Nobiltàbipartita nel medioevo

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Una nobiltà bipartita Rappresentazioni sociali e lignaggi preminenti a Roma nel Duecento e nella prima metà del Trecento Gli statuti di Roma del 1363 contengono, al pari di tanti altri, una serie di disposizioni antimagnatizie. A barones, seu magnates et potentiores , viene tassativamente vietato di assumere l'ufficio di senatore (la massima magistratura comunale), di accedere al Campidoglio durante la discussione di cause giudiziarie, di dare ricetto a ladri o diffidati; sono inoltre obbligati a giurare il sequimentum al comune e vengono puniti, per i crimini di cui si rendano colpevoli, con pene molto superiori a quelle comminate ai populares 1 . In buona parte questa normativa è frutto di una riforma recente, promossa probabilmente sul finire degli anni Cinquanta dal regime popolare della Felice Società dei Balestrieri e dei Pavesati 2 . La legislazione romana non ha nulla di peculiare: anzi, essa è in molte parti identica a quella che ormai già da due o tre generazioni è stata elaborata in numerosissimi comuni italiani 3 . E' evidente che 1 ? Statuti della città di Roma , a c. di C. Re, Roma 1880 (Biblioteca dell'Accademia storico-giuridica, 1), pp. 72-73 (lib. II. rubrica 110: "De baronibus causantibus non intrantibus Capitolium"), 191-192 (II, 201: "De baronibus iurare debentibus sequimenta senatoris et romani populi"), 195 (II, 208: "De unico Urbis senatore"; II, 209: "De non assumendis ad senatum"), 222-223 (III, 36: "Quod nullus bastardus vel spurius alicuius baronis possit elegi ad aliquod officium"); per le rubriche relative alle maggiorazioni di pena previste a danno dei baroni, v. sotto nota 7. 2 ? Per la storia di questa societas popolare, v. A. Natale, La Feli ce Società dei Balestrieri e dei Pavesati a Roma e il governo dei banderesi dal 1358 al 1408 , in "Arch. Soc. romana", 62 (1939), pp. 1-176, e E. Duprè Theseider, Roma dal comune del popolo alla signoria pontificia (1252-1377) , Bologna 1952 (Storia di Roma, 11), pp. 661-670. Anche G. Fasoli (Ricerche sulla legislazione antimagnatizia in Italia , in "Rivista di storia del diritto italiano", 12 [1939], pp. 86-133 e 240-309) attribuisce principalmente ai Banderesi l'elaborazione della normativa antimagnatizia (p. 132). 3 ? Sulla legislazione antimagnatizia dei comuni italiani il principale studio rimane il documentatissimo articolo di G. Fasoli, Ri cerche sulla legislazione cit. (per l'analisi della normativa capitolina v. pp. 128-132 e 306-309). Sulle normative fiorentine, alle quali con ogni probabilità si ispirarono gli statutarii romani (cfr. la nota seguente) e le cui vicende, oggetto di celebri polemiche storiografiche, hanno avuto grande importanza &%PAGINA& 1

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Una nobiltà bipartitaRappresentazioni sociali e lignaggi preminenti a Roma

nel Duecento e nella prima metà del Trecento

Gli statuti di Roma del 1363 contengono, al pari di tanti altri, una serie di disposizioni antimagnatizie. A barones, seu magnates et potentiores, viene tassativamente vietato di assumere l'ufficio di senatore (la massima magistratura comunale), di accedere al Campidoglio durante la discussione di cause giudiziarie, di dare ricetto a ladri o diffidati; sono inoltre obbligati a giurare il sequimentum al comune e vengono puniti, per i crimini di cui si rendano colpevoli, con pene molto superiori a quelle comminate ai populares1. In buona parte questa normativa è frutto di una riforma recente, promossa probabilmente sul finire degli anni Cinquanta dal regime popolare della Felice Società dei Balestrieri e dei Pavesati2. La legislazione romana non ha nulla di peculiare: anzi, essa è in molte parti identica a quella che ormai già da due o tre generazioni è stata elaborata in numerosissimi comuni italiani3. E' evidente che l'esperienza di tanti altri regimi popolari -esperienza sulla quale sappiamo che il comune romano ha più volte provveduto ad informarsi-4 fornisce una solida guida ai legislatori.V'è però un aspetto della normativa capitolina che risulta del tutto anomalo, e che, nel palesare lo sforzo di adeguare alla realtà romana norme elaborate per un diverso contesto, ci appare rivelatore: la suddivisione della cittadinanza non in due gruppi (quello del popolo e quello dei nobili o magnati), ma in tre. Sopra la schiera dei pedites o populares, gli statutari romani collocano infatti tanto il gruppo dei 1 ?Statuti della città di Roma, a c. di C. Re, Roma 1880 (Biblioteca dell'Accademia storico-giuridica, 1), pp. 72-73 (lib. II. rubrica 110: "De baronibus causantibus non intrantibus Capitolium"), 191-192 (II, 201: "De baronibus iurare debentibus sequimenta senato ris et romani populi"), 195 (II, 208: "De unico Urbis senatore"; II, 209: "De non assumendis ad senatum"), 222-223 (III, 36: "Quod nullus bastardus vel spurius alicuius baronis possit elegi ad aliquod officium"); per le rubriche relative alle maggiorazioni di pena previste a danno dei baroni, v. sotto nota 7.

2 ?Per la storia di questa societas popolare, v. A. Natale, La Feli ce Società dei Balestrieri e dei Pavesati a Roma e il governo dei banderesi dal 1358 al 1408, in "Arch. Soc. romana", 62 (1939), pp. 1-176, e E. Duprè Theseider, Roma dal comune del popolo alla signoria pontificia (1252-1377), Bologna 1952 (Storia di Roma, 11), pp. 661-670. Anche G. Fasoli (Ricerche sulla legislazione antimagnatizia in Italia, in "Rivista di storia del diritto italiano", 12 [1939], pp. 86-133 e 240-309) attribuisce principalmente ai Banderesi l'elaborazione della normativa antimagnatizia (p. 132).

3 ?Sulla legislazione antimagnatizia dei comuni italiani il principale studio rimane il documentatissimo articolo di G. Fasoli, Ri - cerche sulla legislazione cit. (per l'analisi della normativa capitolina v. pp. 128-132 e 306-309). Sulle normative fiorentine, alle quali con ogni probabilità si ispirarono gli statutarii romani (cfr. la nota seguente) e le cui vicende, oggetto di celebri polemiche storiografiche, hanno avuto grande importanza nell'orientare le ricerche di altri ambiti geografici, mi limito a rinviare, anche per l'ampiezza dei riferimenti critici alla bibliografia anteriore, a E. Cristiani, Sul valore politico del cava lierato nella Firenze dei secoli XIII e XIV, in "Studi medievali", n.s., 3 (1962), pp. 365-371; G. Pampaloni, I magnati a Fi renze alla fine del Dugento , in "Archivio storico italiano", 129 (1971), pp. 387-424; S. Raveggi, M. Tarassi, D. Medici e P. Parenti, Ghibellini, guelfi e popolo grasso. I detentori del potere politico a Firenze nella seconda metà del Dugento, Firenze 1978, pp. 241-321; C. Klapisch, Ruptures de parenté et changements d'i dentité chez les magnats florentins du XIVe siècle , in "Annales. ESC", 43 (1988), pp. 1205-1240.

4 ?Nel 1338 i romani "feciono popolo, e mandaro loro ambasciatori a Firenze a pregare il nostro comune che mandasse loro gli ordinamenti della giustizia, che sono contra i grandi e potenti in difensione de' popolani e meno possenti, e altri buoni ordini che noi avevamo" (Croniche di Giovanni, Matteo e Filippo Villani, Trieste 1857-1858, lib. IX, 96 -vol. I, p. 421-). Di "reggimento al modo de' comuni di Toscana" parla poi Matteo Villani riferendosi al regime del tribuno del popolo Francesco Baroncelli, il quale, inoltre, richiese ed ottenne da Firenze un giusperito (lib. III, 78 -vol. II, p. 109; Duprè Theseider, Roma dal comune del popolo cit., pp. 639-640).

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milites e cavallarocti quanto quello dei barones o magnates. Le sanzioni pecunarie comminate a milites e "cavalerotti" (la dizione volgare del termine ricorre nell'Anonimo)5 sono in genere pari al doppio di quelle previste, per i medesimi reati, nel caso il colpevole sia un popolare; ad essi è comunque consentito l'accesso agli uffici comunali, nei limiti però di un miles-cavallaroctus ogni due populares6. I baroni, del tutto esclusi dalla vita politica, sono sottoposti a pene ancora superiori, il cui ammontare oscilla fra il doppio e il quintuplo di quello stabilito per i milites-cavallarocti7.La definizione più completa dei baroni, detti anche magna tes e potentiores8, li qualifica come coloro "qui debent seu consueverunt in Camera Urbis sequimenta prestare", con l'aggiunta (che ricorre però soltanto nella rubrica relativa alle percosse) di "omnes qui sunt de genere magnatum quorum bona stabilia valent triginta milia libras provisinorum"9. Al fine evidente di mantenere la distinzione del gruppo dei milites et cavallarocti, manca come si vede qualsiasi riferimento al cavalierato, criterio viceversa altrove spesso prevalente nella definizione della compagine magnatizia; ed è pure assente la publica fama, altro elemento di giudizio, e nel contempo di manovra politica, previsto dalle legislazioni comunali10. A Roma il criterio fondamentale -tanto che di norma, nel resto della raccolta statutaria, risulta l'unico previsto- è quello dell'inserimento in un elenco nominativo, trascritto più oltre negli stessi statuti alla rubrica intitolata "De baronibus iurare debentibus sequimenta"11. Almeno nella citata normativa sulle percosse, ad esso si affianca poi il possesso di ingenti beni immobili, per un valore minimo esplicitamente indicato e di notevolissimo ammontare. L'ambito familiare di validità delle norme antimagnatizie comprende non soltanto tutti i membri legittimi di entrambi i sessi della domus, ma anche i ba stardi e i familiares, definiti questi ultimi come coloro che "dictorum magnatum pannos induunt vel ab eis expensas cotidianas recipiunt"12.

5 ?Anonimo romano, Cronica, a c. di G. Porta, Milano 1981 (I ed. Milano 1979), pp. 111 e 144.

6 ?Cfr. Duprè Theseider, Roma dal comune del popolo cit., pp. 668-669.

7 ?Statuti della città di Roma cit., pp. 91-92 (II, 10 e 12), 97-98 (II, 20), 101-102 (II, 27), 104 (II, 33), 105 (II, 35), 109-110 (II, 49), 110-111 (II, 50), 111-113 (II, 53-55), 114 (II, 61), 115-117 (II, 64-65), ecc.

8 ?Si noti che nelle fonti romane e pontificie il termine magnates non sembra avere quell'accezione negativa, "di condensato di qua-lità personali sostanzialmente negative" come grandigia, tracotanza e superbia, che avrebbe invece altrove, come a Firenze (Pampaloni, I magnati a Firenze cit. a p. 338): Benedetto XII, ad esempio, non esita ad indirizzare lettere "universis nobilibus et magnatibus Urbis" (Benoît XII (1334-1342). Lettres closes et pa tentes intéressant les pays autres que la France , a c. di J-M. Vidal e G. Mollat, Paris 1913-1950, n. 1784, a. 1338). Si deve tuttavia notare che magnates può assumere un valore negativo per gli esponenti del partito popolare, ed in particolare per Cola di Rienzo, che nelle sue lettere vanta ad esempio la sottomissione di "singulos Urbis magnates, tyrannos et principes": ma proprio l'accostamento dei magnates ai principes indica chiaramente come la militanza politica nel partito antimagnatizio potesse condurre ad un rovesciamento semantico di termini normalmente utilizzati con accezione positiva o, quantomeno, neutra (K. Burdach e P. Piur, Briefwechsel des Cola di Rienzo, Berlin 1913-1919, III, p. 42).

9 ?Statuti della città di Roma cit., I, 110, pp. 72-73; II, 12, p. 92; II, 50, pp. 109-110.

10 ?Oltre a Fasoli, Ricerche sulla legislazione cit., pp. 242-243, mi limito a rinviare a G. Tabacco, Nobili e cavalieri a Bologna e a Firenze fra XII e XIII secolo, in "Studi medievali", n.s., 17 (1976), pp. 41-79, in partic. pp. 54 e 60.

11 ?Statuti della città di Roma cit., II, 201, pp. 191-192.

12 ?Statuti della città di Roma, II, 49, pp. 109-111 (ove si chiarisce che "ad probationem familiaritatis de qua supra fit mentio sufficiat probatio publice fame facta per tres vel duos ydoneos testes de contrata [dicti] familiaris"), e II, 201, pp. 191-192.

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Del gruppo dei milites e dei cavallarocti fanno invece parte tanto i lignaggi di stirpe cavalleresca ("milites vel filii militis vel de genere militum"), quanto quelli i cui membri hanno partecipato in qualità di cavaliere all'esercito comunale o ai giochi di Testaccio e di Piazza Navona (cavallarocti) o possiedono beni per più di 2000 lire13. Una formulazione, come si vede, che, pur riferendosi chiaramente ad un gruppo socialmente considerato omogeneo, si incentra sulla sua bipartizione in milites e "cavalerotti": senza però dare modo di stabilire se l'espressione "milites et cavallarocti" sia uno di quei sintagmi, tipici delle disposizioni statutarie, dove un medesimo oggetto viene indicato con più termini14, o se, invece, il gruppo in questione fosse realmente distinto in due componenti, caratterizzata una dalla presenza di un membro o di un antenato insignito della dignità cavalleresca (milites), l'altra soltanto dal possesso di una cavalcatura e dalla capacità di utilizzarla in attività belliche al servizio del comune (cavallarocti). Indipendentemente dalla risposta che si vuole dare alla questione ora formulata, è evidente che gli statuti del 1363 distinguono con nettezza, all'interno del ceto nobiliare, un gruppo eminente, pesantemente penalizzato nell'amministrazione della giustizia ed escluso dalla vita politica, da un gruppo di minore im-portanza, per il quale i legislatori popolari si limitano a prevedere punizioni più severe. In forma così organica, è come si accennava una distinzione del tutto assente dalle altre raccolte statutarie comunali, dove secondo Gina Fasoli risulta al più dato di rintracciarne, ma solo sporadicamente, vaghi "accenni"15. Essa sembrerebbe testimoniare una peculiarità nella fisionomia dell'aristocrazia romana mai rilevata finora, ma di grande interesse. Materia di questo contributo sono sia la verifica del margine di astrattezza insito in una simile rappresentazione sociale, sia un'indagine sui suoi fattori genetici, sulla sua epoca di formazione e sulla percezione che ne avevano gli stessi lignaggi preminenti. Ne trarremo forse una comprensione delle strutture sociali romane meno bloccata in fuorvianti parallelismi con altre città italiane, fornendo nel contempo, proprio con lo studio di una realtà peculiare, elementi per una valutazione storica delle aristocrazie italiane più articolata nel tempo e nello spazio di quelle anche recentemente proposte16.

13 ?Statuti della città di Roma, II, 47, p. 108 ("Duplicentur pene in milite et filio militis et cavallarocto: ubicumque autem in hoc statutorum volumine fit mentio de milite, sive tractatur de electione sive de penarum impositione sive augumentatione, intelligatur de illo qui est filius militis sive de genere militis, et idem intelligatur de illo cuius bona valent duo milia librarum provisinorum et ab inde supra, de quo valore sufficiat probatio per tres vel quattuor testes ydoneos de publica fama probantes; et illi habeantur et intelligantur pro cavallaroctis in quolibet casu in hoc volumine statutorum comprehenso qui actenus habuerunt officium ut cavallarocti in Urbe vel eius districtu, vel qui luderunt in ludis Testatie et Agonis").

14 ?Per la seconda metà del Trecento, è questa, in sostanza, la conclusione cui giunge J.-C. Maire Vigueur, Classe dominante et classes dirigeantes à Rome à la fin du Moyen Age, in "Storia della città", 1 (1976), pp. 4-26, in partic. pp. 13-21, attraverso un'attenta analisi dei patrimoni e delle attività economiche delle famiglie definite nobiles dai notai e di altre ad esse socialmente accostabili (cfr. inoltre p. 20 per la distinzione, palese al livello patrimoniale e esplicitamente proposta anche da un documento dello stesso comune capitolino, fra "populares grassi" e "cavallarocti").

15 ?Appunto di "un accenno" ad una simile distinzione presente "eccezionalmente in altri luoghi" parla la Fasoli, Ricerche sulla legislazione cit., pp. 256-257. In nota viene tuttavia fatto ri ferimento unicamente ad una rubrica degli statuti vicentini del 1264 che, nel vietare di fornire ospitalità agli sbanditi per omicidio, minaccia una multa di 200 lire al pedes, di 500 al miles e di 1.000 al comes e ai communes villarum (Statuti del comune di Vicenza. MCCLXIV, a c. di F. Lampertico, Venezia 1886, p. 100, rubr. "De forbannitis non tenendis"). Ma si veda anche infra, nota 98.

16 ?Di "un appiattimento cronologico e spaziale ... inconsistente ai fini di una valutazione delle aristocrazie nella dialettica sto rica" parla Paolo Cammarosano come sostanziale limite delle ricerche di Philip Jones, e più in generale di tutto il filone storiografico di cui lo storico inglese costituisce uno degli esponenti più attenti e rappresentativi (P. Cammarosano, Tradizione documentaria e storia cittadina. Introduzione al "Caleffo Vec chio" del Comune di Siena , Siena 1988, p. 78). I saggi di P. Jones ai quali si fa riferimento sono La storia economica. Dalla caduta dell'Impero romano al secolo XIV, in Storia d'Italia coordinata da R. Romano e C. Vivanti, Torino

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1. La titolatura nobiliare

La rappresentazione bipartita del mondo nobiliare romano non ricorre soltanto nelle disposizioni antimagnatizie, ma anche in numerose altre rubriche della raccolta statutaria del 1363. Quest'ultima era nata, come quasi sempre nell'Italia comunale, attraverso la rielaborazione di normative anteriori, riproposte senza quasi modifica negli statuti di metà Trecento17. Se a ciò aggiungiamo che già negli statuti del 130518 (se non addirittura nel 1284-1285) i legislatori comunali si erano occupati del gruppo dei baroni, distinguendolo dal resto della società urbana e compilando un elenco di lignaggi obbligati a giurare il sequimen tum (lo stesso che figura poi senza quasi nessuna variazione nella raccolta del 1363)19, possiamo considerare molto probabile che la bipartizione dell'aristocrazia cittadina fosse già presente nella perduta raccolta statutaria dell'inizio del secolo.Solo fonti di altro tipo e considerazioni di diversa natura possono però suffragare una simile ipotesi, permettendo una consistente anticipazione dell'epoca di origine della rappresentazione del mondo nobiliare palesata dagli statutarii capitolini. Titoli onorifici, qualificazioni sociali, formulari pontifici e l'analisi di un termine specifico -barones- debbono ora soccorrerci.

