CATANIA NEL MEDIOEVO

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CATANIA l identità urbana dall antichità al settecento a cura di Lina Scalisi ESTRATTO domenico sanfilippo editore

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C A T A N I Al’identità urbana dall’antichità al settecento

a cura diLina Scalisi

E S T R AT T O

d o m e n i c o s a n f i l i p p o e d i t o r e

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Palazzo del Municipio, Catania.Scuola napoletana, Martirio di Sant’Agata con capriccio di rovine romane, olio su tela, 1640-60 circa

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L’identità urbana di Catania nell’Alto Medioevo si sostanzia attorno ai due simboli della coscienza cittadina: la martire Agata e l’elefante, elaborati all’interno della cultura latino-cristiana, la prima, e del sostrato bizantino-islamico, il secondo. La forte valenza che i due elementi, in forma separata o compresenti, acquistano nella storia della città dà conto di una dimensione di civitas, mantenuta fortemente nel corso dei secoli altomedievali, i secoli della lenta trasformazione della città cristiana, bizantina, islamica.La ricerca archeologica se, da una parte, non configura ancora un quadro organico dei processi di trasformazione della città, d’altra, consente già di individuare, nel corso del VI secolo, i segni tangibili dello stravolgimento del tessuto urbanistico antico, del riuti-lizzo degli spazi pubblici, dell’inurbamento delle aree di seppellimento. Contestualmente si rafforza quella proiezione orientale della città che, a partire dal VII secolo, ne modifi-cherà sostanzialmente i tratti culturali, con una marcata orientalizzazione delle gerarchie ecclesiastiche, dei culti praticati, in un quadro di sottolineatura del ruolo difensivo che contribuirà a segnare una forte discontinuità tra la città antica e quella altomedievale.Ancor meno evidente è il grado di attrazione nei confronti del suo territorio, i cui limiti sono peraltro piuttosto incerti, in termini di drenaggio fiscale, capacità di veicolare le merci e di convogliare i prodotti agricoli. In generale, si possono evidenziare piutto-sto alcune direttrici preferenziali che si rivolgono verso la sfruttamento economico delle pendici meridionali e orientali del vulcano, veicolate essenzialmente attraverso il mona-chesimo benedettino e alcune più sparute fondazioni italo-greche. Ma se analizziamo il rapporto tra la città e la viabilità di lunga percorrenza, nel lungo periodo sembra venire meno la capacità di attrazione che la città romana esercitava sui due itinerari principali: la direttrice nord sud, da Messina a Siracusa, e quella est-ovest in direzione di Palermo. Si innesca una sorta di marginalizzazione di questo territorio, a favore di direttrici più interne che solo le scelte del pieno medioevo potranno ricomporre.

Trasformazioni urbane e uTilizzo crisTiano dello spazio: il caso di sanT’agaTa la veTere

Trasformazioni urbane e proiezione territoriale sono, dunque, i nodi fondamentali alla base di un ragionamento sulla città altomedievale, che allo stato attuale dispone di ben pochi elementi di riflessione.La lettura archeologica delle stratigrafie più tarde tende a delineare una certa convergen-za di dati attorno al VI secolo, momento in cui l’abbandono dei basolati lavici, i progres-sivi rialzamenti dei piani stradali (legati al venir meno della manutenzione ordinaria), la costruzione di edifici all’interno di spazi pubblici paiono indicare un momento di svolta nella organizzazione urbana. L’analisi, effettuata nell’ambito delle complesse indagini all’interno del monastero dei Benedettini, dei livelli pavimentali al di sopra del lastricato romano evidenzia in modo inequivocabile i segni del degrado urbano. I riempimenti dei condotti fognari attestano che nel corso del VI secolo venne meno il regolare smaltimen-to dei rifiuti, determinando presumibilmente la crescita dei livelli stradali che si imposta-no al di sopra dell’originaria pavimentazione lavica. Nel caso del cardo I e del decumano che lo incrocia, le evidenze archeologiche attestano comunque il mantenimento degli allineamenti originari e la costruzione di un piano di calpestio rozzamente realizzato con piccoli ciottoli, databile alla metà del VII secolo1.

I dati delle indagini effettuate al Teatro indicano proprio il VI secolo come un momento cruciale nel quale collocare gli episodi di occupazione dell’edificio, ai fini di un diverso uso dello spazio pubblico; in tal senso è stato interpretato l’ambiente quadrangolare,

LA CITTà NeL MedIoeVo:SVILuPPo urBANo e doMINIo TerrITorIALe

Lucia Arcifa

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1. S. Agata al Carcere, il “carcere” di S. Agata

2. S. Agata la Vetere, sarcofago cosiddetto di Sant’Agata

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3. S. Agata la Vetere, sarcofagocosiddetto di Sant’Agata, particolaredel coperchio

impiantato sul pavimento marmoreo dell’orchestra, costruito senza utilizzo di malta, che ha fatto ipotizzare un uso del luogo, forse ancora pubblico, quale macellum2. rispetto a questo quadro cronologico, più precoce appare la dismissione dell’anfiteatro, forse già avviata nel corso della seconda metà del IV secolo, all’interno del quale si istalla, nel VI- VII secolo, un impianto artigianale per la fusione e la lavorazione del vetro3. Meno chiaro, invece, l’episodio costruttivo, rintracciato nel corso degli scavi nel cortile di Sant’Agata la Vetere, dove, nel corso del V secolo, lo spazio aperto viene delimitato da un muro la cui natura non è facilmente ipotizzabile4. Accanto a questi dati, che, a partire da una prospettiva che privilegia la città antica, atte-stano in modo inequivocabile i segni del degrado urbano, riteniamo sia possibile e giu-stificata anche una lettura volta a rintracciare, diciamo così in positivo, i segni del lento riarticolarsi della città attorno a nuovi fulcri religiosi. La mancanza di dati attendibili circa il primitivo gruppo episcopale rappresenta, a tutt’og-gi, uno dei limiti più importanti alla ricostruzione della città cristiana, per il ruolo che di norma l’episcopio riveste quale nucleo generatore del nuovo sistema urbano. È appena il caso di ribadire che nelle fonti arabe e normanne non c’è alcun riferimento all’antica cat-tedrale di Catania. Nel racconto del vescovo Maurizio5, relativo al rientro delle reliquie da Costantinopoli, dopo il trafugamento di Maniace del 1040, non si fa menzione della chiesa di Sant’Agata la Vetere, né dei luoghi del martirio. Nel 1366 il priorato di Sant’Agata la Vetere è descritto come derelitto e desolato, privo di officiatura stabile del culto. Ben con-solidata appare, nel documento, la tradizione relativa ai luoghi agatini: il carcere all’interno del quale la martire riceve la visita dell’apostolo Pietro e il suo primitivo sepolcro6; ma le fonti, pur descrivendo lo stato di indigenza in cui versa l’antico priorato, suggeriscono indi-rettamente di non avere coscienza di un passato ‘illustre’ della chiesa. La città medievale, in altri termini, mostra di avere perso il ricordo dell’antica cattedrale bizantina; sarà soltanto nell’ambito della polemica municipalista di fine Seicento che si assiste da parte della storiografia locale alla costruzione del ruolo di Sant’Agata la Vetere7, creando i presupposti per una contrapposizione tra vecchia e nuova cattedrale, tra la città bizantina e la nuova città normanna. Il problema della sede vescovile primitiva è, dunque, al momento destinato a restare aper-to e ampi margini di incertezza permangono sull’individuazione del polo primario nella topografia cristiana della città. Altrettanto complessa è la problematica relativa all’inur-bamento del culto di Agata, per la valutazione del quale possediamo una serie di dati di non facile e univoca lettura, sui quali vorremmo, tuttavia, soffermarci, in considerazione della pregnanza dei luoghi così duratura e radicata nella città medievale e moderna.La forte caratterizzazione dei luoghi in senso agatino trova una prima conferma docu-mentaria solo in età medievale: è, infatti, nella documentazione relativa al priorato di Sant’Agata la Vetere, che appaiono, come si diceva, già consolidati i luoghi tradizional-mente indicati come il carcere (fig. 1) e il sepolcro della santa (figg. 2-3), espressamente ricordati nel documento del 1366. dal punto di vista archeologico i risultati dei lavori fin qui condotti8, pur non accertando l’esistenza di un edificio di culto, indirizzano tuttavia verso una precisa rioccupazione cristiana dell’area verosimilmente nel corso del VII se-colo. Lo scavo dei livelli archeologici nel cortile di Sant’Agata la Vetere ha evidenziato l’esistenza di una necropoli, alla quale al momento possiamo ascrivere undici sepolture, prive ovviamente di corredo, in considerazione dell’epoca; le modalità di giacitura osser-vate – braccia conserte o, più di frequente, incrociate sul petto – indicano, tuttavia, chia-ramente l’osservanza del rituale cristiano. Si tratta di semplici fosse terragne, orientate in senso est-ovest, in alcuni casi rivestite internamente da blocchi appena squadrati, la cui copertura, dove presente, era composta da coppi, tegole o porzioni di laterizi (figg. 4-5). Le sepolture riutilizzavano i resti della struttura muraria, posta sul lato ovest dell’area di scavo, consistente in un lungo muro, con orientamento nord-sud, lungo 8,90 m e largo 0,50 m, composto di pietre regolarizzate, legate da calce, sulle cui fondazioni poggiavano i crani degli inumati9. Indipendentemente dalla interpretazione della struttura muraria rinvenuta, per la quale saranno necessari ulteriori approfondimenti volti ad appurarne la funzione, è evidente qui la cesura netta intervenuta nell’uso dell’area, tra spazio aperto (pubblico?) e uso funerario. Anche se, di recente, è stata sottolineata la non necessaria concomitanza tra necropoli e chiesa, appare ipotizzabile che questa prima testimonianza di un’area di sepoltura intra moenia, con caratteri non di casualità, ma che risponde ad una organizzazione spaziale precisa, possa essere stata connessa alla presenza di un edificio di culto10. La data di nascita di questa necropoli, peraltro, si sovrappone in modo significativo alla cronologia

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4. S. Agata la Vetere, necropoli cristiana (VII-VIII secolo). rilievo (da Patanè-Tanasi 2006)

5. S. Agata la Vetere, necropoli cristiana (VII-VIII secolo).(Archivio fotografico Soprintendenza BB.CC.AA. Catania)

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6. Basilica bizantina di via dottorConsoli, mosaico pavimentale, particolare (Archivio fotografico Soprintendenza BB.CC.AA., Catania)

ultima assegnata alla basilica di via dottor Consoli (fig. 6), di recente rivisitata da F. Tra-pani11, che non pare protrarsi oltre il VI secolo, e che sulla base della famosa iscrizione di Iulia Florentina è stata identificata come basilica martiriale dei martiri catanesi (Agata ed euplo?)12. Ci pare, in altri termini, possibile mettere in connessione la fine dell’uti-lizzo dell’area cimiteriale suburbana con l’impianto della necropoli dentro le mura e, in definitiva, con l’inurbamento del culto in quest’area prossima alle mura settentrionali. di tutta evidenza appare il legame topografico tra il primitivo luogo di culto suburbano e la nuova scelta topografica, in prossimità della porta regia, la principale via di accesso alla città lungo le mura settentrionali13, dalla quale prendeva avvio il tracciato della stra-da di collegamento verso Cibali e i casali del bosco etneo (fig. 7). Accanto a ragioni di vicinanza topografica, altre possono essere suggerite o quanto meno intraviste, anche in considerazione delle recenti esplorazioni tra le due chiese di Sant’Agata la Vetere e del Carcere, che consentono di ipotizzare una articolazione monumentale dell’area di tutto rilievo, estremamente promettente anche ai fini di una indagine focalizzata sui processi di trasformazione della città antica. Indagini che, più in generale, consentono di ritornare sulla interpretazione complessiva dell’area sulla quale, come è noto, gravano pesanti con-dizionamenti legati ad una ricostruzione consolidata nella religiosità popolare, che mette in scena, già da età medievale, un edificio identificato con il pretorio di Quinziano e il carcere in cui la martire fu imprigionata. Non escluderei che, in una prima fase, l’inurbamento del culto possa avere utilizzato il grande edificio che insisteva sull’area più settentrionale, ora meglio conosciuto a seguito dei lavori di messa in sicurezza dei locali annessi alla chiesa del Carcere e sul quale è pos-sibile aprire nuove ipotesi di ricerca14.Le indagini hanno, infatti, consentito di precisare che il cosiddetto Carcere di Sant’Aga-ta riutilizza la camera voltata (favissa) di un edificio su podio, di cui allo stato attuale è possibile ricostruire il perimetro complessivo, le dimensioni del podio e i resti della cella superiore. L’articolazione architettonica così ricostruita richiama piuttosto chiara-mente la tipologia dei mausolei funerari o, più verosimilmente, in considerazione della dislocazione all’interno del perimetro urbano, dei templi su podio15 (fig. 8). La peculia-re configurazione della facciata orientale, prospiciente all’anfiteatro, articolata con tre nicchioni, suggerisce una stretta connessione con la stessa costruzione dell’anfiteatro, lasciando ipotizzare l’esistenza di un articolato piano che concepisce l’edificio come una sorta di fondale scenografico, regolarizzando il declivio naturale della collina e creando una prospettiva architettonica monumentale. Lo stretto nesso qui ipotizzato ha, com’è ovvio, ulteriori ricadute nell’interpretazione complessiva dello spazio circostante il tem-pio: un’area aperta, verosimilmente pubblica per la quale, sulla base dei resti archeolo-gici ritrovati, è possibile ricostruire l’esistenza di un primitivo collegamento viario con la parte della città romana cresciuta ai piedi della collina di Montevergine. Pur con i molti margini di incertezza per una ricerca ancora in corso, l’area indagata, alla luce della rico-struzione qui proposta, assume, dunque, una centralità nella organizzazione urbana della città medio e tardo imperiale di tutto rilievo. Non escluderei che, nella logica di una riutilizzazione ben documentata in Sicilia tra VI e VII secolo, l’edificio templare possa essere stato consacrato quale chiesa cristiana, e che, già allora, la camera voltata all’interno del podio sia stata utilizzata per ambien-tare i luoghi del martirio di Agata. A tal proposito sembrano soccorrere le indicazioni ricavabili dalla documentazione agiografica relativa a S. Lucia: come è stato notato da d. Motta, nella redazione della Passio greca, i termini utilizzati per indicare il sepolcro di Agata (t£foj, naÒj, sÚroj) propongono una sostanziale coincidenza tra sepoltura e luogo di culto (naÒj tÁj m£rturoj). Nella redazione più tarda (IX sec.) esso è in-dicato come un recinto sacro (shkÒj), situato all’interno della città16; una descrizione che appare coerente con la configurazione dei luoghi quale emerge dalle indagini ar-cheologiche sopra ricordate e che anche nei secoli successivi determina una sorta di separatezza tra il nucleo di Sant’Agata la Vetere e la città, ancora rintracciabile nelle rappresentazioni cartografiche cinquecentesche (fig. 9).La porzione di necropoli, oggi ritrovata, assumerebbe in questa prospettiva un significato ancor più pregnante, attestando il rito di sepoltura intra moenia connesso all’inurbamen-to del culto martiriale.Se, dunque, le indagini gettano una luce significativa sulla scelta topografica, nel momen-to di inurbamento del culto agatino, aprono anche una serie di questioni interessanti sulle modalità di concessione dell’area, ipotizzando, come abbiamo fatto, una trasformazione del tempio in chiesa cristiana.

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7. Biblioteca Angelica, roma.Pianta di Catania (1584),l’area settentrionale con la Porta regia

9. Biblioteca Angelica, roma.Pianta di Catania (1584), Bastione di S. Agata

8. S. Agata al Carcere, ipotesi di restituzione dell’edificio su podio(elab. e. Sangregorio)

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Anche volendo spostare la riflessione sul piano delle considerazioni di ordine giuridico, l’inurbamento del culto all’interno di un’area pubblica trova, nella cronologia individua-ta (fine VI- inizi VII secolo), un significativo parallelo con la situazione italiana che vede, prima di questa data, ben pochi esempi di edifici cristiani installati in luoghi pubblici, in virtù del principio ancora vigente della inalienabilità del patrimonio monumentale17. Focalizzando, infine, l’attenzione sulla diffusione del culto di Sant’Agata, questo arco cronologico coincide significativamente con quello di una ulteriore propagazione del culto nella penisola italiana, con attestazioni ampie in ambito romano e ravennate, sia dal punto di vista liturgico che architettonico; per non tacere dell’azione esercitata dallo stesso papa Gregorio nella riappropriazione della figura di Agata all’ortodossia cattolica, nella quale si è voluto riconoscere un preciso intento polemico contro processi di accul-turazione determinatisi in Sicilia sotto la dominazione gota18.

Trasformazioni e occupazione degli spazi pubblici: il peso dei culTi orienTali.

una possibile lettura in chiave antiariana si potrebbe dare, sulla scorta di una ampia do-cumentazione di ambito romano, anche per quegli edifici con dedica alla Theotokos che costituirebbero la risposta ortodossa alla presenza ariana all’interno della città. Le dedi-che alla Theotokos, il cui numero è rilevante negli anni attorno alla riconquista dell’Africa e dell’Italia, sono infatti caratteristiche della politica imperiale dopo la riconquista. Il culto verso la madre di dio, considerata patrona dell’esercito imperiale e dell’intero stato bizantino, costituiva un forte strumento nella polemica antiariana, che trovava impossi-bile accettare la dimensione della Vergine quale madre di dio19. Le indagini recenti non hanno chiarito le questioni legate alla primitiva intitolazione della chiesa di S. Maria della rotonda (fig. 10) che sembrerebbe rivelare, pur all’interno di una riutilizzazione parziale di strutture termali di età romana, una più forte autonomia progettuale. L’edificio insiste, dunque, tra la fine del VI e la prima metà del VII, su di un’area precedentemente occu-pata da un ampio edificio termale, coerentemente con quel processo di riorganizzazione e trasformazione degli spazi pubblici, già individuato per altre aree oggetto di indagine archeologica20. La maggiore autonomia che le nuove indagini assegnano, ora, all’impian-to centrico della rotonda sembrerebbe avvalorare il peso di questo edificio nel contesto urbano, sia in relazione alla rilevanza topografica dell’area, che per il riutilizzo delle strut-ture romane nell’area del presbiterio, che potrebbe fare ipotizzare un uso liturgico quale vasca battesimale. In attesa di ulteriori e più approfondite analisi sul monumento, la facies bizantina della città, per la quale già le lettere di Gregorio Magno mostrano un certo fervore edilizio21, emerge ulteriormente dal numero di dediche religiose variamente ricollegabili al mondo orientale (fig. 11); una veloce disamina degli edifici religiosi, ragionevolmente attribui-bili all’arco di tempo in oggetto, orienta, in via preliminare, a riconoscere l’esistenza di un lungo processo nella progressiva costruzione della città cristiana; è quanto si evince dalle dedicazioni riferibili all’ambito religioso greco-orientale (SS. Cosma e damiano, S. demetrio, S. Maria dell’Idria, Ss. elena e Costantino, S. Stefano, S. Pantaleo), per molte delle quali non siamo in grado di proporre una precisa ubicazione, essendo la loro cono-scenza mutuata quasi esclusivamente dagli accenni documentari e dal nome delle relative contrade medievali. La distribuzione lungo via Crociferi (contrada dei Ss.elena e Costan-tino; chiesa di S. Stefano inglobata all’interno dell’attuale monastero di S. Benedetto), nell’altura di Montevergine (S. Maria dell’Idria, S. Barbara), nell’area del presunto Foro (S. Pantaleo) evidenzia, però, la concentrazione di queste chiese all’interno del nucleo ur-bano di più lontana origine22, con dediche attribuibili ad un momento più antico (piutto-sto chiaro è, ad esempio, il caso della chiesa dedicata ai Santi elena e Costantino) ed altre decisamente più recenti collegate alla progressiva militarizzazione della società dell’Isola, fin dal VII secolo inoltrato23.A questa seconda fase sono riportabili una serie di edifici religiosi, rintracciabili nelle fonti agiografiche o toponomastiche, che in alcuni casi ripropongono il tema della oc-cupazione di edifici pagani. Il caso più evidente è quello dell’edificio dedicato ai santi Quaranta Martiri, santi militari per eccellenza, il cui culto, di origine armena, a Costan-tinopoli è accertato dalla fine del VI secolo24 e la cui diffusione è legata alla classe diri-gente militare bizantina. Nella Vita di S. Leone, l’uso dell’avverbio vuvì orienta verso una sostanziale contemporaneità tra il momento di redazione del testo e quello della dedica dell’edificio25. Il riferimento agli antichi edifici circolari greci, nei quali il culto è

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11. Localizzazione degli edifici religiosi di età bizantina. In evidenza l’area del supposto kastron

legenda:1. S. Agata la Vetere; 2. Contrada SS. ele-na e Costantino; 3. S. Maria de Itria; 4. S. Barbara; 5. S. Maria de rotunda; 6. SS. Quaranta Martiri (?); 7. S. Pantaleo; 8. S. Stefano; 9. S. Salvatore.

estensione ipotetica del castrum bizantino

10. S. Maria della rotonda,interno

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12. Cappella Bonaiuto, interno

13. S. Agata al Carcere, rilievo delle strutture relative alle fortificazioni di età altomedievale (verde), medievale (giallo) e cinquecentesche (blu) (da Arcifa 2009)

