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Che cosa è il sorriso di Don Giovanni Monari È un raggio di luce che spunta dal fondo dell’anima umana, e sale a fiorir sulle gote, sugli occhi, sul labbro, sul volto. Poi lene svanisce e dilegua senza lasciar di sé traccia, come una stella che sorge, che brilla nel cielo e scompare.

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Che cosa è il sorrisodi Don Giovanni Monari

È un raggio di luce che spunta dal fondo dell’anima umana,e sale a fiorir sulle gote, sugli occhi, sul labbro, sul volto.

Poi lene svanisce e dilegua senza lasciar di sé traccia, come una stella che sorge,che brilla nel cielo e scompare.

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FANANOfra storia e poesia

rivista dell’Associazione Culturale

della Valle del Leo

“Ottonello Ottonelli”

n. 24

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Questa pubblicazione è stata realizzata grazie al contributo di:

FANANOfra storia e poesia

n. 24 - luglio 2014In copertina: Pastori fananesi in un paese della Maremma (Boccheggiano, Comune di Montieri))

Direttore Responsabile Gaetano Lodovisi

La rivista Fanano fra storia e poesia è stata registrata presso il Tribunale di Modena, in data 6 marzo 2013 con il n. 2131

Direttore di RedazioneRaimondo Rossi Ercolani

Comitato di RedazioneAndrea Ballocchi, Maurizio Foli, Giovanna Franchi, Gaetano Lodovisi, Raimondo Rossi Ercolani, Valerio Tagliani

Disegno di copertinaSimona Perfetti Pavignani

Hanno collaborato a questo numeroAlessandra BiagiGiovanni CapucciGoffredo CianfroccaCorrado FerrariGiovanna FranchiGaetano LodovisiAlberto OrlandiniGioacchino OrlandiniAlfonso PasqualiAlda Poli

Maurizio PoliFausto RenziStefania RoncroffiRaimondo Rossi ErcolaniFrancesco SeghedoniValerio TaglianiVanni TaglianiBruno TurchiMarco TurchiAdolfo Zavaroni

Stampa e grafica:Debatte Editore - Livornowww.debatte.ite-mail: [email protected]

ISBN 978-88-6297-178-2

TOSCHILEGNAMI

S.R.L.Comune di Fanano

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FANANO

n. 24

2014

fra storia e poesia

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INDICE

Posta in redazione ..........................................................................................................................................6

In ricordo di Almo ...................................................................................................................................... 18

Popolazione e famiglie di Serrazzone .................................................................................... 22

Uomini e pecore ............................................................................................................................................55da Serrazzone e da Fanano alla pianura romagnola e al delta del Po

Cappel Buso e dintorni ........................................................................................................................... 63

Qualcosa di Serrazzone .........................................................................................................................68

Fontana di Casa del Vento (poesia) ............................................................................................ 73

La vecchia chiesa e il parroco di Serrazzone .................................................................. 74

Ricordi da Serrazzone ............................................................................................................................. 77

Rime spontanee di un emigrante (poesie) ........................................................................... 82

Iniziative culturali dell'Estate 2014 ........................................................................................... 85

È tutta da riscrivere la storia degli Ottonelli, .................................................................. 87dei Tanari e dei Barozzi?

Segni sacri comuni fra il Belvedere e il Fananese ...................................................... 95

Movimenti migratori da Fanano ................................................................................................103verso la Maremma Toscana e Laziale

Antichi suoni da rare carte fananesi......................................................................................125

Le sei stampe antiche della sagrestia della chiesa di San Giuseppe ...............130

Le antiche incisioni del Frignano ..............................................................................................135Nuove scoperte e nuove interpretazioni

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Dalla Gazzetta di Modena: ...............................................................................................................144Salvarono famiglia ebrea. Gli Andreoni tra i Giusti

Lunedì di Pasqua ......................................................................................................................................147

I racconti del veterinario di Fanano .......................................................................................154

Quando mia nonna fumava ............................................................................................................170

Il buon pescatore di Fellicarolo ...................................................................................................173

Sera nella valle di Ospitale (poesia) ........................................................................................175

Quella Messa sullo Spigolino..........................................................................................................176

Scaffale Fananese.....................................................................................................................................179

Di là dal ponte (poesia) .......................................................................................................................186

Popolazione residente a Fanano ................................................................................................190

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POSTA IN REDAZIONEa cura di Raimondo Rossi Ercolani

[email protected]

Alla professoressa Sonia Cavicchioli, che attualmente è docente di storia dell’arte moderna all’Università di Bologna, avevamo chiesto poco tempo fa un parere “tecnico” riguardante il patrimonio storico-artistico fananese. Ricordiamo al lettore che la professoressa Cavicchioli è stata per diversi anni ispettrice della Soprintendenza di Modena e Reggio Emi-lia competente per il nostro territorio e che, in questo ruolo, si è sempre fortemente impegnata per la tutela e la valorizzazione del nostro patrimo-nio storico-artistico.

Il 20 luglio del 2006, su nostro invito, tenne qui a Fanano una confe-renza su “Ascanio Magnanini e Giovanni Gherardini: due magistri fana-nesi fra Cinque e Seicento”, che è stata pubblicata nel n.16 della nostra rivista (luglio 2007) e il cui contenuto, assieme ad ulteriori studi, è con-fluito in un importante saggio di recente pubblicazione.1 Il quesito posto alla professoressa riguardava proprio i Gherardini, che in quel periodo intagliarono e decorarono le ancone lignee probabilmente più belle del nostro Appennino. “È possibile attribuire a loro la realizzazione dell’anco-na che Ottonello Ottonelli volle per l’altare della chiesa di Santa Chiara (at-tualmente spostata sulla parete laterale sinistra), così come ad essi sono state attribuite le cinque ancone originarie della chiesa di San Giuseppe e almeno un paio di quella di San Silvestro?”.

Ecco la risposta, pervenutaci il 26/ 7/2013:

Ho riguardato le ancone che credo spettino a Gherardini (e ai Ghe-rardini), ossia al padre, e verosimilmente ai figli, i fratelli: continuo a pensare che abbiano una marcia in più, che non ritrovo in Santa Chiara. La grammatica è la stessa: edicole, timpani spezzati, colon-ne solcate di decori dorati, plinti. Ma due sono le differenze che io vedo: il ‘gruppo Gherardini’ mostra una consapevolezza nell’intaglio che non vedo dall’altra parte (esempio fra tutti: i capitelli), e presenta una qualità di proporzioni che, di nuovo, è assente dall’altra parte.

1 Il saggio è contenuto nel libro “Storie di confine: Appunti e ricerche su un territorio mon-tano (Frignano, secoli VIII-XXI)”. Si veda in proposito lo “Scaffale fananese” in questo numero della rivista.

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Da una parte un classicismo che sa prendere le misure, dall’altra rapporti proporzionali (vedi il rapporto altezza larghezza) un po’ sbi-lenchi. Lo stesso allungamento che vedo negli altari della chiesa di Olina, e forse anche ad Acquaria (ma questi dovrei riguardarmeli).

Il 27 luglio dell’anno scorso abbiamo avuto – come Associazione “Ottonello Otto-nelli” – l’ormai consueto e graditissimo in-contro annuale con gli amici del Rugletto dei Belvederiani (la loro “escursione nel fanane-se”). Alla mattina, visita alle bellezze storiche e artistiche del nostro paese: dalla Madonna del Ponte al Poggiolo (piazza Ottonelli), pas-sando per piazza Corsini, Villa Severi-Burchi, palazzo Lardi e le chiese di San Colombano, San Silvestro, San Giuseppe e Santa Chiara; e, dopo un pranzo al sacco consumato nel-la splendida cornice del “giardino dell’Ebe” (messo a disposizione dalla sempre genti-

Le ancone della chiesa di Santa Chiara (a sinistra) e dell’altare di San Giuseppe Calasanzio, nella chiesa di San Giuseppe Sposo di Maria (a destra)

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lissima nipote Franca Galassi), tutti a festeggiare il nostro grande Almo Pasquali in occasione della presentazione del suo ultimo libro, bellissimo e commovente: Ultime ore di Gondar italiana: memorie di guerra e pri-gionia.

È stata una giornata molto piacevole e intensa, nella quale comunque non ci sembrava di avere fatto nulla di speciale; ed è quindi con grande sorpresa che il giorno seguente è arrivato al nostro indirizzo di posta elettronica un poetico “Ringraziamento” che qui di seguito trascriviamo: benché indirizzato in particolare a due di noi, è in realtà rivolto a tutti i fananesi che hanno partecipato all’incontro.