1974, vol. II/2, pp. 1467-1810, e soprattutto Economia e società nell'Italia medieva le: la leggenda della borghesia , in Dal feudalesimo al capitali smo , Torino 1978 (Storia d'Italia, Annali, 1), pp. 185-372 (poi in volume, Torino 1980). Motivate riserve su questi saggi sono state espresse fra gli altri da S. Polica, Basso Medioevo e Rina scimento: "rifeudalizzazione" e "transizione" , in "Bullettino dell'Istituto storico per il medio evo e Archivio muratoriano", 88 (1979), pp. 287-316, e da R. Bordone, Tema cittadino e "ritor no alla terra" nella storiografia comunale recente, in "Quaderni storici", 18 (1983), pp. 255-277.

17 ?Le ricerche intorno agli statuti capitolini sono state a lungo negativamente condizionate dall'erronea conclusione a cui erano pervenuti gli studi del loro editore, Camillo Re, il quale riteneva la raccolta del 1363 la prima mai compiuta dal comune romano (Statuti della città di Roma cit., pp. XXXIII-LX, in partic. p. XXXVII). Per confutare questa affermazione, gli studiosi successivi hanno rintracciato menzioni e citazioni di statuti in fonti della fine del XIII e dell'inizio del XIV secolo (V. La Mantia, Storia della legislazione italiana. I, Roma e Stato Romano, Torino 1884, pp. 122-125; G. Levi, Ricerche intorno agli statuti di Roma, in "Arch. Soc. romana", 7 [1884], pp. 463-485; P. Fedele, Per la storia degli statuti di Roma (con qualche ossevazione sul mercato del pesce nel secolo XIV), in Studi storici e giuridici per le nozze Prato-Pozzi, Asti 1914, pp. 3-12). Che la raccolta del 1363 sia stata costituita tramite la parziale rielaborazone di normative anteriori risulta piuttosto chiaramente sia dalla citazione, in fonti del primo Trecento, di rubriche che ricorrono poi parola per parola nel 1363 (oltre al ricordato articolo di P. Fedele e a A. De Boüard, Sur une article inédit d'anciens statuts de Rome, in "Mélanges d'archeologie et d'histoire de l'École française de Rome", 30 [1910], pp. 117-128, si veda sotto, al paragrafo 3, quanto detto a proposito della rubrica II, 201), sia da alcuni riferimenti cronologici presenti nella raccolta del 1363 ma relativi a epoche molto anteriori (il più antico è forse quello relativo alla giurisdizione signorile, che viene riportata alla sua pienezza "sicut fuit ante adventum domini Branchaleonis de Andalo"; I, 109, p. 71).

18 ?L'esistenza di una raccolta statutaria di tale anno è stata individuata da A. Rota (Il codice degli "Statuta Urbis" del 1305 e i caratteri politici della sua riforma, in "Arch. Soc. romana", 70 [1947], pp. 147-162) sulla base tuttavia di un codice che A. Pa ravicini Bagliani ha dimostrato provenire dall'ambiente del falsario cinquecentesco Alfonso Ceccarelli (Alfonso Ceccarelli, gli "Statuta Urbis" del 1305 e la famiglia Boccamazza. A proposito del codice vat. lat. 14064, in Xenia Medii Aevi historiam illu strantia oblata Thomae Kaeppeli O.P., Roma 1978, pp. 317-350). L'attendibilità della fonte ci sembra però provata dall'analisi esposta oltre, note 43-57 e testo corrispondente (il codice statutario del 1305, inoltre, viene menzionato anche in altre fonti: v. ad es. Biblioteca apostolica vaticana -d'ora in poi BAV-, Vat. lat. 7934, f. 119v).

19 ?Cfr. note 50-57 e testo corrispondente.

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A partire dalla metà del XII secolo, per designare i personaggi eminenti menzionati come attori, testimoni o a qualsiasi altro titolo nei documenti che debbono redigere, i notai e i funzionari della cancelleria pontificia non utilizzano più quell'ampia schiera di termini di varia origine (consules, duces, principes, illustres viri, optimates, nobilissimi, primates, no biliores , ecc.) alla quale avevano fatto ricorso nei secoli precedenti. Adottano invece un vocabolario molto ristretto, limitato di fatto ai sostantivi dominus e consul (o proconsul) e agli aggettivi nobilis e magnificus20. Questi termini vengono utilizzati in modo differente a seconda dell'epoca e del tipo di fonte. Attraverso i tempi, rimangono però costanti alcuni aspetti, comuni del resto alle fonti di molte altre città italiane. Il primo è l'assenza, fino alla metà circa del Trecento, di un "lessico nobiliare" rigidamente applicato dai notai (in parte diverso è il caso della documentazione pontificia). Titoli onorifici e qualificazioni sociali vengono infatti utilizzati in modo molto incostante: scorrendo le fonti, capita spesso di constatare che personaggi menzionati più volte siano insigniti talvolta di un titolo, altre volte di un altro, senza nessuna ragione apparente. Prima della metà del XIII secolo, inoltre, può persino accadere che anche esponenti di primo piano dei maggiori lignaggi baronali vengano menzionati senza accompagnare il loro nome con alcuna qualifica. In seguito la totale assenza di titoli onorifici si fa rarissima: tanto i notai, quanto gli addetti alla cancelleria pontificia iniziano ad utilizzare sempre più generosamente termini come dominus e no bilis vir , giungendo talvolta a creare espressioni francamente ridondanti, nelle quali titoli onorifici precedono tanto il nome del soggetto, quanto quelli del padre e finanche del nonno. Nella seconda metà del XII secolo e nei primi decenni del successivo, per distinguere i personaggi eminenti i documenti di origine notarile (e in minor misura anche quelli pontifici) utilizzano molto raramente -e comunque solo per esponenti di grande rilievo dell'aristocrazia locale- l'espressione nobilis vir, preferendo di norma ricorrere al sostantivo dominus. A lungo questa qualifica risulta riservata ad un gruppo di famiglie certo meno ristretto di quello dei nobiles viri, ma comunque socialmente ancora non molto vasto. Già alla fine del XII secolo e all'inizio del successivo, la schiera dei domini appare tuttavia enormemente ampliata, arrivando a comprendere famiglie aristocratiche di modesto rilievo e anche buona parte degli iudices (almeno dal tardo Duecento, del resto, la qualifica di dominus è certamente priva di uno stabile collegamento con il cavalierato, poiché molto spesso risulta attribuita a personaggi non addobbati)21.

20 ?Per il carattere personale della qualifica e per la minore diffusione, consul o proconsul Romanorum ha tuttavia un'importanza nettamente inferiore a quella degli altri termini. L'espressione, abbastanza frequente nel XII secolo ma più rara in seguito, sem bra indicare, almeno nel Duecento, una vera e propria qualifica: non contraddistingue tutti gli esponenti adulti di un lignaggio, ma soltanto singoli personaggi. Nel XIII secolo se ne fregiano tanto personaggi di notevole rilievo e appartenenti a dinastie a ristocratiche famose, quanto -più raramente- membri di famiglie certamente non di primo piano, come i de Ponte o i Piscioni. Il termine -che i romani ostentano soprattutto fuori della propria città- compare principalmente in atti giudiziari e di natura pub blica, ma se ne ignorano tanto l'origine, quanto il concreto significato: se assieme ad E. Dupré Theiseider possiamo credere "che si tratti di una innocua vanteria su fondo pseudo-antiquario" (Duprè Theseider, Roma dal comune del popolo cit., p. 72), sarebbe egualmente di grande interesse poterne stabilire l'origine e le modalità di conferimento.

21 ?A Firenze come in altri comuni, com'è noto, il titolo di dominus era riservato ai cavalieri addobbati e ai dottori di legge (Ta-bacco, Nobili e cavalieri cit., pp. 53 e 58); in altre città, invece, sembra avere avuto una diffusione sociale ancora maggiore che a Roma (così a Padova, dove "fu applicato a chiunque fosse al di sopra dello stato di contadino o lavoratore"; J. K. Hyde, Pa dova nell'età di Dante. Storia sociale di una città-stato italia na , trad. it., Trieste 1985 -ed, orig. New York 1966-, p. 69). Va poi notato che, a Roma, per le famiglie non preminenti in genere il titolo di dominus non viene assegnato al personaggio direttamente menzionato nel documento, ma soltanto al padre (sopratutto nel XII secolo, un simile sistema risulta però talora utilizzato anche per gli esponenti dei principali casati).

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Dopo il secondo-terzo decennio del XIII secolo, i personaggi preminenti vengono sempre più di frequente qualificati come nobi les viri . La diffusione del termine non sembra però da attribuire al desiderio di distinguere un gruppo eminente dalle restanti componenti nobiliari della società urbana: fino al sesto-settimo decennio del secolo, dominus rimane infatti la qualifica più frequentemente usata dalle fonti anche per coloro che vengono talvolta insigniti del titolo di nobilis vir, e quando, dopo il 1270 circa, notai e cancelleria pontificia, menzionando i membri delle dinastie baronali, iniziano a preferire al termine di dominus quello di nobilis vir, ormai quest'ultimo viene applicato, sebbene con minore frequenza, anche agli esponenti di famiglie di minore rilievo. Proprio in quegli anni inizia tuttavia a venire saltuariamente utilizzato un termine che due generazioni più tardi servirà finalmente per distinguere con chiarezza, nella documentazione notarile, le stirpi baronali dagli altri lignaggi dell'aristocrazia romana: magnificus vir. L'espressione è sconosciuta alla cancelleria dei papi, che continua ad usare, anche oltre il periodo qui considerato, esclusivamente il termine nobilis vir, che già a fine Duecento prevale di molto su quello di dominus. Nei documenti notarili consultati magnificus vir fa una prima, sporadica comparsa nel 124922; inizia realmente a venir utilizzato, ma con estrema parsimonia, negli ultimi tre decenni del secolo. Al contrario degli altri termini fino ad ora illustrati, magnificus vir viene riferito esclusivamente agli esponenti dei lignaggi preminenti. Se ne risulta insignito un personaggio del quale la fonte tace il nome di famiglia, possiamo essere certi (e la ricerca fi-nisce quasi sempre con il dimostrarlo) che egli appartiene ad una delle grandi dinastie aristocratiche della città. L'uso del termine si generalizza però molto lentamente. Fino al secondo-terzo decennio del Trecento, anche per i membri delle famiglie più in vista i notai ricorrono più spesso alle antiche, e ormai socialmente diffusissime, espressioni di dominus e nobilis vir, che non a quella di magnificus vir. Soltanto dopo il 1320-1330 l'espressione si diffonde rapidamente, presentandosi anche nella forma rafforzativa ed enfatica di magnificus et potens vir, e finendo con il diventare una sorta di introduzione obbligata alla menzione di qualsiasi personaggio eminente. La terminologia utilizzata per qualificare la nobiltà romana che era finora conosciuta, quella adottata dalla Cronica dell'Anonimo e dai registri notarili del Tre-Quattrocento ed incentrata sulla netta distinzione fra nobiles e magnifici viri, è dunque frutto di una lunga evoluzione, che termina proprio all'epoca di Cola di Rienzo e dei primi protocolli notarili conservati. E' soltanto nei decenni immediatamente precedenti alla redazione dei superstiti statuti capitolini che nasce una differenzazione terminologica volta a distinguere i lignaggi preminenti dal resto dell'aristocrazia. Prima di allora questa differenzazione si era verificata in misura molto ridotta -e comunque a quel che sembra in modo casuale, senza alcuna precisa volontà di realizzarla- attraverso l'uso più frequente e precoce di termini che venivano del resto quasi subito utilizzati per insignire, sebbene con minor frequenza, personaggi di livello sociale meno elevato dei baroni. Nel Trecento, viceversa, essa appare frutto di una scelta cosciente, in consonanza perfetta con la raffigurazione bipartita dell'aristocrazia proposta dagli statutarii. Questo parallelismo cronologico non è però sufficiente per attribuire ai primi decenni del Trecento soltanto l'affermarsi della rappresentazione di una nobiltà articolata su due livelli. Sappiamo infatti che probabilmente la bipartizione ricorreva già negli statuti del 1305, mentre si possono nutrire forti dubbi sulla rapidità con la quale il linguaggio notarile recepiva i mutamenti della realtà e delle rappresentazioni sociali. Come non pensare che la comparsa della nuova terminologia vada piuttosto collegata alla tendenza

22 ?Archivio storico capitolino, Archivio Orsini (d'ora in poi: ASC, AO), II.A.I, n.33: "magnificus vir dominus Napuleo Mathei Rubei [Orsini]".

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a conferire un più preciso rilievo formale alla preminenza sociale o, in altri termini, alla crescente "aristocratizzazione" del linguaggio trecentesco (notarile e non), all'uso sempre più diffuso e ridondante dei titoli onorifici, al culto per l'araldica e per la nobiltà che caratterizza un po' tutte le classi sociali? Lo studio dell'evoluzione sociale permette infatti, come vedremo, di prospettare con decisione una spiegazione di questo genere, che già trova una parziale conferma nelle descrizioni delle componenti nobiliari delle società urbane proposte da alcune fonti.

2. Barones et baronisse

Fin dalla prima metà del XIII secolo, per descrivere l'aristocrazia romana fonti di varia natura ricorrono all'accostamento di due sostantivi, "nobiles et magnates". Secondo il biografo di Innocenzo III, la processione successiva alla consacrazione del papa avvenne "comitantibus prefecto et senatore, cum magnatibus et nobilibus Urbis", mentre nel 1256 -per limitarci ad un'unico altro esempio- alcuni mercanti senesi parlano di "prelium in Urbe ... inter nobiles et magnates ex una parte et populum romanum ex altera"23. Si tratta tuttavia di espressioni troppo stereotipate, e in un caso anche di ambiente culturale non romano, per essere, da sole, affidabili. Ma esse acquistano diverso spessore qualora vengano accostate ad alcune lettere pontificie, che, come faranno un secolo dopo gli statuti romani, fin dai tempi di Urbano IV distinguono nettamente due livelli all'interno dell'aristocrazia urbana. Nell'agosto del 1263, nel dicembre dello stesso anno e nei primi mesi di quello successivo il papa vieta ai sudditi della Campagna e della Marittima ogni lega "illicita" e l'alienazione di qualsiasi bene immobile a chi non sia nativo della Provincia 24. Sebbene Giorgio Falco abbia mostrato come queste e simili di-sposizioni siano del massimo interesse per svariate ragioni, noi insisteremo su un unico elemento: le pene comminate ai contravventori si articolano già allora su tre livelli. Per i "cives" (detti anche "pedites") viene prevista infatti una sanzione di 2-300 lire, per i "milites" di 500, per "barones et baronisse" di 1000. Queste disposizioni non si riferiscono a Roma, ma ad Anagni e più in generale a tutta la provincia di Campagna e Marittima. Ai nostri fini la loro utilità sembrerebbe limitarsi (anche se non è certo poco) al dimostrare che già a metà Duecento la cancelleria pontificia concepiva come tripartita la società laica delle città laziali, e in particolare che distingueva all'interno dei ceti eminenti due gruppi ben distinti e di diseguale importanza, qualificandoli con la medesima terminologia adottata un secolo dopo dagli statuti capitolini. Ma v'è di più: come notava il Falco, in buona parte dei barones ricordati in queste lettere "dobbiamo ravvisare non già membri dell'aristocrazia militare locale, bensì grandi feudatarî di Roma e del contado che, per ragioni prevalentemente politiche, hanno giurato la cittadinanza" 25. Come si vede, è possibile trovare dei remoti ma espliciti antecedenti alla visione che i trecenteschi statuti romani propon-

23 ?Gesta Innocentii Papae III, in Migne, P.L., t. 214, col. 21; Do cumenti dei secoli XIII e XIV riguardanti il comune di Roma con - servati nel R. Archivio di stato di Siena, Siena 1895, pp. 16-17.

24 ?Roma, Archivio Colonna, Pergamene, cass. 3, n. 3, a. 1263; A. Theiner, Codex diplomaticus dominii temporalis S. Sedis. Recuil de documents pour servir à l'Histoire du governement temporel des États du Saint-Siège, extraits des archives du Vatican , Rome 1861-1862, I, pp.150-151, 156 e 158-159 (aa. 1263-1264).

25 ?Falco, I comuni della Campagna e della Marittima nel Medio Evo, in Idem, Studi sulla storia del Lazio nel Medioevo, Roma 1988, pp. 419-690, p.491 (già pubblicato in "Arch. Soc. romana" fra il 1919 e il 1926).

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gono dei gruppi nobiliari e della collocazione dei barones all'interno di essi26. Barones, "li baroni", è appunto il termine impiegato dalle fonti non notarili del Due e Trecento per designare l'insieme dei lignaggi preminenti. A differenza dei termini sopra analizzati e di altri che, come quello di comes, rinviano in molti casi ad una precisa posizione occupata nella gerarchia feudo-vassallatica od araldica27, baro non viene utilizzato come titolo onorifico di un singolo personaggio, anteponendolo al suo nome. Lo si incontra quasi soltanto al plurale, per designare un gruppo eminente di lignaggi; compare al singolare, di solito, soltanto per indicare un generico esponente di tale gruppo. Diffuso Oltralpe, nel Regno di Sicilia e nello Stato della Chiesa ma poco conosciuto fino al Rinascimento in buona parte del resto d'Italia, il termine barones è stato oggetto di numerosi e mai del tutto soddisfacenti tentativi di definizione. Già i giuristi del XIII-XIV secolo erano in disaccordo sugli elementi che facevano di un nobile un barone, e anche la moderna storiografia si caratterizza per le opinioni discordanti alle quali sono giunti i principali studi sul termine. Per i secoli di nostro interesse, anche se v'è ancora disaccordo sul ruolo che i legami di dipendenza dal re o da un'altro principe avevano nel far definire baro un nobile, ed anche se gli studiosi insistono in misura diversa sull'eventuale precisa collocazione dei baroni all'interno di una gerarchia feudo-vassallatica e nobiliare, è comunque assodato che la caratteristica principale dei barones era il possesso di vassalli, l'esercizio di giurisdizioni28. Nella documentazione pontificia il termine, introdotto probabilmente attraverso il vicino Regno normanno, nel quale risulta ampiamente utilizzato fin dalla fine dell'XI secolo, compare per la prima volta agli inizi del XII secolo29. La sua diffusione non può però venire puntualmente apprezzata prima del

26 ?Nell'elaborare queste distinzioni sociali è probabile che la cancelleria pontificia sia stata influenzata dalla normativa in vigore nel regno meridionale, dove fin dal XII secolo i sudditi della corona venivano distinti, nell'indicazione di alcune pene pecuniarie, in cinque gruppi, puniti ciascuno con una multa doppia di quella comminata al precedente: contadini, borghesi, mili tes , baroni e conti (A. Caruso, I diritti e le prerogative dei feudatari nel regno di Sicilia , in "Archivio storico per le Province Napoletane", 59 [1947], pp. 85-94, e 61 [1950], pp. 87-111; nel vol. 59, a pp. 86-87).