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alloggiato, rende evidente la riutilizzazione di un edificio a pianta centrica, per il quale si potrebbe pensare all’odeon o forse, secondo una ipotesi ripresa di recente, a strutture prossime all’anfiteatro26.Altrettanto significativa è la dedica a S. Pantaleo, inserita in un contesto pubblico per ec-cellenza27, che rimanda ad un momento di peculiare sinergia tra potere politico, militare e religioso tale da rendere possibile la trasformazione dei luoghi e il cambio di destinazione di edifici destinati ad uso pubblico28. È bene ribadire che la trasformazione della città cristiana avviene all’interno di un conte-sto normativo per così dire disciplinato e che gli ultimi studi sulla città tardo antica hanno messo ben in evidenza. Non si tratta di una occupazione che potremmo definire abusiva di luoghi pubblici ma di un riuso che risponde a criteri di mantenimento del patrimonio pubblico, per edifici divenuti inutili, all’interno di un quadro legislativo di riferimento29. I dati a nostra disposizione non consentono di inserire coerentemente, all’interno del contesto fin qui tracciato, la cosiddetta tricora del Salvatore, meglio nota come cappella Bonaiuto (fig. 12); i recenti lavori di restauro non hanno sciolto del tutto gli interroga-tivi relativi all’originaria natura dell’edificio30, per il quale non possiamo escludere una iniziale destinazione funeraria e una collocazione cronologica più alta31, rispetto alle da-tazioni (VI oppure VII-VIII secolo) assegnategli tradizionalmente32. Certamente la sua ubicazione, in relazione alla prevalente distribuzione degli edifici religiosi in città, sopra esaminati, la caratterizza per una posizione marginale, extra moenia. essa potrebbe avere svolto, almeno a partire dalla tarda età bizantina, il ruolo di edificio religioso a servizio di un quartiere suburbano, che andava sorgendo in prossimità del futuro Porto Saraceno, segnalando, in altri termini, quel processo, ancora poco chiarito, che determinerà in età medievale la diversa dislocazione dell’area portuale rispetto all’originario bacino posto alla foce del fiume Amenano.

la ciTTà difesa: ipoTesi sul kastron bizanTino

La dislocazione degli edifici religiosi all’interno del nucleo urbano antico orienta ver-so una sostanziale preminenza dell’area della collina di Montevergine rispetto alle aree meridionali, verso le quali si indirizzerà, nel pieno medioevo, lo sviluppo urbano. Sul piano urbanistico e topografico, il rilievo della collina di Montevergine33 costituisce la caratteristica morfologica più evidente della città altomedievale, la quale trova una signi-ficativa rispondenza, come vedremo successivamente, nel rapporto preferenziale che la città costruisce, in questa fase, con il territorio pedemontano, che si sviluppa a nord e a nord-ovest di essa. Sull’area della cosiddetta acropoli si concentrano, come si diceva, gran parte degli edifici religiosi, la cui datazione possiamo ragionevolmente circoscrivere ad età bizantina; ma la città altomedievale sembra sfruttare il dislivello naturale della collina di Montevergine a fini difensivi; una serie di elementi di natura documentaria e archeologica consentono, infatti, di ipotizzare l’esistenza di una struttura difensiva, che nella tarda età tematica si impianta a protezione del centro secondo uno schema – un kastron verosimilmente qua-drangolare – che caratterizza molti centri di età bizantina34.Il dibattito sull’esistenza o meno di fortificazioni nella città tardo antica si impernia sul famoso passo delle Variae di Cassiodoro, l’epistola III, 49, là dove l’autorizzazione di Teodorico a riutilizzare le pietre dell’anfiteatro, ut in murorum faciem surgat, è stata in-terpretata come un preciso riferimento alle fortificazioni della città per le quali, effettiva-mente, nel prologo della lettera il gruppo dirigente cittadino esprime precise preoccupa-zioni. In verità, una più puntuale esegesi del brano, orienta verso una disposizione volta al riutilizzo del materiale per costruzioni di uso pubblico35. del resto, la testimonianza di Procopio, di qualche decennio successivo, attesta che alla vigilia della guerra greco-gotica, nel 456, la città era del tutto priva di fortificazione e tale ancora verso la fine della guerra36. Procopio, così bene informato sulle capacità difensive delle città italiane nel corso della guerra greco-gotica, di fatto menziona fortificazioni solo a Lilibeo, Palermo, Messina, sottolineando, nel caso di Catania, l’assenza di difese. La città ci appare invece certamente munita di un circuito difensivo nelle fonti arabe della conquista, quando è in grado di resistere a numerosi attacchi, prima di essere conquistata definitivamente37 e inserita nell’elenco di Muqaddasì quale città murata38. dal punto di vista archeologico, un primo elemento di riflessione viene dagli scavi condotti nell’area dell’oratorio attiguo alla chiesa di Sant’Agata al Carcere; le indagini hanno mes-

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so in luce il resto di una struttura voltata, in origine un criptoportico o una sostruzione per una rampa di accesso alla collina, di età tardo-imperiale, costruita a ridosso del decli-vio naturale; la parziale demolizione dei piloni a valle, nel corso del VII secolo, configura diversamente la parte muraria preservata, la cui altezza complessiva fu, in prosieguo di tempo, ulteriormente rialzata con la costruzione di un apparecchio murario soprastan-te, privo di malta di calce, che fa ipotizzare una riutilizzazione in chiave difensiva della struttura39 (fig. 13).La città tardo bizantina sembra, dunque, dotarsi qui di un primo sistema di difesa: una interpretazione indirettamente suffragata dalle emergenze monumentali delle epoche suc-cessive che dimostrano come la cinta medievale e poi il bastione cinquecentesco continuino a utilizzare il naturale salto di quota per impostare le difese sullo stesso allineamento. d’altra canto, la ricerca dei limiti complessivi della città bizantina si arresta sostanzial-mente a questa parte della città, in ragione della sua conformazione altimetrica. Come possibile ipotesi di lavoro, parrebbe utile riflettere sui naturali salti di quota rimarcati dagli allineamenti di via Crociferi a est e via Teatro Greco a sud40: la città potrebbe avere impostato le proprie difese sulla cesura naturale determinata dalla linea di faglia. un contributo di ordine toponomastico viene a questo proposito dal ricordo della porta di mensu, porta già distrutta al tempo del Bolano41, il cui ricordo si manteneva ancora nel nome del quartiere omonimo. dai riferimenti presenti tra i documenti del Tabulario di S. Benedetto, il quartiere risulta contiguo e confinante con quelli di Pozzo d’Albano, S. Agostino, S. Pantalone42; alcune citazioni, in particolare, consentono di restringere ulte-riormente l’area a quello spazio geografico tra il Convento di S. Agostino e l’odeon43 e di ipotizzare che la via porta di mezzo avesse un tracciato non molto dissimile dall’attuale discesa di S. Agostino. Come si vede, la porta doveva trovarsi in un’area strategica posta in corrispondenza del margine meridionale della collina, a monte dell’area dove è ubicato il presunto foro. Se il nome del quartiere fa riferimento ad un’area di più recente urbaniz-zazione44, tra la Giudecca, ad ovest, e i quartieri commerciali a sud-est, la presenza di una porta di accesso, ubicata lungo il margine meridionale dell’altura, rimanda all’esistenza di una linea di fortificazione . È così ipotizzabile che si debba guardare alla porta di mezzo, sulla quale come è noto la storiografia locale ha costruito il mito dei rapporti conflittuali tra Federico II e la città45, come ad uno dei punti di accesso della cinta fortificata bizantina, relitto non più compreso nel momento in cui i resti saranno inglobati nella espansione ur-bana della città medievale. Almeno due diverse notazioni delle fonti rafforzano, allo stato attuale, l’idea di un allineamento difensivo a monte del teatro e dell’odeon: il riferimento del Biscari, a proposito del convento di S. Agostino, parte del quale “è fabbricata sopra grosse antiche muraglie…”46, ma, soprattutto, la citazione del Bolano della torre Mili-sindi – il cui nome rimanderebbe ad un sostrato germanico47 – che, con la sua posizione a monte dell’angolo orientale del teatro, potrebbe configurare l’esistenza di una torre aggettante lungo la cinta muraria.una tale ipotesi, allo stato attuale delle nostre conoscenze, non confligge con gli elementi emersi dalle indagini condotte all’interno del Teatro48; i dati fin qui noti, infatti, rendono perspicua una successione stratigrafica accertata fino al VII secolo inoltrato, mentre mol-to meno evidente, sul piano insediativo, è la stratificazione altomedievale, con particolare riferimento ai secoli VIII /inizi IX, relativa, cioè, al momento di massimo restringimento del perimetro urbano. Non escluderei, dunque, che il Teatro possa essere stato lasciato fuori della costruzione delle difese nella tarda età tematica49. Non è forse casuale, a tal proposito, che le indicazioni preliminari fin qui disponibili indicano un notevole iato cronologico nella successione stratigrafica tra il poderoso strato di riempimento, che nel corso del VII secolo sigilla l’ultimo episodio insediativo istallatosi al di sopra dell’orche-stra, e la fase basso medievale segnalata dalle invetriate di XIII secolo50. In definitiva, potremmo ipotizzare che, nell’ambito della riorganizzazione difensiva dell’ultima età bizantina, la città sia stata dotata di difese limitatamente alla cosiddetta acropoli, e cioè alla parte alta della città meglio difendibile. Considerando i supposti limi-ti settentrionali (bastione di Sant’Agata la Vetere), orientali (via Crociferi) e meridionali (via Teatro greco) il circuito murario verrebbe ad assumere un andamento quadrangolare non dissimile da altri castra di età bizantina 51 (fig. 11). Non appare così del tutto casuale che nel pieno cinquecento la delimitazione delle circoscrizioni delle chiese sacramentali si attesti sui limiti sopra individuati: i confini assegnati alle due chiese di Sant’Agata la Vetere e di S. Maria dell’Idria compongono, infatti, un quadrilatero suddiviso simme-tricamente dall’asse mediano di via S. Maddalena52. una volta smantellata la struttura, è ipotizzabile che il limite fisico, rappresentato dalla fortificazione, abbia comunque im-

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84 catania l’identità urbana dall’antichità al settecento

14. direttrici viarie in relazioneagli insediamenti monastici altomedievali. 1. Monte Po’;2. Santa Sofia;3. Monte S. Paolillo

prontato la percezione di questo settore urbano fissando nel tempo la sua delimitazione. L’indagine sulle ulteriori aperture presenti lungo i limiti del castrum bizantino può al momento contare di scarne indicazioni. oltre la già ricordata porta di mezzo, ipote-tico ingresso lungo il limite meridionale, la porta di Sant’Agata credo che possa avere rappresentato il suo corrispettivo lungo il lato settentrionale. La sua posizione, in asse, all’interno del perimetro urbano, con l’attuale via Santa Maddalena, (asse viario antico della città) e sulla quale confluiscono gli importanti itinerari suburbani da nord, consente allo stato attuale di assegnare alla porta S. Agate, Regis, o aquilonare una antichità ben maggiore rispetto alle attestazioni basso medievali.Più complessa la localizzazione della porta Ariana, citata nella redazione tardo bizantina della vita di S. Leone, posta, verosimilmente, in direzione di Siracusa53 (lungo il limite occidentale?), che conferma ulteriormente l’esistenza di una cinta fortificata, al momento della redazione del testo agiografico, agli inizi del IX secolo54.

la dimensioni TerriToriale: la viabiliTà suburbana e la preminenza del bosco eTneo nell’alTomedioevo.

Le questioni ancora tutte aperte, relative alla individuazione del kastron bizantino e delle sue porte, sono strettamente connesse, come si vede, alla ricostruzione della via-bilità suburbana e, più in generale, per l’arco cronologico che qui ci interessa, alla ca-pacità della città di intercettare i tracciati viari di lunga percorrenza. La città configura il suo rapporto con il territorio attraverso gli assi viari che, dipartendosi dalle porte urbiche, garantiscono i collegamenti con l’area del Bosco e della fascia pedemontana orientale (porta nord o porta Sant’Agata); con Paternò e la media valle del Simeto, ad ovest; verso i terreni della Piana a sud ovest (porta Ariana?). Lungo questi tracciati, che in alcuni casi riutilizzano l’antica viabilità romana, sorgono, probabilmente, nel corso dell’età bizantina una serie di insediamenti monastici che sovrintendono alla nuova organizzazione territoriale (fig. 14).Gli itinerari che si dipartono a ventaglio lungo le pendici sud-orientali dell’etna appaiono avere proprio nella porta Nord o di Sant’Agata un unico punto di irraggiamento. La complessità dei processi insediativi nel territorio a nord di Catania non rende facile la ricostruzione di questi tracciati, né tanto meno una più precisa lettura dello sviluppo di itinerari alternativi attraverso l’area del Bosco etneo, rispetto alla viabilità di età roma-na, il cui tracciato peraltro è ancora ben lungi dal considerarsi perfettamente ricostru-ito. Complessivamente, riteniamo di potere leggere un interesse più marcato, nel corso dell’Alto Medioevo, per la viabilità pedemontana che si attesta intorno ai seicento metri di quota; ad essa è demandato il compito di itinerari di lunga percorrenza, a discapito della viabilità a quota più bassa, di tradizione romana, lungo l’asse Ficarazzi-Nizzeti. due sostanzialmente le direttrici più antiche: l’una in direzione nord attraverso contrada Cifali (Cibali), tangente alla collina di S. Sofia, verso i casali di S. Giovanni Galermo, Mascalucia e Nicolosi e i vigneti istallati lungo le pendici del vulcano a quota seicento/settecento metri; l’altra, a quota più bassa, dominata dall’altura di Monte San Paolillo, verso Sant’Agata li Battiati e Viagrande55 che prosegue verso nord in direzione di Fleri, Milo , Mascali ricollegandosi alla viabilità di lunga percorrenza verso Messina. Il tracciato romano dell’Itinerarium da Messina a Palermo, tangente al suburbio settentrionale della città56, mantiene ancora un ruolo portante nel drenare i collegamenti verso nord-est, in direzione di Nizzeti e più tardi di S. Filippo di Carcina, lungo le ‘timpe’ del versante orientale; ma pare in questa fase intermedia, più direttamente legato allo sfruttamento delle risorse idriche dei mulini di contrada reitana, e solo nel corso del Quattrocento recuperato nella sua funzione di viabilità di lunga percorrenza. dalla porta ovest si apriva, invece, l’itinerario in direzione di Paternò e di Palermo, tan-gente la località di Nesima, che doveva gravitare ancora nel solco dell’antica viabilità romana attraverso la media valle del Simeto.È lungo questi assi viari che intravediamo una attività costruttiva, volta a garantire una rete ca-pillare di assistenza. In questo senso mi pare di potere interpretare i riferimenti alle fondazioni monastiche citate nelle lettere di Gregorio Magno ma anche i resti archeo-logici che aiutano a ricostruire l’ azione di cristianizzazione dell’immediato hinterland catanese, documentando nel contempo la gravitazione privilegiata verso le pendici sud-orientali dell’etna .La ricognizione della letteratura archeologica mostra una persistenza di lungo periodo con la sovrapposizione delle fasi edilizie di età bizantina su precedenti insediamenti ro-

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mani57: a Monte Po di Nesima, altura che domina il tracciato in direzione di Paternò, sopra i ruderi pertinenti un vicus romano si imposta una basilichetta bizantina (VII-VIII secolo) scavata dal Libertini58, alla metà degli anni Venti del secolo scorso. Sulla collina di S. Sofia, posta in posizione dominante rispetto all’itinerario verso Mascalcia e Nicolosi, la presenza di ruderi in contrada Petraro, già ricordata dal Biscari, è avvalorata dalle osser-vazioni di Libertini che sottolinea “evidentissimi ruderi bizantini”59; essi ripropongono la presenza di una villa tardo-romana, sulla quale si imposta una fase edilizia più tarda, che già l’Amico ricollegava ai resti del monastero di S. Giuliano, ricordato da Gregorio Magno, poi inurbatosi nel corso del XIII secolo60; infine l’altura di Monte S. Paolillo, che controlla un importante punto di snodo verso la costa e l’area delle ‘timpe’ intermedie61, presenta tracce insediative databili all’Alto Medioevo, che si impostano su di un contesto funerario di età romana62. Come si vede, le direttrici della colonizzazione benedettina, che troviamo poi pienamente in funzione da età normanna in poi, attraverso le fondazioni che fanno capo all’azione del monastero di S. Maria di Licodia63, consolidano in realtà scelte già in atto da età bizanti-na, legate all’avanzata del vigneto e allo sfruttamento delle risorse boschive dell’area pe-demontana. Nei casi di Nesima e di S. Sofia, si intravedono i riferimenti ad una presenza monastica alla quale, nei decenni precedenti l’arrivo dell’Islam, è affidata la costituzione di una rete di monasteri sull’etna, imperniata su Nicolosi, e che prosegue verso il mona-stero gregoriano di S. Andrea super Mascalas, attraverso la direttrice di Fleri64.La dislocazione di questi edifici può, a mio giudizio, segnalare la predominanza di alcuni assi viari e, in linea generale, la proiezione della città su alcune fasce territoriali privilegia-te, verso Paternò da una parte, e verso il versante pedemontano sud-orientale, dall’altra, a discapito, almeno per l’alto medioevo, dell’area meridionale della Piana dove, allo stato attuale, non siamo in grado di segnalare testimonianze archeologiche o toponomastiche riferibili ad una irradiazione altrettanto significativa.A fronte di un allentato legame con il territorio meridionale e con Siracusa si delinea, dunque, la preminenza delle pendici meridionali e orientali dell’etna verso le quali la cit-tà proietterà quegli interessi economici che sovraintendono alla colonizzazione benedet-tina del versante meridionale e alla nascita dei casali nell’area del bosco. Lo sfruttamento delle risorse idriche della media valle del Simeto è certamente alla base del successo di quest’area: non a caso colpisce nella documentazione di età normanna la precoce com-parsa e il numero di mulini ricollegabili alle presenze monastiche dell’area. In realtà, i processi che abbiamo ipotizzato vanno ricompresi nell’ambito delle profonde modificazioni dell’assetto viario e insediativo che si delineano nell’ultima età bizantina, culminando poi con la caduta di Siracusa in mano islamica. Catania eredita almeno for-malmente il ruolo di capitale e città metropolita65; fronteggia i numerosi assalti arabi, resistendo fino agli inizi del X secolo. A fronte di tutto ciò, l’analisi dell’assetto viario per la tarda età bizantina indica una minore incidenza del ruolo della città e del suo territorio, in relazione alla differente organizzazione viaria che privilegia altri ambiti territoriali.A partire dal VII secolo inoltrato l’asse di collegamento est/ovest dell’Isola si attesta lun-go la dorsale nebroidea, determinando, di riflesso, una certa marginalizzazione dei centri costieri, e di Catania, in particolare, sulla quale gravitava in età romana il collegamento per Termini attraverso la via del Simeto. L’arretramento complessivo dei collegamenti costieri pare ridimensionare, inoltre, il ruolo della città nell’attirare la viabilità nord/sud da Messina verso Siracusa. una serie di elementi, piuttosto, supporta l’ipotesi di un maggiore peso acquisito dalla direttrice viaria più interna che mette in comunicazione la costa tirrenica con il versante pedemontano occidentale et-neo. Lungo questa direttrice si trovano centri che assumono un ruolo significativo nel pas-saggio tra età bizantina e prima età islamica, demenna, Troina, Maniace e la stessa Paternò, che consente il controllo di importanti punti di guado sulla Piana. Non a caso ancora in età normanna la scelta di enrico Aleramico ribadisce il ruolo militare della rocca di Paternò che controlla a sud un’area importante per la viabilità: oltrepassato il Simeto e il dittaino, una serie di itinerari si dipartono a ventaglio in direzione di Piazza, Caltagirone, Lentini (fig. 14). Proprio la documentazione di età normanna consente di ricostruire a ritroso un itinerario ben attrezzato con la giarretta sul Simeto all’altezza di contrada Finocchiara/Passo dei Veneziani e con il Ponte del Ferro/S. Pantaleone sul dittaino, lungo la strada per Lentini66. una dedica, quella al santo bizantino, che si inquadra, come si è visto in ambito urbano, nel forte sviluppo di santi militari tra VI e VII secolo, attestando indirettamente l’interesse dello stato bizantino nel garantire la fruizione della viabilità di lunga percorrenza e attrezzarne i percorsi. Nello specifico, i due punti di attraversamento sul Simeto e sul dit-

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taino, obbligatori nell’ambito di un tracciato nord/sud attraverso la Piana, si impongono rispetto ai punti di guado più orientali in prossimità della foce del Simeto e del Galici, che vedremo in funzione posteriormente con la giarretta di Sant’Agata e il Ponte di San Paolo. Il ruolo di madina, attribuito a Paternò nell’elenco di Muqaddasì, pare confermare così an-cora per il X secolo la funzione privilegiata che assume la media valle del Simeto a controllo degli itinerari di collegamento tra il Val demone e il Val di Noto.