A Giovanna e Raimondo di Fanano

Ci hanno insegnato ad amare Fanano, a gustare le sue innumerevoli bellezze.

Cultura e preparazione regalate senza risparmio. Siete generosi e ospitali, due belle persone per noi ormai inscindibili dal vostro Paese.

All’Osteria dell’Amicizia ci avete offerto Lambrusco spumeggiante e dolci

in un ombroso giardino incantato, dove ogni notte sotto le stelle

per certo io credo fanno rugletto elfi e fatine,

ognuno assiso sulla sua corolla,trono prezioso profumato.

Oh fortunata e generosa padrona di tanta bellezza, anche a te vada

il nostro sentito grazie, insieme ai cari e venerabili (per esperienza di vita)

Alfonso e Silvio, unici e acclamati canterini.

Con affetto, un caldo abbraccioStefania Casalini Felicori

Sempre alla fine del luglio 2013 il professor Francesco Barbieri, no-stro socio (fondatore) e autorevole collaboratore, ci ha segnalato, come negli anni scorsi, alcuni interessantissimi “ritrovamenti fananesi” da lui

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effettuati in quella grande fucina di cultura che è l’Accademia di Scienze Lettere e Arti di Modena (una delle più antiche d’Italia). In particolare, ci ha trasmesso un estratto del Bollettino della Società Medico-Chirurgica di Modena del 1963 dal titolo Il contributo di tre grandi modenesi (Berengario, Falloppia e Folli) all’otologia (cioè, allo studio dell’orec-chio e delle sue funzioni), redatto dai profes-sori M. Gioffrè e P. Di Pietro.

Ebbene, chi è questo “Folli”, vissuto nel XVII secolo? Le distorsioni dei cognomi era-no in quei tempi piuttosto frequenti, anche per il continuo passaggio dall’italiano al lati-no e viceversa: in questo caso, ad esempio, il “Folli” di cui si parla non è altro che il nostro Cecilio Foli, di cui abbiamo spesso parlato nella nostra rivista (ad esempio nel n. 13, pag. 103 e segg. e nel n.22, pag. 57 e segg.). Non potendo, ovviamente, riprodurre l’intero testo, riportiamo solo alcu-ne delle frasi più significative riguardanti il nostro famoso conterraneo:

Alla metà del secolo successivo un altro modenese apportava un contributo di notevole importanza all’anatomia dell’orecchio: nel 1645 veniva pubblicata ad opera di CECILIO FOLLI (1614 -1682) da Fanano una semplicissima tavola con sei figure e relative didascalie, sotto il titolo di “Nova auris internae delineatio”. L’o-peretta è mirabile per l’esattezza della descrizione iconografica dell’orecchio medio ed interno, per la chiarezza dell’esposizio-ne, per l’apporto di nuovi reperti [cioè nuove scoperte scientifi-che, N.d.R.], sì che si può affermare che la descrizione del Folli è completa e tuttora valida. … L’opera divenne ben presto rara e ricercata e lo stesso MORGAGNI non riuscì a procurarsela, pur avendola cercata per l’interesse che a suo giudizio presen-tava. … Con sei figure e poche parole di commento il Folli ha saputo darci una descrizione completa ed esatta dell’anatomia dell’orecchio e giustamente il PORTAL nella sua “Storia dell’a-natomia e della chirurgia” commentava che, se tutti gli Autori seguissero tale esempio, si avrebbero meno voluminose, ma non minori conoscenze. Giudizio sul quale non possiamo che concor-dare e che vorremmo applicare anche al tempo presente.

Il professor Barbieri ci ha anche trasmesso il testo di una “lettera inedita” (pubblicata solo nel 1851) nella quale il nostro Giulio Ottonelli parla di sé, delle sue controversie coi critici letterari del tempo e di vari

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argomenti di storia fananese. Probabilmente il professore potrà anche metterci a conoscenza del ricco epistolario intercorso fra il grande ma-tematico (e medico) modenese Paolo Ruffini (1765-1822) e i medici fana-nesi del tempo (a cominciare, immaginiamo, dai Pasquali). Se le nostre forze e l’interesse dei nostri lettori continueranno a sorreggerci, di tutto questo parleremo ampiamente nei prossimi numeri della presente rivista.

Da un altro socio fondatore, l’amico Alfonso Pasquali, riceviamo (di-cembre 2013) il seguente messaggio:

Una precisazione: nella mia nota del precedente numero della Rivi-sta in ricordo della Signora Albertina Falconi, ho scritto che il fratel-lo Carlo era rimasto schiacciato da un’auto che stava riparando in officina; alcuni fananesi mi hanno precisato invece che Carlo stava riparando una ruota di un camion in piazza Vittoria, davanti al nego-zio di Lancellotti e che il mezzo non frenato, si mosse, uccidendolo.Una curiosità: nel 1945 con altri due fananesi fummo investiti dal-lo scoppio di un ordigno bellico, rimanendo feriti gravemente: una

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scheggia, tra le altre, mi trapassò il polpaccio della gamba destra e una piccola parte deviò, fermandosi nel muscolo, quasi a fior di pelle; ebbene questo residuo, l’anno scorso, dopo la bellezza di 67 anni è voluto uscire, con l’aiuto della dottoressa Latini, semplice disinfezio-ne e cerottino! (il 25 prossimo è l’anniversario).Una foto direi “storica” da pubblicare: inaugurazione del rifugio degli Accompagnatori di Montagna a Serralta di Fellicarolo il giorno 24 settembre 1989 alla presenza del celebre alpinista ed esploratore, di recente scomparso, Walter Bonatti con Graziano Guerrini della Fo-restale, il presidente della Comunità Montana del Frignano Giorgio Gianaroli e Giuliano Passini, assessore comunale.

Il nostro socio e collaboratore architetto Giovanni Capucci, che tiene una rubrica fissa sul Resto del Carlino di Modena riguardante arte, archi-tettura, urbanistica e ambiente, ci ha trasmesso, per conoscenza, il testo di un suo articolo pubblicato il 21 gennaio 2014.

Ben volentieri lo riproduciamo sulla presente rivista e ci associamo all’amico Capucci nel richiedere agli enti di competenza e, in particolare, ai nuovi amministratori del Comune, che il problema che egli propone, fortemente sentito da tutti i fananesi, sia finalmente affrontato e risolto nel modo migliore.

Da tempo parliamo di rigenerazione urbana e riqualificazione, riferite alla città, ma tali discorsi riguardano pure la nostra montagna. Pen-siamo ai centri marginali e agli insediamenti tradizionali delle terre fananesi, quasi completamente in disuso, ma anche all’organismo stesso di Fanano. Pure questo importante paese dell’Appennino mo-denese paga il malessere, in ragione di antichi interventi, del suc-cessivo allentamento della cultura del territorio, di una sorta di lento declino. Lo si avverte attraversando lo spazio costruito, osservando finiture e dettagli degli edifici “ritoccati”, entrando all’interno di altri, di cui si intuiscono il valore architettonico originario e le insite arti-colazioni fra il loro dentro e il fuori, scoprendo purtuttavia luoghi o fabbricati chiusi. Di qui l’auspicio che simile organismo possa ritornare ad essere un piccolo gioiello urbano, funzionale e ancora di più comunitario. Oltre la piazza della centenaria fontana, a levante della Chiesa di San Silvestro, sorgono interessanti fabbricati, tra cui notevole la cinque-settecentesca Villa Monari/Burchi (con splendido giardino retrostan-

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te) e un palazzotto di tre piani, di forma quadra, tutto in pietra anche se intonacato e colorato in un rosso sbiadito. Pure questo edificio è legato al nome dei Monari, storica casata loca-le, nello specifico, alla figura del notaio Monari, scomparso decenni fa. Da tanto è abbandonato, finito, sembra, tra i beni immobiliari della Cassa Nazionale del Notariato, che forse non ne conosce le caratte-ristiche e lo stato attuale. Non sarebbe un gesto urbano eclatante se, nel nome della nota famiglia o comunque della stessa categoria notarile, tale immobile fosse a disposizione della comunità, recuperandolo a funzioni pub-bliche, diciamo, come biblioteca, museo d’arte o museo etnografico di un territorio tanto ricco di storia, di tradizioni, di apparati artistici e di artigianato? Sarebbe una occasione eccezionale per mettere in moto quella au-spicabile pratica della rigenerazione urbana e del riuso. Queste terre hanno una identità millenaria e meritano di entrare nel futuro, rinno-vandole nelle loro intrinseche potenzialità.