27 ?Si ricordi, peraltro, che in Italia il termine comites ha un significato tecnico quasi soltanto nel Regno di Sicilia, ove è di norma attribuito ai feudatari che possiedono città (C. Cahen, Le régime féodal de l'Italie normande, Paris 1940, p. 52; Caruso, I diritti e le prerogative ... cit.); altrove (e fra l'altro anche nel Lazio settentrionale) il titolo comitale, esibito in genere da famiglie con un remoto passato funzionariale, ha un valore puramente onorifico (G. Sergi, Dinastie e città del regno italico nel secolo XI, in L'evoluzione delle città italiane nell'XI seco lo , Bologna 198$, pp. 151-173, pp. 154-156, e, per un'illuminante esemplificazione regionale, P. Cammarosano, La nobiltà del Senese dal secolo VIII agli inizi del secolo XII , in "Bullettino senese di storia patria", 86 [1979], pp. 7-48, pp. 16 e ss -poi apparso anche in I ceti dirigenti in Toscana nell'età precomunale, Pisa 1981).

28 ?Per la Francia e l'Impero, si vedano: P. Guilhiermoz, Essai sur l'origine de la noblesse en France, Paris 1902, pp.156-172 (per il quale fin dall'XI secolo baro sarebbe un termine tecnico, che indica il possessore di castelli); K.-J. Hollyman, Le développe ment du vocabulaire féodal en France pendant le haut moyen âge, Genève-Paris 1957, pp.122-129 (più attento all'evoluzione cronologica del termine, sottolinea in particolare l'elevata condizione nobiliare ad esso connessa a partire dal XII secolo); J.-F. Lemarignier, La France médiévale. Institutions et société , Paris 1970, pp.245-246; E. Bournazel, Le gouvernement capétien au XIIe siècle. 1108-1180 , Limoges 1975, pp.152-154 (dove si noti in particolare il rapporto quasi obbligato stabilito fra il termine e l'esistenza di legami feudo-vassallatici con un signore eminente); A. Barbero, L'aristocrazia nella società francese del me dioevo , Bologna 1987, p.112 (per l'analisi delle fonti letterarie); R. Boutruche, Seigneurie et féodalité, Paris 1959-1970, II, pp. 264-267 (con osservazioni anche sull'Italia meridionale). Per l'evoluzione del termine nelle lingue romanze, v. C. A. Wester blad, "Baro" et ses dérivés dans les langues romanes, Uppsala 1910, in partic. pp.3-7 e, per l'Italia, pp.97-113. Per il Regno di Sicilia, appaiono utili anche per il periodo svevo ed angioino Cahen, Le régime féodal de l'Italie normande, cit, pp.51-52, e M. Caravale, Il Regno normanno di Sicilia, Milano 1966, pp. 285 e ss.; si veda inoltre Caruso, I diritti e le prerogative cit., vol. 61, pp. 87-111. Per una visione sintentica, infine, si consulti la voce Baron (baro) in Lexicon des Mittelaters, I, München-Zürich 1980, coll. 1476-1484 (in particolare le sezioni Frankreich, di R. H. Bautier e B. Dedos, e Neapel und Sizilien, di G. di Renzo Villata).

29 ?Salvo errore, la prima menzione si trova nella vita di papa Gelasio II (1118-1119): "Sedit itaque papa, sicut videbatur, in pace. Frequentabat eum comites et barones et qui pro responsis aliquibus veniebant et recipiebantur benigne et, donec finito negotio pro quo

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pontificato di Innocenzo III, quando nella serie dei registri pontifici che solo allora ha inizio risulta utilizzato con grande frequenza. Vi appare come un termine già "tecnico", al quale la cancelleria pon-tificia sembra avvezza a far ricorso da tempo. Nel luglio del 1207, ad esempio, il pontefice convoca "episcopos et abbates, comites et barones, potestates et consules civitatum de Tuscia, Ducatu et Marchia usque Romam" per far loro giurare obbedienza e pace30, ed espressioni pressoché identiche ricorrono, in riferimento anche al Lazio meridionale, in tutta la Vita del pontefice31: in esse è evidente che i barones sono, assieme agli ufficiali alla guida delle città e ai comites, i capi delle istituzioni (statali, signorili o comunitarie che siano) che inquadrano i laici delle diverse province, così come vescovi ed abati presiedono gli istituti che raggruppano gli ecclesiastici. Solo apparente risulta il contrasto con altre lettere pontificie di non molto posteriori (come quella indirizzata nel 1227 "nobilibus viris universis baronibus per Carzolum constitutis" per ordinare di non fornire aiuto a Tivoli contro il monastero di S.Benedetto di Subiaco32), le quali sembrano invece attestare che con barones si indichino, genericamente, tutti i personaggi dotati di notevole potere: in un'epoca in cui potenza materiale ed esercizio di giurisdizioni sono di fatto la stessa cosa, le due accezioni che il termine barones sembra avere nella documentazione pontificia finiscono con il coincidere. I papi continuano del resto ad usare molto a lungo, per designare i personaggi potenti che per concessione pontificia o, ancor più spesso, per loro autonoma iniziativa33

guidano gli abitanti delle province dello Stato, espressioni come quella sopra citata: ancora nel 1321 una lettera di Giovanni XXII è ad esempio indirizzata "comitibus, baronibus, potestatibus, capitaneis et aliis officialibus civitatum et castrorum"34. La stretta correlazione fra la qualifica baronale e l'esercizio di giurisdizioni signorili presente nella documentazione pontificia ricorre pure in fonti di diversa natura. Nel marzo del 1286, dopo le guerre con Viterbo degli anni precedenti, Orso Orsini promette ad esempio di non attaccare più la città e i suoi abitanti, ma, aggiunge, "dum tamen cives et habitatores non sint vel non reputentur barones". Sono dunque eccettuati i lignaggi viterbesi preminenti, ed in particolare, chiarisce un altro documento, quanti hanno "terras seu possessiones extra territorium seu districtum civitatis": si tratta essenzialmente dei

cuncti convenerant accepta benedictione redirent, tamquam a patre filii benignius per omnia tractabantur" (Le Liber Ponti ficalis , a c. di L. Duchesne, II ed., Paris 1955-1957, II, p. 314). Va notato che nei peraltro rari documenti pontifici del XII secolo che li ricordano, i barones sembrano in primo luogo essere personaggi di rilievo legati a un signore eminente (lo stesso papa, un conte, ecc.) da un rapporto di fedeltà vassallatica: diversa è, come vedremo, l'accezione del termine nella documentazione successiva (v. Theiner, Codex diplomaticus, cit, I, p. 13, a. 1142: menzione dei "barones ... filiorum quondam Rainerii de Cavalcaconte illustris comitis Bretinorum"; Le Liber Censuum de l'Église romaine, a c. di P. Fabre e L. Duchesne, Paris 1910-1952, p. 391, a. 1157: Adinolfo di Aquino giura ad Adriano IV "fidelitas et hominium" e di "servire domno pape et successoribus suis et sancte romane ecclesie sicut ex aliis Campanie baronibus").

30 ?Theiner, Codex diplomaticus cit., I, pp.41-42.

31 ?Gesta Innocentii papae III cit., coll. 41, 54, 59, 75, 79 e 162.

32 ?Subiaco, Archivio di S.Scolastica, I, 18

33 ?Le concessioni in beneficio connesse a rapporti di fedeltà vassallatica con i papi furono infatti molto ridotte: salvo rarissimi casi, non furono insomma tali da pregiudicare il carattere allodiale dei grandi patrimoni aristocratici romani (sulla consistenza e l'origine dei dominii delle principali famiglie nobili romane mi permetto di rinviare a S. Carocci, xxs xsxx sxsxs xxsxs xsxsxs nnn anna nnna nn mmmmmmm mmmmm mmmm mmmmm mmmmm mmm mmmm mmm $). Del tutto improprio è quindi parlare dei baroni come "feudatari" del papa.

34 ?Theiner, Codex diplomaticus cit., I, pp.407-408.

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lignaggi cittadini titolari dei castelli passati sotto la signoria orsina durante il pontificato di Niccolò III35. Il possesso di castelli come elemento discriminante per l'appartenenza al mondo baronale risulta poi chiarissimo in tutta la Cronica dell'Anonimo, nella quale ricorrono anche espressioni rivelatrici, come "barone de castella", "li vassalli delli baroni", "un aitro barone delli signori de Bellovidere" e molte altre36.Proprio la Cronica, tuttavia, mostra come, nello specifico della realtà romana, la dimensione baronale fosse connotata non solo dal possesso di vassalli, quanto soprattutto da altri elementi. L'opera dell'Anonimo è al riguardo una fonte di ricchezza unica. In essa il termine "baroni" compare quasi in ogni pagina. Dal punto di vista terminologico, sono innanzitutto da notare i sinonimi al quale talvolta l'Anonimo ricorre al posto del troppo usato "li baroni". Alcune espressioni, come "li mannifichi", "li potienti" e "li signori", rimandano per via diretta al linguaggio notarile dell'epoca37. Altre, invece, appaiono derivare dall'oggettiva situazione politica romana: in particolare l'equivalenza semantica fra "senatore" e "barone", che egli introduce in almeno due passi38, sulla quale torneremo oltre. Si deve poi ribadire che l'Anonimo, nonostante la collocazione politica francamente avversa al partito nobiliare che lo porta più volte a sottolineare i crimini e le malefatte dei baroni, non utilizza mai (come del resto le altre fonti romane) il termine barone in un'accezione negativa, che pure poteva già avere nel volgare dell'epoca. Anzi, l'ammirazione per il prestigio, la ricchezza e la nobiltà dei baroni ricorrono in più passi: ad esempio quando ricorda "la tristizia che Roma abbe" della morte di Cola Annibaldi, un "così inclito barone", oppure quando in più luoghi tratteggia il barone come "potente e nobile persona" o come cavaliere fornito "de tutte arme, elmo relucente in testa, speroni in pede como barone"39. La connotazione cavalleresca del barone, e più precisamente quella di forte combattente e di capo militare, ritorna anch'essa più volte, e fra l'altro nel passo appena citato. Infine, va notato come l'Anonimo si riferisca sempre ai baroni come ad un gruppo dotato certamente di un'articolazione interna (palesata dalla distinzione fra "baroni" e "granni baroni" alla quale ricorre in un caso)40, ma ben identificato e nettamente distinto dal resto della popolazione cittadina. La rappresentazione dei baroni come di una compagine di lignaggi che si collocavano in una

35 ?P. Savignoni, L'archivio storico del comune di Viterbo, in "Arch. Soc. romana", 18 (1895), pp. 5-50 e 269-318; 19 (1986), pp. 5-42 e 225-294; 20 (1897), pp. 5-43 e 465-478; cit. dal vol. 19, nn. 140-141, p. 6. Per l'espansione degli Orsini nel viterbese si può vedere S. Carocci, I lignaggi baronali romani (1190-1330): definizioni, genealogie, dominii , Tesi di dottorato in storia medievale, II ciclo, aa. 1988-1989, pp. 164-174.

36 ?Anonimo romano, Cronica cit., pp. 115, 123, 130 e 149.

37 ?Ad es.: "Allora li signori voizero fare una loro coniurazione contra lo tribuno e llo buono stato: non fuoro in concordia; la cosa non venne fatta. Quanno Cola de Rienzi intese che la coniura delli baroni non venne ad effetto per la discordia loro ..." (Anonimo romano, Cronica cit., p.115); "Questa cosa spaventao li animi delli potienti..., comenza la iustizia a prennere vigore. La fama de tale fatto spaventao li mannifichi in tale modo che ... lo signore non se accotiava de toccare lo sio servo" (pp.119-120).

38 ?Anonimo romano, Cronica cit., pp. 107 e 122-123. Il primo passo riporta il cartiglio apposto da Cola sotto "lioni, lopi et orzi" raffigurati nel dipinto allegorico ("similitudine") che "fece pegnere nello palazzo de Campituoglio nanti lo mercato": "questi so' li potienti baroni, riei rettori". Il secondo è relativo ad un provvedimento di poche settimane posteriore: Cola "connannao ciascheduno lo quale era stato senatore in ciento fiorini, perché de essi voleva reedificare e racconciare lo palazzo de Campituo glio. Recipéo per ciasche barone ciento fiorini, ma lo palazzo non fu acconcio, benché comenzassi".

39 ?Anonimo romano, Cronica cit., pp. 13, 123, 147 e 163.

40 ?Anonimo romano, Cronica cit., pp.139-140.

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posizione di evidente supremazia sul resto del corpo sociale e della stessa aristocrazia ricorre, infine, anche in altre fonti. Per sottolineare la "magnificentia" della sua famiglia, nel 1270-72, ad esempio, Margherita Colonna affermava che tutte le donne "de domo sua ... barones et comites sibi previderant"41, mentre alcune generazioni dopo, per rispetto della "nobilitas de genere baronum", il cardinale Annibaldo di Ceccano stabiliva nel suo testamento del 1348 che, nella "domus scolarium" di cui aveva ordinato la fondazione in Roma, i giovani di stirpe baronale fossero esentati dall'ufficio di preposito, ricoperto a turno dagli studenti42.

* * *

Alcune esplicite fonti dei decenni centrali del XIV secolo (la Cronica, il testamento del cardinale di Ceccano, la stessa terminologia adottata dai notai) e un manipolo più sparuto ed incerto di attestazioni precedenti (i frammenti della perduta raccolta statutaria capitolina del 1305, la Vita di Margherita Colonna, una serie di lettere pontificie, in parte anche la diffusione e l'impiego di un termine come barones) sembrano dunque concordi nel descrivere, per la Roma della prima metà del Trecento e degli ultimi decenni del secolo precedente, un'aristocrazia articolata su due livelli, il più eminente dei quali nettamente distinto dall'inferiore. E' già un'ottima prova della fondatezza dell'immagine proposta dagli statuti del 1363. Tuttavia, pur senza ricostruire lo svolgersi concreto della vita sociale e politica romana, sul quale ancora sappiamo davvero ben poco, è forse egualmente possibile guadagnare, muovendo dal terreno mai pienamente affidabile della terminologia e delle rappresentazioni sociali, un suolo più stabile. Anche limitandosi ad una prima, sommaria analisi dei fattori attestati come distintivi della compagine baronale (lo strapotere politico e l'esercizio di giurisdizioni), è infatti possibile accertare se esisteva e dove si collocava la frattura all'interno dell'aristocrazia cittadina. Procederemo quindi lungo alcuni sentieri privilegiati, costituiti dall'inserimento negli elenchi dei baroni soggetti alla legislazione antimagnatizia, dall'elezione al seggio senatorio o ad altre preminenti magistrature comunali (capitania, vicariato), dal ruolo di rilievo nella vita pubblica testimoniato da una omogenea serie di lettere pontificie, infine dal possesso di castelli e vassalli.

3. Per una delimitazione del ceto baronale: magnati, senatori e 'nobiles de Urbe'

Come molte altre raccolte del genere, anche gli statuti di Roma contengono un elenco di casati magnatizi sottoposti ad un particolare controllo politico: si trova nella rubrica 201 del secondo libro,

41 ? L. Oliger, B. Margherita Colonna. Le due vite scritte dal fra tello Giovanni Colonna Senatore di Roma e da Stefania monaca di S. Silvestro in Capite, Roma 1935 ("Lateranum", n.s., 1-2 [1935]), p. 132. Su Margherita Colonna v. G. Barone, Margherita Colonna e le clarisse di S. Silvestro in Capite, in Roma anno 1300., Atti del convegno internazionale di storia dell'arte medievale. Roma 19-24 maggio 1980, Roma 1983, pp. 799-805.

42 ?M. Dykmans, Le cardinal Annibal de Ceccano (vers 1282-1350). Étu de biographique et testament du 17 juin 1348 , in "Bulletin de l'Institut historique belge de Rome", 43 (1973), pp. 145-344, a p.295: "item volumus quod supradictum officium prepositure faciat singuli secundum ordinem, nisi ratione nobilitatis de genere baronum excusabilis videatur". L'ufficio di preposito, retribuito con un compenso di 12 denari, consisteva nel compiere le spese necessarie, nel servire gli altri studenti a tavola sedendosi per ultimi "in mensa" e nel "reddere computum et rationem" quotidianamente al priore.

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intitolata "De baronibus iurare debentibus sequimenta"43. La rubrica fa parte della raccolta compilata nel 1363, ed appare dunque di limitata utilità per studiare la composizione del "ceto" baronale nel secolo XIII e all'inizio del successivo. Una disposizione molto simile, tuttavia, è stata ricopiata nel XVI secolo in un codice della Biblioteca Vaticana, traendola -si afferma- da uno "statutum antiquum Urbis" compilato nel 130544. Tranne poche eccezioni, essa ripete quasi parola per parola la rubrica del 1363, enumerando le stesse famiglie e i mede-simi personaggi. Tramandata da un codice proveniente dall'ambiente di Alfonso Ceccarelli, il celebre falsario della Roma cinquecentesca, la rubrica è stata sospettata di essere un'ennesima creazione ceccarelliana45. E' invece possibile dimostrare non soltanto che è genuina, ma anche che, probabilmente, un primo elenco di magnati doveva essere stato compilato nel 1284-1285.Per provarne l'autenticità si possono seguire due diversi percorsi. Poiché la lista dei baroni indica i lignaggi talvolta con il nome di famiglia ("omnes de domo Ursinorum"), altre volte mediante il nome di un personaggio eminente ("omnes de domo domini Petri Romani"), potremmo in primo luogo tentare di identificare questi personaggi per stabilire l'epoca nella quale sono vissuti; la seconda possibilità è rappresentata dall'analisi delle varianti che intercorrono fra la rubrica del 1305 e quella del 1363. La prima strada porta solo a conclusioni indirette, ma già molto indicative. Tranne che per Pietro Caetani, morto nel 130846, è infatti impossibile sostenere che i personaggi menzionati nella lista giuntaci in copia -e che ritroviamo poi, con due sole eccezioni, in quella del 1363- fossero tutti attivi intorno al 1305. Nell'elenco, oltre al dominus "Petrus Caetanus et eius filii", compaiono il "comes Iohannes Poli" e i domini "Oddo de Sancto Eustachio", "Petrus Ginnazzano", "Albertus Normandi" e "Petrus Romani". Eccettuati il Caetani e Pietro Romani, a causa delle continue ripetizioni nell'onomastica dei vari lignaggi personaggi con questi nomi risultano in vita sia in pieno XIII secolo, sia all'epoca degli statuti del 1305, sia infine nel 136347. Tuttavia è evidente che se i legislatori comunali hanno pensato di indicare un casato 43 ?Statuti della città di Roma cit., pp.191-192; la rubrica è stata edita in modo più accurato in Rota, Il codice degli "Statuta Ur bis" del 1305 cit., pp. 160-162.