la madina islamica

Il ridimensionamento, sopra ipotizzato, del ruolo di Catania nell’assetto complessivo della Sicilia nord-orientale non deve però adombrare la lunga resistenza alla conquista islamica, che evidentemente faceva leva sulle capacità difensive e sulla ricchezza e fertilità del territorio circostante. Non siamo in grado di valutare il peso della conquista sull’eventuale modificazione degli assetti territoriali. Come vedremo successivamente, solo nel lungo periodo potremo co-gliere la riaffermazione del ruolo ‘costiero’ della città, che le scelte di età sveva sanciranno in via definitiva.Sul piano urbanistico e topografico, la cesura rappresentata dalla svolta del X secolo lascia spazio, ritengo, ad alcuni elementi di forte continuità tra la città bizantina e la città islamica quali traspaiono dagli scarni accenni dei cronisti arabi. Nella madinat al-fil l’elemento identitario, l’elefante, e la stessa configurazione della città, in quanto luogo fortificato, si pongono in netta continuità con l’età precedente. Illuminante, a questo proposito, è la testimonianza più tarda di Al Himyari relativa alla descrizione della città; riferendo dell’elefante, dal quale la madinat prende nome, egli sottolinea la sua ubica-zione in posizione elevata, al di sopra di un basamento di roccia collocato “sul tetto di un importante edificio della città ed esattamente sul palazzo che domina il teatro”67. La traduzione di A. de Simone può ulteriormente essere puntualizzata, considerando che il termine tetto traduce il concetto di ‘parte sommitale’ e, soprattutto, i termini edificio/palazzo traspongono il concetto, ben più pregnante di ‘qasr’, che come è noto connota un luogo fortificato, una cittadella68. Non sfugge, nella descrizione, il ruolo dominante della statua posta in posizione ben visibile per chi guarda la città da una prospettiva meridionale. L’edificio cui si riferisce la fonte, o, meglio, la linea fortificata del qasr mantiene, dunque, una posizione elevata e domina il teatro in virtù del naturale declivio della città anche su questo lato. Lungo questa linea, coincidente di massima con l’attuale via Teatro greco, abbiamo ipotizzato che dovesse erigersi la porta di mezzo, pertinente al kastron bizantino e poco più a est la torre Milisindi. La citazione del qasr, nel testo di Al Himyari, consente, a nostro parere, di individuare uno dei limiti della fortificazione della città islamica, significativamente coincidente con quella di età bizantina. Anche nel caso dell’elefante, che sembra soppiantare le radici cristiano-latine della città, mi pare che possa essere ragionevolmente supposta una linea di continuità che affonda le proprie radici nelle modificazioni di età bizantina. Henri Bresc ha ripreso di recen-te il tema, riferendo il simbolo dell’elefante allo strato arabo musulmano della cultura folklorica siciliana, sostenendo che l’elefante ha rimpiazzato, come palladium, una statua bizantina di bronzo69. Più precisamente, la cultura islamica ha piuttosto utilizzato un simbolo già presente nella città, per il quale, del resto, lo stesso Salvatore Tramontana aveva sottolineato il legame profondo con il mondo bizantino, segnalato dal nesso tra il siciliano liotru e il nome del mago eliodoro70. Non è forse casuale che l’analisi di un testo profondamente “catanese”, quale la vita di S. Leone, la cui redazione dovrebbe collocarsi tra VIII e inizi IX secolo, restituisca una dimensione culturale della città profondamente diversa e articolata, intrisa di influenze orientali e permeata da forme di religiosità molto lontane dall’ortodossia, e parimenti diffuse nel mondo bizantino; in questo contesto, in cui spicca la totale assenza della martire Agata, la protezione contro le eruzioni dell’etna è affidata ad una statua (xÒanon), non meglio identificata, vero e proprio talismano. È all’interno di questa atmosfera che, forse già nell’ultima età bizantina, emergerà la forza simbolica dell’elefante, destinato a soppiantare momentaneamente l’immagine di Agata (figg. 15-16). Simbolo stesso dell’oriente dalle guerre alessandrine in poi71, l’elefante mantiene e accentua nel mondo bizantino una dimensione legata al trionfo72, alla quale la cultura cristiana accosta una valenza religiosa salvifica73. I due aspetti (il riferimento al trionfo e alla salvezza) amplificano di significati la posizione dominante che le statue di

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15. Biblioteche riunite Civica e ursino recupero, sigillo di enrico Aleramico, 20 maggio 1115; recto e verso

16. denaro di Federico IV (1355-1377), zecca di Catania (collez. privata)

elefante hanno nella stessa Costantinopoli, dove ornano la porta Aurea che dà l’accesso alla grande arteria processionale della Mesé74, le piazze pubbliche, in particolare il foro di Costantino, che si aprono lungo questo asse, fino alla spina dell’ippodromo75, sbocco naturale dei trionfi, luogo di esibizione dei prigionieri e del bottino dell’armata imperiale. La pregnanza simbolica, così evidente nella cultura bizantina, non trova un corrispetti-vo altrettanto forte e radicato in età islamica76, rendendo del tutto plausibile, a nostro parere, nel caso catanese, l’ipotesi di un radicamento della tradizione già nella tarda età bizantina.Il confronto con la situazione costantinopolitana rafforza, nello specifico, l’idea che la statua, forse proveniente da qualche edificio della città (ippodromo?), sia stata ricollocata al di sopra di una di queste emergenze (la torre Milisindi o la porta meridionale), assu-mendo, a partire da una certa data, il ruolo di palladium. In un contesto di forte vicinanza culturale con Costantinopoli, quale traspare dalla vita di S. Leone, si elabora, dunque, una nuova immagine simbolica di matrice orientale, fortemente legata al trionfo e alla salvezza, che nel mondo islamico trova ampia rispondenza, tramandata dal gesto di Ibn al Thumnah, che rimette in piedi questo xoanon volendo forse conquistare il favore della popolazione di estrazione greca.L’elefante domina così, nella descrizione di Al Hymiari, una delle emergenze della cinta fortificata che, in considerazione delle qualità difensive della collina di Montevergine, potrebbe avere riutilizzato le strutture del kastron bizantino (fig. 11). La formazione della madina islamica si porrebbe, in questa ipotesi, in netta continuità con la città fortificata bizantina. Come nei casi documentati di continuità tra fase bizantina e islamica, è alta-mente probabile che la madina, con la moschea congregazionale, il mercato, gli uffici amministrativi, abbia continuato a utilizzare l’altura di Montevergine.La Catania islamica nella scarna descrizione di Al-Muqaddasì, riferibile alla fine del X secolo, è una città murata77, al cui interno trovano spazio gli elementi più tipici della vita urbana: mercati, fondaci, bagni, moschee. Allo stato attuale, d’altro canto, le indagini archeologiche non consentono una verifica puntuale; al contrario proprio quelle all’inter-no del complesso dei Benedettini nell’area meglio indagata si mostrano particolarmente avare di stratigrafie attribuibili con certezza a questo arco cronologico, con una sovrap-posizione piuttosto ricorrente tra le fasi tardo antiche e gli strati di età basso medievale.Se la ricerca futura dovrà chiarire meglio l’apparente discrepanza tra fonti documentarie e risultanze dell’indagine archeologica, è possibile fin d’ora intravedere le linee di svilup-po della città altomedievale e il suo progressivo ampliamento, che determinerà la forma-zione dei quartieri periferici; quella attorno al Porto Saraceno avrà certamente costituito uno delle principali aree di espansione, che allo stato attuale è possibile ricostruire, sia pure a partire dal filtro della documentazione più tarda, di epoca normanna e sveva. un processo che trova un significativo parallelo a Palermo, dove i nuovi quartieri extra moe-nia, sorti attorno alla rada portuale della Cala, fin dalla metà del X secolo, travolgono le prime necropoli islamiche sorte sulla roccia78.L’ubicazione del Porto Saraceno79 è nota attraverso riferimenti documentari e rappresen-tazioni cartografiche tardo cinquecentesche; ancora alla fine del Quattrocento attorno alla contrada di Lu imbarcu seu Portus saraceni vel Sancti Thomae si addensano una serie di magazzini di proprietà di monasteri e esponenti del patriziato urbano80. La pianta del 1584 nel delineare il tracciato delle mura alla spalle della cattedrale descrive una sorta di ‘u’ rovesciata sulla quale si apre la porta del Porto (fig. 17). È lo spazio oggi occupa-to da Piazza S. Placido e via Porticello, che corrisponde grosso modo all’antico bacino portuale, a quella data già parzialmente interrato; lo stretto nesso tra porto e cattedrale è puntualmente descritto dal cronista Michele da Piazza che nel 1343 descrive l’ingresso della galea di re Ludovico nel portum civitatis…in oppositum ecclesie beate Agathe81. La posizione del porto medievale, a est rispetto alle absidi della cattedrale, pone la que-stione del rapporto con il porto antico della città: può in altri termini il Porto Saraceno essere considerato il diretto erede del porto di Catina greca e romana? Come è noto la questione del porto antico non ha ancora trovato una precisa definizione, anche se la sua ubicazione è ipotizzata nell’area dell’attuale Villa Pacini, in corrispondenza della foce del fiume Amenano82. da quell’area proviene l’epigrafe onoraria, databile alla tarda età imperiale, relativa al restauro di strutture portuali, danneggiate a seguito di una violenta mareggiata83. Le stesse strutture rinvenute alla fine dell’ottocento in via Zappalà Gemelli sono state interpretate, nell’ambito di questa ricostruzione, come opere di sistemazione delle sponde del fiume o riconducibili ad attrezzature portuali84; la localizzazione di questi rinvenimenti consente, come si vede, di delineare un’area posta a ovest/ sud-ovest rispetto

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17. Biblioteca Angelica, roma. Pianta di Catania (1584), Porto Saraceno

19. Catania, Castello ursino. Prospetto meridionalecon la Porta cosiddetta del Sale e la rampa che consentivain origine l’accesso al mare

20. Catania, Museo Civico di Castello ursino. Iscrizione di Aurelius Samohil 383 d.C. (da rizzone 2008)

18. Archivio Capitolare di Catania, platea del 1145

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alla cattedrale, in apparenza distinta, dunque, rispetto all’ubicazione di Porto Saraceno. L’avanzamento della linea di costa, a seguito del progressivo interramento dell’originaria insenatura, avrebbe nel tempo determinato lo spostamento in avanti dell’area portuale che in età medievale è, come si diceva, certamente ubicata più ad est. Per quanto non sia facile fissare dei riferimenti cronologici per questo processo, possiamo indirettamente cogliere il nuovo ruolo assegnato a questa parte della città, a partire dai processi di urba-nizzazione che verosimilmente già in età islamica la investono: la presenza, in prossimità del Porto Saraceno, dell’unica moschea nota dalle fonti, trasformata nel 1179 nella chiesa cristiana dedicata a S. Tommaso, è la testimonianza tangibile della densa presenza isla-mica che caratterizza questo lembo della città, ancora in età normanna85. Non in modo casuale, del resto, proprio in quest’area verrà trasferito il centro direzionale della città, con la costruzione dell’abbazia fortificata di Sant’Agata che si insedia in un’area a forte densità musulmana; ancora dalla giarida del 1145 è possibile calcolare una popolazione islamica, soggetta al vescovo, di circa mille persone86 (fig. 18). I nuovi quartieri islamici vengono così ad occupare un’area a destinazione funeraria nella città romana che, sulla base delle differenze di quote riscontrabili tra i livelli di età roma-na e quelli medievali a Piazza duomo e nel cortile di Palazzo Platamone, è interessata da un rialzamento dei livelli di calpestio di oltre tre metri87.Non ci sono dati per mettere in relazione il progressivo rialzarsi delle quote con le modi-ficazioni della linea di costa in questo tratto né tanto meno è possibile articolare meglio la relazione che abbiamo ipotizzata tra lo spostamento del porto verso est e la nascita dei quartieri islamici.L’importanza di questa fase per la formazione della città medievale mi sembra ulterior-mente avvalorata da un dato toponomastico fin qui scarsamente compreso. Sembra infatti risalire a quest’epoca la formazione del toponimo ‘ursino’, riferito al promonto-rio sul quale sorgerà il castello (fig. 19). Il toponimo è attestato, per quanto sappiamo, solo dal tardo duecento, quando non più compreso, è fissato in una forma ormai iper-corretta, latinizzata. ritengo che ai fini di una migliore comprensione possa rivelarsi utile un più stretto collegamento con le caratteristiche portuali dell’area prospiciente al promontorio su cui sorgerà il castrum svevo, poi definito ‘ursino’. Accanto alla pos-sibile derivazione dall’arabo [dar] al-sina‘a (arsenale)88, ancor più perspicace appare il collegamento, proposto da A. de Simone, con l’arabo irsa’ (‘ancoraggio’, ‘approdo’), e in particolare con la forma duale irsa’yni (c.obl.) (‘due approdi’)89. La complessità delle trasformazioni intercorse su questo tratto della linea di costa, in età storica, fino alla definitiva trasformazione dei luoghi a causa della colata del 1669 non consente una immediata sovrapposizione del toponimo alla realtà fisica attuale. e, tuttavia, la felice rispondenza linguistica tra l’arabo e le trasformazioni successive induce a prospettare alcune possibili ipotesi. La formazione del toponimo in età islamica potrebbe, da una parte, consegnarci la par-ticolare realtà portuale alla foce dell’Amenano in cui al porto antico, di età romana, si affianca il nuovo Porto Saraceno. Non possiamo, tuttavia, escludere che il toponimo pos-sa invece alludere alla peculiare conformazione della costa a nord e a sud dello sperone roccioso di Castello ursino che rende plausibile l’esistenza di due diversi punti di appro-do. Se le caratteristiche dell’insenatura a nord sono, come abbiamo appena visto, ancora oggi parzialmente individuabili, ben più complessa risulta la ricostruzione della linea di costa antica a sud di Castello ursino a causa dell’avanzata del fronte lavico del 1669 che, aggirando il castello da sud giunge fino al mare. L’incrocio tra i dati geologici90 e le indica-zioni della cartografia storica consente di ricostruire l’esistenza di una vasta depressione, poi colmata dalla colata lavica. La presenza dell’ippodromo, ancora segnalato nelle carte Spannocchi e Negro, fornisce in realtà l’unico punto certo per la ricostruzione di questa parte, posizionandosi, sulla base delle ultime proposte interpretative, al di sopra dell’an-tico banco lavico dei fratelli Pii, a circa trecento metri dalla porta della decima91; ma la mancanza di indagini geognostiche rende incerta l’individuazione di eventuali variazioni morfologiche della linea di costa, tra età romana e alto medioevo, nel tratto tra l’ippo-dromo (e dunque il fronte lavico dei Fratelli Pii) e il castello ursino. Non siamo in grado cioè di determinare se il profilo costiero si attestasse sul prolungamento ideale di Castello ursino o se in età romana fosse più arretrato tanto da lasciare posto ad una insenatura, protetta naturalmente dal promontorio sui cui sorgerà il castello. È certo, comunque, che la spiaggia a sud di Castello ursino era utilizzata ancora nel Medioevo come luogo di approdo: nel succitato episodio del 1343, la galea di re Ludovico si immette all’interno del porto mentre il resto della flotta si ferma “in oppositum civitatis iuxta plagiam” per

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sbarcare poi sulla marittima, attestando l’utilizzo di questo tratto di spiaggia come luogo di approdo. In questa ottica, la stretta lingua rocciosa su cui sorgerà il castello si pone dunque a inframmezzare due diversi punti di approdo, la costa sabbiosa a sud, dove è possibile tirare a secco le imbarcazioni e l’insenatura portuale a nord, caratterizzata da un pescaggio maggiore. Anche i recenti scavi effettuati all’interno del Castello ursino hanno, peraltro, dimostrato che questo promontorio, che guarda da sud l’area portuale, era già stato occupato dai coloni greci92, e vede in età altomedievale l’impianto di strut-ture edilizie, rinvenute nella sala III dell’ala orientale, per la cui interpretazione, ancora problematica, è stata avanzata l’ipotesi che possa trattarsi di strutture di fortificazione93. del resto, ancora per il duecento l’analisi delle strutture del castello sembra rimarcare l’esistenza di un rapporto diretto con il mare sul lato meridionale dell’edificio94.Se da una parte, dunque, è possibile individuare le linee guida dell’espansione urbana al di fuori della madina, in direzione dell’area portuale, resta ancora tutta da comprendere la formazione dei futuri quartieri meridionali e le eventuali implicazioni rispetto alle aree di più antica urbanizzazione.È possibile che in connessione con il progressivo ampliamento della città verso est si sia innescato un processo di spopolamento dei quartieri alti della città, ipotizzabile sulla base delle scarse attestazioni riferibili ai secoli in questione, rintracciate, per esempio, nelle stratificazioni dei Benedettini. Peraltro, possiamo ipotizzare che la crescita urba-na a sud-est della madina non dovette essere isolata, e comportò la rioccupazione dei quartieri meridionali, posti tra la cittadella fortificata e il porto. Verosimilmente, in que-sta fase deve essersi formato anche il quartiere ebraico. L’esistenza in età normanna di una comunità ebraica, già alquanto numerosa95, è attestata dalle disposizione del 1168, con cui il vescovo Aiello concede alla comunità locale di potersi amministrare secondo le proprie consuetudini96. Le prime attestazioni epigrafiche, in realtà, mostrano già nel III secolo d.C. la presenza di una comunità ebraica che nel corso del IV è organizzata con una sinagoga e presbiteri per il culto97 (fig. 20). Possiamo ritenere che, pur senza specifiche attestazioni di età bizantina – ad esclusione dell’accenno ad un mago ebreo nella vita di S. Leone –, si sia mantenuto un nucleo poi ampliatosi in età islamica, quan-do, come è noto, la Sicilia è pienamente inserita nella fitta rete di rapporti, non solo economici, con le comunità ebraiche dell’egitto fatimida e del Maghereb98. Gli accenni documentari consentono la localizzazione del nucleo originario della Giudecca tra la Porta judaica lungo il tracciato occidentale delle mura medievali e la chiesa di Santa Marina lungo la via Santa Trinità, nelle cui vicinanze sorgeva la sinagoga grande99. Nei pressi di quest’area, oltre il limite delle mura occidentali, era l’area cimiteriale della comunità che si estendeva immediatamente al di fuori della porta Judaica, a sud delle arcate dell’acquedotto romano, sulla via per Paternò100. La successiva espansione della Giudecca si sarebbe indirizzata verso est, oltre la chiesa di santa Marina, dando origine, secondo l’interpretazione di Gaudioso, alla distinzione tra judaica de susu e quella de iuso dei documenti bassomedievali101.Pur in mancanza di riscontri archeologici per le epoche più antiche, riteniamo che i quartieri sud occidentali possano sin dall’origine avere accolto la comunità ebraica; una localizzazione giustificata, in prima istanza, dalle esigenze rituali che necessitano della vicinanza di acque sorgive per alimentare il bagno, pienamente soddisfatte dalla favore-vole posizione topografica lungo il corso dell’Amenano. Proprio il corso dell’Amenano, ancor più che altri riferimenti monumentali, deve avere fornito una sorta di asse media-no, disposto in senso nord-ovest /sud-est, lungo il quale si dispone la comunità ebraica, determinando, in ultima analisi, la distinzione canonica tra le due parti della Giudecca bassomedievale tra Judaica inferior e Judaica superior.La scelta iniziale sembra avere privilegiato, peraltro, l’area a più forte vocazione com-merciale della Catania tardo antica, prossima alla contrada S. Pantaleone, dove tradizio-nalmente viene ubicato il foro102 a ridosso di un settore che nella colonia romana risulta ‘fortemente connotato in senso politico e istituzionale’103 e che nel corso del VII secolo va trasformadosi in un’area extra-urbana. La costruzione del kastron bizantino e poi della madina islamica104 connota a quella data, la posizione del quartiere ebraico extra moenia, a sud-ovest dell’altura di Montevergine; una configurazione spaziale che ricorda molto da vicino quella di Palermo, dove l’harat al-yahud era raggiungibile tramite una delle porte che si apriva lungo la cinta fortificata del qasr. L’espansione urbana della città e le esigen-ze di difesa ad essa connessa comporteranno, forse già in età normanna, l’inclusione del quartiere all’interno del circuito murario della città medievale105.

