. Ma pretendere di conoscere le società del passato senza ricordare fatti e date equivale a leggere una serie di SMS senza conoscere né il nome dei mittenti, né l 'ordine e la data dei messaggi!
Quasi sempre, nei manuali scolastici e universitari, la semplice narrazione dei fatti, che sono sintetizzabili solo fino a un certo punto, prende materialmente più spazio della presentazione delle questioni e delle strutture, che talvolta si giovano di approfondimenti a parte. Chi studia deve imparare a selezionare l'enorme quantità di informazioni, memorizzandone soltanto una parte', e a individuare i passaggi più pregnanti del suo manuale, dove lo sforzo di comprensione prevale su quello della memorizzazione.
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2 . L'oggetto Medioevo e la disciplina "storia medievale"
2 . 1 Che cos'è i l Medioevo
Il Medioevo è un periodo della storia europea che comincia nel 476, data della. depo�iziQrte dell'ultimo imperatore romano d'Ocaciente, e termina nel 1492 , data della scoperta dell'America da parte di Cristoforo Colombo.
Medioevo vuol dire età (evo) di mezzo (medio), cioè periodo intermedio tra l 'età antica, terminata appunto con la fine dell'impero romano d'occidente, e l'età moderna, cominciata con le grandi scoperte geografiche. Si tratta di una definizione all'apparenza neutra (tutti i periodi sono di mezzo . . . ) , ma che fin dal principio ha avuto una connotazione negativa, legata all'idea della barbarie e della decadenza.
I primi ad usare il termine di media tempestas, cioè "tempo di mezzo" , furono uomini del xv secolo, in particolare umanisti, cioè filologi, e artisti italiani. Essi non coniarono questa definizione perché intendevano condurre uno studio storico su questo periodo di mezzo, manifestando dunque un interesse per esso, ma solo perché volevano isolare con una definizione semplice il periodo di mezzo tra la loro epoca (i tempi moderni, cioè " recenti" ) , e l'antichità classica, a cui essi si richiamavano per trame ispirazione, e concretamente per reperire modelli linguistico-letterari (la letteratura, la storiografia) , artistici (la scultura, l 'architettura, meno la pittura, per la scarsa quantità di opere sopravvissute) e persino grafici (le iscrizioni romane, i più antichi manoscritti) . La letteratura e l'arte dell'età di mezzo erano da rifiutare in blocco.
Gli umanisti infatti inorridivano di fronte al latino scorretto delle università e delle cancellerie (vedi § 3 .4) , cui sostituirono l'imitazione degli autori classici latini; ed erano infastiditi dai chiaroscuri e dalle spigolosità della grafia detta gotica, cui contrappose-
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Medioevo: istruzioni per l'uso
ro una nuova grafia ( "umanistica" 1 ) e l 'alfabeto capitale delle iscrizioni romane disseminate in tutt'Europa e in particolare in Italia. Allo stesso modo, gli artisti aborrivano le forme dell'architettura e della scultura dette anch'esse gotiche, per rivolgersi all'arte greca e romana.
Il Medioevo di questi umanisti e artisti non era dunque un' epoca definita nei suoi caratteri specifici, ma un contenitore di opere rifiutate. Tale giudizio negativo non coinvolgeva in alcun modo gli altri aspetti del periodo (istituzioni, economia ecc.) , che non erano proprio presi in considerazione.
La reale identificazione del Medioevo come una precisa partizione della storia europea (che allora era assimilata alla storia universale dell'uomo) si ebbe molto più tardi, nel corso del XVI, XVII
e XVIII secolo, via via che quel periodo era effettivamente studiato da vari punti di vista. La definizione "Medioevo" si cristallizzò a fine Seicento, in particolare grazie a un fortunato manuale del professore tedesco Christof Keller (il cui nome latinizzato era Cellarius ) , pubblicato nel 1688: Historia medii evi.2 La scansione storia antica l storia medievale l storia moderna si diffuse così nell'insegnamento e nella ricerca, restando valida fino ad oggi, nonostante la sua genericità. La scelta di Keller, che aveva una funzione metamente pratica, definì per sempre il nome di quel periodo.
Dunque, il Medioevo è nato quasi per caso, come nasce un soprannome di cui lo sfortunato portatore non riesce più a liberarsi. Come sono esistiti "malpeli" senza attitudini malvage e magari senza neppure i capelli rossi/ così vive oggi un Medioevo che è
1 Gli umanisti italiani inventarono una nuova grafia, imitando i più antichi manoscritti di opere classiche di cui disponevano, i quali risalivano all'età carolingia. Dalle grafie create dagli umanisti sono derivati i nostri caratteri a stampa e il corsivo. Per grafia si intende il modo in cui sono materialmente tracciate le lettere: gli occhielli, le aste ecc.
2 Keller pubblicò tre libri di storia, uno dedicato all'antichità, uno al Medioevo (dai tempi di Costantino al 1453 ) e una Historia nova dedicata al XVI e XVII secolo. La storia nuova era quella a lui contemporanea. Soltanto nel corso del Novecento si è distinto tra la storia moderna e quella contemporanea, due definizioni che sono cariche di ambiguità come quella di Medioevo.
3 Il riferimento è a Rosso Malpelo ( 1878) , celebre novella di Giovanni Verga. È un fatto che in passato i soprannomi si tramandavano facilmente ai figli o agli altri congiunti, anche se essi non possedevano le caratteristiche evidenziate dal
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L: oggetto Medioevo e w disciplina "storia medievale"
nato soltanto nel XV secolo e che talvolta non ha niente a che fare con il vero Medioevo, il periodo che va dal 476 al 1492 . Non è un paradosso: il Medioevo come concetto storiografico (cioè come concetto elaborato in sede di studio della storia) , come suggestione, come paradigma negativo (vedi § 2 .7 ) ha avuto e ha un'esistenza e una fortuna indipendentemente dal Medioevo reale, quello che ricostruiscono gli studiosi e che i docenti dell'università e della scuola hanno il compito di insegnare.
La soluzione a questa situazione è all'apparenza semplicissima: basta definire esattamente che cosa fu il Medioevo, quali furono i suoi caratteri originali, in che cosa quest'epoca si differenziò dalle altre. Non sono queste le risposte che si attende chi legge un libro di istruzioni per lo studio della storia medievale? Dunque, che cos'è il Medioevo?
Il Medioevo è un periodo della storia europea che comincia nel 476 e termina nel 1492 . La risposta non può che essere questa, perché il Medioevo non fu una civiltà, un'epoca unitaria, non ebbe caratteri omogenei nettamente distinguibili da quelli dei periodi precedenti e successivi. Se intendiamo per Medioevo una civiltà unitaria, allora il Medioevo non esiste, o - meglio - sono esistiti molti Medioevi, più brevi e più lunghi di quello convenzionale.
2.2 La periodizzazione: problemi di ricerca e di studio
Dividere in periodi (o periodizzare) vuoi dire in realtà interpretare. Il primo compito di uno storico è datare il fenomeno di cui egli si occupa. A livello generale, gli storici italiani preferiscono dividere il Medioevo in due periodi: l'alto Medioevo (secoli V-XI) e il basso Medioevo (secoli XI-XV) , dove il primo periodo sarebbe quello della stagnazione demografica ed economica e della travagliata sperimentazione di nuove organizzazioni istituzionali dopo la fine dell'impero romano d'Occidente, mentre il basso Medioevo sa-
soprannome stesso, come il colore dei capelli e la presunta malvagità. Purtroppo, nel caso di Rosso Ma/pelo, il soprannome, frutto di pregiudizi culturali, finisce per condizionare i comportamenti di chi lo porta. È un po' quel-lo che avviene al Medioevo storico o " reale " , sempre condizionato dlJ.Al�UN� immaginario.
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Medioevo: istruzioni per l'uso
reb be all'opposto il periodo della crescita demografica ed economica e della nascita di regni e altre formazioni territoriali stabili destinate spesso a una lunga durata. Si tratta di una semplificazione, anche in questo caso, ma di una semplificazione necessaria perché lo studente cominci ad avere un primo punto di riferimento. Storici di altre tradizioni culturali preferiscono la tripartizione alto o primo Medioevo (v-x sec. ) , pieno o alto Medioevo (X-XIII) ,
basso o tardo Medioevo (xm-xv).4 Definizioni come "pienomedievale" o " tardomedievale" possono quindi comparire anche in manuali italiani, anche se raramente vengono indicati i caratteri originali di ciascuna di queste due o tre epoche.
La differenza assai più consistente tra alto e basso Medioevo è un'altra, spesso ignota agli studenti: occuparsi dell'uno o dell'altro significa quasi praticare due discipline diverse, perché i rispettivi studiosi dispongono di fonti diverse e devono sviluppare competenze scientifiche e metodi di analisi differenti. Tranne poche eccezioni, infatti, le fonti della storia europea in età altomedievale sono da un punto di vista tipologico le stesse della storia antica:5 atti legislativi delle autorità maggiori (l'imperatore, il papa, i re) , opere scritte, naturalmente in latino (storie, cronache, epistolari di grandi personalità, opere letterarie) , resti materiali (edifici, sculture e pitture, cimiteri, oggetti, monete) . Rarissimi sono i documenti giuridici, come donazioni, compravendite, testamenti e contratti commerciali, o i documenti patrimoniali, come gli inventari di beni (questi tipi di documenti sono quasi totalmente assenti nel periodo VI-VII secc. ) , mentre per il basso Medioevo disponiamo di
4 Dal tedesco Friihmittelalter, Hochmittelalter, Splitmittelalter, dove la parola Medioevo (Mittelalter) è preceduta dagli aggettivi/riih (antico), bach (pieno, alto) e spàt (tardivo) . Gli aggettivi corrispondenti in inglese sono early, high, late (Middle Ages). Le storiografie italiana e francese concordano in realtà sull'originalità del periodo X-XIll secolo, ma non hanno una terminologia inequivocabile per distinguerlo. Inoltre, non esistono date convenzionali che separino i periodi tra loro (c'è dunque incertezza riguardo ai secoli di "passaggio" : l'XI per la periodizzazione bipartita, il X e il XIII per quella tripartita) .
' Ma la storia antica si giova di giacimenti documentari inesistenti per l'alto Medioevo: interi archivi amministrativi, come quelli su tavolette cerate ritrovati in molte località del Vicino Oriente e dell'Egitto, o come quelli su papiro delle legioni romane di stanza sempre in Egitto e in Britannia, per non parlare delle decine di migliaia di iscrizioni pervenuteci.
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[;oggetto Medioevo e la disàplina "stona medievale"
fonti scritte in quantità molto maggiore e di tipologie molto differenti, non solo per motivi casuali (cioè perché tali documenti si sono conservati fino al nostro tempo), ma perché in quel periodo aumentò enormemente il ricorso alla scrittura in tutte le occasioni e contesti: atti notarili e atti dell'autorità politica, serie cospicue di registri amministrativi, giudiziari, contabili, fiscali, censimenti, prediche, verbali, diari, lettere ecc. , ad opera di vari autori (principi e comunità, privati, uomini e donne di differenti strati sociali e formazioni culturali) . 6
Questa diversità di fonti ha conseguenze assai pesanti sulla disciplina Medioevo. Chi si occupa di alto Medioevo è costretto a limitare drasticamente gli argomenti da studiare, ma è anche stimolato ad ampliare il ventaglio delle sue competenze e l 'area geografica di interesse, raffinando la sua interpretazione. Per esempio, per accrescere le nostre conoscenze sull'impatto dell'invasione longobarda in Italia, non è possibile limitarsi alle pochissime testimonianze scritte disponibili (vedi § 3 .2 ) , ma bisogna ricorrere a fonti e metodi di altre discipline: i prodotti artistici e gli oggetti di uso quotidiano, le analisi biometriche e strutturali dei resti ossei, i residui alimentari contenuti nel vasellame, il polline, l'onomastica e la toponomastica (lo studio, rispettivamente, dei nomi di persona e di luogo) , le leggendarie vite dei santi (fonti dette agiografiche) , anche se scritte molti secoli dopo, l'iconografia. Archeologia, agiografia, antropologia culturale, etnografia sono diventate competenze indispensabili per uno storico dell'alto Medioevo, nel senso che egli deve necessariamente essere in grado di comprenderne i presupposti epistemologicF e i metodi di ricerca. Una sepoltura germanica nella pianura sarmatica può far avanzare così le nostre conoscenze dell'Italia longobarda.
L'interdisciplinarità e la comparazione sono praticate anche dagli storici del basso Medioevo - ovviamente - ma essi, avendo una ricchezza di fonti molto maggiore, possono approfondire molto di
6 Per le fonti vedi il cap. 3 . 7 Per presupposti epistemologici di una disciplina si intende il complesso dei
principi su cui essa si fonda, che sono necessariamente diversi da quelli di altre discipline. Per fare un esempio banale: la storiografia non può mai prescindere dalla collocazione cronologica e spaziale dei fenomeni che studia.
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Medioevo: istruzioni per l'uso
più la conoscenza di un singolo territorio, di un singolo periodo, di una singola questione, di una singola fonte, e tendono infatti a specializzarsi nell'una o nell'altra direzione.
Le caratteristiche della ricerca storica sull'alto e sul basso Medioevo si ripercuotono naturalmente sulle narrazioni del manuale universitario. La parte bassomedievale è molto più articolata semplicemente perché sappiamo molte più cose. Lo capiscono bene gli studenti che tentano invano di mettere insieme in uno schema cronologico le diverse storie degli stati europei (l'Inghilterra, gli stati iberici, la Francia, l'Impero, per non parlare dell 'Ordine teutonico, della Polonia ecc . ) e italiani (chi riuscirà a memorizzare perfettamente le infinite guerre interitaliane fra Trecento e Quattrocento? ) .
I capitoli d i questa seconda parte del manuale solitamente distinguono le osservazioni generali dalle esemplificazioni: da un lato il fenomeno della signoria cittadina in Italia, dall'altro la presentazione di singole signorie (non mancano mai i Visconti di Milano); da un lato il fenomeno del rafforzamento delle strutture di governo nelle monarchie e negli altri stati europei, dall' altro le elencazioni di istituzioni e vicende dinastiche dei principali stati.
Naturalmente lo studente deve assolutamente comprendere e ritenere le questioni, selezionando poche, pochissime informazioni sul resto (rinunciando, per esempio, alla signoria dei Della Scala a Verona, o all'assassinio di Thomas Becket in Inghilterra) . Non che gli argomenti appena indicati tra parentesi siano meno " importanti" di altri in assoluto (nulla è per definizione importante e interessante in assoluto) , ma certo non rispondere a una domanda sugli Scaligeri è meno grave che non rispondere a una domanda sul passaggio dal Comune alla Signoria. Le priorità, owero le cose da ricordare assolutamente, dipendono, per questa parte della storia, o meglio, del manuale di storia medievale, da altri fattori: lo spazio che il singolo manuale dedica alla dinastia scaligera, la collocazione geografica della propria università (non conoscere gli Scaligeri mi sembra imbarazzante per lo studente di un ateneo veneto) , infine - bisogna riconoscerlo - gli interessi del docente (individuabili seguendone le lezioni) .
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L.: oggetto Medioevo e la disciplina "storia medievale"
2 .3 Periodi diversi per storie diverse
Le esemplificazioni che abbiamo fatto in questo e nel capitolo precedente riguardano quasi sempre la storia politica e istituzionale. In effetti essa prevale nettamente, dal punto di vista della quantità, in quasi tutti i manuali di storia medievale. Certamente, oggi la semplice, arida narrazione dei grandi eventi storici, quella che alcuni studiosi francesi definirono polemicamente l' histoire événementielle o histoire-bataille,8 ha lasciato spazio alla presentazione più approfondita delle strutture sociali e delle organizzazioni politiche: se non manca mai la cronologia delle conquiste di Carlo Magno, molto più spazio è dedicato infatti all'ordinamento pubblico del suo impero, indicazione questa di cui lo studente deve far tesoro, come abbiamo visto (§ 1 .2 ) .
Le periodizzazioni tradizionali però restano, ed esse sono state elaborate dal punto di vista della storia politica e istituzionale. Tuttavia, si può fare storia anche di altro, per esempio dell'economia. I fenomeni economici hanno tempi assai diversi rispetto a quelli politici e istituzionali. Una battaglia può esaurirsi in una giornata, una guerra può durare diversi decenni e anche cento anni, un'organizzazione istituzionale può resistere per qualche secolo, ma le strutture economiche hanno una durata molto più prolungata perché, prima della rivoluzione tecnologica dovuta all'industrializzazione (cominciata in Inghilterra alla fine del XVIII secolo), i cambiamenti in ambito produttivo (gli strumenti e le tecniche per coltivare e allevare animali, per la metallurgia, la ceramica, la tessitura) erano molto più modesti e di molto più lenta diffusione. In alcuni casi estremi, l 'attività economica è rimasta identica a se stessa quasi per tutta la storia umana. Si pensi alla raccolta di mitili, praticata dalla Preistoria ai giorni nostri in maniera pressoché
8 Le definizioni significano storia evenemenziale (cioè dell'avvenimento) e storia-battaglia. Alcuni grandi storici francesi del Novecento, in particolare medievisti e modernisti, hanno avviato un grande rinnovamento della ricerca storica, che partiva dal rifiuto della storia come semplice narrazione di fatti, ampliando all'infinito gli oggetti di studio (la mentalità, i sentimenti per esempio), le fonti utilizzate (le fotografie aeree) , i metodi di analisi (l'antropologia, la psicologia ecc. ) . Il rinnovamento è partito dagli studiosi che fondarono negli anni venti la rivista ''Annales" (Mare Bloch e Lucien Febvre) .
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Medioevo: istruzioni per l'uso
identica: siamo in presenza della " raccolta" di un "prodotto" spontaneo della natura, nonostante le eventuali innovazioni (gli utensili, la disponibilità di frigoriferi, l'allevamento). Altro esempio è la ruota del vasaio, uno strumento e con esso una tecnica che sono oggi, nella sostanza, gli stessi del Neolitico, quando gli uomini scoprirono le qualità dell'argilla impastata con l'acqua. Una storia di queste due attività avrà certamente una periodizzazione ben diversa da quella della storia politica. Come la produzione, così anche il commercio prima dell'industrializzazione ha dovuto tener conto di alcuni condizionamenti che sono rimasti identici per millenni: la meteorologia, l'oro grafia, i corsi d'acqua, le distanze, la forza di uomini e bestie.
La struttura economica e commerciale dell'impero romano non si dissolse nell'arco di un anno o di un secolo. Essa aveva alcune caratteristiche fondamentali: un grande movimento circolare convogliava al centro, cioè a Roma, presso l'imperatore e le famiglie più eminenti e ricche dell'impero, appartenenti al ceto senatorio, le ricchezze sottratte con la violenza e con la pressione fiscale alle regioni sottomesse (oro e schiavi, in particolare) . Dal centro, una congrua parte di quelle ricchezze tornava alla periferia sotto forma, diremmo oggi, di infrastrutture e servizi: era utilizzata cioè per costruire strade, ponti, acquedotti, per pagare soldati e funzionari imperiali. Un'economia di Stato, ha detto qualcuno.
L'integrazione economica dell'impero era inoltre caratterizzata anche dalla commercializzazione su lunghe distanze di prodotti agricoli come il grano, l'olio, il vino, e di merci " industriali" come gli oggetti in ceramica (vedi § 3 . 3 ) . Protagonisti di questa attività produttiva e commerciale erano i mercanti e i grandi proprietari terrieri, attivi anche nel commercio, i quali disponevano di imponenti quantità di schiavi e di enormi distese di terre. Centri nevralgici del movimento economico erano le città.
Il dibattito sulla crisi di questo sistema economico e commerciale è ancora aperto: un celebre storico belga, Henri Pirenne (morto nel 1 93 5), riteneva che la sua fine fosse da datare al VII secolo e che fosse da imputare all'espansione islamica, che ruppe l'unità economica del Mediterraneo. Per Pirenne, dunque, il Medioevo sarebbe cominciato soltanto nell'viii secolo. Oggi la tesi di Pirenne è stata rifiutata, ma è rimasta aperta la questione del trapasso dall'età antica a quella medievale dal punto di vista della storia so-
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L: oggetto Medioevo e la disciplina "storia medievale"
ciale ed economica (vedi pp. 75-77) . Senza entrare nel merito, è diffusa la convinzione che bisogna introdurre una nuova epoca tra Antichità e Medioevo, un'epoca di transizione (naturalmente ! ) con caratteristiche sue specifiche, che prende la definizione, ancora una volta, dal mondo degli storici dell'arte: il Tardoantico, che va dal m al VI sec . , dall'imperatore Diocleziano a Giustiniano.9 Anche in questo caso, nei manuali lo studente incontrerà sia l'aggettivo tardoantico sia quello di altomedievale, magari in riferimento allo stesso secolo. Non si tratta di definizioni neutre, ma di interpretazioni, o almeno punti di vista differenti: la prima insiste sulla continuità, la seconda sulla rottura.
Come l ' inizio, così anche la fine del Medioevo è incerta dal punto di vista socio-economico. Non c'è tempo di dilungarsi in questo paragrafo: limitiamoci a dire che la particolare struttura giuridica ed economica delle campagne europee dei secoli bassomedievali e moderni (XIV-XVIII secolo) fu giudicata da alcuni osservatori settecenteschi (economisti, filosofi, politici) come arretrata e assolutamente da riformare o abolire: il termine di ancien régime, o antico regime, con il quale si intendevano anche alcune particolarità dell'organizzazione sociale di lontana origine (i privilegi di nobiltà e clero) , fu allora utilizzato per definire tutto questo complesso di fenomeni. Anch'esso ha avuto fortuna come termine periodizzante.
Riassumiamo quanto detto nello schema alla pagina seguente. Spero che esso non disorienti il lettore: è preferibile che egli ritenga, nel primo approccio alla storia medievale, la partizione più semplice tra alto e basso Medioevo, che sarà seguita in questo volume. Tuttavia, è meglio tener presente che l'oggetto dello studio (le istituzioni, l'economia, la mentalità) determina non solo la periodizzazione, ma anche il contenuto e la forma di esposizione di un manuale di storia medievale.
" Diocleziano fu imperatore dal 284 al 305 . Giustiniano, che dalla parte orientale riconquistò ampie regioni di quella occidentale, regnò dal 527 al 565. La definizione di Tardoantico (in tedesco Spiitantik) fu coniata nel l901 da un austriaco, Alois Riegel.
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Medioevo: istruzioni per l'uso
Il Medioevo convenzionale
Partizione italiana
Partizione inglese e tedesca
V sec . ......: -- � xv sec. Medioevo
v sec. ...: • XI ......: - ---- - --- -• xv sec. alto Medioevo basso Medioevo
v sec. .... . - -� x ......: � XIII ......: � xv sec. alto pieno tardo
Medioevo Medioevo Medioevo
Periodizzazioni III sec . ............ VI sec. XIV sec . ......: .- XVIII sec. alternative Tardoantico Ancien régime
Di Diocleziano, di Costantino, dell'economia "statale" dell'impero romano si parla in ogni manuale di storia medievale, anche se non con lo stesso grado di approfondimento di un manuale di storia romana, e il motivo è quello che si è detto sopra: l'impossibilità di separare nettamente età antica ed età medievale. Lo stessa incertezza si riscontra anche per quanto riguarda l'altro capo del Medioevo, cioè la sua fine: le trattazioni di storia moderna (un altro esame ! ) partono dal XIV secolo: quel periodo, caratterizzato dalla cesura dell'epidemia di peste nera (dal 1348) e dalla crisi demografica ad essa collegata (ma non causata soltanto dalla peste) , è stato separato dal resto del Medioevo nell'insegnamento scolastico a partire dal 1997 . La nuova partizione non è stata però adottata nell'università, e talvolta non ha successo neppure a scuola. 10
Tutto ciò rende più difficile lo studio. Inoltre, il manuale universitario procede a velocità diverse: in certi capitoli narra fatti politici e descrive istituzioni, scandendole nell'arco di decenni e di
10 In tutte le scuole superiori italiane, tranne i professionali, il Medioevo dovrebbe essere studiato al secondo anno, insieme con gli ultimi secoli della storia romana (III-XIV secolo) , mentre il periodo 1350- 1492 è accorpato all'inizio dell'età moderna (fino al l650) nel terzo anno. Non sempre si riesce però a "finire il programma" : ne soffre in particolare il Medioevo, perché, non trattato completamente nel secondo anno, non può essere recuperato dal docente del terzo anno, che per di più è cambiato. Perciò gli studenti universitari trovano maggiori difficoltà nello studio del Medioevo, che conoscono pochissimo.
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secoli, alla peculiare velocità di trasformazione dei fenomeni di quella natura, in altri si sofferma su strutture e questioni di lunga durata: qui le date sono poche, e si va avanti tra "crisi " , "svolte" , " rivoluzioni" che durano due o tre secoliP 1 Nei manuali non manca mai un capitolo sull'economia nell'alto Medioevo, il cui centro è il sistema curtense, 12 così come non manca mai una trattazione della crescita produttiva, commerciale e urbana nei secoli centrali del Medioevo, 13 o della demografia nel tardo Medioevo, affrontata quando si parla della crisi del XIV secolo. Lo studente deve studiare queste parti come delle mini-monografie: sia perché esse narrano un'altra storia, con diversa velocità e durata, rispetto alle parti politico-istituzionali, sia perché esse utilizzano il linguaggio di altre discipline, diverse dalla storia medievale ma, in questo caso, ad essa complementari: la storia economica, la demografia, la storia del diritto. Anche qui, l'uso di un vocabolario o di un dizionario del Medioevo (ce ne sono diversi in commercio) è utilissimo: vi si cercheranno, per esempio, termini come rotazione delle colture, conduzione diretta e indiretta, rendimenti agricoli, transumanza, trend demografico, ciclo malthusiano, tasso di natalità, stagnazione economica, obbligazioni, canoni ecc.
1 1 La riflessione sulle diverse velocità dei tempi della storia è stata portata avanti, nel Novecento, dallo storico francese Fernand Braudel.
12 Per curtis si intende sia l'azienda agraria (edifici e terre), sia una particolare forma di organizzazione agraria dell'alto Medioevo (il sistema curtense) basata sull'integrazione funzionale tra la conduzione diretta e quella indiretta, cioè tra le terre coltivate dai contadini alle dirette dipendenze del padrone e le terre (distinte in lotti definiti mansi) affidate in gestione ad altri contadini, più autonomi dei primi anche se di condizione servile. L'integrazione non era solo assicurata dai versamenti in denaro o natura che i contadini dei mansi dovevano al padrone, ma anche dalle corvées (prestazioni d'opera gratuite) . Nei periodi di maggiore attività agricola, i detentori dei mansi su p portavano con il loro lavoro, non retribuito, i contadini delle terre a gestione diretta. Dunque la forza-lavoro dei contadini dei mansi era un elemento di "flessibilità" per il padrone, il quale non avrebbe potuto procurarsi in alcun modo braccianti per i periodi di maggiore attività.
1 3 Questo argomento è ancora tradizionalmente chiamato la ripresa dopo il Mille, anche se ora si ritiene che la lenta crescita demografica ed economica dell'Occidente sia cominciata almeno nell'VIII secolo, e che - semplicemente - nell'xi secolo essa si manifesta con evidenza nelle fonti disponibili.
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Medioevo: istruzioni per l'uso
2 .4 Geografia della storia medievale
L'eterogeneità e dunque la difficoltà della disciplina storia medievale si manifesta anche in un altro modo. Se non è esistita una civiltà medievale perfettamente coincidente con quel periodo detto medievale, qual è, per così dire, il soggetto del Medioevo? La disciplina storia romana ha un centro di interesse evidentissimo: lo stato romano, dalla fondazione di Roma alla costituzione di un impero enorme. Nonostante le grandi trasformazioni, la storia romana deriva da questa condizione una sua coerenza interna, occupandosi, dal punto di vista geografico, delle regioni che via via Roma conquistò o con le quali semplicemente entrò in contatto. Esistevano del resto, ed erano percepiti dagli stessi romani, dei legami, talvolta contraddittori, talvolta deboli, tra la società, le istituzioni, la cultura della Roma monarchica e quelle della Roma imperiale tardoantica. Così, chi studia storia romana è favorito dalla continuità dell'oggetto di interesse e dalla sua chiara collocazione geografica, anche se, come dichiarava candida una bambina delle scuole elementari, potrebbe non capire perché «l'anno scorso i romani vincevano sempre, mentre quest'anno perdono sempre» . . .
Se s i osservano in successione i capitoli d i un manuale d i storia medievale, si può facilmente notare come al centro della trattazione vi siano invece aree geografiche e soggetti politici diversi, studiati con un diverso grado di attenzione a seconda del punto del manuale in cui essi sono trattati. La tradizione dell'insegnamento ha selezionato una serie di contenuti che non possono mancare mai, ma di essi alcuni riguardano la storia politica e religiosa di tutta l'area latino-germanica, la parte dell'impero romano che fu occupata da popolazioni germaniche tra V e VI secolo (mi riferisco ad argomenti come le invasioni barbariche, l'impero carolingio e la sua dissoluzione, la riforma della Chiesa e la lotta per le investiture, le crociate) ; altri si limitano ad alcuni passaggi fondamentali della storia dell'Italia (i Comuni e lo scontro con Federico Barbarossa, la fondazione del regno di Sicilia da parte dei normanni, la nascita delle Signorie cittadine, la formazione degli stati regionali) . C i sono argomenti che naturalmente non mancano mai, ma che appaiono allo studente come scollegati dagli altri, e dunque difficili da ricordare: il Meridione d'Italia nell'Alto Medioevo, tutta la storia dell'impero bizantino dopo Giustiniano, per non parlare
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dell'Europa orientale e dell'Asia. Molte aree dell'Europa e dell'Italia restano chiaramente ai margini della trattazione: si pensi solo - quattro esempi per tutti - a Portogallo e Svizzera, a Sardegna e principato di Trento, pressoché assenti negli indici dei luoghi dei manuali.
Un altro esempio: l'islam è trattato approfonditamente nella prima parte del manuale, in un capitolo specifico (caratteri della predicazione di Maometto, espansione araba) . Dopo il 750 (fine del califfato degli Omayyadi) il mondo islamico compare rapsodicamente nella trattazione: quando si parla delle incursioni dei saraceni del x secolo, della Sicilia araba prima della conquista normanna, della reconquista cristiana della penisola iberica, delle crociate, della conquista turca di Costantinopoli. In tutti questi casi il punto di vista del narratore, potremmo dire, è quello dell' antagonista, ovvero l'Occidente.
Lo studente dovrebbe allora sforzarsi di collegare tra loro paragrafi diversi del manuale, e soprattutto di comprendere perché un certo argomento è posto in un dato punto dell'esposizione, perché a un altro si dedica molto poco spazio rispetto alla trattazione principale.
Siamo ritornati alla domanda iniziale: di cosa si occupa la trattazione principale?
La disciplina storia medievale che si studia nelle nostre scuole e università si occupa in sostanza della storia dell'Europa occidentale, con un occhio di riguardo per la penisola italiana. L'Europa occidentale non va però intesa come mero concetto geografico (che pure, nel linguaggio comune, presenta qualche difficoltà di identificazione: l'isola britannica fa parte geograficamente dell 'Europa occidentale? ) , ma come un concetto culturale: il vero centro d' interesse è dunque l 'Occidente, la civiltà occidentale, quella peculiare civiltà che sarebbe nata dall'incontro latino-germanico, che è profondamente segnata dall'esperienza del cristianesimo, che ha avuto il suo centro politico nell'Impero e poi nei grandi regni del basso Medioevo, e che in età moderna e contemporanea ha sottomesso aree vastissime del globo esportando i propri modelli istituzionali (lo Stato) , economici (il capitalismo, ma anche il comunismo), culturali e religiosi. Il concetto di civiltà occidentale, talvolta sovrapposto a quello di Europa, continua a essere usato oggi, in quanto elemento di identità di gran parte del-
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Medioevo: istruzioni per l'uso
l'Europa e di alcune aree del mondo storicamente legate all'Europa, come gli Stati Uniti, in primo luogo. Esso è però assai ambiguo e incerto, oltre a essere oggetto di contestazioni. Si pensi a quello che sta succedendo nel processo di integrazione europea. L'Unione Europea è da identificarsi con l'Europa, come specifica area di civiltà? La Turchia fa parte dell'Europa? La religione cristiana occupa un posto decisivo nelle origini e nell'identità dell 'D nione Europea/Europa? 14
Nessun manuale affronta sistematicamente tali interrogativi, che però aleggiano nella trattazione quando si parla di "Carlo Magno padre dell'Europa" , "espansione dell'Occidente" , di capitalismo medievale, di civiltà medievale: parlarne significherebbe occuparsi più del presente che del passato, e rischierebbe di appiattire l'esposizione su un piano ideologico, un piano in cui le ragioni della conoscenza scientifica non hanno purtroppo nessuna priorità, oppure favorire una lettura teleologica della storia europea, cioè come se essa avesse avuto sin dal principio una direzione precisa.
D'altra parte il manuale dedica grande spazio alla storia dell'Italia. L'interesse per la nostra penisola è del tutto ovvio, ma, anche qui, la selezione dei fatti, delle questioni, delle aree geografiche da trattare sistematicamente nell'ambito di una varietà enorme di sviluppi (tipica della nostra storia) mantiene traccia di vecchie priorità culturali e ideologiche. I manuali, infatti, dedicano ancora molto spazio ad argomenti che erano stati individuati come importanti durante il Risorgimento e soprattutto dopo l'unità, quando si ricercò nel passato medievale e moderno tutto ciò che potesse rafforzare il senso di appartenenza a una tradizione comune (che c'era, ma era letteraria e culturale ! ) , che potesse essere letto come una anticipazione del processo unitario, o che almeno provasse le virtù di un popolo che, benché sempre diviso politicamente, sarebbe stato uno solo fin dal principio. Da ciò derivarono l'attenzione per Arduino d'Ivrea, visto come primo " re d'Italia" , per l a guerra della Lega lombarda contro Federico Barbarossa e per la rivolta del Vespro contro Carlo I d'Angiò, episodi letti come eroico rifiuto dello straniero invasore.
1 4 Il testo della costituzione europea ha sollevato, qualche anno fa, lunghe polemiche perché non vi era un riferimento esplicito alle radici cristiane dell'Europa.
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L'immancabile descrizione di tutte le fasi dello scontro tra Comuni e Barbarossa ( 1 154- 1 189) , che distrae lo studente dalle motivazioni di fondo di quel conflitto (che certo non mancano in nessun manuale), è ancora oggi una conseguenza di quell'approccio tradizionale. L'autore del manuale fa fatica a non elencare tutti quei fatti . Eppure essi sono ormai ex fatti, come è stato notato, nel senso che sono venuti a cadere i presupposti culturali che, molto tempo fa, avevano portato alla loro selezione tra infiniti altri: quella guerra non è più giudicata dagli studiosi come una manifestazione della libertà italiana (né tanto meno padana ! ), un esempio esaltante in chiave politica attuale (l'Italia risorgimentale, l'aspirazione al federalismo dei nostri tempi) , dunque un evento da conoscere in tutti i suoi particolari, nella cronologia degli scontri e nei nomi di tutti i protagonisti. I manuali si soffermano più efficacemente su altri aspetti, come la funzione decisiva dei giuristi nell'elaborazione della concezione pubblica imperiale (vedi § 3 .6) . Questioni complesse, per far posto alle quali sarebbe necessario scacciare gli ex/atti. Ciò non sempre avviene, e lo studente si trova così a dover gestire una quantità di dati di differente qualità, con il pericolo che in lui prendano il sopravvento luoghi comuni o ricostruzioni a senso, anche se assenti nel manuale che egli legge.
Per concludere l'esemplificazione, ho ascoltato a un esame che i Comuni non volevano più pagare le tasse a Federico Barbarossa. Ora, deve esser chiaro che l'imperatore non controllava direttamente ed efficacemente il regno i tali co, l'area in cui si svilupparono i Comuni, da almeno due secoli, dal periodo cioè della dislocazione signorile del potere (nei secoli X-XI il potere pubblico non era più esercitato da funzionari dipendenti da un centro, ma da signori locali: vedi § 3 .4 ) . Ecco la novità della spedizione di Barbarossa rispetto a quelle dei predecessori: ecco perché le sue pur moderate richieste (un palazzo imperiale in città, un giuramento di fedeltà ai suoi vicari da parte dei consoli comunali) erano ritenute inaccettabili da parte di cittadinanze che, di fatto, erano indipendenti da prima che nascesse l 'organizzazione comunale. Eppure Barbarossa cercava di fare esattamente quello che riuscì ai re di Francia: centralizzare, anche se lentamente e moderatamente, il potere pubblico, costruendo un regno più solido. Perché la stessa operazione ha un significato positivo per la storia francese e negativo per quella italiana? Perché la monarchia francese e il Comune
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Medioevo.· ùtruzioni per l'uso
italiano sono, nella nostra tradizione culturale, manifestazioni di civiltà e positività, anche se per motivi diversi.
Altro esempio: che bisogno c'è di ricordare che la rivolta del Vespro (Palermo, 1282 ) fu originata da un gruppo di francesi che importunarono una donna siciliana, se subito dopo si precisa che si tratta di una spiegazione priva di fondamento (risalente a un cronista coevo) e che le vere cause di quella ribellione furono altre? Lo studente è disturbato da quell'informazione inutile, un altro ex /atto, superstite di un diverso e più antiquato modo di fare la storia d'Italia (una galleria di eroi " italiani" da Orazi e Curiazi a Enrico Toti ! ) e finisce per ricordare l'aneddoto e dimenticare la sostanza, come ho verificato agli esami in più di un caso.
Se non lo fa il manuale o il professore a lezione, spetta allora allo studente il compito di selezionare i contenuti più rilevanti tenendo fermo che il soggetto della trattazione è l'Occidente, anche se forse per qualcuno potrebbe essere imbarazzante ammetterlo.
2 .5 La disciplina: problemi di focalizzazione
Il manuale si muove continuamente tra storia politica e istituzionale e storia religiosa, sociale, economica, della mentalità, della tecnologia, della medicina, della cultura, della lingua, della grafia, e così via, all'infinito. Passa inoltre dalla storia dell'Occidente a quella dell'Italia, occupandosi rapsodicamente di altre civiltà, come l'aria asiatica al tempo dell'espansione mongola. Non solo la categoria " Medioevo" è dunque un contenitore di diversi periodi storici, determinabili diversamente a seconda dell'interpretazione o del punto di vista, ma anche la categoria "storia medievale" è un contenitore di diverse discipline, ognuna con i sui termini tecnici, i suoi metodi, le sue fonti. Il manuale finisce per essere, inevitabilmente, il surrogato di una enciclopedia multidisciplinare, che sconfina continuamente dal punto di vista tematico e cronologico.
A partire dalla seconda metà del Novecento lo studio del Medioevo (e di altri periodi storici) ha vissuto una costante dilatazione di prospettive. Tale dilatazione ha intasato oltre ogni misura i manuali, che hanno assorbito tutte le sollecitazioni della ricerca storica, mentre è stata abbandonata definitivamente (e giustamen-
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te) la prospettiva nazionalistica, che però dava una certa omogeneità allo studio mettendo al centro l'Italia e la nazione italiana, come si è osservato.
Si tratta di un fenomeno tipico delle discipline umanistiche: le nuove acquisizioni (le nuove scoperte documentarie, le nuove prospettive, le fruttuose interferenze di altre discipline . . . ) e le nuove interpretazioni, anche quando sono accettate da tutti gli studiosi, non scacciano mai del tutto le vecchie, ma si aggiungono ad esse per accumulazione o contrapposizione. Mi spiego: mentre nell'insegnamento della biologia la genetica ha provocato e provoca continuamente una riorganizzazione dei contenuti da insegnare, lo stesso non avviene nell'insegnamento della storia, che a fatica si libera degli ex-fatti, cioè di fatti, questioni, ma anche interpretazioni che oggi nessuno studioso più considera prioritari o corretti.
Ne consegue, ripetiamo, che lo studente trova difficile individuare le informazioni e le questioni più importanti, ciò che bisogna assolutamente sapere per superare l'esame. In realtà, una selezione nella gran quantità di cose che un manuale spiega o racconta c'è, ma essa si va formando spontaneamente e disordinatamente nella comunità degli studiosi.
Facciamo altri esempi: la storia del regno italico dopo la disgregazione dell'impero carolingio (887 -962 ) fu caratterizzata da una grande instabilità, perché la carica regia, cui era collegata quella imperiale, fu contesa tra due o tre famiglie di grandi signori territoriali, detentori di cariche pubbliche. La successione dei re, gli schieramenti degli altri signori locali e del papato romano per l'uno o l'altro contendente sono riferiti da molti manuali con maggiore approfondimento rispetto alle vicende contemporanee degli altri regni postcarolingi (Franchi occidentali e Franchi orientali) . Tale trattazione particolareggiata risulta difficile da memorizzare, sia perché le vicende sono effettivamente complicate, sia perché per comodità espositiva esse sono trattate separatamente da altre questioni, di cui la storiografia si è molto occupata nel Novecento: mi riferisco alla allodialità del potere, un fenomeno definito dallo storico Giovanni Tabacco che uno studente di storia medievale non può non conoscere (vedi pp. 85 -86) , ma anche alle incursioni di saraceni e ungari in quelle stesse regioni e in quello stesso tempo in cui si scontravano i vari aspiranti alla corona ita-
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lica, con il fenomeno dell'incastellamento. 15 La riflessione a parte su tali questioni di difficile comprensione (sono del resto assolutamente lontane alla nostra esperienza) , ha un effetto collaterale paradossale, riducendo la trattazione delle vicende politiche del regno a una mera elencazione, che resta tale nonostante i rinvii ai fenomeni suddetti. Lo studente si chiederà, a questo punto, se può trascurare il nome di Berengario d'Ivrea. Direi che dovrebbe comunque fare lo sforzo di ricordare le forze in campo in quel periodo, concentrandosi però sul resto. Sono certo, però, che egli dimenticherà presto quei nomi, ma non, se l'avrà ben capita, la allodialità del potere.