44 ?BAV, Vat. Lat. 14064, f.262 (edita in Rota, op. cit., pp. 160-162). Il codice contiene una raccolta di notizie e documenti re lativi alla famiglia Boccamazza; è descritto in Paravicini Bagliani, Alfonso Ceccarelli, gli "Statuta Urbis" cit., pp. 317-328.

45 ?Si vedano le conclusioni dell'articolo di A. Paravicini Bagliani citato alla nota precedente.

46 ?Se ne veda la "voce" biografica curata da D. Waley, Caetani Pie tro , in Dizionario biografico degli italiani (d'ora in poi: DBI), 16, Roma 1973, pp. 215-217.

47 ?Questi i personaggi ai quali i nomi che figurano nell'elenco potrebbero fare riferimento:Oddo de Sancto Eustachio. I personaggi con un simile nome sono almeno quattro: 1) il capostipite della gran parte dei Sant'Eustachio attivi nel XIV secolo, vissuto nella prima metà del Duecento e padre certamente di Tebaldo, Cinzio ed Angelo; 2) suo nipote, il senatore romano del 1293, Oddone di Angelo di Oddone, menzionato l'ultima volta dalle fonti nel 1301; 3) Oddone di Te baldo di Mattia di Tebaldo di Oddone, podestà di Aspra nel 1323 e ancora vivo nel 1364, e 4) suo cugino Oddone di Poncello di Mat tia, menzionato fino alla metà del XIV secolo. Cfr. A. Pellegrini, Riccardo di Pietro "Iaquinti" podestà di Aspra, in "Arch. Soc. romana", 108 (1985), pp. 37-79, in partic. pp. 62-66 e tav. genealogica V; il primo Oddone, assente dalla tavola genealogica, è magister hedificiorum Urbis nel 1238 e viene ricordato in documenti del 1250 (L. Schiaparelli, Alcuni documenti dei "Magistri aedificiorum Urbis" (secoli XIII e XIV), in "Arch. Soc. romana", 25 [1902], pp. 5-59, a p. 29; Le carte di Casperia (già Aspra), a c. di L. Pellegrini, Roma 1989, pp. 43-44).Petrus Ginnazzano. Il riferimento può essere ad almeno tre esponenti del ramo dei Colonna di Genazzano: 1) il capostipite del ramo, Pietro I, attestato per la prima volta nel 1257 e morto prima del gennaio 1276; 2) Pietro II Colonna di Genazzano, figlio del precedente, co-signore di Genazzano insieme al fratello Stefano dal 1276 al 1316 almeno; 3) Pietro III: nipote del precedente (era figlio di suo figlio Stefano IV), è detto dominus Genaz zani in una lettera pontificia del 1349. Sui Colonna di Genazzano si veda l'ottima ricerca di J. Coste, I primi Colonna di Genazza no e i loro castelli , in "Latium", 3 (1986), pp. 27-86, in partic. le pp. 44-46 per Pietro I e le pp. 47-53

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tramite un suo membro, questi deve avere occupato una posizione di primo piano all'interno della famiglia. Possiamo così escludere che i baroni menzionati dagli statuti fossero attivi intorno alla metà del XIV secolo: in quest'epoca quei nomi di battesimo designano ecclesiastici, cadetti privi di beni propri o, nei casi migliori, personaggi alla guida di rami secondari della famiglia. Ma, eccezion fatta per Pietro Caetani, nemmeno possiamo affermare che i baroni menzionati fossero attivi intorno al 1305. Certo, alcuni dei nomi che ricorrono nella rubrica potrebbero indicare personaggi che risultano a capo, all'inizio del Trecento, di rami importanti del loro lignaggio. Però, se non vogliamo pensare che la legislazione antimagnatizia venisse applicata soltanto ad alcuni dei rami di un casato (e talvolta nemmeno ai principali), sembra più plausibile credere che i nomi fatti dai legislatori del comune siano quelli di personaggi, del resto ben attestati, morti intorno alla metà del XIII secolo e nei decenni immediatamente successivi: si tratta o dei capostipiti veri e propri, o di personagi celebri dai quali comunque discendono tutti i principali rami dei casati in questione. Se dunque siamo nel vero ritenendo che i baroni esplicitamente menzionati nella lista siano personaggi attivi nel secondo terzo del Duecento (e in ben due casi su cinque possiamo esserne del tutto certi)48, sembra allora molto probabile che l'elenco venne al più tardi compilato all'inizio del secolo successivo, quando ancora si doveva in qualche modo conservare la memoria di quei personaggi, e non invece due generazioni dopo49. Anzi, il ricordo di analoghe disposizioni deliberate come vedremo nel 1284-1285 a danno della medesima compagine baronale ("contra predictos et alios") potrebbe anche indurre ad ipotizzare che in realtà un primo elenco, poi utilizzato per la redazione di quello del 1305, fosse stato redatto proprio nel 1284-1285, incentrandolo sul riferimento -in quegli anni ancor più ovvio che un ventennio dopo- a personaggi da poco scomparsi: ma, questa volta, stiamo davvero nel campo delle pure ipotesi50.

per Pietro II; la citata lettera pontificia del 1349 è regestata in Clément VI (1342-1352). Lettres intéressant les pays autres que la France, a c. di E. Déprez e G. Mollat, Paris 1960-1961, n. 1894.Petrus Romani. Si tratta certamente del principale esponente, morto nella battaglia di Tagliacozzo, della stirpe dei de Cardinale, dalla quale originano i Romani-Bonaventura. La storia della famiglia, discendente dai Papareschi, non è mai stata og getto di studi affidabili; per Pietro Romani, solo membro della stirpe con tal nome di battesimo, v. Saba Malaspina, Istoria del le cose di Sicilia (1250-1285) , in Cronisti e scrittori sincroni napoletani, a c. di G. Del Re, II, Napoli 1868, pp. 203-408, a pp. 274-275 e 281; Duprè Theseider, Roma dal comune del popolo cit., pp. 88, 109, 118, 124, 153-155, 168 e 173.Albertus Normandi. Quattro almeno i Normanni di tal nome. Il solo tuttavia a ricoprire un ruolo di rilievo nel lignaggio è A berto di Giovanni di Stefano Normanni, il quale testa nel 1254 e dal quale discendono tutti i successivi rami del casato. Cfr. M. Vendittelli, Dal 'castrum Castiglionis' al casale di Torrimpie tra. I dominî dei Normanni-Alberteschi lungo la via Aurelia tra XII e XV secolo , in "Arch. Soc. romana", 112 (1989), pp. 115-182, in partic. la tav. genealogica e i relativi riferimenti documentari.Comes Iohannes Poli. Il riferimento può essere ad almeno quattro esponenti del ramo dei Conti di Poli: 1) il capostipite del ramo (e per un breve periodo principale esponente dell'intera famiglia), il senatore Giovanni I, morto nel 1261; 2) suo nipote Giovanni III, morto prima del 1329; 3) il figlio del precedente, Giovanni VI, menzionato nel 1325; 4) il cugino di secondo grado del precedente, Giovanni VI, capitano del popolo nel 1356 e probabilmente senatore nel 1358. Cfr. M. Dykmans, D'Innocent III à Boniface VIII. Histoire des Conti et des Annibaldi, in "Bulletin de l'Institut historique belge de Rome", 44 (1975), pp. 19-211, in part. tav. III e relativi riferimenti.

48 ?Il solo Pietro Romani conosciuto risulta appunto attivo in tale epoca; il "comes Iohannes Poli" va poi certamente identificato con Giovanni I Conti, poiché i suoi omonimi discendenti non risultano mai essere stati a capo di un ramo familiare né avere posseduto per intero il castrum di Poli.

49 ?Non a caso, nel 1363, trascrivendo l'elenco dei barones Urbis nella nuova raccolta statutaria si ritenne opportuno indicare Normanni e Conti non più mediante il riferimento ad Alberto Normanni e Giovanni di Poli, ma tramite il cognome (cfr. l'edizione citata alla nota 51).

50 ?In via di mera ipotesi, si potrebbe anche supporre che una prima redazione dell'elenco fosse stata compiuta all'epoca di Branca-leone degli Andalò, nel 1252 o negli anni immediatamente seguenti: la decisa politica antibaronale seguita dal senatore bolognese è

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Ancora più fruttuoso si rivela il paragone fra le varianti51. Nella rubrica pervenutaci in copia, in primo luogo, vi sono alcuni passi, in un caso anche di notevole lunghezza, assenti da quella del 1363. Ora non solo il linguaggio di questi passi corrisponde pienamente a quello degli statuti trecenteschi laziali, ma vi è anche un rinvio ad una precedente disposizione, deliberata "tempore nobilium virorum dominorum Pandulfi de Sabello et Annibaldi domini Trasmundi olim senatorum Urbis", i quali sappiamo essere stati in carica nel 1284-128552. Sembra improbabile che il Ceccarelli, per quanto buon conoscitore delle fonti medievali romane, abbia saputo riprodurre così perfettamente le formule statutarie dell'epoca, introducendo fra l'altro il riferimento a una coppia di senatori la cui esistenza è attestata da pochissime fonti; né, del resto, si vede il motivo per cui avrebbe dovuto sobbarcarsi ad una simile fatica. Un secondo elemento di grande interesse è il riferimento, presente unicamente nella rubrica giuntaci in copia, non solo al senatore, ma anche al capitano del popolo: e per l'appunto il 1305 è uno dei pochi anni del XIV secolo in cui -per pochi mesi appena- alla guida del comune romano troviamo sia un senatore, sia un capitano del popolo53. E' concedere troppo all'abilità del Ceccarelli, del resto tutt'altro che illimitata54, pensare che egli abbia voluto e saputo introdurre in un falso un riferimento storico così preciso, e del quale probabilmente nessuno, alla sua epoca, poteva accertare l'esattezza. Ma è una terza variante a fornire, ci sembra, la conferma decisiva dell'autenticità del passo copiato nel codice della Biblioteca Vaticana. Dopo i Colonna di Genazzano e prima dei Romani, la rubrica del 1305 ha "et omnes de domo Alberti Normandi", quella del 1363 "et omnes de domo Albertinorum". A prima vista, sembreremmo di fronte alla prova che il passo riportato dal codice cinquecentesco è un falso esemplato sulla rubrica degli statuti del 1363: parrebbe insomma che il falsario, magari perché nel codice degli statuti che aveva sotto gli occhi il cognome era stato scritto su due righe, abbia erroneamente trasformato Alberti-norum in Alberti Normandi, nome di numerosi esponenti dell'importante famiglia dei Normanni. Ed invece, seguendo da vicino la storia dei discendenti di quell'Alberto Normanni del quale possediamo il testamento del 1254, constatiamo come proprio fra il 1305 e il 1363 essi abbandonino spesso il vecchio nome di famiglia assumendo quello di Alberteschi55! La rubrica degli statuta Urbis del 1305, nonostante la provenienza più che sospetta, risulta dunque, nel

infatti da tempo nota (cfr. Duprè Theseider, Roma dal comune del popolo cit., pp. 46-51); e ad essa possiamo aggiungere la constatazione che è per l'appunto durante il senatorato di Brancaleone che tutti i personaggi dell'elenco -menzionati, si noti, senza alcuna indicazione di morte- risultano ancora in vita.

51 ?Il testo delle due rubriche può essere comodamente confrontato nell'edizione propostane da Rota, Il codice degli "Statuta Ur - bis"... cit., pp. 159-162.

52 ?Su questa coppia di senatori, v. A. Salimei, Senatori e statuti di Roma nel Medio Evo. I Senatori, cronolgia e bibliografia dal 1144 al 1447, Roma 1935, pp.86-87. Nulla sappiamo sul contenuto della disposizione (privilegium) alla quale vien fatto riferimento: il fatto però che essa fosse diretta "contra predictos et alios" induce a credere che avesse un carattere antimagnatizio e che elencasse nominativamente una serie di lignaggi. Per l'uso di definire privilegium le disposizioni dei senatori duecenteschi, v. Codice Diplomatico del Senato Romano dal MCXLIV al MCCCXLVII, a c. di F. Bartoloni, vol. I, Roma 1948, passim.

53 ?Per il regime politico allora esistente a Roma, v. G. Cencetti, Giovanni da Ignano "capitaneus populi et urbis Romae", in "Arch. Soc. romana", 63 (1940), pp. 145-172.

54 ?Limitiamoci a ricordare il motivato giudizio di Armando Petrucci (Ceccarelli Alfonso, in DBI, 23, Roma 1979, p.201): "La qualità dei prodotti di Ceccarelli era piuttosto scadente ..., inelegante il latino, scarse le conoscenze di cronologia, incerto l'uso dei formulari nelle falsificazioni documentarie (basate su pochi modelli)".

55 ?Cfr. Vendittelli, Dal 'castrum Castiglionis' cit., pp. 179-182.

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complesso, autentica. Oltre all'esame interno, indirettamente lo prova anche un documento del 1338, che pur senza fornire l'elenco dei casati magnatizi, attesta l'esistenza di una disposizione statutaria che obbligava gli esponenti di alcuni lignaggi a "prestare ... senatoribus sequimentum et mandata sub certo modo et forma"56. Rimangono soltanto due riserve. La prima è l'assenza, dalla lista del 1305, dell'importantissima famiglia degli Annibaldi, che invece compare in quella successiva: un'assenza inspiegabile, che con ogni probabilità va attribuita ad una dimenticanza del copista cinquecentesco (sembra difficile spiegarla con un'esenzione di natura politica, concessa agli Annibaldi nel 1305 in virtù di qualche loro legame con il partito popolare, ma in seguito revocata). La seconda riserva riguarda invece la presenza, nella lista più antica, di una famiglia assente da quella successiva: i Boccamazza. Ora il codice dove si trova la copia della rubrica del 1305 è per l'appunto un compendio di notizie sulla storia della famiglia Boccamazza: sorge immediato il sospetto che il suo compilatore abbia aggiunto all'elenco delle grandi famiglie romane che trovava nell'antico statuto proprio il nome della famiglia che era al centro dei suoi interessi. Ma non possiamo, ovviamente, esserne certi, tanto più che la menzione dei Boccamazza nella lista più antica e la sua assenza da quella del 1363 vanno a nostro avviso spiegate in altro modo: con la decadenza, cioè, del casato, la cui importanza, dopo aver raggiunto l'apogeo proprio all'inizio del Trecento, diminuisce in seguito rapidamente57

. I lignaggi baronali romani elencati nel 1305 sono in primo luogo gli Orsini e i Colonna, poi i Sant'Eustachio, i Colonna di Genazzano, i Normanni-Alberteschi, i Romani-Bonaventura, i Savelli, i Conti e i Caetani; dobbiamo inoltre aggiungere quasi certamente gli Annibaldi, e con alcune riserve i Boccamazza. Non possiamo affermare che si tratta della lista completa dei barones et magnates Urbis: come in tutti gli elenchi delle legislazioni antimagnatizie vi possono essere esenzioni di origine politica, ed inoltre la lista termina con un esplicito riferimento ad "alii, secundum quod in Camera Urbis inveniuntur". Si può dubitare, tuttavia, che l'elenco dei baroni fosse molto più nutrito. La presenza di numerose esenzioni può essere infatti esclusa (fatta forse eccezione, come si è detto, per gli Annibaldi) tramite il paragone con la lista del 1363, e del resto mal si concilia con le nostre conoscenze sulla storia del comune romano; la formula con la quale termina l'elenco, poi, sembra piuttosto volta a permettere in futuro l'iscrizione di altri casati, che non ad abbreviare un'elencazione altrimenti troppo lunga.

* * *

Contrariamente a quanto avviene negli altri comuni italiani,dove dalla fine del XII o dall'inizio del XIII secolo i più elevati magistrati sono in linea di massima forestieri, la guida del comune capitolino viene di norma affidata ad ufficiali di origine locale, i senatori: la loro cronotassi rappresenta quindi una fonte del massimo interesse per lo studio delle famiglie premi-nenti.A partire dal 1196, la senatoria, che fino ad allora era stata per lo più esercitata da un collegio composto da una cinquantina di membri, viene conferita ad uno o due senatori soltanto. Sia pure in forma del tutto peculiare, anche a Roma ha dunque luogo una razionalizzazione delle istituzioni comunali dovuta

56 ?A. Mercati, Nell'Urbe dalla fine di settembre 1337 al 21 gennaio 1338, Roma 1945 (Miscellanea Historiae Pontificiae, X), doc. V, p. 75-76, dove si ricorda il giuramento prestato "ex forma statutorum" da Orsini, Colonna e Savelli nell'autunno del 1337.

57 ?Rinvio al profilo della famiglia tracciato in Carocci, nn nnn nn n nnnnn bbvn nnn$.

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all'abbandono della guida collegiale del comune. L'uso di nominare uno o più spesso due senatori soltanto perdura fino alla seconda metà del Trecento, ma conosce alcune interruzioni. Esse si verificano soprattutto in due casi: quando il popolo riesce a conquistare la guida del comune, eleggendo allora molto spesso senatori e capitani del popolo di origine forestiera, oppure quando la dignità senatoria viene conferita ad un pontefice, ad un re o ad un altro personaggio di grande rilievo. Il primo caso è tutto sommato di scarsa importanza: a Roma i regimi popolari ebbero sempre una durata molto limitata, e talvolta anche i magistrati nominati dal popolo furono di origine cittadina. Di maggior rilievo, viceversa, sono le senatorie di papi e sovrani, che nel caso dei re angioini durano per più decenni. Durante questi periodi, talvolta i vicari nominati dai pontefici e dai sovrani per guidare il comune sono grandi prelati di origine non romana o esponenti della corte napoletana; più di frequente, tuttavia, i vicari regi e pontifici sono scelti fra l'aristocrazia cittadina. La lista dei magistrati che hanno effettivamente guidato il comune capitolino (pur lacunosa, per mancanza di fonti, per alcuni periodi) risulta così sempre composta, con la sola eccezione di una quarantina di nomi, da cittadini romani58. I senatori, i capitani del popolo, i deputati ad Urbis regi men e i vicari di origine romana che vi figurano sono in totale 193 (anni 1196-1347). Nei primi tre decenni del XIII secolo i membri dei grandi lignaggi baronali due-trecenteschi, molti dei quali vanno fondando proprio in questo periodo la loro fortuna, sono un'esigua minoranza; prevalgono esponenti di famiglie poco note, come i de Iudice e gli Obicionis, o personaggi celebri, come Pandolfo de Subura, che non risultano però avere avuto una discendenza di qualche importanza. Il senatorato, nel complesso, continua a venire conferito a lignaggi dell'aristocrazia senatoria del XII secolo. D'un tratto, all'inizio del quarto decennio del Duecento, nella provenienza sociale dei massimi magistrati capitolini avviene un radicale mutamento. Già nel periodo 1230-1240 si annoverano appena tre senatori reclutati nelle famiglie che erano maggioritarie nel senato del periodo precedente (Giovanni Cin thii , Giovanni de Iudice e Oddo Petri Gregorii); nel decennio successivo il loro numero si riduce a due (Pietro Parenzi e Pietro di Giovanni Cinthii), dopodiché scompaiono completamente. Senatorati di Annibaldi, Conti, Savelli, Colonna, Orsini e di poche altre famiglie celebri inziano a succedersi gli uni agli altri. Si può compilare una vera e propria graduatoria, che dal 1230 al 1347 vede in testa gli Orsini (50 cariche), seguiti da Annibaldi (27 cariche), Colonna (24), Conti (17) e Savelli (15); a distanza troviamo poi gli Stefaneschi (8 cariche)59, gli Anguillara (5), i Sant'Eustachio e i Romani-Bonaventura (3), i Boboni, i Frangipane, i Malabranca60 e i Normanni (2), ed infine Capocci, Caetani e Tebaldi, con una sola carica.