21. Biblioteca Nacional de españa, Ma-drid. Spannocchi Tiburzio, Descripción de las marinas de todo el reino de Sicilia, (1578), La torre di don Lorenzo Gioieni

22. Biblioteca Angelica, roma.Pianta di Catania, (1584), La torredi don Lorenzo Gioieni

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91tra continuità e innovazioni: la città antica e medievale

casTrum e civiTas. la ciTTà normanna

La costruzione di una rocche e di una chiesa dedicata a San Gregorio sanciscono, nel rac-conto di Amato di Montecassino, la presa di Catania dopo un assedio di quattro giorni da parte di ruggero, nel 1071106. Ad oggi, questo episodio ha mantenuto contorni del tutto evanescenti, e non è immediatamente evidente se le scelte ruggeriane si siano indirizzate verso una conferma del ruolo strategico del qasr o abbiano privilegiato aree esterne alla cinta islamica107. Non c’è alcuna traccia archeologica o toponomastica, nella città bassome-dievale, che consenta di accertare la costruzione di una fortificazione nella prima età della contea, né tanto meno la sua eventuale continuità con quel palatium che, alla fine del XII secolo, accoglie in città re enrico in visita a Tancredi cum honore qualis decebat regem108.L’evidenza cartografica consente, d’altro canto, di avanzare qualche ipotesi, a partire dal-la rilevanza monumentale che ancora nel Cinquecento conserva la domus di Lorenzo de Juenio, rappresentata nella ben nota veduta Spannocchi, nonché nella pianta di Catania del 1584, conservata presso la Biblioteca Angelica a roma (figg. 21-22). Il confronto tra le due piante mette in evidenza la forte mole di questo quadrilatero, per il quale già in passato è stata avanzata l’ipotesi di un edificio difensivo di età sveva109. La differenza di scala con il costruito circostante, la stereometria dei volumi, alleggerita dalle finestre in alto, ripropongono con forza, se si esclude la tardiva copertura a padiglioni, il raffronto con gli imponenti donjons etnei di Paternò e Adrano. I tardi riferimenti documentali met-tono in rilievo il carattere forte dell’edificio ad modu di castellu, cinto di mura intorno110, posto lungo l’asse viario che da S. Agostino conduce fino alla Porta del re111; una posi-zione forte già indicata dal Negro, quando ricorda l’esistenza di una Torre antica sul sito che domina la città112. essa è da ricercare tra l’ospedale Santa Marta e l’odierna via Santa Maddalena, dove già il Policastro segnalava l’esistenza di ruderi visibili e le fondazioni di una torre quadrangolare intercettata in occasione di lavori stradali113. Ancora oggi, la pe-culiare situazione altimetrica di via Montevergine e il forte salto di quota verificabile con via Santa Maddalena suggerisce l’esistenza di una struttura particolarmente imponente, solo parzialmente rasata dopo il terremoto del 1693, i cui resti possono avere contribuito a determinare la peculiare conformazione altimetrica dell’area.Non escluderei, in altri termini, la possibilità di individuare nella torre di don Lorenzo Gioieni il donjon costruito da ruggero subito dopo la conquista; una tale ipotesi con-ferirebbe all’impianto urbano di età normanna una bipolarità, castrum-cattedrale, che ripropone schemi ben documentati nell’urbanistica normanna114. Nello specifico, risulte-rebbe ulteriormente rafforzato il ruolo strategico dell’altura di Montevergine in perfetta continuità con le scelte della città bizantino/islamica. Il lento scivolare verso l’oblio del castrum-palatium normanno, ancor più dopo la costruzione di castello ursino, ha nel tempo determinato una visione falsata delle dinamiche urbane. Nell’ipotesi qui avanza-ta, la minore rilevanza insediativa, che pare connotare i quartieri ‘alti’ in età medievale, sarebbe piuttosto collegata alla presenza di un’ampia area demaniale che per le sue ne-cessità strategico-difensive, almeno inizialmente, tiene a freno il processo di espansione urbana. È utile sottolineare, a tal proposito, come, ancora alla fine del Cinquecento, la Pianta Angelica pare evidenziare graficamente il sostanziale vuoto di costruzioni attorno al blocco quadrangolare dell’edificio, non ancora circondato da una fitta maglia insedia-tiva, come ci si potrebbe aspettare nel caso di un progetto nobiliare sorto all’interno di un’area edificabile. Proprio l’originaria natura demaniale e difensiva della fabbrica può avere determinato il vuoto circostante, ancora solo parzialmente interessato dalla crescita urbana della città cinquecentesca.Tralasciando del tutto l’intervento ruggeriano, la tradizione storiografica identifica, piut-tosto, la nascita della città medievale con la costruzione del monastero di Sant’Agata da parte dell’abbate Angerio tra il 1088 e il 1092 e la sua elevazione a sede vescovile con il diploma di ruggero nel 1091. La scelta topografica per il nuovo sito della Cattedrale – contrapposto a quello della chiesa di Sant’Agata la Vetere, identificata tradizionalmente con la vecchia cattedrale bizantina – in prossimità del Porto, avrebbe segnato il tramonto dei quartieri alti della città e il definitivo spostamento dell’asse direzionale, nei pressi del Porto Saraceno.Le considerazioni fin qui svolte sembrano delineare, invece, il lento processo di crescita urbana già avviato e indirizzato verso le aree meridionali, ai piedi della cittadella fortifi-cata, che mantiene il suo ruolo forte, con la formazione di almeno due diversi nuclei: uno in prossimità del Porto Saraceno, segnalato dalla moschea ancora esistente nella tarda età normanna; l’altro più ad ovest, dal quale trarrà origine la ben più vasta Giudecca basso

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medievale. Come si vede, alla luce di questi elementi, le scelte urbanistiche operate nella prima età normanna appaiono meno radicali e trovano, piuttosto, la loro ragion d’esse-re nelle modificazioni innescatesi almeno dal X secolo. La costruzione della cattedrale di Sant’Agata a ridosso dell’area portuale sottende, peraltro, la centralità acquisita dal porto di Catania nelle attività economiche del vescovado: vale appena la pena ricordare tra le concessioni di ruggero ad Angerio, i diritti di dogana portuali. La natura di ecclesia munita, che gli studi sulla cattedrale hanno messo in evidenza, si comprende meglio alla luce della necessità di proteggere e fortificare, ma anche controllare, le attività espletate all’interno del piccolo bacino portuale, sorvegliando nel contempo un’area a forte densità musulmana, come si evince indirettamente dai documenti di fine XI secolo115. Nella stessa descrizione di edrisi, che precede di circa un quindicennio il terremoto del 1169, la madinat al-fil, la città dell’elefante, presenta ancora, nonostante sessant’anni di presenza benedettina, una impronta spiccatamente islamica con i suoi fondaci, le moschee, i bagni, gli alberghi.La presenza benedettina aveva, comunque, già innescato il lento distacco dalla cultura islamica assegnando una nuova centralità alla figura della martire. Se nella balad al-f¯il il ruolo di Agata risulta ovviamente smorzato, il recupero colto della componente latina, operato in età normanna con il trasporto delle reliquie da Costantinopoli, aprirà una nuo-va pagina nell’identità urbana, rivitalizzando un culto che da quel momento agglomera la coscienza cittadina e che inserisce la città tra le mete del pellegrinaggio internazionale116. La ripresa del culto agatino, d’altro canto, non accantona il secondo elemento simbolico, che, anzi, con una operazione pregna di significati verrà ricollocato in una posizione em-blematica: secondo il racconto di edrisi117, l’elefante di pietra (innalzato, come sappiamo, da Ibn Thumnah sulle fortificazioni del qasr) venne trasportato “all’interno della città e posto nella chiesa dei monaci”. Ancora nel basso medioevo la porta di Liodoro, come vedremo, manterrà il ricordo del simulacro eretto, evidentemente ancora una volta, a protezione di una degli ingressi della cittadella vescovile118. La descrizione di edrisi risulta particolarmente interessante perché consente di affron-tare il problema della definizione della città, quale entità murata. Se, nel testo, l’accenno alla cinta urbica farebbe ipotizzare la costruzione di una fortificazione nel corso della pri-ma metà del XII secolo, a ben guardare esso sembra piuttosto suggerire una sostanziale sovrapposizione tra la città e la cittadella vescovile. Se pensiamo all’originaria collocazio-ne dell’elefante al di sopra del qasr, il suo spostamento “all’interno della città” non può che far pensare ad un’area ancora più ristretta: credo, cioè, che l’enceinte bien défendue, descritta da edrisi, possa essere interpretata e identificata con il circuito della cittadella vescovile, che, come tale, contribuiva fortemente agli occhi del geografo a individuare il nucleo della città stessa. una concezione quella di edrisi che, richiamandosi alla giuri-sprudenza di matrice islamica, trova nello specifico una ragione peculiare, considerando che all’interno della cittadella vescovile, nata attorno alla cattedrale e al monastero di Sant’Agata, si concentravano le funzioni politiche e religiose, prerogative del vescovo per tutta l’età normanna. da essa prese origine il toponimo di Civita119 denominazione con la quale, per estensione, si finì con l’indicare nel basso medioevo i quartieri più orientali di Catania, dal porto a Porta Aci e dalla via della Luminaria fino a Porta Pontone. Allo stato attuale, la ricostruzione dell’impianto fortificato della cittadella presenta però li-miti notevolissimi (fig. 23). Il camminamento merlato lungo i muri esterni delle absidi e del transetto meridionale della Cattedrale dimostra che l’edificio, costruito a filo delle mura, doveva esso stesso costituire elemento integrante della cinta fortificata120. ulteriori spezzo-ni, verosimilmente collegabili a questo tratto meridionale, sono stati intercettati nell’area di Piazza duomo, area in cui si ubica la Platea magna del centro medievale, a sud della catte-drale e nell’angolo sud-est della piazza121. Il tratto meglio conosciuto è il limite occidentale venuto alla luce nel corso di lavori stradali e indagato per circa 20 m. I lavori di scavo nel 1974, infatti, hanno messo in luce un ampio tratto di muro, costituito da grossi blocchi di lava rozzamente squadrati, con direzione nord-sud, con uno spessore di m 1,55, conservato per un’altezza di quasi due metri, la cui fondazione non fu possibile indagare per intero122. Il muro delimitava a ovest un asse stradale identificato con la Via Luminaria, che alle spalle della Platea magna, con andamento grosso modo nord-sud, collegava la porta dei canali con la Porta Aci; esso è stato interpretato come muro occidentale della Loggia costruita nella Platea magna entro la prima metà del XIV secolo123. La ricostruzione dell’assetto urbano della Piazza, proposta da Tomasello124, giunge alla conclusione che le murature occidentali della Loggia coincidono con il limite ovest della cinta fortificata, confermando sostanzial-mente le descrizioni delle fonti più tarde. La presenza di un “muro antichissimo”, inglobato nelle murature della Loggia è, infatti, attestata anche dagli scrittori seicenteschi; un tratto

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23. Biblioteca Angelica, roma. Pianta diCatania (1584), Limiti ipotetici della cittadella vescovile

24. Arco di via Cestai relativo al monastero di S. Giovanni Gerosolimitano

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del muro, che collegava il palazzo vescovile alla Loggia, fu distrutto nel 1622, in occasione della risistemazione della piazza con l’apertura della via Sacra125. Alla destra della Loggia si vedeva poi, ancora alla fine del Seicento, un arco “diruto” in cui era collocato l’elefante, prima di esservi collocato sopra126. Per quel che riguarda il lato settentrionale della citta-della vescovile, appare verosimile che il limite possa essere costituito dall’asse attuale di via Vittorio emanuele, almeno in considerazione della notevole struttura muraria ritrovata da orsi nel 1918, in occasione di scavi che interessarono la strada nel tratto tra il portone dell’Arcivescovado e il giardino prospiciente il lato nord della cattedrale127.del tutto indefinito resta, invece, il limite orientale di questo circuito; a soccorrerci, alme-no sul piano delle ipotesi, è però un atto di vendita datato 1360, che attesta una contrada Porta di Liodoro da ubicarsi in prossimità di S. Placido128. Quanto possiamo intuire del nucleo iniziale della Civita rende, come si vede, improbabile l’identificazione, a suo tem-po avanzata, del circuito della Civita con quello della città tout court129. una larga parte della popolazione continuò a vivere all’esterno, nei quartieri a quella tangenti, anche se non siamo in grado di valutare l’estensione complessiva della città normanna, l’articola-zione dei quartieri, la consistenza materiale del costruito.Nella nostra ipotesi, dunque, i diversi quartieri che sorgeranno lungo le pendici meridio-nali e orientali colmeranno lentamente la distanza tra i due poli, donjon e civitas, deter-minando l’addensarsi della maglia urbana fino a rendere necessaria, in un momento non ancora individuato, la costruzione di una cinta urbana complessiva130.L’unico dato relativo alla consistenza demografica del centro è il numero di quindicimila abitanti riportato da ugo Falcando131. una lenta crescita demografica si registra nel con-fronto tra i dati del tardo duecento, in base ai quali la città annoverava circa diecimila abitanti, e i tremila/tremilacinquecento fuochi censiti nel 1370 che consentono di valuta-re una popolazione di dodici-quindicimila abitanti132.La popolazione era distribuita in una ampia area urbana, che comprendeva gran parte dell’antica città romana e più a est i nuovi quartieri sorti intorno al porto. diversa però la densità edilizia rispetto alla città antica: meno densamente abitata sembra essere stata l’area della collina di Montevergine, l’acropoli della città classica; una minore concentrazione edilizia che potrebbe, come si diceva, rimandare alla scelte urbanistiche di età normanna .Quartieri a più alta densità urbana sono quelli posti lungo le pendici meridionali della collina di Montevergine e lungo il corso dell’Amenano, dove si sviluppa, come dicevamo, il quartiere ebraico, la Giudecca133. Ai margini del nucleo fortificato della Civita si istalla-no, da ovest a nord-ovest, le aree a più forte vocazione commerciale: i mercati, l’Amalfi-tania e, probabilmente, la loggia dei veneziani, come sembrerebbe indicare la chiesa di S. Marco, successivamente annessa all’omonimo ospedale che sorgeva sul luogo dell’attuale palazzo universitario134. A nord l’ospedale di S. Giovanni Gerosolimitano, di cui resta og-gi solo l’arco di via Cestai (fig. 24), databile tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo135, sede dell’ordine degli ospitalieri, la cui presenza a Catania risale quasi certamente al XII secolo: è quanto suggeriscono le donazioni a favore dell’ordine, che nella seconda metà del XII secolo si accrescono proprio in questa parte della Sicilia orientale136.La forte impronta della città antica si misura per i quartieri occidentali sulla base della persi-stenza degli assi viari che si mantengono in alcuni casi ancora dopo il terremoto del 1693: è il caso di via Teatro Greco, per la quale le indagini archeologiche condotte su alcuni ambienti del complesso dei Benedettini, prospicienti alla strada, hanno dimostrato la persistenza del traccia-to viario, senza soluzione di continuità da età tardo romana fino al basso medioevo (XIII-XIV secolo)137; ma anche il caso della strada romana, rintracciata nel corso degli scavi di via Croci-feri, che presenta una sostanziale continuità di vita da età romana a età medievale138 e, ancora, quello di via S. Maria delle Grazie, il cui tracciato attuale coincide in sostanza con quello pre- terremoto. La stessa sistemazione a terrazze, che lo scavo di via Crociferi ha evidenziato per il versante orientale della collina di Montevergine, appare condizionare anche la sistemazione medievale dell’area che significativamente prende il nome di contrada “de astracu”139.

un nuovo asseTTo TerriToriale: la cosTruzione del casTello ursino

Ad eccezione dei riferimenti sopra menzionati, manca nella documentazione anche tar-da alcun accenno ai limiti della cittadella vescovile; e, d’altro canto, come si diceva, ben presto il toponimo Civita passò ad indicare una estensione maggiore di quella originaria. Queste considerazioni fanno ritenere che una parte di questo circuito sia stata smantel-lata o inglobata nella crescita edilizia; non è escluso che proprio il terremoto del 1169

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abbia contributo al superamento di questo stato di cose. un tratto del muro della Civita, quello che delimitava a ovest la Platea magna, fu riutilizzato intorno alla metà del XIV secolo nella costruzione della Loggia. Altre parti del muro di cinta, quelle a settentrione, furono, riteniamo, abbattute alla metà del Cinquecento, quando per allargare e abbellire la piazza furono demoliti gli edifici che vi si erano addossati nel corso dei secoli, forse anche a seguito del terremoto del 1542140.Nei fatti, la civitas venne rapidamente integrata all’interno del processo di espansione urbana; i quartieri orientali conobbero, in questa fase, una crescita edilizia determinata in buona parte dalla presenza della cattedrale, ma che, in termini più generali, va corredata ad una maggiore compenetrazione e interazione tra la città e il suo territorio costiero, in termini di viabilità, utilizzo delle insenature portuali, messa a coltura dei terreni. La documentazione consentirà di seguire questi processi, con più contezza, solo a partire dal pieno Trecento, ma sono le scelte di età normanna, nel ribadire la centralità della sede episcopale catanese, a innescare il lento processo che porterà, nel corso del basso medio-evo, alla rinnovata capacità di Catania di intercettare la rete viaria di lunga percorrenza dell’Isola. La costruzione di Castello ursino fisserà così le coordinate costiere di questo territorio confermando e corroborando il nuovo assetto territoriale, volto a valorizzare una più organica rete di città demaniali lungo la costa orientale.Sono le concessioni della prima metà del XII secolo a mostrare il peso crescente che i territori meridionali della Piana assumono nell’economia della città, in relazione con le necessità legate all’incremento dell’allevamento che caratterizza tutto il Mezzogiorno dopo la conquista normanna141. Le donazioni di Tancredi (1103) e di ruggero (1125) incentivano l’ampliamento del territorio di Catania a spese di quello di Lentini, dal Si-meto verso sud fino al Gornalunga142. Contestualmente, la stessa donazione dei terreni di Mascali, a nord, finalizzata all’allevamento, evidenzia una maggiore compenetrazione dei territori a nord e a sud, con lo sviluppo del piccolo cabotaggio e l’incremento degli itinerari lungo la costa. Non casualmente, proprio sulla fascia ionica, si proietteranno gli interessi economici del vescovado, testimoniati dalla elaborazione dei documenti falsi relativi alla donazione di S. Giovanni di Fiumedreddo (confezionato già nel XII secolo) e ai possedimenti delle vigne tra Taormina e Messina e della turrim super murum Messana dove edificare una domos ad opus Monasterii, falso del duecento143. Cogliamo l’esigenza di ampliare la sfera di influenza, controllando lo sbocco dell’Alcantara e, nel contempo, di dotarsi di un luogo di sosta a Messina, che resta ancora a lungo il punto di confluenza delle merci a più lunga percorrenza. L’espansione economica del vescovado lungo la co-sta non scalza, in questa fase, i rapporti di forza: il porto peloritano sarà ancora per tutto il duecento e oltre polo di attrazione delle attività economiche dell’area etnea144.Nel 1168 il vescovo Aiello abolisce i diritti di barcaggio sulla scapha fluminis, la giarretta al Simeto145, a favore dei burgenses di Catania, cavalieri e pellegrini. Possiamo ritenere che la misura del vescovo, inserita all’interno di una serie di concessioni volte a garan-tire maggiori libertà di movimento e di commercio ai cittadini di Catania, possa avere contribuito ad incrementare la viabilità lungo la costa, e un rafforzamento degli itinerari nord-sud che uniscono il Bosco alla Piana in relazione alle necessità della pastorizia146. Si intravede qui, ancora in fase iniziale, il ricostituirsi degli itinerari costieri, ancora descritti come saxosa itinera147, il cui peso sarà destinato a crescere nel corso del Basso Medioevo, per poi assumere probabilmente un ruolo concorrenziale rispetto alle direttrici viarie gravitanti su Paternò. Ancora per l’età normanna, d’altra parte, il ruolo di preminen-za, ereditato dall’Alto Medioevo, che abbiamo assegnato alla direttrice di penetrazione nord/sud, dal Tirreno attraverso i Nebrodi e il versante occidentale dell’etna, fornisce una più chiara motivazione all’istaurarsi della signoria militare di enrico Aleramico, po-sta a controllo degli itinerari che intersecano la Piana verso sud. I diritti di barcaggio della Giarretta sotto Paternò, punto di snodo fondamentale, sono in questo caso stret-tamente controllati dal potere signorile e resteranno nelle mani del conte Maletta fino al duecento, quando vi subentrerà la ‘signoria’ del monastero di Santa Maria di Licodia, nell’ambito di un più ampio progetto di radicamento su quel territorio. In realtà, il tema dei rapporti tra la signoria degli Aleramici e il vescovado di Catania meriterebbe ulteriori approfondimenti, con particolare riguardo alle dinamiche e alle linee preferenziali verso cui si indirizza la colonizzazione benedettina e degli ordini militari, nonché con riferi-mento ai conflitti insorti a seguito dei processi di espansione territoriale148. In questa fase, il massiccio sfruttamento delle risorse, in termini di energia idraulica e mano d’opera musulmana, condotto dalle fondazioni religiose nella media valle del Simeto, indirizza ancora gran parte dei prodotti verso Messina, contribuendo al “successo” duraturo della