Non tutto è possibile ricordare, non tutto è possibile sapere. Si tenga presente, comunque, che chi supera un esame di storia medievale non deve dimostrare di conoscere perfettamente la storia medievale (con tutte le ambiguità di questa definizione), ma semplicemente un manuale, dunque deve sapersi orientare in quei secoli e in quelle questioni.
Secondo esempio: il Comune, argomento tra i più rilevanti della storia italiana, non tanto per la deformazione ideologica cui si è accennato, ma per l'unicità e importanza di quell'esperienza politica, sociale, culturale vissuta da numerose città del centro e del nord della penisola. Lo studente attento si accorgerà che non può ricordare tutti gli esempi cui accenna il manuale, ma che conviene soffermarsi su quelli di Milano e di Firenze, la prima soprattutto per la questione delle origini del Comune e della composizione sociale delle sue élite dirigenti (XI secolo) , la seconda per il Comune di popolo e il fenomeno delle leggi antimagnatizie, dunque per un periodo successivo (XIII secolo: vedi pp. 12 1 - 123 ) . In effetti, Milano e Firenze sono una sorta di modello, una pietra di paragone per gli studiosi della civiltà comunale italiana, per ragioni storiche e storiografiche, cioè sia per l'effettiva importanza politica delle
15 È definito incastellamento il fenomeno della diffusione di castelli e altre fortificazioni tra x e XII secolo. Il fenomeno è interessante perché i castelli, costruiti a volte da signori fuori da ogni collegamento con l'autorità pubblica, diventarono la base di poteri locali autonomi, e perché in alcune aree la nascita dei castelli, nuovi centri di popolamento e di sfruttamento della popolazione, modificarono fortemente l'organizzazione del territorio.
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due città, sia per la disponibilità di fonti e, conseguentemente, di studi su entrambe. Con maggiore difficoltà lo studente individuerà un'altra questione fondamentale, che è finita al centro del dibattito storiografico da tempi più recenti (ma ciò significa quasi un secolo . . . ) , quella dell'espansione nel contado.16 Si tratta di un fenomeno tipico dei Comuni italiani, foriero di interessanti sviluppi, al quale i manuali non possono dedicare molto spazio, ma che una serie di indizi rivelano fondamentale: i titoli dei paragrafi, gli eventuali approfondimenti.
La difficoltà dello studio della storia medievale deriva, per concludere, dalle contraddizioni della tradizione scientifica e didattica. Uno studio fruttuoso deve dedicarsi in primo luogo all'individuazione di ciò che è veramente importante, e naturalmente alla sua comprensione e memorizzazione (le tre operazioni sono contemporanee) . Il metodo di studio che spesso gli studenti lamentano di non avere non è altro che questo. Leggere più volte il manuale, dall'inizio alla fine, come se fosse un romanzo o un'esposizione coerente e strutturata al pari di quella, mettiamo, delle istituzioni di diritto privato, è un errore. Non si riuscirà mai a memorizzare un flusso così disomogeneo di argomenti. Converrebbe invece saltare liberamente da un capitolo all'altro, dalla fine all'inizio, smontando l 'artificiosa costruzione sequenziale del testo. Purtroppo, fornire allo studente un elenco di cose importanti (date, fatti, spiegazioni lapidarie di alcune questioni) , dunque un bignami di storia medievale non serve a nulla, perché è la selezione stessa che facilita la comprensione e memorizzazione di un argomento, come ben sanno quelli che vanno male all'esame dopo che, a lezione, avevano preso appunti meccanicamente, senza riscontrare subito le preziose istruzioni per l'uso fornite oralmente dal docente con ciò che è scritto nel libro di testo. Fanno ancora peggio quelli che copiano le sottolineature del compagno di corso (ne ho conosciuto qualcuno . . . ) .
16 Si definiva «contado» il territorio su cui un Comune estendeva la sua autorità. La parola deriva da comitatus «circoscrizione del conte, contea». Il cambiamento di significato è interessante: i Comuni italiani pretendevano di controllare i territori che nell'età carolingia dipendevano dal conte, un funzionario imperiale che generalmente risiedeva in città.
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Medioevo: istruzioni per l'uso
Per capire quali sono le priorità della disciplina storia medievale, cioè le cose importanti che non si possono non sapere, lo studente deve ovviamente leggere con attenzione il manuale, senza badare tanto all'estensione quantitativa dell'uno o dell'altro argomento, ma riflettendo, per esempio, sui titoli dei paragrafi e dei capitoli. Lo studente dovrebbe sempre chiedersi perché una certa parte del manuale è stata intitolata in quel modo, e magari, sia dopo la prima lettura che al momento della ripetizione, provare a ricordare la tesi centrale di quella parte (capitolo o paragrafo che sia) , a libro chiuso, cioè scorrendo l'indice. Scoprirà che alcuni paragrafi e perfino alcuni capoversi sono assai più importanti di altri, e vanno quindi compresi fino in fondo e fissati nella mente, perché intorno ad essi verteranno sia la domanda che la risposta in sede di esame.
Naturalmente, seguire con profitto le lezioni (con profitto significa studiare il manuale contemporaneamente al corso, magari chiedendo immediatamente chiarimenti al docente) è la strada principe per ben impostare lo studio di questa, come di tutte le altre discipline, ma purtroppo ciò non è sempre possibile.
Un altro modo, più empirico ma pericoloso, per individuare le cose più importanti è ascoltare le interrogazioni dei propri colleghi. Non mancano mai, in alcune particolari sessioni, quelli che un mio amico - peraltro mai laureatosi ! - chiamava sprezzantemente i giornalisti, cioè gli studenti che, armati di penna e taccuino, segnano tutte le domande del professore durante l'esame di altri. Perché questa operazione dia risultati significativi lo studentegiornalista (come i veri giornalisti) dovrebbe già conoscere la storia medievale, ovvero ciò di cui si parla, altrimenti confonderà la gerarchia delle domande, non distinguendo tra quelle sostanziali («Mi parli dell'incastellamento») e quelle casuali e talvolta bizzarre, generate da risposte sbagliate dello studente, le quali finiranno per spaventarlo. In più, non avrà comunque modo di sapere quali sono le risposte giuste !
2 .6 L'idolo delle origini
Abbiamo accennato a una affermazione molto comune, quella del passato che spiega il presente. La ragione principale per la quale si
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studia la storia (non solo medievale) sarebbe appunto quella di conoscere le origini delle nostre istituzioni politiche, sociali ed economiche, della nostra cultura, dei nostri problemi: in una parola le origini del nostro presente, come recita qualche titolo di manuali scolastici di storia.
Alla dipendenza del passato dal presente si collega un'altra considerazione, che riguarda il rapporto di causa-effetto tra gli eventi storici. Essa si può sintetizzare nell'espressione latina: post hoc, propter hoc: ciò che viene dopo è causato da ciò che viene prima. Di conseguenza, per capire il dopo bisogna risalire al prima.
Mare Bloch, che abbiamo già citato, ha definito «idolo delle origini» l'ossessione che porta a ricercare a tutti i costi le origini dei fenomeni storici. Al contrario, un fenomeno del presente o del passato (un'istituzione, una struttura economica, un fatto culturale) andrebbe innanzitutto analizzato e compreso nel tempo in cui si manifestò appieno, e solo in un secondo momento ne andrebbero rintracciate le origini. Bloch non negava la possibilità di rintracciare le origini, si opponeva semplicemente all'identificazione delle origini con le cause. Le origini - scrive Bloch - sono nel vocabolario corrente «un cominciamento che spiega. Peggio ancora: che è sufficiente a spiegare. Qui sta l'ambiguità; qui sta il pericolo». Il grande storico metteva in guardia dalle spiegazioni banali: per esempio, sapere che le prime tribù germaniche entrarono in contatto con lo stato romano già nel II secolo a.C. non fornisce nessun elemento alla comprensione delle migrazioni del v e VI secolo, ben diverse dalle incursioni di cimbri e teutoni sconfitti da Mario ( 1 13 - 1 0 1 a .C. ) , un "precedente" che potremmo anche trascurare perché riguarda soggetti storici e contesti assolutamente differenti.
Veniamo alle cause, che ovviamente sono oggetto privilegiato della ricerca storica. È difficile che di un fenomeno storico si possano individuare con certezza incontrovertibile le cause: perché esse possono essere diverse e concomitanti, perché potremmo non avere sufficienti informazioni al riguardo, ma soprattutto perché i fatti umani non si possono spiegare come delle reazioni chimiche. Due sostanze, messe a contatto in condizioni determinate, reagiranno tra loro sempre nello stesso modo. In storia, invece, non esistono leggi necessarie: come le stesse origini non danno inizio a evoluzioni uguali, così le stesse cause non hanno gli stessi effetti.
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Medioevo: istruzioni per l'uso
Del resto, anche dopo aver raggiunto una spiegazione assai probabile di un fatto storico, basata su dati sicuri, non potremo mai riprodurlo in laboratorio. Per questo motivo, è fallace anche la convinzione che la storia sia maestra di vita (bistorta magistra vitae, si dice con un'altra espressione latina) , se con questa affermazione si intende che, una volta conosciuto il passato, sia possibile ricavarne infallibili istruzioni pratiche per il presente.
Il passato che spiega il presente, il poi che spiega il prima (post hoc, propter hoc), la storia che ci istruisce su come comportarci oggi (historia magistra vitae) : nel sentire comune queste affermazioni hanno un significato assoluto, banale, perché corrispondono a una visione meccanicistica e rassicurante dei fatti umani, i quali invece sono sempre complessi, ambigui, imprevedibili. Nella nostra esperienza quotidiana ciò è ovvio: chi riterrà che conoscere le origini romane di Milano basti a spiegarne l'assetto urbanistico attuale? Chi indicherà una sola causa per una storia d'amore finita male, e chi sarà capace di trame un insegnamento certo per le esperienze affettive successive? Chi riuscirà a dimostrare una connessione causale inequivocabile tra fenomeni di natura diversa, indicare una causa economica per un fatto politico o culturale, e viceversa? Talvolta ci si dimentica che ciò è ovvio anche per il passato, che anche il passato è stato complesso, ambiguo, imprevedibile. Per queste difficoltà, naturalmente, non si rinuncia a cercare cause ed origini: bisogna però tener presente che si tratta di un'operazione complicata, che necessita di tempo e di metodo.
Nei manuali, l'allineamento bene ordinato, sull'asse della cronologia, di tanti fatti, ormai immutabili (tutti quelli che la tradizione ha selezionato come fatti storici importanti) favorisce inevitabilmente, contro la volontà dello stesso autore, l'impressione che essi non potevano che andare così, che l'uno è causa dell'altro, che bisogna imparare tutto in successione per poter capire, in una catena che non si spezza mai fino al presente.
Molti storici e filosofi hanno riflettuto sul rapporto tra passato e presente, sul concetto di causa, e non è questo il luogo per approfondire tali questioni. Le abbiamo richiamate in maniera semplificata perché esse hanno un effetto sullo studente di storia medievale. Nell'organizzare il suo apprendimento, e anche nell'esposizione in sede di esame, lo studente compie errori che dipendono da questa concezione meccanicistica della storia, intesa come una
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sequela di fatti legati tra loro da un vincolo di necessità, come se si trattasse di un congegno automatico.
Egli invece dovrebbe liberarsi dall'idolo delle origini e dalla schiavitù della cronologia (post hoc, propter hoc) e chiedersi subito, prima di imparare in bell'ordine tutti i fatti, che cos'è il fenomeno che gli viene presentato in una parte del libro di testo. Studiando la prima crociata, per esempio, lo studente dovrebbe sforzarsi di ricavare subito dal manuale una definizione breve ed efficace della stessa, e solo in un secondo momento riflettere sulle sue cause (spirituali? culturali? economiche? fu semplicemente la risposta all'appello di Urbano II a Clermont-Ferrand?) e sulle origini (la spedizione normanna in Sicilia? la reconquista nella penisola iberica? le paci di Dio in Francia? ) .
«La prima crociata fu un pellegrinaggio armato di guerrieri cristiani, in prevalenza franchi e normanni, al sepolcro di Gesù Cristo. Essa si tenne nel 1 096-99 e portò alla conquista di Gerusalemme e di altri territori islamici nel Vicino Oriente». Una definizione come questa, completa di datazione e collocazione geografica, dovrebbe essere sottolineata nel testo, o scritta al margine, in modo da essere fissata nella mente. Lo studente dovrebbe fornirla subito al docente (e a se stesso) durante l'esame, senza perdersi in inutili preamboli introduttivi. Solo dopo egli passerà a spiegare meglio ogni parola di quella definizione, a cominciare dal fatto che, per molto tempo, i contemporanei non usarono affatto la parola crociata per quelle imprese. Chiarito che cosa è quella che i libri di testo definiscono prima crociata, quando e dove si è effettuata, si passerà al più difficile come e perché c'è stata una prima crociata (preceduta peraltro da una crociata "zero" , quella cosiddetta dei poveri) .
Altra possibilità: durante l'esame lo studente, dopo aver fornito l'informazione essenziale che si è detto, potrebbe immediatamente distinguere tra la prima crociata, e l'idea di crociata, che nacque dopo la prima crociata, l'idea cioè della guerra santa, giustificata dal suo fine. Secondo questa concezione, un buon cristiano poteva servire Dio (e andare in Paradiso ! ) esercitando la violenza sui suoi simili; soltanto il papa, capo della Chiesa cattolica universale, aveva l'autorità di proclamare la crociata contro chi fosse da lui individuato come nemico delle fede: il musulmano, il cristiano ortodosso, l'eretico, infine chiunque si opponesse in qualche m o-
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do al pontefice. Tutte queste affermazioni sarebbero anacronistiche, se riferite al 1099, quando i cristiani conquistarono Gerusalemme, perché corrispondono piuttosto all'ideologia papale del tardo XII e del XIII secolo.
Dunque, la narrazione continua del manuale va disarticolata, rompendo l'ordine degli argomenti, estrapolando le definizioni da ricordare, cercando di classificare tutte le informazioni in una griglia basata sull'aurea regola che prescrive, quando si parla di qualcosa, di definirla subito rispondendo a cinque domande essenziali: chi, dove, quando, che cosa, perché. Ogni argomento, classificato secondo questi parametri, andrebbe delimitato, sganciandolo da quelli precedenti. Convertire l'esposizione ampia e articolata del manuale in pochi elementi fondamentali significa capire e ricordare, rinunciando a memorizzare la successione argomentativa del testo, cosa impossibile. Gli studenti che fanno l'inutile sforzo di imparare il testo parola per parola si riconoscono subito, perché, già alla prima risposta, esordiscono con un «Come abbiamo visto . . . » ripreso pari pari dal manuale! Consiglierei di schematizzare tutti gli argomenti del manuale secondo quelle cinque domande, dedicando a ognuno un solo foglietto di quaderno, preferibilmente sciolto per favorire la consultazione e la ripetizione.
Questa operazione di smontaggio del testo e di schematizzazione di un numero limitato di argomenti (uno per capitolo, o per più capitoli) è molto diversa dal riassunto, che è da sconsigliare. A volte commento con gli studenti andati male all'esame i riassunti che essi hanno prodotto con grande impegno, riscontrando sempre errori gravi e altrettanto gravi omissioni. Il manuale è già un riassunto, fatto però da uno specialista, che ha molto ben ponderato quello che ha scritto. Fare il riassunto di ciascun paragrafo è un errore, specie se dopo lo studente leggerà soltanto quello, senza più tornare al testo originale, su cui invece è opportuno esercitare in tempi differenti la propria intelligenza. In più, il riassunto accentua ulteriormente quell'impressione di meccanica consequenzialità delle trasformazioni storiche. Rileggendo i propri riassunti lo studente finirà per fissare nella sua mente formulazioni imprecise, da lui elaborate quando aveva letto per la prima volta il testo, cioè nel momento in cui sapeva meno dell'argomento in esso trattato ! Rileggere il testo integralmente e confrontarlo con la propria breve schematizzazione è invece un esercizio molto più proficuo,
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I.: oggetto Medioevo e la disciplina "storia medievale"
che consente di riparare ad eventuali fraintendimenti. Se proprio si trova comodo fare un riassunto come primo approccio al testo, esso andrà subito gettato via, altrimenti alle tante contraddizioni del manuale e della storia generale che esso racconta si aggiungeranno le proprie insufficienze e ingenuità.
2 .7 Il Medioevo come paradigma dell'antimoderno
Nata come definizione sbrigativa nel XV secolo, la parola Medioevo e l'aggettivo medievale conservano una valenza negativa. Nel linguaggio comune medievale, lo abbiamo già detto, definisce ciò che è oscuro, arretrato, irrazionale, e che magari è suggestivo e attraente proprio per queste sue caratteristiche. Antico ha invece una più precisa connotazione temporale: l 'età antica oppure semplicemente ciò che è finito per sempre, e dunque assume interesse e suscita ammirazione. Medievale è il passato che non passa, il negativo che rispunta, contro il positivo del moderno. Medievale è, in una parola, ciò che non è moderno.
Le ragioni di questi significati di medievale e moderno sono naturalmente storiche, legate cioè alla storia del concetto di Medioevo ( § 2 . 1 ) .
Come giudizi di valore, medievale e moderno sono speculari: sono categorie del nostro linguaggio, indipendentemente dal loro significato cronologico convenzionale (medievale = ciò che è accaduto tra V e XV secolo; moderno = ciò che è accaduto tra XVI e XVlll secolo) e, ancor più, dai caratteri peculiari che quelle due epoche avrebbero avuto (sappiamo però che, almeno per quanto riguarda l'età medievale, essa non ha un'identità di facile definizione, o non la ha affatto) .
Non casualmente, un fortunato filone letterario e cinematografico, che ha illustri precedenti, rappresenta il collasso della nostra attuale civiltà, della civiltà moderna, 17 come un ritorno al Medioe-
17 Il filosofo Giambattista Vico ( 1668·17 44) elaborò una visione ciclica della storia umana imperniata su una lettura originale dell'età medievale, intesa come un periodo di barbarie, dalla quale ricavò dei principi universali della vita socia· le (la Scienza nuova) . Una ricaduta nella barbarie era a suo giudizio possibile nel futuro, così come era avvenuto alla civiltà romana.
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Medioevo: istruzioni per l'uso
vo. A molti di noi, cullati dal benessere che ci assicurano i progressi scientifici e tecnologici, piace infatti figurarci un futuro alla rovescia, dove la natura riprende il sopravvento sull'uomo (le malattie, il buio, le distanze insormontabili, le bestie feroci) ; dove le regole del vivere civile vengono stravolte dalla violenza, dall'ignoranza, dall'isolamento; dove gli uomini sono circondati, o credono di essere circondati da esseri mostruosi e da forze magiche, positive o negative (i draghi, le streghe) .
Nella nostra quotidianità, poi, bastano un minimo disagio (il treno in ritardo, la lettera non recapitata, la strumentazione elettronica obsoleta) ; una regola di comportamento percepita come ingiusta (il genitore che impone un orario di rientro alla figlia, il preside che rimprovera gli alunni che si baciano nel corridoio) ; un richiamo agli aspetti non razionali della fede cattolica, che nessun pontefice ha mai negato e che chi si definisce cattolico dovrebbe accettare (il prete che parla dell'esistenza del diavolo, il vescovo che non concede la celebrazione della messa funebre per un suicida) , per gridare al Medioevo, per bollare quelle disfunzioni, quegli oggetti, quei comportamenti, quegli aspetti della religione come medievali, e perciò stesso da esecrare.
C'è però qualcosa di buono, in questo Medioevo immaginario che collochiamo ora nel passato, ora nel futuro: sono i valori dell 'eroismo, della lealtà, dell'amicizia, della devozione alla donna amata, che poco spazio sembrano avere nella nostra società, in una parola i valori della cavalleria, che già nel Medioevo erano esaltati, ben oltre la loro forza effettiva, nella letteratura (poesie, chansons de geste, romanzi e poemi cavallereschi) . Siamo così lontani, nei nostri comportamenti, nella nostra vita affettiva, nelle nostre relazioni con l'autorità, dal mondo letterario della cavalleria, che possiamo piacevolmente vagheggiarlo, dimenticando per un momento quegli aspetti che giudicheremmo senz' altro negativi (medievali) , come la subordinazione dell'individuo agli interessi della famiglia e della comunità, l'inferiorità della donna, l'obbedienza assoluta all'autorità.
Questi aspetti, in realtà, non sono legati necessariamente ai secoli medievali , perché alcuni non sono affatto da attribuire a quel periodo ( i roghi delle streghe, per esempio, che si praticarono soprattutto tra il xv e il XVI secolo) , altri si possono tranquillamente estendere a molte altre epoche, e persino al presen-
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te (l 'inferiorità della donna, che è ancora la normalità in alcune parti del mondo) .
Non avrebbe senso, se mai fosse possibile, estromettere dai nostri discorsi tanti usi impropri dell'aggettivo medievale. Di esso abbiamo bisogno, tutto sommato. L'importante è, se si prepara un esame di storia medievale o se si vogliono davvero accrescere le proprie conoscenze, non confondere il Medioevo paradigma dell' antimoderno, il Medioevo immaginario con i tanti diversi Medioevi che ricostruisce la ricerca storica occupandosi dei secoli dal v al xv.
2.8 Il feudalesimo, mostro inafferrabile?
Vicende analoghe alle parole Medioevo e medievale hanno vissuto, in verità, anche altri termini: boccaccesco è sinonimo di salace, dissoluto, ma Boccaccio non scrisse soltanto novelle boccaccesche. Fascista è un insulto che qualifica qualsiasi comportamento violento, qualsiasi forma di sopraffazione. Chi lo usa in questo senso non lo riferisce, se non vagamente, a un movimento politico particolare o a un preciso periodo storico: nel linguaggio corrente, fascismo e nazismo sono divenuti categorie eterne dell'esistenza umana, e si accompagnano talvolta a medievale e feudale.
Feudale e tutti i termini ad esso apparentati (feudo, feudatario, feudalesimo, barone, vassallo) sono anch'essi usati come giudizi di valore, ancor più negativi di medievale. Un quartiere viene definito il feudo della famiglia mafiosa che lo controlla. Il primario ospedaliero che fa vincere il concorso pubblico al figlio è un barone universitario. Baroni sono perfino quei professori universitari che saltano la lezione senza avvertire o che non rispettano l'orario di ricevimento ! Il partito politico che non è autonomo dal partito maggiore della propria coalizione è qualificato come suo vassallo. In tutti questi esempi le parole del lessico feudale potrebbero essere sostituite senza problemi da altre, le quali però non avrebbero la sfumatura odiosa dell'aggettivo feudale.
Feudalesimo è, nel nostro linguaggio, sinonimo di anti-Stato, di esercizio abusivo del potere in un territorio sottratto all'autorità pubblica ( la mafia) ; di uso improprio, illegale dell'autorità che proviene dalla propria funzione pubblica (il primario ospe-
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daliero e il professore universitario) ; di subordinazione eccessiva all'altro (il partito minore) . Una concezione feudale viene rimproverata a chi utilizza le risorse e le prerogative del proprio ruolo nell'amministrazione statale o in un'azienda per fini personali e senza rispettare alcuna regola. Allo stesso modo, chi impone ai collaboratori e dipendenti un ruolo assolutamente subalterno, o richiede loro incondizionata fedeltà in ogni occasione, ha una concezione feudale - si dice - delle relazioni umane e professionali. Anche feudale, dunque, si oppone spesso a moderno, sovrapponendosi a medievale.
A quest'uso generico di feudalesimo corrisponde una rappresentazione che torna spesso in bocca agli studenti, benché essa non compaia in nessun manuale universitario, quella del sistema feudale come una piramide di obbligazioni personali (la piramide feudale) . Carlo Magno, si dice, divise il suo territorio in feudi assegnati ai suoi vassalli, i quali a loro volta assegnarono feudi a propri vassalli (valvassori) . I valvassori fecero lo stesso con i valvassini, sotto i quali si raccoglieva poi l 'intera popolazione, fatta prevalentemente di contadini. Sarebbe interessante fare la storia di questa rappresentazione, ma qui basti avvertire che essa è completamente falsa, oltre che illogica. Se il governo di un territorio viene diviso secondo un sistema di dipendenze gerarchiche (la piramide) , perché mai non dovrebbe funzionare, e per di più già al tempo di Carlo Magno? Soltanto per la malvagità dei vassalli, valvassori e valvassini, cioè proprio quelli che erano stati scelti per la loro fedeltà? 18
Lo storico Giovanni Tabacco ha definito il feudalesimo come una «sorta di monstruum, divenuto concettualmente quasi inafferrabile»: in effetti si tratta di uno degli argomenti più complessi della storia medievale, a proposito del quale è opportuno ripetere la raccomandazione di consultare un dizionario del Medioevo, non essendo soddisfacenti le definizioni dei dizionari della lingua italiana.
L'accezione negativa del termine risale al XVIII secolo, quando fu definito feudale l'intero sistema di rapporti politico-sociali del Medioevo e dell'età moderna, caratterizzato da una certa fram-
18 Il termine valvassini, peraltro, fu usato solo in testi giuridici tardi.
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L oggetto Medioroo e la disciplina "storia medievale"
mentazione del potere pubblico, detenuto non soltanto dai funzionari statali ma anche dai feudatari; e dall'esistenza, nelle campagne, di contribuzioni varie ( diritti signorili), cui erano tenuti i contadini affittuari o l'intera popolazione di un villaggio nei confronti di un signore locale ( feudatari, enti religiosi come chiese e monasteri). Si trattava di censi (versamenti in denaro o in natura), di prestazioni lavorativ�-
-gratuite (corvées), di obblighi come quello di macinare il proprio grano nel mulino del signore, di mettere in vendita il vino solo dopo che il signore aveva venduto il suo ecc. Questo complesso di regole, comprensive di consuetudini assai antiche di forte subordinazione del contadino rispetto al padrone ( che oggi si preferisce definire signorili), furono chiamate genericamente " diritti feudali" , e furono prima criticate da riformatori, economisti, illuministi del xvm secolo, poi abolite da uno dei primi provvedimenti dei rivoluzionari francesi (l' abolizione della feudalità data all'l l agosto 1789) . Esse erano infatti inconciliabili con la concezione romanistica (derivata cioè dal diritto romano) della sovranità nel diritto pubblico e della proprietà privata nel diritto privato, una concezione cui si ispiravano riformatori e rivoluzionari ( e cui si ispira oggi il nostro ordinamento giuridico).
Più tardi, il filosofo tedesco Karl Marx ( 18 18- 1 883 ) riprese dai pensatori settecenteschi questa accezione, definendo feudale un particolare tipo di sfruttamento dell'uomo: quello del padrone della terra nei confronti del proprio se�YS:4 legato per sempre al terreno assegnatogli e costretto a cedere la propria forza lavoro. Per Marx la storia umana andava periodizzata in base al tipo di organizzazione economica, e in particolare in base al modo di produzione: quello primitivo; quello asiatico; quello antico, fondato sulla schiavitù; quello feudale che abbiamo detto (e che uno storico oggi classificherebbe come signorile); quello dei suoi tempi, basato sull'oppressione dei proletari da parte dei borghesi, che controllavano i mezzi di produzione (le fabbriche).
Oggi, dopo oltre un secolo di ricerche più propriamente storiche e giuridiche sul feudalesimo, sono stati identificati all'interno di questa definizione concetti differenti, fino al punto che molti studiosi preferiscono non usare questo vocabolo prima dell'xi secolo. Si distingue dunque tra il vincolo vassallatico-beneficiario, il legame personale tra due guerrieri ( signore, senior = il più vec-
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Medioevo: istruzioni per l'uso
chio e vassallo, vassus = il giovane) che comparve nella Gallia dell'VIII secolo e fu un elemento di coesione nel regno franco e nell'impero carolingio (VIII-IX secolo) ; la signoria fondiaria, cioè il potere economico e giuridico di un proprietario terriero sui contadini del proprio fondo, un fenomeno di lunghissima durata (ben diverso dal rapporto neutro che c'è oggi tra il proprietario e l 'affittuario, o tra il datore di lavoro e il bracciante) ; il feudalesimo come coordinamento organico di diversi poteri territoriali nel basso Medioevo.
Lo stato carolingio non era affatto fondato sul feudalesimo, nel senso che il potere pubblico non era ripartito tra l'imperatore e i guerrieri che gli avevano giurato fedeltà, i suoi vassalli, i quali ricevevano da lui una terra (il beneficio, detto più tardi feudo) . Certo, Carlo sceglieva i funzionari pubblici (i conti: vedi pp. 7 -8) tra i suoi vassalli, perché essi dovevano avere capacità militari ed essergli fedeli, ma non tutti i suoi vassalli erano funzionari pubblici, né tutti i vassalli erano legati a Carlo Magno (chiunque poteva costruirsi un seguito di v assalii personali) . Dunque, il comitato o contea (la circoscrizione pubblica) non è assolutamente da assimilare al beneficio, né il beneficio aveva un contenuto politico: era solo un surrogato di stipendio, una fonte di reddito che assicurava maggiore ricchezza al vassallo per la durata della sua vita (il beneficio era revocabile, non era una proprietà) .
Tra x e X I secolo, con l a crisi dell'ordinamento pubblico nei regni post-carolingi (crisi che si verificò nonostante il legame vassallatico-beneficiario, e non perché tutti i vassalli regi diventarono infedeli all'improvviso) , il potere pubblico assunse caratteri signorili, si confuse cioè con il potere esercitato dal proprietario sulla propria terra e sui propri contadini. Qualche signore fondiario si impadronì spontaneamente di poteri pubblici. Tutti assimilarono il piano del potere pubblico con quello del potere fondiario. Quest' epoca viene perciò definita dell'anarchia o dell'ordinamento signorile (vedi pp. 85 -86) .
Nel basso Medioevo (dall'XI secolo) , il vincolo vassallatico fu utilizzato con finalità diverse: esso non collegava soltanto due persone, ma due poteri territoriali. Il beneficio (che per maggior chiarezza chiamiamo ora feudo), concesso al vassallo (feudatario) con una cerimonia che, nella sostanza, è la stessa dell'alto Medioevo, è effettivamente un territorio che il feudatario governa.
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Nel regno di Sicilia del XIII secolo, per esempio, 1 9 il feudatario possedeva un territorio con la sua giurisdizione (diritto di giustizia; beni demaniali come laghi, corsi d'acqua, foreste; cespiti fiscali come diritti di passo, tasse indirette sul commercio e sulle attività produttive; e monopòli come quelli di vendita del vino o della macina tura del grano) . Egli riconosceva di possedere tali terre e diritti a titolo feudale, cioè per assegnazione ricevuta dal proprio re e signore feudale. Si trattava di un'assegnazione perpetua, trasmissibile agli eredi, ma soggetta a precise condizioni, pena la perdita del feudo: la fedeltà al sovrano e l'impegno a difenderlo, prestando servizio militare o fornendo combattenti. Il legame tra il feudatario e il suo signore era ancora un legame personale, ma era regolato dalle norme del diritto feudale, codificate nel Liber Augustalis (vedi § 3 .6) , e dal documento di concessione feudale. I diritti signorili sopra esemplificati (censi, corvées) furono compresi nella concessione feudale, che li legittimava. Un feudatario non poteva sposarsi liberamente né liberamente dividere il feudo tra più figli: il re doveva approvare queste scelte, perché potevano ripercuotersi sulla corresponsione del servizio nei suoi confronti.20
Nel feudo non vivevano soltanto i contadini del feudatario, ma anche una varietà di persone che esercitavano le più diverse attività (nobili di rango inferiore, ecclesiastici, mercanti e altri imprenditori, artigiani, proprietari terrieri ecc . ) : essi, pur chiamati "vassalli" , rispondevano al feudatario soltanto per le questioni di giustizia, o perché, ovviamente, erano tenuti a rispettare i monopòli e pagare le tasse indirette possedute dal feudatario, come del resto chiunque transitasse per quel territorio.
Del resto, gli ecclesiastici non erano soggetti al feudatario, ma al tribunale del vescovo o del papa. Chi era condannato dal tribunale feudale poteva ricorrere in appello ai tribunali del re, i quali erano gli unici competenti per alcuni reati (per esempio la falsificazione di moneta o la lesa maestà) .
Tra l'altro, il feudatario non era l'unico a esigere tasse nel suo territorio, perché da un lato il re poteva imporre a tutti quelli che
1" Questo esempio non deve far pensare che il feudalesimo fosse presente solo nelle monarchie: esso era diffuso in tutt'Europa, anche in regioni segnate dal fenomeno comunale, come la Lombardia.
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non fossero ecclesiastici o suoi vassalli una tassazione generale, prima per situazioni d'emergenza, poi regolarmente; dall'altro la Chiesa esigeva le decime da tutti i fedeli (un prelievo chiamato così perché originariamente corrispondeva alla decima parte del raccolto) .
Come si vede, questo feudalesimo del basso Medioevo (che effettivamente fu presentato con l'immagine della piramide da parte di alcuni giuristi) è un sistema di amministrazione e di sfruttamento del territorio che non ha molto di illegale o arbitrario e che comunque non era l'unico modo di gestire il potere pubblico, perché esistevano aree amministrate da comunità con una loro autonomia, come le città, altre amministrate direttamente dai funzionari del re, i quali via via accrebbero le proprie competenze. Il sistema poteva non funzionare, come tutti i sistemi, per il prevalere di interessi particolari o per l'insorgere di conflitti, ma aveva una sua razionalità, pur molto diversa dalla nostra.
Lo studente dovrà dunque sforzarsi di distinguere il feudalesimo del nostro linguaggio comune, lontano erede del feudalesimo avversato da illuministi e rivoluzionari e di quello di Karl Marx, dai vari fenomeni, pur collegati in certa misura, in cui esso è scomposto dagli storici: il vassallaggio, la signoria, il feudalesimo "vero e proprio" del basso Medioevo e dell'età moderna.
2" Nel rispetto del diritto feudale, il feudatario poteva ulteriormente infeudare una parte del suo feudo, concederlo cioè a un valvassore (vassallo di un vassallo) o suffeudatario (detentore di un sotto-feudo), il quale vi esercitava analoghi diritti. Erano però chiamati feudi anche semplici proprietà terriere, il cui concessionario non aveva né diritti giurisdizionali né obblighi militari nei confronti del signore, cui versava soltanto, come un semplice affittuario, canoni in denaro o in natura, spesso irrisori. Questi feudi, detti " rustici" , restavano proprietà di chi li concedeva, come i feudi veri e propri (o "nobili" ) , ma il signore non poteva rientrarne in possesso come sarebbe stato possibile fare nel caso di un normale fitto. La legittimazione dei diritti signorili in forma feudale, il feudo rustico, l'estensione dell'appellativo di vassalli a tutti coloro che abitavano nel feudo sono tutti esempi di come, già nel basso Medioevo, il lessico feudale si fosse esteso a una pluralità di situazioni.
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3 . Le fonti e i metodi
3 . 1 Le fonti
Spesso si dice che la storia si fa con i documenti o - meglio - con le fonti. Per fonti 1 si intendono tutti i resti del passato, materiali e immateriali, scritti e non scritti, prodotti intenzionalmente da chi ci ha preceduto per lasciare memoria di sé e delle proprie azioni, o risultato meccanico delle varie attività umane: dunque leggi, lettere, narrazioni, poesie, monete, edifici, gioielli, tombe, cocci, leggende, nomi di luoghi ecc. La storia si fa con le fonti: è giusto, ma meglio sarebbe dire che la storia si fa con la critica delle fonti. Esse sono infatti spesso mute o ambigue, e necessitano di complesse tecniche di interrogazione e di trattamento delle informazioni che ci forniscono. In una parola, sono da interpretare secondo metodi complessi che sono stati elaborati e perfezionati nel corso di secoli, e che possono essere padroneggiati soltanto dopo una specifica formazione e un apprendistato di una certa durata. Chi prepara il primo (a volte unico) esame di storia medievale non può certo acquisire queste competenze.
Tuttavia, avvicinarsi ad alcune fonti può essere utile anche per uno studente alle prime armi, che può così farsi un'idea di quanto siano complesse la storia (ciò che è accaduto) e la storiografia (la ricostruzione e il racconto di ciò che è accaduto) .2 In questo capitolo verranno analizzate alcune fonti con due finalità: pre-
1 Si tratta di una metafora: dalle fonti (francese e inglese sources, tedesco Que!!en) sgorga la storia come acqua fresca e limpida.
2 Storia e storiografia, che rischiano di essere tra loro confuse dallo studente, sono talvolta definite con le seguenti espressioni latine: la storia corrisponde alle res gestae («ciò che è stato fatto, i fatti») , la storiografia alla historia re rum gestarum («la storia, il racconto delle cose che sono state fatte, dei fatti>>) .
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Medioevo: istruzioni per l'uso
sentare una tipologia abbastanza rappresentativa dei materiali con cui lavorano gli storici, dei metodi elaborati per analizzarli, delle altre discipline coinvolte in queste analisi, in secondo luogo approfondire questioni importanti della storia medievale, alcune di quelle che non si possono non sapere. Sono state scelte, senza alcuna pretesa di completezza e di originalità, fonti che effettivamente hanno condizionato la ricerca e la divulgazione della storia medievale. Il lettore non troverà una definizione rigorosa dei vari tipi di fonti, che del resto vengono classificate in vario modo. Si pensi solo che un'ottima collana editoriale intitolata "Tipologia delle fonti del Medioevo occidentale" (Typologie des sources du Moyen Age occidental) è arrivata quasi al novantesimo volume, passando dalla fonte numismatica (le monete) , alle ossa, ai trattati di musica, ognuna delle quali necessita di uno specifico "trattamento" .3
Fare ricerca storica significa dunque avere a che fare con le fonti: lo studioso del passato non ha infatti alcun modo di vedere l'oggetto del suo studio, se non attraverso la mediazione incompleta, fallace, enigmatica dei resti di quel passato, resti che sono giunti a noi attraverso passaggi che li hanno talvolta deformati (la "tradizione" )4 e che in più hanno subito successive interpretazioni, più o meno consolidatesi nel tempo, anch'esse importanti per la ricerca storica. Lo studioso utilizza infatti la fonte tenendo sempre presente la sua tradizione e la storia della sua interpretazione.
Il manuale tratta invece un livello di "storia generale" , come si dice, che tenta di mettere insieme, con una certa coerenza argomentativa, fatti, questioni assolutamente diverse, nonché prospettive e interpretazioni sviluppate in tempi e contesti assai differenti.
3 È però utile ricordare alcune distinzioni di base, che ricorrono sia nel linguaggio comune che tra gli specialisti: tra fonti scritte e non scritte; tra fonti intenzionali (prodotte cioè per trasmettere informazioni) e non intenzionali o preterintenzionali; tra fonti narrative (i testi scritti allo scopo di trasmettere il ricordo di fatti e persone, come le storie e le cronache) e documentarie (i documenti con effetti giuridici).
4 Un testo scritto è giunto spesso attraverso copie successive che lo hanno modificato, volontariamente e non. Un intervento urbanistico può aver cancellato l'originario tracciato di una strada, il cui nome magari è passato a una strada del tutto diversa ecc. Anche i resti architettonici e archeologici, che pure possiamo vedere e toccare, possono aver subito notevoli trasformazioni.
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Le fonti e i metodi
La storia insegnata dai manuali (la cosiddètta storia-disciplina) , non è altro che un pratico sommario di informazioni e argomentazioni, un'entità ben diversa dalla concreta pratica storiografica (la storia-scienza) . E tuttavia, la sintesi manualistica resta necessaria, come primo approccio al passato, come una buona guida turistica che indica le cose più importanti da visitare e i ristoranti migliori di una città sconosciuta.
Sta poi al singolo mettersi in viaggio e in discussione, se vuole conoscere davvero quei posti.5
3 .2 Un monaco e l'invasione dei longobardi (la fonte narrativa)
I longobardi invasero la penisola italiana nel 568,6 occupandone una buona parte. La storia di quell'invasione, che ebbe effetti drammatici sull'assetto sociale e istituzionale dell'Italia, ci è nota grazie a pochissime fonti, tra le quali spicca la Historia Langobardorum, scritta più di 200 anni dopo da un monaco longobardo, Paolo di Warnefrid, detto Paolo Diacono. Leggiamo due passi dell'opera, relativi al periodo successivo alla morte di re Alboino, che aveva guidato la migrazione in Italia:
[ l ) In Italia intanto [anno 573) i longobardi tutti di comune accordo elessero re in Ticino Clefi, uomo nobilissimo della loro nazione. [2) Questi uccise o cacciò dall'Italia molti potenti romani. [3 ) Dopo aver tenuto il regno insieme alla moglie Masane per un anno e sei mesi, fu sgozzato con la spada da un giovane del suo seguito. [ 4) Dopo la sua morte [anno 57 4) i longobardi rimasero per dieci anni senza re e stettero sotto il comando dei duchi. [5) Ogni duca aveva la sua città: Zaban Ticino, Wallari Bergamo, Alichis Brescia, Euin Trento, Gisulfo Cividale. [6] Ma ci furono anche altri trenta duchi, oltre questi, ognuno nella sua città. [7] In questi giorni molti nobili romani furono uccisi per cupidigia. [8) Gli altri poi, divisi tra i longobardi secondo il sistema dell'ospitalità, vengono resi tributari con l'obbligo di versare la
5 I paragrafi di questo capitolo non devono necessariamente essere letti tutti, né è indispensabile rispettare la successione proposta. Naturalmente nessuna delle fonti presentate è sufficiente per affrontare le questioni ad essa collegate.