Da due nostri soci, i coniugi Cristina Salice e Franco Benfenati, ri-ceviamo e volentieri pubblichiamo il seguente Ricordo dell’amico Lando Seghi di cui anche noi abbiamo sempre apprezzato il carattere gioviale, buono, leale e generoso.

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Caro Lando, il 22 giugno 2014 saranno già dieci anni da quando te ne sei andato, lasciando un vuoto incolmabile nei nostri cuori.La nostra amicizia risaliva ai primi anni ottanta. Con la nostra bam-bina di sei-sette anni trascorrevamo le nostre ferie estive a Fanano nella casa dei miei genitori a San Francesco. Tu facevi parte del gruppo degli “Amici della montagna”, con punto di ritrovo presso la barberia di Remo Turchi in piazza Corsini, dove ora c’è l’edicola dei giornali. Nelle notti di plenilunio organizzavate delle gite notturne fino al lago Scaffaiolo, aperte a tutti. La cosa accese la nostra fantasia e decidemmo di parteciparvi. Fu così che imparam-mo a conoscerti e, insieme a te, tanti altri amici provenienti chi da Milano, chi da Modena, da Carpi, da Ravenna, da Bologna coi quali si è stretto un così forte legame di amicizia che dura tuttora.Poi fu la volta delle gite di giorno, dapprima sul nostro crinale dal Monte Cimone al Corno alle Scale, poi via via sull’Alpe Tre Potenze, all’Abetone, sul Giovo al lago Santo, sulle Apuane, ecc.Il gruppo era sempre numeroso: i bambini davanti (tanti allora!), poi noi genitori e per ultimo tu a chiudere la fila e a rincuorare i più af-faticati, dettando i tempi della marcia; né poteva mancare il simpa-

Gran Sasso, Giugno 1997

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ticissimo Barbone, il cane di Poffy che correva instancabile avanti e indietro percorrendo chissà quanti chilometri.Nel tuo inseparabile zaino rosso c’era sempre tutto quanto poteva servire in caso di necessità: guanti antivipera, fischietto da segnala-zioni, un cordino, una cannuccia, un pacchetto di biscotti e per finire l’immancabile bottiglietta da birra da ¾, riempita però di “Cabernet” al quale tu non avresti mai saputo rinunciare.Per la tua giovialità, la tua semplicità, il tuo saper dimostrare amicizia e affetto, per noi tutti eri diventato molto presto “BABBO LANDO”, anche per chi aveva più anni di te. Noi lo dicevamo con convinzione e tu lo accettavi sorridendo. A tutt’oggi quando parliamo di te parlia-mo di babbo Lando e non sai quanto ci manchi!Non amavi il mare ma una volta ti convincemmo a partecipare ad una gita organizzata che, partendo da Portofino, si sarebbe conclusa a Camogli dopo aver attraversato il promontorio. Attrezzati di tutto punto arrivammo in pullman a Portofino e ci imbarcammo su un pic-colo battello per arrivare a San Fruttuoso. Tutta la breve traversata la facesti abbracciato ad un salvagente, ricordi? Poi scendemmo sulla spiaggetta popolata di giovani e ragazze in bikini mentre noi indos-savamo zaini e scarponi per la scalata al promontorio per arrivare a Camogli via terra dove ci attendeva il pullman. Ci guardavano tutti come fossimo dei marziani!Ormai il ghiaccio era rotto e l’anno successivo decidemmo di fare tu, tua moglie Loredana e noi, una vacanza al mare. La meta prescelta fu Alba Adriatica, ma nel cofano della macchina, oltre ai costumi, bocce e retini, c’erano gli immancabili zaini e gli scarponi da mon-tagna! Sì, perchè la nostra vera meta era il Gran Sasso! Così, una bella mattina partimmo all’alba e raggiungemmo i Prati di Tivo.Sorpresa! Le funivie erano chiuse nella stagione estiva. Che si fa? Ovvio: si parte! Fu una scalata bellissima anche se lunga e faticosa. Ricordi come incitavi Cristina? “Dai, mammulella. Vedi quel puntino lassù fra le roc-ce? È il rifugio, forza che ce la faremo!” E ce l’abbiamo fatta! In vetta, nei pressi del rifugio, attraversammo con mille attenzioni un piccolo nevaio e ci affacciammo sull’altro versante: che spettacolo! Sembrava che tutta l’Italia si stendesse sotto di noi. Non ti ringrazieremo mai ab-bastanza per averci fatto provare una simile emozione.Al rifugio ci aspettava una zuppa calda preparata solo per noi e mai zuppa fu più buona. Fu allora che ripetesti una della tue celebri frasi: ”Ed anche il Gran Sasso ce lo siamo messo sotto i piedi!”L’anno successivo tentammo di ripetere l’esperimento: campo base a Vasto e meta la Maiella.

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Il giorno stabilito per la gita si preannunciava bello ma sul Blockaus ci colse la nebbia e dovemmo rinunciare. Ti ricordi come canzonavi bonariamente Cristina, che era sempre la nostra musa ispiratrice? “Mammulella, che idee balzane ti vengono!” E via a escogitare qual-cosa di nuovo.Ci piace ricordare ancora le girate a funghi, fatte spesso con gli amici Maurizio e Francesco. In quanti posti ci hai portato con alterna fortuna! Quando la sorte ci era amica al ritorno mettevamo tutto in comune e poi tu dividevi in parti pressocchè uguali e ciascuno di noi ne prendeva una, non prima di aver immortalato il tutto con una bella foto.In autunno o in inverno noi quattro di Bologna ci trovavamo spesso per trascorrere qualche ora insieme: si finiva poi a casa tua dove Loredana ci preparava delle gustosissime focaccine.L’ultima vacanza estiva che trascorremmo insieme prima che il male cominciasse a minarti fu nell’isola di Krk (l’antica Veglia, attualmente in Croazia N.d.R.). Fedele al tuo stile, quando in battello ci recammo a Lusinj (l’antica Lussino N.d.R.) ti sedesti sul ponte con la camicia a scacchi, il fazzoletto al collo ed il cappello in testa. Con gli occhi socchiusi forse sonnecchiavi, ma ti tradiva un sorriso vagamente sarcastico.Ogni fine anno si riuniva tutta la compagnia degli amici, di solito in palazzo Lardi, per festeggiare insieme l’arrivo dell’anno nuovo; ma il capodanno 2004, e fu l’ultimo, lo trascorremmo solo noi quattro a Bo-logna. Nonostante le tue condizioni rimanesti sempre sereno, sorri-dente, affabile; nessun segno di ciò che certamente ti straziava dentro.Ed è così che continueremo a ricordarti, con tanto affetto e tanta nostal-gia, soprattutto quando ripercorreremo, se Dio lo vorrà, i sentieri delle nostre montagne che hai tanto amato e che ci hai insegnato ad amare.

La nostra socia Giannarosa Perfetti, vedova del caro amico ingegner Piergiorgio Monari, ha chiesto ospitalità alla nostra rivista per effettuare il seguente pubblico ringraziamento:

Questa estate, avendo scoperto la presenza di un nido di vespe nel muro esterno di casa (la villa Monari-Severi-Burchi, N.d.R.), cosa che mi preoccupava non poco, mi sono rivolta ai pompieri di Fanano, che sono intervenuti con sollecitudine. Vorrei sottolineare non solo la professionalità con cui hanno operato, ma anche la cortesia e la partecipazione al mio problema. Grazie ancora a tutti.

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Mentre stavamo andando in stampa abbiamo ricevuto il testo, pub-blicato qui di seguito, da parte di Josè Bonucci, il figlio dell’indimentica-ta “Peppina” Bonucci e nipote del celebre “Stoppa” (“al secolo” Antonio Bonucci), gestori per decenni dello storico “Caffè del Commercio” che, proprio in questi giorni, ha malinconicamente chiuso i battenti in modo definitivo. Che tristezza!