58 ?La cronologia dei senatori, dei vicari e dei capitani del popolo è stata ricostruita tramite gli elenchi pubblicati nell' Appendice I, pp. 76-103, di F. Bartoloni, Per la storia del Senato romano nei secoli XII e XIII, in "Bullettino dell'Istituto storico italiano e Archivio muratoriano", 60 (1946), pp. 1-108, che giunge fino al 1263, e, per il periodo posteriore, da Salimei, Senatori e statuti di Roma cit., in alcune affermazioni integrato e corretto (ad es. la coppia senatoria di Giacomo Sciarra Colonna e Giacomo Savelli segnalata per il 1308 è stata in realtà in carica nel 1328 -cfr. A. De Boüard, Le régime politique et les institu tions de Rome au Moyen-Age. 1251-1347 , Paris 1920, p. 252, nota 1).

59 ?Le magistrature ricoperte dai membri del ramo principale della stirpe furono in realtà solo 7; nel testo si è conteggiata anche la senatoria conferita nel 1313 dal popolo a Giacomo Arlotti Stefaneschi, esponente di una linea di discendenza da tempo autonoma e di rilievo sociale relativamente modesto (per il regime dell'Arlotti Stefaneschi, v. Duprè Theseider, Roma dal comune del popolo cit., pp. 424-425).

60 ?Non si è tenuto conto, a causa del peculiare contesto politico e della breve durata, della carica di capitano del popolo e difen sore della repubblica conferita a Giovanni Malabranca dal popolo in rivolta nel gennaio 1284 (sulla rivolta del 1284 e il capita nato del Malabranca, v. Duprè Theseider, Roma dal comune del po polo cit., pp. 231-232). Egualmente non conteggiati sono poi gli incarichi assegnati nel 1307 e 1319 a due cancellieri Malabranca e ad altrettanti cancellieri Montenero: furono magistrature di supplenza, brevi e, quel che più conta, conferite non sulla base del rilievo politico e familiare, ma per la funzione ricoperta all'interno della burocrazia

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Durante più di un secolo, dunque, appena sedici lignaggi si succedono al vertice del comune61. Si tratta già di un gruppo molto circoscritto, la cui modestia numerica non trova nessun paragone nella storia di altri comuni; ma se approfondiamo l'analisi, esso si rivela subito, di fatto, ancor più ristretto. Il numero delle cariche ricoperte attesta chiaramente che il rilievo dei diversi casati nella vita della città è molto diseguale. Nel periodo 1230-1347, su 168 senatori, vicari e capitani del popolo di origine cittadina, ben 133, pari a quasi i quattro quinti, appartengono a cinque lignaggi soltanto (Orsini, Annibaldi, Colonna, Conti e Savelli)62. Tuttavia anche se ampliamo l'analisi alle famiglie con un numero di cariche ridottisimo, rimaniamo pur sempre -fatta forse una parziale eccezione per i Boboni, i Malabranca e i Tebaldi- nei massimi livelli dell'aristocrazia romana. Guardando questa nobiltà che occupa tutte le massime magistrature comunali come per diritto ereditario, non possiamo certo stupirci che Cola di Rienzo o l'Anonimo assimilino talvolta, quasi fossero sinonimi, barone e senatore: sembra del resto un'equivalenza sentita ed apprezzata dagli stessi baroni, che immancabilmente, nei mosaici devozionali come nelle lastre tombali, si facevano effigiare non in costumi militari, ma con il manto senatorio63.

* * *

Per un periodo tardo, i decenni posteriori al 1320, un terzo elenco nominativo consente di verificare lo schiacciante predominio di pochi casati sulla vita politica e sociale romana. Sono i nomi dei "nobiles de Urbe", cioè dei destinatari di una ventina di lettere scritte dai papi di Avignone ai personaggi più influenti della città dalla quale la Curia si era allontanata e che stentava più che mai a governare. Poiché i motivi contingenti per i quali queste lettere, oggetto di un recente studio di Jean Coste64, vengono scritte sono i più diversi, variano molto il numero, la collocazione politica e il rilievo sociale dei destinatari. Talvolta il papa richiede aiuti militari, e si rivolge in questo caso soltanto a pochi baroni fedeli e di grande potere; altre volte loda la fedeltà alla Chiesa dimostrata in momenti difficili dai destinatari,

comunale.

61 ?Nel totale non sono stati conteggiati i senatorati ancora ricoperti, nella prima metà del Duecento, dei ricordati esponenti di quattro famiglie dell'aristocrazia senatoria del secolo precedente.

62 ?Fra il 1196 e il 1230 unicamente Orsini ed Annibaldi, ed una volta ciascuno soltanto, ricoprono la carica (in totale, le fonti menzionano 24 senatori); fra il 1230 e il 1252, dei 25 senatori conosciuti, già 16 appartengono ad uno dei cinque lignaggi baro nali poi sempre prevalenti nel senato (le rimanenti 9 cariche appaiono distribuite fra sette diverse famiglie); dopo la parentesi di Brancaleone degli Andalò, fra il 1259 e il 1267 ben 12 dei 13 senatori attestati provengono dai cinque lignaggi sopra ricordati (il tredicesimo è un Capocci); fra il 1278 e il 1305, cioè fra la fine del dominio angioino e l'inizio del papato avignonese, i cinque lignaggi principali detengono 27 delle 35 cariche conosciute (gli altri senatorati -nessuno dei quali è però anteriore al 1291- si distribuiscono fra sei diversi lignaggi); infine, fra il 1306 e il tribunato di Cola di Rienzo, su 95 incarichi, 78 vanno ai primi cinque casati. La ripartizione nel tempo dei senatorati assegnati a queste famiglie è diseguale: nei quattro periodi considerati (1230-1252, 1259-1267, 1278-1305, 1306-1347) gli Orsini hanno rispettivamente 3, 2, 10 e 35 incarichi; gli Annibaldi 6, 4, 3 e 14; i Colonna 2, 2, 4 e 16; i Conti 4, 2, 4 e 7; i Savelli 1, 2, 6 e ancora 6. In altra sede ci proponiamo di mostrare come un esame più sottile di questi dati, articolato cronologicamente e per rami familiari, fornisca elementi di grande interesse per la storia di Roma e della sua aristocrazia.

63 ?Cfr. P. Delogu, Castelli e palazzi. La nobiltà duecentesca nel territorio laziale , in Roma anno 1300 cit. (cfr. sopra nota 41), pp. 705-713, a p. 705.

64 ?J. Coste, Les lettres collectives des papes d'Avignon à la no blesse romaine , in Aux origines d'État moderne: le fonctionement administratif de la papaute d'Avignon. Table ronde d'Avignon, 22-24 Janvier 1988, in corso di stampa. Sono grato a Jean Coste per i chiarimenti e il materiale inedito che mi ha fornito.

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fornendo allora un elenco abbastanza completo, che arriva a contare anche una trentina di nomi, dei nobili del partito filo-papale; in altri casi il pontefice esorta i componenti di lignaggi in contrasto a giungere ad un accordo, enumerando così sia i principali esponenti dei casati in lotta, sia quelli delle famiglie loro amiche; più spesso ancora, però, le lettere hanno soltanto lo scopo di presentare i cardinali inviati in legazione a Roma: la cancelleria pontificia giunge in questi casi a spedire fino sessanta lettere del medesimo tenore, e l'elenco dei destinatari sembra comprendere allora tutti i personaggi che possono in qualche modo facilitare od ostacolare l'attività dei legati. Prese singolarmente, queste "lettere collettive" non possono fornire elenchi affidabili: l'assenza di un determinato personaggio (e finanche di un intero lignaggio, come è il caso dei de Vi co ) può dipendere da molti motivi, come la sua lontananza da Roma, il suo schieramento in un partito avverso o la sua estraneità alle lotte di parte. Nel loro insieme, tuttavia, i 368 nomi di nobiles et magnates Urbis che compaiono fra i destinatari delle lettere spedite fra il 1321 e il 1353 rappresentano un elenco senza dubbio completo delle famiglie influenti della città65. La frequenza con la quale i diversi lignaggi vengono menzionati, inoltre, pur dipendendo certamente anche dai loro orientamenti politici e dal numero dei maschi adulti in stato laicale, costituisce un indice abbastanza affidabile del potere dei diversi casati. Se calcoliamo il numero dei destinatari di ogni lignaggio, in testa si collocano gli Orsini, ai quali i papi di Avignone inviano in totale 85 di queste lettere; seguono i Colonna (59 lettere), gli Annibaldi (56), i Savelli (28), i Conti (22), gli Anguillara (16), i Capocci (13), i Normanni (12), i Bonaventura (11), gli Stefaneschi (7), i Sant'Eustachio e i Boccamazza (6 lettere per casato) e i Malabranca (5). Tutte le altre famiglie ricevono una o al più due lettere durante l'intero periodo considerato: per lo più, figurano soltanto nella lettera di presentazione del legato Bertrand de Deux, inviata nel 1347 a ben sessanta nobiles viri Urbis. Sono in tutto appena una quindicina di lignaggi, fra i quali troviamo casati in passato importantissimi ma nel Trecento ormai del tutto decaduti come i Frangipane, famiglie della feudalità laziale che iniziano evidentemente ad avere stretti rapporti con Roma e ad acquistare la cittadinanza romana (Antiochia, Palombara, de Montanea, ecc.), famiglie dell'aristocrazia minore, come i de Ponte66 e i Brancaleoni, ed altri lignaggi certamente non preminenti, ma la cui collocazione all'interno del mondo nobiliare ci sfugge in larga misura (de Insula, Montenero, Patritii, Sant'Alberto).

4. Per una delimitazione del ceto baronale: i "signori de ca- stella" 65 ?Si può trovare l'elenco dei destinatari in Carocci, I lignaggi baronali romani cit., pp. 64-71. Per la sua redazione sono state esaminate in totale venti lettere pontificie: 1)Archivio segreto vaticano (d'ora in poi: ASV), Reg. vat. 111, ep. 395, cc. 99v-100r, 27 novembre 1321; 2)ASV, Reg. vat 113, ep. 1828, c. 212v, 7 settembre 1325; 3)ASV, Reg. vat. 114, I, ep. 37, c. 15, 15 maggio 1327; 4)ASV, Reg. vat. 114, I, ep. 21, c. 11v, 8 giugno 1327; 5)ASV, Reg. vat. 114, ep. 27, c. 13v, 29 luglio 1327; 6)ASV, Reg. vat. 114, ep. 36, c. 14, 30 luglio 1327; 7)ASV, Reg. vat. 114, ep. 1295, c. 238, 7 marzo 1328; 8)ASV, Reg. vat. 114, ep. 1301, cc. 239v-240r, 7 marzo 1328; 9)ASV, Reg. vat. 117, cc. 4-5, 19 agosto 1332; 10)ASV, Reg. vat. 117, ep. 32-3, c. 6r, 15 settembre 1332; 11)Benoît XII. Lettres closes cit., nn. 436-438, 21 luglio 1335; 12)Ibidem, nn. 1481-1491, 30 agosto 1337; 13)Ibidem, nn. 1471-1476, 30 agosto 1337; 14)Ibidem, nn. 2329-2388, 22 aprile 1339; 15)Clément VI. Lettres se rapportant à la France, a c. di E. Déprez, J. Glénisson e G. Mollat, Paris 1925-1961, nn. 1877-8, 7 agosto 1345; 16)Clément VI. Lettres intéressant cit., n. 1054, 4 ottobre 1347; 17)Ibidem, n. 1542, 1 dicembre 1347; 18)Ibidem, n. 1894, 13 gennaio 1349; 19)Ibidem, n. 2553, 20 novembre 1351; 20)Innocent VI. Lettres secrètes et curiales, a c. di P. Gasnault e M.-H. Laurent, Paris 1959-, n. 290, 15 maggio 1353.

66 ?Su questa famiglia, v. ora J. Coste, La famiglia 'de Ponte' di Roma (secc. XII-XIV), in "Arch. Soc. romana", 111 (1988), pp. 49-73.

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Per una volta concordi, tutte le fonti consultate individuano come sappiamo nell'esercizio di giurisdizioni signorili l'ultima, essenziale caratteristica del magnate romano, del barone. Lo constatiamo senza sorpresa: in nessun altro comune italiano (almeno per quel che lascia capire una storiografia mai in realtà sufficientemente interessata al problema, soprattutto nella sua dimensione quantitativa) i possessi signorili delle aristocrazie si avvicinano agli impressionanti livelli raggiunti a Roma. Per questa città, non disponiamo che di dati provvisori e del tutto approssimativi, ordini di grandezza più che altro; provengono però da una ricerca analitica e appaiono sufficienti ai nostri fini67. Poniamoci, per iniziare, un decennio innanzi alla redazione dell'elenco dei barones Urbis del 1305 -siamo cioè nel 1294-1295, quando dunque il formidabile nepotismo di Bonifacio VIII non ha ancora intaccato gli equilibri interni dell'aristocrazia romana. In quest'epoca, il numero dei castra sottoposti al dominio di famiglie romane ci appare già superiore alle due centinaia. Sono abitati di ogni genere e di tutte le aree: si passa da piccoli villaggi di poche anime protetti da deboli fortificazioni fino a castelli popolosi, talvolta vere e proprie civitates di un migliaio e più di abitanti, difesi da svariate cinte di mura, rocche e torri; sorgono nelle campagne prossime a Roma, ma anche nel Patrimonio, in Sabina, in Campagna e Marittima; non di rado travalicano i confini della regione e degli stessi territori pontifici. All'epoca considerata, i possessi signorili situati fuori dal Lazio sono all'incirca una cinquantina. Si tratta di una mezza dozzina di castra romagnoli da poco passati ai Colonna di Palestrina, di alcuni centri umbri e poi soprattutto di abitati abruzzesi, campani e di altre regioni del Regno concessi in feudo da Carlo d'Angiò ad un certo numero di nobili romani. Queste infeudazioni, fatte con l'evidente scopo di crearsi dei fedeli, legati alla monarchia da diretti vincoli di vassallaggio, fra le massime famiglie di Roma, risalgono in genere al secondo senatorato di Carlo (1268-1278). Esse enucleano quindi all'interno della nobiltà romana i casati che il sovrano angioino considera politicamente preminenti e che le sue stesse concessioni, sfociando in un ampliamento talora considerevolissimo dei patrimoni familiari, ulteriormente rafforzano. Il piccolo elenco di lignaggi che permettono di costituire è dunque di grande interesse. Esso comprende Annibaldi, Colonna, Orsini, Savelli, Conti, Boccamazza, Frangipane (che hanno però ottenuto i loro feudi al tempo degli Svevi) e, dal 1291 soltanto, Caetani; vi figurano poi anche un Montenero, che riceve tuttavia il suo feudo solo grazie all'appoggio dei Colonna68, e forse (la documentazione è in proposito molto incerta) pure i Malabranca69.I rimanenti dominii della nobiltà romana, certamente superiori in numero al centinaio e mezzo, si trovano tutti nel Lazio. Per quello che permette di accertare la documentazione superstite, una cifra abbastanza

67 ?E' la ricerca citata sopra, nota 33, dove viene analiticamente ricostruita l'espansione patrimoniale delle principali famiglie aristocratiche romane: ad essa rinviamo fin d'ora per tutte le affermazioni formulate nelle pagine seguenti e non altrimenti do -cumentate.

68 ?I Registri della Cancelleria Angioina ricostruiti da Riccardo Fi langieri con la collaborazione degli Archivisti napoletani , Napoli 1950-, vol. 30, p.44, a.1290: concessione in favore dei tre figli di Riccardo di Montenero, nipoti del cardinale Giacomo Co lonna, fatta "contemplatione predicti domini cardinalis".

69 ?I Registri della Cancelleria cit., vol. 16, pp. 102-103, a.1277. Carlo d'Angiò scrive ad alcuni nobili romani chiedendo loro di contribuire alla costruzione di una flotta di navi ( teride), con le quali intende andare contro non precisati nemici. La lettera è indirizzata ad Adinulfo Conti, Pietro di Annibaldo Annibaldi, Riccardo de Militiis Annibaldi, Annibaldo di Trasmondo Annibaldi, Stefano Colonna e ai fratelli Giacomo, Cencio e Giovanni Malabranca: poiché i documenti raccolti nei ricostruiti registri angioini attestano che, tranne i Malabranca, tutti i destinatari della lettera sono feudatari del re, vien fatto di credere che anche i Malabranca possedessero feudi nel Regno e che proprio per questa ragione Carlo richiedesse loro aiuto.