6 Alcuni studiosi datano l'evento al 569.
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Medioevo: istruzioni per l'uso
terza parte dei loro raccolti ai longobardi. [9] Per opera di questi duchi, nel settimo anno dall'arrivo di Alboino e di tutta la sua gente, l'Italia fu per la massima parte (eccettuate le regioni che aveva conquistato Alboino) presa e soggiogata dai longobardi, dopo che questi ebbero spogliato le chiese, ucciso i sacerdoti, rovinato le città e decimato le popolazioni che erano cresciute come messi sui campi [ . . . ] . [ 10] Intanto i longobardi, dopo che per dieci anni erano stati sotto il potere dei duchi, alla fine [anno 584 ] , per decisione comune, elessero come proprio re Autari, figlio del già ricordato principe Clefi, [ 1 1 ] e per qualificare la sua dignità gli attribuirono anche l'appellativo di Flavio: [ 12] prenome che fu poi usato felicemente da tutti i successivi re longobardi. [ 1 3 ] Ai suoi giorni, al fine di restaurare il regno, ogni duca cedette per gli usi regi la metà di tutti i propri beni, [ 14] per costituire un patrimonio con cui il re, il suo seguito e coloro che si dedicavano al suo servizio nelle diverse funzioni potessero mantenersi . [ 15] Invece le popolazioni sottomesse furono suddivise tra gli ospiti longobardi. [ 16] C'era però questo di meraviglioso nel regno dei longobardi: non c'erano violenze, non si tramavano insidie; [ 17] nessuno opprimeva gli altri ingiustamente, nessuno depredava; [ 18] non c'erano furti, non c'erano rapine; [ 1 9] ognuno andava dove voleva, sicuro e senza alcun timore.
Testo latino
[ l ] Longobardi vero aput ltaliam omnes communi consilio Cleph, nobilissimum de suis virum, in urbe Ticinensium sibi regem statuerunt. [2) Hic multos Romanorum viros potentes, alios gladiis extinxit, alios ab Italia exturbavit. [3 ] lste cum annum unum et sex menses cum Masane sua coniuge regnum obtenuisset, a puero de suo obsequio gladio iugulatus est. [ 4] Post cuius mortem Langobardi per annos decem regem non habentes, sub ducibus fuerunt. [5) Unusquisque enim ducum suam civitatem obtinebat: Zaban Ticinum, Wallari Bergamum, Alichis Brexiam, Eoin Trientum, Gisulfus Forumiuli. [6] Sed et alii extra hos in suis urbibus triginta duces fuerunt. [7] His diebus multi nobilium Romanorum ob cupiditatem interfecti sunt. [8] Reliqui vero per hospites divisi, ut terciam partem suarum frugum Langobardis persolverent, tributarii efficiuntur. [9] Per hos Langobardorum duces, septimo anno ab adventu Alboin et totius gentis, spoliatis ecclesiis, sacerdotibus interfectis, civitatibus subrutis populisque, qui more segetum excreverant, extinctis, exceptis his regionibus quas Alboin ceperat, Italia ex maxima parte capta et a Langobardis subiugata est [. . . ] .
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Le fonti e i metodi
[ 10] At vero Langobardi cum per annos decem sub potestate ducum fuissent, tandem communi consilio Authari, Clephonis filium supra memorati principis, regem sibi statuerunt. [ 1 1 ] Quem etiam ob dignitatem Flavium appellarunt. [ 12] Quo praenomine omnes qui postea fuerunt Langobardorum reges feliciter usi sunt. [ 1 3 ] Huius in diebus ob restaurationem regni duces qui tunc erant omnem substantiarum suarum medietatem regalibus usibus tribuunt, [ 14] ut esse possit, unde rex ipse si ve qui ei adhaererent eiusque obsequiis per diversa officia dediti alerentur. [ 15 ] Populi tamen adgravati per Langobardos hospites partiuntur. [ 16] Erat sane hoc mirabile in regno Langobardorum: nulla era t violentia, nullae struebantur insidiae; [ 17 ] nemo aliquem iniuste angariabat, nemo spoliabat; [ 1 8] non erant furta, non latrocinia; [ 19] unusquisque quo libebat securus sine timore pergebat.
A differenza di un coccio di ceramica come quello di cui si parlerà nel § 3 . 3 , una fonte come questa sembra di facile interpretazione: si tratta infatti di un testo che è stato scritto con la precisa intenzione di raccontarci una storia. L'occupazione dell'Italia da parte dei longobardi - racconta Paolo Diacono - fu caratterizzata da assassini e depredazioni. Le città furono distrutte, le popolazioni decimate, i romani sottomessi. Dopo dieci anni senza un re (574-584, periodo detto dell'interregno), i capi longobardi (duchi, duces) elessero re Autari, restauratore della monarchia, il quale si costituì un patrimonio di beni come base del suo potere grazie alla cessione, da parte dei duchi, di metà dei loro averi.
La semplicità interpretativa è solo apparente, tant'è vero che i brani appena citati sono oggetto di discussione da oltre due secoli. In particolare, sono cruciali i seguenti passaggi. Il primo ci informa che dopo la morte di re Clefi, durante l'interregno, molti nobili romani furono uccisi da chi voleva impadronirsi dei loro beni (ab cupiditatem inter/ecti sunt) , mentre i restanti furono resi tributarii.
In questi giorni molti nobili romani furono uccisi per cupidigia. Gli altri poi, divisi tra i longobardi secondo il sistema dell'ospitalità, vengono resi tributari con l'obbligo di versare la terza parte dei loro raccolti ai longobardi [7 -8] .
Il periodo immediatamente successivo ritorna sulla violenza dei duchi, che durante l'interregno sottomisero gran parte dell'Italia:
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Medioevo: istruzioni per l'uso
L'Italia fu per la massima parte . . . presa e soggiogata dai longobardi, dopo che questi ebbero spogliato le chiese, ucciso i sacerdoti, rovinato le città e decimato le popolazioni che erano cresciute come messi sui campi (spoliatis ecclesiis, sacerdotibus interfectis, civitatibus subrutis populisque, qui more segetum excreverant, extinctis) [9] .
Un disastro, insomma, con stragi e distruzioni che colpirono una regione caratterizzata dall'abbondanza della popolazione. Il terzo passaggio, riferito a un periodo posteriore, dopo che i duchi avevano di nuovo eletto un re, Autari, torna sul destino dei romani, o meglio dei populi della penisola assoggettati dai longobardi:
Invece le popolazioni sottomesse furono suddivise tra gli ospiti longobardi (Populi tamen ad gravati per Langobardos hospites partiuntur) [ 15 ] .
Come si sarà notato, quando si parla dello sfruttamento dei reliqui (nobilium Romanorum [7-8] ) , cioè della parte restante dei nobili romani, e della popolazione in generale (i populi [ 15 ] ) , si definiscono i longobardi con il termine di hospites, "ospiti " . Ci si riferisce a un celebre istituto della tarda antichità, quello della hospitalitas, secondo il quale ai nuclei di barbari insediati all'interno dei confini dell'impero romano veniva assegnato un terzo delle terre, confiscate a proprietari romani o, più probabilmente, un terzo dei proventi delle terre. In Paolo Diacono l'espressione, a quanto pare, è usata in questo secondo senso: potremmo pensare a una sorta di requisizione organizzata, un tributo in natura («con l'obbligo di versare la terza parte dei loro raccolti», terciam partem suarum /rugum [8] ) , che forse potrebbe essere stato esteso in un secondo momento a tutta la popolazione (populi adgravati [ 15 ] ) . È però difficile che in quelle condizioni di violenza e instabilità potesse essere organizzato un regolare prelievo della terza parte dei raccolti. D'altra parte, se molti nobili romani - su questo il testo è chiarissimo - furono trucidati, qualche altro proprietario terriero doveva pur essere rimasto in vita e in possesso dei suoi beni per poter essere " tassato" .
Come s i vede, già una prima lettura d i questi brevi passaggi, condotta in modo non difforme da qualsiasi tipo di analisi del testo (un'attività assai diffusa nelle scuole italiane) , coinvolge naturalmente la conoscenza della lingua latina, ma del latino tardo o
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Le fonti e i metodi
latino medio (la letteratura in latino del Medioevo è appunto definita mediolatina) . Dunque, il termine hospites va inteso in una specifica accezione tecnica e giuridica.
Altra osservazione: quando Paolo scrisse, nel primo dei tre passaggi, nobili Romanorum, usò una parola della sua lingua di cultura, lingua che egli aveva appreso a un buon livello leggendo e imitando le sacre scritture e alcune opere della letteratura latina e cristiana (aveva anche imparato qualche rudimento della lingua greca) , e che però era utilizzata anche per definire i nobili del suo tempo, i guerrieri longobardi o franchi che controllavano l'organizzazione pubblica e possedevano grandi quantità di terre e contadini (i franchi avevano conquistato il regno longobardo nel 774 ) . Noi, oggi, spogliamo quella parola del suo significato altomedievale e leggiamo dietro ad essa una realtà che conosciamo per altre vie, quella della classe senatoria italo-romana, che nel VI
secolo, al tempo dell'invasione, era ancora caratterizzata da un buon livello culturale ed era al vertice della società, dell' economia, delle istituzioni, benché non controllasse più la forza militare, generalmente in mano a capi barbari. Concludiamo quindi che il ceto senatoriale fu senz' altro decimato, costretto alla fuga (come confermano altre fonti) o comunque privato del proprio ruolo politico, ma non siamo in grado di ricavare dalle parole di Paolo molte altre informazioni sui reliqui (nobilium Romanorum) e sui populi tutti.
Per ognuna delle espressioni latine usate da Paolo dobbiamo dunque chiederci che cosa egli intendesse veramente e che cosa noi potremmo intendere rintracciando in quell'espressione specifica un fondo di realtà esterno alla dimensione linguistica, al di là della definizione ricavata dalla tradizione letteraria (nobili) , ovvero quel ceto reale di famiglie senatorie italo-romane che si è detto.
Inoltre, aggiungiamo restando sul piano della realtà, dobbiamo chiederci come facesse Paolo a sapere quelle cose: da dove prendesse quelle notizie, messe per iscritto, come si è detto, oltre 200 anni dopo i fatti. Si tratta insomma di approfondire la nostra analisi sia sul piano della forma (la lingua, la tradizione letteraria) , che su quello del contenuto (l'origine e l'attendibilità dell' informazione).
Per chiarire questi due punti è indispensabile conoscere meglio il testimone Paolo Diacono, passando dal testo all'autore e soffer-
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Medioevo: ùtruzioni per l'uso
mandoci sul suo modo di scrivere, fare insomma un po' di storia della storiografia nel Medioevo.7 Ciò significa indagare sulla biografia di Paolo Diacono, sulle motivazioni culturali, politiche, personali, che lo spinsero a scrivere quell'opera, sulle fonti che utilizzò, sui modelli letterari e storiografici che seguì (gli autori che conosceva) , e in generale sui quadri mentali di riferimento della sua epoca e del suo ceto. Tutti questi elementi hanno certamente condizionato, in forme diverse e a livelli diversi, il testo che noi leggiamo. Non disponiamo però di informazioni sufficienti per nessuno di essi, a differenza di quanto accade per autori più vicini a noi (sui quali pure si esercitano i critici con differenti esiti interpretativi ! ) , e ciò complica molto le cose.
Per molte cronache e storie scritte nel Medioevo (sono, queste, fonti narrative) , la maggior parte delle notizie biografiche sull'autore sono ricavabili dalle sue opere, e vanno dunque valutate attentamente, perché selezionate dal soggetto stesso. Ciò vale anche per Paolo Diacono, che ci racconta la storia della sua famiglia e ci dà qualche notizia della sua vita. Tali informazioni sono " intenzionali" , sono quelle che Paolo Diacono ci ha voluto dare, o che un monaco del suo tempo e della sua formazione culturale riteneva necessario dare (ecco che passiamo continuamente dal piano dell'individuo al piano della cultura di cui è espressione, cultura che conosciamo attraverso altre opere) . Al tempo stesso, dalle parole di Paolo sono ricavabili informazioni che egli non ci voleva dare, o che ci ha dato senza rendersene conto, cioè informazioni "preterintenzionali" : si potranno dunque considerare anche i silenzi di Paolo, le informazioni che generalmente un autore di quell'epoca o con quei modelli letterari e storiografici avrebbe dovuto dare e che Paolo non ha dato.
Per esempio, è interessante osservare che Paolo non racconta di un'origine mitica dei longobardi, come avviene nelle storie dei franchi, presentati come discendenti dei troiani. Grazie a questa leggenda i franchi erano stati collegati in qualche modo alla storia
7 Per storia della storiografia medievale si può intendere sia la storia degli autori e delle opere storiche scritte nel Medioevo (e dedicate al Medioevo stesso o ad altri periodi storici), sia la storia degli studi moderni sul Medioevo, cioè la storia della medievistica. Nel testo abbiamo appena usato storia della storiografia nella prima accezione.
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Le fonti e i metodi
antica, anzi nobilitati dall'apparentamento con i romani, anch'essi discendenti, tramite Enea, dei troiani che furono sconfitti dai greci. Ancora, non è diffusa nella tradizione storiografica antica e medievale la consuetudine che l' a'-:'tore narri la storia della propria famiglia, come fa Paolo, che ci dice del suo antenato Leupchis, venuto in Italia insieme con Alboino.
L'uno e l'altro elemento sono stati interpretati come la prova che la cultura tradizionale longobarda era ancora vitale in Paolo e nel suo popolo. Nonostante l'avvicinamento alla cultura latina, i longobardi non ebbero bisogno di inventarsi ascendenze nobili e antiche, e si riconobbero semplicemente come un popolo venuto dal Nord e dunque assolutamente estraneo rispetto al mondo romano. L'appartenenza etnica era ancora, al tempo di Paolo, un elemento decisivo nell'identità e nella cultura dei ceti egemoni del regno di Pavia, cui apparteneva il nostro autore. Ogni longobardo si sentiva in primo luogo parte di una stirpe, di cui ricordava e raccontava la storia (anche se ormai la lingua longobarda non era più parlata da nessuno e la religione ariana era stata abbandonata8) , in secondo luogo parte di una famiglia specifica, i cui membri erano ricordati nominativamente e in successione cronologica da una generazione all'altra.
Quest'ultima osservazione ci mostra come la distinzione tra fonti intenzionali (una cronaca) e preterintenzionali (un resto archeologico) , pur utile a livello generale, non è tuttavia precisa, perché molte fonti possono rientrare in entrambe le categorie.
L'osservazione ci consente anche di passare alla questione, sopra evidenziata, delle fonti di Paolo Diacono. Egli infatti raccolse tradizioni orali della storia dei longobardi. Per esempio, racconta, pur rifiutandola a causa della sua formazione culturale, la saga delle origini dei longobardi (Origo gentis Langobardorum) , che conosciamo anche in altre versioni scritte. Quella saga fu raccontata a voce per secoli, finchè non giunse alla scrittura, nella storia di Paolo e altrove, con inevitabili modificazioni. Anch'essa è dunque una fonte, ma, per la sua qualità originaria e per il modo e il tempo in
8 L'arianesimo, una dottrina cristologica condannata come eretica nel concilio di Nicea del 325 , e di conseguenza perseguitata dagli imperatori romani e dai vescovi cattolici, si era diffuso tra i germani prima ancora della migrazione verso occidente ed era divenuto un elemento, pur recente, della loro identità.
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Medioevo: ùtruzioni per l'uso
cui è stata messa per iscritto, è stata analizzata con i metodi della ricerca etnografica e antropologica, metodi che si sono formati nello studio di popolazioni primitive, di cultura orale.
Il punto in cui Paolo riferisce dell'abbondante popolazione italica prima dell'invasione (qui more segetum excreverant [9] ) è stato riconosciuto come un'iperbole ricavata da un'opera di papa Gregorio Magno,� aspro detrattore delle violenze longobarde. L'esagerazione è peraltro contraddetta da Paolo stesso in un altro luogo della sua opera, oltre che dalle prove che abbiamo di un generalizzato calo demografico nell'Italia della metà del VI secolo.
Altra fonte di Paolo Diacono è Secondo di Non o di Trento. Proprio quei passaggi cruciali che abbiamo commentato (in particolare Reliqui . . . efficiuntur [8] e Populi tamen . . . partiuntur [ 15 ] ) sono stati attribuiti per ragioni stilistiche a un'opera, che non ci è pervenuta, di questo autore, che era un chierico111 di origine italica, morto nel 6 12 . Secondo narrò le fasi più difficili della conquista, di cui ebbe esperienza diretta (le ostilità con i bizantini durarono a lungo, e ulteriori conquiste furono effettuate dai duchi e dai re longobardi dopo il 568) . La notizia dell'assoggettamento e il vocabolo stesso di hospites risalgono dunque al testo di Secondo.
Si noti che immediatamente dopo aver citato i populi adgravati Paolo fa un'affermazione sorprendente:
C'era però questo di meraviglioso nel regno dei longobardi: non c'erano violenze, non si tramavano insidie; nessuno opprimeva gli altri ingiustamente, nessuno depredava; non c'erano furti, non c'erano rapine; ognuno andava dove voleva, sicuro e senza alcun timore [ 16-19] .
Questo quadretto idilliaco di pace e giustizia non può essere attribuito a Secondo, che viene contraddetto. Evidentemente, si tratta
" Gregorio Magno, papa dal 590 al 604, ebbe un ruolo di primo piano nei rap· porti con i longobardi.
10 Erano detti chierici tutti quelli che avevano un qualche ruolo nell'organizzazione amministrativa e religiosa di una chiesa, dunque non solo i sacerdoti, in contrapposizione con tutti gli altri fedeli, i laici (coloro che fanno parte del popolo, in greco laas) . Erano considerati chierici sia quelli che si erano semplicemente sottoposti alla tonsura (taglio circolare dei capelli sulla sommità della testa) , sia coloro che avevano ricevuto gli ordini sacri. Gli ordini minori erano conferiti a vari collaboratori (il portiere o ostiario, il lettore ecc. ) . Gli ordini maggiori erano conferiti a diaconi, sacerdoti, vescovi.
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Le fonti e i metodi
di una affermazione che risale a Paolo, il quale quasi nostalgicamente evoca la pace e la giustizia che regnavano tra i longobardi. Nonostante la condanna delle violenze anticattoliche e, aggiungiamo, l 'accettazione del destino del regno longobardo, conquistato dal re dei franchi Carlo Magno, Paolo non ci lascia un giudizio negativo della storia del suo popolo.
Paolo, che apparteneva a una nobile famiglia longobarda radicata in Friuli (era nato a Cividale tra il 720 e il 730) , aveva vissuto alla corte regia di Pavia prima delle guerre tra franchi e longobardi. Divenuto monaco benedettino a Montecassino, aveva assistito alla fine del regno (77 4) e alla rovina della sua famiglia, perché il fratello aveva partecipato a una ribellione antifranca (776) . Era poi stato per cinque anni alla corte di Carlo Magno, in un ambiente culturalmente assai vivace. La storia dei longobardi è la sua ultima opera, scritta dopo il rientro in Italia (786-787 ) e interrotta dalla morte negli ultimi anni del secolo. Tali esperienze non possono non averlo condizionato: per esempio, in quanto monaco cattolico non poteva che giudicare negativamente l'arianesimo dei primi longobardi, gli eccidi dei romani e il saccheggio delle chiese da essi praticati durante l'invasione. In quanto longobardo, egli era però fiero della storia del suo popolo e riteneva opportuno tramandarla ai posteri, benché esso non sembrasse rientrare nel disegno provvidenziale che aveva fatto la fortuna dei franchi, da lui stimati.
Gli studiosi dei longobardi e di Paolo Diacono hanno fatto tutte queste considerazioni riflettendo sulla scarne notizie biografiche dell'autore, sulla rappresentazione che egli diede del suo popolo, sulle contraddizioni che emergono in brani come quello citato, sui suoi silenzi, sui confronti con opere sue e di altri.
Siamo però scivolati completamente dal testo all'autore, dalla storia dei longobardi alla storia della cultura di Paolo Diacono e del ceto dirigente del regno longobardo nell'viii secolo. E, in effetti, l'opera di Paolo è una fonte per conoscere i longobardi nel periodo di cui parla la sua Historia (dalle mitiche origini del I sec. a.C. al 744 ) , ma anche e soprattutto nell'vm secolo, insomma è fonte del tempo che essa racconta e del tempo in cui fu scritta.
Ma torniamo alla questione iniziale. Che cosa successe veramente ai romani in occasione dell'invasione longobarda? Su questo punto, avevamo detto al principio del paragrafo, ci sono state
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Medioevo: istruzioni per l'uso
molte discussioni, tutte prigioniere, per così dire, di quei tre passaggi fondamentali e di quelle espressioni (nobili Romanorum . . . populi adgravati) . Per Alessandro Manzoni, che scrisse un celebre saggio storico sui longobardi nel 1822 (Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia) , l ' invasione aveva provocato il totale asservimento dei romani, ovvero - secondo Manzoni - i futuri italiani, rispetto ai longobardi, che non si fusero affatto con le popolazioni indigene. Questa conclusione, supportata dalla fonte che abbiamo qui analizzato, aveva importanti conseguenze politiche nell'epoca in cui Manzoni viveva: a parer suo e di altri l'identità degli italiani, degni di vivere in una nazione unita e indipendente, risaliva alla tradizione romana, stravolta ma non annichilita da un elemento etnico e culturale totalmente estraneo, quello longobardo. Il «volgo disperso che nome non ha», come disse in sede poetica Manzoni definendo i romani rimasti in stato di sottomissione anche dopo la conquista franca del regno longobardo,1 1 corrispondeva al popolo italiano che nel XIX secolo era separato in differenti stati e oppresso dallo straniero (il richiamo è ai domini austro-ungarici in Italia) .
Oggi la lettura manzoniana è giudicata scorretta, in primo luogo perché, pur essendo evidente che l'invasione causò la decimazione dell'aristocrazia senatoria, nessuno di quei passaggi afferma esplicitamente che l'intera popolazione romana fosse ridotta in schiavitù. In secondo luogo, Manzoni compiva un'identificazione che è oggi rifiutata: i romani del 568-774 non sono gli italiani del 1822, anzi non sono neppure i romano-italici o romanici rimasti sotto il dominio bizantino (vedi § 1 . 1 ) ! Inoltre, i longobardi, per quante devastazioni e stragi abbiano procurato, non possono aver sterminato e schiavizzato l'intera popolazione, non foss'altro per ragione di numeri.
Non si creda però che Manzoni procedesse per grossolane semplificazioni. La sua analisi delle fonti è anzi seria, e le sue argomentazioni conservano, ancora oggi, motivo di interesse. Il fatto è che nei quasi due secoli che ci separano da Manzoni la storiografia
1 1 Si tratta della tragedia dell'Adelchi ( 1 820-22) , dedicata alla fine del regno longobardo. Il verso è nel coro del III atto, 66, che commenta la fine del regno longobardo. Il saggio sui longobardi nacque dalle ricerche di Manzoni in occasione della composizione della tragedia.
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Le /o n ti e i metodi
è progredita moltissimo: l'analisi delle fonti narrative si è fatta assai raffinata e direi smaliziata, come si è visto, e soprattutto questo tipo di fonte non è più al centro delle ricostruzioni storiche. Il problema del destino dei romani dopo l'invasione dei longobardi non può essere risolto soltanto sulla base di quei famigerati passaggi, che di più non possono dire, ma deve fondarsi su altre fonti e altri metodi di indagine.
Oggi si ritiene che anche i longobardi, seppur con molta più lentezza delle altre popolazioni germaniche migrate in Europa, percorsero le medesime tappe di awicinamento alla residua tradizione romana, trasformando una violenta dominazione tribale e militare in un potere territoriale dotato di un essenziale apparato di uffici pubblici e diretto da una monarchia cattolica abbastanza stabile. Tali conclusioni, ancora in discussione, non capovolgono però le affermazioni di Paolo Diacono, che conservano un fondo di verità: l'invasione fu violenta, i ceti dirigenti furono, se non sterminati in toto, privati dei loro diritti politici o emarginati, perché il controllo delle risorse economiche e del territorio passò tutto nelle mani dei guerrieri longobardi.
I due secoli di ricerca storiografica non sono passati invano, perché la stratificazione delle discussioni, influenzate più o meno dalle vicende contemporanee (il Risorgimento all'epoca di Manzoni, i flussi migratori extraeuropei al nostro tempo, con il connesso interesse per la questione dell'integrazione) , hanno migliorato le nostre capacità e tecniche di analisi. Illuminato da altri testi e da fonti del tutto diverse quanto a collocazione geografica e a tipologia, il racconto di Paolo Diacono continua a dirci qualcosa, sia sul suo proprio tempo che su quello da lui trattato.
Parlando della restauratio regni con Autari [ 1 3 ] , Paolo Diacono fa affermazioni assai interessanti: nonostante la loro indiscutibile barbarie, i longobardi mostrano di aver compreso la necessità, già nel 584, di una più stabile organizzazione territoriale, certo estranea alle loro proprie tradizioni. Il re fu allora chiamato Flavio (quem etiam ab dignitatem Flavium appellarunt [ 1 1 ] : anche questa informazione era probabilmente ricavata da Secondo) . Il termine è usato come un titolo regale, del tutto impropriamente, perché designava originariamente una gens romana, quella da cui provennero alcuni imperatori di uno dei più gloriosi periodi della storia romana (I sec. d.C . ) . Qualcuno (consiglieri germanici o romani?
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Medioevo: istruzioni per l'u.m
chierici?) trovò però opportuna per un re longobardo una definizione romana, che, pur stravolta, era già stata utilizzata dai sovrani ostrogoti. L'integrazione era dunque già cominciata, e in essa un ruolo ebbero anche gli appartenenti al «volgo disperso».
Prima di concludere, riassumiamo metodi e discipline coinvolte nell'interpretazione dei brani di Paolo Diacono: l'analisi del testo, la storia della lingua e della letteratura latina, la storia della storiagrafia, la storia del diritto. Esse, si è detto, non bastano, perché archeologia, numismatica, storia delle arti e così via concorrono a integrare la testimonianza di Paolo Diacono attenuando il catastrofismo di quei passi e provando i contatti e gli scambi che avvennero precocemente tra l'elemento romano e quello longobardo.
Non abbiamo però fatto cenno a un punto di partenza fondamentale per lo studio e l'utilizzazione di una fonte narrativa e di altre fonti analoghe (opere di letteratura, filosofia, teologia, pure utili per la ricerca storica, leggende di santi, raccolte di lettere ecc. ) : e cioè la filologia.
Il testo di Paolo Diacono che abbiamo letto, con tutte le sue complessità, ci è stato materialmente tramandato da un centinaio di manoscritti, nessuno dei quali è quello approntato dall'autore, direttamente o tramite un copista. La filologia (in questo caso quella medievale o mediolatina) è appunto la disciplina che ricostruisce, mediante un metodo detto critica del testo o ecdotica, un testo che aspira a essere il più vicino possibile a quello originale, definito archetipo. Tutti i testimoni pervenutici, cioè i manoscritti o le stampe che, con differenze anche sostanziali (nella grafia e morfologia, nel lessico, nell'inclusione o esclusione di intere parti) , ci hanno trasmesso l a Historia, sono stati accuratamente analizzati dai filologi: prima ne è stata considerata la costituzione materiale (grafia, disposizione dei fascicoli, rilegatura, organizzazione dei paragrafi, chiose) , poi la storia "esterna" (il copista che allestì il singolo manoscritto, il luogo in cui fu allestito, le biblioteche o i privati che possedettero e consultarono) , infine essi sono stati confrontati tra loro alla ricerca di errori comuni. Un errore comune significativo (che non possa cioè essere lo stesso per mera coincidenza) prova infatti che due manoscritti sono tra loro collegati (l 'uno è copiato dall'altro, o entrambi hanno un antenato comune, detto antigrafo) , e quindi la loro testimonianza, per così dire, non vale due, ma uno.
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Le fonti e i metodi
La filologia è a sua volta sostenuta dalla paleografia (studio della scrittura) , codicologia (studio della struttura fisica del manoscritto) , bibliografia (studio delle edizioni a stampa) .
Per Paolo Diacono e per molti testi storiografici del Medioevo siamo fortunati, perché la loro edizione critica è stata condotta dalle generazioni che ci hanno preceduto, ma molti altri testi restano da studiare o da ristudiare anche da questo fondamentale punto di vista. Di quasi tutti è poi ancora da accertare l'effettiva diffusione, mediante la storia dei singoli manoscritti e l 'identificazione degli autori che li hanno utilizzati.
In particolare, la Historia è stata pubblicata da Ludwig Bethmann e Georg Waitz nel 1 878 , nella collana tedesca dei Monumenta Germaniae Historica (Documenti storici della Germania) , una delle più importanti iniziative scientifiche in ambito storico. Se generazioni di studiosi, a partire dal 1 826 (quando nacquero i Monumenta , ancora oggi attivi) , non avessero dedicato le loro energie e la loro intelligenza all'edizione di fonti, la nostra conoscenza della storia e delle fonti storiche (che è la stessa cosa) non avrebbe potuto fare alcun progresso.
3 .3 Un coccio e la fine dell'età antica (la fonte materiale)
Nella fotografia a p. 66 si vede un grande piatto tondo di ceramica del diametro di 25,5 cm: si tratta di un oggetto molto comune, usato per mangiare, prodotto nel VII secolo da officine africane, nella regione corrispondente all'attuale Tunisia (antica provincia romana dell'Africa proconsolare) . Il piatto non ha un rivestimento di smalto, come la maiolica: è semplicemente una terracotta fabbricata modellando un impasto di argilla e acqua e cuocendolo in un forno. Questo tipo di ceramica è definito "sigillata" perché la decorazione era ottenuta con matrici o punzoni usati a mo' di sigillo sull'impasto ancora morbido.
La ceramica da mensa africana era un prodotto di grande successo commerciale: si diffuse in tutto il bacino del Mediterraneo tra la fine del I e il VII secolo d.C. , dunque tra età imperiale ed età tardoantica. A seconda delle differenze dell'impasto, delle forme e delle decorazioni, la sigillata africana è distinta per periodi di produzione e per tipi. Quella della foto è una sigillata africana D
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Medioevo: istruzioni per l'uso
(dell'ultimo periodo, tra 61 0/620 e 680/700) del tipo Hayes 109, dal nome di uno studioso inglese.
Le parti più scure del piatto sono originali, il resto è stato ricostruito. Dunque, il piatto era rotto: i frammenti superstiti sono stati pazientemente riattaccati tra loro e alla parte ricostruita. Essi sono stati ritrovati da una squadra di archeologi nel 1993 , insieme con moltissimi altri cocci di ceramica (quasi 100 000 ! ) , in uno strato di terra alto circa un metro accumulato sul pavimento della Crypta Balbi (cripta di Balbo) , adiacente al teatro costruito a Roma nel 13 a .C. da Lucio Cornelio Balbo, un partigiano di Augusto. Nella Crypta Balbi gli spettatori del teatro, uno dei più importanti edifici pubblici dell'antica Roma, potevano passeggiare al coperto in caso di pioggia. Essi avevano a disposizione anche il giardino quadrato sovrastante. Su un lato della cripta si apriva un'esedra,
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Le fonti e i metodi
cioè uno spazio semicircolare: è sul pavimento dell'esedra che si trovava il cumulo con i frammenti di ceramica.
L'esedra, portata alla luce dopo numerose campagne di scavo, è in un cortile alle spalle di via delle Botteghe Oscure, al centro di Roma, a pochi passi da piazza Venezia. Se, ai tempi delle grandi opere di ristrutturazione urbanistica della capitale volute da Benito Mussolini, le strutture del teatro e della cripta di Balbo fossero state almeno parzialmente visibili, probabilmente esse sarebbero state portate alla luce in tutto il loro splendore, mediante l'abbattimento delle superfetazioni medievali e moderne, lo sterro delle architetture, liberate dai detriti accumulatisi in due millenni, lo scavo di tutta l'area, compresa la cripta. Il risultato sarebbe stato simile a quello delle aree archeologiche che oggi vediamo al centro di Roma: spazi più o meno ampi al di sotto dell'attuale livello della strada, con resti e basamenti di edifici (si pensi all'area dell' Argentina, scavata nel 1 926-29, poco distante dal teatro di Balbo) .
In questo caso, quel cumulo alto un metro sarebbe stato sgomberato, recuperando soltanto i frammenti di maggiore dimensione e valore che sarebbero finiti in un museo. Agli archeologi di allora interessava ripristinare le forme originarie degli edifici del passato, depurandoli dalle aggiunte successive: venivano risparmiate soltanto le strutture di particolare pregio, come è accaduto al celebre teatro di Marcello, le cui arcate, che in parte non sono originali ma risalgono al 1 926-32 , costituiscono la base di un bel palazzo nella medesima zona della città. Lo stesso accadeva con i monumenti dell'età medievale, che tra Otto e Novecento furono liberati delle parti più recenti e talvolta restaurati pesantemente, con l'aggiunta di merli, guglie, pennacchi e gargouilles12 che rispondevano a un gusto medievaleggiante di ascendenza romantica.
Oggi, gli archeologi si comportano in modo completamente diverso: essi hanno studiato l'esedra della Crypta Balbi senza privilegiare nessuna epoca storica, ma raccogliendo tutte le informazioni possibili via via che scavavano. È un'operazione simile a quella che porta avanti la filologia quando ricostruisce la tradizione del testo scritto. Come i testi scritti (o - paragone ancora più calzante - le
12 Doccioni, cioè le parti terminali delle grondaie, spesso a forma di esseri mostruosi.
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Medioevo: istruzioni per l'uso
leggende orali tramandate da testi scritti) , ci sono arrivati attraverso una serie di passaggi che ne hanno influenzato l'aspetto e talvolta stravolto il contenuto, così i monumenti romani ci sono pervenuti con le trasformazioni, mutilazioni, distruzioni operate nel corso dei secoli. Studiare quelle trasformazioni, senza occuparsi soltanto di ripristinare lo stato originario, "puro", incrementa le nostre conoscenze sul passato medievale e moderno di Roma.
Gli archeologi hanno identificato le seguenti fasi di vita dell'esedra:
l . l'impianto originario, risalente al fondatore Lucio Balbo ( 1 3 a.C.); 2. la ristrutturazione del II secolo d.C., quando nell'esedra furono
costruite delle latrine; 3 . l 'abbandono del monumento e la sua distruzione in età tardoanti-
ca (V-VI sec. ) ; 4 . l'uso dell'area come luogo di sepoltura (VI sec.) ; 5 . i l nuovo abbandono tra VII e VIII sec.; 6. la costruzione di una calcara, cioè di un impianto di produzione
di calce, ricavata dallo scioglimento dei marmi antichi, tra fine VIII e inizi IX sec.
7 . l a definitiva distruzione del monumento antico a causa d i un terremoto nel IX sec . ;
8. la costruzione di un balneum (bagno) annesso a un vicino monastero intorno al Mille, con varie successive ristrutturazioni;
9. la sistemazione dell'area a giardino del Conservatorio di Santa Caterina della Rosa in età rinascimentale e moderna;
10. l'abbandono del Conservatorio, già decaduto nel corso dell'Ottocento, intorno al 1 93 7 . Furono effettuate alcune demolizioni in vista della costruzione, mai avvenuta, di una nuova sede per l'Istituto Nazionale Cambi con l'Estero, che aveva acquisito l'area. Nel 1961 vennero fatti alcuni sondaggi archeologici nel giardino.
Come si vede, sei delle dieci fasi cadono nei secoli medievali, in particolare quelli più scarsi di fonti scritte. A partire dal v secolo la cripta era morta all'uso originario, il teatro non era più utilizzato come tale, non era più la manifestazione della potenza di Roma, quella potenza che i restauri del ventennio fascista intendevano esaltare. Di primo acchito ci sembra che l'abbandono, la trasformazione in luogo di sepoltura o in discarica, la distruzione dei marmi per ricavare calce (fasi 3 -6, secoli V-IX) siano la prova inequivocabile di una terribile decadenza economica e culturale. Vi-
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Le fonti e i metodi
cende simili attraversarono anche altri edifici monumentali di Roma e di tutte le città dell'impero: del resto, è stato calcolato che la popolazione di Roma verso la metà del VI secolo arrivasse a circa 45 000-60 000 persone, a fronte di quasi mezzo milione di abitanti di un secolo prima. La città che era stato il centro di un impero enorme era ridotta a un cumulo di rovine, tra cui si aggiravano pochi superstiti che ne distruggevano i resti per sopravvivere? Anche Roma, che pur era stata risparmiata dall'invasione longobarda ed era ancora controllata dall'impero bizantino, attraversava una crisi gravissima come le città distrutte ricordate da Paolo Diacono (p. 54, [9] ) ? La rappresentazione dell'alto Medioevo come arretramento generale della civiltà, come età buia riceve dunque una conferma da queste acquisizioni archeologiche?
45 000-60 000 persone in realtà non sono poche: pure esse dovevano avere una qualche forma di organizzazione per soddisfare le proprie esigenze di vita, materiali e spirituali. Del resto, il calo demografico e il degrado delle strutture pubbliche antiche, soprattutto quelle che non erano più utilizzate per le mutate esigenze istituzionali e religiose, non avvenne nel giro di pochi anni. Per capire i tempi e i motivi di queste trasformazioni dobbiamo andare oltre un giudizio liquidatorio di decadenza, che pure non è possibile negare se paragoniamo la Roma di Augusto a quella del VI
VII secolo, e cercare di ampliare le nostre conoscenze sui secoli tardoantichi e altomedievali. Per questo periodo l'archeologia è un supporto indispensabile, come vedremo.
Ma come è stato possibile ricostruire così dettagliatamente le l O fasi sopra elencate? Se si trova qualcosa sottoterra, non è facile capire a quale periodo essa appartenga, sia perché le tecniche di costruzione e di decorazione (di edifici, di oggetti) sono rimaste le stesse per lunghi periodi, sia perché nella maggior parte dei casi non ci sono notizie sufficienti sul sito in cui si scava. Del teatro Balbo sapevamo molto dalle fonti scritte: ce ne è perfino pervenuta una pianta in un frammento marmoreo che apparteneva a una rappresentazione grafica di Roma (la /orma urbis: forma della città) , eppure prima degli anni sessanta del secolo scorso non era stato ancora identificato il luogo in cui si trovava. In altri casi fondamenta, colonne, murazioni, oggetti di età antica e medievale vengono trovati in luoghi inaspettati, mai menzionati dalle fonti scritte.
Gli archeologi risolvono il problema della datazione con un me-
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Medioevo: istruzioni per l'uso
todo specifico, sviluppatosi a partire dalla metà del xx secolo: la stratigrafia. Nel corso del tempo, eventi naturali (inondazioni, frane, accumulo di detriti) e umani (riempimenti di spazi vuoti per demolizioni o scarico di rifiuti, ristrutturazioni) innalzano il livello del suolo o quello del pavimento di un edificio. Lo strato che sta sopra è necessariamente posteriore allo strato che sta sotto. A ciò si aggiunge che sottoterra possono trovarsi reperti di più precisa datazione: iscrizioni o graffiti, monete disperse, oggetti come i frammenti di ceramica di cui abbiamo parlato. Certo, ognuno di questi indizi va trattato con cautela: le monete potevano infatti circolare per molto tempo dopo essere state emesse: esse attestano con certezza la data dopo la quale sono state perdute. I marmi con iscrizioni potrebbero essere stati divelti dalla collocazione originaria. Quanto agli oggetti in ceramica, vale lo stesso discorso delle monete: la loro presenza permette di datare uno strato a un periodo posteriore a quello in cui essi furono prodotti. Mentre però il periodo di coniazione di una moneta è ricostruibile dall'effige dell' autorità emittente, che vi è impressa, per datare le fasi di produzione della ceramica sono necessari studi più complessi.
Guardiamo nuovamente il piatto della foto. Esso è stato ricostruito con tanta cura solo perché l'esatta identificazione del tipo consente la datazione dello strato in cui si trovava (il cumulo dei detriti sul pavimento dell'esedra) . La ricostruzione non è stata fatta perché si tratta un pezzo unico, di particolare pregio artistico. Tutt'altro: ci sono giunti milioni di cocci di sigillata africana, perché la ceramica è indistruttibile: non va in putrefazione come il cuoio, il legno, il tessuto, non è fragile come il vetro, non si corrode come il metallo. Vetro e metallo potevano essere riciclati, come i marmi delle costruzioni e delle lapidi tombali, che furono riutilizzati in altri edifici o sciolti. La ceramica no: i piatti, le anfore, le lucerne rotte andavano gettati via. Cocci di ceramica comune si trovano perciò un po' dovunque e fanno la gioia degli studiosi.
Poiché le diverse fasi di produzione della sigillata africana sono ormai conosciute, essa è un "reperto guida" utilissimo per datare gli strati del terreno di I-VII secolo. Il nostro piatto è di sigillata africana D, tipo Hayes 109: dunque prodotto tra 610/620 e 680/700. Questo dato, incrociato con le datazioni degli altri reperti, fa ritenere che il relativo strato di terreno risalga alla seconda metà del VII secolo.
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Le fonti e i metodi
Per identificare e trattare separatamente i differenti strati del terreno, ognuno corrispondente a un'epoca diversa, l'archeologo procede con grande cautela, mantenendo memoria scritta e fotografica di tutti i momenti dello scavo, producendo così una documentazione assai formalizzata che sarà utilizzata più tardi da lui stesso o da altri. Lo scavo, poi, non è uno sterramento per liberare un monumento dai detriti, ma assomiglia piuttosto ai rilievi della scientifica resi famosi dalla cronaca nera e dai telefilm. Tutte le tracce lasciate da chi ha frequentato quel sito per secoli devono essere recuperate con estrema attenzione, evitando che il nostro intervento danneggi le prove: una scavatrice meccanica o una pala usate male mescolano le stratificazioni, come la pedata di un investigatore cancella l 'impronta insanguinata dell'assassino.