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viabilità alta intorno all’etna che ‘bypassa’ Catania attestandosi sulla direttrice segnalata dalle fondazioni monastiche a quota collinare149. I tentativi di consolidamento, da parte del vescovo catanese, volti a rafforzarne la presenza nel territorio tra Mascali e Calatabia-no, allo sbocco dell’Alcantara, trovano una ulteriore chiave interpretativa, alla luce della peculiare configurazione dell’area, che consente di intercettare i flussi di transito da e per Messina provenienti dalle pendici meridionali dell’etna.Con la seconda metà del XII secolo, la fine della presenza aleramica a Paternò agevola cer-tamente il vescovado nella affermazione della sua egemonia territoriale. e non escluderei che a questa politica espansiva possano essere legate le accuse contro Pagano de Parisio, venuto in possesso della contea di Paternò, e contro il suo fratello Gualterio150, segnalata dalla documentazione degli inizi del duecento, nel corso della minorità di Federico II. L’acquisto, da parte di quest’ultimo, del castello di Calatabiano crea evidentemente una pericolosa saldatura di interessi e ingenera una serie di ostilità che procurano incursus plurimos et rapinas ai danni della chiesa di Catania, proseguiti nel tempo nonostante un iuramentum pacis tra le parti. Come è noto, le afflictiones e i dampna multa, perpetrati da Gualterio e Pagano a danno della chiesa catanese si risolveranno nel 1213 a favore del ve-scovo che vedrà ratificato dalla regina Costanza l’acquisto del castello di Calatabiano151; il suo possesso, almeno momentaneamente, proietterà ulteriormente lungo la costa, la sfera di influenza e le attività produttive del vescovado152.È all’interno delle dinamiche territoriali appena delineate, in cui si assiste alla rivitalizzazione del ruolo economico della fascia costiera, che si inserisce la costruzione di Castello ursino, iniziata da Federico II nel 1239. Il disegno complessivo, teso ad assegnare un maggior peso all’assetto e alla difesa dei territori costieri e dei centri demaniali dell’area orientale, è stato da tempo sottolineato e ben messo in evidenza153. Così come, con riferimento alla situazione ca-tanese, la volontà di sancire con un atto di grande impatto urbanistico la nuova posizione giu-ridica della città, distratta dal patrimonio feudale del vescovo e compresa nel demanio154. La costruzione del castello, infatti, lungi dal porsi in antitesi alla città, come tramanda la storio-grafia locale, vede anzi la forte compenetrazione di intenti tra l’imperatore e i cives che, come è noto, offrono all’erario 200 onze d’oro, manifestando la volontà di sottrarsi alla giurisdizione vescovile. Castello ursino concorre, dunque, ad attuare il programma di difesa del regno, ma rappresenta anzitutto insieme ad Augusta e Lentini, la “presenza capillare dell’imperatore sul territorio”155, con una valenza non solo militare ma residenziale e di immagine, che ne radica con forza la ritrovata dimensione costiera. Alla luce di queste osservazioni, il sito prescelto evidenzia, come è naturale, il rapporto privilegiato con il mare, nella scelta, quasi obbligata, del tratto di costa meridionale che ne consentiva, prima della colata lavica del 1669, un accesso diretto, ben più agevole rispetto alla frastagliata e scoscesa costa a nord di Porto Saraceno156; d’altro canto, esso si pone in chiara antitesi, differenziandosi nettamente, rispetto ai due principali poli urbani della città normanna: la civitas con la cattedrale presso il Porto Saraceno a sud-est, e la collina di Mon-tevergine che dominava l’ingresso nord della città. Le ipotesi sopra esposte sulla formazione del toponimo ‘ursino’, nel prospettare una più stringente lettura delle caratteristiche por-tuali dell’area, sembrano, inoltre, rimarcare, ancora per quest’epoca, il peculiare ruolo del castello a ridosso dell’area portuale alla foce dell’Amenano157, a nord, e, contestualmente, in una posizione di dominio rispetto alla rada costiera a sud. Non a caso, sul lato meridionale del castello si apre la seconda porta d’ingresso dalla quale, secondo G. Agnello “si scendeva probabilmente con scala intagliata nello scoglio, nel mare sottostante”158. La creazione di questo nuovo fulcro tiene conto del naturale processo di crescita edilizia che nella città duecentesca interessa i quartieri meridionali a vocazione commerciale, più strettamente interrelati alle attività produttive e all’afflusso di merci provenienti dalla Piana. La sua posizione appare in stretta relazione con la Porta decima, sulla quale con-fluiva il traffico della Piana e la viabilità di lunga percorrenza proveniente da sud159. È la strada che collega Lentini con Catania attraverso la giarretta al Simeto e il Galici, un iti-nerario particolarmente frequentato, che nel corso delle guerre del Trecento verrà fortifi-cato con la costruzione della torre di Bicocca160. Il nesso così verificabile, tra l’ubicazione del castello e l’itinerario per Lentini, contribuisce ulteriormente a illuminare l’organicità complessiva del disegno federiciano, quale traspare dal gruppo di lettere del novembre 1239 e la forte progettualità che unisce la costruzione dei castelli di Augusta, Catania e il restauro di quello di Lentini.La costruzione del castello, che fornisce alla città un nuovo centro della vita politica, sede della corte per molti anni, determina anche sul piano urbanistico importanti modificazio-ni; attorno ad esso graviterà la crescita edilizia della città bassomedievale, che rivalutò i

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quartieri meridionali: il patrimonio edilizio, rilevabile nelle contrade limitrofe di S. Gio-vanni de Castro ursino, S. Lorenzo, S. Pantaleo, caratterizzato da numerosi tenimenta domorum, palazzi, torri e portici, segnala la formazione di una nuova zona residenziale che si contrapporrà all’antica Civita di età normanna161. La scarna documentazione non consente di seguire il processo di osmosi del castello nel tessuto urbano della città, né tan-to meno seguire gli ampliamenti della cinta urbica, che forse già in età aragonese arriva ad includerlo; un processo che di fatto non annulla i conflitti tra castello e città, che, anzi, si inaspriscono nel corso del Quattrocento, quando la giurisdizione del castellano entra in contrasto con l’amministrazione cittadina162 . Allo stato attuale, la ricostruzione del circuito difensivo complessivo è affidata alla docu-mentazione cartografica cinquecentesca, redatta per illustrare i progetti di ammoderna-mento di fortificazioni giudicate ormai vetuste e non confacenti alle nuove esigenze di-fensive163. Sul piano documentario le fonti confermano l’esistenza di diverse fasi edilizie, nelle quali si assiste ad una compenetrazione tra vecchio e nuovo edificato. Gli accenni alle mura nei documenti trecenteschi non ci aiutano a capire quali tratti utilizzassero i resti delle fortificazioni precedenti e quali fossero state costruite ex novo in età medie-vale. Il tratto delle mura nei pressi di S.Giovanni Palombaro seguiva da vicino uno pezo di anticaglia riutilizzandola in parte (iuxta li mura di la chitati cum li anticagli di li ditti mura)164. Ancora nel Seicento la contrada denominata La Cortina, nei pressi delle Terme dell’Indirizzo, ubicate in prossimità della cinta meridionale, fa riferimento all’esistenza di una cinta muraria, che in quel tratto non può non accostarsi ai ruderi di via Zappalà Gemelli165. Anche nei pressi di Porta Pontone è segnalato, nel Quattrocento, un tratto di muro antico posto lungo il litorale, all’esterno delle mura medievali166. rimaneggiamenti, aperture di nuove porte lungo tutto il circuito sono evidenti fra Tre e Quattrocento, ma uno studio complessivo e diacronico di quello che doveva presentarsi già nel medioevo come un grande palinsesto, è ancora tutto da intraprendere167.

un nuovo baricenTro urbano: la loggia

Nella città del Trecento il castello ursino costituisce il centro della vita pubblica, grazie al lungo soggiorno della corte tra il ’37 e il ’77; non a caso a partire dagli anni Trenta del XIV secolo inizia con Blasco Alagona una politica di acquisti capillari nelle contrade intorno al castello, volta a requisire gran parte del patrimonio edilizio esistente168. In quegli anni, l’area intorno al castello divenne il quartiere generale della famiglia: una scelta volta a controllare da vicino la vita politica della città. Nell’arco di poco più di un cinquantennio, gli Alagona si ritagliarono un grande spazio, e la contrada fu abitata quasi esclusivamente da famiglie filo-alagoniane. Questa affermazione, d’altro canto, non esau-risce la complessa politica di occupazione e controllo dello spazio urbano e territoriale messa in atto dalla famiglia Alagona, che tiene conto della progressiva saturazione degli spazi all’interno della cinta urbica, intercettando le principali direttrici di crescita verso il territorio. La stessa bipolarità, che la costruzione del castello ursino inserisce nella espansione urbana si ricuce, nel corso del Trecento, attorno alla Platea magna, lo spazio antistante la cattedrale. È all’interno di questo spazio, infatti, che si costruisce la loggia giuratoria, il cui valore simbolico per la città si rifletterà sulla stessa piazza percepita come il cuore della vita cittadina169 (fig. 25). La costruzione della loggia viene così a comporre idealmente la duplicazione dei fulcri all’interno del tessuto urbano, identificando un luo-go baricentrico tra la Civita e il castello. La prima attestazione della loggia è in realtà solo della metà del Trecento, affidata al ricordo del cronista Michele da Piazza, che ricorda la plateam logie magne civitatis Catanie170. Pur in mancanza di un più preciso riferimento cronologico, possiamo ritenere che la loggia sia stata edificata entro i primi decenni del Trecento: una datazione coerente, rispetto ai concomitanti processi di consolidamento dell’identità cittadina, che caratterizzano le comunità del regno nei primi del Trecento quando le universitates promuovono la scritturazione dei corpi consuetudinari e dei pri-vilegi e si formalizza un sistema elettorale per le cariche cittadine171. Per Catania questo processo viene a culminare con l’approvazione del testo delle Consuetudini, da parte di Ludovico nel 1345172; pochi anni più tardi, nel 1353, il riferimento cronachistico ci con-sente di appurare il funzionamento del sistema elettivo e la consuetudine per i Giurati di riunirsi nella logia magna civitatis. La loggia occupa dunque lo spazio antistante la chiesa cattedrale, riutilizzando sul lato occidentale un “muro antichissimo” che faceva parte del circuito murario dell’originaria cittadella vescovile, ormai ampiamente diroccata173; uno

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27. resti del monastero di S. Maria di Nuovaluce (da Longhitano 2003)

26. Veduta di Catania prima del 1669, olio su tela, 1708 (?), (collez. privata), La via Luminaria

25. Cattedrale, sarcofago della regina Costanza. Nel riquadro, a sinistra, la rappresentazione della loggia giuratoria

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spazio, dunque, in origine di pertinenza dell’autorità vescovile del quale non riusciamo a cogliere il processo di progressiva “demanializzazione”. In linea generale possiamo ri-tenere che i provvedimenti federiciani, svuotando il vescovado di funzioni esercitate sul territorio urbano (la custodia portus, la riscossione della dogana), oltre che dei diritti giurisdizionali, abbiano creato le premesse per la liberazione di spazi nel tessuto urbano occupati poi dai nuovi simboli dell’identità cittadina. I progressivi interventi di risana-mento edilizio della piazza, volti a dare ornamento alla città174, rafforzano ulteriormente la percezione di questo luogo come il vero cuore dello spazio urbano tangente alla via Luminaria, la direttrice nord-sud che collega porta Canali con Porta Aci, e sul quale si dirige la viabilità da sud-ovest, la carrera capitis Sancti Laurentii proveniente da Porta decima attraverso la Piazza S. Filippo e Piazza dell’herba.È ipotizzabile, peraltro, che la costruzione della loggia possa inserirsi all’interno di un più ampio disegno urbanistico, che vede l’apertura o la sistemazione dell’asse viario di via Lu-minaria il cui tracciato si mostra pienamente coerente con il muro occidentale dell’edificio. Il selciato della strada, messo in luce dallo scavo del 1974, nella sua sistemazione tardo seicentesca, oblitera alcuni ambienti databili al XII secolo, evidenziando come almeno fino al terremoto del 1169 la crescita edilizia avesse interessato quest’area, addossandosi al muro della cittadella vescovile. Al di sopra di questa fase, la presenza di materiale trecentesco, raccolto negli strati immediatamente sottostanti il selciato, fornisce un primo orizzonte cro-nologico per la costruzione del primitivo impianto stradale175. Il forte segno di questo asse viario è evidente ancora in alcune delle rappresentazioni tardo cinquecentesche di Catania, quasi a marcare e separare l’impianto ancora ortogonale dei quartieri occidentali da quello ben più tortuoso della parte orientale, che dalla cattedrale si prolunga in direzione di Porta Pontone (fig. 26). Nei secoli successivi i numerosi rifacimenti per isolare la loggia rispetto al tessuto urbano, conferendole maggiore dignità e accrescendone il decoro, sono volti ad assicurare una maggiore permeabilità tra la piazza e la viabilità circostante; interventi ur-banistici che porteranno nel 1622 all’abbattimento degli ultimi tratti del muro occidentale appartenente alla cittadella vescovile costruita da Angerio176.

la ciTTà degli alagona

È all’interno di un tessuto cittadino ormai quasi saturo che si opera, come accennato, il radicamento della famiglia Alagona: una pervasiva presenza, che occupa nell’arco della seconda metà del Trecento con grande lucidità i punti di snodo fondamentali nello spazio urbano e nel territorio, con una manifestazione di potenza che si esprime anche attraverso il linguaggio simbolico. Negli atti del processo Statella le testimonianze attorno all’attività di Artale si soffermano su alcuni fatti emblematici: la costruzione del monastero di Nuo-valuce, il luogo di Nesima, la costruzione della torre in qua morabatur; ma si ricordano anche le insegne apposte sopra Porta Pontone e su altre porte in città, a dimostrazione del grandem statum raggiunto177. Sono alcuni degli episodi più eclatanti che insieme agli ulteriori elementi emergenti dalla documentazione notarile consentono di leggere l’am-pio progetto che impegna Blasco prima e poi Artale, a partire dalla seconda metà del Tre-cento, nel costruire e affermare una vasta e compatta signoria territoriale, che si impernia su Catania. In particolare, dopo la morte di Blasco, si precisa nella politica della famiglia una strategia complessiva, volta alla costruzione di una grande area di influenza nella Sicilia orientale178, perseguita da Artale cui si affiancano i fratelli: Manfredi per i territori più meridionali di Noto, Vizzini, Francofone, Monte rosso, Jaimo per Siracusa, Matteo per Lentini. Il privilegio del 1365, con cui Federico III ratifica lo scambio della contea di Mistretta con quella di Paternò; la concessione con la quale perviene ad Artale la terra e il castello di Aci179; quella del 1386, relativa alla terra di Augusta, disegnano le coordinate territoriali entro cui si dispiega in modo preferenziale l’azione di Artale180. Con riferimen-to alla città e al suo immediato hinterland, cogliamo allora la valenza dei numerosi ac-quisti operati; anzitutto quelli in contrada Nesima, lungo la strada per Paternò: in pochi anni, tra il ’75 e l’81 si addensano attorno al loco vocato Nisima terreni, vigneti, impianti artigianali per un valore complessivo di quasi 200 onze, che delineano il volto di una mas-seria fortificata, una azienda produttiva, posta poche miglia a ovest dalla città con terreni coltivati a vigneto e altri specializzati in coltivazioni irrigue181. Sul versante meridionale il poggio Seju o machalda vede l’istallazione del monastero di Nuovaluce nel 1361; il luogo prescelto domina la strada di Fontanarossa, la strada che uscendo dall’ingresso sud di Catania prosegue lungo la piana in direzione di Lentini182 (fig. 27). È questa una delle

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29. Castello ursino, Museo Civico,sarcofago con insegne degli Alagona, proveniente dal monastero di Nuovaluce

30. Castello ursino, Museo Civico, acquasantiera con insegne degli Alagona, proveniente dal monastero di Nuovaluce

31. Castello ursino, Museo Civico,epigrafe, relativa alla fondazionedel monastero di Nuovaluce

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direttrici privilegiate dell’espansione degli Alagona, che culminerà nel 1359 con la presa del castello di Lentini183; l’itinerario costiero attraverso il casale Silvestri, il Pantano, le contrade Bombacaro e Fontarossa, fino alle vigne dell’Arena, sarà particolarmente battu-to dalle truppe dei Chiaramonte e degli Alagona nel corso degli anni Cinquanta, quando il racconto di Michele da Piazza disegna minutamente la geografia di questo territorio. La fondazione di Nuovaluce viene così a cadere in un momento peculiare, dopo la presa di Lentini, allorché è necessario rafforzare complessivamente il radicamento territoriale della casata, al quale contribuisce anche la fondazione monastica. La scelta iniziale, ope-rata da Artale, sembra volere riprendere le fila di un disegno di radicamento dell’ordine, nel territorio orientale, risalente a Federico II, la cui fondazione della basilica del Murgo, sulla baia di Agnone, va verosimilmente compresa nell’ambito del rinnovato appoggio all’ordine e al monastero di S. Maria di roccadia, a est di Lentini184; nello specifico, il progetto di Artale pare, almeno inizialmente, volersi smarcare dalla presenza benedettina già straripante nel territorio, nel quadro degli stretti legami tra l’ordine cistercense e Fe-derico III, funzionali alla esaltazione della legittimità dinastica aragonese 185. La rilevanza topografica del sito, connesso ad uno degli itinerari più battuti per l’ingresso in città dalla Piana, conferisce alla fondazione alagoniana (fig. 28) una ulteriore valenza, che traspare dall’uso accorto e diffuso dei simboli, quali le insegne della casata apposte nell’epigrafe, nel sarcofago, nell’acquasantiera (figg. 29-31). La scelta dell’ordine e la ric-ca dotazione del monastero corroborano, poi, le finalità anche produttive assegnate alla fondazione, tra cui spiccano le attività legate all’allevamento186. Il riflesso della grande espansione dell’allevamento nella Sicilia trecentesca187 è evidente nelle preoccupazioni del fondatore, che dota il monastero di alcuni iazzi, recinti per la dimora degli animali, ma che non trascura le ulteriori componenti di un’azienda articolata, in cui si intrecciano le attività legate allo sfruttamento del bosco, il pascolo, il vigneto, la molitura del grano. A tutto questo si aggiunga il controllo della giudecca che Artale trasferiva al monastero, al quale spettava ora la riscossione dei diritti sul ghetto188.Quando si prende in considerazione il vasto patrimonio di cui l’abbazia viene dotata, appare evidente ancora una volta il suo dispiegarsi in modo prevalente lungo una area costiera nord-sud, che dai terreni settentrionali, al confine con il bosco di Aci ( il fondaco dell’abate), si dirige verso la Piana. La dotazione del monastero da parte di Artale illustra così la stretta compenetrazione nel territorium di Catania tra i terreni coltivati a vigneto, posti a nord nell’area dei casali del Bosco, e quelli a sud vocati alla pastorizia e all’alleva-mento, che orienta lo sviluppo economico nel corso del Trecento. di riflesso, emerge anche la seconda direttrice preferenziale, seguita dall’espansione eco-nomica e territoriale di Artale Alagona che mostra un interesse crescente per questa parte settentrionale e per il suo sfruttamento. La politica di acquisti, intrapresa già da Blasco e proseguita con Artale, ricondurrà, infatti, nelle mani della famiglia gran parte dei terreni lungo la costa in direzione di ognina e del territorio di Aci, lungo l’asse viario che passa da contrada Santa Venera. L’indebolimento dei diritti feudali del vescovo libera le poten-zialità economiche del territorio di Jaci; l’interesse della famiglia Alagona a stabilire una egemonia territoriale nella fascia costiera tra Aci e Catania culminerà, così, nella presa di possesso del castello di Aci, volta a garantirsi introiti economici e completa libertà di movimento nei collegamenti tra i due centriSul piano urbanistico, l’interesse verso il suburbio nord-orientale trova riflessi significati-vi, che si focalizzano attorno a Porta Pontone, l’ingresso orientale che immette sulla Civi-ta e dal quale attraverso le xare del rotolo si raggiunge facilmente il porto di ognina. Le testimonianze del processo Statella suggeriscono che la stessa apertura della Porta, sulla quale erano apposte le insegne della casata, possa essere addebitata all’iniziativa di Artale Alagona189; alla famiglia apparteneva il tenimentum domorum costruito a ridosso delle mura. La dettagliata descrizione del notaio Francavilla190 consente di verificare l’aspetto fortificato della residenza, caratterizzata da ben due torri, l’una magna, la turri di lu Pun-tuni a tria solari, e l’altra parva, vocata la turri di lu Tripodu, addossate alle mura urbiche, a sud e a est, in aperta contravvenzione delle norme difensive che impongono ancora in età normanno sveva la non edificabilità in prossimità delle mura: l’occupazione di un’area demaniale con la costruzione di un edificio fortificato si inquadra perfettamente nella politica della famiglia di acquisizioni di prerogative pubbliche, che le consentono di con-quistare all’interno della città un ruolo di assoluto rilievo191. Nello specifico, l’apertura e il controllo di una porta sul circuito orientale delle mura si rivelano strategiche rispetto al programma di acquisizioni perseguito lungo la costa, in direzione di ognina. In pochi anni pervengono nelle mani di Blasco e poi di Artale gran parte degli oliveti della costa in

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28. Castello ursino, Museo Civico,gruppo scultoreo, provenientedal monastero di Nuovaluce,che sembra rappresentare la Madonnaed Artale Alagona

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contrata Longine. L’interesse non si rivolge soltanto all’acquisizione di terreni produttivi ma si focalizza anche sul pieno controllo dello spazio territoriale192 tra la città e il porto di ognina, un approdo forse secondario193, ma che assume in età aragonese un rilievo an-titetico al porto cittadino di Porto Saraceno194. L’azione di Artale si dispiega con margini di grande libertà195, che lasciano ipotizzare un progetto volto ad incrementare il ruolo di ognina quale porto urbano; un progetto forse ridimensionato dalla colata lavica, che, fra due e Trecento, interessa questa parte del territorio196, ma che nei fatti non costituirà un ostacolo nei collegamenti tra la città e il suburbio nord-orientale. Peraltro, come si è det-to, le linee di intervento della famiglia, già con Blasco, sono proiettate più a nord, verso quel territorio di Aci che a partire dal Trecento vede svilupparsi un polo economico di un certa importanza, grazie allo sfruttamento della acque della flomaria Regitana. Nel corso del Trecento si susseguono gli acquisti che consentono, a Blasco prima e Artale dopo, di controllare ampi appezzamenti di terreno in contrada Santa Venera e lungo il corso della fiumara, le cui acque sono utilizzate da mulini e impianti idraulici197. Il vigneto e le colture irrigue sono al centro dello sfruttamento agricolo di questo territorio che, di fronte all’avanzata del vigneto, vede arretrare sempre più a nord la frontiera del bosco. A questo processo di messa a coltura dei terreni partecipa anche il monastero di Novaluce, a cui viene assegnato proprio ai confini del bosco, il fondo detto ‘fondaco dell’abbate’, su cui sorgerà, poi, il nucleo di Aci Aqulia.La rilevanza economica dell’area comporterà la crescita degli itinerari di collegamento con Catania e il sorgere delle infrastrutture viarie. Nel Trecento, l’ospedale di Santa Ve-nera al Pozzo è già attivo come diretta emanazione della chiesa di Santa Venera di Cata-nia. La sua posizione assicura un preciso riferimento lungo un itinerario che da Catania si addentra verso il bosco di Aci e, oltrepassandolo, giunge in planicie prope villam mascala-rum198. Gli accenni del cronista, relativi agli spostamenti di truppe angioine, consentono di accertare come questo itinerario, inizialmente locale, tenda ad assumere nel tempo una funzione di asse di collegamento di più lunga percorrenza. Come si ricorderà, nel corso dell’alto medioevo l’itinerario costiero tra Catania e Messina era risalito a quote collinari, lungo la direttrice che da Viagrande proseguiva per Fleri e Milo; su questo tracciato, in-fatti, si attestano il priorato di S. Giovanni di Paparometta, l’ospedale Blanchardi sopra Mascali, S. Giovanni de aqua Mili. Alle eruzioni di fine Trecento si addebita la necessità di spostare la strada lungo un tracciato a quota più bassa, che, attraverso contrada Niz-zeti per reitana e Santa Venera al Pozzo, proseguiva per contrada Culia per addentrarsi poi nel bosco, in direzione di Mascali. Proprio i processi di trasformazione e di messa a coltura delle terre, la creazione di un polo artigianale di rilievo con lo sfruttamento in-tensivo dell’energia idraulica creano i presupposti indispensabili per attrarre il tracciato viario verso quote più basse, recuperando, almeno nell’area tra reitana e S. Filippo di Carchina, la viabilità di età romana199. La Porta Aci aperta sulla cinta muraria settentrio-nale di Catania, e certamente esistente alla fine del duecento200, segnala così il nuovo riferimento urbano, che orienta spazialmente la città nel suo rapporto privilegiato con i territori più fertili ed economicamente produttivi. Porta Aci a nord e porta decima a sud indirizzeranno, all’interno della città, gli assi viari longitudinale e trasversale – via Lumi-naria, carrera di San Lorenzo – che assolvono al compito di garantire la permeabilità tra la città e il suo territorio, riflettendone la rinnovata proiezione verso la fascia costiera. Su di essa, e particolarmente sui territori a nord, si indirizzeranno le energie della città nel tentativo di ampliare l’area del suo districtus201. Ne nasceranno le tensioni che dominano il Quattrocento.