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considerevole di famiglie cittadine, forse quasi una quarantina, può arrogarsi l'esercizio di giurisdizioni su abitati del districtus Urbis. Ma ad un livello -qui sta la vera peculiarità romana- estremamente diseguale. Da soli, i cinque preminenti lignaggi che troviamo alla testa di tutte le liste esaminate (Orsini, Colonna, Annibaldi, Conti e Savelli) possiedono i due terzi dei castelli; di quelli restanti, forse addirittura i quattro quinti appartengono poi agli altri casati che abbiamo già incontrato, ed in primo luogo a quelli qualificati come baronali dagli statuti del 1305 (Capocci, Normanni, Bonaventura-Romani, Sant'Eustachio e Boccamazza, con dominii complessivi stimabili intorno alle tre dozzine di castra)70. Tutte le altre famiglie romane titolari di diritti signorili hanno possessi davvero modestissimi. Alcune governano un villaggio fortificato per intero e una quota di un secondo; la schiacciante maggioranza, però, limita le proprie prerogative alla metà, ad un quarto, ad una frazione ancora inferiore di un unico castrum71 (e che castrum, talora: quello dei Curtabraca, Stracciacappe, alla fine del Duecento con tutta probabilità è ancora in parte in legno, non arriva alla ventina di famiglie e non annovera che miseri contadini fra i suoi abitanti)72.Nell'analisi ora condotta vi sono evidenti elementi di approssimazione e schematismo. Non si può stabilire, è ovvio, una meccanica proporzione fra il numero dei possessi castrensi e il potere politico o l'influenza sociale; inoltre (e non è cosa di poco conto) in quest'epoca tutti i maggiori lignaggi sono ormai articolati in rami distinti. Ma, nella sostanza, anche rozze approssimazioni di questo tipo rivelano una sorprendente concordanza fra la cronologia dei senatori, la lista statutaria dei baro nes Urbis e i destinatari delle "lettere collettive" da un lato e la ripartizione dei possessi signorili dall'altro. Sul finire del XIII

70 ?Un'altra mezza dozzina di castra appartiene poi ad Anguillara, Stefaneschi e Frangipane, cioè a casati che come vedremo debbono essere inclusi nella nobiltà baronale.

71 ?La scarsezza delle fonti e soprattutto la necessità di ultimare lunghe indagini regressive sulla proprietà di numerosi castra non mi consentono per il momento di fornire un elenco completo delle famiglie romane con possessi castrensi. A titolo esemplificativo, si veda però, fin d'ora, la seguente documentazione: I Registri della Cancelleria..., vol. 6, p. 301, a. 1271 (i "cives romani Tedaldini" hanno "quasdam partes in castris Flaiani et Filazani"); Archivio di stato di Roma (d'ora in poi: ASR), Pergamene, cass. 59, n. 10, a. 1272 (Pietro di Oddone Signorili vende a Giovanni Margani il castrum Montis de Brectis); A. Paravicini Bagliani, I testamenti dei cardinali del Duecento, pp. 200-202, a. 1279 (i figli di Angelo de Manganella -non è però certo siano cittadini romani- possiedono due once e mezzo di Castel di Leva; il dominus Lorenzo dei Gandolfi possiede due terzi di Rignano Flaminio ed ha in pegno da Giacomo Savelli Castel Fajola); ASR, Pergamene, cass. 59, nn. 20-21, a. 1283 (i figli di Cinzio di Romano dei Papareschi vendono all'ospedale di S. Spirito in Sassia la metà del castrum Torase e dieci vassalli con relativi feuda del vicino castello di Torricella di Gallese; altro atto relativo a possessi della famiglia in questi castra nella cass. 60, n. 53, a. 1303); Annales camaldulenses ordinis Sancti Benedicti, a c. di G. B. Mittarelli e A. Costadoni, Venetiis 1755-1773, V, coll. 245-246 e 263-265, a. 1279 e 1284 (Pietro Scotti possiede, parte in locazione e parte a titolo allodiale, il castrum Petre Pertuse e una frazione di quello di S. Vito); Regesta chartarum. Regesto delle pergamene dell'archivio Caetani, a c. di G. Caetani, Perugia-San Casciano Val di Pesa 1922-1932, I, pp. 54-55, a. 1284 (i Tedallini possiedono piccola parte del castello sabino di Poggio Sommavilla); BAV, Archivio di S. Maria in Via Lata, cass. 303, n. 10, a. 1287 (il dominus Gentilis Martini de Montibus acquista la metà del castrum Sancti Honesti); ASR, Pergamene, cass. 59, n. 32, a. 1290 (Stefano Paparoni acquista un sedicesimo di Bracciano); Regesta chartarum cit., I, pp. 70-71, a. 1293 (in patti fra i Colonna e i Prefetti, è previsto che gli Stinci vendano il castrum di Ponte Nepesino e acquistino quello di Trevignano; e nel 1307, in effetti, Trevignano risulta il solo possesso castrense della famiglia -ASC, AO, II.A.IV, n. 48); BAV, Ar chivio capitolare di S. Pietro in Vaticano , caps. 42, fasc. 166, a. 1294 (il nobile Egidio domini Pauli Roffrede vende alla basilica vaticana il castellarium chiamato castrum de Tartariis); Theiner, Codex diplomaticus cit., I, n. 496, e Les registres de Boniface VIII (1294-1303), a c. di G. Digard e altri, Paris 1884-1939, n. 821, a. 1295 (i filgi di Giovanni Arlotti proprietari del castrum Nociliani); ibidem, n. 2248, a. 1297 (i cives romani Giovanni e Angeluzzo, fratelli, sono fra i "domini castri Montis Casuli"); ibidem, n. 2517, a. 1298 (Paolo di Sant'Alberto sono probabilmente signori del castello sabino di Nerola); Regesta chartarum cit., I, p. 229, a. 1302 (i fratelli romani "Petrus fera et Tedaldus domini Octaviani" vendono al cardinale Napoleone Orsini 2,6 once di Poggio Sommavilla); ASR, Pergamene, cass. 60, n. 59, a. 1313 (la vedova di un Tedallini vende picola parte del castrum Scarani); ASC, AO, II.A.III, n. 20, a. 1315 (il defunto Omodeo dei Tosetti era stato proprietario di parte del castello di S. Onesto). Per i possessi di Curtabraca e Iaquinti, infine, rimando a Vendittelli, La famiglia Curtabraca... cit., e a Pellegrini, Riccardo di Pietro 'Iaquinti' cit.

72 ?Vendittelli, La famiglia Curtabraca cit., pp. 252 ss.

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secolo, l'esercizio di giurisdizioni connota in effetti a fondo un ben individuato settore soltanto dell'aristocrazia romana. Poco più di una generazione prima, alla metà del Duecento, la situazione sembrerebbe a prima vista considerevolmente diversa. I castra soggetti alle nostre famiglie forse nemmeno raggiungono un terzo di quelli di fine secolo; mancano poi quasi del tutto possessi non laziali. L'espansione patrimoniale di Annibaldi, Colonna ed Orsini, che in breve li porterà ad insignorirsi di una ventina e più di castelli ognuno, è ancora in una fase iniziale, quella di Savelli e Boccamazza è di là da venire. Tranne i Conti, i Normanni e i Romani-Bonaventura, anche tutti gli altri casati possiedono, rispetto alla fine del Duecento, un numero decisamente inferiore di castelli. Questo cospicuo scarto quantitativo, che pure non va in nessun modo sottovalutato, rischia però di obliterare importanti elementi di continuità. E' diverso, infatti, il contesto complessivo nel quale inserire i dati numerici, poichè per tutto il Duecento, e in modo particolare nella seconda metà, l'aristocrazia romana è andata continuamente ampliando i propri possessi. Certo, alla metà del XIII secolo i rapporti fra la consistenza dei vari patrimoni signorili non sono gli stessi che un cinquantennio più tardi. Così come diverso, per i componenti e forse anche per il loro numero totale, appare l'elenco dei casati romani che esercitano giurisdizioni: vi compaiono ancora Raynerii, Paparoni ed altre famiglie dell'aristocrazia senatoria del XII secolo e degli inizi del successivo. Ma il numero complessivo dei castra in mano all'aristocrazia romana, per quanto difficilmente valutabile sulla base delle fonti superstiti, appare nel suo insieme considerevolmente più basso che non mezzo secolo dopo: tanto che nella grande maggioranza dei casi già in quest'epoca i patrimoni dei lignaggi preminenti, sebbene siano in termini assoluti molto più modesti, distaccano egualmente di molte lunghezze tutti gli altri; né la loro incidenza sul totale sembra poi, nel complesso, molto inferiore. Anche se ulteriori ricerche potranno forse mostrare che alcuni antichi casati, come ad esempio quello dei Pierleoni, ancora possiedono un patrimonio accostabile a quello delle grandi famiglie destinate poi ad un'ulteriore espansione, nel suo insieme la situazione non appare insomma troppo diversa da quella di fine secolo: lo lasciava del resto già largamente intuire la cronotassi dei senatori, dove fin da metà Duecento incontriamo solo e soltanto Orsini, Colonna, Conti e gli altri consimili lignaggi.Se ci spostiamo ancora più indietro nel tempo, il quadro muta e nel contempo si fa più confuso. Non ne oscura i tratti soltanto l'insufficienza delle fonti superstiti, che preclude ogni esatta valutazione delle consistenze patrimoniali; è la stessa scena sociale -se non andiamo errati- a strutturarsi più fluidamente. Alcuni dei nostri lignaggi (i Colonna, i Conti, probabilmente anche i Normanni e i Romani-Bonaventura) possiedono già patrimoni di un qualche rilievo. Tuttavia le altre famiglie preminenti dopo la metà del secolo dimostrano ancora un modestissimo radicamento fondiario nelle campagne, ed accanto o al di sopra di esse si collocano, nella titolarità di castelli, sia stirpi antiche e in fase di decadenza, sia famiglie di origine recente alla ricerca di un'affermazione patrimoniale poi fallita. In un simile contesto, all'interno del mondo aristocratico non sembra esservi spazio per stabili fossati sociali. Ancora una volta, appare pos-sibile individuare una lampante corrispondenza fra l'assetto della proprietà signorile e le liste dei senatori, in questo primo periodo caratterizzate, come s'è detto, da una grande varietà di famiglie dalle origini più diverse.

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Per quanto sommario, l'esame di una serie di indicatori del potere politico e del rilievo sociale sembra dunque mostrare che la rappresentazione bipartita dell'aristocrazia romana proposta dagli statuti capitolini

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e da altre fonti scaturisca per via diretta dal concreto dispiegarsi dei rapporti sociali, così come essi sono andati configurandosi a partire almeno dalla metà del XIII secolo. Anche se in una fase del tutto provvisoria e preliminare della ricerca, intravediamo alcuni tratti di quella schiacciante supremazia presupposta dalla raffigurazione su due livelli delle strutture aristocratiche: tutti i massimi magistrati del comune, tutti i feudatari della corona angioina, i lignaggi titolari con un minimo di rilievo di castelli e giurisdizioni signorili, i personaggi e le famiglie additati come preminenti dai legislatori popolari, gli interlocutori privilegiati dei papi di Avignone, tutti costoro appartengono sempre e soltanto ad un ristrettisimo gruppo di famiglie.Possiamo quindi individuarne abbastanza agevolmente i componenti. Dal 1240 circa fino alla metà del secolo successivo cinque lignaggi prevalgono nettamente su tutte le altre famiglie della nobiltà: sono gli Orsini, i Colonna, gli Annibaldi, i Conti e i Savelli. Qualsiasi tipo di lista esaminiamo, con una concordanza davvero inusuale per le fonti medievali li troviamo immancabilmente al vertice. A partire dall'ultimo decennio del XIII secolo, ad essi possono poi con sicurezza venir aggiunti i Caetani, i quali, pur non avendo quasi mai ricoperto elevate cariche nell'amministrazione del comune capitolino e pur non figurando come nobiles de Urbe nelle lettere pontifice (vi compaiono però con frequenza in qualità di grandi signori laziali), hanno avuto un rilievo nella vita di Roma e del Lazio che è indiscutibilmente provato da altre fonti, comprese le rubriche degli statuti romani73. Il gruppo dei barones Urbis non si esaurisce tuttavia con queste famiglie. Ad esse vanno aggiunti alcuni casati che sono esplicitamente definiti di stirpe baronale dagli statuti e dalle fonti narrative, e che a riprova del ruolo di rilievo effettivamente svolto nella vita della città ricorrono, sebbene con frequenza inferiore ai principali lignaggi, tanto fra i massimi proprietari di castra quanto nelle liste dei senatori e dei destinatari delle lettere collettive dei papi di Avignone: sono gli Alberteschi-Normanni, i Romani-Bonaventura, i Sant'Eustachio, i Capocci e forse anche i Boccamazza. Vi sono poi i Frangipane, famiglia che nel XIV secolo ha ormai un rilievo del tutto secondario, e non figura perciò nelle liste di tale epoca. Come però attestano i cospicui possessi signorili duecenteschi e la presenza negli elenchi dei senatori e dei feudatari angioini, per ampia parte del XIII secolo questa antica stirpe conserva una buona quota della grande potenza raggiunta nel XII secolo e nei primi decenni del successivo. Restano infine gli Stefaneschi e i conti di Anguillara: non figurano, questo è vero, nell'elenco dei baroni romani compilato nel 1305, ma a giudicare dal numero delle magistrature ricoperte, delle lettere pontificie loro indirizzate, dei castelli posseduti e dei matrimoni contratti con gli altri lignaggi eminenti, fra essi e gli altri grandi casati non corrono differenze di rilievo74.Un'aderenza sistematica alle connotazioni sociali indicate dalle fonti come tipiche del mondo baronale ne limita i contorni a questa quindicina scarsa di casati. Sembra una conclusione sicura, per quanto almeno può esserlo, per quest'epoca, la ricostruzione nominativa di una compagine sociale. Tuttavia, quando per una nomina a senatore, quando per un matrimonio di rilievo o per il possesso di un bel castello, alcune 73 ?Per la formidabile espansione patrimoniale dei Caetani (alla morte di Bonifacio VIII hanno nel Lazio meridionale una ventina di castra e nel Regno possessi ancora maggiori), è ancora pienamente valida la bella analisi di G. Falco, Sulla formazione e costitu zione della signoria dei Caetani (1283-1303), in "Rivista storica italiana", 42 (1925), pp. 225-278 (poi anche in Idem, Albori d'Europa, Roma 1947, pp. 293-333). Nonostante l'abbondante documentazione disponibile, interamente edita, mancano invece soddisfacenti studi sulla storia della famiglia nel XIV secolo (si veda però G. Caetani, Domus Caietana, vol. I, San Casciano Val di Pesa 1927); numerose notizie sono comunque fornite da Falco, I Comuni della Campagna cit., e da Duprè Theseider, Roma dal comune del popolo cit. (in entrambi, v. sub indice).

74 ?Per le alleanze matrimonialie e le vicende patrimoniali dei due casati, debbo ancora rinviare a Carocci, mmfmf m mf m mmm m m mm cit.$.

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famiglie sembrano situarsi in una posizione ambigua, talvolta parzialmente accostabile a quella dei grandi lignaggi, più spesso radicalmente diversa. E' il caso di Boboni, Malabranca, Sant'Alberto, Tebaldi, Montenero, Iaquinti e, al massimo, di un paio di altre famiglie, il cui rilievo, del resto, è di norma circoscritto a una breve spanna cronologica e sembra derivare soprattutto dall'alleanza o da remoti legami di consanguineità con una delle stirpi preminenti75. Ad eccezione di questi pochi casi dubbi, si può comunque esser certi che tutti gli altri innumerevoli domini e nobiles viri romani ricordati dalle fonti appartengano a tutt'altro livello sociale. Non compaiono mai né nell'elenco dei senatori e vicari, né nelle liste dei barones Urbis presentate dagli statuti del 1305 e del 1363 o che sono desumibili da altre fonti; nei rarissimi casi, poi, in cui figurano fra i domini castri, risultano titolari di giurisdizioni signorili di sorprendente modestia.

5. L'autocoscienza della grande nobiltà

I barones Urbis non formano un gruppo omogeneo. Appaiono infatti disposti in una esigua schiera di lignaggi potentissimi (Orsini, Colonna, Conti, Savelli, Annibaldi, ai quali si aggiungono per i primi due terzi del Duecento i Frangipane e, a partire dalla fine del secolo, i Caetani) e in un drappello appena più consistente di casati, i quali, pur distanziandosi dal resto dell'aristocrazia urbana, si collocano senza dubbio al di sotto degli altri lignaggi baronali. Ulteriori ricerche potranno probabilmente accertare quanto questa oggettiva diversificazione abbia inciso, nelle diverse epoche, sulla coesione interna di una simile compagine, sul suo riconoscersi, al di là dei conflitti politici e interfamiliari, come una realtà socialmente omogenea. Prime notizie sulla politica matrimoniale di ampia parte dei lignaggi considerati sembrano attestare una pratica endogamica molto accentuata: dalla metà del Duecento alla metà del secolo successivo, delle due centinaia abbondanti di barones e baronisse per i quali le fonti indicano la famiglia del coniuge, più dei tre quarti risultano sposati con un altro esponente del proprio ristrettissimo ceto sociale76. Le eccezioni, inoltre, riguardano quasi soltanto matrimoni femminili: se le spose dei giovani sono immancabilmente, o quasi, di stirpe baronale, le donne della famiglia, nei casi peraltro rari in cui non siano destinate a "nobiles diviciarum et generis dignitate non dispari" 77, vengono utilizzate per estendere verso il basso, verso i livelli superiori della vasta

75 ?Si veda ad esempio il caso dei Boboni: questa famiglia, dalla quale nel tardo XII secolo hanno tratto origine gli Orsini, deve buona parte del prestigio che ancora conserva alla fine del Duecento e nel Trecento proprio all'appoggio di alcuni esponenti, ora potentissimi, dell'antico sottoramo; non stupisce quindi che i contemporanei non abbiano esitazioni nel descriverla come "infe rioris reputationis et gradus" rispetto agli altri lignaggi baronali. (Per la storia dei Boboni si veda, in mancanza di meglio, G. Marchetti Longhi, I Boveschi e gli Orsini, Roma 1960, e Duprè Theseider, Roma dal comune del popolo cit., sub indice; la citazione latina è tratta dalla relazione del 1332 inviata al pontefice dal legato pontificio a Roma, il quale, dopo aver riferito delle offese recate ai chierici da "nonnulli potentes ...et potissime Butius de Sabello", parla dei Boboni appunto come "quidam alii nobiles dicte Urbis, licet inferioris reputationis et gradus, tamen superbi ac stolidi plusquam ipsi" -R. Cessi, Roma e il Patrimonio di S. Pietro in Tuscia dopo la prima spedizione del Bavaro, in "Arch. Soc. romana", 37 [1914], pp. 57-85, a p. 81).

76 ?Del quarto restante, inoltre, la maggioranza risulta sposata con membri di lignaggi illustri non romani (Prefetti, Ceccano, Aldo -brandeschi, Este, Monferrato e varie famiglie della nobiltà meridionale): fra i baroni ed gli altri esponenti dell'aristocrazia romana, le alleanze matrimoniali testimoniate dalle fonti sono dunque relativamente rare. (I dati esposti, del tutto parziali e provvisori, sono desunti dalle tavole genealogiche pubblicate in Carocci, mmmm mmmm mmmm mmm cit.$).

77 ?E' con questa espressione che il senatore Giovanni Colonna designa l'ambito sociale in cui, poco dopo il 1270, aveva cercato un marito per la sorella Margherita (Oliger, B. Margherita Colonna. Le due vite cit., p. 114).