In un settore delimitato, l'archeologo identifica innanzitutto la "unità stratigrafica" grazie all'osservazione del colore e della consistenza del terreno e al confronto con i dati in suo possesso. Ogni unità stratigrafica è l'effetto di un evento più o meno rilevante che, per opera della natura o dell'uomo, ha modificato l'aspetto o la struttura del sito. L'unità stratigrafica, che non ha necessariamente la stessa altezza ed estensione in tutta l'area di scavo, è contrassegnata da un suo numero, è fotografata, di essa viene fatto un accurato rilievo. Poi si comincia a rimuovere il terreno, facendo attenzione a eventuali tracce del movimento dello stesso: può essere successo che in qualche punto il terreno abbia ceduto finendo più in basso, in un'altro strato, o che interventi dell'uomo (fognature, ristrutturazioni, scavo di buche per nascondere qualcosa, cunicoli, scavi archeologici come quelli del 1961 nel cortile del Conservatorio di Santa Caterina) abbiano confuso gli strati. Tutti i reperti, anche i più piccoli recuperati con un setaccio, sono raccolti in cassette dotate del numero identificativo dell'unità stratigrafica.
La figura che segue rappresenta schematicamente la sequenza stratigrafica dell'esedra della Crypta Balbi, elaborata da Lucia Saguì. Sono messi in evidenza gli strati di terreno attribuiti al periodo che va dal v al x secolo, con l'indicazione dei blocchi di tufo e travertino risalenti all'età augustea (i quadra tini alla base delle strutture murarie) e pilastri in laterizio del II secolo, quando nell' esedra fu costruita la latrina. Queste strutture edilizie erano state progressivamente seppellite da cinque strati (seconda metà del VI
secolo, seconda metà del VII secolo, prima metà dell'VIII secolo, fi-
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Medioevo: istruzioni per l'uso
ne dell 'v i i i secolo, IX-X secolo) . Datazioni più ristrette sono impossibili in archeologia, a meno che lo scavo non documenti un evento traumatico di cui conosciamo la data da altre fonti (fondazioni, distruzioni per incendi o calamità naturali) . Gli archeologi che hanno lavorato nella Crypta Balbi hanno proceduto dall'alto verso il basso, dunque a ritroso nella successione storica (dalla n. lO alla n. l delle fasi sopra elencate) , e soltanto nel 1 993 (dopo una prima serie di campagne di scavo nel 198 1 -86) sono arrivati allo strato che qui ci interessa: quello della seconda metà del V I I secolo. In esso sono stati trovati non solo 1 00 000 frammenti (di piatti, vasi, anfore, lucerne, unguentari ecc . ) , ma anche 460 monete, 1 0 500 frammenti di vetro, alcune centinaia di oggetti in metallo, osso, avorio e pietre preziose, ben 5000 reperti organici (ossa di animali, resti di pesci e di molluschi) . Questa enorme quantità di reperti è stata analizzata con estrema attenzione da una folta équipe di studiosi: i frammenti sono stati tutti minuziosamente misurati, fotografati e riprodotti in disegni, identificati (per questo scopo sono più utili i frammenti delle anse o degli orli delle ceramiche rispetto a quelli delle parti non modanate) sulla base dei repertori disponibili (per esempio quelli del citato Hayes) .
Una volta suddivisi per tipi, i reperti sono stati valutati quantitativamente: per esempio, si è calcolato che il 47 % dei frammenti di
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Le fonti e i metodi
ceramica proviene da contenitori per il trasporto di liquidi (come le anfore) e per la conservazione e il consumo di alimenti; il 3 % da stoviglie, come il piatto in sigillata africana. Tra i 3000 frammenti di sigillata africana 422 sono orli, ma non è stato possibile ricomporli tutti. Tuttavia, è stato stimato che i 422 orli corrispondevano a un minimo di 229 piatti. La stessa operazione è stata effettuata per le anfore e tutti gli altri contenitori, calcolando la loro quantità e persino la capacità complessiva.
La presenza di tanta sigillata africana dell'ultimo periodo rende indubbia la datazione del deposito alla seconda metà del VII secolo: pochi pezzi non sarebbero stati sufficienti, poiché oggetti del genere possono essere utilizzati anche dopo la cessazione della loro produzione, come si è detto.
Un importante obiettivo degli archeologi medievali è ricostruire la produzione di tipi diversi di ceramica per altri periodi (la produzione della sigillata si interruppe a fine VII secolo, ma nel corso del Medioevo comparvero vari tipi di ceramiche invetriate e smaltate) e per le diverse aree dell'Europa, in modo da individuare altri reperti-guida per la datazione degli strati del terreno. Questa operazione è contestuale alla stratigrafia: se un determinato tipo di ceramica è stato datato in un determinato sito di scavo grazie alla prova stratigrafica, il suo ritrovamento altrove da parte di un altro studioso costituirà a sua volta elemento di datazione dello strato relativo, con tutte le cautele del caso.
Datati gli oggetti e datato lo strato, ci si sforza di capire che cosa sia successo: perché quei frammenti si trovavano lì? La forma del nostro strato corrisponde a quello che si definisce "butto" , cioè l'effetto d i una discarica, un immondezzaio che è più alto nel luogo più vicino al punto di lancio. La parte più elevata dello strato di Vll secolo è a nord della cripta (a sinistra del disegno), verso il muro perimetrale dell'esedra. È stato ipotizzato che il lancio provenisse da un monastero attiguo, quello di S. Lorenzo in Pallacinis, oggi scomparso. L'eccessiva quantità di monete e la datazione omogenea di tutti i reperti fa supporre che il butto sia avvenuto in un periodo breve: ecco che si pensa a una inondazione del Tevere, che si trova a circa 250 metri in linea d'aria, e alla necessità di sgombrare materiale accumulato dalle acque nei locali del vicino monastero (L. Saguì) .
Di ipotesi in ipotesi, l 'archeologo passa dalla stratigrafia e dalla
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Medioevo: istruzioni per l'uso
classificazione dei materiali alla ricostruzione storica, utilizzando naturalmente anche altre fonti (per identificare il monastero, per esempio) . Ma la ricostruzione non si ferma alle vicende di quel sito. La massa dei reperti, datati e classificati, può essere utilizzata per conoscere l'economia del VII secolo: ciò che una fonte come la storia di Paolo Diacono (§ 3 .2) non può assolutamente consentirci di fare.
La presenza, nel deposito della cripta di Balbo, di sigillata africana proveniente dalla Tunisia, di unguentari prodotti forse in Palestina, di lucerne che si potrebbero attribuire alla Sicilia, di anfore e altri contenitori alimentari provenienti da tutto il Mediterraneo (attuale Tunisia, Egitto, Palestina, Asia Minore, cioè attuale Turchia, e altre aree del Mediterraneo orientale, Sicilia, Italia meridionale) prova che i centri di produzione elencati erano attivi, che esisteva un commercio a lunghe distanze di oggetti e di prodotti alimentari, che Roma era inserita in queste reti commerciali.
Non essendoci residui del prodotto trasportato all'interno dei contenitori, sono in questo caso la forma e la provenienza a essere prese in considerazione. È probabile che nelle anfore africane vi fosse olio, in quelle palestinesi vino. La presenza di un particolare tipo di anfora riconducibile a Samo fa ipotizzare che essa contenesse il vino di quell'isola greca, celebre e costoso.
L'impressione di decadenza ricavata dal degrado del monumento antico si attenua. A Roma la situazione economica non era poi così drammatica se qualcuno vi importava e qualcun altro vi comprava vino di Samo, piatti e olio africani. Altri reperti del deposito confermano questa valutazione, ma di essi qui non ci occuperemo.
Quello che è importante sottolineare è come l'archeologia utilizzi fonti materiali preterintenzionali per lo studio dell'economia e della società. Quei cocci buttati via, che non avrebbero avuto alcun significato se fossero stati estrapolati dallo strato di terreno in cui si trovavano, ci danno informazioni preziosissime. È però necessario un lavoro assai paziente, che è durato decine di anni e ha coinvolto decine di studiosi per un'area tutto sommato limitata come gli scavi della Crypta Balbi. La ricerca archeologica ha bisogno di molte energie finanziarie e scientifiche. Spesso si ricorre a laboratori per fare analizzare la composizione chimica di un materiale (argilla, metalli, pollini) o per misurare la radioattività di
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Le fonti e i metodi
un reperto organico (esame del Carbonio 14 1 l ) . L'analisi delle ossa umane consente di stabilire sesso, età, alimentazione degli individui. Dunque, la ricerca archeologica è necessariamente un lavoro di gruppo: i reperti del solo deposito del VII secolo sono stati studiati da persone diverse a seconda della fonte trattata (monete, ceramica e vetro, reperti di animali: sono almeno tre gruppi di studiosi) .
Ci vuole dunque molto tempo per arrivare alla sintesi, per concludere per esempio, sulla base di questo deposito e di altri ritrovamenti, che fino a tutto il VII secolo il commercio del Mediterraneo funzionava grossoQJ.odo come nell'epoca tardo antica: stessi prodotti, stesse rotte. Il drastico calo demografico, il decadimento urbanistico (abbiamo visto i dati di Roma) , le invasioni barbariche danneggiarono, ma forse non distrussero la struttura economica del Mediterraneo.
Così riteneva Pirenne, lo storico belga che abbiamo già citato a pp. 26-27 . Anche lui aveva individuato dei " reperti guida" per sostenere la sua tesi: si trattava però di notizie trasmesse dalle poche fonti scritte disponibili. La citazione di monete d'oro e di prodotti come il papiro sarebbe stata la prova che il commercio internazionale nel Mediterraneo era ancora vivo fino a tutto il VII
secolo. La vera cesura economica e sociale, a giudizio di Pirenne molto più grave di quella politica verificatasi con le invasioni barbariche e il dissolvimento dell'impero romano d'Occidente, sarebbe avvenuta nell'viii secolo e sarebbe da attribuire all'espansione dell'Islam nel Mediterraneo (seconda metà del VII secolo) , cui sarebbero conseguiti l a rottura diquegli scambi internazionali, la crisi definitiva delle città, la ruralizzazione dell'Europa, l'inizio del Medioevo come epoca assolutamente diversa da quella antica. Maometto e Carlomagno titolò Pirenne la sua opera, a significare che la predicazione di Maometto (prima metà VII secolo) fu all'origine del mondo carolingio, dunque della nascita dell'Europa (VIII-IX secolo) . 14
1 1 Il Carbonio 14, che si trova nei vegetali e negli animali, è una sostanza radioattiva. Misurando la diminuzione della radioattività dopo la morte dell'organismo, è possibile datarlo con una approssimazione di uno o due secoli.
14 Un celebre volume di due archeologi si chiama proprio Maometto, Carlomagno e le origini dell'Europa.
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Medioevo: ùtruzioni per l'uso
Oggi la tesi Pirenne non è generalmente accettata, sia per il ruolo che egli attribuì all 'Islam, sia per il quadro eccessivamente negativo del commercio e dell'urbanesimo in età carolingia. Resta invece ancora aperta la questione che lo studioso aprì, quella di una periodizzazione più efficace del passaggio da Antichità a Medioevo, una periodizzazione che non si fondi su eventi politici ma individui il momento del collasso di una struttura economica e sociale. Al dibattito danno un forte contributo le ricerche archeologiche: il deposito della cripta di Balbo, per esempio, sembra proprio dar ragione a Pirenne, perché gli strati dei secoli successivi al VII non contengono oggetti di così varia provenienza: il Medioevo, almeno a Roma, sarebbe cominciato nell'viii secolo. Altri ritrovamenti archeologici anticipano la fine del commercio mediterraneo al VII secolo.
Se Pirenne fu contestato perché aveva voluto trarre conclusioni generali da poche attestazioni documentarie relative solo ad alcune aree geografiche, lo stesso rilievo potrebbe essere fatto alla ricerca archeologica, che ricava conclusioni generali da reperti raccolti in pochi scavi relativi a minuscole porzioni del territorio di poche città del Mediterraneo. Può darsi infatti che le persistenze o i cambiamenti rilevati non coinvolgessero tutte le città nello stesso modo e nello stesso periodo. Può darsi che il commercio internazionale emarginasse alcune aree e altre no, che il caso di Roma sia un'eccezione, o che la commercializzazione di quei particolari prodotti non debba essere valutata nello stesso modo in secoli e in luoghi diversi.
Il problema, comune a chi tratta la fonte scritta e a chi tratta quella materiale, è come passare dal piano del particolare a quello generale. Generalizzare le conclusioni raggiunte studiando casi e fonti locali è sempre un'operazione assai rischiosa, ma inevitabile nella ricerca storica e archeologica. All'apparenza, il salto dell'archeologo dai cocci della foto alla ricostruzione dell'economia è molto più azzardato di quello che si fa dando credito alla testimonianza di Paolo Diacono sulle conseguenze dell'invasione longabarda. Questo perché la testimonianza di Paolo, per la sua stessa natura, si pone già a un livello generale. L'impressione è però sbagliata, perché un testimone come Paolo (o Secondo di Non) può mentire, può non sapere, può aver frainteso, come abbiamo visto.
D'altra parte, è molto difficile mettere a confronto le informa-
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Le fonti e i metodi
zioni ricavate dai reperti archeologici con quelle ricavate dalle fonti scritte, per la inconciliabile diversità. La paleografia, la filologia, la storia della letteratura latina sono, nel metodo e nello statuto epistemologico, discipline autonome dalla storia, che ad esse ricorre per analizzare l'opera di Paolo Diacono, ma pure hanno tutte a che fare con testi scritti. La distanza tra l'archeologia e la storia è maggiore, e molto diverso è l 'addestramento alla ricerca per un archeologo e per uno storico.
Tuttavia, l 'integrazione tra archeologia e storia è assolutamente indispensabile per lo studio dell'Alto Medioevo. Per questo, studiosi di formazione storica (abituati cioè a leggere fonti scritte) e studiosi di formazione archeologica hanno imparato a confrontarsi e a riflettere sulle fonti e sui metodi di entrambe le discipline.
3 .4 Parma nel X secolo (la fonte documentaria: i diplomi)
Nel 962 il re di Germania Ottone I di Sassonia scese per la seconda volta in Italia, dove fu incoronato imperatore dal pontefice romano.
Leggiamo un diploma che fu emanato in quell'occasione dalla sua cancelleria, un "ufficio" più o meno articolato che nel Medioevo si occupava della produzione di documenti di imperatori, re, papi e di qualsiasi titolare di autorità pubblica:
[ l ] In nome della santa e indivisibile Trinità, [2] Ottone, imperatore augusto per volontà della divina prowidenza. [3 ] Per questo fine crediamo di essere stati elevati all'altezza imperiale, cioè per prenderei cura del vantaggio di tutti, in particolare delle chiese di Dio, perché se le esalteremo, senza dubbio ce ne gioveremo moltissimo per la stabilità del nostro impero e per avere un'eterna remunerazione. [ 4] Pertanto, sia a conoscenza di tutti i fedeli della santa Chiesa di Dio e nostri, tanto presenti come futuri, la solerzia, [5] come Uberto, vescovo della chiesa di Parma, presentandosi alla nostra clemenza ha chiesto che noi, giovando alla sua chiesa, al modo dei nostri predecessori, lo arricchissimo di quelle cose che spettavano al regio potere e alla pubblica funzione, [6] e specialmente di quelle per le quali la sua chiesa veniva lacerata da parte del comitato, cioè che noi trasferissimo le cose e i servi, tanto di tutto il clero di quello stesso vescovato in qualunque luogo si trovino, quanto di tutti gli uomini che abitano dentro la medesima città dalla
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Medioevo: istruzioni per l'uso
giurisdizione pubblica alla giurisdizione e dominio e distretto della stessa chiesa, [7 ] così che abbia la potestà di deliberare, giudicare e ordinare - tanto sulle cose e sui servi del clero sopraddetto, quanto anche sugli uomini che abitano dentro la stessa città e le cose e i servi loro, [8] come se fosse presente il conte del nostro palazzo. [9] Noi, considerando e valutando l'utilità per la dignità dell'impero sopraddetto e per tutti gli inconvenienti che spesso si verificano fra i conti di uno stesso comitato e i vescovi della medesima Chiesa, [ l O] perché sia eliminata interamente ogni passata lite e scisma e perché lo stesso vescovo con il clero a lui affidato viva pacificamente e attenda senza alcuna molestia alle preghiere, tanto per la salvezza nostra come per la stabilità del regno e di tutti coloro che vivono nel nostro regno, [ 1 1 ] concediamo e permettiamo e dalla nostra giurisdizione e dominio trasferiamo nel di lui diritto e dominio completamente e gli affidiamo le mura della stessa città ed il distretto ed il teloneo ed ogni altra pubblica funzione tanto entro la città, quanto fuori da ogni parte della città per lo spazio di tre miglia attorno, segnato e determinato nella linea di confine con pietre terminali [ . . . ] , [ 12] e le strade regie e il corso delle acque e tutto il territorio coltivato e incolto che vi si trova e tutto ciò che è di pertinenza dello Stato. [ 1 3 ] Inoltre concediamo anche che tutti gli uomini abitanti nella città e nei confini sopraindicati, ovunque abbiano beni ereditari o acquisiti, o dei servi, tanto nel comitato parmense quanto nei comitati vicini, non corrispondano alcuna prestazione ad alcuna persona del nostro regno, [ 14] né osservino il placito di alcuno se non del vescovo di Parma che sarà in carica in quel momento, [15] ma abbia il vescovo della stessa chiesa licenza come se fosse il conte del nostro palazzo di ordinare, decidere e deliberare su tutte le cose e i servi tanto di tutti i chierici dello stesso vescovato, quanto anche di tutti gli uomini che abitano entro la predetta città, con contratto di livello ovvero di precaria ovvero castellani, [ 16] e così trasferiamo dalla nostra giurisdizione e dominio nella sua giurisdizione e dominio, [ 17] in modo che nessun marchese, conte, viceconte né alcuna persona grande o piccola del nostro regno si ingerisca delle predette cose e famiglie e di tutto ciò che si legge più sopra né tenti di esigere alcun diritto.
Testo latino
[ l ] In nomine sanctae et individuae trinitatis. [2 ] Otto divinae dispositione providentiae imperator augustus. [3 ] Ad hoc nos ad imperiale culmen sublimatos esse credimus, ut omnium, maxime ecclesiarum Dei utilitatibus consulamus, quia si eas exaltaverimus, plurimum nobis ad imperii nostri stabilitatem et ad aeternae remunerationis emolumentum proficere non ambigimus. [4] Quapropter noverit omnium
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sanctae Dei ecclesiae fidelium nostrorumque praesentium scilicet et futurorum solertia, [5] qualiter Hubertus Parmensis ecclesiae episcopus nostram adiens clementiam petiit, ut more praedecessorum nostrorum ecclesiam suam proficiendo augmentaremus ex his guae regiae potestati et publicae functioni debebantur et maxime ex his quibus eiusdem ecclesia lacerabatur ex parte scilicet comitatus, [6] videlicet ut res et familias tam cuncti cleri eiusdem episcopii in quocunque loco inventae fuerint quamque et cunctorum hominum infra eandem civitatem habitantium de iure publico in eiusdem ecclesiae ius et dominium et districtum transfunderemus, [7] ut deliberandi et diiudicandi seu distringendi potestatem haberet tam supradicti cleri res et familias quamque et homines infra eandem civitatem habitantes et res et familias eorum, [8) velut si praesens adesset nostri comes palatii. [9] Nos vero considerantes et commodum ducentes per supradicti imperii dignitatem et per mala omnia guae acciderint saepe inter comites ipsius comitatus et episcopos eiusdem ecclesiae, [ lO] ut penitus praeterita lis et schisma evelleretur et ut ipse pontifex cum clero sibi commisso pacifice viveret et sine aliqua inquietudine oracionibus vacaret, tam pro salute nostra guam stabilitate regni et omnium in nostro regno degentium [ 1 1 ] concedimus et largimur et de nostro iure et dominio in eius ius et dominium omnino transfundimus atque delegamus murum ipsius civitatis et districtum et telonium et omnem publicam functionem tam infra civitatem guam extra ex omni parte civitatis infra tria milliaria, destinata scilicet atque determinata per fines et terminos [. .. ] , [ 12] nec non et regias vias aquarumque decursus et omne territorium cultum et incultum ibidem adiacens et omne quidquid rei publicae pertinet. [ 1 3 ] Insuper etiam concedimus ut omnes homines infra eandem civitatem vel praelibatos fines habitantes, ubicunque eorum fuerit haereditas sive adquaestus sive familia, tam infra comitatum Parmensem quamque in vicinis comitatibus, nullam exinde functionem alicui nostri regni personae persolvant [ 14] sive alicuius placitum custodiant, nisi Parmensis ecclesiae episcopi qui pro tempore fuerit, [ 15] sed habeat ipsius ecclesiae episcopus licentiam tamquam nostri comes palatii distringendi et definiendi vel deliberandi omnes res et familias tam omnium clericorum eiusdem episcopii guam et omnium hominum habitantium infra praedictam civitatem nec non et omnium residentium supra praefatae ecclesiae terram sive libellariorum sive precariorum seu castellanorum, [ 16] et ita de nostro iure et dominio in eius ius et dominium transfundimus, [ 17] ut nullus marchio comes vicecomes aut aliqua regni nostri magna remissaque persona exinde de praedictis rebus et familiis et omnibus guae superius leguntur se intromittat aut aliquam functionem inde recipere tentat.
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Quello presentato è un atto ufficiale dell'imperatore, emesso a Lucca il 1 3 marzo 962 . Esso si presentava come una pergamena dotata di un grande sigillo pendente protetto da una custodia e assicurato al lembo inferiore del documento mediante strisce di pergamena o di stoffa. Diplomi di questo genere, conservati arrotolati come si vede in ogni film storico che si rispetti, sono stati sempre oggetto di grande attenzione, sia nel periodo in cui furono emessi che nei secoli successivi, perché promanavano dalla massima autorità secolare e perché istituivano diritti e riconoscevano prerogative a enti (in questo caso la diocesi di Parma) e a privati. Come i documenti pubblici del nostro tempo (un diploma di laurea, una patente di guida) , i diplomi medievali erano confezionati in modo particolare, secondo forme che ne garantissero l 'autenticità: il materiale scrittorio (qui la pergamena), il sigillo, la grafia, le sottoscrizioni, le formule del testo assolvevano alla stessa funzione che oggi è propria della carta multicolore di una patente, del bollo tondo della Motorizzazione civile, della firma del funzionario, o, più semplicemente, del chip incorporato nelle patenti elettroniche.
Il paragone non è peregrino: la patente deriva il suo nome da documenti come questo, che erano appunto definiti litterae patentes, lettere aperte che dovevano essere esibite a terzi, a differenza delle litterae clausae indirizzate al solo destinatario. La patente di guida certifica che l'intestatario, essendo stato riconosciuto in possesso di specifici requisiti fisici, di competenze normative e di abilità tecniche mediante procedure particolari ( insomma le visite mediche e l'esame) , ha ricevuto dall'autorità (la Repubblica italiana tramite la Motorizzazione) il permesso di guidare un'automobile o altri veicoli. Essa è appunto destinata a essere esibita a terzi (le forze dell'ordine, ma anche chi ci noleggia una vettura) .
Ora, come la patente autorizza a guidare, così il diploma di Ottone autorizzava il vescovo di Parma e i suoi successori a governare la città tamquam nostri com es palatii [7 , 15] , come se fosse un conte del palazzo imperiale. I conti, ricorderemo, erano i funzionari pubblici dell'impero carolingio.
Il diploma descrive in tre punti il contenuto del potere concesso:
quelle cose che spettavano al regio potere e alla pubblica funzione (his qua e regia e potestati et publicae functioni debebantur) [5] .
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potestà di deliberare, giudicare e ordinare (deliberandi et diiudicandi seu distringendi potestatem) [7] . licenza di ordinare, decidere e deliberare (/icentiam . . . distringendi et de/iniendi ve! deliberandi) [ 15] .
Chi ha composto questo documento aveva un'idea del potere pubblico: esso viene infatti definito con termini che si richiamano naturalmente al diritto romano (regia potestas, publica /unctio) e che sono completati dalla specificazione di quelle funzioni che oggi chiameremmo legislativa (deliberare) , giudiziaria (diudicare) ed esecutiva (distringere) . Siamo ottocento anni prima di Montesquieu, che teorizzò la divisione di questi tre poteri, 1 5 e dunque la distinzione è anacronistica. In effetti, il testo si riferisce semplicemente alle tradizionali attribuzioni di un conte carolingio (e infatti due volte le espressioni citate sono accompagnate dal paragone «come se fosse il nostro conte») , che come abbiamo detto erano tutti indistintamente derivati dalla sua forza militare, dalla sua capacità di costringere gli altri uomini ad obbedirgli (vedi p. 8) . Questa capacità era definita, nel latino dei documenti giuridici medievali (leggi, diplomi, contratti notarili) , districtio, non nel senso "territoriale" del nostro distretto ( area su cui si esercità un'autorità) , ma nel senso relazionale di distringere "costringere" . Con un termine derivato dalle lingue germaniche si diceva anche bannum (comando) .
Il potere trasferito al vescovo è poi descritto più concretamente con riferimento a una serie di prerogative, di "oggetti" e di persone su cui esso è esercitato:
le mura della stessa città ed il distretto ed il teloneo ed ogni altra pubblica funzione tanto entro la città, quanto fuori da ogni parte della città per lo spazio di tre miglia attorno, [. .. ] e le strade regie e il corso delle acque e tutto il territorio coltivato e incolto che vi si trova e tutto ciò che è di pertinenza dello Stato (murum ipsius civitatis et districtum et tclonium et omnem publicam functionem tam in fra civitatem qua m extra ex amni parte civitatis in fra tria milliaria [. . .] nec non et regias vias aquarumque decursus et omnc territorium cultum et incultum ibidem adiaccns et o m ne quidquid rei publicae pertinet) [ 1 1 , 12] .
1 5 Le riflessioni a l riguardo di Ch.L. de Montesquieu, uno dei principali esponenti dell'illuminismo francese, furono pubblicate nel celebre Esprit des lois ( 1748) .
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Il potere si esercita sul muro della città, sulle vie regie, sui corsi d'acqua, ciò che oggi definiremmo "demanio" , ovvero, dice il documento con un termine del latino classico, tutto ciò che attiene alla res publica. Il vescovo può e deve occuparsi delle mura cittadine e delle strade pubbliche e dunque ripararle, rinforzarle, controllarle assicurando così la difesa della città. Può imporre dazi a chi naviga nei corsi d'acqua e percorre le strade regie. Può riscuotere il teloneo, una tassa indiretta sui prodotti di consumo. Può esercitare il districtum, dunque arrestare, multare, eseguire una sentenza. La sentenza la emette lui stesso nel suo placitum, 16 come si dice in un altro punto [ 14] .
Ma chi è soggetto al vescovo? Il documento è contraddittorio a questo proposito, perché nel periodo appena citato si riferisce chiaramente alla città e a un'area (di cui si danno i confini, che non abbiano riportato) che si estende per tre miglia fuori dalla città. In altri punti ci si riferisce non a un territorio, ma alle persone e ai loro beni. Sono soggetti al vescovo:
le cose e i servi, tanto di tutto il clero di quello stesso vescovato in qualunque luogo si trovino, quanto di tutti gli uomini che abitano dentro la medesima città (res et familias tam cuncti cleri eiusdem episcopii in quocunque loco inventae fuerint quamque et cunctorum hominum in/ra eandem civitatem habitantium) [6] . tutti gli uomini abitanti nella città e nei confini sopraindicati, ovunque abbiano beni ereditari o acquisiti, o dei servi, tanto nel comitato parmense quanto nei comitati vicini (omnes homines in/ra eandem civitatem vel praelibatos /in es habitantes, ubicunque eorum /uerit haereditas sive adquaestus sive /amilia tam in/ra comitatum Parmensem quamque in vicinù comitatibus) [ 1 3 ] . tutte l e cose e i servi tanto d i tutti i chierici dello stesso vescovato, quanto anche di tutti gli uomini che abitano entro la predetta città (omnes res et /amilias tam omnium clericorum eiusdem episcopii quam et omnium hominum habitantium in/ra praedictam civitatem) [ 15 ] .
16 Il placito era l'udienza giudiziaria presieduta dal re o da un suo rappresentante. Custodire placitum di qualcuno vuoi dire essere sottoposti alla sua autorità giudiziaria, e forse anche presenziare a tali riunioni, come erano tenuti a fare gli uomini liberi.
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Sono ricordati prima i chierici, 17 che fin dall'epoca tardoantica rientravano nella giurisdizione separata del loro vescovo (cuncti cleri eiusdem episcopii [6] e [ 15 ] ) , poi tutti gli abitanti della città e del circondario (entro tre miglia). Ma nella competenza vescovile rientrano anche le res et familiae di tutti costoro, dovunque esse si trovino. Per res et familiae si intendono i beni immobili (si precisa che possono essere posseduti a titolo ereditario o essere stati acquisiti in un secondo momento [ 1 3 ] ) , e i servi personali, la familia che ogni persona di una certa ricchezza possedeva e di cui disponeva come delle proprie res. È assolutamente importante la precisazione che tali possessi sono soggetti del vescovo per ciò che a ttiene, diremmo oggi, al diritto civile o penale (ma allora non esisteva tale distinzione) dovunque essi si trovino, nel comitato (contea) di Parma o nei comitati vicini.
La giurisdizione, per così dire, è attaccata alle persone: un "uomo" del vescovo di Parma, laico o chierico, libero o servo, non obbedisce ad altri che a lui, e a lui ricorrerà, sulla base di questa concessione, se un'autorità pubblica (i conti, viceconti, marchesi citati in fine) , anche oltre quel limite dei tre miglia, vorrà arrestarlo per un delitto, multarlo perché una sua bestia ha fatto danni a un vicino, o gli vorrà chiedere di pagare una gabella, di fornire fieno ai suoi cavalieri, di prestare un servizio lavorativo. Nell'assenza, tipica dell'Alto Medioevo, di un sistema fiscale centralizzato e basato sulla circolazione monetaria, infatti, il prelievo fiscale del vescovo, come di qualsiasi autorità, avveniva soprattutto attraverso l'ospitalità forzosa, la consegna di derrate alimentari a uomini e cavalli del vescovo, la prestazione d'opera (per riparare le mura e le strade, pulire le strade e i canali ecc.) .
Occupiamoci ora della natura della concessione di Ottone: dobbiamo fare attenzione ai verbi che venivano definiti dispositivi (perché esprimono le disposizioni o ordini dell'autore) e che qualificavano in documenti di questo genere l'atto compiuto dal sovrano. Essi sono sempre in prima persona plurale (plurale maiestatis) , riferita all'autore giuridico del documento, l'imperatore:
17 Vedi p. 60, nota 10.
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- concediamo e permettiamo e dalla nostra giurisdizione e dominio trasferiamo nel di lui diritto e dominio completamente (concedimus et largimur et de nostro iure et dominio in eius ius et dominium omnino trans/undimus atque delegamus) [ 1 1 ] . e così trasferiamo dalla nostra giurisdizione e dominio nella sua giurisdizione e dominio (et ita de nostro iure et dominio in eius ius et dominium trans/undimus) [ 16] .
Il complemento oggetto di questi verbi è costituito, in astratto, dalla regia potestas sopra citata, in concreto dalle prerogative appena descritte su res et /amiliae dei cittadini parmensi. Come si sarà capito, è tipico dei documenti medievali questa pluralità di definizioni (concedere, largiri, tras/undere, delegare): a differenza del linguaggio giuridico attuale, fondato su una inequivoca classificazione di istituti e di fattispecie, si individua l'azione compiuta e il suo ambito mediante il semplice accumulo di tutti i termini disponibili, sia quando il loro significato è totalmente o parzialmente sovrapponibile, sia quando essi entrano in contraddizione: concedere è sinonimo di largiri (elargire) , mentre tras/undere (trasmettere) potrebbe essere considerato l'opposto di delegare, in quanto la delega dovrebbe prevedere la possibilità di revoca. Invece, come si specifica chiaramente, la concessione non è soggetta a nessun tipo di condizione, dunque non può essere revocata per nessun motivo: il potere pubblico su Parma è per sempre del vescovo e dei suoi successori (Parmensis ecclesiae episcopi qui pro tempore fuerit [ 14] ) . Egli ha uno ius (diritto) e un dominium (dominio, sovranità) del tutto autonomi, è un signore indipendente.
Siamo in presenza di una donazione o alienazione: il potere è donato come se fosse una proprietà privata. Il vescovo non diventa un funzionario dell'imperatore, non è nominato conte (è come se fosse conte, cioè fa le stesse cose che fa un conte), e neppure diventa feudatario di Ottone. Il documento non contiene alcun termine che richiami il rapporto tra un vassallo e il suo signore (vedi § 2 .8 ) . Nel primo caso, se fosse cioè funzionario, il vescovo dovrebbe amministrare Parma per conto di Ottone, in qualità di suo rappresentante. Nel secondo caso, se fosse feudatario, dovrebbe giurare di essere fedele a Ottone, prestandogli omaggio vassallatico, pena la perdita del feudo che gli sarebbe stato assegnato. Dunque l'area che governa il vescovo non è una circoscrizione pubbli-
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ca come un comitatus di Carlo Magno, né è un feudo, pùr ereditario, come quelli che verranno concessi dall'imperatore Federico Barbarossa di lì a due secoli. 1 H
Ottone rinuncia, s i direbbe oggi, a un "pezzo di stato" , che diventa del vescovo. Non è però questa una definizione corretta, perché Parma non si costituisce in stato autonomo. Parma, anzi i cittadini di Parma e i loro beni in un'area di incerta definizione, hanno un dominus, un signore-padrone che esercita su di loro il suo potere, un potere che gli storici preferiscono definire «signoria locale» o, in latino dominatus loci, perché le fonti parlano semplicemente di signori del luogo. 19 Signore-padrone perché il vescovo possiede materialmente le mura, i corsi d'acqua e le pubbliche funzioni collegate a questi "oggetti" . Il potere è incorporato nelle cose e nelle persone, nel muro come nell'uomo del vescovo.
Siamo in presenza di una concezione del potere lontana sia da quella del tempo di Carlo Magno (VIII-IX secolo) che da quella dell'epoca propriamente feudale (XI-XIII secolo) , una concezione signorile del potere, che Giovanni Tabacco ha definito con un termine spesso presente nei manuali: allodialità del potere. Il potere pubblico, che per definizione sarebbe astratto e impersonale, e che nel Medioevo dovrebbe sempre essere riconducibile all'autorità suprema (l'imperatore, e per suo tramite Dio, ma si veda § 3 .6) è trattato come un allodio, termine germanico per indicare la proprietas, una proprietà piena, che dunque è alienabile, per donazione o trasmissione ereditaria.
In una situazione di dissoluzione dell'ordinamento pubblico conseguente alla crisi dell'impero carolingio un imperatore come
1 8 È dunque errata la frettolosa definizione di vescovi-conti per personaggi come Uberto, come se fossimo in presenza di vescovi nominati funzionari o - peggio - infeudati delle contee imperiali. Errori del genere, ancora frequenti in manuali scolastici, riemergono con prepotenza negli studenti.
19 Le definizioni di dominatus loci, poteri signorili, poteri locali comprendono le varie forme di signoria "territoriale" del X-XI secolo (periodo detto dell'ordinamento signorile) , da quelle di dignitari ecclesiastici e abati, a quelle di dinastie che avevano patrimonializzato la carica pubblica di antica ascendenza carolingia, a quelle sorte spontaneamente dal basso, ad opera di agguerriti proprietari fondiari, ovvero le signorie di banno e di castello. Tante definizioni possono disorientare lo studente: si consiglia di consultare la trattazione di Sandra Carocci citata nella Nota bibliografica.
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Ottone, che si propose di rinnovare l'istituzione imperiale, non aveva altro strumento che il proprio carisma e la sacralità della propria carica per tenere insieme una serie di poteri autonomi, localizzati intorno a vescovi come Uberto o a potenti che spesso (ma non sempre) si chiamavano conti, duchi, marchesi, ma che non erano affatto funzionari pubblici, bensì - anche loro - autonomi signori locali (domini loci) : padroni di terre, uomini e diritti. Il documento legittimava dunque un potere che probabilmente Uberto già aveva, ma che gli era contestato da altri signori (si afferma che la chiesa è «lacerata da parte del comitato», cioè del conte [6] ) , e lo faceva attraverso l'istituto privato della proprietas, che garantiva l 'autonomia del potere locale. L'imperatore manteneva così il suo ruolo di protezione nei confronti delle chiese, dunque anche quella di Parma, come si dice nella parte iniziale del documento, e si procurava naturalmente un alleato nella persona del vescovo Uberto.
Notiamo en passant che un documento del genere è utile, oltre che per conoscere un tassello della storia di Parma e un fenomeno come la concessione iure proprietario («a titolo di proprietà» secondo la definizione di Tabacco) , anche per ricostruire il funzionamento della cancelleria imperiale e le giustificazioni ideologiche delle azioni di Ottone I. Non dobbiamo pensare che Ottone intervenisse personalmente nella composizione dell'atto di cui era l'autore giuridico. Esso era composto nella sua cancelleria secondo procedure rigide, sia per quanto riguarda le partizioni del testo, le formule, che per quanto riguarda la distinzione dei compiti tra chi lo componeva, o dettava come si diceva, chi lo ricopiava in bella forma, chi lo registrava, chi apponeva il sigillo dopo aver controllato tutto ecc. Per questo è assai proficuo il confronto tra vari diplomi, al fine di riscontrare le eventuali variazioni significative.
Al principio si trovano sempre l'invocatio, l'invocazione (qui alla Trinità [ 1 ] ) , e l'intitulatio, intitolazione del re [2] , che è sempre la stessa per il singolo sovrano (a meno che non intervengano altre conquiste territoriali o acquisizioni di altri titoli) . Seguono l'arenga, una premessa al testo vero e proprio in cui vengono dichiarate le più generali motivazioni (etiche o politiche) dell'azione documentaria [3 ] . Ottone, e la cancelleria per lui, afferma che compito precipuo del re è esaltare le chiese di Dio, questo è anzi il motivo per cui egli è stato elevato al ruolo imperiale. Ciò procura stabilità
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al regno (e infatti Uberto è ora alleato di Ottone) e una ricompensa eterna (Ottone pensa anche alla sua anima, ma sul serio, non è una dichiarazione opportunistica ! Vedi § 3 .6) .
Dopo l' arenga si narra come si è giunti alla specifica decisione: nella parte che è appunto definita narratio [ 4-8] si afferma che Uberto stesso ha sollecitato la concessione, che viene esplicitata nella successiva dispositio (disposizione, determinazione) [9- 16) .2° Ancora oggi, le disposizioni di leggi mostrano le tracce di quelle partizioni: nella parte introduttiva si enuncia l'autorità emittente (il presidente della Repubblica, il ministro ecc.) e si citano le disposizioni precedenti, da cui deriva o che deve rispettare quella presente (questi rinvii sono introdotti dalla parola VISTO); mentre il corpo del provvedimento è preceduto dal verbo dispositivo, in terza persona singolare, messo al centro del rigo (per esempio: PROMULGA, DECRETA) .
Tutte le azioni politiche dell'imperatore Ottone e delle altre autorità pubbliche dell'età medievale, nella loro infinita varietà, vengono costrette in questo schema (il diploma è datato a Lucca, e chissà quali e quante circostanze e mediazioni a noi sconosciute erano dietro alla richiesta di Uberto) . Ma, nonostante la sua fissità, anche lo schema può darci informazioni, che naturalmente andranno valutate tenendo presente da un lato la ripetitività delle formule, dall'altro gli scarti dall'uso di ciascuna cancelleria in un tempo determinato. Di queste cose si occupa una disciplina particolare, la diplomatica, cioè lo studio dei diplomi.
Torniamo al paragone iniziale con la patente di guida. Come tutti i documenti ufficiali, anche un diploma medievale poteva essere falsificato. E in effetti ci sono pervenute numerose falsificazioni di documenti imperiali, papali, regi: la diplomatica è nata proprio al fine di accertare l'autenticità della documentazione giuridica medievale. Essa è stata così definita dal titolo della prima trattazione sistematica della disciplina, il De re diplomatica (Sulla questione dei diplomi) di un monaco benedettino francese, Jean Mabillon ( 168 1 ) . Tale disciplina, che nell'analisi del documento e nella ricostruzione delle cancellerie che lo produssero è affiancata da altre come la paleografia, la sigillografia (storia dei sigilli) , la storia della lingua e del
20 Del documento non è stata riprodotta la parte finale.
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diritto, l 'archivistica (storia degli archivi e delle istituzioni che li hanno creati) , ha in comune con la filologia l'attenzione al testo, ma se ne distacca perché ha a che fare generalmente con originali o con falsi in forma di originale.2 1 Tuttavia, anche quando viene trasmesso in copia, un documento ha generalmente un tasso minore di varianti, perché interesse del copista è quello di riprodurre perfettamente il testo che ha davanti, cosa che non sempre avviene con le fonti narrative e le opere letterarie.
Il diploma di Ottone ci è giunto nell'edizione che ne diede uno studioso italiano di metà Seicento, Ferdinando Ughelli, sulla base di un manoscritto della Biblioteca Apostolica Vaticana (dunque non dell'originale disperso) . Questa versione è stata integrata o corretta dagli editori mediante il confronto con un diploma dell'imperatore Enrico II ( l 004) , conservato in originale nell'Archivio capitolare di Lucca, e consistente in una conferma della donazione del 962.22 Nella frase res et /amilias tam cuncti cleri eiusdem episcopii in quocunque loco inventae /uerint [6] l'edizione Ughelli non presenta il participio inventae, che è stato introdotto dall'editore integrandolo dalla versione di Enrico II: è stato cioè ipotizzato che Ughelli o il suo tipografo avessero fatto un semplice errore meccanico, saltando una parola. Non è però stata presa in considerazione la parola comitatu al posto di loco nel diploma di Enrico, perché difficilmente Ughelli avrebbe potuto fare una modifica volontaria o involontaria del genere, mentre è possibile che la cancelleria di Enrico n fosse intervenuta su questo punto. Dato il loro carattere formulare, infine, invocazione, intitolazione e prime parole dell' arenga, mancanti in Ughelli, sono state facilmente integrate da altri diplomi di Ottone.