Ai redattori della rivista Fanano fra storia e poesiaUna bella frase letta nell’articolo di Stefano Pedroni – “Tam tam tam crodano le castagne” nel n. 22 della rivista – mi ha trasmesso l’im-pulso, il brivido e, testualmente, l’incipit indispensabile a dar corpo

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e ritmo a questa idea poetica che, devo dire, essiccava da tempo, da troppo tempo, sul “graticcio” interiore della coscienza; sebbene una simile intuizione non escludo di averla già più volte espressa, in maniera surrettizia, occulta dentro altre stanze e luoghi – smemora-ti, distanti, o, per amore di un primo irripetibile attimo, volutamente cancellati – della mia poesia; mai però affidandola, ne sono certo, alla cura preziosa di questi concretissimi simboli – metato castagne farina eccetera – che tanto interamente ci riguardano: noi orgogliosi, testardi, tenaci – paganamente devoti – montanari.

P.S. La frase in merito di Stefano Pedroni (che ovviamente ringrazio) è la seguente: «Il metato, scrigno di un fuoco lento, basso, quasi soffocato, eterna brace a trasformare il frutto».Per questa semplice ma non indifferente ragione, con gratitudine ve la dono; a voi, ostinati artefici di questa poliedrica, utile e, non di rado, sapiente rivista, fatene ciò che volete: l’uso o il non uso, poco importa. Una sola cosa vi chiedo: se decidete di pubblicare la poesia, dovete farla precedere da questa “premessa” e dal P.S, data la loro inscindibilità da lei.

A Gottardo e al mitico perduto Tralè,così vivo e assoluto nella mia memoria

Templi di montagna

Metato, custode di un fuoco denso ampio lento…sapientementetarpato e governato, che sprigioni via via potenti braci

che il frutto del castagno, per secoli, in dolce farinae Altro han trasmutato. Un epiteto antico, per omaggiarti:

“Il frutto di Dio” l’ha battezzato; poiché da te sorgonotali prelibatezze che, oltre a saziare i corpi, fanno gustare il Tutto

la fragranza del Tutto.

E così intere generazioni di bambini e di uominicon intenso calore, metato, ti ringraziano.

Fosti per loro assai più di una casa o un palazzoe anche più di una “meta” e di un “tato”. Fosti

– e sarai sempre per noi, benché rudere ormai – fostiil Tempio più sacro: ciò che sfama, oltre i muscoli,

l’Anima!

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«Con Almo Pasquali se ne è andata una parte di Fanano». Con queste parole ha iniziato la propria omelia don Michele Felice durante la messa funebre celebrata il 22 febbraio scorso per il carissimo amico Almo. Non avrebbe potuto scegliere un’espressione più efficace il nostro parroco che, benché presente a Fanano da appena un anno o poco più, si è già inserito in modo perfetto nel nostro paese: veramente con Almo se ne è andata una grande parte di Fanano, ma anche – direi – una gran parte di noi stessi, tanto forti erano con lui i nostri legami di affetto, di amicizia, di stima e di riconoscenza.

IN RICORDO DI ALMOdi Raimondo Rossi Ercolani

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I funerali, ai quali hanno par-tecipato tante, tantissime persone, si sono svolti nella nostra splen-dida chiesa di San Giuseppe: cioè proprio nella chiesa – così stretta-mente legata alla storia di Fana-no – che Almo amava più di ogni altra e per la quale si era sempre prodigato con straordinario im-pegno, arrivando perfino a salire personalmente sul tetto con l’ami-co Gottardo Turchi, per “togliere le gocce”. Ed è la stessa chiesa in cui il 27 luglio dell’anno scorso aveva presentato il suo ultimo libro, l’au-tobiografico Ultime ore di Gondar italiana: Memorie di guerra e di prigionia, riscuotendo in proposito uno straordinario successo perso-nale: alle parole con cui Almo vol-le pubblicamente ricordare i suoi compagni caduti in Africa durante la guerra seguì un applauso così caloroso che sembrava non doves-se finire mai.

Ma, in realtà, si può dire che anche gli altri libri da lui pubbli-cati in precedenza1 abbiano tutti un carattere autobiografico; con la diffe-renza che per essi si dovrebbe più correttamente parlare di autobiografia di Fanano: attraverso le parole di Almo – in perfetto italiano o in altret-tanto perfetto dialetto fananese – è il nostro paese, infatti, che racconta se

1 E pôver Pantalùn (Raccolta di norme e vocaboli dialettali corredati da storie, racconti, favole, detti della Terra di Fanano) - 1999

Voci del passato (Storie, Tradizioni e Costumi della Terra di Fanano raccontate attraverso testimonianze e documentazioni fotografiche - La banda di Fanano - La Confraternita del-la Beata Vergine del Rosario - La Triennale del Venerdì Santo - La tessitura - Le sculture della Scaffa) - 2001

Minghin de Faber (Personaggi, vicende, curiosità della terra del Cimone) - 2006

Vitòri ‘d Panchòt: dop e lamp e ven e trun (Storie e vicende Fananesi e dell’Appennino Modenese imperniate su personalità di particolare rilievo, corredate da osservazioni e commenti) - 2011

L’ultimo saluto ad Almo nella chiesa di San Giuseppe (Foto di Walter Bellisi)

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stesso, con la propria storia e le proprie tradizioni, tanto forte è la capaci-tà di Almo nell’immedesimarsi nelle cose di cui scrive.

In questo senso, per tutti noi che a vario titolo ci interessiamo di storia locale, per noi redattori della presente rivista, per noi soci dell’Associa-zione culturale della Valle del Leo “Ottonello Ottonelli” (di cui egli fu uno dei fondatori) Almo è stato il primo maestro, ma anche qualcosa di più e di diverso: una sorta di fratello maggiore che, con la propria passione e con la propria esperienza, ci ha indicato il fine da perseguire e il percorso migliore per raggiungerlo.

Mi sia consentito ricordare come la mia famiglia, che fino ad allora non aveva avuto alcun rapporto con Fanano e con i fananesi, ebbe l’occa-sione di conoscere Almo.

Si era negli anni ’50 del secolo scorso ed io probabilmente portavo an-cora i calzoni corti, come si usava allora a quell’età, ma ricordo bene che in quel tempo mio padre era alla ricerca di una coperta, tessuta a mano “come si faceva una volta”, con la quale sostituire quella, ormai comple-tamente disfatta, che aveva ereditato da una sua nonna. Per caso capitò alla Fiera di Modena e lì si imbatté nello stand di un certo Almo Pasquali che – come poi venne a sapere – aveva con molto coraggio “resuscitato”

I rappresentanti delle Confraternite aprono il corteo che accompagna Almo al cimitero di San Francesco (Foto di Walter Bellisi)

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un’antica tradizione fananese di tessitura con telai a mano e per la quale aveva ottenuto anche diversi riconoscimenti (ad esempio, una medaglia d’oro alla Mostra dell’Artigianato di Firenze). Inutile dire che l’acquisto della coperta andò subito a buon fine. Ma, soprattutto, in quell’occasione mio padre, che era persona schietta e di poche parole, acquistò una soli-dissima e generosa amicizia con Almo, basata su reciproca stima, che poi trasmise a me e, successivamente, a mia moglie e ai miei figli. Da allora poi mio padre divenne sempre più “fananese”: tanto che nel 1964 com-prò la nostra attuale casa di via Sabbatini e, prima di morire (nel 1978), espresse la volontà di essere sepolto nel cimitero di San Francesco, dove tuttora riposa assieme a mia madre e a mia sorella.

Quanto a me, i periodi sempre più lunghi che dal 1964 trascorsi a Fa-nano mi permisero non solo di conoscere ancora meglio la grande forza di carattere di Almo, la sua generosità e l’immenso amore per il proprio pae-se, ma anche di vederlo “in azione” nelle sue battaglie in difesa di Fanano e delle sue tradizioni, a cominciare da quelle combattute negli anni ’70 per salvare le Confraternite e il Venerdì Santo dagli attacchi di alcuni preti, pro-babilmente più “sessantottini” che “postconciliari”: battaglie sorrette sem-pre da un grande coraggio, da una lineare coerenza e da una determinazio-ne ferrea, in tutto degna erede di quella sana “cocciutaggine montanara” che aveva permesso, quattro secoli prima, al fananese Ottonello Ottonelli di realizzare quelle “impossibili imprese” che tutti conosciamo.