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schiera di nobiles viri di Roma e delle campagne, la rete delle alleanze78. Quando poi, sulla base di numerosi episodi della storia romana, alla diffusa endogamia baronale aggiungiamo la capacità di costituire, in casi estremi, un unico fronte d'azione politica (in genere anche assieme a parte dei milites e dei cavallarocti) contro le forze popolari, siamo indotti a pensare che la compagine baronale avesse chiara coscienza non solo dell'oggettiva comunanza dei connotati sociali e degli interessi politici ed economici di tutti i lignaggi che la componevano, ma anche che tendesse a porsi come un vero e proprio ceto, pur se mai formalmente definito e chiuso.Ad un simile esito, molto dovette del resto contribuire il debole dinamismo evolutivo che caratterizzò questa classe egemonica. Se infatti durante il secolo successivo al quarto-quinto decennio del Duecento (allorché per la prima volta è dato d'enucleare nella società romana questo gruppo di famiglie preminenti) alcuni casati affermarono con vigore la propria potenza, altri decaddero, altri ancora giunsero dal basso ad ampliare la modesta schiera dei grandi, tuttavia per tutto questo lungo periodo l'indiscussa supremazia dei primi cinque medesimi lignaggi non venne mai meno, mentre i ricambi e i mutamenti che coinvolsero la restante sezione del mondo baronale furono estremamente contenuti. Questo senso di immobilismo si fa poi ancor più forte qualora si guardi al mondo baronale non dal suo interno, ma dal punto di vista della complessiva storia politica e sociale della città: e si notino quindi la sorprendente continuità di potere di queste famiglie che si avvicendano alla guida del comune come per diritto ereditario e l'incapacità dell'organizzazione comunale e del popolo di indebolire le fondamenta della loro schiacciante supremazia. Pur senza porsi "come la storia di una classe, peggio ancora di un 'ceto' o 'stato', di plurisecolare durata", la storia del baronato romano si discosta dunque, per la pochezza degli svolgimenti politici e sociali, dalle coeve vicende di altre aristocrazie cittadine, articolate in una sequenza serrata di fasi evolutive diverse per l'assisa economica dei lignaggi preminenti, per il carattere e l'ampiezza del loro radicamento nel contado, per il loro ruolo nella gestione della cosa pubblica e nella vita politica, per i rapporti interni al gruppo nobiliare, per la sua capacità di autodefinirsi come ceto e per tanti altri aspetti ancora79.Oltre alle politiche matrimoniali e alla capacità di organizzarsi in compatti schieramenti antipopolari, altri elementi appaiono indicativi di una precisa coscienza di sé del gruppo baronale, sono cioè tali da far pensare che la rappresentazione bipartita dell'aristocrazia romana fosse anche -e forse soprattutto- una autorappresentazione. L'affermazione della beata Margherita (la "magnificentia" della propria stirpe è constatabile dal fatto che tutte le sue parenti "barones et comites sibi previderant") è al riguardo tanto più interessante, in quanto proviene dall'interno stesso del mondo baronale (tanto Margherita, quanto il suo biografo -il fratello Giovanni, più volte senatore- sono dei Colonna), mostrando come i baroni si

78 ?L'"ipergamia" maschile -vale a dire, come appunto in questi casi, il matrimonio della donna con un uomo di condizione sociale ed economica inferiore- è una nota caratteristica nel mercato matrimoniale medievale. In altre città italiane e per un diverso contesto sociale, essa è stata attribuita principalmente a fattori demografici (la forte differenza di età fra gli sposi avrebbe ridotto considerevolmente il numero degli uomini fra i quali le ragazze, spose in genere molto giovani, potevano trovare marito -cfr. D. Herlihy e C. Klapisch Zuber, Les Toscans et leurs famil les. Une étude du catasto florentin de 1427 , Paris 1978, pp. 414 e 417-419). Sembra però ovvio tenere conto anche del sistema dotale (caratterizzato dal continuo tentativo di limitare l'ammontare della dote, che con ogni probabilità poteva essere minore se lo sposo era di un livello sociale meno elevato) e, per le fami glie aristocratiche, della necessità di costituire una vasta rete di alleanze matrimoniali; per la grande aristocrazia romana, in fine, si deve richiamare anche un altro fattore di squilibrio del mercato matrimoniale, cioè la sproporzione fra la professione ec clesiastica -e il conseguente celibato- della grande maggioranza dei cadetti e il ridotto numero delle monacazioni femminili (Ca rocci, I lignaggi baronali romani cit., pp. 197-209).

79 ?La citazione nel testo è da Cammarosano, Tradizione documentaria cit., p. 78.

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autoidentificassero in quanto tali ed andassero orgogliosi del proprio prestigio80. Simile la portata del testamento del cardinale Annibaldo di Ceccano, allorché, nello stabilire il regolamento della domus scola - rium che ha fondato, ordina l'esenzione dall'ufficio di preposito dei giovani studenti di stirpe baronale (nobiles de genere baro num ): una disposizione dettata tanto dal riconoscimento di un'oggettiva superiorità sociale, di una "nobilitas de genere baronum" alla quale non potevano venir negati determinati privilegi, quanto dal desiderio di un esponente di tale gruppo di vedere riconosciuta anche nelle norme che regolavano la vita dell'istituzione da lui fondata la superiorità del ceto al quale apparteneva81.A queste testimonianze possiamo poi affiancare le innumerevoli dimostrazioni dell'orgoglio con il quale i baroni guardavano all'antichità e alla nobilitas delle proprie stirpi. "Utrisque parentis antique nobilitatis conspicuus", "ex nobili romanorum progenie", "ex illustri prosapia", "nobilium speculum iuvenum", "de magno sanguine", "magnus prosapia clarus", "nobile de sangue natus": nelle epigrafi sepolcrali come nelle opere dei chierici di famiglia, queste e simili espressioni ricorrono con grande frequenza, disegnando un paradigma culturale in cui in primo luogo sangue e antichità di stirpe definiscono quella che è, per dirla con il cardinale da Ceccano, la "nobilitas de genere baronum"82. Intorno alla nobiltà delle rispettive domus possono del resto sorgere litigi accaniti e dispute interminabili, che si protraggono, con la partecipazione attenta tanto degli interessati quanto degli altri casati baronali, per decenni e decenni, con tutto un seguito di tensioni interfamiliari e ricerche erudite. E' questo il caso, ad esempio, della lite scoppiata fra Sant'Eustachio e Venturini (cioè i Romani-Bonaventura) "super magis et minus antiquam nobilitatem unius vel alterius partis"83. Sorta in epoca e per motivi imprecisati, la questione su quale delle due famiglie "alteram possit repetere et dicere minus vel magis nobilem" viene una prima volta sottoposta a pubblico giudizio durante il papato di Niccolò III. Il camerario del pontefice, convinto forse dalle ricerche erudite allora intraprese dal "sagacissimus" Mattia di Sant'Eustachio (un laico -si noti- capo in quegli anni della famiglia, il quale avrebbe fra l'altro raccolto una serie di più o meno autentici, ma immancabilmente "vetustissimi", placiti imperiali e testamenti), si pronuncia in favore dei Sant'Eustachio. Dopo qualche anno, i Venturini si appellano al parere di un cardinale, Giovanni Boccamazza, appartenente al loro stesso livello sociale: ma solo per vedere ulteriormente confermata la condanna al proprio stato di inferiorità nobiliare84.

80 ?Cfr. sopra, nota 41. Sulla figura del senatore Giovanni Colonna, il fratello di Margherita che intorno al 1282-83 ne scrisse la biografia, v. D. Waley, Colonna Giovanni, in DBI, vol. 27, Roma 1982, pp. 331-333, e Oliger, B. Margherita Colonna. Le due vite cit., pp. 18-21.

81 ?Cfr. sopra, nota 42.

82 ?Le citazioni nel testo sono rispettivamente da: R. Morghen, Il cardinale Iacopo Gaetano Stefaneschi e l'edizione del suo 'Opus metricum', in "Bullettino dell'Istituto storico italiano e Archivio muratoriano", 46 (1931), pp. 1-39, a p. 32 (note autobiografiche del cardinale Stefaneschi); Oliger, B. Margherita Colonna. Le due vite cit., pp. 111 e 192; V. Forcella, Iscrizioni delle chiese e d'altri edifici di Roma dal secolo XI ai giorni nostri, Roma 1869-1884, vol. XI, p. 12; vol. VIII, p. 13; vol. XI, p. 13; vol. VI, p. 323.

83 ?Le diverse fasi della lite sono testimoniate da due lunghi atti notarili del 1344 editi in I. Schuster, Un protocollo di notar Pietro di Gregorio nell'archivio di Farfa, in "Arch. Soc. romana", 35 (1912), pp. 541-582, a pp. 556-557 e 579-582; grazie alla cortesia del dott. Tersilio Leggio, che ringrazio, ho potuto controllare l'edizione sull'originale (Fara Sabina, Archivio di S. Maria di Farfa, AG 313, cc.12r-13r e 30r-31r).

84 ?Si veda ibidem, c. 12v (p. 557 dell'ed. cit.), il ricordo "cuiusdam laudi et sententie vel arbitramenti facti a venerabili viro domino Angelo de Vigosis, camerario domini Nicolai pape tertii felicis recordationis, et inde a reverendo patre domino Iohanne de Bucchamatiis cardinali episcopo thusculano [dicembre 1286-agosto 1309] ob virtutem appellationis a prima sententia vel arbitramento facto a dicto domino Angelo de Vigosis"; oggetto della discordia è "an una pars de predictis nobilibus de Sancto Eusta chio et de

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Anche la seconda sentenza non pone fine a questa vera e propria disputa sulla nobiltà, che sembra del resto avere, nel mondo baronale, un'importanza ben concreta, sostanziata da pubbliche affermazioni di superiorità, da diritti di precedenza, fors'anche da una diversa collocazione nelle cerimonie pubbliche. Si giunge così al maggio del 1344, allorché le parti, davanti ad un notaio e ad esponenti della nobiltà baronale (Boccamazza, Capocci ed altri), rimettono la questione al giudizio di un nobile reatino, esperto forse in materia, e soprattutto di due dei massimi rappresentanti del baronato romano, Pandolfo Savelli e Napoleone Orsini. Costoro lavorano per mesi, valutando in primo luogo i diritti delle due famiglie su castelli, città, enti ecclesiastici, terre e case -ci si muove quindi dapprima nel concreto ambito delle consistenze patrimoniali e signorili. Il principale elemento di giudizio riguarda però il rilievo storico e l'antichità delle due stirpi. Gli arbitri, innanzitutto, scartano come non provata ed insostenibile la discendenza dalla gens Ottavia e dal princeps Alberico attribuita rispettivamente a Sant'Eustachio e Venturini da alcuni "scriptores"; già trent'anni prima, osservano, l'infondatezza di simili affermazioni è stata del resto dimostrata da uno scritto di Bertoldo Orsini, priore di S. Nicola di Bari e poi arcivescovo di Napoli85 (sono queste le prime, remote attestazioni di quella letteratura genealogico-antiquaria che conoscerà poi un così forte sviluppo nella Roma dell'umanesimo e del rinascimento)86. Consultati diplomi imperiali, testamenti, epigrafi, le raccolte documentarie di Gregorio da Catino, una "historia quasi comsumpta" (e oggi del tutta perduta) scritta intorno alla metà del Duecento dal vescovo di Forcone Berardo e dal chierico romano Ardicione87, condotto infine un complesso ragionamento (che collega i Sant'Eustachio nientemeno che a Berengario e all'imperatore Antemio) della cui linearità storica potremmo forse sorridere, ma che per l'epoca sembra comunque fornito di tutti gli indispensabili criteri di verosimiglianza, all'inizio di dicembre gli arbitri giungono infine alla sentenza. In Campidoglio, nel

Ventorinis alteram partem possit repetere et dicere minus vel magis nobilem, seu quibus, vel nobilibus de Sancto Eustachio vel nobilibus de Ventorinis, ... competat seu competere possit maior vel minor antique nobilitatis generis" (si veda i noltre c. 30r -p.579 dell'ed. citata). Le ricerche documentarie di Mattia di Sant'Eustachio sono ricordate poco oltre ("omnia que collegit sagacissimus quondam Mathias"; p. 580).

85 ?"Ita quoque scribxit reverendus dominus Bertuldus domini Ursi de filiis Ursi anno millesimo trecentesimo decimo quinto" (c. 30v -p. 580 dell'edizione).

86 ?Su tale produzione sono in corso studi di Roberto Bizzocchi, parzialmente anticipati nella relazione da egli svolta durante le "Giornate di studio" dedicate a L'Italia nel Rinascimento, presso l'Istituto di studi rinascimentali di Ferrara, 20-22 settembre 1990.

87 ?Gli arbitri dichiarono di avere ricercato notizie sulle due famiglie "super pluribus vetustissimis placitis quondam serenissimorum dominorum imperatorum Lodovici Pii, Caroli, Lotharii, Berengarii secundi regis et Federici primi imperatoris atque vetustissimo testamento quondam Albericii patritii romanorum, nobis exhibito per venerabilem virum dominum Dagobertum de Collesis de castro Aspre canonicum et yconicum ecclesie maioris sabinensis, prout etiam super vetustissima historia quasi comsumpta reverendi patris Berardi episcopi Furconensis et Ardicionis presbiteri romani et super omnibus que collegit quondam nobilissimus et sagacissimus Gregorius monachus pharphensis de castro Catinensi comitatus Sabinensis et que collegerunt plures alii scriptores, omnes inter se bene concordantes, ac super antiquioribus instrumentis et similibus, prout marmoribus cum sculptis litteris" (c. 30v, pp. 580-581 dell'ed.). Non si hanno altre notizie di questa hi storia scritta dal vescovo di Forcone Berardo e dal prete romano Ardicione, né v'è certezza sull'identità degli autori. I. Schuster identifica il vescovo con Berardo de Padula, un consangui neus di Alessandro IV che dal 1252 al dicembre 1256 fu presule di Forcone (e dopo di allora, soppressa la diocesi, dell'Aquila), e a suo dire Ardicione sarebbe un contemporaneo di Berardo con il quale nel 1256 avrebbe consacrato la chiesa di S. Vittoria di Trebula, in Sabina. La consacrazione della chiesa in questione risale tuttavia al 1156, e nell'epigrafe alla quale fa riferimento lo Schuster Ardicione non compare; prima di Berardo de Padula, inoltre, sul seggio episcopale di Forcone troviamo molto a lungo un altro Berardo, vescovo dal 1137 al 1181, al quale è più probabile vada attribuita la redazione della perduta historia (F. Ughelli, Italia Sacra, II ed., Venitiis 1717-1722, vol. I, coll. 377-381 e 1198-1201; vol. X, col. 106; Schuster, Un protocollo, p. 580, note 1 e 2).

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palazzo del senatore, essi dichiarono pubblicamente entrambi i casati "nobilissimi": però, almeno sulla base di quanto è stato loro possibile accertare (e che eventualmente si riservano in futuro di modificare), la nobiltà dei Sant'Eustachio, tuttora a loro dire imparentati con i conti di Cunio e, indirettamente, addirittura con gli Estensi, i Montefeltro ed altre grandi famiglie settentrionali, appare "magis, melius atque tutius certiusque probata"88. Parremmo al termine della vicenda; ed invece verso la fine del secolo la disputa è ancora accesa, e viene allora sottoposta, con esito immutato, al giudizio dell'abate di Farfa89: dopodiché nulla ne sappiamo, ma è probabile che finalmente essa sia svanita nel quattrocentesco decadere di en-trambi i lignaggi.Più elementi, attinenti sia alle oggettive diversificazioni sociali quanto alla coscienza nobiliare, sembrano dunque testimoniare un'ulteriore peculiarità della storia medievale romana. Anche in altre città i legislatori proposero definizioni ed elenchi nominativi delle famiglie preminenti. Ma in linea di massima queste definizioni e questi elenchi furono di natura ed origine eminentemente politiche, furono cioè volti a ritagliare all'interno della società comunale un gruppo di famiglie, spesso appunto elencate nominativamente, qualificato certo anche da uno stile di vita e da una supremazia sociale ed economica, ma definito in primo luogo dall'appartenenza ad una delle parti in lotta o comunque in contrasto (quella dei nobiles o dei magnati) e dal peso preponderante esercitato sulla vita politica. I magnati, in altri termini, in questi casi non si identificavano come tali, ma venivano definiti dall'esterno ai fini di una limitazione delle loro prerogative politiche90. A Roma, viceversa, una lunga e totale preminenza politica e sociale finì ben presto con l'enucleare, all'interno della stessa aristocrazia, un gruppo di famiglie eminenti che si autoidentificava come tale, formando un ceto definito non soltanto dall'esterno, ma anche -e forse soprattutto- dal suo interno.Un'adeguata conoscenza dei rapporti fra i baroni e le restanti componenti del mondo nobiliare romano potrebbe fornire importanti chiarimenti sulle strutture aristocratiche e sulla percezione che il resto del corpo urbano aveva di esse. In misura e con esiti radicalmente diversi a seconda dell'epoca, su tali rapporti influirono sia l'articolarsi dei lignaggi eminenti in una pluralità di linee di discendenza dissimili per ricchezza e potere politico, sia l'accostamento di molti nobiles viri allo stile di vita e ad alcuni connotati patrimoniali tipici dei baroni, sia il diffondersi dei valori cortesi e cavallereschi. In attesa dei risultati di accurate indagini avviate solo molto di recente, limitiamoci per il momento a rilevare come numerose famiglie dei livelli non eminenti dell'aristocrazia cittadina tendessero ad imitare alcuni tratti dei patrimoni baronali: come ad esempio la strutturazione delle proprietà immobiliari urbane in "complessi" di edifici coerenti difesi da murature e opere in legno e sovrastati dalla torre familiare, elemento al quale sembra

88 ?Un documento del 1390 attesta in effetti una qualche forma di parentela fra Sant'Eustachio e conti di Cunio, famiglie entrambe "eiusdem genus et stirpis" che in passato detenevano diritti "in comune et pro indiviso ... in rebus, bonis et feudis positis in dominio monasterii farfensis" (Archivio di S. Maria di Farfa, AG 313, c. 9, gentilmente fornitomi da Tersilio Leggio; sulle vicende laziali della famiglia romagnola dei conti di Cunio, v. T. Leggio, I conti di Cunio e la Sabina. Un problema storiografico, in Atti del XLI Convegno di studi romagnoli, in corso di stampa su "Studi romagnoli").

89 ?Si veda Schuster, Un protocollo cit., p. 545, nota 1.