2 1 Ricordiamo che anche nella storia della filologia testuale ha avuto un grande rilievo lo smascheramento di un falso. Nel 1440, con l'opera De falso eredita et ementita Constantini donatione declamatio, l'umanista Lorenzo Valla dimostrò infatti, con prove linguistiche e stilistiche, la falsità della cosiddetta Donazione di Costantino, un atto con il quale l'imperatore romano avrebbe donato al papa il dominio temporale sull'Occidente, ma che invece fu confezionato ad arte nell'vili secolo. Valla poté effettuare la sua dimostrazione grazie alla sua eccellente conoscenza della lingua latina nella sua evoluzione storica. Egli fu un campione della filologia, in tempi in cui non esistevano ancora vocabolari, repertori, edizioni critiche come quelle di cui oggi disponiamo.
22 Confermare i diplomi dei predecessori fu prassi comune nel Medioevo e nell'età moderna.
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L'accertamento dell'autenticità di diplomi come questo è all'origine del metodo di critica delle fonti, dunque della medievistica come disciplina scientifica. Nel corso dell'età moderna, via via che si passava da una definizione generica del Medioevo a un effettivo studio dello stesso, le fonti medievali furono oggetto di grande interesse. In particolare, per rispondere alle polemiche dei protestanti contro le fantasiose leggende dei santi, la cui funzione di intercessione è da essi rifiutata, un gruppo di gesuiti raccolti intorno al francese Jean Bolland cominciò l'edizione critica delle vite dei santi ( 1 64 3 ) , mentre lo stesso Mabillon concepì il suo trattato in risposta alle accuse di falsità del gesuita Daniel Papebrok nei confronti dei diplomi dei re merovingi. La lingua dei documenti del Medioevo fu invece indagata dal francese Charles Du Fresne Du Cange, autore di un importante vocabolario di latino medievale ( 1678 ) .
S i noti che quegli studiosi erano spesso uomini d i Chiesa: l a critica delle fonti nacque in ambienti religiosi e comunque non accademici, perché la ricerca storica non si insegnava nelle università, né la scrittura di opere storiche era legata necessariamente allo studio delle fonti. Molti letterati, politici, filosofi scrivevano la storia del passato attingendo soltanto a fonti narrative; o la storia del proprio tempo riferendo le loro dirette esperienze e magari utilizzando la documentazione cui avevano avuto accesso per i loro incarichi professionali (nel caso di titolari di cariche pubbliche, ambasciatori, giuristi, cancellieri, cortigiani) . Lo studio umile dei molteplici resti del passato era praticato da filologi, collezionisti, archivisti, in una parola "eruditi" , come si dice con una sfumatura negativa. È però attraverso queste iniziative erudite dell'età moderna, e soprattutto dei secoli XVII e XVIII, che è nata e si è sviluppata l 'esegesi delle fonti, dunque la storiografia critica attuale, la quale soltanto a partire dall'Ottocento ha conquistato le università e ha dato origine a istituzioni pubbliche e private specificamente preposte a questa attività.
Tale processo ha anch'esso un effetto sull'ignaro studente di storia medievale, che subisce inconsapevolmente l'originaria distinzione tra storiografia ed erudizione, le quali oggi convivono nella storia-scienza e nella storia-disciplina (vedi p. 53 ) . Il manuale, infatti, da un lato è costruito come una narrazione continua, una storia generale, come si dice, che per quanto possa essere articolata
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resta rispettosa delle periodizzazioni tradizionali e delle cesure politiche (guerre, cambi di dinastia ecc. ) , al pari della storia di un Paolo Diacono; dall'altro si sforza di dar conto della multiforme ricerca scientifica (ovvero erudita) , che ha come oggetto singole aree geografiche, segmenti cronologici minimi, tematiche specifiche, e che rimette continuamente in discussione le generalizzazioni della storia generale (la ripetizione è voluta) .
3 .5 Un mulino amalfitano nell'xr secolo (la fonte documentaria: il contratto notarile)
Nell'Archivio di Stato di Napoli era conservata una pergamena di forma quadrata (circa 20 cm per lato) scritta in una particolare grafia detta curiale amalfitana, che recitava:
[ l ] t lo Maria figlia di Giovanni figlio di Mauro di Giovanni di Leone di Pardo conte [2] nel giorno presente con volontà perfetta do, trasferisco e confermo per iscritto a voi signor Giovanni nostro genitore la piena e integra mia porzione di mesi due meno giorni cinque del mulino di questa città di Atrani [3 ] che a me, ovvero a mia sorella e a me lasciò la signora Anna, mia genitrice, ai sensi del suo testamento, [4] dunque demmo a voi la nostra porzione con la sua strada e ogni sua pertinenza, [5] di modo che a noi non rimanesse nulla e che nulla vi sottraessimo di essa, [6] perché mi deste la cassa con la coperta di lana [7] che similmente la predetta nostra genitrice aveva lasciato a noi tre ai sensi del predetto testamento, [8] e ho presso di me la cassa con la sopradetta coperta di lana vellutata cioè [seguono due lettere non leggibili] , [9] così come abbiamo pattuito tra noi con delibera e decisione assoluta, [ 10] in modo che, se in qualche tempo o in qualche modo o con qualche inganno noi o i nostri eredi, anche mediante terzi, osassimo importunare voi e i vostri eredi o qualunque vostro uomo per quanto riguarda la predetta mia porzione dei predetti mesi due meno giorni cinque, [ 1 1 ] promettiamo di pagare a voi una sanzione di trenta bisanti, [ 12 ] e questa carta sia valida per sempre. [ 1 3 ] Aggiungiamo invero quanto non abbiamo scritto sopra: [ 14] dichiariamo che voi siete liberi di fare tutto quanto vorrete della porzione dei predetti mesi del soprascritto mulino senza alcuna opposizione o richiesta nostra e dei nostri eredi per sempre a pena della sanzione soprascritta. [ 15] t Pietro figlio di Stefano di Marino, testimone, ha sottoscritto. [ 16] t Mauro figlio di Sergio di Pantaleone, testimone, ha sottoscritto.
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[ 17 ] t Costantino figlio di Giovanni di Leone di Costantino di Leone conte, testimone, ha sottoscritto. [ 18] t Io Giovanni scriba figlio di Sergio ho scritto a metà del mese di febbraio, seconda indizione.
Testo latino
[ l ] t Ego quidem Maria filia Iohannis filii Mauri de Iohanne de Leone de Pardo camite [2] a presenti die prumtissima volumtate dare et tradere seu scribere et firmare visa sum vobis [domino] Iohanni genitori nostro, idest plenaria[m] et in [tegra]m ipsam portionem meam de ipsis duobus mensibus minus dies quinque de ipsa molaquaria de hac civitate Atrano, [3] quod michi et at ipse ambe vero germane mee dimisit domina Anna genitrix mea per suum testamentum, [ 4] deinde dedimus vobis exinde ipsam portionem nostram cum via sua et omnia sua pertinentia, [5] unde nichil nobis rem[ansit aut aliquid vo]bis exinde excep[tuavimus] , [6] pro eo quod didisti michi ipsum scibru[m] cum ipsa lena [7] quod [simi]liter nobis tribus personis dimiserat predicta genitrix nostra per predictum suum testamen[tum], [8] et habeo apud me ipsum predictum scibrum cum ipsa suprascripta lena villutata sive [seguono due lettere non leggibilt] , [9] sicut imer nos conbenit in omnem deliberationem et in omnem decisionem, [ lO] ut, si quolibet tempore per quovis modum vel ingenium sibe nos et nostri heredes seu per summissam personam vos et vestros heredes sibe alium qualemcumque hominem pro vestra parte de ipsam predictam portionem meam de ipsis predictis mensibus dui minus dies quinque querere aut molestare presumserimus, [ 1 1 ] triginta [byzantios vo]bis componere pro[mit] timus, [ 12] et hec chartula sit firma imperpetuum. [ 13 ] Verum [tamen hoc] quod superius mi[nime scri]psimus [ 14] reclaramus ut faciatis vobis de ipsam portionem de predictis mensibus de suprascripta mola aquaria [omn]ia que volueritis sine omni nostra et de nostris heredibus contrarietatem vel requesitionem imperpetuum et in suprascripta obligata pena. [ 15] t Petrus filius Stephano de Marino testis subscripsit. [ 16] t Mauro filius Sergii de Pantaleone testis subscripsit. [ 17] t Costantinus filius Iohannis de Leone de Constantino de Leone camite testis subscripsit. [ 18] t Ego Iohannes scriba filius Sergii scripsi medio mense februario indictione secunda.
La pergamena fu distrutta dal fuoco nel 1943 , quando i documenti più preziosi dell'Archivio napoletano, messi al riparo dai horn-
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bardamenti in una villa presso Nola, furono incendiati da una pattuglia di soldati tedeschi in circostanze poco chiare. Fortunatamente, essa era stata pubblicata da Riccardo Filangieri nel 1917 in una raccolta di documenti prodotti nel ducato Amalfi, che prima della conquista normanna ( 1 073 ) fu un minuscolo stato costiero, resosi autonomo dall'impero bizantino, cui originariamente apparteneva. Il documento è un contratto privato del 1034: si tratta una permuta (scambio di beni) tra Maria e suo padre Giovanni: Maria cede la parte di un mulino ad acqua (mola aquara) sito in Atrani, centro vicinissimo ad Amalfi, in cambio di una cassa (o forse un cassettone, o una cesta: scibrum) e una coperta di lana (lena villutata) .
Alcune lettere o intere parole non erano leggibili: esse sono state riportate, secondo una convenzione delle edizioni critiche, tra parentesi quadre (la filologia e la diplomatica hanno sviluppato un particolare linguaggio convenzionale, fatto di segni come asterischi e croci23 e di particolari usi del corsivo e delle parentesi, per esempio) . L'editore ha integrato le parti illeggibili sulla base di documenti simili. Ciò è stato possibile perché, come il diploma di Ottone (§ 3 .4 ) , un contratto come questo, redatto non da un cancelliere ma da un notaio, era scritto in un linguaggio ricco di formule fisse. Anche oggi, transazioni di questo genere (permute, compravendite, testamenti, donazioni) sono redatte dai notai secondo modelli raccolti in formulari, ormai memorizzati nel computer.
Il notaio è un professionista della scrittura che gode della pubblica fiducia, sicché egli è in grado di dare validità e pubblicità agli atti che scrive (o roga si dice con termine tecnico). Si tratta di una delle più originali creazioni del Medioevo. Ad Amalfi era detto scriba, come Giovanni di questo atto [ 18] , oppure, a partire dalla seconda metà dell'xi secolo, curiale.
Nel nostro tempo l'azione del notaio, un laureato in Giurisprudenza, è regolamentata da leggi dello Stato, che si occupa del concorso pubblico relativo. Egli resta però una fonte di autenticazione indipendente dagli uffici pubblici. Nel Medioevo, invece, i notai si tramandavano l'un l'altro una serie di forme che garantivano
23 Qui le croci riproducono quella all'inizio del documento (invocazione simbolica di Cristo) e quelle che abitualmente precedono le sottoscrizioni.
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l'autenticità dei loro atti: dalla grafia, che ad Amalfi assunse cara tteristiche veramente particolari (la curiale amalfitana è una grafia usata soltanto dai curiali, difficilmente leggibile da parte di chi non apparteneva a quella categoria), alle formule del testo. Ogni notaio imparava a scrivere e a redigere contratti da un altro notaio, in un rapporto privato di apprendistato. In altre aree e in altri periodi i notai avevano anche un proprio segno di riconoscimento (un disegno, un monogramma ecc. ) , posto dopo la sottoscrizione o firma.
Dunque chi utilizza un atto del genere deve per forza conoscerne le modalità di produzione e le formule: anche se non fa una ricerca di diplomatica, la diplomatica gli è necessaria per valutare come "trattare" le informazioni della fonte.
L'atto non contiene una datazione completa: alla fine si scrive soltanto: «a metà del mese di febbraio, seconda indizione» (medio mense /ebruario indictione secunda [ 18] ) . In un atto che lo stesso scriba Giovanni aveva redatto nell'agosto del l 03 3 la datazione, completa dell'indicazione del luogo, si trova al principio, preceduta dall'invocazione di Gesù: Temporibus domini Iohannis gloriosi ducis et imperialis patricii anno nono decimo et tertio anno domini Sergii gloriosi ducis filii eius di e vicesima mensis augusti indietione prima Amal/i.24 Come si vede, non si indica l'anno 1033 , ma l'anno di governo del duca di Amalfi Giovanni e del figlio Sergio, associato a lui. Per calcolare l'anno giusto bisogna dunque conoscere la successione dei duchi di Amalfi e confrontarla con un'altra indicazione preziosa, l 'indizione. Nel Medioevo, infatti, si suddividevano gli anni in cicli di quindici anni, secondo un uso che risaliva al fisco bizantino. Gli anni erano numerati da l a 15, e poi si ricominciava. L'anno indizionale era come l'anno scolastico o accademico: non corrispondeva a quello solare, perché cominciava il l settembre e finiva il 3 1 agosto dell'anno successivo. Per secoli le tasse continuarono ad esigersi secondo questo sistema. Quindi la seconda indizione del nostro atto cominciava il l settembre 1033 e finiva il 3 1 agosto 1034.
24 «Al tempo del signor Giovanni, duca glorioso e patrizio imperiale, nell'anno diciannovesimo e nel terzo anno del signor Sergio figlio del glorioso duca, nel giorno 20 del mese di agosto, prima indizione, in Amalfi>>.
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Medzòevo: istruzioni per t'um
In mancanza dell'indicazione degli anni di governo, l'editore non è sicuro dell'attribuzione del documento al 1 034, ma indica come possibile anche il 1 049, che pure era anno di seconda indizione. Entrambe le date sono compatibili con altri elementi di datazione: il fatto che Giovanni scriba avesse rogato anche l'atto sopra citato del l 03 3 e la presenza del testimone Costantino [ 17] in un atto del l 044.
Abbiamo fatto conoscenza con un'altra disciplina, "ausiliaria" della diplomatica: la cronologia, una materia molto arida, davvero " erudita " , ma essenziale per la critica delle fonti. La cronologia è il miglior sussidio per smascherare eventuali falsi: per un falsario era molto difficile esprimere la datazione secondo l'uso corretto di una determinata località in un determinato periodo. Ogni parte d'Europa si regolava infatti in modo diverso (vedi anche pp. 134- 1 3 5 ) .
Tuttavia, s e l a datazione incompleta fosse dovuta a un falsario (ciò che non è, perché sono molti gli atti amalfitani scritti in questa forma abbreviata ) , non per questo il documento andrebbe ignorato: sarebbe allora assai interessante datarlo, individuare il suo autore e ricostruirne le motivazioni (ciò vale a maggior ragione per i diplomi imperiali) .
Che cosa possiamo ricavare d i interessante da questo contratto, simile a centinaia di migliaia che affollano gli archivi europei dal basso Medioevo all'età moderna? Certo, se le parti, come si dice con linguaggio tecnico, fossero personaggi importanti, sovrani, nobili, artisti, letterati, la notizia di questa permuta avrebbe un valore per la loro biografia. Siamo invece di fronte a due sconosciuti: Maria e il padre Giovanni, cui si aggiunge una sorella, che quasi resta nell'ombra, perché l'atto consiste in una sorta di attestazione di Maria, la quale dichiara di aver effettuato lo scambio e di non aver nulla a pretendere. In realtà, a una attenta lettura emerge che la parte del mulino, la cassa e la coperta facevano parte dell'eredità di Anna, madre di Maria e moglie di Giovanni. Anna, mediante un testamento (anch'esso scritto da un curiale) , aveva lasciato quei beni alle due figlie e al marito, senza dividerli. Ora, mediante una permuta, Giovanni si prende il mulino e le due sorelle, o forse la maggiore a nome della minore (il documento passa stranamente dalla prima persona singolare alla plurale) si tengono cassa e coperta.
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Poche cose, dunque, relative a sconosciuti di cui è difficile sapere altro.
Eppure questo atto, se analizzato insieme a tanti altri della stessa zona e dello stesso tempo, può illuminare la società, l'economia, la mentalità amalfitana dell'XI secolo, ciò che sarebbe impossibile se disponessimo soltanto di storie come quella di Paolo Diacono e di documenti pubblici come il diploma di Ottone 1. In un certo senso, una fonte di questo genere è paragonabile ai frammenti ceramici di cui abbiamo parlato nel § 3 .3 . La modestia e ripetitività del singolo elemento (un piatto, un contratto di permuta) è bilanciata dall'abbondanza dei reperti rispetto alle fonti apparentemente più solenni e appariscenti (un monumento, un diploma imperiale) . L'accurata classificazione e interpretazione di tutte le informazioni ricavabili da fonti di questo tipo può far avanzare le nostre conoscenze, forse estendibili anche ad aree diverse da quella considerata.
Cominciamo dagli aspetti formali e giuridici: è evidente che tramite questa documentazione possiamo conoscere il "diritto privato" dell'epoca. Era questa una materia di cui il potere pubblico si disinteressava, e che era regolata da consuetudini locali, tramandate prima di tutto dai notai. Le regole da rispettare quando si comprava e vendeva, si lasciava in eredità, si faceva una donazione o costituiva una dote, si assumeva un apprendista nella propria bottega, si costituiva una società commerciale, si contraeva un mutuo, non rientravano dunque nelle competenze dello Stato, come avviene oggi, quando tutti questi contratti sono rigidamente regolati dal codice civile, approvato dal Parlamento e promulgato dal presidente della Repubblica, codice che ha validità in tutto il territorio italiano e per tutti i cittadini. Nel Medioevo e oltre, fino a tutto il XVIII secolo, non era affatto così. Il diritto non era prodotto dallo Stato, ma dalla società stessa, che lo trasmetteva ai posteri e lo trasformava nel corso di secoli, in maniera diversa da zona a zona. Per esempio, Maria compie la permuta in piena libertà, così come probabilmente aveva fatto la madre col suo testamento. Entrambe avevano la stessa capacità giuridica di un uomo: erano infatti «di legge romana», seguivano cioè la tradizione giuridica di lontana ascendenza romana. A neanche 20 chilometri di distanza, a Salerno e nell'entroterra, le donne seguivano invece la tradizione longobarda, e per questo, al pari dei minori, non potevano com-
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piere transazioni economiche senza la presenza di una sorta di " tutore" , chiamato con termine di origine germanica mundualdo (era il padre, il marito o un altro uomo della famiglia).
L'atto è molto formalizzato, come abbiamo già detto, con differenze rispetto al documento pubblico. Le formule sono prolisse, perché ci si vuole cautelare da ripensamenti e da eventuali contestazioni. Ecco che non basta dire che Maria ha ceduto la parte del mulino al padre, bisogna precisare, con espressioni che sono ripetute in tutti i passaggi di proprietà, indipendentemente dal bene in oggetto, che la parte del mulino si cede interamente (plenariam et integram ipsam portionem meam [2] ) , che la cessione è valida per sempre (in perpetuum) , che nulla di quel bene resta a Maria, che di nulla Giovanni è defraudato (unde nichil nobis remansit aut aliquid vobis exinde exceptuavimus [5] ) , che egli può fare quello che vuole. Ciò è del tutto ovvio in caso di alienazione di un bene, ma è così necessario precisarlo, che un'ulteriore formula viene aggiunta alla fine: «dichiariamo che voi siete liberi di fare tutto quanto vorrete della porzione dei predetti mesi del soprascritto mulino senza alcuna opposizione o richiesta nostra e dei nostri eredi per sempre a pena della sanzione soprascritta» [ 14] .
Oggi, in una transazione del genere, si troverebbe il rinvio all' articolo del codice civile che regolamenta le permute (anche se non mancherebbero le ripetizioni, tipiche del linguaggio notatile) . Le formule, nel nostro documento, servono a ribadire caratteristiche e eventuali limiti dell'azione giuridica, ma in più il loro stesso continuo ricorrere garantisce, come in un rito religioso, l'irrevocabilità della cessione.
In questo contesto, le trasformazioni giuridiche, economiche, sociali (nuove attività, nuovi contratti) si facevano strada lentamente, mediante forzature degli schemi prefissati, chiarificazioni, piccole innovazioni che non stravolgevano mai la successione delle sezioni del documento, su cui non ci soffermeremo. Nella parte finale, dove si esplicita la sanzione prevista nel caso di inosservanza di quanto pattuito (è questa un'altra partizione del documento: la sanctio) , si parla di trenta bisanti (moneta d'oro bizantina) che Maria deve versare se non rispetta la transazione. La somma è assolutamente sproporzionata rispetto al valore dei beni permutati. Ma l'atto non sarebbe stato valido senza una sanzione. Ancora una volta siamo in presenza di una formula: non possiamo neppure es-
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sere sicuri che i bisanti d'oro avessero una così capillare circolazione nella Amalfi dell'XI secolo.
Restando sul piano dello scriba, il testo rispecchia non solo la cultura professionale di Giovanni, una cultura pratica, come si è detto, appresa al fianco di un altro curiale, ma anche le sue conoscenze linguistiche. Non c'è bisogno di evidenziare la ridicola scorrettezza del latino, se paragonato alla lingua classica ma anche al dettato della cancelleria di Ottone, dove lavoravano persone con una discreta formazione letteraria, appresa in monasteri, vescovati, nella medesima cancelleria o da maestri privati (sono queste le "scuole" e le " università" dell'alto Medioevo) . Il latino di Giovanni è invece un linguaggio all'apparenza surreale, che sbaglia l'ortografia (conbenit invece di convenz"t, imperpetuum invece di in perpetuum) ; non rispetta i casi (de ipsam predictam portionem, sine amni nostra et de nostris heredibus contrarietatem: sine regge l'ablativo, mentre al de + ablativo sarebbe da sostituire un genitivo) ; coniuga male i verbi (didimus invece di dedimus) o li usa in significati bizzarri (visa sum vobis . . . ) ; ripete l'aggettivo ipse (stesso) come se fosse l'articolo determinativo (didisti michi ipsum scibrum cum ipsa lena, ma è la prima volta che si parla di questi due oggetti) ; introduce vocaboli sconosciuti ai dizionari di latino più comuni.
Non è affatto latino, verrebbe da dire, ma non è neppure il volgare italiano che quegli amalfitani parlavano tra loro. Anche se correggessimo tutti gli errori di ortografia, morfologia e sintassi non avremmo un latino "corretto" . Ragionare in termini di correttezza non è però il modo giusto per capire. Siamo in presenza di una lingua artificiale, inventata da anonimi specialisti della scrittura in una società che, benché ancora si regga per gran parte sull'oralità, ha assolutamente bisogno della scrittura, e ad essa ricorre abitualmente, anche per una permuta tra padre e figlie. L'atto, tra l 'altro, era redatto in due originali, perché ciascuna delle parti conservava il suo: molti nel ducato di Amalfi avevano dunque un piccolo archivio personale.
In tutt'Europa, in questi secoli, si assiste a una grande rivoluzione, che qui vediamo già compiuta: l'estensione della scrittura a una infinità di situazioni familiari, sociali, politiche.
Le sottoscrizioni dei testimoni ci informano sul loro grado di cultura: sia quando non sono autografe (il teste traccia o lascia tracciare una croce, dunque è analfabeta) , sia quando sono auto-
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grafe, come pare avvenga in questo caso (l'editore non è chiaro al riguardo) , perché dalla resa grafica si può dedurre il grado di apprendimento del soggetto.
È una lingua artificiale, abbiamo detto, che non è quella della vita quotidiana, ancora ritenuta indegna di essere messa per iscritto (le prime testimonianze dell'italiano scritto risalgono proprio a questo periodo, tra metà x e metà XI secolo) , ma non è neppure la lingua della Chiesa e della cultura. Essa ci documenta fenomeni fonetici tipici dei volgari meridionali, come l'oscillazione tra v e b di convenit/conbenit, tra d e r in reclaremus per declaremus, oggi ancora vivi nell'area linguistica napoletana, e su parole, in una veste latina, che nessun altro testo riporta: scibrum è forse derivato da un vocabolo del greco medievale.25 Il nostro atto va dunque analizzato con gli strumenti della storia della lingua italiana, della dialettologia, della lessicografia, ma è al tempo stesso fonte di informazioni per queste discipline per periodi, aree geografiche, contesti sociali che non ci hanno lasciato testimonianze scritte in volgare.
In questo strano latino e negli schemi fissi della tradizione (essi stessi interessanti per conoscere diritto e cultura degli amalfitani di allora) veniva costretta una realtà concreta, che è possibile ricostruire valorizzando tutti i dati presenti in contratti del genere: nomi di centri abitati e di località attestate per la prima volta, notizie di oggetti, arnesi, edifici, tecniche di coltivazione, tipologie di contratti di lavoro, verbali di assemblee della comunità del villaggio, accordi tra il signore del luogo e gli uomini a lui soggetti.
Qui la notizia più interessante è la cessione di una parte del mulino ad acqua. Il confronto con altri atti dello stesso genere prova infatti che nel ducato di Amalfi la proprietà dei mulini era divisa in quote. Esse non erano indicate in quantità (metà, un quarto ecc. ) , ma in durata: la defunta madre di Maria possedeva i l mulino per due mesi meno cinque giorni. Tale quota era poi passata in eredità a Maria, alla sorella e al loro padre Giovanni, che, come si dice con termine tecnico, la possedevano pro indiviso finché, in que-
25 La parola greca da cui deriverebbe scibrum è skebrion. Anche lena deriva dal greco chldina, latino laena "stoffa di lana".
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st' atto, Maria non cede la sua porzione della quota parte al padre («porzione di mesi due meno giorni cinque del mulino», portionem meam de ipsis duobus mensibus minus dies quinque de ipsa molaquaria [2] ) .
Spese e ricavi dell'attività del mulino erano suddivisi tra i vari proprietari in ragione della quota posseduta. Altri documenti chiariscono che, almeno nel X-XII secolo, la quota-durata non corrispondeva infatti a un mese specifico: in questo caso si trattava dunque di 55/36Ysimi del totale. Per fare un esempio più semplice, chi possedeva 2 mesi di un mulino partecipava agli utili annuali nella misura di 2/12 , dunque 116. Mario Del Treppo ha interpretato questo bizzarro fenomeno come il risultato di una commercializzazione assai sviluppata dei mulini, istallazioni onerose che però assicuravano proventi cospicui (vi si macinava il grano altrui a pagamento) . Vi sono casi in cui uno stesso proprietario possedeva quote di mulini diversi, e non perché gli erano pervenute casualmente in eredità, ma perché in questo modo egli ripartiva il rischio dei suoi investimenti. Le quote dei mulini, che possono anche essere di pochi giorni, sono come le azioni di una società. Ecco che questa particolare pratica può essere letta come un indice della mentalità imprenditoriale degli amalfitani, della loro flessibilità, ma anche del loro attaccamento alla terra natìa. Tra i proprietari di quote-mulino e di terre troviamo infatti mercanti che, pur lasciando Amalfi per le destinazioni più varie, mantengono un piede nella loro terra.
Lo stesso Del Treppo ha tratto un'altra conclusione attinente alla storia della mentalità dai nomi delle persone che occorrono nel documento: le parti, lo scriba, i testimoni. Non esistono ancora i cognomi, come si vede, ma solo i patronimici: ci si identifica con la specificazione che si è figlio o figlia di qualcuno. Maria si presenta come «figlia di Giovanni figlio di Mauro di Giovanni di Leone di Pardo conte» (jilia Iohannis /ilii Mauri de Iohanne de Leone de Pardo camite [ 1 ] ) . Di nome in nome si va indietro di ben cinque generazioni, si risale a oltre un secolo prima. È impressionante: chi ricorda oggi il nome di tutti i propri avi fino al bisnonno del proprio nonno? Tale pratica, diffusissima ad Amalfi, si spiega con la volontà tenace di mantenere memoria della propria discendenza, evidentemente perché la genealogia è considerata nobilitante. Si noti che anche uno dei testimoni ha una memoria così " lunga" : Costantinus filius Iohannis de Leone de Constantino de Leone co-
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mite [ 17 ] . Anche lui si ferma a un antenato che era comes, un titolo che non corrispondeva a una carica ma che distingueva un preciso ceto di proprietari terrieri amalfitani. L'inserimento di una donna comitissa al principio di alcune genealogie dimostra che la nobiltà si trasmetteva anche per via femminile.
I nomi presenti nell'atto ci potrebbero inoltre informare sull'origine etnica di chi li porta. Se ci fossero nomi normanni (come Ruggero) , saremmo sicuri, a questa data, che si tratta effettivamente di persone provenienti dalla Normandia. In periodi più avanzati, invece, i nomi provano la diffusione del culto dei santi e persino di opere letterarie (c'è stato chi ha studiato il successo della Chanson de Roland in relazione alla diffusione del nome Orlando e Rolando) . Qui i nomi sono latini o greci: è improbabile che chi aveva un nome greco fosse di lingua greca, ma certo ciò avviene perché c'è un legame con la tradizione greca e bizantina. Più interessante è l 'assenza o rarità di nomi longobardi: essi proverebbero che il portatore proveniva dall'area di tradizione longobarda (Salerno, Benevento, Capua) , o almeno che ad Amalfi si era diffusa, dunque per contatti culturali, una moda onomastica longobarda.
Conclusioni di questo genere vanno però supportate da spogli ampi della documentazione e, in particolare, dalla estrapolazione di serie ordinate e omogenee di dati come questi.
Come abbiamo visto, è possibile sfruttare questa fonte anche per la ricostruzione dei "quadri mentali" di quella società, che gli individui Giovanni scriba e Maria hanno assorbito senza accorgersene: la concezione del tempo e della discendenza, la memoria, i valori materiali e morali, le giustificazioni dei comportamenti propri e altrui, le angosce, le aspirazioni, i sentimenti. La storia della mentalità, pur basandosi generalmente su fonti privilegiate, riesce a cogliere gli elementi comuni in testimonianze di diverso tipo e di differente livello culturale.26
26 Lo storico francese J acques Le Goff afferma che «il livello della storia delle mentalità è quello del quotidiano e dell'automatico, è ciò che sfugge ai soggetti individuali della storia, perché esprime il contenuto impersonale del loro pensiero, ciò che hanno in comune Cesare e l'ultimo soldato delle sue legioni» ( 1974).
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La pergamena scritta nel 1 034 o 1 049 da Giovanni è finita all'Archivio di Stato di Napoli per una via che è assai interessante, e che è stata ricostruita dall'editore. Essa faceva parte dell'archivio del monastero benedettino femminile di S. Maria di Fontanelle di Amalfi. Quindi, nel 1581 , passò al locale monastero della Santissima Trinità, al quale fu accorpato quello di S. Maria di Fontanelle. L'ultima monaca di questo istituto portò con sé tutte le pergamene in una casa di Agerola, un paese interno della costa amalfitana, quando vi si trasferì nel 1 909. A lei lo Stato italiano, attraverso l 'amministrazione archivistica, è riuscita a sottrarre quella documentazione che infine, per una beffa del destino, è finita in fumo nel 1943 .
Ma perché, al principio, un atto tra due privati finì in un monastero? Per un motivo semplicissimo: quando un bene (terre o quote di mulini) passava a un altro proprietario (per esempio a un monastero a seguito di una donazione) , questi riceveva di norma tutta la documentazione legata al bene, come se le scritture fossero parte inscindibile di esso. Anche questo prova il valore della scrittura in quell'epoca.
Per studiare la storia europea fino all'xi secolo, gli archivi di enti ecclesiastici e religiosi (cioè cattedrali e monasteri) hanno un ruolo fondamentale, perché quelle sono state le uniche istituzioni in grado di conservare documenti giuridici ininterrottamente, fino ai nostri giorni. Le organizzazioni laiche, cioè le cancellerie dei regni, dei principati territoriali, delle città svilupparono questa capacità più tardi. Chi vuole conoscere l 'economia, la società, la mentalità dell'XI secolo, capire fasi e caratteristiche della crescita che investì tutti gli aspetti delle società europee occidentali nei secoli centrali del Medioevo, non può che rivolgersi ad atti privati di questo genere e ad archivi di enti religiosi.
3 .6 Federico II e la distinzione tra regnum e sacerdotium (la fonte legislativa)
Federico II di Svevia, imperatore del Sacro Romano Impero e re di Sicilia ( 1 1 98- 1250) , è una delle figure più suggestive di tutti i tempi. Le opere storiche e letterarie a lui dedicate non si contano: si può dire che il suo mito sia cominciato quando era ancora in vita.
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Una delle sue iniziative più significative fu la promulgazione del cosiddetto Liber Augustalis (libro di Augusto) , nel 123 1 . Si tratta di una raccolta delle leggi del regno di Sicilia, di cui presentiamo qui il Proemio:
[ l ] L'imperatore Federico, sempre Augusto, signore di Italia, Sicilia, Gerusalemme e Arles, il Felice, Pio, Vincitore e Trionfatore. [2] Dopo che la divina prowidenza ebbe rinsaldato la macchina dell 'universo e dopo che essa, in virtù di un miglioramento apportato dalla natura, ebbe distribuito la materia primordiale nelle figure delle singole cose, [3 ] colui che aveva previsto ciò che doveva essere fatto, considerando quanto aveva creato e apprezzando quanto aveva considerato, [4] dispose con maturo consiglio che l'uomo, la più degna delle creature che vivono al di sotto della sfera lunare, che egli aveva formato a propria immagine e somiglianza, che egli aveva fatto di poco inferiore agli angeli, fosse messo a capo di tutte le altre creature. [5] Trattolo dal limo della terra lo vivificò nello spirito [6] e, coronatolo col diadema dell'onore e della gloria, gli mise al fianco una moglie e compagna, parte del suo corpo, [7] e li dotò della protezione di un così grande privilegio, da renderli entrambi in principio immortali. [8] Li pose però sotto una legge, [9] ma poiché essi rifiutarono ostinatamente di rispettarla, li condannò alla pena meritata per la loro disobbedienza, [ lO] privandoli di quell'immortalità che precedenza aveva loro conferito. [ 1 1 ] Perché, tuttavia, non avesse a disfare completamente, con rovina tanto precipitosa, ciò che prima aveva creato e perché alla distruzione della forma dell'uomo non seguisse come conseguenza la distruzione di quella di tutte le altre creature, venendo loro a mancare colui cui erano soggette, non servendo esse più all'uso dell'uomo, [ 12] la divina clementia fecondò con il seme di entrambi la terra dei mortali e la assoggettò a loro; [ 1 3 ] ma essi, che conoscevano la scelta dei loro padri, ma che da questi avevano propagato in se stessi il vizio della disobbedienza, svilupparono odi vicendevoli tra di loro [ 14 ] e separarono il possesso delle cose che per diritto di natura era comune. [ 15] L'uomo, che Dio aveva creato giusto e semplice, non ebbe scrupoli ad immischiarsi in controversie. [ 16] Così per la stessa necessità contingente, non meno che per ispirazione della prowidenza divina, furono creati i principi secolari, [ 17] per il cui tramite potesse essere repressa la sfrenatezza dei delitti e in modo che essi, arbitri della vita e della morte dei popoli, stabilissero, come esecutori in certo modo delle decisioni divine, quale destino, rango e condizione dovesse avere ciascuno. [ 18] Affinché le loro mani
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possano rendere buon conto dell'amministrazione loro affidata, il re dei re e prìncipe dei prìncipi richiede soprattutto che essi non permettano che la sacrosanta chiesa, madre della religione cristiana, venga imbrattata dalla subdola perfidia dei detrattori della fede; [ 19] che essi la difendano dagli attacchi dei pubblici nemici con la potenza della spada materiale; [20] che essi, per quanto possono, conservino ai popoli la pace e, dopo averli pacificati, la giustizia, le quali si abbracciano a vicenda come due sorelle. [2 1 ] Noi dunque, che solo la potenza della mano di Dio, al di là di ogni umana speranza, sublimò ai fastigi dell'impero romano e degli altri regni, volendo rendere raddoppiati al Dio vivente i talenti affidatici, per reverenza di Gesù Cristo, dal quale ricevemmo tutto quello che abbiamo, [22] osservando la giustizia e fondando le leggi decidiamo di offrire in sacrificio le nostre labbra, provvedendo in primo luogo a quella parte di nostri domìni, che al presente sembra avere maggiormente bisogno del nostro intervento circa la giustizia. [. .. ] [23 ] Vogliamo pertanto che le presenti disposizioni emanate in nostro nome abbiano vigore soltanto nel nostro regno di Sicilia; [24] e ordiniamo che, cassata nel detto regno ogni altra legge e consuetudine in contrasto con queste nostre costituzioni, esse siano d'ora innanzi da tutti inviolabimente osservate. [25] Abbiamo ordinato che in queste fossero incluse tutte le disposizioni promulgate dai precedenti re di Sicilia e da noi affinché non abbiano alcun vigore né alcuna autorità, in sede giudiziaria e extragiudiziaria, quelle costituzioni che non sono comprese nella presente raccolta.
Testo latino
[ l ] lmperator Fridericus semper Augustus, Ytalicus Siculus Ierosolomitanus Arelatensis, Felix Pius Vietar et Triumphator. [2] Post mundi machinam providentia divina firmatam et primordialem materiam nature melioris conditionis officio in rerum effigies distributam, [3 ] qui facienda previderat fa eta considerans et considerata commendans [ 4 ] a globo circuii lunaris inferius hominem, creaturarum dignissimam ad ymaginem propriam effigiemque formatam, quem paulo minus minuerat ab angelis, consilio perpenso disposuit preponere ceteris creaturis; [5] quem de limo terre transumptum vivificavit in spiritu [6] ac eidem honoris et glorie dyademate coronato uxorem et sociam partem sui corporis aggregavit [7] eosque tante prerogative munimine decoravit, ut ambos efficeret primitus inmortales, [8] ipsosque verumtamen sub quadam lege precepti constituit; [9] guam quia servare tenaciter contempserunt, transgressionis eos-
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dem pena dampnatos ab ea, [ 10] quam ipsis ante contulerat, inmortalitate prescripsit. [ 1 1 ] Ne tamen in totum, quod ante formaverat, tam ruinose, tam subito divina clementia deformaret et ne hominis forma destructa sequeretur per consequens destructio ceterorum, dum carerent subiecta preposito et ipsorum comoditas ullius usibus non serviret, [ 12] ex amborum semine terram mortalibus fecundavit ipsamque subiecit eisdem; [ 1 3 ] qui paterni discriminis non ignari, sed in ipsos a patri bus transgressionis vitio propagato inter se invicem odia conceperunt [ 14] rerumque dominia iure naturali communia distinxerunt, [ 15 ] et homo, quem Deus rectum et simplicem procreaverat, inmiscere se questionibus non ambegit. [ 16] Sicque ipsarum rerum necessitate cogente nec minus divine provisionis instinctu principes gentium sunt creati, [ 17] per quos posset licentia scelerum coherceri; qui vite necisque arbitri gentibus, qualem quisque fortunam, sortem statumque haberet, velud executores quodammodo divine sententie stabilirent; [ 18] de quorum manibus, ut villicationis sibi commisse perfecte valeant reddere rationem, a rege reguru et principe principum ista potissime requiruntur, ut sacrosanctam ecclesiam, Christiane religionis matrem, detractorum fidei maculari clandestinis perfidiis non permittant [ 19] et ut ipsam ab hostium publicorum incursibus gladii materialis potentia tueantur [20] atque pacem populis eisdemque pacificatis iustitiam, que velud due sorores se invicem amplexantur, pro posse conservent. [2 1 ] Nos itaque, quos ad imperii Romani fastigia et aliorum regnorum insignia sola divine potentie dextera preter spem hominum sublimavit, volentes duplicata talenta nobis eredita reddere Deo vivo in reverentiam lesu Christi, a quo cuncta suscepimus, que habemus, [22] colendo iustitiam et iura condendo mactare disponimus vitulum labiorum ei parti nostrorum regiminum primitus providentes, que inpresentiarum provisione nostra circa iustitiam magis dignoscitur indigere. [ . . . ] [23 ] Presentes igitur nostri nominis sanctiones in regno tantum Sicilie
volumus obtinere, [24] quas cassatis in regno predicto legibus et consuetudinibus hiis nostris constitutionibus adversantibus antiquatis, inviolabiliter ab omnibus in futurum precipimus observari; [25] in quas precedentes omnes regum Sicilie sanctiones et nostras iussimus esse transfusas, ut ex eis que in presenti constitutionum nostrarum corpore minime continentur, robur aliquod nec auctoritas aliqua in iudiciis vel extra iudicia possint assumi.
Nessuna delle fonti analizzate in questo capitolo è stata prodotta da istituzioni ecclesiastiche o è legata direttamente a finalità reli-
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giose, come un libro penitenziale o una predica.27 Tuttavia, gli uomini di Chiesa erano così importanti nelle società medievali e la fede cristiana pervadeva così intensamente ogni aspetto della vita in quel periodo che in ognuna delle fonti abbiamo trovato o troveremo un riferimento alla religione. Il cristianesimo, innanzitutto come forza spirituale, impregnò tanto il Medioevo, che qualche studioso ha ritenuto di individuare in esso il più importante elemento di unità di quell'età eterogenea.
Il Proemio del Liber Augustalis (o Costituzioni di Melfi, dalla città in cui furono emanate) è a questo proposito un esempio perfetto: Federico II (e in suo nome i giuristi che scrissero il testo) riflette sul senso ultimo dell'esistenza umana al fine di giustificare la propria azione legislativa in uno stato determinato, quel regno di Sicilia, costituito dall'Italia meridionale e dall'isola, che il normanno Ruggero n d'Altavilla, suo nonno materno, aveva fondato nel 1 130 .
I l motivo è i l seguente: i l re di Sicilia, come qualsiasi altro princeps (termine con cui si indica il titolare dell'autorità temporale) , ha il potere di legiferare perché ha ricevuto da Dio il compito di tenere a freno la malvagità degli uomini, manifestatasi con il peccato originale di Adamo ed Eva, propagatasi poi a tutta la loro discendenza [ 16-20] .
Si tratta di una concezione originale di Federico n? Che rapporto ha questa concezione con il lungo conflitto che oppose quell'imperatore al papato?