Ed è pensando soprattutto alle tante battaglie sostenute da Almo nella sua lunga e laboriosissima vita che la nostra associazione ha voluto affiggere nelle piazze di Fanano questo manifesto di partecipazione:

L’Associazione Culturale della Valle del Leo

“Ottonello Ottonelli” con infinita riconoscenza

porge l’ultimo affettuoso saluto al socio fondatore Almo PAsquAli che, con gli scritti

e con l’esempio di un’intera vita, ha tenacemente custodito,

difeso e trasmesso le tradizioni, la storia e la cultura

del nostro paese.

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POPOLAZIONE E FAMIgLIE

DI SERRAZZONEdi Gaetano Lodovisi

la storia

Serrazzone dista circa tre chilometri dal capoluogo ed è situata a 630 metri d’altitudine. Confina ad Est con Trentino, Trignano e con la provin-cia di Bologna, a Sud con Montese, con il territorio bolognese e toscano, ad Ovest con Sestola ed Ospitale e tramite il torrente Leo a Nord con Fa-nano.

Il Tiraboschi ricorda che era nominato negli atti di dedizione a Mode-na del 1197 e 1276 con il nome latino Serrazzonum o Serrazzona1.

1 G. Tiraboschi, Dizionario topografico-storico degli stati Estensi, Modena 1825.

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Antico fortilizio, verso la metà del XIII secolo, fu ceduto al comune di Modena, dai capitani del Frignano, i nobili Gualandelli; venne coinvolto nelle lotte fra le famiglie Corvoli-Montecuccoli, e Gualandelli; verso la fine del XIII secolo il castello di Serrazzone fu occupato dai bolognesi. Viene citato infatti nel lodo del 1299, con il quale Bonifacio VIII stabiliva che i bolognesi restituissero ai modenesi i loro castelli. Nel 1320 era un comune autonomo, poiché doveva pagare la tassa di 19 fumanti, ed era ancora autonomo quando passò ai Montecuccoli, famiglia alla quale rimase fino al 1424, anno in cui, Gasparo da Montecuccolo, ottenuto il consenso da Niccolò III, vendette

“per 600 fiorini d’oro la villa di Serrazzone co’ suoi boschi e i suoi pascoli alla comunità di Fanano”2.

Nel 1684 gli uomini di Serrazzone, vessati dagli aggravi del comune di Fanano, domandarono di poter costituire una comunità autonoma, ma l’istanza non fu accolta.

Serrazzone rimase legato a questo comune fino al 1779, anno in cui fu concesso in feudo al conte Domenico Spaggiari; poi tornò al comune di Fanano.

le chiese

Nel 1602, fu iniziata la costruzione della chiesa dedicata alla Natività di Maria Santissima.

“Fu situata la Chiesa suddetta vicino la Strada Pubblica in mezzo ai castagneti come si vede, alla quale è contigua la canonica”3.

La chiesa terminata nel 1603 fu eretta parrocchia nel 1621. Don Mar-tinelli scrisse che un tempo esistevano altre tre chiese:

“la chiesa di Monteluzzo, dedicata a s. Senesio conserva ancora qualche vestigia e che era in piedi nel 1558. Oltre a quella di

2 D. PanTanelli-V. sanTi, Itinerari, in L’Appennino Modenese, p. 1107, Rocca S. Casciano 1895 (ristampa del 1972).

3 a.P.Fanano, Appunti dattiloscritti di don Ricci su Serrazzone; a.P.serrazzone, Anno Domini 1725 - Libro Campione della Chiesa di S.Maria di Serrazzone fatto dal Rett. Don Antonio Martinelli da Fanano.

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Monteluzzo, un’altra chiesa era stata costruita nel recinto del Castello degli Azzoni, oggi detto “Castellaccia”, dedicato a S. Ni-cola da Tolentino, della quale esistevano resti ancora nel 1725. Una terza chiesa, pure molto antica, era stata eretta nel centro del paese, dedicata alla B.V., a S. Agostino e S. Nicola. Oggi quel luogo viene chiamato “Chiesa vecchia” e di essa sono ancora in piedi ruderi e pezzi di muro. In quella chiesa celebravano i sa-cerdoti inviati da Fanano”4.

Sul finire degli anni cinquanta la vecchia chiesa, dedicata alla Natività di Maria Santissima, prossima ad andare in rovina, fu demolita e rico-struita in stile moderno dall’arciprete don Paolo Foli, mentre il campanile rimase quello costruito agli inizi del Novecento.

4 Ibidem

La Castellaccia. Attualmente l’edificio è di proprietà dei coniugi Franco Silvestre e Loretta Biagini di Carpi, che ringraziamo vivamente per la disponibilità dimostrata

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i Rettori di serrazzone

dal 1621 al 1648 don Marco Antonio Rota di Fanano (1580c.-1648)dal 1648 al 1649 don Giovanni Albinelli di Serrazzone (1612-1698)dal 1650 al 1685 don Bartolomeo Tonini di Serrazzone (1628-1689)dal 1685 al 1713 don Domenico Dino Guanelli dal 1713 al 1720 don Pellegrino Torricelli di Serrazzone (1664-1737)dal 1721 al 1738 don Antonio Martinelli di Fanano (1686c.-1738)dal 1738 al 1788 don Carlo Tonini di Serrazzone (1714-1788c.)dal 1789 al 1795 don Lorenzo Nanni di Trentinodal 1795 al 1837 don Giovanni Battista Foli di Serrazzone (1756-1843)dal 1837 al 1877 don Pietro Bonucci di Serrazzone (1807–1877)dal 1878 al 1892 don Domenico Solignani di Serpianodal 1893 al 1914 don Bartolomeo Monzali di Rosoladal 1914 al 1942 don Leopoldo Sandri di Rocchetta Sandridal 1942 al 1946 sacerdote extradiocesi don Emilio Bazzani di Fanano (1901-1957)

Inaugurazione della chiesa

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dal 1947 al 1951 don Igino Baldini di Torre Maina (1922-2009)dal 1952 al 2002 don Paolo Foli di Fanano (1926-2002)5

dal 2002 ad oggi la parrocchia è stata retta dal parroco di Fanano.

Dal 1724 al 1781 vi sono 7 distinti Stati d’Anime6 con relativo riassunto; Fuochi o famiglie, abitanti e persone da Comunione con una media che può essere così sintetizzata: famiglie circa 80, abitanti battezzati 364. Nel 1738 lo storico Lodovico Ricci riportò 375 abitanti.Nel 1854 si contarono 95 famiglie e 535 persone7.Nel 1866 le famiglie erano 114 e 616 abitanti8.Nel 1874 le famiglie erano 133 e 706 persone9.Nel 1895 a parere degli storici Santi e Pantanelli la popolazione era di 679 persone.Nel 1897 le famiglie erano 151 con ben 926 abitanti10.Nel 1991 censimento del comune di Fanano: 104 abitanti.Nel 2002 censimento del comune di Fanano: 92 abitanti.

Dai registri dei battesimi della parrocchia di Serrazzone dall’anno 1621 e, fissando sempre come inizio questa data, ho trascritto i cognomi delle venti famiglie con un numero maggiore di nascite nei periodi che vanno sino al 1690 e al 1723.

(1621-1690) (1621-1723)

Muzzarelli 169 Muzzarelli 210 Lolli 64 Lolli 110 Bonucci 60 Bonucci 84 Tonini 46 Benassi 65 Benassi 40 Tonini 59 Bonfiglioli 31 Bonfiglioli 37

5 a.P.Fanano - a.P.serrazzone, i dati sono stati desunti da un’attenta ricerca dei registri par-rocchiali.

6 Gli Status Animarum o stati delle anime erano dei registri che, in seguito al Concilio di Trento (1545-1563), i parroci erano tenuti a compilare regolarmente: in esso erano regi-strati dati anagrafici e religiosi dei parrocchiani, pertanto possono essere considerati un censimento della popolazione.

7 a.P.serrazzone, Stato delle Anime dell’anno 1854.8 a.P.serrazzone, Stato delle Anime dell’anno 1866.9 a.P.serrazzone, Stato delle Anime dell’anno 1874.10 a.P. serrazzone, Stato delle Anime dell’anno 1897.