90 ?Si veda quando affermato per i magnati senesi da Cammarosano, Tradizione documentaria cit., p. 68. Proprio alla caratterizza-zione dei magnati dall'esterno, da parte del populus desideroso di escluderli dagli uffici e di limitarne il peso preponderante nella vita politica, vanno a nostro avviso attribuiti sia quell'"affastellarsi" di varie definizioni, "per timore forse di lasciar sfuggire qualche prepotente", rilevato da Gina Fasoli (Ricerche sulla legislazione cit., in partic. pp. 241-243), sia le riserve avanzate da più parti circa la possibilità di individuare con sicurezza i gruppi sociali ai quali appartenevano i sottoposti alla legislazione antimagnatizia (v. ad es. E. Cristiani, Nobiltà e Popolo nel comune di Pisa dalle origini del po destariato alla signoria dei Donoratico , Napoli 1962, pp. 72-82).

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venisse riconosciuta piuttosto una funzione simbolica, di pubblica affermazione del prestigio dei proprietari, che non militare; o come anche l'esercizio di giurisdizioni signorili, forma di possesso dall'elevato valore simbolico che risulta non di rado conseguita attraverso fondazioni di minuscoli ed effimeri castra -dunque a livelli così minimali da limitarne la funzione quasi soltanto a quella, appunto, di status symbol91. Un'ulteriore prova dell'influsso esercitato dai baroni potrebbe poi essere cercata nella diffusione -che fin dalla seconda metà del Duecento percepiamo come notevolissima- del cavalierato di rito92. Questo tipo d'indagine, della quale più volte è stata sottolineata l'importanza, avrebbe anche per Roma un indubbio va-lore; non però, forse, quanto in altri contesti, poiché già sappiamo che tutt'altri erano, a Roma, gli elementi ritenuti distintivi di una cospicua preminenza sociale: la titolarità di diritti signorili di un qualche rilievo, l'elezione alle massime magistrature comunali, i rapporti privilegiati con i pontefici e il cardinalizio93. L'affermazione di poche dinastie strapotenti è insomma di una tale completezza94 da far dubitare che, anche solo al livello dei valori nobiliari, la militia abbia in qualche modo consentito una ricomposizione dell'aristocrazia. Ma non è questa, in fondo, una peculiarità romana. Proprio a partire dal secondo-terzo decennio del Duecento, e poi per un periodo di circa due generazioni, anche in molte altre regioni del nord e del centro Italia si verificò un importante processo di selezione interna alle aristocrazie, con l'esito di far emergere -

91 ?M. Vendittelli, Note sulla famiglia e sulla torre degli Amateschi in Roma nel secolo XIII, in "Arch. Soc. romana", 105 (1982), pp. 157-174; Idem, La famiglia Curtabraca. Contributo cit.; Coste, La famiglia 'de Ponte' cit.; É. Hubert, Espace urbain et habitat à Rome du Xe siècle à la fin du XIIIe siècle, Roma 1990, pp. 184-199.

92 ?In attesa della conclusione delle ricerche intraprese da Marco Vendittelli, limitiamoci a menzionare un unico ma significativo documento. E' una lettera con cui Onorio IV ordina a undici nobi les viri di restituire al monastero di S. Paolo fuori le mura alcuni terreni: ora di questi undici personaggi, dei quali soltanto quattro appartengono alla nobiltà baronale, uno è detto domicel lus (termine già di per sé rivelatore della forte diffusione della militia), mentre tutti gli altri sono milites (i quattro baroni, naturalmente, e poi Deodato di Cretone, Andrea de Maguliano, Giovanni di Pietro di Giovanni Cinthii, Tommaso Tedallini, Mactu zus de Bovisis e Andrea magistri Oddonis); Les registres d'Hono rius IV (1285-1287) , a c. di M. Prou, Paris 1886-1888, n. 312, a. 1286.

93 ?Rispetto ai tradizionali studi su "nobiltà e cavalleria", l'ambito cronologico della nostra analisi, relativamente tardo, limita d'altra parte in partenza il rilievo conferibile alla cavalleria di rito: nell'epoca considerata, il concetto di nobilitas ha ormai generale diffusione e la militia, che la crescita economica rende largamente accessibile, anche in molte altre città italiane appare già "meno atta di quanto un tempo non fosse a caratterizzare da sola una netta preminenza sociale" (cit. da G. Tabacco, Dinamiche sociali e assetti del potere, in Società e istituzioni dell'Italia comunale: l'esempio di Perugia (secoli XII-XIV), Perugia 1988, pp. 281-302, a. p. 290).Com'è noto, soprattutto la storiografia francese ha considerato i riti della cavalleria come il fattore centrale della "chiusura" della nobiltà e della sua definizione come istituzione formale (per un bilancio critico, v. G. Tabacco, Su nobiltà e ca valleria nel medioevo. Un ritorno a Marc Bloch?, in "Rivista storica italiana", 91 [1979], pp. 5-25, con un esame anche dell'importante corrente storiografica tedesca -la neue Lehre- sostenitrice invece di una nobiltà di sangue come caratteristica strutturale del mondo germanico, derivante dall'innata vocazione al dominio e all'esercizio del potere di antichi lignaggi aristocratici). Anche la storiografia italiana, pur rifiutando di fatto, almeno nelle analisi più attente, l'"idea di una nobiltà esistente come istituzione formale in sè chiaramente definita", ha più volte sottolineato gli indubbi legami individuabili fra le cerimonie cavalleresche e la formazione di un'idea più rigorosa di nobiltà (mi limito a rinviare a S. Gasparri, Note per uno studio della cavalleria in Italia, in "La cultura", 26 [1988], pp. 3-38, con ampi riferimenti alla bibliografia anteriore).

94 ?Efficace testimonianza della coscienza che anche i contemporanei avevano del rilievo e dell'eccezionalità di un simile processo è un noto passo del De regimine civitatis, nel quale Bartolo da Sassoferrato, dopo aver sostenuto la possibilità di distinguere, anche nell'Italia di metà Trecento, "sex modos regendi", afferma: "est et septimus modus regiminis, qui nunc est in civitate Roma na, pessimus. Ibi enim sunt multi tyranni per diversas regiones adeo fortes, quod unus contra alium non prevalet. Est enim regi men commune totius civitatis adeo debile, quod contra nullum ipsorum tyrannorum potest nec contra aliquem adherentem ipsis tyrannis, nisi quatenus ipsi patiuntur. Quod regimen Aristoteles non posuit, et merito: est enim res monstruosa" (ed. critica in D. Quaglioni, Politica e diritto nel Trecento italiano. Il "De tyranno" di Bartolo da Sassoferrato (1314-1357), Firenze 1983, p. 152).

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sia pure in modi e tempi diversi e con caratteristiche dissimili- ristrette élites nobiliari95. Portato a Roma (per la debolezza delle forze popolari e dell'organismo comunale, per la presenza dei pontefici e della curia96, per la prossimità e l'influenza del regno meridionale) fino alle sue estreme conseguenze, questo processo fu insomma conosciuto anche altrove. L'innegabile anomalia della situazione romana risulta poi ancor meno marcata se guardiamo non alle città dell'Umbria e della Toscana, ma ad alcune realtà urbane del nord. Salvo infatti poche eccezioni, e pur con grandi diversità locali, nelle città delle regioni più vicine a Roma la presenza ed il rilievo, nell'aristocrazia urbana, di grandi stirpi signorili, titolari di consistenti poteri giurisdizionali, sembrano indiscutibilmente inferiori (e risalgono comunque ad un'epoca più tarda) che non in numerose città dell'Italia padana, caratterizzate già nel XII secolo "dall'inserimento sistematico nel tessuto sociale urbano di forze signoril-feudali"97. Nel corso del Duecento, questa radicata e cospicua presenza di casati definiti in primo luogo da

95 ?L'osservazione, formulata da Paolo Cammarosano nel corso del Seminario su "La nobiltà in Italia dalla fine del XII secolo alla seconda metà del Trecento" svoltosi presso l'Università di Firenze il 30-31 maggio 1989, è stata dallo stesso sinteticamente ripresa in Idem, Italia medievale. Tradizione, struttura e geogra fia delle fonti scritte , in corso in stampa, cap. II.2.

96 ?Presenza che favorì i grandi casati non soltanto in via per così dire diretta, tramite cioè l'appoggio o comunque le opportunità offerte ai familiari di papi ed alti prelati, ma anche con l'impedire la completa affermazione di una famiglia sulle altre e la conseguente nascita di un regime signorile, fattore certo di drastica limitazione dei poteri e della libertà di manovra del "ceto baronale" nel suo complesso.

97 ?Mancando a tutt'oggi una visione sintentica ma articolata nel tempo e nello spazio delle aristocrazie italiane, per evitare il riferimento ad una miriade di studi locali (non sempre inoltre pienamente consapevoli del problema), mi limito a rimandare -per quel che riguarda la minor presenza di domini del contado nel tessuto sociale dei comuni toscani ed umbri del XII secolo e del primo Duecento- agli illuminanti studi su Siena (ma con aperture anche ad altre situazioni) di Paolo Cammarosano (citati sopra, note 16 e 27) e, per Perugia, a Società ed istituzioni dell'Ita lia comunale: l'esempio di Perugia (secoli XII-XIV) , Congresso storico internazionale, Perugia 6-9 novembre 1985, Perugia 1988, in partic. pp. 679-681, interventi di A. Bartoli Langeli e J.-C. Maire Vigueur alla relazione di G. Tabacco. Proprio nell'importante relazione di G. Tabacco al convegno perugino (Dinamiche so ciali ed assetti del potere , pp. 281-302) viene poi condotta un'analisi comparativa di molte città toscane ed umbre, evidenziando la tarda (e, aggiungiamo, tutto sommato limitata) "assimilazione all'ambiente cittadino dei nuclei signorili del territorio" (cit. a p. 284); fra le eccezioni, va in primo luogo segnalata Pisa (cfr. G. Rossetti, Storia familiare e struttura sociale e politica di Pisa nei secoli XI e XII, in Famiglia e parentela nell'Italia medievale, a c. di G. Duby e J. Le Goff, Bologna 1981 -ed. orig. Rome 1977-, pp. 89-108; Eadem, Ceti dirigenti e vita politica, in AA.VV., Pisa nei secoli XI e XII: formazione e caat teri di una classe di Governo , Pisa 1978, pp. XXV-XLI, in partic. pp. XXXI-XXXIV). Per la varia, ma nella sostanza diversa situazione di molte città dell'Italia padana, è ora possibile rimandare ai numerosi spunti forniti da due contributi di R. Bordone (Tema cittadino e "ritorno alla terra" nella storiografia comunale recente, in "Quaderni storici", 18 [1983], pp. 255-277; Idem, "Civitas nobi lis et antiqua". Per una storia delle origini del movimento comu nale in Piemonte , in AA. VV., Piemonte medievale, pp. 29-61, in partic. pp. 34-44; la cit. nel testo si trova a p. 41). Sempre per quel che concerne il rapporto fra stirpi signorili e società urbana, si può rilevare che anche per l'XI e il XII secolo vi sono notevoli elementi di somiglianza fra la situazione romana e quella di alcune città padane. Ci riferiamo sia al mas siccio inserimento nel tessuto sociale urbano di molte casate signorili, caratteristica da tempo nota della storia romana, sia all'uso di una terminologia per certi aspetti simile a quella lombarda: va notato, in particolare, l'uso del sostantivo capita nei per indicare la compagine dei grandi lignaggi aristocratici. Descrivendo le lotte politiche nella Roma del periodo anteriore al pontificato di Gregorio VII, nel suo Liber ad amicum Bonizone utilizza per esempio a più riprese, per designare i Tuscolani e le altre dinastie signorili romane, l'espressione urbis Romae ca - pitanei. In area romana, è questa la più antica attestazione del termine. Bonizone era di origini lombarde, e potrebbe aver ap plicato alla realtà romana la terminologia sociale in uso nella sua terra nativa. Va comunque rilevato che l'operazione doveva sembrargli legittima, e che in breve tempo il termine appare ampiamente utilizzato anche in fonti di origine romana per designare le famiglie, delle campagne o della città, caratterizzate in primo luogo dall'esercizio di giurisdizioni signorili. Senza pre tese di esaustività, ricorderemo: la continuazione del Liber pon tificalis dovuta al cardinale Bosone (pur se per il periodo anteriore a Gregorio VII, il solo per il quale fa uso del termine ca pitanei , Bosone si limita a riprendere l'opera di Bonizone: è comunque significativo che questo inglese da tempo radicatosi nella curia romana non abbia sentito la necessità di introdurre mutamenti terminolgici -come è avvenuto ad esempio per equites, che spesso Bosone ha trasformato in milites); il Chronicon Farfense di Gregorio da Catino, dunque un'opera di un autore tipicamente laziale; una lettera del 1130 dell'antipapa Anacleto II, di famiglia romana ed aristocratica (dove però l'espressione "capitanei et comites" sembra riferirsi a stirpi estranee alla città, a personaggi "qui extra sunt"); infine, un documento del 1188 emanato

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tradizioni di comando sul territorio in alcuni centri è probabile abbia determinato, nella fisionomia dei ceti nobiliari e nella percezione che ne avevano i contemporanei, una qualche forma di distinzione delle stirpi signorili dalle restanti componenti aristocratiche della società: con esiti, nella sostanza, per certi aspetti simili a quelli romani. Se infatti solo a Roma e nel suo territorio il potere delle dinastie signorili raggiunse l'impressionante solidità sopra tante volte ricordata, e se soltanto qui, di conseguenza, si ebbe una formale articolazione su due livelli della nobiltà, tuttavia indizi di una simile differenzazione, pur se mai istituzionalmente definita e mai così accentuata da tradursi in un'autocoscienza di ceto, ricorrono anche nelle fonti dell'Italia padana98. Qualora se ne riconduca l'anomalia entro più precisi limiti, il "caso" romano assume, per una valutazione storica delle aristocrazie italiane, un valore euristico che né una generica constatazione di peculiarità, né all'opposto un livellamento su altre realtà permetterebbero di evidenziare.

dalla stessa cancelleria capitolina. Quest'ultima, tardiva attestazione ha la massima importanza. Ricorre nella pace fra il comune romano e Clemente III, dove fra le concessioni del pontefice al senato figura il riconoscimento dei patti che il popolo romano è riuscito ad imporre ai capitanei attraverso la redazione di impegni scritti, la richiesta di giuramenti e fideiussioni e la cattura di prigionieri ed ostaggi ("de capitaneis sit salvum Urbi et populo romano quicquid ab eis conventum est et promissum est Rome per scriptum et iuramenta ac pleiarias et staiarias ac presones"). Del contenuto di questi patti nulla è detto, ma essi dovevano certamente limitare il po tere delle stirpi signorili sui propri dominii (viene infatti previsto che i diritti eminenti di proprietà della Chiesa sopra il principale possesso dei Colonna, Palestrina, non siano in alcun modo sminuiti da quanto promesso al comune dai capitanei) e comportare una qualche forma di subordinazione dei grandi lignaggi al comune (tanto che il pontefice richiede che nonostante i patti rimanga "salvum hominium capitaneorum quod debent nobis et Romane Ecclesie"). Si tratta quindi dell'attestazione, finora sfuggita agli studiosi, di embrionali ma precocissime politiche antisignorili e "antimagnatizie", destinate in seguito ad un rapido accantonamento per il convergere di molteplici fattori: primi fra tutti, il ritorno del comune sotto l'autorità papale e la solida egemonia che le grandi famiglie signorili iniziano allora ad esercitare sulla vita politica. Si introducono così elementi di radicale differenziazione della realtà romana dal "modello" padano.I testi ai quali si riferiscono questi rapidi cenni, che contiamo di sviluppare in altra sede, sono rispettivamente: Bo nithonis episcopi Sutrini Liber ad Amicum, in Biblioteca rerum germanicarum, ed. Ph. Jaffé, II, Berolini 1865, pp. 577-689, a pp. 625 e 641-644; Boso, Vitae Romanorum pontificum, in Le Liber Pontificalis cit, II, pp. 353-446, in partic. pp. 353 e 357-359 (per la dipendenza da Bonizone, si vedano le pp. XL-XLI dell'In troduction all'edizione citata); Il Chronicon Farfense di Grego rio di Catino , ed. U. Balzani, Roma 1903, II, pp. 219, 228-229 e 258-259 (sulla vita e le opere di Gregorio, v. da ultimo Toubert, Les structures cit., pp. 76-88); Migne, P.L., t. 179, coll. 706-707 (ep. XVIII di Anacleto II); Codice diplomatico cit, pp. 69-74, a. 1188 (citaz. a p. 73). Per il significato del termine ca pitanei nelle fonti dell'Italia padana lo studio più ampio è quello H. Keller, Adelsherrschaft und städtische Gesellschaft in Oberitalien (9.-12. Jahrhundert), Tübingen 1979, pp. 17-61, 127-147 e 197-250; sull'opera del Keller e sull'uso del termine capi taneus nelle fonti settentrionali, si vedano tuttavia anche i due articoli di R. Bordone citati in questa stessa nota.

98 ?Una situazione sotto questo aspetto forse in parte accostabile a quella romana sembra ad esempio essere quella padovana, secondo S. Collodo caratterizzata dal XII fino all'inizio del XIV secolo da "una mai spenta egemonia sul comune urbano del ceto signorile-magnatizio", costituito prevalentemente dai signori delle ville del contado, il quale avrebbe precocemente trovato un accordo con la comunancia populi paduani, un organismo politico in cui confluirono tanto populares quanto milites (S. Collodo, Il ceto dominante padovano, dal comune alla signoria (secoli XII-XIV), in Istituzioni, società e potere nella Marca trevigiana e veronese (secoli XIII-XIV). Sulle tracce di G.B. Verci, Atti del Convegno, Treviso 25-27 settembre 1986,a c. di G. Ortalli e M. Knapton, Ro ma 1988, pp. 25-39). Indicativo di una forte differenziazione interna all'aristocrazia è anche il limitato ambito di applicazione del termine nobiles, tanto che fino a "tutto il primo Duecento ... non gli esponenti di un generico ordine militare ( milites, milites pro comuni, milites pro podere) potevano dirsi per il momento nobili, ma solo coloro che in seno ad esso vantavano una collaudata tradizione di comando in ambiti più o meno vasti del territorio" (S. Bortolami, Fra "alte domus" e "populares homi nes": il comune di Padova e il suo sviluppo prima di Ezzelino, in Storia e cultura a Padova nell'età di Sant'Antonio, Convegno internazionale di studi, 1-4 ottobre 1981, Padova 1985, pp. 3-67 cit. a p. 62). Infine, si può notare come anche gli statuti padovani attestino, sia pure indirettamente, una netta distinzione fra i milites, in buona parte inclusi nella communancia e puniti con multe due volte superiori a quelle comminate ai pedites, e i magnati, esclusi da tale organismo politico (Statuti del Comune di Padova dal secolo XII all'anno 1285, a c. di A. Gloria, Padova 1872, in partic. pp. 142-145, nn. 443-449).

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