Il testo del Proemio si può dividere in tre nuclei principali: il primo è il racconto biblico della Genesi, con la creazione del mondo, divisa in due fasi,28 la creazione del primo uomo e della
27 I penitenziali sono manuali destinati ai confessori con un catalogo di pene e penitenze. Esiste un'ampia tipologia di fonti religiose, che sono oggetto di studio di discipline specifiche, come la storia del cristianesimo e delle Chiese, interessate alla religione cristiana (il messaggio evangelico, la sua interpretazione e diffusione, le diverse forme di spiritualità di monaci e monache, frati e suore, laici e laiche) e alle istituzioni ecclesiastiche (l'organizzazione delle comunità cristiane, la definizione della dottrina, le eresie, le trasformazioni dell'organizzazione ecclesiastica, il diritto canonico o ecclesiastico, i rapporti tra chiesa ortodossa e cattolica).
2B Il Proemio riprende la tesi dei commentatori della Genesi del XII secolo, a loro volta derivate dal commento di Calcidio al Timeo di Platone, i quali distinguevano il processo della creazione divina in due fasi: la prima, dal niente, la seconda
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sua compagna, Adamo ed Eva, la loro ribellione, la loro condanna a vivere sulla terra come esseri mortali, cui sono però subordinate tutte le creature [2- 15 ] . Il secondo enuncia la giustificazione del potere imperiale, come si è appena detto [ 1 6-20] . Nel terzo si spiega perché si promulgano le leggi destinate al regno di Sicilia, che ne ha particolarmente bisogno, e si ordina di rispettarle [2 1 -2 2 e u n capoverso che abbiamo tagliato] . I tre nuclei sono inseriti nella struttura tradizionale di ogni documento pubblico, quale è l'intero Liber Augustalis. Come nel diploma di Ottone I (§ 3 .4) , infatti, abbiamo l'intitolazione [ 1 ] , l ' arenga (creazione e fondamento del potere temporale, [2-20] ) , la narratio (il regno di Sicilia [2 1 -22 ] ) , e infine la dispositio con due verbi dispositivi (volumus [23 ] , iussimus [25 ] ) .
Il Proemio presenta dunque una precisa concezione del potere temporale, della sua origine e legittimazione, del suo compito. Per spiegarla dobbiamo inquadrarla in una questione più ampia, quella del rapporto tra regnum (funzione o potere politico, cioè del rex) e sacerdotium (funzione o potere religioso, cioè del sacerdos) .
Tocchiamo qui un punto fondamentale: se volessimo dar conto di tutti i teologi, filosofi, giuristi che sono intervenuti a questo proposito ripercorreremmo infatti l 'intera storia del pensiero occidentale, fin dalle origini del cristianesimo. Ma non basterebbe, perché ci sarebbe da vedere se e in che misura le diverse posizioni teoriche e dottrinali sulla questione ebbero un effetto sui progetti e sulle realizzazioni del papa e dei prìncipi temporali (e viceversa), soprattutto nel periodo dello scontro politico, militare e ideologico tra il papato e l'impero, che caratterizzò quasi tre secoli del Medioevo. Ci riferiamo alla lotta per le investiture (XI-XII secolo) e ai conflitti tra il papato e gli imperatori svevi, Federico I Barbarossa e Federico II (XII-XIII secolo) . Ecco quindi che bisogna muoversi tra il piano plurisecolare della storia del pensiero, e quello, cronologicamente più contenuto, della storia politica.
in cui l'azione di Dio sarebbe stata sostenuta dalla natura. Non approfondiremo qui questo aspetto (si veda il passo <<Dopo che la provvidenza divina . . . in virtù di un miglioramento apportato dalla natura, ebbe distribuito la materia primordia· le nelle figure delle singole cose» [2] ) .
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Le fonti e i metodi
Punto di partenza ineludibile sono però le Sacre Scritture: oggi riesce forse difficile immaginare quanto esse fossero presenti nella vita di un individuo del Medioevo, soprattutto se colto come gli autori del nostro Proemio, i quali conoscevano a memoria molte parti della Bibbia (naturalmente in latino) , e ad esse, parola di Dio, cercavano di conformare i propri pensieri e le proprie azioni.
Il Proemio contiene alcune citazioni letterali dalla Bibbia. A proposito del compito del re vengono richiamate due importanti parabole evangeliche, quella dell'amministratore cacciato dal suo padrone perché ne ha dissipato i beni, cui si contrappongono i prìncipi che intendono rendere buon conto del loro operato a Dio, e quella dei talenti nascosti sotto terra, che invece Federico farà fruttare.29
Passo del Nuovo Testamento
Il padrone lo chiamò e disse: «È vero quello che sento di te? Rendi conto della tua amministrazione»,30vangelo di Luca 1 6,2.
Si presentò quello che aveva -ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque dicendo: «Signore, mi desti cinque talenti. Ecco, ne ho guadagnati altri cinque»,1 1 vangelo di Matteo 25,20.
Proemio
Affinché le loro mani possano rendere buon conto dell'amministrazione loro affidata [ 18]
volendo rendere raddoppiati al Dio vivente i talenti affidatici [2 1 ]
2 9 I l talento è una moneta. I l padrone n e distribuisce diverse quantità a i suoi servi. Due ne guadagnano altrettanti. Il terzo, che aveva ricevuto un solo talento, lo restituisce dopo averlo nascosto sotto terra per paura del padrone. Questi, dopo averlo rimproverato, gli sottrae il talento. Tra le altre citazioni dalle Sacre Scritture, la più rilevante è la ripresa a [15] del libro di Qoelet (o Ecclesiaste) 7 ,3 0: Ecce solummodo hoc inveni, quod /ecerit Deus hominem rectum et ipse se infinitis miscuerit quaestionibus.
10 Et vocavit illum et ait illi: <<Quid hoc audio de te? Redde rationem vilicationis tuae».
31 Et accedens qui quinque talenta acceperat obtulit alia quinque talenta dicens: <<Domine, quinque talenta tradidisti mihz; ecce alia quinque superlucratus sum».
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Medioevo: istruzioni per L'uso
Sono derivate dalla Bibbia anche la definizione di Dio come rex regum et princeps principum [ 18] , presente nella I lettera di Paolo a Timoteo (6, 15 : Rex regum et dominus dominantium), e nell'Apocalisse (per esempio 17 , 14: Dominus dominorum est et rex regum, espressione a sua volta ripresa da vari passi dell'Antico Testamento) ; e la metafora del sacrificio del vitello («decidiamo di offrire in sacrificio le nostre labbra», mactare disponimus vitulum labiorum [22] ) . Secondo Federico II, provvedere alla legislazione della Sicilia equivale a offrire un vitello a Dio (il vitulum labiorum si riferisce forse alle labbra di chi dice la legge) , al fine di ottenere il perdono dei peccati, come fece Aronne per ordine del fratello Mosè (la vicenda è raccontata nel Levitico, 9 ,1 -8) .
Dunque Federico è presentato come un uomo che conforma il suo operato alla parola di Dio, svolgendo lo specifico compito che gli è stato affidato (la sua villicatio) . Come ogni cristiano, egli risponde alla propria "vocazione" , è infatti stato chiamato (vocatus) al vertice dell'impero e dotato da Gesù Cristo di particolari talenti, ovvero di domìni e di virtù che deve far fruttare, come fanno i servi buoni della parabola che non nascondono le monete sotto terra, ma le investono e le presentano duplicate al padrone: «Noi dunque, che solo la potenza della mano di Dio, al di là di ogni umana speranza, sublimò ai fastigi dell'impero romano e degli altri regni, volendo rendere raddoppiati al Dio vivente i talenti affidatici, per reverenza di Gesù Cristo, dal quale ricevemmo tutto quello che abbiamo . . . » [2 1 ] .
Rinviano alle Sacre Scritture anche altre parti del Proemio, pur senza citazioni letterali: ci riferiamo, oltre che ovviamente al racconto della creazione, al concetto della necessità del potere temporale. Ne aveva parlato Paolo di Tarso nella sua Lettera ai Romani, 1 3 , 1 : «Ciascuno si sottometta alle autorità costituite. Non c'è infatti autorità se non da Dio, e le autorità attuali sono stabilite da Dio». Paolo sintetizzava il suo pensiero in una frase lapidaria: Necessitate subditi estate ( 1 3 ,5 «è necessario sottomettersi») e concludeva esortando a dare a ciascuno ciò che gli era dovuto, dunque a pagare le tasse all'autorità: «Date a ciascuno ciò che gli è dovuto, a chi l'imposta, l'imposta, a chi il tributo il tributo» ( 13 ,7, Reddite ergo omnibus debita, cui tributum tributum, cui vectigal vectigal) . Con queste parole Paolo spiegava un'importante affermazione di Gesù, narrata nel vangelo di Matteo. Ai farisei che gli chiesero se biso-
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gnasse pagare le tasse, Gesù mostrò il profilo dell'imperatore impresso su una moneta e disse: «Date dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Matteo 22,2 1 : Reddite ergo quae sunt Caesaris Caesari et quae sunt Dei Dea) .
Il Proemio si colloca in una lunghissima tradizione di riflessioni su questi due passi del Nuovo Testamento, il Reddite Caesari di Gesù e il Necessitate subditi estate di Paolo. Il primo passo implica la separazione, concettuale e funzionale, tra regnum e sacerdotium, affermata da Cristo stesso, una separazione che non è presente nei testi sacri delle altre due grandi religioni monoteiste, ebraismo e islam. Il secondo passo afferma il fondamento divino di ogni autorità temporale, a cominciare dall'impero romano, che al tempo di Paolo (I d.C.) era del tutto estraneo al cristianesimo.
La funzione politica (regnum) e quella religiosa (sacerdotium) sono dunque separate ma, al tempo stesso, connesse. Quando il cristianesimo, nel corso del IV secolo (con gli imperatori Costantino e Teodosio32) divenne la religione dell'impero, la connessione si fece molto più stretta, perché impero e religione, entrambi universali, erano chiamati a collaborare.
Nel diploma del 962, Ottone I si diceva imperatore per volontà della divina provvidenza ( § 3 .4 , divinae dispositionis providentiae imperator augustus [2] ) , sublimato (lo stesso verbo del Proemio, qui a [2 1 ] ) al vertice dell'impero per prendersi cura del vantaggio di tutti, ma in particolare delle chiese di Dio (§ 3 .4 , ut omnium, maxime ecclesiarum Dei utilitatibus consulamus [3 ] ) . Federico afferma che i principes gentium sono stati creati dalla provvidenza divina (divina provisio [ 16] ) e cita come primo loro dovere la difesa della Chiesa dai suoi nemici, specie gli eretici che ne imbrattano la fede [ 18 - 19] .
La continuità della concezione imperiale da Ottone e Federico n
e la derivazione dalla comune tradizione cristiana sono evidenti, ma altrettanto evidenti sono le forti differenze. Al tempo di Ottone regnum e sacerdotium si sovrapponevano e si confondevano. Il problema del conflitto con il papato non si poneva in termini
32 Nel 3 1 3 Costantino, insieme con Licinio, mise fine alle persecuzioni contro il cristianesimo dichiarandone la liceità. Successivamente protesse le chiese e indisse il primo concilio ecumenico (Nicea, 325 ) . Teodosio dichiarò il cristianesimo religione di Stato e proibì i culti pagani (editto di Tessalonica, 3 80).
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drammatici: il papa era a capo di una delle chiese che Ottone proteggeva (si noti il plurale nel passo appena citato) . Certo, rinnovando un rapporto che era cominciato con i re franchi Pipino il Breve (752-768) e Carlo Magno (768-814) , fondatore dell'impero, il papa romano restava l'interlocutore più importante di Ottone, che del resto incoronò, ma non interferiva nella quotidiana collaborazione tra il potere pubblico, i vescovi e gli abati.
Al tempo di Federico il papa romano era diventato il vertice assoluto dell'organizzazione ecclesiastica, l 'incarnazione vivente del sacerdotium: non esistevano più singole chiese, ma un'unica sacrosancta ecclesia [ 18] , che era la Chiesa cattolica romana, organizzata gerarchicamente sotto l'autorità del pontefice, infallibile perché santa, dunque custode dell'ortodossia (la Chiesa è Christian e religionis mater [ 18] ) e feroce persecutrice dell'eresia.ll Inoltre, il papa aspirava, per la superiorità della propria funzione, a indirizzare le azioni dell'imperatore (perfino a condizionarne la scelta) e in generale di tutti i principes gentium, i sovrani dei singoli stati europei che, a differenza del tempo di Ottone, erano ormai una realtà ineludibile nonostante la teorica universalità dell'impero (Federico era al tempo stesso imperator e rex, come si dice nel Proemio a [2 1 ] ) .
I papi teocratici o ierocratici,>4 Gregorio VII ( 1073 - 1085 ) e soprattutto Innocenza III ( 1 198- 12 16) e Innocenza IV ( 1248- 1254) non negarono la separazione tra regnum e sacerdotium. Tuttavia, nel corso del tempo e in conseguenza dello scontro con gli imperatori svevi, interpretarono la derivazione del potere temporale da Dio affermata nella lettera di Paolo ai Romani come dipendenza dei principi dal papa, ritenuto il sostituto di Cristo in terra (vicarius Christi) . Innocenza III, tutore di Federico II, si qualificò per primo in questo modo: sostituto di Cristo, non più di Pietro, il
H Tra Xli e Xlll secolo si diffusero forme innovative di spiritualità, alcune delle quali furono aspramente perseguitate dalla Chiesa. La lotta all'eresia divenne un aspetto importante dell'azione papale in tutto l'Occidente. I principi secolari erano chiamati, anzi obbligati a collaborare, per esempio eseguendo le sentenze dei tribunali dell'Inquisizione, fondati ai primi del Duecento.
34 Quelli cioè che sostenevano che il mondo dovesse essere governato da Dio (teocrazia), o, meglio, dal sacerdos che lo rappresentava (ierocrazia) . In greco, theòs vuoi dire "Dio" e hieròs "sacro, sacerdotale" .
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Le /o n ti e i metodi
fondatore della chiesa romana. All'affermazione teorica corrispose, al tempo di questo pontefice, l 'effettivo condizionamento di tutta la politica europea.
La reazione a tale egemonia papale non poteva essere la " laicizzazione" del potere temporale, che era al di là degli orizzonti mentali dell'epoca, ma al contrario la sua accentuata sacralizzazione. Il Proemio ne è la dimostrazione: parole e concetti presi dalla Bibbia sono in esso utilizzati per affermare il diretto collegamento dell'imperatore e re con Dio. Anche lui, soprattutto lui è il vicarius Christi, è colui che ha diritto di vita e di morte su tutti i suoi sudditi. Quest'ultima affermazione è fatta mediante una citazione letterale di Seneca/5 inserita però in un contesto che ne annulla la carica, per così dire, assolutistica, perché i principi secolari non sono sciolti da qualsiasi vincolo, ma stabiliscono «quale destino, rango e condizione dovesse avere ciascuno» soltanto perché sono «esecutori in certo modo delle decisioni divine» (qui vite necisque arbitri gentibus qualem quisque /ortunam, sortem statumque haberet, velud executores quodammodo divine sententie stabilirent [ 17 ] ) .
I l Proemio non ricorre soltanto alle Sacre Scritture e alla letteratura latina, ma agli scritti degli stessi sostenitori della superiorità papale, e a documenti emanati dai papi, come, per esempio, una lettera di papa Onorio III, contemporaneo di Federico. La lettera era diretta ai nobili di Castiglia ( 12 18) , esortati a impegnarsi per la liberazione del loro re, Ferdinando III, e a obbedire alla regina madre. Onorio, che cita anche il passo evangelico del «Date a Cesare», afferma la derivazione del potere temporale da Dio e la sua necessità: i principi sono stati stabiliti da Dio per reprimere la licentia scelerum (vedi [ 17 ] ) e per assicurare la pace e la giustizia: essi giovano agli uomini distribuendo pace e giustizia (pacis et iustitie copiam ministrando: vedi [22] ) . La lettera di Onorio si trova antologizzata, per così dire, nella raccolta epistolare del cardinale Tommaso di Capua (il principale diplomatico pontificio degli anni 12 16-39), dal quale fu forse copiata in una raccolta di Pier delle Vigne, il celebre collaboratore di Federico II che contribuì alla
" Seneca, De clementia, I, 2: Ego vitae necisque gentibus arbiter; qualem quisque sortem statumque habeat, in mea manu positum est. Anche l'uso di un'espressione di Lucrezio (machina mundi [2] , cfr. De rerum natura, v, 96) non significa adesione al meccanicismo di questo autore.
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stesura del Liber Augustalis. Per queste vie era lo stesso papato a fornire argomenti al suo avversario.
Ernst Kantorowicz, studioso di Federico n e della dottrina della regalità, ha enfatizzato la novità espressa in un passo del Proemio: «Così per la stessa necessità contingente, non meno che per ispirazione della provvidenza divina, furono creati i principi secolari» [ 16] . Il potere temporale esiste non solo per decisione della provvidenza divina, ma per necessitas rerum, concetto presente anche nella lettera di Onorio. Esso deriva, indirettamente, da Aristotele, come molti altri concetti e procedimenti logici del Proemio (l'uomo che vive nella sfera sublunare [ 4 ] , la necessità che tutto il creato scompaia a seguito della sua scomparsa [ 1 1 ] ecc. ) , i quali possono essere ricollegati alle opere di alcuni pensatori del xn secolo (prima che il pensiero aristotelico si diffondesse per opera di Tommaso d'Aquino, nella seconda metà del secolo xm) . Kantorowicz ne ricavò un'esaltazione della personalità straordinaria di Federico, della sua immediata adesione al reale, della sua sublime classicità, secondo un'interpretazione molto suggestiva, che non è però condivisa da tutti gli studiosi.
Riprendiamo il paragone con i tempi di Ottone. Rispetto al proposito generico di operare per il vantaggio di tutti, espresso nell'arenga del diploma del 962 , il Proemio presenta una differenza enorme. Sul piano concreto, infatti, Federico esegue la volontà divina e mette a frutto i suoi talenti «osservando la giustizia e fondando le leggi» (colendo iustitiam et iura condendo [22] ) . La giustizia e la legge sono ora al centro dell'attività di governo. Assicurare la giustizia è infatti la funzione precipua del potere temporale. Fondare le leggi è suo attributo esclusivo. I secoli XI-XIII segnano una svolta straordinaria nella storia del pensiero e delle istituzioni occidentali non soltanto per la trasformazione della Chiesa a cominciare dal papato di Gregorio VII (primato del papato romano e progetto ierocratico) , ma anche per la rinascita degli studi del diritto, cioè del diritto romano così come tramandato dal Corpus iuris civilis dell'imperatore Giustiniano.36
Nel Proemio e in tutte le costituzioni del Liber Augustalis si manifesta una chiara concezione romanistica del potere pubblico: il
36 Il Corpus iuris civilis (Corpo del diritto civile) fu pubblicato tra il 529 e il 533.
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Le fonti e i metodi
princeps (già questa definizione è derivata dal diritto romano) è il fondatore delle leggi ( iura) . La promulgazione di un unico corpo legislativo, che ingloba le leggi dei precedenti re di Sicilia e dello stesso Federico («Abbiamo ordinato che in queste fossero incluse tutte le disposizioni promulgate dai precedenti re di Sicilia e da noi» [25] ) è di per sé un'imitazione di Giustiniano, che infatti è richiamato nell'intitolazione: Felix Pius Vietar et Triumphator [ l ] si definì tra l 'altro Giustiniano nel Proemio delle Istituzioni, una delle parti del Corpus, e in altri suoi provvedimenti. Imita Giustiniano anche l'indicazione dei regni attraverso un aggettivo etnico, a significare il dominio rispettivo (Ytalicus Siculus Ierosolomitanus Arelatensis [ 1 ] : il titolo di re di Gerusalemme era solo nominale, quello di Arelatensis si riferiva al regno di Borgogna o Arles, unito all'impero come il regno italico) .
Benché i l Liber Augustalis non sia certo assimilabile a i codici (penale, civile, delle procedure) oggi in vigore, pure esso è una compilazione organica, la più importante del Medioevo, organizzata per materie, che intendeva coprire tutti gli ambiti di competenza regia. E, infatti, vennero annullate tutte le leggi e consuetudini precedenti che risultassero eventualmente in contrasto con le disposizioni del Liber [24] . Questo è un aspetto assai importante, perché nella tradizione germanica e altomedievale il diritto non è prodotto da un'autorità superiore, ma germina dal popolo stesso, è patrimonio di tradizioni e consuetudini preesistenti al singolo sovrano. Questa concezione tradizionale non è negata dai giuristi bassomedievali e neppure dal Liber Augustalis, che con essa fanno i conti mediante complicati procedimenti logici e pratici. Tuttavia, nel basso Medioevo i sovrani ampliarono moltissimo la loro sfera di competenza, costruendo organizzazioni pubbliche assai articolate, regolate da norme centrali e affidate a ufficiali di nomina regia e a specifiche magistrature. È il massimo di razionalità e centralizzazione che era possibile attuare in quel periodo: soltanto tra XVIII e XIX secolo lo Stato giungerà a porsi come unica fonte della legge, negando privilegi, esenzioni o giurisdizioni separate di individui, ceti, comunità (i nobili, il clero, singole città e territori) .
Se colorassimo in maniera diversa le riprese testuali e concettuali dalle Sacre Scritture, dal Corpus iuris civilis, dagli autori classici come Seneca, dai teologi e filosofi, specie quelli del XII secolo, dai documenti precedenti e contemporanei delle cancellerie pontifi-
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Medroevo: istruzroniper l'uso
cie e imperiali, il Proemio ci apparirebbe come un collage multicolore. E, in effetti, coloro che lo composero avevano imparato a scrivere per imitazione, secondo una tecnica combinatoria inventata nel basso Medioevo che prende il nome di ars dictaminis (tecnica della composizione) . Quest'arte conferisce alla lingua del proemio una raffinatezza che è molto distante dal latino del diploma di Ottone.37 Le raccolte di Tommaso da Capua e Pier delle Vigne erano appunto delle Summae dictaminis, e loro stessi erano dei dictatores, come si chiamavano gli esperti di scrittura epistolare e di oratoria pubblica.
Ciò non vuol dire assolutamente che non fosse possibile essere innovativi e originali. I materiali linguistici e concettuali a disposizione erano numerosi: la scelta o rielaborazione di una espressione testuale rispetto a un'altra, lo scarto del singolo autore assumeva un preciso significato.
Allo stesso modo, molte interpretazioni dei passi di Matteo (Reddite Caesari) e Paolo (Necessitate subditi estate) si erano suecedute dai tempi di Tertulliano e Agostino a quelli di Federico II, dal III al XIII secolo: rispetto a esse è possibile cogliere le peculiarità delle affermazioni del Proemio.
La novità del Liber Augustalis e in generale dell'azione politica e ideologica di Federico II sono state contestate da chi ha sottolineato i legami con il passato, insistendo sull'aspetto "multicolore" del Proemio cui abbiamo accennato. Con una esagerazione di segno opposto, la figura e l 'azione di Federico II sono state talvolta qualificate con aggettivi quali " laico" e "moderno" . Essi sono stati usati come giudizi di valore, in opposizione a un uso generico e negativo dei loro contrari ( " clericale" e "medievale" ) . Nulla è però più lontano dal nostro concetto d i laicità quanto il Proemio del Liber Augustalis. La sacralizzazione del potere temporale, che è stata un punto di passaggio importante per la separazione completa tra sfera politica e sfera religiosa, non pregiudicò una visione del mondo assolutamente intrisa di spiritualità cristiana. Il processo di secolarizzazione e laicizzazione dello Stato e della società, che si è realizzato molto più tardi attraverso cesure assai forti nella storia dell'Europa (la rivoluzione scientifica
37 Tipiche dell'ars dictaminis sono le figure retoriche come/acta considerans et considerata commendans [3] , quod . . . formaverat . . . deformare t [ 1 1 ] .
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Le fonti e i metodi
del Seicento, l'Illuminismo, la rivoluzione francese) ci allontana molto dal mondo del XIII secolo.
Il dibattito su Federico II è sempre aperto, ma certamente egli fu un personaggio di grande carisma: ispirò le sue azioni concrete alla concezione sacra del potere temporale, all'ideale della giustizia, al proposito di rafforzare l'autorità centrale mediante una legislazione organica.
Il dibattito non può prescindere dall'analisi del Proemio, di cui abbiamo dato un assaggio. Per un'analisi siffatta, come abbiamo visto, è necessario ricorrere non solo alla storia politica (lo scontro con il papato) , alla storia del diritto e delle dottrine politiche, ma anche, come abbiamo visto, a molte altre discipline: lo studio delle Sacre Scritture e delle opere dei Padri della Chiesa, la storia della letteratura latina, la retorica, la teologia, la storia della filosofia, la storia delle idee.
3 .7 Dante in una riunione del Comune di Firenze (la fonte amministrativa)
Il Liber fabarum n. 5 è un registro dei verbali del Comune di Firenze. In esso si trova traccia della partecipazione di Dante a una riunione del 19 giugno 130 1 :
[ l ] Nel Consiglio dei Cento uomini il signor capitano mise in discussione i seguenti punti, alla presenza dei priori e del gonfaloniere. [2] Primo: che si presti al signor papa il servizio dei cento cavalieri per il tempo che parrà opportuno ai priori e al gonfaloniere presenti, [3] e che questo servizio continui ad essere prestato dal signor Neri de' Giandonati, capitano dei detti cavalieri, con ser Torello de' Bronci nella qualità di notaio di detto capitano, allo stipendio solito, [ 4] a condizione che detto servizio non duri oltre il primo settembre [5] e che detto denaro sia versato alla persona o alle persone indicate dai priori e dal gonfaloniere. [6] Secondo, che si versino 3000 libbre al gonfaloniere dei fanti del contado per il pagamento da farsi di alcuni fanti del contado. [7] Il signor Guidotto de' Canigiani, giudice, propose di approvare i predetti punti. [8] Dante Alighieri propose che non si deliberasse sul servizio al signor papa; in merito al secondo punto propose di approvarlo così come sopra indicato.
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Medtoevo: istruztoni per l'uso
[9] Fatta la votazione per bossoli e ballotte, risultarono 49 voti a favore, 32 contrari. [ lO] Inoltre, sul secondo punto votarono a favore 80, contro l .
Testo latino
[ l ] In consilio centum virorum proposuit dominus capitaneus infrascripta, presentibus prioribus et vexillifero: [2] primo, de servitio faciendo domino pape de centum militibus pro illo tempore quo videbitur prioribus et vexillifero presentibus, [3 ] et quod in dicto serviti o morari debeat dominus Neri de' Giandonati, capitaneus dictorum militum, et etiam ser Torello de Broncis pro notario dicti capitanei, ad solitam rationem, [ 4] salvo quod tempus dicti servitii non ex ceda t kal. septembris, [5] dummodo dieta pecunia solvatur illi persone seu personis quibus videbitur prioribus et vexillifero. [6] ltem, de solutione mm libr. facienda vexillifero peditum comitatus pro solutione facienda quibusdam peditibus comitatus. [7] D. Guidoctus de Canigianis iudex consuluit secundum propositiones predictas. [8] Dante Alagherii consuluit quod de servitio faciendo domino papae nichil fiat; in alia propositione consuluit secundum propositionem. [9] Factis partitis ad pissides et palloctas, placuit XLVIII! secundum propositionem; nolentes fuerunt XXXII. [ lO] Item, super secunda propositione placuit LXXX secundum propositionem; nolentes fuerunt I .
Dante faceva parte del Consiglio dei Cento uomini ( Consilio centum virorum: la carica era semestrale) , che quel giorno venne chiamato a deliberare su due argomenti: la proroga di un sussidio militare di 1 00 cavalieri inviati in servizio del papa, Bonifacio VIII,
contro gli Aldobrandeschi nella Toscana meridionale («che si presti al signor papa il servizio dei cento cavalieri» [2] ) e il pagamento di un contingente di fanteria, reclutato nel contado di Firenze, per la difesa di Colle Valdelsa («che si versino 3000 libbre al gonfaloniere dei fanti del contado per il pagamento da farsi di alcuni fanti del contado» [6] ) .
La verbalizzazione della riunione avviene secondo criteri che sono rimasti sostanzialmente immutati: esiste un ordine del giorno fatto di due propositiones, o punti (essi erano preventivamente annunciati a voce da banditori o commessi, ma più tardi saranno comunicati per iscritto) . In questo caso si votò a scrutinio segreto.
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Le fonti e i metodi
Furono consegnate a ciascun votante due pallottole di diverso colore (ballotte, palloctae, parola da cui viene il termine ballottaggio) : una, in genere nera, valida per il sì, l 'altra, bianca, per il no. La pallottola era messa da ciascun votante in una scatoletta (bossolo, pisside) . Tutto era verbalizzato accuratamente: la messa in votazione da parte di chi presiedeva la seduta, in questo caso il capitano del popolo (dominus capitaneus [ l ] ) ; le manifestazioni di voto, fatte da Guidotto de' Canigiani (che si pronunciò per due sì) e da Dante (che propose un no e un sì) ; l'esito della votazione, separata in due parti perché due erano i punti su cui deliberare (dunque due diverse maggioranze approvarono le proposte) . I presenti con diritto di voto erano 8 1 , come si ricava dal totale: non sono stati verbalizzati i nomi di tutti, come avveniva in altri casi.
Il verbale fu redatto da un notaio che durante la seduta del Consiglio dei Cento prese appunti su foglietti volanti o su un piccolo scartafaccio, e che poi mise tutto in bella forma nel Liber /abarum, un registro chiamato così perché le pallottole con cui si votava erano anche dette fave (nei primi tempi si utilizzarono proprio i semi di quei legumi) . Come nei verbali del nostro tempo, di riunioni di condominio, assemblee di partito, consigli delle istituzioni più varie, il testo è molto sintetico e formalizzato38 e non contiene né una articolata presentazione delle proposte, né una sintesi di tutte le discussioni che si tennero. È evidente, infatti, che il capitano (che era Atto da Cornalto) , Guidotto de' Canigiani e Dante Alighieri argomentarono le rispettive posizioni, chiarendone le motivazioni, nel tentativo di convincere gli altri. Probabilmente ci furono altri interventi, ma il verbale ritiene solo gli elementi essenziali che assicurano legittimità alla votazione.
Tutti gli " organi collegiali" funzionavano così: i consigli delle Arti,l9 delle confraternite laiche, delle comunità religiose (conventi, capitoli generali) , delle diocesi (i sinodi) . È anzi nel mondo della Chiesa che probabilmente si svilupparono prima queste pratiche consiliari, perché la Chiesa era un'organizzazione collettiva e lo rimase anche dopo che il papato romano ne centralizzò pro-
38 Ciò non si verifica però nelle sedute parlamentari - peraltro registrate - delle quali gli stenodattilografi trascrivono oggi ogni singola parola.
39 Le Arti o Corporazioni erano associazioni di persone che esercitavano lo stesso mestiere: mercanti, imprenditori, banchieri, artigiani, notai ecc.
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Medioevo: istruzioni per l'uso
gressivamente il governo (vedi p . 1 10) . I Comuni, come tutte le comunità territoriali (città, villaggi, gruppi di villaggi, indipendentemente dall'eventuale grado di autonomia) , si autogovernavano mediante consigli come quello dei Cento, formati per elezione o sorteggio, con durata limitata nel tempo.
Un organo collegiale è tale perché le sue decisioni, anche se prese a maggioranza, valgono per tutti: sia quelli che, presenti nel collegio, hanno votato contro (Dante, per esempio) , sia quelli che quel giorno erano assenti, ma che facevano parte del collegio, sia quelli che non ne facevano parte, ma che a quel collegio avevano delegato i propri diritti (i cittadini di Firenze che indirettamente avevano eletto i membri del Consiglio del Cento) . Dunque un organo collegiale, i cui membri cambiano continuamente (a Firenze i consigli e tutte le cariche comunali erano rinnovati ogni due, quattro, sei mesi) , ha un potere che prescinde dai singoli individui nel corso del tempo: esso assume decisioni che impegnano i futuri consiglieri e i futuri cittadini, anche quelli che non sono ancora nati.
Tutto ciò vale ancora oggi, ed è il fondamento di ogni organizzazione democratica.
I giuristi del basso Medioevo, e in particolare esperti di diritto canonico come Sinisbaldo de' Fieschi, che fu papa con il nome di Innocenza IV ( 1248- 125 1 ) , e teologi come Marsilio da Padova (morto tra il 1342 e il 1343 ) studiarono il funzionamento degli organi collegiali e la questione della sovranità di istituzioni collettive come il Comune, concorrendo all'elaborazione di concetti come quelli di maggioranza e di rappresentanza, che hanno per noi un grande valore, e che sono il risultato di una evoluzione cominciata nel Medioevo.
In un organo collegiale una decisione è considerata valida e legittima perché, all'interno di competenze prestabilire, è stata seguita una corretta procedura: convocazione della riunione, presenza del numero legale, discussione e dichiarazioni di voto, scrutinio segreto, verbalizzazione. La forma, in questo caso, è sostanza.
Perciò, in un organismo collettivo come il Comune era indispensabile che fossero elaborate regole di funzionamento assai analitiche, che fosse mantenuta memoria scritta di ogni decisione e di ogni momento del processo decisionale, che fossero conservati accuratamente i verbali in registri pubblici accessibili a tutti, a cominciare da quelli che sarebbero entrati in futuro a far parte del
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medesimo consiglio. La partecipazione collettiva alla gestione del potere, potremmo dire la "democrazia" (anche se questa definizione corrisponde a esperienze diverse nel corso del tempo) , non può che fondarsi sulla scrittura: è questa una regola che fu scoperta per la prima volta nelle città-stato greche, e che fu poi riscoperta nel Medioevo europeo. Si trattò di una riscoperta perché le istituzioni del Comune e di altre comunità medievali non derivarono in nessun modo dalle poleis greche, dai municipia romani, dai collegia professionali del tardo impero, come ritenevano alcuni storici ottocenteschi affascinati dall'idolo delle origini. È vero però che gli uomini del basso Medioevo guardarono all'antichità come modello, e infatti usarono spesso nomi antichi per le novità del loro tempo: basti pensare al nome di consoli per i primi ufficiali del Comune.40
I Comuni italiani sono stati un'esperienza straordinaria: essi hanno creato istituzioni originali, prodotto una normativa molto abbondante, dagli statuti generali (quasi delle " leggi costituzionali" ) alle infinite regolamentazioni di molti aspetti della vita politica, sociale ed economica; hanno infine elaborato accurate procedure di registrazione e di archiviazione le quali sono risultate così efficaci che, oggi, le città italiane conservano alcuni tra i più grandi depositi di scritture medievali dell'Europa. Per questo motivo ci è pervenuto, nel suo registro originario, il verbale di quella riunione del 19 giugno 1301 , insieme con molte altre fonti amministrative, di varia tipologia.
Un atto amministrativo, sciolto o in registro, ha la funzione di mantenere memoria dell'attività svolta da un ufficio, una magistratura, un collegio. Esso non rientra quindi nella grande bipartizione tra documenti pubblici (che emettono un ordine, fanno una concessione: vedi §§ 3 .4 e 3 .6) , e privati (che danno validità e pubblicità a una transazione: vedi § 3 .5 ) . L'abbondanza e varietà delle fonti amministrative è direttamente proporzionale al grado di svi-
40 Nei secoli XII-XIV molti Comuni del centro e del nord Italia furono assolutamente indipendenti: essi furono cioè città-stato, a differenza di Comuni che, in Italia e in Europa, avevano molta autonomia, ma per concessione di una autorità superiore. Esistevano città-stato anche altrove, ma fu solo in Italia che, secondo alcuni studiosi, si può parlare di una vera e propria civiltà comunale, un fenomeno globale che attrae per il suo valore esemplare e per le straordinarie tracce che ha lasciato dietro di sé (l'arte, la cultura letteraria e giuridica, la documentazione).
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Medioevo: istruzioni per l'uso
luppo delle istituzioni, che nel basso Medioevo cominciarono una crescita inarrestabile.
Grazie all 'archivio del Comune di Firenze, oggi custodito nell' Archivio di Stato di quella città, e agli archivi di tutti i centri con cui essa era in contatto possiamo sapere molto dell'età di Dante: per esempio quali competenze aveva il Consiglio dei Cento, come si chiamavano il capitano del popolo e gli altri personaggi citati nel verbale, a quale partito politico appartenevano, perché bisognava prendere quelle decisioni, perché Dante fu contrario a una delle due ecc.
Se a ciò si aggiunge che i protagonisti hanno lasciato anche riflessioni sulla loro esperienza (la Cronica di Dino Compagni, un mercante fiorentino che partecipò alla vita politica; la stessa Commedia, piena di riferimenti alle vicende della città) , possiamo concludere che, almeno per quanto riguarda la storia di alcune parti d'Europa, già da metà Duecento abbiamo così tante informazioni che la difficoltà dello storico non consiste più nel reperimento delle fonti, ma nella selezione di quelle più significative all'interno di una massa notevole.
Il verbale fiorentino del 1301 è certo degno di considerazione in sé perché vi compare Dante, a differenza della permuta amalfitana con i suoi anonimi protagonisti ( § 3 .5 ) , ma anch'esso resta poco comprensibile se è separato dal complesso archivistico cui appartiene. Per reperire la notizia su Dante e valutare il significato di quella presenza bisogna conoscere le istituzioni fiorentine e gli archivi che esse hanno prodotto. La storia politica deve passare per l'archivistica e la storia delle istituzioni.
Entriamo allora nello specifico dell'organizzazione comunale fiorentina: il Consiglio dei Cento era presieduto dal capitano del popolo, un ufficiale comunale che era stato introdotto nel 1250. Si dice spesso, per comodità, che le istituzioni dei Comuni italiani attraversarono tre fasi: quella consolare (dalle origini a tutto il XII secolo) , quella podestarile (dagli inizi del XIII secolo: il podestà, che sostituì i consoli, era uno straniero) , quella appunto di popolo (seconda metà del XIII secolo) . Tale periodizzazione è una semplificazione: prima di tutto perché ogni Comune ebbe la sua storia individuale, spesso molto diversa da quella degli altri, e poi perché la fase podestarile e quella di popolo si sovrapposero. Al tempo di Dante esisteva sempre il podestà, che veniva regolarmente eletto
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ogni anno e che era uno straniero. Egli divideva il potere, per così dire, con il capitano del popolo, che era l'espressione del partitopopolo, non del popolo in senso generico (tutti i fiorentini o tutti quelli che non erano nobili) . Sia il podestà che il capitano del popolo avevano le proprie competenze giudiziarie e amministrative, il proprio " ufficio" , i propri consigli, la propria forza militare. I provvedimenti comunali dovevano spesso essere approvati dai consigli dell'uno e dell'altro.
Prima della riunione del Consiglio dei Cento, nella stessa giornata del 1 9 giugno 13 0 1 , i due punti furono discussi anche nella riunione congiunta del Consiglio dei Cento, del Consiglio generale, speciale e delle Capitudini delle Arti, il cui verbale si trova nello stesso registro. Il Consiglio generale del capitano del popolo era composto di 25 rappresentanti per ogni sestiere, per un totale di 150 persone (Firenze era divisa in sei quartieri, detti perciò sestieri) e a esso partecipavano sempre i capi delle sette Arti maggiori (capitudine è il sostantivo astratto derivato da capo) . Il Consiglio speciale del capitano del popolo era formato da 6 rappresentanti per ogni sestiere, per un totale di 36 persone. Anche in quell'occasione Dante fu l 'unico a proporre un voto contrario sul primo punto (l'invio dei 100 cavalieri) . La discussione dovette essere vivace, perché la questione fu rinviata e si approvò soltanto il secondo punto all'unanimità (il pagamento dei fanti per Colle Valdelsa: il voto fu palese, espresso alzandosi in piedi o restando seduti) .
Alle due riunioni erano presenti anche i priori (= "primi" ) delle Arti e il gonfaloniere di giustizia (presentibus prioribus et vexilli/ero [ 1 ] ) , che costituivano un unico organo comunale. Il priorato delle Arti era stato istituito nel 1282. Nel 1301 era costituito da sei persone, in carica per due mesi, in rappresentanza, oltre che delle Arti, di ognuno dei sestieri. Il priorato, nato in un momento di emergenza, deteneva in sostanza il massimo potere nella città, anche se doveva tener conto di tutti i Consigli, tra cui quelli citati, e rispettare gli statuti comunali (per questo i priori parteciparono alle due riunioni) .
I l gonfaloniere d i giustizia era stato aggiunto ai priori nel 1293 . Egli fu chiamato così perché portava il vessillo (gonfalone) del partito-popolo, segno del suo potere (egli disponeva di una forza armata di cavalieri, balestrieri, fanti) , e perché vigilava sui provvedimenti straordinari, gli "Ordinamenti di giustizia" , volti ad assi-
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Medzoevo: istruztoniper !'u_w
curare pace e giustizia alla città. Gli ordinamenti, proposti da Giano della Bella, uno dei priori di quel bimestre del 1293 , prevedevano infatti l'esclusione definitiva dei nobili, definiti "magnati" (che vuol dire " grandi " , "potenti" ) da tutte le cariche comunali. Fu redatta una lista di ben 73 casate di Firenze e 74 del contado per un totale di circa 3000 persone. Una legislazione speciale, poi attenuata, consentì di punire rapidamente e con ferocia i magnati che si fossero macchiati di un delitto, colpendoli direttamente nelle loro proprietà (che potevano essere distrutte o confiscate) e nelle loro persone (condannate a morte o all'esilio) .
Nei priori e nel gonfaloniere di giustizia s i identificava il governo di Firenze, o " Signoria" . Il palazzo in cui si riunivano, e in cui dovevano obbligatoriamente abitare per tutta la durata dell'incarico, si chiamò perciò Palazzo della Signoria (detto anche Palazzo Vecchio: nel 1301 era ancora in costruzione) .