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Rossi 19 Rossi 23 Baroncini 18 Piccinotti 18 Bacci 18 Baroncini 18 Albinelli 16 Bacci 18 Munarini 15 Zampieri 18 Zampieri 14 Tassoni 17 Piccinotti 13 Munarini 16 Tassoni 11 Albinelli 16 Cattinari 11 Torricelli 13 Foli 10 Foli 12 Valentini 9 Cattinari 11 Curradi 9 Ventura 11 Berti 7 Pattarozzi 9 Torricelli 7 Valentini 9 Curradi 9

Dallo stato delle anime dell’anno 1724 abbiamo il seguente numero di famiglie:16 Muzzarelli10 Lolli8 Benassi7 Bonucci5 Tonini2 Munarini, Torricelli Rossi, Bonfilioli, Pigati1 Tassoni, Cassai, Poli, Manfredini, Corradini, Pattarozzi, Gherardini, Zampieri, Foli, Cattinari

origine delle famiglie

Gli AlBiNElli

Il cognome Albini e il suo derivato Albinelli muovono dal personale latino Albinus, un soprannome derivato da albus “bianco, chiaro di pelle, di capelli”11. Antica e notevole famiglia di Sestola, molti rappresentanti di quest’importante casata di Sestola esercitarono, sin dal ‘400, la nobile

11 e. De Felice, Dizionario dei cognomi italiani, Milano 1978, p.49.

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arte del notaio12. Si ramificarono nel Cinquecento nella vicina Lotta ove, sino al 1650, furono la famiglia con il maggior numero di nati13. Salustio Albinelli di Baldas-sarre, nato a Sestola14 nel 153215 venne ad abitare a Serrazzone verso la metà del XVI secolo. Da Salustio e Caterina, nascono i figli Alberto, Antonio, GiovanPaolo e Simone.

Alberto Albinelli del fu Salustio figura tra i rappre-sentanti degli uomini di Serrazzone che domandarono ed ottennero che la chiesa costruita nel 1603 e dedicata alla Natività fosse eretta in parrocchia nel 162116. Presenti a Serrazzone sino alla fine del Seicento, si ramifica-rono nella vicina Ospitale per mezzo di Antonio che sposò Caterina17 e si trasferì ad Ospitale dove dai figli Ludovico, Bartolomeo e Giovan Battista, continuerà il rigoglioso albero degli Albinelli d’Ospitale.

Gli AmiDEi

È la cognominizzazione del nome Amadèo e Amedèo, Amidèo, forma-tosi nell’alto Medio Evo e documentato dall’XI secolo nelle forme latiniz-zate Amadeus, Amedeus, Amideus. È quindi uno dei tanti nomi augurali e di devozione cristiana formati con Dio e Deo, cioè “ama Dio”18.

I fratelli Maria Alessandra, Gio.Battista e Bartolomeo nati a Fiumalbo da Giovanni Amidei e Maria Antonia Lenzini si stabilirono a Serrazzone ver-so il 181519. Giovanni Battista sposò Maria Antonia Poli e Bartolomeo sposò Maria Muzzarelli, entrambi abitarono a “Casa Roganti”. Dai discendenti, delle due coppie, proseguirà la genealogia degli Amidei di Serrazzone.

12 a. sorbelli, Regesti del notaio Giovanni Albinelli, Bologna 1903, p.16.13 G. loDoVisi, Popolazione e famiglie di Lotta, in Fanano fra storia e poesia, n.12 (2004), pp.

43-44.14 a.s.Mo., Archivi notarili provinciali, Pavullo, notaio Magnanino Magnanini di Fanano, atto

del 12 febbraio 1581: “Salustius f. q. Baldassaris Albinelli di Sextula di presenti habita-tori Serrazzoni…”.

15 A.P.F., I Libro dei morti, dal 1565 al 1687. Data di nascita desunta dall’atto di morte del 03/09/1592 in cui è annotata l’età di Salustio da Serrazzone, anni 60

16 a.P.serrazzone, Anno Domini 1725 - Libro Campione della Chiesa di S.Maria di Serrazzo-ne fatto dal Rett. Don Antonio Martinelli da Fanano.

17 A.P.F., I Libro dei matrimoni, 1567-1687. Atto di matrimonio, dell’ottobre del 1586, Anto-nio figlio di Salustio Albinelli da Sestola sposa Caterina f. di Domenico.

18 e. De Felice, Dizionario dei cognomi italiani, p.53, Vicenza 1978.19 a.P.serrazzone, Stato delle anime 1815.

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i BACCi

Cognome frequente soprattutto in Toscana dove appare già nel 720 a Lucca come Bacciulus, e poi comune nei documenti del Duecento; ha alla base l’ipocoristico, abbreviato, di vari nome personali come Bartolaccio, Brunaccio, Baccelliere etc20. Antica famiglia di Serrazzone, nel Cinquecen-to era già presente anche a Fanano. Nella pace, ratificata nella fortezza di Sestola il 9 febbraio 1531, tra i capi della fazione ghibellina – detta parte di dentro – figurano Rogante del fu Giovanni e Domenico detto “Bigio” Bacci. La casata Bacci aveva una sua sepoltura nella chiesa di Serrazzone: agli inizi del Settecento risultava estinta ogni linea e pertanto il Cardinale Tanara giudicò la sepoltura a favore della chiesa21.

i BENAssi

Il cognome Benassi deriva da una forma augurale che si dava quan-do nasceva un bimbo Be(ne)nasci22. La genealogia di questa famiglia ha origine da quel Benasio che abbiamo trovato tra gli uomini di Vaglio radu-natisi nel 1437 per stabilire i confini con Valdalbero23. I Benassi abitavano al Monticello di Vaglio dove ancora oggi sono presenti. Un ramo di questa famiglia proveniente da Vaglio di Lama Mocogno si trasferì poco oltre il 1500 a Serrazzone.

Nel testamento di Accursio Muzzarelli, rogato dal notaio Magnanino Magnanini il 18 ottobre 1582, è citato tra i confinanti “Ioannem Marcum Benassium de Valio habitantem Fanani”24, quale proprietario di un pezzo di terra prativa, denominato “il Monticello”, luogo posto nelle vicinanze delle Caselle di Serrazzone.

I rappresentanti della famiglia Benassi nei registri parrocchiali delle chiese di Fanano, Serrazzone ed Ospitale in principio erano indicati con il nome seguito dal paese di provenienza “da Vaio” (Vaglio). Tra il 1566 e il 1620 si contano più di 50 nati provenienti da Vaglio: Giovan Marco

20 e. De Felice, Dizionario dei cognomi italiani, p.65, Vicenza 1978.21 a.P.serrazzone, Anno Domini 1725 - Libro Campione della Chiesa di S.Maria di Serrazzo-

ne fatto dal Rett. Don Antonio Martinelli da Fanano.22 F. Violi, Cognomi a Modena e nel modenese, Modena 1996, p. 33.23 a. Mazzieri, Vaglio un’antica comunità, Modena 1987, p. 91.24 a.s.Mo., Archivi notarili provinciali, Pavullo, notaio Magnanino Magnanini.

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“da Vaio”, Antonio “da Vaio”, Segnarino “da Vaio” e Valdisserra “da Vaio” sono i capostipiti di questa famiglia. I discendenti di GiovanMarco, nato presumibilmente intorno al 1530, abitavano alle “Caselle” di Serrazzone e nel medesimo borgo e sullo stesso podere si sono succeduti di genera-zione in generazione sino al repentino abbandono dovuto al movimento franoso del 195225.

Nella Storia di Fanano, il Pedrocchi illustra il ramo dei Benassi gene-rato da Cristoforo; questo ceppo diede notevole lustro a questa casata, ma si estinse nel XVIII secolo.

Cristoforo è il capostipite. Il 20 settembre1606 GiovanGiacomo Be-nassi sposa, nella chiesa di San Silvestro di Fanano, Domenica, figlia d’Or-tensio Cima di Fanano. Questa unione fu propizia a questa famiglia e a GiovanGiacomo che, fatto Alfiere della Compagnia di Fanano, il 24 luglio del 1628 rese questa testimonianza relativa all’anno 1624 o 1625:

“Io mi raccordo benissimo come Alfiere dell’Insegna di Fanano dhavere ricevuto ordine, che tengo tuttavia presso di me, dal si-gnor Governatore e signor Colonello di Sestola di andare perso-nalmente con una truppa dè miei soldati, cioè della mia insegna, à guardare il passo della Croce, per il quale si passa à venire di Toscana diquà via, et anche la via ò strada di Valdigorgo, per la quale pure si camina, con occasione della fiera di San Bartolo-meo, che si fà in Pavulle, et questo accioche i malandrini, che an-davano facendo dei robbamenti in Valdigorgo, non infiltrassero quel territorio di Fanano, et di Sua Altezza Serenissima si come vi andai, e condussi meco, il sargenti Giovann Antilio Cima, (suo cognato) uno de’ sargenti di questa insegna, et tenendo io con una pattuglia d’Huomini il passo della Croce, et mandandolo lui con un’altra patuglia al passo di Valdigorgo, et questo è publico, e notorio, e ci stassimo otto giorni continui, et sinche parve à i padroni sudetti, che abbandonassimo i posti, che fù dopo, che la soldatesca di pavulle hebbe abbandonata la fiera, e così salvas-simo, che non fù robbato alcuno passaggiero”26.