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1 M.G. Branciforti, Nuove acquisizioni archeologiche, in Catania tardo antica. Nuove scoperte archeologiche e valutazioni storiche (Atti del Colloquium, Catania 3-4 marzo 2003), c.d.s.2 In considerazione dello grande quantità di ossa animali, che presentavano caratteristici tagli netti tipici della macellazione, ritrovati nello strato di riempimento quasi a diretto contatto con il piano dell’orchestra: cfr. M.G. Branciforti, Nuove acquisizioni archeologiche, cit. Il recinto risulterebbe abbandonato nella prima metà del VII secolo, quando si forma il poderoso strato di riempimento che interra definitivamente l’orchestra e la parte più bassa della cavea.3 H.J. Beste-F. Becker-u. Spigo, Studio e rilievo sull’anfiteatro romano di Catania, in «Mitteilungen des deutschen Archäologischen Instituts römische Abteilung»113, 2007, p. 610. 4 Costruita con una tecnica edilizia del tutto peculiare e conservata per una lunghezza di circa 8 m, questa struttura muraria, priva di tramezzi intermedi, doveva essere pertinente ad un ambiente o ad un recinto aperto sulla cui natura mancano allo stato attuale elementi dirimenti; vedi infra; cfr. A. Patanè-d. Tanasi, Ceramiche fini dagli strati tardo romani degli scavi 2003-2004 a S. Agata la Vetere (Catania), in Old Pottery in a New Century. Innovating Perspectives on Roman Pottery Studies, a cura di d. Malfitana, J. Poblome, J. Lund, (Atti del Convegno Internazionale di Studi Catania 22-24 aprile 2004), Catania 2006, p. 466; A. Patanè-d. Calì-d. Tanasi, Indagini archeologiche a S. Agata la Vetere e S. Agata al Carcere, in Tra lava e mare. Contributi all’Archaiologhia di Catania (Catania 22-23 novembre 2007) c.d.s.5 epistola di Maurizio, in o. Caietani, Vitae Sactorum Siculorum, Panormi 1657, I, 53-59; G. Scalia, La tra-slazione del corpo di S. Agata e il suo valore storico in «Archivio Storico per la Sicilia orientale» s. II, III-IV, 1927-28, pp. 38-157.6 G. Scalia, La traslazione del corpo di S. Agata, cit., p. 132. Per una analisi del sarcofago tradizionalmente attribuito a Sant’Agata, conservato presso la chiesa di Sant’Agata la Vetere cfr. F. Buscemi, Il sarcofago di S. Agata, in «Archivio Storico per la Sicilia orientale» XCV, 1999, pp. 125-146.7 Cfr. la ricostruzione di F. Privitera, Epitome della vita e miracoli dell’invitta mobilissima e generosa sposa di Gesù S. Agata, con l’aggiunta dell’Annuario Catanese per le notizie sacre, anco profane della città di Catania, Paolo Bisagni, Catania 1690, p. 107, sulla base di una affermazione di G.B. de Grossis, Catanense Deca-chordum sive novissima sacrae catanensis Ecclesiae Notizia, Catanae, In aedibus illustrissimi Senatus Typis Ioannis rossi 1654, I, chord. 2, Mod. 2, excursus 3; affermazione poi ripresa da tutta la letteratura degli storici catanesi.8 Cfr. da ultimo A. Patanè-d. Calì-d. Tanasi, Indagini archeologiche a S. Agata la Vetere, cit., c.d.s.9 Cfr. A. Patanè-d. Tanasi, Ceramiche fini, cit., pp. 466-467; d. Calì-d. Tanasi, Catania, S. Agata la Vetere e S. Agata al Carcere. 2002-2005, in «Archeologia Medievale» XXXIII, 2006, pp. 429-431. da un punto di vista cronologico, tale momento di organizzazione funeraria dell’area può essere compreso tra il VII e l’VIII secolo d.C. La datazione, oltre ad essere suffragata da elementi quali l’assenza di corredo, la postura a braccia conserte degli individui e la tipologia tombale piuttosto tarda, è avvalorata dai materiali più tardi del deposito che sigillava la maggior parte delle tombe databili al tardo VIII-IX sec.10 G. Cantino Wataghin, The Ideology of Urban burials, in The idea and ideal of the town between Late An-tiquity and the Early Middle Age, a cura di G.P. Brogiolo-B. Ward Perkins (The trasformation of the Roman world 4), Leiden- Boston-Köln 1999, pp. 147-163.11 F. Trapani, Il complesso cristiano extra-moenia di via dottor Consoli a Catania, in «Archivio Storico per la Sicilia orientale» XCV, I-III, 1999, pp. 77-124.12 Cfr. da ultimo V. rizzone, La più antica comunità cristiana di Catania attraverso i documenti epigrafici (secoli IV-V), in Agata santa. Storia, arte, devozione (Catalogo della Mostra, Catania 29 gennaio-4 maggio 2008), Prato 2008, p. 177.13 La denominazione di Porta di lo Re, con la quale la porta è indicata nel documento del 1556 che assegnava i confini alle chiese sacramentali (cfr. A. Longhitano, La parrocchia nella diocesi di Catania prima e dopo il Concilio di Trento, Palermo 1977, pp. 85-86) si sovrappone a quella più antica di Porta di Sant’Agata la Ve-tere che compare nei documenti medievali (cfr. C. Ardizzone, I diplomi esistenti nella Biblioteca Comunale ai Benedettini. Regesto, Catania 1927, p. 152, doc. 290 del 1341). 14 Per un più puntuale inquadramento si rimanda a L. Arcifa, Da Agata al liotru: la costruzione dell’identità urbana nell’altomedioevo, in Tra lava e mare, cit. c.d.s.15 La scarsa incidenza della tipologia su podio nella Sicilia romana è sottolineata da r.J. Wilson, Sicily under the Roman Empire. The archaeology of a Roman province, 36 BC-AD535, Warminster 1990, pp. 105-106; e.C.Portale-S. Angiolillo-C. Vismara, Le grandi isole del Mediterraneo occidentale. Sicilia Sardinia Corsica, roma 2005, pp. 71-72. 16 Cfr. d. Motta, Percorsi dell’agiografia. Società e cultura nella Sicilia tardoantica e bizantina, Catania 2004, p. 59; G. rossi Taibbi, Martirio di S. Lucia. Vita di S. Marina. Testi greci e traduzione, (Istituto siciliano di studi bi-zantini e neoellenici. Testi 6), Palermo 1959, p. 52; S. Costanza, Martirio di S. Lucia vergine e martire di Cristo, in «Archivio Storico Siracusano» 3, 1957, p. 95. Secondo l’editore, la Passio greca risale al V secolo, quella latina è da assegnare alla fine dello stesso secolo o a quello successivo: G. rossi Taibbi, ibidem, pp. 15, 23.17 V. Fauvinet-ranson, Le devenir du Patrimoine monumental romain des cités d’Italie à l’époque ostrogothique, in Les cités de l’Italie tardo-antique (IVe-Vie siècle). Institutions, économie, société, culture et religion, a cura di M. Ghilardi, C. J. Goddard, P. Porena, (Collection de l’Ecole Française de Rome 369), rome 2006, p. 212.18 d. Motta, Percorsi dell’agiografia, cit., pp. 30-40.19 r. Coates-Stephens, Bizantine Building patronage in post reconquest Roma, in Les cités de l’Italie tardo.-antique (IVe-Vie siècle), cit., pp. 149-166; Id., La committenza edilizia bizantina a Roma dopo la riconquista, in Le città italiane tra la tarda antichità e l’alto Medioevo, a cura di A. Augenti (Atti del Convegno ravenna 26-28 febbraio 2004), Firenze 2006, p. 299-316.20 C. Guastella, Sancta Maria Rotunda, in Tra lava e mare. Contributi all’archaiologhia di Catania, cit., c.d.s. ; Le Terme della Rotonda di Catania, a cura di M.G. Branciforti-C. Guastella, Palermo 2008, pp. 66-67.21 Nel 598, ad opera del diacono Cipriano, viene edificata una domum di proprietà della chiesa catanese (Greg. M., reg. ep. IX, 43); mentre all’iniziativa di Giuliano si deve la costruzione di un monastero, citato nella lettera del 603 (Greg. M., reg. ep. XIII, 21). Nel caso della costruzione di Cipriano, l’espressione uti-lizzata – domum eiusdem ecclesiae – (cfr. S. Gregorii Magni, Opera. Registrum Epistolarum, ed. d. Norberg,

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Corpus Christianorum, Series. Latina, 140 A, Turnhout 1982, p. 601) non autorizza una interpretazione meno generica dell’edificio.22 Alcuni di questi edifici erano certamente ancora in vita nel Tardo-Medioevo: la chiesa di S. Pantaleo era probabilmente officiata alla fine del duecento; S. Maria dell’Idria, S. Barbara, S. Maria la rotonda, S. dome-nica sono tutte menzionate dalle decime del 1308-1310: P. Sella, Rationes decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV. Sicilia, Città del Vaticano 1944, p. 73; ancora officiata nella seconda metà del Trecento era la chiesa di S. Stefano, ricostruita, seconda una iscrizione oggi dispersa, dopo il terremoto del 1169, tra il 1170 e il 1171, e che verrà inglobata all’interno del monastero delle benedettine: cfr. M.L. Gangemi, Il tabulario del monastero San Benedetto di Catania (1299-1633), Documenti per servire alla storia di Sicilia I s. Diplomatica, XXXIV, Palermo 1999, pp. 242-244. Per l’epigrafe e. Boschi-e. Guidoboni, Catania Terremoti e lave dal mondo antico alla fine del Novecento, INGV-SGA, Bologna 2001, pp. 61-62.23 Il complesso legame tra i santi militari e i diversi strati della società bizantina, con particolare riferimento all’esercito è esaminato da C. Walter, The Warrior Saints in Bizantine Art and Tradition, Aldershot 2003.24 Le reliquie dei santi Quaranta Martiri furono riscoperte da Giustiniano durante la ricostruzione di S. Ire-ne nel 551; circa 40 anni dopo, nel 590, l’imperatore Maurizio dedica a Costantinopoli una chiesa ai Santi Quaranta.25 Cfr. A. Acconcia Longo, La vita di S. Leone vescovo di Catania e gli incantesimi del mago Eliodoro, in «rivi-sta di Studi bizantini e neoellenici» n.s. 26, 1989, p. 97, cap. 18. Il culto dei Santi Quaranta Martiri è attestato anche a Siracusa dove nella prima metà dell’VIII secolo si decora, con il racconto del loro martirio, la volta dell’oratorio della regione A della catacomba di S. Lucia: M. Sgarlata-G. Salvo, La catacomba di Santa Lucia e l’Oratorio dei Quaranta Martiri, Siracusa 2006; M. Sgarlata, Catania. Dalla città pagana alla città cristiana, in Agata santa. Storia, arte, devozione, cit., p. 166.26 I nuovi studi condotti sulla rotonda sembrano rigettare l’ipotesi di una dedica originaria di questo edificio ai Santi Quaranta, riproponendo, per quest’ultimo, l’identificazione con la chiesa di S. Maria di Bethlem già indicata da Casagrandi e Libertini: C. Guastella, Ecclesia Sancta Maria de Rotunda: vicende e prime ricogni-zioni, in Le terme della Rotonda, cit., p. 75.27 Alla tradizionale interpretazione del cortile di S. Pantaleone come Foro, più di recente e. Tortorici ha op-posto una nuova proposta interpretativa quale horrea: cfr. e. Tortorici, Osservazioni e ipotesi sulla topografia di Catania Antica, in Edilizia pubblica e privata nelle città romane (Atlante Tematico di topografia antica) 17, 2008, pp. 105-110.28 dal punto di vista cronologico, difficilmente una occupazione potrebbe ragionevolmente collocarsi prima del VI secolo in ragione della difesa dei luoghi pubblici perseguita da Teodorico. Nel corso del VI secolo il culto di S. Pantaleo è presente a Napoli e a Tivoli dove è stato connesso alla presenza della guarnigione bizantina: cfr. r. Coates-Stevens, La committenza edilizia bizantina a Roma dopo la riconquista, in Le città italiane tra la tarda antichità e l’Alto Medioevo, cit., p. 311, nota 18. 29 Cfr. J. dubouloz, Acception et défense des Loca publica, d’après les Variae de Cassiodore. Un point de vue ju-ridique sur les cites d’Italie au VIè siècle, in Les cités de l’Italie tardo.-antique (IVe-Vie siècle), cit., pp. 53-71.30 Cfr. G. randazzo, Il complesso monumentale inglobato nel Palazzo Bonajuto in Catania, in «Siculorum Gymnasium», n.s. LVII, (Atti del VI Congresso nazionale dell’Associazione italiana di Studi Bizantini, a cura di T. Creazzo-G. Strano), pp. 735-747. 31 Così F. Tomasello che accenna all’esistenza di “diversi elementi costruttivi, di tradizione tardo antica che sembrano indirizzare verso una cronologia alta”: F. Tomasello, La viabilità suburbana in età imperiale, in Tra lava e mare, cit., c.d.s.32 G. Agnello, La basilichetta trichora del Salvatore a Catania, in «rivista di Archeologia Cristiana» XXIII-XXIV, 1947-48, pp. 147-168, rist. in Id., L’architettura bizantina in Sicilia, Firenze 1952, pp 116-129; S.L. Agnello, Architettura paleocristiana e bizantina della Sicilia, in IX Corso di Cultura sull’arte paleocristiana e bizantina, 1962, p. 60. riassume le diverse posizioni degli studiosi G. Margani, Celle tricore. Edifici a pianta trilobata nella tradizione costruttiva siciliana, in «documenti del dipartimento di Architettura e urbanistica», 28, 2005, pp. 55-71. 33 Si veda la ricostruzione proposta in F. Tomasello, Per una immagine di Catania in età romano-imperiale, in La città antica in Italia, Atti del VI Congresso di Topografia Antica, «rivista di Topografia Antica», XVII, 2007, I, pp. 133-134 e fig. 9.34 Per alcuni esempi in area calabrese, si veda C. raimondo, Le città dei Brutii tra tarda Antichità e Altomedio-evo: nuove osservazioni sulla base delle fonti archeologiche, in Le città italiane, cit., pp. 519-558.35 Così in particolare r. Soraci, Catania in età tardo antica, in Catania Antica, a cura di B. Gentili (Atti del Convegno della S.I.S.A.C. Catania 23-24 maggio 1992), Pisa roma 1996, p. 270, con bibliografia; e ancora prima B. Pace, Arte e civiltà della Sicilia antica, IV, roma, Napoli, Città di Castello 1949, p. 208. L’espressione in communiendis moenibus (Cassiodoro, Variae, III, 49) sembra comunque attestare la consapevolezza da parte del ceto dirigente catanese della necessità di provvedere alla difesa della città .36 Goth. 5, 40. 37 Ibn al ‘Atîr, in M. Amari, Biblioteca arabo-sicula, I, Torino-roma 1881, p. 402.38 Muqadasi in M. Amari, Biblioteca, cit., p. 672.39 Cfr. L. Arcifa, Da Agata al liotru: la costruzione dell’identità urbana nell’altomedioevo, in Tra lava e mare, cit., c.d.s. 40 Questo limite ricalca peraltro quello individuato per la città arcaica la cui estensione, a meridione, si sareb-be arrestata in corrispondenza della via teatro Greco, lungo il ciglio della collina: cfr. e. Tortorici, Osservazio-ni e ipotesi sulla topografia di Catania, cit., p. 117; S. Privitera, Lo sviluppo urbano di Catania dalla fondazione dell’apoikia alla fine del V secolo d.C., in questo volume.41 Cfr. i passi del Bolano riportati in P. Carrera, Delle memorie historiche della città di Catania I, Catania 1639, p. 40; G.B. de Grossis, Catanense Decachordum, cit., VI, 3, 10; V. M. Amico Statella, Catana Illustrata sive sacra et civilis urbis Catanae istoria Catanae 1740, lib. IX, 2, 9; cfr. G. Libertini, L’indagine archeologica a Ca-tania nel secolo XVI e l’opera di Lorenzo Bolano, in «Archivio Storico per la Sicilia orientale» XVIII, 1922, rist. in G. Libertini, Scritti su Catania Antica, cit., pp. 39, 45.42 M.L. Gangemi, Il Tabulario del monastero S. Benedetto di Catania, cit., p. 563: in contrata Porte de in Medio,