Anche Dante era stato priore, dal 15 giugno al 14 agosto dell' anno prima. I priori non erano scelti dal basso, dai consigli o da altre assemblee, ma cooptati dall'alto. Due giorni prima della scadenza del bimestre i priori uscenti si riunivano con i capi delle Arti e con alcuni " saggi" e sceglievano i nuovi priori. Nel 1 301 il priorato era controllato dalla fazione cittadina detta dei Bianchi, guidata dalla famiglia Cerchi, che da qualche anno prevaleva sulla fazione awersaria dei Neri, capeggiata dalla famiglia Donati. Dante era persona gradita ai Cerchi: perciò era stato scelto per il priorato e il Consiglio dei Cento.
Il quadro è complicato, non c'è dubbio: dietro alla definizione "Comune di popolo" si cela una complessità di istituzioni che sono occupate dall'una o dall'altra parte politica.
Allo stesso modo, l'opposizione nobiltà/popolo, presente in tutti i Comuni, si rivela insufficiente a descrivere l'articolazione sociale e politica fiorentina. I termini "nobile" e " aristocratico" , spesso usati nelle narrazioni storiche, sono in realtà generici: essi significano semplicemente i più "conosciuti" (nobili, dal latino) , i " migliori" (aristocratici, dal greco aristoi) , dunque quelli che in una società determinata e in un periodo determinato sono e sono considerati da tutti i migliori e i più importanti. Data l'enorme varietà delle vicende umane, tali termini hanno perciò contenuti diversissimi: i libri di storia chiamano nobili gruppi sociali chiusi o aperti, con differenti professioni o attività preferite (esercizio delle
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armi, proprietà di terre, commerci, carriere amministrative ecc. ) , con l'obbligo o meno di dedicarsi a una attività particolare, con una maggiore o minore consapevolezza di sé ecc.
Sui nobili fiorentini, detti con un termine dell'epoca "magnati" , che furono esclusi dalla vita politica nel 1293 , s i è sviluppato un lungo dibattito storiografico: si trattava di una "classe" che fu emarginata dalla " classe" nemica, il " popolo " , i "mercanti" o "borghesia" ; oppure di un ceto politico di famiglie ricche e potenti, che avevano controllato in precedenza la città e che ora venivano sconfitte da un gruppo più agguerrito? Lo scontro era insomma sociale ( di " classe" ) o politico? La questione è ancora aperta.41 Certo, tra i popolani che si avvantaggiarono degli Ordinamenti di giustizia c'erano famiglie ricchissime e assai influenti, come gli stessi Cerchi. I m agnati erano accomunati dall'avere un cavaliere in famiglia. Anche Dante ce l'aveva (era il suo antenato Cacciaguida, bisnonno di suo nonno) , ma non era assolutamente un magnate. In effetti, essere cavaliere aveva un significato diverso nel XII secolo, ai tempi di Cacciaguida, e negli anni intorno al 1300, quando la cavalleria era diventata un sinonimo di nobiltà.
A differenza nostra, chi si occupò di redigere quelle liste sapeva bene chi inserirvi: quelli che erano considerati da tutti magnati. Nelle società umane il piano della realtà (chi sono i nobili e quale è la base economica o giuridica su cui essi fondano il loro potere) si confonde sempre con quello della rappresentazione (i comportamenti, l'ideologia, la propaganda avversaria) . Si pensi solo a cosa vogliano dire oggi le categorie di ricco/povero, borghese/proletario, libero professionista/dipendente pubblico, o quelle di "popolo" , "gente" : esse non possono certo coprire la realtà dell'Italia contemporanea, eppure continuano a essere utilizzate nel parlare comune e hanno un effetto nel dibattito politico.
Il gruppo sociale che emarginò i magnati nel 1293 e che controllava Firenze al tempo di Dante corrisponde ai membri delle sette Arti Maggiori: sono le Arti di giudici e notai, Calimala (importatori di stoffa all'ingrosso, residenti in una via così chiamata) , cambiatori di moneta, produttori di panni di lana, mercanti di Por
41 Le due posizioni risalgono a due storici del Novecento: Gaetano Salvemini e Nicola Ottokar.
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Medioevo: istruzioni per l'uso
Santa Maria (venditori di panni al minuto abitanti in un quartiere così chiamato) , medici e speziali, venditori di panni. Si tratta forse di categorie identificabili con il termine di "borghesi" ? Già le definizioni di " popolo" , "popolo grasso" , "grandi mercanti" sono una semplificazione, pur inevitabile.
La categoria di "borghese" (con quella speculare di proletario) e il concetto stesso di "classe" furono elaborati quasi due secoli fa da Karl Marx, dunque corrispondono a una interpretazione particolare della storia umana, basata su un'esperienza storica determinata, quella di alcune società industriali dell'Ottocento: è un errore utilizzarle senz' altro ritenendole valide per tutti i periodi storici. Per questo i manuali di storia le usano soltanto dopo averle definite, oppure ricorrono ad altre espressioni. Siamo in presenza del corto circuito segnalato nel cap. l : per comprendere il passato siamo costretti a utilizzare definizioni ambigue, in quanto elaborate in periodi e con finalità particolari. La riflessione sulla società del passato (l'oggetto) si traduce sempre in una messa alla prova delle categorie interpretative del presente (il linguaggio del soggetto). Quando incontriamo definizioni moderne ( "borghesi" ) o antiche ( "magnati" ) non dobbiamo dimenticare di chiederci, e di chiedere al libro di testo e al docente, che cosa esse vogliano dire.
Passiamo ora alle delibere di quella riunione del 19 giugno 1301 . Firenze aveva ricevuto la richiesta (scritta) di quei 100 cavalieri dal cardinale Matteo di Acquasparta, legato pontificio (suo ambasciatore e vicario) in Toscana, Lombardia e Romagna. La città era politicamente guelfa, cioè vicina al papato: i ghibellini, partigiani dell 'imperatore (che teoricamente era il sovrano del regno italico) , erano stati in buona parte espulsi da Firenze.42 Firenze era tra l'altro a capo della Lega guelfa della Toscana, un'alleanza di Comuni dotata di una autonoma forza militare. Non si poteva dir di no al papa, punto di riferimento di tutto il coordinamento internazionale guelfo, che comprendeva anche il re di Francia e gli angioini che nel 1266 avevano sottratto agli svevi il regno di Sicilia. Contingenti militari fiorentini affiancavano nel 1301 l'esercito angioino nella guerra contro gli aragonesi, che avevano occupato la Sici-
42 Esisteva un organismo, la Parte guelfa, che si occupava di vigilare sulla fede guelfa degli eletti alle cariche e ai consigli pubblici.
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lia (guerra del Vespro, dal 1282 ) . Perché Dante, membro della fazione dominante, si pronunciò per il no?
Nel 1301 non era in corso nessun conflitto tra papato e impero. Da oltre trent'anni, dalla fine cioè della dinastia imperiale sveva (vedi p. 1 06) , nessun re di Germania era venuto in Italia per prendere la corona imperiale e occuparsi della penisola. Il maggior pericolo per l ' indipendenza del Comune di Firenze era costituito proprio da Bonifacio VIII, che, sostenuto dalla fazione dei Neri, intendeva trasformare il coordinamento guelfo in un'egemonia effettiva del papato sulla Toscana. Nel settembre 1300 il cardinale di Acquasparta, lo stesso che ora chiedeva il sussidio, aveva scomunicato Firenze dopo aver tentato invano di pacificarla e di ottenere la reintegrazione dei Neri. Tutti sapevano che stava per arrivare in Italia Carlo di Valois, fratello del re di Francia, assoldato dal papa e destinato a una spedizione in Toscana, con tutta probabilità contro Firenze (come poi avvenne) . Insomma, la situazione era assai critica. Politica interna e politica esterna erano strettamente collegate: il potere dei Cerchi a Firenze, esercitato attraverso il controllo delle magistrature che si è descritto, era insidiato dai Neri, rimasti in città o esuli, dal papa e dai Comuni guelfi che erano più vicini al papa. L'invio dei fanti a Colle Valdelsa, approvato anche da Dante, significava portare almeno quel piccolo Comune dalla parte dei Bianchi, i quali potevano contare solo sull'appoggio di Pistoia e di Bologna.
Nello schieramento guelfo c'era dunque una sorda contrapposizione, che si giocava dentro e fuori Firenze, tra Bonifacio VIII e il governo cittadino. La maggioranza del Consiglio del 19 giugno preferì far buon viso a cattiva sorte, nella speranza di non irritare ulteriormente il pontefice, e prolungare il sussidio militare (tra l'altro, esso serviva per confiscare agli Aldobrandeschi feudi che erano destinati ai nipoti del pontefice) . Eppure, il papa e il cardinale erano al centro delle manovre politiche e militari per abbattere il regime della città ! La posizione di Dante era meno ambigua, e coerente con l'attività durante il suo priorato, che non era mai stata accondiscendente verso le interferenze di Bonifacio VIII nella politica interna fiorentina. Il fatto che fu proprio Dante a esprimere l'opposizione alla richiesta prova che egli godeva di un certo rispetto nel consiglio e nella fazione. La verbalizzazione della manifestazione del voto fa ipotizzare un intervento completo e arti-
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colato, non l'espressione di generico dissenso o di perplessità. Il buon numero di voti contrari (32 a fronte di 49 a favore [8] ) prova che la posizione di Dante non era isolata, anche se l' opposizione si dissolse nei successivi organismi chiamati a deliberare (i consigli del podestà) . Robert Davidsohn, storico tedesco di Firenze, ha definito Dante, con un anacronismo accettabile, «capo di una minoranza nella fazione dominante».
Le decisioni assunte l'anno prima durante il priorato e l'intervento del 1 9 giugno costarono cari a Dante: ai primi di novembre Carlo di Valois, nominato da Bonifacio VIII "paciere" generale della Toscana, consentì a tutti i Neri esiliati di rientrare in Firenze. Ne seguirono saccheggi e vendette politiche: fu insediato un nuovo podestà, ovviamente straniero ma alleato con i Neri, che condannò ingiustamente Dante prima al confino e poi a morte. I Neri schiacciarono i Bianchi grazie a una legge speciale: quella che consentiva, contrariamente alla normativa precedente, un'indagine d'ufficio (cioè senza preventiva denuncia) sui priori degli ultimi due anni, benché essi fossero già stati sottoposti a regolari verifiche allo scadere del loro mandato. Uno di quei tanto sottili provedimenti tipici della turbinosa repubblica fiorentina allontanò per sempre Dante dalla sua amata città.43
Così funzionava la lotta politica a Firenze e in altri Comuni: le forze sociali (i magnati, il popolo, le Arti ) , e politiche (guelfi e ghibellini, Neri e Bianchi, il partito-popolo) , si combattevano con la violenza fisica (non si contano gli scontri armati e gli omicidi) e con la strumentalizzazione delle istituzioni, come diremmo oggi. Per controllare la città si creavano nuovi organi di governo che esautoravano i vecchi (come il priorato e il gonfaloniere) , si promulgavano leggi speciali (quella che colpì Dante) , si perseguiva la morte civile dell'avversario attraverso la confisca dei beni e l'esilio, oppure escludendolo dalle cariche pubbliche di diritto (i magnati nel 1293 ) e di fatto (i Neri nel periodo dell'impegno politico di Dante) .
È evidente che la Firenze duecentesca non corrisponde al nostro ideale di democrazia. Tuttavia, bisogna riconoscere che nella nostra epoca non mancano nel mondo i regimi "democratici" con ca-
43 Nel VI canto del Purgatorio Sordello da Goito rimprovera a Firenze di modificare continuamente le sue leggi: «te, che fai tanto sottili l provedimenti, ch'a mezzo novembre l non giugne quel che tu d'ottobre fili» (vv. 142-144).
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ratteristiche analoghe. Quello che è importante sottolineare è che, a differenza di quanto avviene oggi nelle democrazie mature, la violenza e l'instabilità delle istituzioni erano la normalità nei Comuni italiani del XII-XIII secolo. La via d'uscita a tale condizione maturò lentamente, e in maniera diversa nei vari Comuni italiani: riduzione della violenza e stabilità istituzionale si raggiunsero mediante il passaggio a un regime autocratico (la signoria cittadina, come i Visconti a Milano) o oligarchico (come a Venezia e a Firenze: una tappa importante furono proprio gli Ordinamenti di giustizia) , dunque mediante la fine del Comune come forma di governo collettivo !
Ma facciamo un'ultima osservazione sul nostro verbale: si noti che Dante non è qualificato dall'appellativo dominus o ser, tipico dei dottori e dei cavalieri. In effetti egli non era né l'uno né l'altro. Non aveva studiato all'università (teologia o diritto) , non era un notaio, non era un medico, anche se per accedere alle cariche politiche dovette iscriversi ali' arte dei medici e degli speziali (chi vende spezie e preparati medicinali) , non era un mercante, un "borghese" (ma questo termine è inopportuno, come abbiamo detto) , né infine u n nobile, come lui stesso ammette quando richiama la poca nostra nobiltà di sangue a proposito del suo antenato Cacciaguida, che fu cavaliere (Par. XVI, 1 ) . Per estrazione sociale e per attività egli non rientrava insomma nei gruppi egemoni del Comune: professionisti delle armi (nobili) , del denaro (mercanti), del diritto (giudici, notai) . Era un semplice cittadino, un cittadino abbastanza agiato per le proprietà che possedeva (terre, case) , ma non particolarmente ricco.
Grazie al Comune di popolo, anche Dante, che - pur vicino ai Bianchi - non condivideva in realtà gli interessi di nessuna delle fazioni in lotta né apparteneva alle vere élite dirigenti del Comune, poté accedere alle cariche più alte e mettere alla prova le sue capacità. Si calcola che, nella fase popolare, partecipavano alla vita politica del Comune il 25 % circa della popolazione maschile (donne e stranieri erano comunque esclusi) , una percentuale molto alta se si pensa che prima del suffragio universale maschile (che in Italia si ebbe nel 19 1 1 ) votavano soltanto i cittadini istruiti o con un determinato reddito.
Dunque il Comune medievale, fatte le debite precisazioni, fu una democrazia.
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Medioevo: ùtruzioni per l'uso
3 .8 Il capitalismo medievale in una lettera di cambio (la fonte contabile)
Francesco Datini fu un importante mercante di Prato, morto nel 14 10. Egli merita un posto particolare nella storia dell'economia bassomedievale non solo per la vastità delle sue attività bancarie, finanziarie, commerciali, ma soprattutto perché il suo archivio, costituito da decine di migliaia di pezzi, ci è giunto pressoché integro (è oggi custodito nell'Archivio di Stato di Prato) . In esso si trova una lettera di piccole dimensioni, una semplice strisciolina di carta, che così recita:
[ l ] t Al nome di Dio, a dì 5 di febrao 1410
[2] Pagate, per questa prima lettera, a dì 16 vista, a Guirardo Catani, libre quatrociento otantatre, soldi dodixi, denari cinque, cioè l b. 483 , s . 12 , d. 5 barzelonesi; sono per franchi 617 , soldi 7 , denari 8 a oro, avuti da noi stesi, a soldi 15 denari 8 per franco. [3] Fatene buon pagamento e ponete a conto di Bartolino di Nicolao Bartolini di Pari xi. [ 4] Cristo vi guardi. [5] Pagate a dì sedici vista.
[6] Antonio di Neve, di Monpulieri, salute.
La lettera era in origine chiusa, era stata cioè ripiegata più volte fino a raggiungere la forma di un piccolo rettangolo di carta bloccato da un sigillo di cera. In passato non si usava infatti la busta per la corrispondenza epistolare: l ' indirizzo era segnato sul retro del foglio, sulla parte esterna, come si fa ancora oggi per comunicazioni di rilievo giuridico (per esempio lettere raccomandate piegate su se stesse e spillate: in questo modo il destinatario non può negare di aver ricevuto proprio quella comunicazione) . Nella lettera che presentiamo l'indirizzo era: «Francesco di Marcho da Prato, in Barzalona». Non ci sono altre indicazioni (via, numero civico, nazione) , superflue perché la lettera era recapitata da corrieri privati, al servizio dei mercanti o dei governi. Essi sapevano benissimo dove trovare il destinatario, oppure lo venivano a sapere facilmente sul posto. L'indirizzo è seguito da un particolare segno identificativo del mittente, Antonio di Neve. Questi scrive da Montpellier, in Linguadoca (Francia) , a Barcellona, in Catalogna (Spagna) , dove a ricevere la lettera non fu Francesco Datini in persona (Francesco di Marcho da Prato) , che viveva allora a Pra-
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Le fonti e i metodi
to, ma la sua azienda con sede in quella città, la compagnia Datini di Barcellona. Datini aveva infatti una rete di società (compagnie erano dette le società commerciali e compagni i soci) sparse in città di mezza Europa: società che svolgevano attività creditizia (come banchi) e commerciale (come/andaci, parola che vuoi dire "magazzino" ) , importando ed esportando in proprio e per conto di altri.
Anche Antonio di Neve era un mercante-banchiere. La sua lettera ha la stessa struttura di una lettera privata: come in molte scritture del Medioevo e dell'età moderna, non mancano i richiami alla fede: in alto, al centro del foglio, si legge l'invocazione a Dio, simbolica (la croce) e letterale (Al nome di Dio [ 1 ] ) , seguita dalla data, analogamente al diploma di Ottone I (§ 3 .4: la posizione e le formule sono in sostanza le stesse) . La breve comunicazione si chiude con un augurio (Cristo vi guardi [ 4] ) che per molti secoli è stato usato nella corrispondenza epistolare, e che oggi sarebbe inopportuno in una lettera d'affari.
Rispetto a una lettera privata, manca l'allocuzione al destinatario (oggi sarebbe Caro . . . , Egregio . . . ) , perché questa non era una lettera comune, come tante scritte da Antonio di Neve per affari o per ragioni personali e familiari, ma era un lettera "specializzata" , secondo l a definizione di Federigo Melis, uno dei più importanti storici economici del Novecento.
Si tratta infatti di una lettera di cambio: un documento che rendeva possibile il trasferimento di denaro a distanza. Oggi queste funzioni sono effettuate dalle banche mediante documenti, elettronici e cartacei, grazie a reti informatiche cui ciascuno di noi può accedere in una certa misura mediante un bancomat, una carta di credito, una connessione al web. Il nostro sistema bancario, basato sul collegamento tra diversi istituti, risale proprio al Medioevo e a mercanti-banchieri come Antonio di Neve e Francesco Datini. Non esisteva infatti nulla di simile nell'antichità. In questo caso, dunque, la ricerca delle origini non è insensata (vedi § 2.6) , perché sappiamo esattamente quando (secoli XIII-XV) e dove (in Italia) nacquero la banca moderna, una " infrastruttura" indispensabile dell'economia attuale, un elemento fondamentale del capitalismo occidentale.
Ma cerchiamo di capire quale operazione venne effettuata con la lettera del 5 febbraio 14 10, che, come è subito evidente, è scritta
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Medioevo: istruzioni per l'uso
in un linguaggio tecnico, non del tutto comprensibile a una prima lettura, anche se si tratta di volgare toscano, dunque della nostra lingua italiana.
Da Montpellier Antonio di Neve spicca un ordine di pagamento a distanza (Pagate . . . a Guirardo Catani [2] ) a favore di tale Gerardo Cattani, un mercante lucchese residente a Barcellona, beneficiario dell'operazione, il quale ritirerà il denaro presso il banco Datini di Barcellona, a cui appunto è indirizzata la lettera. La somma trasferita al Cattani per il tramite dei due banchieri, di Neve e Datini, è espressa in due differenti monete: la lira di Barcellona, e il franco del regno di Francia, l'una e l'altro indicati con i sottomultipli (libre quatrociento otantatre soldi dodixz; denari cinque . . . sono per franchi 61 7, soldi 7, denari 8 [2] ) . Ecco perché la lettera è detta di cambio: l'operazione effettuata è, in primo luogo, un cambio tra due valute (sono per) . Il tasso di cambio è infatti regolarmente indicato (a soldi 15 denari 8 per /ranco [2] ) ed è comprensivo dei costi dell'operazione, quelli che oggi si intendono sotto il termine di " commissione bancaria" . Si noti che la somma è indicata prima in lettere e poi è ripetuta per sicurezza in numeri, introdotti dal cioè: si tratta di una regola che rispettiamo anche noi, per esempio quando compiliamo un bollettino postale o un assegno, dove bisogna scrivere l'importo due volte, in lettere e in numeri.
L'ufficio postale che accetta il nostro bollettino e la banca che ci ha dato un libretto di assegni perché siamo titolari di un conto corrente presso di essa svolgono le stesse funzioni dei mercantibanchieri medievali. Una banca, oltre a custodire il nostro denaro, fa da intermediaria per trasferirlo in altre parti d'Italia, oppure, mediante operazioni specifiche (bonifico bancario, pagamenti e prelievi mediante carta di credito o bancomat internazionale) , in altre parti del mondo e quindi in valute diverse dall'euro. Non è quindi Antonio di Neve a disporre da Montpellier un versamento al lucchese Cattani, ma un suo cliente, il Bartolino Bartolini di Parigi citato alla fine del testo (Bartolino di Nicolao Bartolini di Parixi [3 ] ) , il quale aveva versato la somma a Antonio di Neve, come questi dichiara (avuti da noi stesi [3 ] ) . Anche Bartolini era un mercante: egli conosceva bene la compagnia Datini di Barcellona, perché vi aveva lavorato in un ruolo subalterno dal 1404 al 1406, quando si era messo in proprio.
Sono dunque quattro i soggetti di questa, come di qualsiasi let-
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Le fonti e i metodi
tera di cambio, tutti imprenditori italiani, come diremmo oggi: il datore (Bartolini) , cioè colui che versa il denaro, nella piazza di Montpellier; il prenditore o traente (Antonio di Neve) , che riceve (prende) la somma in Montpellier e scrive la lettera di cambio (trae) ; il beneficiario (Cattani) , che preleva la somma, in valuta locale, a Barcellona, presso il pagatore o trattario (Datini) , cioè colui che riceve la lettera di cambio e paga il beneficiario, secondo il seguente schema:
prima piazza (Montpellier) datore -----.. prenditore o traente l
seconda piazza (Barcellona) beneficiario ....,.._
movimento del denaro
- · - · _,. movimento della lettera di cambio
+ . pagato re o trattano
Grazie alla lettera di cambio era anche possibile mettersi in viaggio senza portarsi appresso i contanti: in questo caso datore e beneficiario erano la stessa persona, che versava in una località e prelevava in un'altra.
L'operazione comportava un guadagno per gli istituti bancari, corrispondente al costo dell'operazione che abbiamo detto essere compreso nel cambio. L'indicazione a dì 1 6 vista [2] significava che la lettera doveva essere pagata 16 giorni dopo la sua ricezione (dopo che era stata vista ) . Nell'originale, a vista è aggiunto nell'interlineo, su a usanza (secondo il solito) depennato. Le varie piazze commerciali rispettavano infatti convenzioni che si erano create spontaneamente: tutti i mercanti sapevano qual era l 'usanza di Barcellona, diversa da quelle di altre città. Ma in questo caso, Antonio di Neve ci ripensò e volle indicare esattamente il termine a partire dal quale bisognava cambiare la sua lettera. Forse ciò dipendeva dall'andamento dei cambi tra le varie valute (cioè dalla "borsa valori " ) . Spesso, infatti, prima di inviare la lettera di cambio si prendevano informazioni, magari spedendo un'altra lettera a Barcellona.
La differenza spaziale e temporale (il pagamento avveniva in un
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Medioevo: istruzioni per l'uso
altro luogo e dopo un certo periodo di tempo) rese la lettera di cambio uno strumento assai versatile per gli usi più diversi: dunque non solo per gestire il commercio internazionale evitando il trasporto materiale del denaro e velocizzando le transazioni, ma anche per pagare un creditore su una piazza in cui il costo del denaro era inferiore, oppure per dilazionare la restituzione di un prestito. Tra Avignone, Barcellona, Firenze, Napoli, Venezia e tante altre località nacque, a partire dalla fine del XIV secolo, un'intensa circolazione di lettere di cambio, oltre che di merci. Circolazione commerciale e creditizia integrarono quei mercati, che divennero un unico, grande mercato "globale" , anche se quella precoce "globalizzazione" -quasi un'anticipazione di quella attuale - era limitata ad alcuni prodotti e a poche regioni, particolarmente sviluppate, dell'Europa.
Sia nell'antichità che nell'alto Medioevo c'erano individui specializzati nel prestito e nel cambio delle monete (cambiavalute, banchieri) , che veniva effettuato sulla base del valore reale della moneta, cioè sulla base del metallo prezioso che essa conteneva (oro, argento) . Il sistema bancario del basso Medioevo è molto più raffinato, e per diversi motivi. I 617 franchi che Bartolini versa a Cattani (non sappiamo per quale motivo) non si spostano da Montpellier a Barcellona: dimentichiamo i mercanti che viaggiano a dorso di mulo con sacchi pieni di monete d'oro. Ormai nelle principali piazze commerciali europee avevano sede banche di diversi operatori, in contatto tra loro come la compagnia di Antonio di Neve e quella di Datini. Il trasferimento di denaro era virtuale, esattamente come oggi, e ciò facilitava commerci e operazioni finanziarie per importi molto superiori a quello delle monete effettivamente possedute dagli operatori.
Tutto era basato sulla fiducia reciproca: gli operatori si conoscevano e si fidavano l'uno dell'altro, tanto da tirar fuori somme di denaro in cambio di un foglietto di carta. Si rifletta su questo punto: la fiducia reciproca, la certezza che il proprio collega rispetterà l'impegno preso regge tutto il sistema, un sistema sviluppatosi lentamente nei mercati europei, attraverso i contatti tra gli operatori, a ttraverso crisi, fallimenti di singoli imprenditori, soluzioni tecniche come la lettera di cambio. Un sistema che si era dotato di regole da solo, non a seguito di decisioni prese da una qualche istituzione.
La lettera di cambio era infatti un documento con immediati effetti giuridici, anche se non era emessa né da un'autorità pubblica
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Le fonti e i metodi
né da un notaio: ai mercanti bastava riconoscere la mano del proprio collega (la lettera era infatti autografa) e il suo particolare segno identificativo. I primi contratti di cambio (perché quest' operazione è, dal punto di vista giuridico, un contratto tra due parti) erano stipulati da un notaio. A partire dalla fine del XIII secolo, invece, i mercanti si resero autonomi: l 'enorme quantità di transazioni effettuate ogni giorno rendeva improponibile il ricorso al notaio. Naturalmente, era necessario un sistema di compensazione tra chi incassava a Montpellier (Antonio di Neve) e chi pagava a Barcellona (Datini) . E infatti i mercanti elaborarono un originale e complesso sistema di registrazioni contabili, antenato della contabilità aziendale attuale.
Sia Antonio di Neve che la compagnia Datini di Barcellona registrarono l 'operazione che stiamo analizzando nei propri libri. Abbiamo, nell'Archivio di Stato di Prato, il registro della compagnia Datini: un Libro grande nero segnato B, come veniva chiamato. Al
la carta 1 16 verso44 dedicata a Bartolini si legge:
Bartolino di Nicholayo e conpagni, abitanti in Parigi, deono dare, a dì prosimo, dì 3 di marzo, l b. quatrocientoottantatrè s. dodici d. 5, ci trasse per loro, da Monpulieri, Antonio di Neve in Gherardo Chattani; e per lui li demo, chome disse, a lachopo Aciettanti, a dì 6 detto, e per noi li disse la Tavola de la Città, in questo, c. 1 14,
lb . 483 , s. 12 , d. 5
Nel medesimo linguaggio formalizzato della lettera di cambio, un linguaggio in cui ogni parola, ogni singola preposizione ha un preciso e inequivoco significato, viene registrato un addebito sul conto corrente dell'azienda di Bartolino di Nicholayo e conpagnz; abitanti in Parigi. Essi deono dare, sono cioè debitori della somma che già conosciamo, secondo la lettera di cambio che viene citata con tutti i soggetti coinvolti: ci trasse per loro, da Monpulierz; Antonio di Neve [ = il traente] in Gherardo Chattani = [il beneficiario] .
44 Nei manoscritti e nei primi libri a stampa si numerava generalmente soltanto la pagina di destra. Il retro (o verso) della carta non aveva un numero proprio. Per questo un manoscritto di 200 carte contiene in realtà 400 pagine. Per distinguere le due pagine con lo stesso numero si aggiunge al numero la parola latina recto, abbreviata in r, per la pagina davanti; verso o v, per la pagina di dietro, indicata anche con t (= tergo) .
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Medioevo: istruzioni per l'uso
Quest'ultima frase significa: «secondo la lettera di cambio che ci inviò da Montpellier Antonio di Neve, con beneficiario Cattani». L'addebito sul conto era stato correttamente richiamato, del resto, dalla stessa lettera di cambio (ponete a conto di Bartolino [3 ] ) . Insomma, il conto corrente di Bartolini ha qui registrato un passivo, mentre nei registri di Antonio di Neve gli viene segnato un attivo, poiché lì egli ha versato la somma.
Ma la registrazione continua: per comprenderla dobbiamo tornare alla lettera di cambio, la quale conteneva, oltre al testo sopra riportato [ 1 -6] , le seguenti note, di differenti mani:
[7] Aciettata, di 15 febrayo 1409. [8] Io, Gherardo Chattani, sono contento che de' soprascritti danari ne faciate la volontà di Iachopo Aceptanti.
E, sul retro, al di sopra dell'indirizzo:
[9] Io, Iacopo Acettati, son contento ch'e' ditti danari date per me a 'Ndrea de' Pazi e conpagni. Chassata. [ 1 0] Prima.
Chiariamo subito che prima [ 10] significa che per sicurezza la lettera era stata spedita in due copie, di cui questa era la prima (anche nel testo si diceva Pagate, per questa prima lettera [ 1 ] ) . La registrazione [7] è di mano del vicedirettore del fondaco Datini di Barcellona, il quale accettò la lettera. Una lettera di cambio poteva anche essere rifiutata, protestata, si diceva, con lo stesso vocabolo che si usa oggi quando una banca si rifiuta di cambiare un assegno. La compagnia Datini di Barcellona avrebbe potuto infatti rifiutare il pagamento nel caso in cui il datore o il traente non fossero stati affidabili, oppure nel caso in cui l'operazione non fosse stata conveniente per ragioni di mercato. La lettera di cambio, protestata, sarebbe tornata indietro a Montpellier, con aggravio di spese. I protesti erano verbalizzati in atti notarili, che assicuravano la pubblicità.
Si noti che l 'accettazione è datata 15 febbraio 1409, mentre la lettera portava la data del 5 febbraio 14 10 . Non è un errore. La lettera ha impiegato 1 0 giorni da Montpellier a Barcellona, nel febbraio 14 10 . Il banco Datini usa la datazione secondo lo stile di Firenze, dove si faceva iniziare l'anno non il l o gennaio, ma tre mesi più tardi, nel giorno in cui il calendario liturgico stabiliva che
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Le fonti e i metodi
si fosse verificata l'incarnazione di Gesù; il suo divino concepimento nel grembo di Maria, cioè il 25 marzo (nove mesi esatti prima della nascita, il 25 dicembre).4' Avevamo accennato ai problemi della cronologia medievale (pp. 93 -94) : ecco un altro esempio di quanto fossero diversi i modi di misurare il tempo. L'anno iniziava in momenti diversi nelle varie località dell'Europa, non sempre il 1 o gennaio (che pure è una data particolare del calendario liturgico, quella della circoncisione di Gesù) . A Firenze e nel banco Datini di Barcellona il 1410 sarebbe cominciato il successivo 25 marzo, mentre fino al 24 marzo i fiorentini avrebbero continuato a datare 1409. In un documento fiorentino il 15 febbraio 1410 corrisponde al 15 febbraio 14 1 1 del nostro calendario.
È complicato, non c'è dubbio, anche se a quel tempo tali differenze non ponevano problemi, come a noi non pongono problemi le differenze di fuso orario tra le varie parti del globo. Ogni luogo aveva i suoi usi cronologici, le sue monete, le sue unità di peso e di misura, che i mercanti impararono a gestire perfettamente. Del resto, essi erano i principali responsabili del contatto tra ambiti territoriali, giuridici ed economici diversi. Quando si intensificarono i commerci, tutte queste differenze non furono affatto abolite, e non potevano esserlo, perché i contatti nacquero e si svilupparono spontaneamente, non per conquista politica o per accordi commerciali.
Nell'Otto-Novecento, in una situazione tanto diversa dal Quattrocento, la standardizzazione del calendario e delle unità di peso e di misura non è stata affatto semplice. La Russia, prima della rivoluzione, rifiutava il calendario in uso nel resto dell'Europa, che era più avanti di dieci giorni (la rivoluzione d'ottobre si verificò in novembre) , la Gran Bretagna è rimasta a lungo fedele al sistema duodecimale (a base 12) in luogo di quello decimale.
La diversità di unità di misura coinvolgeva anche le monete. A quel tempo, infatti, le valute circolavano liberamente, anche oltre i confini delle autorità emittenti. A Barcellona si poteva pagare un prodotto in monete locali (diners de tern di rame, croats d'argento, fiorini barcellonesi d'oro) o anche in una qualsiasi altra moneta: du-
4' A Barcellona si faceva cominciare l'anno il giorno di Natale, dunque con sette giorni di anticipo rispetto al l o gennaio, di contro al posticipo di tre mesi dei fiorentini.
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Medioevo: istruzioni per l'uso
cati veneziani, lire di Tours, provesini francesi, fiorini fiorentini. Oggi, tranne eccezioni (le basi NATO e USA) , non si può pagare in dollari se ci si trova sul territorio italiano, ma bisogna appunto cambiare la valuta statunitense in euro (fino al 2001 in lire) . I mercanti-banchieri convertivano tutte le monete reali in monete convenzionali, che permettevano loro di fare i conti. Le lire o libbre, i soldi e i denari barcellonesi indicati nella lettera di cambio come valuta in cui va pagato Gerardo Cattani sono dunque monete fittizie, immaginarie, con rapporti fissi tra multipli e sottomultipli, secondo un sistema che risale all'età carolingia ( l lira = 20 soldi, l soldo = 20 denari) . La lira non era mai stata coniata, neppure ai tempi di Carlo Magno, quando già serviva soltanto come moneta di conto. Tutte le operazioni erano registrate in monete di conto, la cui corrispondenza con le monete reali cambiava nel tempo, a seconda dell'andamento del mercato (per esempio, a metà Quattrocento un croat, moneta coniata, valeva 15 denari di moneta di conto) . In più, ogni area usava le sue monete di conto: la Francia il franco, la Catalogna la lira. La lettera ordinava dunque un cambio tra due monete di conto.
Rileggiamo la seconda registrazione in calce alla nostra lettera:
[8] Io, Gherardo Chattani, sono contento che de' soprascritti danari ne faciate la volontà di lachopo Aceptanti.
Gerardo Cattani scrive, probabilmente di suo pugno, che la somma accreditatagli dalla lettera di cambio va girata a un'altra persona, Jacopo Accettanti, un altro mercante. Si tratta, in assoluto, della prima attestazione della girata cambiaria, che consentiva di passare ad altri la somma ricevuta utilizzando lo stesso titolo (cioè questo stesso documento) , come si fa oggi firmando sul retro di un assegno bancario, sotto la dicitura GIRATE. La naturalezza con cui la girata viene accettata fa pensare che era già una pratica abbastanza diffusa. Essa velocizzava ulteriormente i passaggi virtuali di denaro. Anzi, i passaggi sarebbero dovuti essere tre, perché Jacopo Accettanti aveva deciso di girare a sua volta la somma a un terzo beneficiario, la compagnia fiorentina dei Pazzi, corrispondente a Barcellona del banco Medici di Firenze (Io, Iacopo Acettatz; sono contento ch'e' ditti danari date per me a 'Ndrea de' Pazi e conpagni [9] ) , se non fosse che quest'ultima operazione fu annullata (Chassata viene scritto, e la girata di Accettanti viene depen-
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Le fonti e i metodi
nata) . Infatti, nel citato Libro grande nero segnato B della compagnia Datini di Barcellona viene scritto: e per lui [Gerardo Cattani] li demo, chome disse, a Iachopo Aciettantz; a di 6 detto, e per noi li disse la Tavola de la Città. Si tratta della registrazione della sola prima girata, da Cattani a Accettanti, il quale viene pagato non dal banco Datini, ma dalla Banca pubblica di Barcellona (la Tavola de la Città) , che materialmente versa la somma, divenendo contemporaneamente creditrice del banco Datini. La registrazione si conclude infatti con un rinvio alla carta 1 14 del libro grande dedicata alla banca pubblica di Barcellona, dove è segnata in attivo la somma giunta da Montpellier (La Tavola della città de' avere: è un accredito, si dice de' avere invece di de' dare segnato sul conto di Bartolini) .
I l movimento finanziario è, in sintesi, il seguente.
___ Q_Q_erato�i _
Bartolini
Istituti Bancari
� Compagnia Antonio di Neve a Montpellier: riceve il denaro da Bartolini e spicca la lettera in favore di Cattani
Cattani .....:- - _ .,.._ Compagnia Datini a Barcellona:
Accettanti """"
riceve la lettera, accetta la girata di Cattani in favore di Accettanti, paga tramite la banca pubblica di Barcellona
l
• Banca pubblica di Barcellona: versa ad Accettanti l'importo
Ci si potrebbe chiedere perché tutta questa complicazione. Essa è la stessa di oggi: un sistema creditizio e commerciale maturo è caratterizzato da una molteplicità di operatori e di istituti in rapporto tra di loro e da un'estrema circolazione virtuale del denaro. Ciascuno dei soggetti ha un conto aperto con gli altri: Cattani, che non era un abituale frequentatore di Barcellona, approfitta della lettera di cambio ricevuta su quella piazza per estinguere un debito che aveva con Accettanti (evitando così i costi di un altro tra-
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Medioevo: istruzioni per l'uso
sferimento finanziario) , mentre il banco Datini aveva evidentemente un credito nei confronti del Banco pubblico di Barcellona, attraverso il quale liquida il secondo beneficiario.
A cosa serve un'informazione del genere, tra l'altro acquisita mediante una faticosa analisi delle tecniche contabili e dello specifico linguaggio mercantile? In passato molta documentazione contabile, privata e pubblica, è andata dispersa o è stata addirittura distrutta, proprio perché si riteneva non utile per la ricerca storica, generalmente interessata ai fatti politici e culturali. Singole registrazioni hanno talvolta attratto l'attenzione degli studiosi perché riguardavano opere d'arte pagate attraverso i banchi. L'interesse di una fonte contabile non si esaurisce però nelle eventualità di questo tipo. In primo luogo, uno studio complessivo del sistema di scritture e delle tecniche di calcolo elaborate dai mercanti (libri mastri, libri-giornale, libri di cassa, lettera di cambio, partita doppia, ammortamento - per fare solo alcuni esempi) permette di ricostruire la storia della banca, e con essa del capitalismo medievale in genere. La raffinatezza degli strumenti creati dai mercanti-banchieri per misurare, comparare, valutare, registrare, controllare la multiforme realtà economica che essi vivevano è sintomo di una forte razionalità. Sarebbe superfluo insistere qui su quanto la razionalità economica sia un elemento caratteristico della civiltà occidentale.
In secondo luogo, le infinite serie di dati contenuti nelle scritture contabili (che come abbiamo visto sono collegate tra loro) possono essere trattate statisticamente, al fine di ricostruire la storia della produzione, del commercio, della finanza bassomedievali. A differenza di oggi, infatti, le operazioni registrate dai mercantibanchieri contenevano la causale delle stesse, che nel nostro esempio manca. Veniva cioè specificato il motivo per il quale si effettuava un certo movimento: la merce che si comprava, il servizio che si retribuiva, il prestito che si restituiva, la spedizione commerciale che si assicurava.
Anche altre fonti scritte bassomedievali hanno le medesime caratteristiche di abbondanza e serialità, e vanno quindi utilizzate con metodi quantitativi,46 mediante operazioni di classificazione e
46 Il metodo quantitativo consiste nello sfruttamento delle fonti per la costruzione di serie omogenee di dati numerici, con elaborazione di grafici, tabelle, statistiche. Non tutte le fonti consentono un approccio quantitativo.
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Le fonti e i metodi
trattamento statistico dei dati: mi riferisco per esempio alle fonti demografiche e fiscali ( i censimenti si eseguivano sempre per ragioni fiscali ) .
Abbiamo visto che i soggetti coinvolti nella nostra lettera di cambio sono tutti mercanti-banchieri italiani, professionisti del denaro. Interviene anche una banca pubblica, gestita dall'amministrazione cittadina di Barcellona, piazza mercantile molto evoluta. Il sistema creditizio era però a disposizione anche di altri clienti, in primo luogo lo Stato, nel senso che imperatori, re e altre autorità territoriali si rivolgevano abitualmente ai mercanti banchieri per ottenere cospicui prestiti, per trasferire il proprio denaro, in uscita (stipendi per funzionari, acquisti di beni, condotte militari ecc.) e in entrata (prelievi fiscali) . Per combattere contro il re di Francia, nell' ambito della guerra dei cent'anni, il re d'Inghilterra si fece prestare somme assai ingenti dai mercanti italiani, in particolare i Bardi e i Peruzzi, che non riuscì a rimborsare. Così, nel 1 343-45 quei banchi fallirono, senza alcuna via d'uscita (non esisteva nessuna forma di wel/are state per lavoratori e aziende47 ) . Tuttavia, il sistema era così forte che non crollò, e furono presto individuate le soluzioni per prevenire casi analoghi, come la separazione delle sedi, che da allora ebbero ragioni sociali diverse, in modo che il fallimento di una sede (la compagnia Datini di Barcellona, società autonoma) non coinvolgesse la casa-madre Oa compagnia Datini di Prato) .