La testimonianza continua con il racconto di un fatto curioso accaduto nel 1626 di cui si rese partecipe l’Alfiere GiovanGiacomo il quale riferisce

25 “La Gazzetta di Modena”, 27 dicembre 1952, Natale tragico dei profughi di Caselle, arti-colo di Almo Pasquali.

26 a.s.Mo., Confini dello Stato, busta 61/a: “1628, Processus Criminalis in Causa Valdigur-ghi, Territorii Fanani, Status immediatis”.

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che, sempre su ordine del signor Governatore di Sestola e del Colonnello, insieme ad altri si trovarono

“à spalleggiare il Bargello di Sestola, et sua corte, vestiti da pa-store, e da donna ch’erano al detto Valdigorgo andando innanzi, et indietro per due, ò tre giorni continui, acciò che quei malan-drini pensandoli pastori, et femine venissero à robbarli, ch’essi all’hora li volevano prendere, et fare alle archibugiate, et ad ogni buon fine, e loro bisogno essere aiutati da noi soldati”27.

GiovanGiacomo, poco oltre il 1630, si trasferì con la famiglia a Mode-na al servizio del principe Obizzo d’Este (1611-1644), Vescovo di Modena. Nominato Colonnello di Formigine lo servì con dedizione sino alla morte. In seguito, grazie alle ottime referenze di Obizzo, passò agli ordini del fra-tello, il Duca di Modena Francesco I, e continuò a dar prova di gran valore militare e umano. Rimasto ferito in Alessandria, fu nominato in seguito sopraintendente della Ducale Scuderia28.

Nel 1640 la famiglia Benassi di Fanano ottenne la cittadinanza ono-raria di Modena29. Il colonnello GiovanGiacomo morì in età avanzata e fu sepolto a Modena nella chiesa dei PP. Scalzi nella Cappella di S. Giuseppe. Suo figlio Cristoforo nato a Fanano il 27 settembre 161830, studiò a Mode-na e Bologna dove divenne dottore in legge.

Ricoprì le cariche di Podestà di Reggio, giudice di Modena, Luogote-nente nel governo di Reggio, seguendo il Duca Francesco I (1610-1658), alleato dei francesi, nella guerra dei Trent’anni combattuta in alt’Italia, con l’incarico d’auditore generale di tutto l’esercito. Successivamente fu dichiarato Commissario e Auditore generale di tutte le milizie dello Stato di Modena. Morì all’età di 47 anni (1665c.) e fu sepolto in Modena nella Chiesa della SS. Nunziata.

Dal matrimonio con la signora Ersilia Bergomozzi, nobile Modenese ebbe tre figli; Cesare, GiovanGiacomo chiamato poi nella cresima Antonio e Maria Caterina. Cesare (1655c-1730) studiò e si laureò dottore in legge civile e canonica nel collegio di Bologna. Sposò Caterina Ciardi (1664c.-1729) e, dopo aver esercitato varie giudicature nel ducato estense come Toano, Monfestino, Semese, Cerreto delle Alpi, tornò alla sua amata Fa-

27 Ibidem28 n. PeDrocchi, Storia di Fanano, Fanano 1927, pp. 331-333.29 b.e. Mo., Fondo Sorbelli, busta 1135.30 Erroneamente il Dizionario biografico frignanese scrive viv. nel 1800.

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nano dove tra il 1688 e il 1690 ricoprì anche la carica di Sindaco31. La madre, signora Ersilia, morì il 2 aprile 1693 e fu sepolta nella chiesa di s. Silvestro di Fanano32. Il dottor Cesare Benassi morì a Fanano il 31 marzo 173033. Don Antonio (1660c.-1738), fratello di Cesare, seguì la vocazio-ne religiosa e divenne Sacerdote, professando in Fanano. Il 5 novembre 1693, da Cesare e Caterina nacque Cristoforo (1693-1749), ultimo rappre-sentante maschile di questa discendenza.

Dal terzo libro dello stato delle anime, della Parrocchia di S. Maria di Serrazzone, iniziato nel 1854, si rileva che a Serrazzone vivevano 535 persone distribuite in 95 famiglie. I diciotto capifamiglia Benassi esercita-vano le seguenti professioni: undici pastori, quattro possidenti, un medi-co, un bracciante ed un falegname.

Dal quarto libro dello stato delle anime (1874-1897), si nota come i Benassi di Serrazzone avevano la netta predominanza nel borgo di “Casa Bonucci”, in uno dei vari elenchi, si contavano in totale ben 23 famiglie che dimoravano nelle seguenti borgate:

15 famiglie, composte da 107 persone, abitavano a “Casa Bonucci”.2 famiglie, con 24 persone annotate, dimoravano alle “Caselle”2 famiglie, con 17 persone segnate, abitavano a “Pian della Farnia”.1 famiglia, formata da 14 persone, abitava “al Rio”. 1 famiglia di 7 persone abitava alla “Teggia”.1 famiglia di 4 persone abitava in “Valfredda”.1 famiglia di 3 persone abitava al “Fosso”.(le famiglie in realtà erano di più poiché spesso il capofamiglia viveva con le famiglie dei figli).

il Capitano Biagio di “Casa Bonucci”

Il Capitano Biagio Benassi, nato il 20/02/1778 da GiovanBattista e Maria Giovanna Zucchi, entrò nel 1803 come soldato nella fanteria. Nel 1804 fu al blocco di Venezia contro gli Austriaci e nel 1806 a quello di Maratea contro gli insorgenti calabresi, sostenuti dai Borboni di Sicilia e dagli Inglesi. Nel 1807 fu all’assedio di Gaeta contro gli insorgenti del

31 a.s.Mo., Archivi Privati, Fondo Jacoli, b. 82. “Atti del Consiglio Comunale di Fanano 1687/1692”.

32 A.P.F., II Libro dei morti, dal 1690 al 1794.33 Ibidem

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napoletano e, negli anni 1808-09-10 alla spedizione Francese nelle isole Ionie da dove rientrò nel regno italico nel 1811. Nel 1812 partecipò con la Grande Armata alla campagna di Russia34. La Grande Armata aveva oltre 600.000 uomini: 370.000 morirono in battaglia, di malattia o di freddo. 200.000 furono fatti prigionieri dai russi e almeno metà di essi perirono35.

Nei combattimenti a Malojaroslavetz Biagio Benassi si distinse e fu promosso sul campo al grado di capitano dallo stesso Napoleone Bonapar-te36. Era il 24 ottobre: le avanguardie dei due eserciti si scontrarono. I russi persero 7000 uomini, i francesi 4000, ma i Russi potevano rimpiazzare le loro perdite, i francesi no37. In questa battaglia si racconta che durante l’attacco della cavalleria cosacca gli fu ucciso il cavallo, era ormai notte, il

34 a.sorbelli-a.rabeTTi, Dizionario biografico frignanese, Pievepelago 1952, p.279.35 www.genie.it, Napoleone: La campagna di Russia.36 Erroneamente il Dizionario biografico frignanese indica come luogo dello scontro Ma-

lowslawer.37 www.genie.it, Napoleone: La campagna di Russia.

Casa Bonucci

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freddo terribile, accertata l’impossibilità di passare sull’altra sponda del fiume, per potersi mettere in salvo, mancando qualsiasi riparo, aprì il ven-tre del cavallo appena ucciso e v’infilò le gambe evitando il congelamento. Il giorno dopo guadò il fiume e riuscì poi a rientrare in Italia38. Napoleone I, imperatore dei Francesi, dopo la sua incoronazione a re d’Italia avvenuta il 26 maggio del 1805, creò il successivo cinque giugno, l’Ordine cavallere-sco della Corona Ferrea per ricompensare i valorosi, gli scienziati ed altri dichiarati degni. Biagio Benassi fu insignito di quest’alta onorificenza. Una lapide, murata nel palazzo del Municipio di Fanano recitava

“A Biagio Benassi - Capitano e cavaliere della Corona Ferrea. Dal 1804 a tutto il 1814 - nelle battaglie Napoleoniche - in Rus-sia e nella memorabile ritirata - valoroso sempre - i figli super-stiti Pompeo, Galgano, Dottor Annibale e Battista Benassi a pe-renne e benemerito ricordo- posero l’anno 1891 nel municipale palazzo di Fanano”39.