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videlicet a lo pindinello di Sancto Augustino; in contrata di la Porta di in Menzu seu di lu Puzu di li Albi, pp. 545, 550. A. Longhitano, La parrocchia, cit., p. 180 n. 146.43 Si vedano in particolare i riferimenti contenuti in Carrera a proposito di un epigrafe ritrovata: “Ne gli anni del Signore 1594 cavandosi sotto terra nelle case del dottor d. Cataldo Fimia Patricio Catanese, tra le ruine del theatro minore [= odeon], nel mezzo della città, vicino alla Porta hoggi chiamata di Mezzo, e vicino alla chiesa, e convento di S. Agostino; Carrera, Delle memorie historiche, cit., I, p. 280.La stessa epigrafe è vista “in via Porta di mezo, in aede Cataldi Fimiae” da Walther: cfr. K. Korhonen, La collezione epigrafica del Museo Civico di Catania. Storia delle collezioni-Cultura epigrafica-Edizione (Commen-tationes Humanarum Litterarum, 121), Helsinki 2004, p. 167-168, n. 24. Lo stesso Bolano nella descrizione del teatro precisa che il suo limite orientale si trova sotto la torre Milisindi, mentre il limite occidentale è “prope Portam Mediam”.44 Analoga situazione si registra a Noto, dove il quartiere centrale, cresciuto e incuneatosi tra i due antichi quartieri di S. Luca e S. Martino, accoglierà nel corso del XIII secolo la più recente crescita edilizia: L. Arcifa, Osservazioni sull’impianto urbano di Noto in età medievale, in Corrado Gonfalonieri: la figura storica, l’im-magine e il culto, a cura di F. Balsamo-V. La rosa (Atti delle Giornate di studio, Noto 24-26 maggio 1990), Noto 1992, p. 58.45 Bolano in Libertini, L’indagine archeologica, cit., p. 45. Cfr. Longhitano, La parrocchia, cit., p. 179, nota 146.46 I. Paternò Castello, Viaggio per tutte le antichità della Sicilia, Napoli 1781, p. 31. La presenza di una impor-tante struttura disposta in senso est-ovest è indicata anche nella Pianta rocca.47 Il nome è di origine germanica e deriva dal nome personale femminile Milesindis. Secondo Caracausi, potrebbe essere giunto per tramite francone, probabilmente con l’occupazione normanna: cfr. G. Caracausi, Dizionario onomastico della Sicilia II, Palermo 1993, s.v. Melisenda. Ma non possiamo escludere una più antica ascendenza, in concomitanza con l’organizzazione tematica dell’esercito bizantino per la cui compo-sizione, anche in Sicilia, si attinge a contingenti militari provenienti tra l’altro da area balcanica: J. Ferluga, Byzantium on the Balkans. Studies on the Bizantine Admistration and the Southern Slavs from the VIIth to the XIIth Centuries, Amsterdam 197648 Cfr. Il complesso archeologico del Teatro e dell’Odeon di Catania, a cura di M.G. Branciforti-G. Pagnano, Palermo 2008. 49 La notizia del rinvenimento nel 1922 di un “tardo sepolcro barbarico”, durante la costruzione di un acque-dotto lungo via S. Agostino, fornita da G. Libertini, non contiene elementi per una più corretta collocazione cronologica e topografica. Tuttavia, essa appare coerentemente inserita nel quadro di un drastico ridimensio-namento dell’abitato qui ipotizzato; cfr. G. Libertini, Catania. Iscrizione frammentaria rinvenuta nella via S. Agostino, in «Notizie Scavi» 1923, pp. 412-413 rist. in G. Libertini, Scritti su Catania, cit., pp. 61-62.50 M.G. Branciforti, Nuove acquisizioni archeologiche, cit.51 Cfr. g. ravegnani, Castelli e città fortificate nel VI secolo, ravenna 1983. Considerando, a titolo esemplifi-cativo i limiti così definiti, si ricostruirebbe una cinta di circa 450-500 metri per lato.52 A. Longhitano, La parrocchia, cit., pp. 164-168.53 È, infatti, da essa che entra a Catania l’emorroissa siracusana guarita dal vescovo: cfr. a. Acconcia Longo, La vita di S. Leone, cit., pp. 38-39. Secondo Libertini essa dovrebbe aprirsi sul lato sud-occidentale, e indi-care la presenza di una comunità eretica di seguaci di Ario: cfr. A. Holm, Catania antica, trad. G. Libertini, Catania 1925, p. 24. 54 All’epoca di Leone V (813-820) o Michele II (820-829) secondo la sua editrice: cfr. A. Acconcia Longo, La vita di S. Leone, cit., p. 5455 Verso una direttrice già interessata dallo sfruttamento agricolo di età romana, come testimoniano i ritro-vamenti di superficie, che documentano per i siti di Sciarelle, Poio e Tremonti una lunga continuità di vita almeno fino al VII secolo. Cfr. A. Patanè, Insediamenti di età romana sul versante orientale dell’Etna, in «Cro-nache di Archeologia» 31, 1992, pp. 123-133.56 Si veda la ricostruzione proposta da F. Tomasello, La viabilità suburbana in età imperiale, in Tra lava e mare, cit., c.d.s. 57 C. Sciuto Patti, Su gli antichi paghi esistenti nelle vicinanze di Catania, in «Archivio Storico Siciliano» n.s. XVII, 1892, pp. 421-437. 58 Cfr. A. Holm-G.Libertini Catania antica, cit., pp. 67-68; G. Libertini, Catania nell’età bizantina, in «Archi-vio Storico per la Sicilia orientale», XXVIII, 1932, pp. 242-266 rist. in G. Libertini, Scritti su Catania antica, cit., p. 175-192; la ripresa delle indagini, a metà degli anni Novanta, ha portato al rinvenimento di una nuova struttura basilicale, la cui datazione ad età medievale non è altrimenti precisata: cfr. P. Marchese, Ceramica a “vetrina pesante” rinvenuta alla periferia di Catania nell’insediamento bizantino di Nesima superiore, in Actes du VIIe Congrès International sur la Céramique Médiévale en Méditerranée (Thessaloniki, 11-16 octobre 1999), Athènes 2003, p. 509-512.59 G. Libertini, Catania nell’età bizantina, cit. p. 188.60 V. Amico, Catana Illustrata cit., lib IX, cap. VIII, p. 165-166. Tradizionalmente, questo monastero viene identificato con il monastero citato da Gregorio Magno, reg. XIII, 21, fondato nel 600 dal nobile catanese Giuliano: si veda, ad esempio, V. Cordaro Clarenza, Osservazioni sopra la storia di Catania, cavate dalla storia generale di Sicilia, Catania 1833, I, p. 173. In realtà i riferimenti contenuti nella lettera di Gregorio (monasterio itaque vestro, quod a vobis in catanensi urbe constructum est) non consentono, una identificazione attendibile, né di escludere una localizzazione all’interno del perimetro urbano.61 Si veda l’ipotesi ricostruttiva elaborata in e. Tortorici, Contributi per una carta archeologica subacquea della costa di Catania, in «Archeologia subacquea» III, 2002, p. 322 fig. 47.62 Sui ritrovamenti di Monte S. Paolillo cfr. A. Patanè-G. Buscemi Felici, Scavi e ricerche a Catania, Licodia Eubea, Grammichele, Ramacca, in «Kokalos» XLIII-XLIV, 1997-98, II, 1, pp. 189-195. La presenza di una fase altomedievale a Monte S. Paolillo mi è stata segnalata da d. Tanasi che ringrazio.63 Cfr. L. Arcifa, Un’area di strada nel medioevo: la media valle del Simeto, in Tra Etna e Simeto. La ricerca archeologica ad Adrano e nel suo territorio, a cura di G. Lamagna, (Atti del Convegno Adrano 2005), c.d.s. 64 Ibidem.65 Cfr. V. Laurent, Une source peu étudiée de l’histoire de la Sicile au haut Moyen Age: la sigillographie bizan-

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tine, Bizantino-sicula 2, Palermo 1966, p. 42. La valorizzazione amministrativa di Catania è già evidente dalla riconquista di Belisario; ad essa è ricollegabile l’apertura della zecca, in funzione fino ai primi decenni del VII secolo; il nuovo ruolo raggiunto da Catania alla fine del VI secolo, in rapporto alle città della costa orientale e alla stessa Siracusa è sottolineato, da ultimo, da B. Clausi-V. Milazzo, La città medievale: dai Bizantini agli Aragonesi, in Catania. Storia, cultura, economia, a cura di F. Mazza, Soveria Mannelli 2008, p. 81.66 Per il ponte di S. Pantaleone: L.-r. Ménager, Notes critiques sur quelques diplomes normads de l’Archi-vio Capitolare di Catania, in «Bullettino dell’Archivio Paleografico Italiano» n.s. II-III, 1956-1957, II, pp. 169-171. La documentazione della prima età normanna (1102) dà conto di un ulteriore punto di guado sul dittaino detto di S. Anastasia, probabilmente sotto Motta, poco prima della confluenza sul Simeto: S. Cusa, I diplomi greci e arabi di Sicilia, 2 voll. Palermo 1868-1882, I, p. 550. Sulla giarretta di contrada Finocchiara: L. Arcifa, Un’area di strada, cit., c.d.s.67 Cfr. a. de Simone, Catania nelle fonti arabe, in Chiesa e società in Sicilia. L’età normanna, a cura di G. Zito, (Atti del I Convegno Internazionale organizzato dall’arcidiocesi di Catania 25-27 novembre 1992), Torino 1995, 118-119.68 Il senso è ulteriormente corroborato dal fatto che in entrambe le occorrenze è utilizzato il termine qasr. ringrazio Annliese Nef, alla cui cortesia devo queste preziose precisazioni sul testo di Al Himyari. 69 Con riferimento allo xoanon citato nella vita di Leone e attribuito a eliodoro: H. Bresc, Sépulcres suspendus et statues propectrices : fragments d’apotélesmatique sicilienne, in Mélanges offerts à G. Duby, IV, Aix-en-Provence 1992, 67-76.70 S. Tramontana, Gli anni del Vespro, Bari 1989, p. 36571 M. Charles, The rise of the Sassanian elephant corps: elephants and the later Roman Empire, in «Iranica an-tiqua», 42, 2007, p. 340-341, che sottolinea, più che l’efficacia militare, il valore simbolico dell’elefante, come rappresentazione vivente del potere della dinastia sasanide.72 Questa dimensione trionfale spiega perché l’animale sostituisca il cavallo nel tiro del carro dei vincitori: la tradizione perdura fino a eraclio che, all’indomani della vittoria sull’impero sasanide, entra a Costantinopoli accompagnato da elefanti: su eraclio Nikephoros patriarch of Constantinople short history, a cura di C. Man-go, dumbarton oaks, Washington dC, 1990 (CFHB, 13), p. 22.73 La dimensione religiosa dell’animale è tratteggiata nel Physiologus graecus, a cura di F. Sbordone, In aedi-bus Societatis “dante Alighieri”, Mediolani, Genuae, romae, Neapoli 1936, pp.128-133, bestiario simbolico scritto tra II e III sec. d C. che conosce in età bizantina tra V e VI secolo una nuova redazione: cfr. G. Murad-yan, Physiologus. The Greek and Armenian Versions with a Study of Traslating Technique (Hebrew University Armenian Studies 6), Leuven 2005, p. 2. L’animale si riproduce in modo asessuato attraverso la consumazione del frutto di mandragora, è incapace di rialzarsi senza l’aiuto di un elefante più giovane, è nemico del serpen-te; caratteristiche tutte che nell’esegesi simbolica rimandano ad Adamo ed eva (dunque al destino dell’uomo che non conosce la riproduzione sessuata prima della consumazione del frutto dell’eden) e alla stessa figura di Gesù Infante che ridiventa piccolo per la salvezza dell’uomo. Nel racconto di Giovanni d’efeso (VI seco-lo) si sottolinea il comportamento religioso degli elefanti, giunti a Costantinopoli come bottino di guerra, i quali fanno il segno della croce davanti alle chiese e la proskinesi all’imperatore, riconosciuto come l’eletto di dio: John of ephesus, Ecclesiastical History, Part 3, a cura di r. Payne Smith, oxford university Press, 1860, III, lib. II, 48. desidero ringraziare Vivien Prigent alla cui generosità devo numerosi spunti di riflessione e riferimenti bibliografici.74 r. Janin, Constantinople bizantine, 2° ed., Paris 1964, p. 270; G. dagron, Constantinople imaginaire. Etudes sur le recueil des “Patria”, Paris 1984, p. 129, p. 183. Le statue, portate da Teodosio, provenivano dal tempio di Ares ad Atene.75 dagron, ibidem, p. 166.76 J. ruska-Ch. Pellat, Fil s.v. in Encyclopédie de l’Islam, II, Leyde-Paris, 1977, pp. 913-914, che sottolineano come l’animale nel mondo musulmano a ovest dell’Indo e della Persia sia considerato oggetto di pura cu-riosità77 Al-Muqadasi, in M. Amari, Biblioteca, cit., II, p. 672; A. de Simone, Catania nelle fonti arabe, cit. p. 116.78 L. Arcifa-M.H. de Floris-C.A. di Stefano-J.M. Pesez, Lo scavo archeologico di Castello San Pietro a Palermo in «Mélanges de l’ecole Française de rome-Moyen Age», 101, 1989; J.M. Pesez, Castello San Pietro, in Fede-rico e la Sicilia. Dalla terra alla corona. Archeologia e architettura, a cura di C.A. di Stefano-A. Cadei, Catalogo della Mostra (Palermo 16 dicembre 1994-30 maggio 1995), Siracusa 1995, pp. 313-319.79 Il nome deriverebbe dalla presenza nei pressi della spiaggia di una “columna marmorea … in qua erat sculpta imago cuisdam saraceni qui vocabatur Tristaynus…”: cfr. Bartolomeo da Neocastro, Historia sicula (1250-1293), in G. del re, Cronisti e scrittori sincroni napoletani, 2 voll, Napoli 1868, II, p. 551.80 M.L. Gangemi, Il Tabulario del monastero, cit., pp. 520-521.81 Michele da Piazza, Cronaca 1336-1361, a cura di A. Giuffrida, Palermo-São-Paulo 1980, p. 104. Nel 1387 il monastero di S. Lucia, vicino al Porto Saraceno, vende alla città alcune case “per l’amplificazione del piano di esso porto per potere raccogliere e ricevere più felicemente le navi”: cfr. G. Policastro, Catania prima del 1693, Catania 1952, p. 51 n. 33.82 e. Tortorici, Contributi per una carta, cit. p. 314.83 G. Manganaro, Epigrafi frammentarie di Catania, in «Kokalos» 1959, pp. 157-158.84 C. Sciuto Patti, Su alcuni avanzi di arte antica scoperti in Catania nella via Zappalà Gemelli, in «Archivio Storico Siciliano», n.s., XXI, 1896, pp. 88-96.85 l.T. White, Latin monasticism in Norman Sicily, Cambridge Mass 1938, trad. it. Il monachesimo latino nella Sicilia normanna, Catania 1984, p. 179.86 Cfr. da ultimo la revisione del calcolo in A. de Simone, Catania nelle fonti arabe, cit. p. 133 nota 6487 Per il confronto tra la stratigrafia rinvenuta a Piazza duomo e i livelli rinvenuti da Fichera nel cortile di Palazzo Platamone si veda F. Giudice, Catania. Scavo in Piazza Duomo, nell’area ad ovest della Fontana dell’Elefante, in «Cronache di Archeologia» 18, 1979, p. 112.88 Secondo il parere di A. de Simone, che ringrazio per la grande disponibilità con cui ha voluto esaminare questi aspetti linguistici, il passaggio da [d¯ar] al-sin¯a’a ad ursino è foneticamente possibile, se si ipotizza “una assimilazione dell’articolo con mutamento della vocale iniziale e la velarizzazione della penultima a (in

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o), a causa della contiguità della faringale fricativa sorda”. Meno congruente appare, invece, una mutuazione dal greco Ê αρσενας, secondo le delucidazioni che mi ha cortesemente fornito C. rognoni. d’altro canto, bisogna comunque sottolineare che i documenti basso medievali attestano anche a Catania la forma tarsana (si confronti ad esempio nel 1410 il riferimento alla galea ki è in lu tarsana di Cathania: P. Sardina, Tra l’Etna e il mare. Vita cittadina e mondo rurale a Catania dal Vespro ai Martini (1282/1410), Messina 1995, p. 222), mostrando, almeno in linea di principio, che anche in questa area geografica l’esito finale del termine arabo non si discosta dalle varie forme (darsina, tarzanà) attestate in Sicilia e nella penisola: cfr. G. Caracausi, Ara-bismi medievali di Sicilia, (Centro di Studi Filologici e linguistici siciliani, Supplementi 5), Palermo 1983, pp. 376-378.89 A tal proposito la stessa de Simone riconduce al termine arabo i toponimi Fondo dell’orsa e Torre dell’or-sa, attestati lungo la costa palermitana, in corrispondenza di luoghi adatti all’attracco. Nel caso della forma irs¯a’ayni ‘due approdi’, la studiosa propone di ricostruire “una forma dialettale irs¯a’in (con i lunga risultante dalla chiusura del dittongo -ay), con un mutamento della vocale iniziale in considerazione della vicinanza con la consonante velarizzante -r, che giustifica il passaggio i>u”.90 C. Monaco et alii, The geological map of the urban area of Catania (Eastern Sicily): morphotectonic and seis-motectonic implications, in «Mem. Soc. Geol. It. », 55 2000, p. 430 e tav. f.t.91 e. Tortorici, Osservazioni e ipotesi, cit., pp. 103, 104 fig. 11.92 Con strutture connesse ad attività commerciali che consentono, in via ipotetica di localizzarvi l’emporion della città arcaica: cfr. S. Privitera, Lo sviluppo urbano di Catania, cit., in questo volume. 93 A. Patanè, Saggi di scavo, cit., p. 906.94 Cfr. infra, p. 96.95 Secondo Abulafia, la comunità nel 1144-45 era composta da 25 famiglie ebree con speciali privilegi fiscali: cfr. d. Abulafia, Gli ebrei di Sicilia sotto i Normanni e gli Hohestaufen, in N. Bucaria–M. Luzzati–A. Taranti-no, Ebrei e Sicilia, (Catalogo della Mostra, Palermo 24 aprile – 22 maggio 2002), Palermo 2002, p. 70.96 G. e B. Lagumina, Codice diplomatico dei Giudei di Sicilia, 3 voll. Palermo 1884-1909, I, p. 12; de Gros-sis, Catana sacra, cit., p. 88, S. Simonsohn, The Jews in Sicily I. 383-1300 , Leiden-New York-Köln 1997, p. 421-422, n. 18797 G. Manganaro, Giudei grecanici nella Sicilia imperiale. Documentazione epigrafica e figurativa, in Ebrei e Sicilia, cit., p. 33.98 M. Gil, Sicily 827-1072, in the light of the Geniza documents and parallel sources, in Italia Judaica. Gli ebrei in Sicilia fino all’espulsione del 1492, Atti del V Convegno internazionale (Palermo 15-19 giugno 1992), roma 1995, p. 150.99 M. Gaudioso, La comunità ebraica di Catania nei secoli XIV-XV, Catania 1974, p. 22; l’autore ritiene, in considerazione dell’ubicazione della chiesa di S. Marina in via Pozzo Mulino, che la via S. Trinità possa essere considerata il limite divisorio tra le due parti della Giudecca. 100 M. Gaudioso, La comunità ebraica di Catania, cit., p. 25.101 G.e B. Lagumina, Codice diplomatico, cit., I, p. 253; M. Gaudioso, La comunità ebraica di Catania, cit. p. 22; r. rizzo Pavone, Gli archivi di stato siciliani e le fonti per la storia degli ebrei in Italia Judaica, cit., p. 80 (Judaica inferior, Judaica superior)102 Contrata S.tae Marinae seu Sancti Pantaleonis: cfr. A. Longhitano, La parrocchia, cit., p. 175.103 Cfr. S. Privitera, Lo sviluppo urbano di Catania, cit., in questo volume.104 Vedi supra.105 La localizzazione dei quartieri ebraici, quasi costantemente all’interno del circuito difensivo, è sottolineata da Bresc, il quale ritiene che, con poche eccezioni, i quartieri ebraici sviluppatisi a seguito dell’espansione delle città siciliane in età normanna siano stati integrati nelle cerchie murarie successive: H. Bresc, Arabi per lingua, ebrei per religione. L’evoluzione dell’ebraismo siciliano in ambiente latino dal XII al XV secolo, Messina 2001, p. 112-115.106 Amato di Montecassino, Storia dè Normanni. Volgarizazione in antico francese a cura di V. de Bartholoma-eis, Fonti per la Storia d’Italia, roma 1935, p. 276.107 Agnello, sulla scorta di Casagrandi, sottolinea, ad esempio, l’interesse topografico del promontorio sul quale sorgerà il castello ursino, ai fini di una difesa del porto e di una ampia porzione della costa: G. Agnello, L’architettura sveva in Sicilia, Tivoli 1935, p. 415. Più di recente, il ritrovamento dei resti archeologici nel corso di scavi a Castello ursino ha fatto ipotizzare una qualche relazione con la primitiva rocca normanna: cfr. A. Patanè, Saggi di scavo all’interno del castello Ursino di Catania, in «Kokalos» XXXIX-XL, 1993-94, II,1, p. 906.108 Gesta regis Henrici secundi, a cura di W. Stubbs, Rerum Britannicarum Medii Aevi, Scriptores, 49, II, Lon-don 1867, p. 159. 109 L’attribuzione della torre di don Lorenzo allo stesso Federico II, fu avanzata già da C. Sciuto Patti, Sul castello Ursino. Notizie storiche, in «Archivio Storico Siciliano» n.s., X, 1885, p. 233; forti riserve sono, peral-tro, avanzate, a tal proposito, già da G. Agnello, Architettura sveva in Sicilia, cit., p. 400, nota 3. di recente G. Pagnano, Il disegno delle difese. L’eruzione del 1669 e il riassetto delle fortificazioni di Catania, Catania 1992, p. 35, ritorna sull’ipotesi di un edificio “forse di età sveva”.110 Cronaca siciliana del secolo XVI, a cura di V. epifanio e A. Gulli, Palermo 1902, p. 24.111 Cfr. i riferimenti contenuti nelle delimitazioni del vescovo Caracciolo per l’istituzione delle chiese sa-cramentali nel 1555: “…procedendo per viam ante domos spectabilis domini Laurentii de Juenio… usque ad portam quam di lo re dicunt…”: A. Longhitano, La parrocchia, cit., pp. 86, 167, 169.112 Si veda la relazione di F. Negro-C.M. Ventimiglia, L’atlante di città e fortezze del Regno di Sicilia 1640, a cura di N. Aricò, Messina 1992, p. 136, opportunamente richiamata e sottolineata da G. Pagnano, Il disegno delle difese, cit., p. 23.113 G. Policastro, Catania, cit., p. 185.114 P. delogu, I Normanni in città. Schemi politici e urbanistici, in Società, potere e popolo nell’età di Ruggero II, Atti delle III giornate normanno sveve (Bari 1977), Bari 1979, pp. 173-206; e. Cozzo, “Quei maledetti normanni”. Cavalieri e organizzazione militare nel Mezzogiorno normanno, Napoli 1989, p. 80, che ribadisce la posizione del castello di norma costruito a ridosso delle mura.