Non c'è una delle guerre scoppiate tra i l XIII e i l xv secolo ( e oltre, naturalmente) che non sia stata finanziata dai mercanti-banchieri, gli unici in grado di assicurare un servizio efficiente di prestiti e di trasferimenti di denaro. Non c'è un edificio monumentale delle città europee che non sia stato costruito grazie a loro. Questo si intendeva definendo il sistema bancario una " infrastruttura"
47 Oggi lo Stato condiziona in molti modi l'attività di grandi istituti finanziari e aziende pubbliche e private, intervenendo talvolta in caso di crisi o fallimento, sia perché lo Stato ha creato degli organismi di controllo e riequilibrio del mercato Oe varie autorità per la concorrenza, la Consob che controlla le società quotate in Borsa, la Banca d'Italia ecc.), sia perché nessun governo può disinteressarsi della situazione economica e del destino dei lavoratori. Si tenga presente, a sottolinare l'enorme differenza tra il mercato nel basso Medioevo e oggi, che ogni aspetto dell'attività economica è ora regolamentato da normative statali o interstatali (i contratti di lavoro, la normativa sulla sicurezza, il diritto commerciale) .
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Medioevo: istruzioni per l'uso
indispensabile, della cui importanza non ci rendiamo quasi conto perché la sua esistenza ci sembra ovvia. Invece, le molte aree regionali che non erano coperte dalla rete delle banche nel Medioevo (come le poche che non lo sono oggi nel globo terrestre) erano tagliate fuori dai grandi commerci internazionali, restando a un livello economico molto inferiore. I mercanti-banchieri bassomedievali (che abbiamo definito, con termine più ampio, imprenditori) integrarono fortemente alcune regioni dell'Europa e del Mediterraneo creando un "sistema-mondo" organico, in cui tutti i soggetti erano interdipendenti, secondo la definizione di uno studioso statunitense (lmmanuel Wallerstein) .
Il mercante-banchiere del basso Medioevo fu un innovatore non solo dal punto di vista dell'economia e della mentalità, ma anche da quello della cultura, una cultura laica che comunicava in volgare. Nelle loro città i mercanti organizzarono proprie scuole per l'istruzione primaria (leggere, scrivere e far di conto), mentre la formazione tecnica avveniva mediante il tirocinio in un'azienda, dove i figli dei mercanti cominciavano a lavorare già a 10-12 anni, magari all'estero. Giovanni Boccaccio, per esempio, venne a Napoli proprio per quello che oggi definiremmo uno stage presso la banca Bardi Oa stessa che fallì ) . I primi manuali di economia aziendale e di diritto commerciale sono stati scritti dai mercanti, che raccolsero nei libri di mercatura regole generali e dati particolari: sulle monete, sui cambi, sulle usanze, sul fisco, sulle merci, sull'andamento dei mercati ecc.
La ricchezza dei mercanti-banchieri italiani ha stimolato la produzione letteraria (sono tanti i manoscritti della Commedia dantesca copiati per loro), ma soprattutto ha conformato le istituzioni politiche e l'aspetto materiale delle città comunali. Le meravigliose architetture, le splendide opere d'arte delle città italiane, studiate in tutto il mondo e ammirate da milioni di turisti, testimoniano ancora oggi quali straordinarie ricchezze avessero accumulato famiglie come i Medici e i Pazzi di Firenze (che abbiamo incontrato nella nostra lettera di cambio), quanta eccezionale capacità imprenditoriale essi ebbero.
Quando Dante lanciava le sue invettive contro Firenze, donna di bordello perché non accettava di sottomettersi all'autorità imperiale, egli non comprendeva (o forse non gli interessava sapere) che i disordini politici della città, le ininterrotte lotte tra fazioni
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Le fonti e i metodi
potevano forse essere considerati un segno di decadenza morale, ma non erano certo un segno di decadenza economica. Gli scontri erano feroci perché la posta in gioco era davvero cospicua: controllare Firenze significava controllare il centro economico e finanziario del mondo d'allora, come ben sapeva Bonifacio VIII, il quale, quando Carlo di Valois, il paciere da lui inviato a Firenze contro i Bianchi (§ 3 .7 ) , gli chiese un sussidio economico, gli rispose che non ce n'era assolutamente bisogno, perché lui (il papa) , aveva messo Carlo «nella fonte dell'oro» ! 48
48 «Poi che messer Carlo di Valois ebbe rimesso Parte nera in Firenze, andò a Roma: e domandato danari al Papa, gli rispose che l'avea messo nella fonte dell'oro», Dino Compagni, Cronica delle cose occorrenti ne' tempi suoi, II, 25.
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Conclusioni
Gli studenti andati male all'esame di storia medievale, alla ricerca di una giustificazione del loro insuccesso, lamentano spesso la difficoltà di ricordare tanti nomi e tante date, come abbiamo osservato nella Premessa. Al contrario, i manuali universitari non sono affatto un accumulo di nozioni da memorizzare. Gli autori sono sempre molto attenti a evidenziare le questioni più importanti, a chiarire i punti più difficili, a fornire interpretazioni equilibrate, a distinguere tra generalizzazioni e casi particolari, né mancano i riferimenti alle fonti e al dibattito storiografico. Il guaio è che lo studente inesperto legge tutto di seguito, cercando semplicemente di fissarselo nella mente, senza fare le speculari operazioni di comprensione, selezione, approfondimento (non si dimentichi il consiglio di avere sempre a portata di mano un atlante storico e un dizionario, meglio se del Medioevo) .
Vediamo alcuni esempi: ecco quattro brani tratti d a manuali molto diffusi nell'università, corrispondenti ad altrettanti argomenti affrontati nel cap. 3 :
Gli effetti dell'invasione longobarda (vedi § 3 .2 )
[I duchi longobardi] , dopo la scomparsa di Alboino, vittima di una congiura (572), e del suo successore Clefi (574) rinunciarono per ben dieci anni (574-584) a darsi un nuovo re. È il periodo della cosiddetta anarchia militare, in cui le condizioni di vita della popolazione latina dovettero essere molto difficili. A tal riguardo, in verità, le fonti sono assai scarse e di ardua interpretazione, per cui gli storici che se ne sono occupati nel corso dei secoli sono pervenuti a conclusioni contrastanti [. . .] Indipendentemente dall'entità delle requisizioni e dal numero dei proprietari che furono uccisi negli anni più duri della conquista [longobarda] , è certo che la popolazione romana, se non fu ridotta in schiavitù, fu nondimeno completamente privata della capacità politica,
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Medioevo: ùtruzioni per l'uso
di conseguenza non esistette altra forma di ascesa sociale che l'inserimento nella società e quindi nella tradizione giuridica dei dominatori. Come ha osservato Paolo Delogu, non ci fu nel regno dei Longobardi il problema dei rapporti con la popolazione romana, intesa come entità giuridicamente autonoma e dotata di propri ordinamenti (Giovanni Vitolo, p. 67 ) .
L'economia altomedievale (vedi § 3 .3 )
Durante i secoli dell'Alto Medioevo si ebbe nelle diverse regioni dell'Occidente una profonda trasformazione delle strutture economiche ereditate dal tardo impero romano; non si trattò di una cesura radicale, della semplice sostituzione di un modello con un altro, totalmente diverso, ma piuttosto di un complicato processo di cambiamento, che partendo dalla situazione propria del mondo antico produsse graduali mutamenti e adattamenti a un quadro che si andava complessivamente modificando, in campo politico, sociale, culturale. I percorsi non furono uguali dappertutto [ .. . ] ; tuttavia appare possibile rintracciare alcuni fenomeni generali, che caratterizzarono il periodo compreso, all'incirca, fra il v e il X secolo. [ . . . ] Le città dei vari regni in cui si frantumò l'Occidente altomedievale si riadattarono in forza della mutata contingenza, innanzitutto sul piano urbanistico. Di fronte a un generale calo demografico, che ne ridusse il numero degli abitanti, i centri urbani rimodellarono i propri spazi e riutilizzarono le strutture ereditate dall'età antica a seconda dei propri nuovi bisogni, concentrando le abitazioni in determinati quartieri, destinando a usi diversi le zone periferiche (per esempio, come cave di materiali da costruzione o come discariche), ritagliando aree specifiche per le attività agricole e per l'allevamento anche all'interno delle mura urbane. Non ci fu nemmeno una perdita generalizzata delle funzioni svolte in passato (Claudio Azzara, pp. 1 17 e 11 9) .
Federico I I e i l Liber Augustalis (vedi § 3 .6)
Non diversamente da quanto stavano facendo altre dinastie regie europee, nel regno di Sicilia Federico [II] rafforzò il potere monarchico, dotandolo di mezzi e strumenti che in passato qualcuno ha voluto addirittura interpretare quasi come un'anticipazione dello Stato moderno, ma che rappresentavano soprattutto il tentativo di imporsi sui feudatari del regno «con un misto di forza e di consenso, anzi più spesso
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Conclusioni
di forza che di consenso - come scrive Salvatore Tramontana [ . . . ]» . Con la collaborazione di giuristi insigni come Taddeo di Sessa e Pier delle Vigne, che divenne il suo più stretto consigliere, costruì, infatti, una legislazione unificata per tutto il regno. La conclusione di questa opera legislativa fu il Liber Augustalis [ . . . ] , un codice di leggi che, rifacendosi al diritto romano e alla legislazione normanna, compiva un passo decisivo per superare il diritto consuetudinario. [. . . ] Le parole con le quali si apre il Liber Augustalis meritano la nostra attenzione. Federico, risalendo fino alla creazione dell'uomo per mano di Dio, si propone come il motore di tutte le attività umane: il principe è il centro, la sua funzione di governo è un dovere ispirato dalla provvidenza divina, è intorno a lui che ruotano la burocrazia, la cultura, l'economia (Gabriella Piccioni, p. 178) .
La contabilità e la banca nel basso Medioevo (vedi § 3 .8)
Nel corso del Trecento si diffusero anche nuovi sistemi di contabilità, come la «partita doppia», che separava in conti diversi le operazioni in dare e in avere, o di pagamento, come la lettera di cambio, una sorta di antenato dell'odierno assegno. Si trattava in ambedue i casi di sistemi che permettevano di gestire i commerci in modo più proficuo. Le nuove esigenze commerciali portarono a un parallelo sviluppo delle attività creditizie, che assunsero una posizione sempre più rilevante non solo nell'ambito dei commerci. Anche i sovrani, impegnati in continue e costose guerre, ricorsero all'aiuto dei banchieri, soprattutto quelli fiorentini, che in poche generazioni erano riusciti a costruirsi una notevole base finanziaria. E furono proprio loro i protagonisti del primo, grande crollo bancario della storia: ciò accadde tra il 1342 e il 1343 , quando l 'insolvenza del re d'Inghilterra Edoardo III e di altri sovrani portò al fallimento alcune delle principali banche fiorentine del tempo (Bardi e Peruzzi) (Massimo Montanari, pp. 243 -244) .
I brani sono fra quelli che uno studente dovrebbe subito identificare come importanti. Nonostante le differenze di stile e di progetto editoriale (il volume di Azzara, per esempio, è molto più contenuto degli altri tre) , i manuali sono tutti chiari e ben costruiti. Ogni parola è stata attentamente soppesata dagli autori, che in poche righe hanno dovuto riassumere una bibliografia enorme. Talvolta, resta traccia di quanto sia stato doloroso rinunciare, per ragioni di spazio e di efficacia didattica, ad approfondire un de-
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Medioevo: istruzioni per l' u.w
terminato argomento: ecco che Azzara, all'inizio del capitolo dedicato all'economia altomedievale, insiste sulla complessità e gradualità delle trasformazioni, di cui non può dar conto dettagliatamente («un complicato processo di cambiamento, . . . graduali mutamenti e adattamenti»: la presenza del termine "complicato" , di cui ho abusato anch'io in questo volume, è significativo) . Ecco che Montanari è costretto a dare una definizione volutamente approssimativa della lettera di cambio («una sorta di antenato dell' odierno assegno») . La brevità e la semplificazione sono una necessità inderogabile per un manuale. Lo studente dovrebbe però considerare che ogni ulteriore semplificazione è impossibile, perché produce errori. Bisognerebbe evitare di dire all'esame che «la lettera di cambio è un assegno», affermazione sbagliata.
Nessuno degli autori si sottrae al compito specifico di chi si rivolge agli studenti: quello di dare in primo luogo una chiara interpretazione dei fenomeni storici considerati, nonostante l'insufficienza delle fonti («le fonti sono assai scarse e di ardua interpretazione», Vitolo) ; l'esistenza di posizioni differenti tra gli storici («gli storici . . . sono pervenuti a conclusioni contrastanti», Vitolo; «qualcuno ha voluto addirittura interpretare . . . », Piccinni) ; le variazioni geografiche dei fenomeni considerati («l percorsi non furono uguali dappertutto [ . . . ] ; tuttavia appare possibile rintracciare alcuni fenomeni generali», Azzara) .
Così Vitolo conclude che con l'invasione longobarda i romani furono emarginati («la popolazione romana, se non fu ridotta in schiavitù, fu nondimeno completamente privata della capacità politica») . Azzara insiste sulla lenta trasformazione delle strutture economiche tra tarda antichità e alto Medioevo («non si trattò di una cesura radicale, . . . ma piuttosto di un complicato processo di cambiamento») e nega la totale decadenza delle città («Non ci fu nemmeno una perdita generalizzata delle funzioni svolte in passato») . Piccinni indica le due novità più rilevanti dell'azione di Federico II: la legislazione ispirata al diritto romano e la concezione della sovranità («costruì . . . una legislazione unificata per tutto il regno . . . rifacendosi al diritto romano», «il principe è il centro, la sua funzione di governo è un dovere ispirato alla provvidenza divina») . Montanari sottolinea l'importanza della contabilità e delle attività creditizie gestite dai mercanti nel basso Medioevo («nuovi sistemi di contabilità . . . permettevano di gestire i commerci in m o-
146
Conclusioni
do più proficuo», le «attività creditizie, . . . assunsero una posizione sempre più rilevante non solo nell'ambito dei commerci) .
Le frasi appena messe tra parentesi sono di quelle che uno studente dovrebbe sottolineare durante lo studio: esse corrispondono a quanto si ricava dalle lunghe considerazioni dei paragrafi 3 .2 , 3 . 3 , 3 .6, 3 .8.
Per correttezza, ma anche per introdurre gli studenti al dibattito storiografico, l 'autore del manuale rinvia talvolta a studiosi che si sono occupati direttamente di un tal argomento (Vitolo ricorda Paolo Delogu; Piccinni cita un passo di Salvatore Tramontana) . Lo studente non deve irritarsi per questi rinvii alla bibliografia: storia e storiografia non sono completamente separabili, come abbiamo visto. Certo, i nomi dei pur importanti studiosi non andranno sottolineati, ma resteranno lì a disposizione, se mai lo studente avesse bisogno di ritornare al manuale come punto di partenza per un ulteriore approfondimento. Tutti i manuali prevedono indicazioni bibliografiche per questo scopo: trovare anche nel testo il nome di Delogu è in sostanza un consiglio a partire da questo studioso per la propria ricerca.
Più bizzarro potrà sembrare allo studente distratto il riferimento alle fonti: nelle parole di Vitolo si riconoscono i famigerati passi di Paolo Diacono (ne sono una parafrasi espressioni come «entità delle requisizioni e [ . .. ] numero dei proprietari che furono uccisi») . I.;Historia Langobardorum è ricordata esplicitamente poco prima del passo citato. Piccinni riassume brevemente il contenuto del Proemio del Liber Augustalis. Come abbiamo visto nei paragrafi 3 .2 e 3 .6, l'Historia Langobardorum e il Proemio sono fonti assolutamente imprescindibili: esse sono richiamate per dare concretezza alle affermazioni fatte, per coinvolgere maggiormente il lettore.
Nonostante la chiarezza dei quattro passi, non sono pochi gli studenti che li fraintendono o semplicemente non li ricordano affatto. La verità è che la comprensione di questioni complesse, che mettono in gioco le categorie mentali del presente, è una operazione molto più difficile della semplice memorizzazione. Imparare a memoria nomi e date è rassicurante, dà l'impressione fallace di sapere qualcosa: è invece soltanto un piccolo segmento dello studio. Nessun libro, inoltre, è tanto perfetto da azzerare lo sforzo di chi lo legge. Chi vuole imparare e comprendere deve infatti compiere uno sforzo, andando oltre la meccanica lettura del manuale,
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Medioevo: istruzioni per l'uso
ricorrendo al docente o ad altri testi, altrimenti avrà solo perduto il suo tempo, anche se il voto sarà soddisfacente per circostanze fortuite.
Un giorno, a lezione, uno studente del primo anno mi ha chiesto: «La Chiesa era molto importante nel Medioevo, è vero?». La domanda potrebbe far sorridere chi ha letto con profitto il § 3 .6 . Essa, in primo luogo, contiene già la risposta. In secondo luogo, mostra quanto sia semplificata l'immagine comune del Medioevo, anche quando non è esplicitamente connotata in senso negativo (vedi § 2 .7 ) . È però assai utile che uno studente faccia una domanda del genere, perché essa rivela qual è il suo punto di partenza, fatto di pregiudizi e di ingenuità di cui non è il solo responsabile, non tanto per la mancanza di "basi" non fornitegli dalle scuole superiori, come spesso lamentano i professori universitari, quanto per la distanza stessa che ci separa dai secoli medievali. Dunque la prima risposta a quella domanda sarebbe senz' altro sì, salvo poi precisare che cosa è la Chiesa oggi e che cosa era allora . . . ma allora quando? Prima o dopo Gregorio VII? E non bisognerebbe forse distinguere tra la Chiesa-istituzione e il cristianesimo come esperienza spirituale? A partire da quella domanda si potrebbe ripercorrere tutta la storia dell'Occidente cristiano.
Il docente è sempre contento di rispondere alle domande degli studenti, anche se banali. Esse consentono di affrontare argomenti nuovi o di precisare ciò che a lui sembrava owio, ma che owio non è per lo studente o che forse il docente non è stato capace di spiegare. Inoltre, lo studente che fa la domanda manifesta un bisogno: per questo è più disposto a sforzarsi di capire, ed è opportuno non deluderlo né perdere l'occasione di un chiarimento efficace.
In questo libro ho tentato di farmi le domande da solo (quelle degli studenti a lezione non mi bastano mai) , e di rispondere aderendo alla concretezza dei fatti storici, delle fonti che abbiamo a disposizione per comprenderli, dei metodi per interrogarle, delle numerose discipline che possono essere coinvolte nell'interpretazione di un fatto o di una fonte. Il lettore che avrà avuto la pazienza di leggere tutto il capitolo 3 , il più esteso di questo volume, si sarà reso conto della complessità delle risposte date. Se era alla ricerca di una semplificazione rispetto al manuale, sarà forse rimasto deluso. Resto tuttavia convinto che sia più difficile e certa-
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Conclusioni
mente più noioso studiare la storia medievale attraverso sintesi stringatissime che attraverso approfondimenti come quelli qui presentati (ciò vale anche per le altre discipline) . Le difficoltà soggettive e oggettive dello studio, dovute cioè a chi studia e alla disciplina in sé, come si è detto nei capitoli l e 2, non possono essere superate che mediante un'immersione, pur parziale, nella storia e nella storiografia.
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Nota bibliografica
Non sarà qui presentata una bibliografia ampia di tutti gli argomenti toccati nel testo, ma si daranno soltanto alcuni suggerimenti, riferiti a volumi disponibili in libreria o a saggi di facile reperimento. In essi sono fornite indicazioni bibliografiche per approfondire lo studio. Contengono buone bibliografie anche i manuali universitari di storia medievale (per esempio quelli citati nelle Conclusioni) .
Vi sono poi opere collettive in più volumi, possedute da molte biblioteche, che comprendono saggi ottimi, anche per le dimensioni contenute, su tutti gli aspetti della storia e della storiografia medievali. Essi sono:
- La storia, i grandi problemi dal Medioevo all'Età Contemporanea, direttori N. Tranfaglia e M. Firpo, vol. 1, 1 : Il Medioevo. I quadri generali, vol. 1 ,2 : Il Medioevo. Popoli e strutture politiche, UTET, Torino 1 986-1 988. Gli strumenti del sapere contemporaneo, vol. 1: I concetti, vol. 2: Le discipline, Grande Dizionario Enciclopedico UTET, Torino 1 997 [ 1985] .
- Lo spazio letterario del medioevo. Parte l : Il medioevo latino, direttori G. Cavallo, C. Leonardi, E. Menestò, 5 voll., Salerno ed. , Roma 1 992-1 998; Parte 2: Il medioevo volgare, direttori P. Boitani, M. Mancini, A. Vàrvaro, 3 voll. , Salerno ed., Roma 1 999; Parte 3 : Le culture circostanti, direttori M. Capaldo et al., 3 voll. , Salerno ed. , Roma 2003 . Storia d'Europa e del Mediterraneo, dir. A. Barbero, Salerno ed., Roma 2006 (edizione in corso) .
Per l a storia della storiografia s i consigliano anche: Dizionario di storiagrafia, Bruno Mondadori, Milano 1996 e Dizionario di studi culturali, a c. di M. Cometa, R. Coglitore, F. Mazzara, Meltemi, Roma 2004.
Per ricerche in rete, si parta da Reti Medievali. Iniziative on line per gli studi medievistici, http:/ /www.retimedievali.it
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• Medioevo: istruzioni per l'uso
l . Il soggetto studente e le insidie del nostro linguaggio
Per le questioni affrontate nei capitoli l e 2 conviene consultare l'agile volume di P. Corrao e P. Viola, Introduzione agli studi di storia, Donzelli, Roma 2005 (se ne utilizzi la bibliografia) . Per lo stesso scopo sono utili le voci curate da J. Le Goff nell'Enciclopedia Einaudi, raccolte nel volume Storia e memoria, Einaudi, Torino 1 982 [ 1977] .
Tra i dizionari, si segnala quello, in edizione economica, di A. Barbero e C. Frugoni, Dizionario del Medioevo, Laterza, Roma-Bari 2001 [1994] .
La definizione della storia come l a «scienza degli uomini nel tempo» si trova nel volume, un classico di assai gradevole lettura, di M. Bloch, Apologia della storia o Mestiere di storico, Torino, Einaudi 1998 [ l• ed. , postuma, 1 944] .
Consigli acuti e spiritosi per l'organizzazione dello studio, validi anche per chi non è iscritto a Giurisprudenza, sono in R. Bin, Come si studia il diritto. Una guida pratica per affrontare con successo la facoltà di Giurisprudenza, il Mulino, Bologna 2006.
2. L'oggetto Medioevo e la disciplina " storia medievale"
Per la storia del concetto di Medioevo e della medievistica, si vedano P. Delogu, Introduzione allo studio della storia medievale, il Mulino, Bologna 1994 ; P. Cammarosano, Guida allo studio della storia medievale, Laterza, Roma-Bari 2004.
Per la periodizzazione: S. Guarracino, Le età della storia. I concetti di Antico, Medievale, Moderno e Contemporaneo, Bruno Mondadori, Milano 200 1 . Per la tesi Pirenne si veda il saggio di G. Petralia cit. più avanti a § 3 . 3 . Di F. Braudel si può vedere Scritti sulla storia, Mondadori, Milano 1 973 .
Sulla scuola storiografica delle "Annales" e in generale sul rinnovamento della storiografia nel Novecento: Fare storia. Temi e metodi della nuova storiografia, a c. di J. Le Goff e P. Nora, Einaudi, Torino 1981 [ed. or. 1 974] .
Sugli ex fatti e in generale sull'insegnamento della storia: M. Del Treppo, La libertà della memoria, Viella, Roma 2006 (utile anche per la storiografia del Novecento) .
Sui luoghi comuni relativi alla storia medievale: G . Sergi, L'idea di Medioevo. Tra senso comune e pratica storica, Donzelli, Roma 1998 (già primo capitolo del volume di autori vari, Storia medievale, Donzelli, Roma 1998).
Per il concetto di feudalesimo è ottimo: G. Tabacco, Feudalesimo, in Storia delle idee politiche, economiche e sociali, diretta da L. Firpo, vol. II,
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Nota bibliografica
2 : Il Medioevo, UTET, Torino 1 983 , pp. 55- 1 15 . È disponibile in libreria: G. Albertoni, L. Provero, Il feudalesimo in Italia, Carocci, Roma 2003 .
3 . 1 Le fonti
La Typologie des sources du Moyen Age occidental, con fascicoli in francese e inglese, è pubblicata dall'editore Brepols di Turnhout, Belgio. Per la classificazione delle fonti si consultino P. Delogu, Introduzione allo studio, cit. , pp. 99-252. P. Cammarosano, Guida allo studio, cit., pp. 109-146, ricchi di indicazioni bibliografiche (entrambi sono citati a § 2) .
Una trattazione più estesa, riferita all'Italia, è P. Cammarosano, Italia medievale. Struttura e geografia delle fonti scritte, Carocci, Roma 1998 [ l • ed. 1 99 1 ] .
È d i utile e facile lettura F. Chabod, Lezioni di metodo storico, Laterza, Roma-Bari 2000 [ 1969] , un classico sull'argomento.
Per i singoli paragrafi del capitolo 3 sono indicati, preliminarmente, i lavori utilizzati per l'edizione e il commento delle fonti:
3 .2 Un monaco e l'invasione dei Longobardi
Il testo latino e la traduzione italiana dell'Historia Langobardorum sono tratti da Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, a cura di L. Capo, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, Milano 1992. I brani citati sono II, 3 1 -32 e III, 16. Lidi a Capo, la cui introduzione è stata qui utilizzata, pubblica il testo latino come ricostruito da L. Bethmann e G. Waitz, in Monumenta Germaniae Historica, serie Scriptores Rerum Langobardicarum et Italicarum, Hannover 1 878. Per il commento ai passi sono stati consultati, tra gli altri, P. Delogu, Longobardi e bizantini in Italia, in La storia. l grandi problemi dal Medioevo all'Età Contemporanea, direttori N. Tranfaglia e M. Firpo, vol. n: Il Medioevo, tomo 2: Popoli e strutture politiche, UTET, Torino 1 986, pp. 145 - 1 69 e Langobardia, a c. di S. Gasparri e P. Cammarosano, Casamassima, Udine 2006.
Nel testo si ricorda A. Manzoni, Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, a c. di I . Becherucci, Centro nazionale studi manzoniani, Milano 2005 .
Come punto di partenza per la storia dei longobardi e in generale dell'incontro latino-germanico si consigliano il saggio .di P. Delogu appena citato e S. Gasparri, Prima delle nazioni. Popoli, etnie, e regni fra Antichità e Medioevo, Carocci, Roma 1 998 [ 1997 ] .
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Medioevo: istruzioni per l'uso
Per la paleografia si veda A. Petrucci, Prima lezione di Paleogra/ia, Laterza, Roma-Bari 2002.
3 .3 Un coccio e la fine dell'età antica
Le immagini e il quadro generale delle questioni affrontate in questo paragrafo sono tratti da: Roma dall'antichità al Medioevo. Archeologia e storia nel Museo Nazionale Romano Crypta Balbi, a c. di M.S. Arena et al., Electa, Roma 2001 (immagini a pp. 268 e 593 ), in particolare le sezioni curate da L. Saguì; D. Manacorda, Archeologia urbana a Roma: il progetto della Crypta Balbi, all'Insegna del Giglio, Firenze 1982 ; e soprattutto, per il deposito di VII secolo, L. Saguì, Roma, i centri privilegiati e la lunga durata della Tarda Antichità. Dati archeologici dal deposito di VII secolo nell'esedra della Crypta Balbi, in "Archeologia Medievale" , XXIX, 2002, pp. 7 -42 .
Nel paragrafo viene citato il volume di R. Hodges, D. Whitehouse, Mohammed, Charlemagne and the Origins o/Europe. Archaeology and the Pirenne Thesis, lthaca, New York 1983 . Ringrazio Carlo Ebanista per i consigli che mi ha dato su questo paragrafo.
Per un'introduzione alla ricerca archeologica si vedano il capitolo che ad .essa dedica P. Delogu, Introduzione allo studio della storia medievale, pp. 233 -252 (cit. al § 2 ) , e G.P. Brogiolo, D. Gelichi, Le città nell'alto medioevo italiano. Archeologia e storia, Laterza, Roma-Bari 1998.
Per la questione Pirenne è proficua la lettura di G. Petralia, A proposito dell'immortalità di «Maometto e Carlomagno» (o di Costantino), in "Storica" , l , 1 995 , pp. 37-87.
3 .4 Parma nel x secolo
Il testo è tratto da Monumenta Germaniae Historica, serie Diplomatum regum et imperatorum Germaniae, vol. I, a c. di Th. Sickel, Hannover 1 879- 1884, pp. 332-334. La traduzione italiana, modificata in alcuni punti , è presa da G. Fasoli, F. Bocchi, La città medievale italiana, Sansoni, Firenze 1 973 , pp. 126- 128. Il diploma di conferma di Enrico II è sempre nei Monumenta, serie Diplomatum, vol. III, Hannover 1900- 1903 , pp. 88-90. Il cistercense F. Ughelli pubblicò il diploma di Ottone I nella sua monumentale opera sulle diocesi italiane (Italia sacra, 9 voll . , 1 642-1648).
Per le donazioni iure proprietario e il concetto di allodialità del potere è stato consultato G. Tabacco, I.:allodialità del potere nel Medioevo, in " Studi Medievali" , XI, 1970, pp. 565-615, ripubblicato in G. Tabacco,
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Nota bibliografica
Dai re ai signori. Forme di trasmissione del potere nel Medioevo, Bollati Boringhieri, Torino 2000, pp. 15 -66.
Di Tabacco si trova in commercio Egemonie sociali e strutture del potere nel Medioevo italiano, Einaudi, Torino 1979 (corrisponde al lungo saggio intitolato La storia politica e sociale. Dal tramonto dell'impero alle prime formazioni di Stati regionali, nella Storia d'Italia, vol. II, 1: Dalla caduta dell'impero romano al secolo XVIII, Einaudi, Torino 1974, recentemente ristampata da "La Repubblica" e distribuita in edicola) .
Una chiara e sintetica trattazione dei poteri signorili è in S. Carocci, Signori, castelli, feudi, in Storia medievale, Donzelli, Roma 1998, pp. 247-267 . Per la diplomatica: A. Pratesi, Genesi e /orme del documento medievale, J ouvence, Roma 1 987 .
3 .5 Un mulino e la società amalfitana nell'XI secolo
La permuta, tradotta in italiano da me, è edita in R. Archivio di Stato di Napoli, Codice diplomatico amalfitano, a c. di R. Filangieri di Candida, vol. I: Le pergamene di Amalfi esistenti nel R. Archivio di Stato di Napoli (dall'anno 907 a/ 1200), Morano, Napoli 1917 , pp. 61 -62. Il commento è basato su M. Del Treppo, Amalfi� una città del Mezzogiorno nei secoli IXXIV, in M. Del Treppo, A. Leone, Amalfi· medioevale, Giannini, Napoli 1 977, pp. 2 - 175.
Un capitolo del lavoro di Del Treppo è stato riedito in un volume di maggiore circolazione: La nobiltà dalla memoria lunga: evoluzione del ceto dirigente di Amalfi· dal IX al XIV secolo, in Forme di potere e struttura sociale nel Medioevo, a c. di G. Rossetti, il Mulino, Bologna 1 977 , pp. 305-3 19.
La citazione di J. Le Goff è tratta dal saggio La mentalità: una storia ambigua, nel volume Fare storia, pp. 243 -244 (cit. a § 2 ) .
Per la storia economica s i può partire da P. Malanima, Economia preindustriale. Mille anni: dal IX al XVIII secolo, Bruno Mondadori, Milano 1997 . Per il diritto e la storia del diritto si consiglia P. Grossi, Prima lezione di diritto, Laterza, Roma-Bari 2003 .
3 .6 Federico Il e la distinzione tra regnum e sacerdotium
Il testo latino e il commento al Proemio sono tratti da W. Stiirner, Rerum necessitas und divina provisio. Zur Interpretation des Prooemiums der Konstitutionen von Melfi (123 1), in "Deutsches Archiv" 39, 1983 , pp. 467-554. Stiirner ha poi curato l'edizione delle Costituzioni: Die Konsti-
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Medioevo: istruzioni per l'uso
tutionen Friedrichs 2. fur das Konigreich Sizilien, hrsg. von W. Sturner, Hahnsche Buchhandlung, Hannover 1 996. La traduzione è mia, ma in alcuni punti critici ha beneficiato della consulenza di Giancarlo Abbamonte, che ringrazio. La lettera di Onorio III è stata studiata ed edita da E. Heller, Zur Frage des kurialen Stilein/lusses in der sizilischen Kanzlei Friedrichs Il. , in "Deutsches Archiv" , 19, 1963 , pp. 434-450.
Nel testo si cita E. Kantorowicz, Federico Il imperatore, Garzanti, Milano 1 998 [ed. or. 1 927 - 1 93 1 ] . La bibliografia su Federico II è così imponente, che si consiglia di partire dalle indicazioni presenti nei manuali o nelle opere collettive citate in apertura. Esiste un'enciclopedia specifica: Federico Il: Enciclopedia /edericiana, 2 voli. , Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 2005 .
3 .7 Dante in una riunione del Comune di Firenze
Il verbale della riunione, tradotto da me, è tratto da Codice diplomatico dantesco edito da R. Piattoli, Firenze 1 940, pp. 95-96. Per Firenze: R. Davidsohn, Storia di Firenze, 8 voli . , S ansoni, Firenze 1 95 6 - 1 968 [ 1 896- 1 927] (sul consiglio del 1 9 giugno vedi vol. III, pp. 197 - 198: qui si trova la definizione di Dante come «capo di una minoranza della fazione dominante») . Nel testo sono richiamate le opere di G. Salvemini, Magnati e popolani in Firenze da/ 1280 al 1295, Carnesecchi, Firenze 1 899 e N . Ottokar, Il Comune di Firenze alla fine del dugenta, Vallecchi, Firenze 1 926.
La bibliografia su Dante è enorme. Anche per lui esiste una specifica Enciclopedia Dantesca, diretta da U. Bosco, 6 voli. , Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 1970- 1984 . Un breve ma assai efficace profilo della sua vita è quello di E. Malato, nella Storia della letteratura italiana da lui diretta, Salerno ed., Roma 1995 , ristampata nel 2005 , con distribuzione in edicola, da " Il Sole 24 ore" (vol. I, parte n, pp. 782-807) . In libreria si trova facilmente anche G. Petrocchi, Vita di Dante, Laterza, Roma-Bari 1 993 [l• ed. 1 983 ] .
Una buona guida tematica e bibliografica alla storia dell'Italia bassomedievale è: I. Lazzarini, !;Italia degli Stati territoriali. Secoli XIII-XV, Laterza, Roma-Bari 2003 .
3 .8 Il capitalismo medievale in una lettera di cambio
La lettera, le citazioni dal registro e il loro inquadramento sono tratti da F. Melis, Documenti per la storia economica dei secoli XIll-XVI, Olschki, Fi-
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Nota bibliografica
renze 1 972 , in particolare pp. 480-481 e da F. Melis, Una girata cambiaria del 14 10 nell'Archivio Datini di Prato, in F. Melis, La banca pisana e le origini della banca moderna, a c. di M. Spallanzani, Le Monnier, Firenze 1987 , pp. 295-306. Ringrazio Mario Del Treppo per la consulenza fornitami durante la stesura di questo paragrafo.
Di I. Wallerstein si veda Il capitalismo storico. Economia, politica e cultura di un sistema-mondo, Einaudi, Torino 1985 [ 1 983 ] .
Per l a storia economica s i veda sempre P. Malanima, Economia preindustriale, cit. a § 3 .5 . Per un quadro generale del basso Medioevo italiano: I. Lazzarini, L'Italia degli Stati regionali, cit. a § 3 .7 .
Conclusioni
I manuali citati sono, nell'ordine: G. Vitolo, Medioevo. I caratteri originali di un 'età di transizione, Sansoni, Milano 2000; C. Azzara, Le civiltà del medioevo, il Mulino, Bologna 2004; G. Piccioni, Il Medioevo, Bruno Mondadori, Milano 2004; M. Montanari, Storia medievale, Laterza, Roma-Bari 2002.
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Indice dei nomi
Accettanti, Jacopo 136, 137 Agostino d'Ippona, santo 1 14 Alari co, re dei visigoti 9, 1 1 , 12,
15 , 17 Alboino, re dei longobardi 5 3 , 54,
59, 143 Alichis 53, 54 Antonio di Neve 128, 129, 130,
1 3 1 , 1 3 3 , 134, 137 Arduino d'Ivrea 3 2 Aristotele 1 12 Aronne 108 Atto da Cornalto 17 Augusto, Gaio Giulio Cesare
Ottaviano, imperatore 66, 69 Autari, re dei longobardi 54, 55,
56, 63 Azzara, Claudio 144, 145 , 146
Balbo, Lucio Cornelio 66, 68 Bartolini, Bartolino 130, 132, 133 ,
134, 137 Becket, Thomas 24 Berengario d'Ivrea 3 6 Bethmann, Ludwig 65 Bloch, Mare 14, 25, 3 9 Boccaccio, Giovanni 45 , 140 Bolland, J ean 89 Bonifacio VIII, papa 1 16, 125, 126,
14 1 Braudel, Fernand 29 Bush, George W. 10, 13
Cacciaguida 123 , 127 Calci dio l 05 Carlo I d'Angiò, re di Sicilia 32 Carlo di Valois 125 , 126, 14 1 Carlo Magno, imperatore 9, 10,
1 1 , 13, 17 , 25, 32, 46, 48, 61 , 85 , 1 10, 136
Cattani, Gerardo 130, 13 1 , 132, 134, 136, 137
Cesare, Gaio Giulio 100, 109, 1 1 1 Clefi, re dei longobardi 5 3 , 54,
55, 143 Compagni, Dino 120, 14 1 Costantino, imperatore 20, 28,
109
Dante Alighieri 1 15 , 1 16, 1 17, 1 18, 120, 12 1 , 122, 123 , 125, 126, 127, 140
163
Datini, Francesco 128, 129, 130, 1 3 1 , 132, 133 , 134, 135
Davidsohn, Robert 126 Della Scala 24 Delogu, Paolo 144, 147 Del Treppo, Mario 99 Diocleziano, imperatore 27, 28 Du Cange, Charles Du Fresne 89
Edoardo III, re d'Inghilterra 145 Enea 59 Enrico II, imperatore 88 Euin 53
Indice dei nomi
Febvre, Lucien 25 Federico I Barbarossa, imperatore
30, 32 , 3 3 , 85 , 106 Federico II di Svevia, imperatore
101 , 102 , 105, 106, 107 , 108, 109, 1 10, 1 1 1 , 1 12 , 1 13 , 1 14, 1 15 , 144, 145, 146
Ferdinando III, re di Castiglia 1 1 1 Filangieri, Riccardo 92
Giano della Bella 122 Gisulfo 53 Giustiniano, imperatore 27, 50,
1 12 , 1 13 Gregorio Magno, papa 60 Gregorio VII, papa 1 10, 1 12 , 148 Guglielmo, duca di Normandia 3 Guidotto de' Canigiani 1 15 , 1 17
Hayes, John W. 66, 70, 72
Innocenza III, papa 1 10 Innocenza IV, papa 1 10, 1 18
Kantorowicz, Ernst 1 12 Keller, Christof (Cellarius) 20
Le Goff, J acques l 00 Licinio, Valerio Liciniano,
imperatore 109
Mabillon, J ean 87 , 89 Manzoni, Alessandro 62, 63 Maometto 3 1 , 75 Mario, Gaio 3 9 Marsilio d a Padova 1 18 Marx, Karl 47 , 50, 124 Masane 5 3 , 54 Matteo di Acquasparta, cardinale
124 Matteo, evangelista 108, 1 14 Melis, Federigo 129
Montanari, Massimo 145 , 146 Montesquieu, Charles-Louis de
Secondat de 81 Mosè 108 Mussolini, Benito 67
Onori o III, papa 1 1 1 , 1 12 Ottokar, Nicola 123 Ottone I di Sassonia 77, 80, 83 ,
84 , 85 , 86, 87 , 88, 92, 95 , 99, 106, 109, 1 10, 1 12 , 1 14, 129
Paolo Diacono (Paolo di Warnefrid) 53 , 55, 56, 57, 58, 59, 60, 6 1 , 63 , 64, 65 , 69, 74, 76, 77, 90, 95 , 147
Paolo di Tarso, santo 108, 109, 1 10, 1 14
Papebrok, Daniel 89 Piccioni, Gabriella 145, 146, 147 Pier delle Vigne 1 14 Pipino III il Breve, re dei franchi
1 3 , 1 10 Pirenne, Henri 26, 75, 76 Platone 105
Riegel, Alois 27 Ruggero n di Altavilla, re di
Sicilia 105
164
Saguì, Lucia 7 1 , 73 Salvemini, Gaetano 123 Scaligeri 24 Secondo di Non (o di Trento) 60,
63 , 76 Seneca 1 1 1 , 1 13 Sinisbaldo de' Fieschi, vedi
Innocenza IV
Sordello da Goito 126
Tabacco, Giovanni 35, 46, 85 , 86 Taddeo di Sessa 145
Teodosio, imperatore 1 09 Tertulliano 1 14 Tommaso da Capua 1 1 1 , 1 14 Tommaso d'Aquino 1 12 Toti, Enrico 34 Tramontana, Salvatore 145 , 147
Uberto, vescovo 77 , 85 , 86, 87 Ughelli, Ferdinando 88 Urbano II, papa 4 1
Indice dei nomi
Valla, Lorenzo 88 Verga, Giovanni 20 Vico, Giambattista 43 Vitolo, Giovanni 144, 146, 147
Waitz, Georg 65 Wallari 5 3 , 54 Wallerstein, Immanuel 140
Zaban 53 , 54
165
Senatore, Francesco. Medioevo : istruzioni per l 'uso l Francesco Senatore. - [Milano] : Bruno Mondadori, [2008] . 176 p. ; 21 cm. - (Campus). ISBN 978-88-424-2052- 1 .
l . Medioevo - Storiografia 2 . Medioevo - Concetto - Storia. 940. 1 072
CIP a cura di CAeB, Milano.
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