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109tra continuità e innovazioni: la città antica e medievale

115 Sulla base della giarida del 1145 è possibile calcolare una popolazione musulmana soggetta al vescovo di circa mille persone: H. Bresc, Dominio feudale, consistenza patrimoniale e insediamento umano, in Chiesa e società in Sicilia, cit., pp. 99-100; A. de Simone, Catania nelle fonti, cit., pp. 119 e ss.116 e. Pispisa, Il vescovo, la città e il regno in Chiesa e società in Sicilia, cit., pp.143-144.117 “Quant à l’éléphant d’où provient son surnom, c’est un talisman en pierre qui représent cet animal. Il s’élevait autrefois au sommet d’une costruction; on l’a trasporté depuis à l’intérieur de la ville et place dans l’église des moines…”: Idrîsî. La première géographie de l’Occident, a cura di H. Bresc–A. Nef, Paris 1999, IV, 2, p. 314.118 La contrada Porta di Liodoro (prossima a quella di Sant’Agata) è citata nel documento dato a Catania il 10 ottobre 1360 XIV Ind., regestato in C. Ardizzone, I diplomi esistenti, cit., n. 533, p. 250. Il riferimento ai beni di damigella Maletta consente di ipotizzare che la Porta in questione fosse uno degli ingressi della cittadella vescovile: cfr. L. Arcifa, La città medievale, in Boschi - Guidoboni, Catania Terremoti e lave, cit., p. 48. A conferma si veda la citazione cinquecentesca della Porta di Liodoro in Cronaca siciliana del secolo XVI, cit., p. 4; cfr. anche G. Policastro, Catania, cit., pp. 84-85 che ricorda la porta piccola del duomo, lungo la navata settentrionale, chiamata anticamente del Liodoru perché era prossima al luogo dove era collocato l’elefante lavico. cfr. F. Privitera, Epitome della vita e miracoli, cit., p. 194.119 G. Fasoli, Tre secoli di vita cittadina catanese (1092-1392), in «Archivio Storico per la Sicilia orientale», IV s. VII, 1954, pp. 132-133.120 La stretta connessione si evince del resto dai versi che compongono l’epitaffio del vescovo Angerio, che contengono un preciso riferimento alla costruzione della cittadella vescovile quando, dopo il ricordo della cattedrale, dice muros et turres facciendaque cetera feci: G.B.de Grossis, Catana sacra, cit., p. 67. Per l’uso nel-la documentazione di età medievale del termine murum a indicare le mura urbiche, cfr. F. Maurici, Federico II e la Sicilia. I castelli dell’Imperatore, Catania 1997, p. 175.121 F. Tomasello, Catania, Piazza Duomo. Contributo per la restituzione dell’impianto urbano della città seicen-tesca, in «Cronache di Archeologia» 18, 1979, p.118 e p. 125 nota 60.122 F. Giudice, Catania. Scavo in Piazza Duomo, cit., p. 106.123 Cfr. infra; M. Gaudioso, Origini e vicende del palazzo Senatorio di Catania, in «Archivio Storico per la Sicilia orientale», LXXI, 1975, pp. 287-324.124 F. Tomasello, Catania, Piazza Duomo, art. cit.125 G.B. de Grossis, Catanense Decachordum, cit., pp. 61-62; Privitera, Epitome, cit., p. 195. Si veda infra.126 Cfr. F. Privitera, Epitome della vita e miracoli, cit., p. 194.127 P. orsi, Catania. Scoperte varie di antichità negli anni 1916-1917, in «Notizie degli Scavi di Antichità», 1918, pp. 53-71.128 C. Ardizzone, I diplomi esistenti, cit., p.250, doc. 533; L. Arcifa, La città medievale, cit., p. 48. Nel Cin-quecento uscendo dalla porta di lu Liodoro si andava “a la chiacsa di lu Campanaro...”: Cronaca Siciliana del secolo XVI, cit., p. 4.129 G. Fasoli, Tre secoli di vita cittadina catanese, cit., p. 133.130 dati non particolarmente stringenti vengono, al momento, dalle indagini archeologiche effettuate nel corso di scavi alla Purità dove è stato messo in luce un torrioncino quadrato, ritenuto “pertinente alla cinta muraria medievale” senza ulteriori precisazioni cronologiche: cfr. M.G. Branciforti, Gli scavi archeologici nell’ex reclusorio della Purità di Catania, in Megalai Nesoi Studi dedicati a Giovanni Rizza per il suo ottantesi-mo compleanno, a cura di r. Gigli, Catania 2005, pp. 58-59, nota 39. Nel caso del torrione, messo in luce nel corso dei lavori di restauro presso la chiesa di Sant’Agata al Carcere, sembra più opportuna una datazione tra epoca sveva e aragonese, in considerazione della tecnica muraria che fa uso di pezzame irregolare con numerosi inserti di laterizi.131 ugo Falcando, La Historia o Liber de regno Siciliae e la Epistola ad Petrum Panormitane ecclesie thesaura-rium, a cura di G.B. Siragusa, F.I.S.I. 55, roma 1897.132 S.r. epstein, Potere e mercati in Sicilia. Secoli XIII.XVI, (trad. it.), Torino 1996, pp. 51, 54.133 M. Gaudioso, La comunità, cit., pp. 21-34.134 G. Sorge, Lineamenti di storia dell’ospedalità civile catanese, Catania 1940, p. 8.135 S. Lo Presti, Un nobile avanzo della Chiesa di S. Giovanni di Fleres. La finestra di via Cestai, in «Catania. ri-vista del Comune» s. II, II, 3, 1954, pp. 66-70. Per una attestazione della contrada Hospitalis Iherosolimitani nella città quattrocentesca: P. Sardina, Classi sociali e resistenza anticatalana a Catania alla fine del XIV secolo, in Mediterraneo medievale. Scritti in onore di Francesco Giunta, Soneria Mannelli 1989, III, p. 1159.136 L.T. White, Il monachesimo, cit.., p. 370.137 M.G. Branciforti, Quartieri di età ellenistico e romana a Catania in AAVV. Archeologia del Mediterraneo. Studi in onore di E. De Miro (Bibliotheca Archaeologica, 35), roma 2003, p. 108.138 M.G. Branciforti, Mosaici di età imperiale romana a Catania, in Atti del IV Colloquio dell’Associazione Italiana per lo Studio e la Conservazione del Mosaico, a cura di r.M. Bonacasa Carra-F. Guidobaldi (Palermo 1996), ravenna 1997, p. 177.139 M.L. Gangemi, Il tabulario, cit., p. 106.140 Cronaca Siciliana, cit., pp. 215-216.141 F. Porsia, L’allevamento, in Terra e uomini nel Mezzogiorno normanno-svevo, Atti delle settime giornate normanno-sveve (Bari 15-17 ottobre 1985) Bari 1987, p. 247.142 G.B. de Grossis, Catana sacra, cit., pp. 61-62; r. Pirri, Sicilia Sacra disquisitionibus et notis illustrata, Pa-normi 1733, rist. an. 1987, pp. 520-526; S. Cusa, I diplomi greci, cit., pp. 549-551 (1102), 554-556 (1125); L.r. Ménager, Notes critiques, cit. p. 169-171; H. Bresc, Dominio feudale, cit., pp. 94-98.143 H. Bresc, Dominio feudale, cit., p. 95.144 La mediazione peloritana nei rapporti di Catania con il mondo esterno è già rilevabile nella relazione di Maurizio sul rientro delle reliquie di Agata a Catania, che evidenziano come la rotta da e per Costantinopoli facesse capo esclusivamente al grande porto sullo stretto, punto di confluenza del commercio sovraregionale: cfr. e. Pispisa, Messina, Catania, cit., p. 186; per una riflessione sulle differenti gerarchie urbane tra i due centri, che si innescano dalla seconda metà del Trecento cfr. S. epstein, Potere e mercati, cit., p. 252-253.145 Il testo delle concessioni del vescovo Giovanni d’Aiello in G.B. de Grossis, Catana sacra, cit., p. 88; cfr. G. Fasoli, Tre secoli, cit. p. 144-145.

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110 catania l’identità urbana dall’antichità al settecento

146 H. Bresc, Dominio feudale, cit. p. 101.147 Il riferimento, relativo ai 36 stadi tra Aci e Catania, è contenuto nella lettera di Marziale che narra del ritorno delle spoglie di Agata da Costantinopoli: cfr. r. Pirri, Sicilia Sacra, cit., p. 527. Ancora nell’ambito degli avvenimenti del tardo duecento Bartolomeo da Neocastro descrive l’itinerario di re Giacomo tra Aci e Catania attraverso una saxosam et arctam viam, per quam quatrupedes ordinate perambulare non poterant: Bartolomeo da Neocastro, Historia sicula, cit., II, p. 549. 148 H. Bresc sottolinea a tal proposito che già la lettera del vescovo Maurizio, in occasione della traslazione delle reliquie di Sant’Agata lascia intuire l’esistenza di conflitti tra enrico Aleramico e il vescovado cfr. H. Bresc, Dominio feudale, cit., p. 96 149 L. Arcifa, Un’area di strada, cit., c.d.s.150 H. Niese, Il Vescovado di Catania e gli Hohenstaufen in Siciliani,in «Archivio Storico per la Sicilia orientale» XII, 1915, pp. 84-87; C.A. Garufi, Per la storia dei secoli XI e XII Miscellanea diplomatica IV I de Parisio e i de Ocra nei contadi di Paternò e di Butera, in «Archivio Storico per la Sicilia orientale» X, 1913, pp. 346-373.151 C.A. Garufi, Per la storia dei secoli XI e XII, cit., p. 372; la complessa vicenda, nella quale si manifestano anche gli interessi dell’arcivescovo di Messina Berardo viene ricostruita da L. Sorrenti La giustizia del vescovo a Catania, in Chiesa e società in Sicilia Secoli XII-XVI, a cura di G. Zito, Atti del II Convegno Internazionale (Catania 1993), Torino 1995, p. 47.152 A Calatabiano la ricognizione del 1267 ricorda l’impianto da parte del vescovo di una masseria e di un trappeto da zucchero: H. Niese, Il vescovado di Catania, cit., p. 92.153 F. Maurici, Federico II e la Sicilia. I castelli dell’imperatore, Catania 1997, p. 161154 L. Sorrenti, La giustizia del vescovo a Catania, cit., p. 48-49.155 A. Cadei, I castelli federiciani: concezione architettoniche e realizzazione tecniche, in Federico II e la Sicilia a cura di A. Paravicini Bagliani e P. Toubert, Palermo1998, p. 198.156 Per la quale, ancora nel Cinquecento, la relazione di Camilliani sottolinea la frequenza delle insenature nelle quali non sempre è agevole lo sbarco, ma dove le imbarcazioni possono trovare rifugio non viste: cfr. M. Scarlata, L’opera di Camillo Camilliani , roma 1993, p. 323.157 È solo ipotizzabile che la fase medievale rintracciata al di sopra dei resti di età greca rinvenuti in via Zap-palà Gemelli possa riferirsi ad una sistemazione coeva alla costruzione del castello: C. Sciuto Patti, Su alcuni avanzi di arte, art. cit., pp. 88-96, che attribuisce ad età medievale ‘un tratto di muro e una grandiosa soglia di larga porta’; G. Libertini, La topografia di Catania antica e le scoperte dell’ultimo cinquantennio, in «Archivio Storico per la Sicilia orientale» 19, 1923, rist. in Id., Scritti su Catania antica, cit., pp. 49-51.158 G. Agnello, L’architettura sveva, cit., p. 439159 Sulla Porta decima cfr. A. Longhitano, La parrocchia, cit., p. 176; P. Sardina, Tra l’Etna e il mare, cit, p. 92. dalla Porta decima le merci entravano attraverso la carrera capitis Sancti Laurentii tanto ampia da consentire il passaggio dei carri. È probabile che il tracciato di questa strada ripercorresse quello della via basolata indi-viduata da Sciuto Patti in via Zappalà Gemelli: C. Sciuto Patti, Su alcuni avanzi, cit., p. 95.160 Michele da Piazza, Cronaca, cit., p. 355.161 P. Sardina, Tra l’Etna e il mare, cit., p. 88162 M. Gaudioso, Il castello Ursino nella vita pubblica catanese del secolo XV, in «Bollettino Storico catanese» V, XVIII 1940, pp. 202-222.163 Lo studio di G. Pagnano, Il disegno delle difese cit, ricostruisce la storia delle fortificazioni e dei progetti di ammodernamento tra Cinquecento e ottocento, fornendo una fondamentale base anche per le epoche precedenti.164 M.L. Gangemi, San Benedetto di Catania. Il monastero e la città nel Medioevo, Messina 1994, p.75165 Cfr. supra, nota 81166 d. Ventura, Città e campagne di Sicilia. Catania nell’età della transizione (secoli XIV-XVI), Catania 2006, p. 61167 P. Sardina, Tra l’Etna e il mare, cit., pp. 71 e ss. 168 A. Giuffrida, Il Cartulario della famiglia Alagona di Sicilia, (Acta siculo-aragonensia I), Palermo-Sao-Paulo 1979, passim; d. Ventura, Potere e spazio urbano nella società medievale: gli Alagona di Catania, in «Memorie e rendiconti» IV, X, 2000, pp. 87-105; P Sardina, Tra l’Etna e il mare, cit., p. 89.169 una rappresentazione della loggia è offerta dal sarcofago trecentesco della regina Costanza: cfr. S. Bottari, La tomba di Costanza d’Aragona nella Cattedrale di Catania, in «Catania. rivista del Comune» I, 1953, pp. 3-14; G. Fasoli, Tre secoli di vita cittadina catanese (1092-1392), in «Archivio Storico per la Sicilia orientale» s. IV, VII, 1954, p. 136. Per una interpretazione della scena come una ‘presentazione’ dell’edificio cfr. F. Tomasello, Catania. Piazza Duomo, cit. pp. 125-126.170 Michele da Piazza, Cronaca , cit. , p. 133.171 Cfr. F. Titone, I magistrati cittadini. Gli ufficiali scrutinati in Sicilia da Martino I ad AlfonsoV, Caltanissetta-roma 2008, pp. 10, 34-35.172 V. La Mantia, Antiche consuetudini delle città di Sicilia, Palermo 1900, rist. an. Messina 1993, p. CLVIII; d. Ligresti, Catania dalla conquista dell’autonomia alla fine del Cinquecento, in questo volume.173 Vedi supra.174 Per esempio, gli interventi voluti da Martino I nel 1408 che portarono all’abbattimento di una bottega appartenente alla chiesa dell’Ascensione: cfr. P. Sardina, Tra l’Etna e il mare, cit, p. 69.175 Tali indicazioni cronologiche sono deducibili dalle relazioni preliminari di scavo: cfr. F. Giudice, Catania. Scavo in Piazza Duomo, cit., pp. 108-110.176 M. Gaudioso, Origini e vicende del Palazzo, cit., p. 301.177 I. La Lumia, Estratti di un processo per lite feudale del secolo XV concernenti gli ultimi anni del regno di Fe-derico III e la minorità della regina Maria, (documenti per servire alla storia di Sicilia , I serie – diplomatica, III) Palermo 1878, pp. 177-178. 178 un disegno che si inquadra nel più vasto processo di consolidamento di estesi domini territoriali unito all’acquisizione di posizione di potere nei centri demaniali che, nel corso del Trecento, vede impegnati i più importanti esponenti dell’aristocrazia feudale dell’isola: P. Corrao, Governare un regno. Potere, società e isti-tuzioni in Sicilia fra Trecento e Quattrocento, Napoli 1991, pp. 46-54.

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111tra continuità e innovazioni: la città antica e medievale

179 La terra e il castello di Aci erano pervenuti nelle mani di Blasco già nel 1320: cfr. H. Finke, Acta arago-nensia, Berlin-Leipzig 1922, III, pp. 178-179; nel 1381 Artale Alagona presta omaggio a urbano VI per il possesso della terra e del castello: A. Giuffrida, Il cartulario, cit, p. 109.180 A. Giuffrida, Il cartulario, cit., p. 73, 109, 114 181 A. Giuffrida, Il cartulario, cit. p. 89, 94-95, 109182 A. Longhitano, Santa Maria di Nuovaluce a Catania. Certosa e abbazia benedettina Catania 2003; la posizio-ne del poggio a dominio della via di Fontanarossa è sottolineata in Michele da Piazza, Cronaca, cit. p. 105183 Michele da Piazza, Cronaca, cit, p. 387-390.184 G. Agnello, L’architettura sveva, cit, p. 236-237.185 All’interno di tali legami si inquadra la fondazione di S. Maria de Altofonte: S. Fodale, I cistercensi nella Si-cilia medievale, in I cistercensi nel Mezzogiorno medievale, a cura di H. Houben-B. Vetere, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Martiano-Latiano-Lecce 25-27 febbraio 1991) Galatina 1994, p. 356186 Cfr. il privilegio di Martino del 1392 con il quale vengono confermate al monastero le dotazioni e i beni concessi dal suo fondatore e che erano stati confiscati a seguito della ribellione di Artale, trascritto dal Bar-beri : G.L. Barberi, Beneficia ecclesiastica, a cura di I. Peri, Palermo 1963, I, pp. 180-184.187 S. epstein, Potere e mercati, cit., p. 173.188 Cfr. M. Gaudioso, La comunità ebraica, cit, pp. 33-34. Il monastero possedeva una grangia in città in con-trada judichello: cfr. d. Ventura, Edilizia urbanistica e aspetti di vita economica e sociale a Catania nel ‘400, Catania 1984, p. 86.189 I. La Lumia, Estratti di un processo per lite feudale, cit., pp. 178-179.190 Il documento è pubblicato da d. Ventura, Edilizia urbanistica, cit. p. 88; Id., Potere e spazio urbano cit., pp. 87-105. Agli inizi del Quattrocento, il complesso fortificato era ormai in rovina, a seguito certamente delle turbinose vicende che alla fine del Trecento, tra il 1392 e il 1398, videro un continuo stato di guerra delle forze catalane coi ribelli siciliani, tra cui gli Alagona, e che provocarono un rivolgimento della vita politica isolana e un ricambio totale della classe dirigente: P. Corrao, Governare un regno, cit., pp. 89 e ss.191 Sulla stessa linea sembrano, peraltro, porsi gli interventi di Artale, volti al rafforzamento delle difese cittadine, con la costruzione di un fossato sul lato delle difese verso Lentini e con l’edificazione della torre sulla Serra di lu Cardillu, che dominava la strada per Motta e Paternò: cfr. Michele da Piazza, Cronaca, cit. pp. 358-359.192 Assai per tempo deve essersi formata una viabilità secondaria, alla quale sembrano fare riferimento le fonti quando descrivono l’itinerario (saxosi itineri spatio) percorso dalle reliquie di S.Agata nel suo ritorno a Catania. Lungo questo tracciato, si trovava la chiesa di S.Agata le Xare, in prossimità di ognina, costruita, secondo la tradizione, in età normanna, nel ricordo del passaggio della Santa: Privitera, Epitome , cit., p. 128; G. Policastro, Catania, cit., p. 21 .193 Il toponimo di origine araba Gaito (da qaid) localizzato poco più a sud di ogniuna, in prossimità di una delle estremità dell’insenatura originaria prima dell’eruzione, fa ritenere un uso dell’insenatura anche in età altomedievale.194 Al porto di Santa Maria de Longino approda, ad esempio, la galea di Federico III, accolto da Artale che lo accompagna verso l’ingresso in città: cfr. I. La Lumia, Estratti di un processo, cit. p. 45.195 Si veda l’episodio narrato da Michele da Piazza, Cronaca, cit., p. 327.196 Secondo la storiografia locale l’insenatura di ognina sarebbe stata parzialmente colmata da questo episo-dio per il quale de Grossis e Amico indicano date discordanti: G.B. de Grossis, Catanense Decachordum, cit., t. I, p. 227 (1408) e V. Amico Statella, Catana illustrata cit., p. 53 (1381). un ridimensionamento degli effetti della colata è invece ipotizzato da recupero il quale ritiene che la lava non abbia interessato il bacino portuale: G. recupero, Storia naturale e generale dell’Etna, Catania 1815, rist. an. Catania 1983, II, p. 31. La delimitazione della colata già proposta da C. Sciuto Patti, Carta geologica di Catania e dintorni di essa, Catania 1873, è ulteriormente precisata nella Carta geologica dell’area urbana di Catania in C. Monaco et alii, The Geological Map of the Urban Area of Catania (Eastern Sicily): Morphotectonic and Seismotectonic Implications, in Mem. Soc. Geol. It. 55, 2000, pp. 425-438. Più di recente il riconoscimento, sulla base delle fonti storiche, di un episodio eruttivo avvenuto nel 1224 ha permesso di ipotizzare che proprio questa eruzione, possa avere raggiunto il mare in corrispondenza di ognina, prospettando dunque un più preciso inquadramento storico per le cosiddette ‘lave di ognina’: e. Guidoboni-C. Ciuccarelli, First historical evidence of a significant Mt. Etna eruption in 1224, in «Journal of Volcanology and Geothermal reserch», 2008, pp. 1-8.197 S. Bella, Acque, ruote e mulini nella terra di Aci, Belpasso 1999.198 Michele da Piazza, Cronaca, cit., pp. 328-329.199 In tal senso sembra doversi interpretare la citazione della via magna contenuta in una confinazione di fine Trecento e riferibile alla via che dalla reitana attraverso Nizzeti giungeva a Catania: S. Bella, Aci, S. Filippo ed Aquileia. Risposta alle Memorie sulle origini di Aci del sac. V. Raciti Romeo, Acireale 1893, pp. 163-165.200 dalla porta di Jaci entra in città nel 1287 re Giacomo: cfr. Atanasio di Aci, Di la vinuta di lu Re Japicu in Catania, in opuscoli di autori siciliani, IV, Palermo 1760, p. 97.201 M. Aymard, Catania e i suoi territori, in Catania. La città, la sua storia, a cura di M. Aymard-G. Giarrizzo, Catania 2007, p. 285 e ss.

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