Biagio sposò Pasqua Torricelli, nata il 18-07-1794, dalla quale ebbe diversi figli; tra questi si mise particolarmente in luce Annibale che, nato il 24 febbraio 1818, studiò nell’università di Pisa, si arruolò nel Battaglione Universitario e combatté fra i paesi di Curtatone e Montanara nel 1848, dove fu scritta una delle più belle pagine del Risorgimento italiano40.

Il 29 maggio 1848, contro il corpo di spedizione austriaco, al coman-do del Maresciallo Johann Joseph Radetzky, si distinsero con atti eroici, dettati in ugual misura dall’amor patrio e dall’incoscienza giovanile, gli studenti del Battaglione Universitario.

Annibale si laureò in medicina, tornò ad abitare a Serrazzone, spo-sò Possidonia Torricelli, ed iniziò ad esercitare la professione di medico in Fanano. Dai fratelli di Annibale, Pompeo, Odoardo, Galgano, Quinto e GiovanBattista continuerà il florido albero dei Benassi discendenti del capitano Biagio.

i BoNDi

È il nome proprio medievale Bonadies, Bondie, Bondi, cioè “buon dì”, che si dava ai neonati come augurio per il loro ingresso nella vita. Un

38 a.Pasquali, La maestà del capitano, in Fanano fra storia e poesia n.3 (1997), pp.25-26. 39 b.e. Mo., Fondo Sorbelli, cit. 40 a. sorbelli-a. rabeTTi, Dizionario biografico frignanese, cit.

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“Bondi de Porcile” è nominato in una carta modenese del 1190. Non è da escludere che, all’origine di taluni Bondi, sia anche una forma afeterica del nome tardo latino (A)bundius, da cui Sant’Abbondio41. I fratelli Gio-vanni Pellegrino e Domenico figli del fu Giuseppe, entrambi nati a Fanano, si stabilirono a Serrazzone verso il 1720 42.

i BoNFiGlioli

Cognome augurale, cioè “(che sia un) buon figlio o figliolo”43. Martino nato nel 157444 è il capostipite della casata dei Bonfiglioli di Serrazzone. Nell’atto di morte del 10 aprile 1648 si legge:

Martinus Bonus Filius etatis sue 74 in comunioni...45.

Il cognome mutò nel Seicento da Bonfilio a Bonfiglioli.

i BoNuCCi

La famiglia Bonucci proveniente da Roncoscaglia di Sestola venne ad abitare a Serrazzone nella borgata di Val di Fredda, poco dopo la metà del 1500. Bonuccio Bonucci, padre di Michele e Antonio fu il capostipite di questa casata46.

Michele di Bonuccio Bonucci figura tra i rappresentanti degli uomini della Villa di Serrazzone che nel 1621 incontrarono il Vicario Generale di Nonantola e chiesero l’erezione in Parrocchia della chiesa di Serrazzo-ne47. Nel 1639, Lorenzo di Michele Bonucci venne chiamato come testi-

41 F. Violi, Cognomi a Modena e nel Modenese, p.42, Aedes Muratoriana, Modena 1996.42 a.P.serrazzone, Stato delle anime 1815.43 e. De Felice, Dizionario dei cognomi italiani, p.83, Vicenza 1978.44 La data è stata desunta dall’atto di morte.45 a.P.serrazzone, I Libro dei morti 1621-1720.46 A.P.F., I Libro dei matrimoni, 1567-1687. Atto di matrimonio del giugno 1577, Antonio

figlio di Buonucio da Ronchodeschiaia sposa Chamila fiola di GioGiacomo d’Andrea Muc-ciarello.

47 a.P.serrazzone, A.D. 1725 Libro Campione della Chiesa di S. Maria di Serrazzone fatto dal Rett. D. Antonio Martinelli da Fanano.

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mone per le controversie relative ai confini tra Fanano e Rocca Corneta. Lorenzo dichiarò:

“Io sono nato, et allevato in Vaifredda, mio padre nacque a Ron-codiscaglia Giurisdizione di Sestola, è ben vero che da putto andò a habitare in Vaifredda, et continuamente v’habitò, com’ho fatto e faccio anch’io”48.

Questa famiglia dette anche il nome al borgo di “Casa Bonucci”, posto a Serrazzone alto. Il cognome deriva dal nome di persona Bono, abba-stanza diffuso nel Medio Evo, ed è collegato all’aggettivo buono da cui il soprannome Bonuccio ad indicare una persona “di buon carattere”49. Il nome Bonuccio appare a Roncoscaglia in un rogito del 2 marzo 1459 del notaio Giovanni Albinelli.

“Bonuccio di Pietro di Roncoscaglia nomina suo procuratore Do-menico detto Menegozzo fu Giovanni dello stesso luogo, per ri-tirare denaro”50.

48 a.s.Mo., Confini dello Stato, busta 61/b.49 e. De Felice, Dizionario dei cognomi italiani, p.83, Vicenza 1978.50 a. sorbelli, Regesti del notaio Giovanni Albinelli, estratto dagli “Atti e Memorie della R.

Deputazione di Storia Patria per la Romagna”, s. III, v. XXI, Bologna 1903.

Casa Bonucci

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i CAssAi

Il cognome deriva dal mestiere di “cassettari” o “cassai”, cioè coloro che producono casse, travi, assi, doghe e vari utensili col legno degli abeti, faggi e larici reperibili sul posto. La famiglia Cassai venne a vivere a Ser-razzone proveniente nel 1680 da Pievepelago, quando Domenico, figlio di Stefano Cassai, sposò Maria Benassi di Serrazzone51.

i FANTiNi

La famiglia Fantini proveniente da Vesale di Sestola venne ad abitare a Serrazzone nella località detta “ai Lagacci” verso il 1830. Successiva-mente il borgo costituito da una casa padronale, da una casa colonica con stalla e fienile e dall’oratorio prese il nome di “Casa Fantini”. Nel registro per la numerazione di tutte le case, del comune e sezione di Fanano, da-tato 1811, “Casa Fantini” viene denominata “la Fabrica del Giardino”. L’oratorio era certamente privato della famiglia Fantini. Il dottore Giovan-ni Domenico Fantini probabilmente lo fece costruire per comodo proprio e dei propri familiari, in quanto aveva un figlio sacerdote che così poteva disporre di un vicino luogo di culto ove poter dire messa. Giovanni Dome-

51 a.P.serrazone, I Libro dei matrimoni 1623-1722. Atto del 6 Agosto 1680.

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nico proveniente da Vesale si trasferì a Serrazzone con la moglie Rosa Landi e i tre figli Giorgio, il sacerdote don Gio-vanni e Eugenio52.

L’oratorio è ricordato nel verbale della visita pastorale del 10 aprile 1832 come di recente costruzione, sotto il ti-tolo di Auxilium Christianorum53. Dopo la metà dell’Ottocento anche l’oratorio di San Colombano di Fanano divenne proprietà dei Fantini di Serrazzone e in seguito della famiglia Bondi di Serraz-zone54. La famiglia Bondi di Casa Pic-chiotto si era imparentata con i Fantini tramite il matrimonio del dottore An-gelo e del fratello Domenico Antonio, figli di Francesco, rispettivamente con le sorelle Edvige e Carolina figlie del si-gnor Giorgio Fantini55.

i Foli-VAlENTiNi

Antica famiglia di Fanano, presente con certezza agli inizi del Quat-trocento. In un atto notarile di Giovanni Albinelli del 27 ottobre 1436 si legge che

“Carlo fu Guglielmo “Perachii” di Fanano vende a Francesco Foli pure di Fanano “unam tegetem muratam usque ad primum ta-sellum” posta in Fanano Al ponte da la pieve, per lire 15”.

Probabilmente da Fanano questa famiglia si diramò anche a Serraz-zone. Il ramo di Serrazzone ebbe come punto fisso il borgo “Le Coste”.

52 a.P.serrazone, Stato delle Anime dell’anno 1854.53 a. silVesTri, Fanano Sacra: Cielo e Terra d’Appennino, Centro Studi Storici Nonantolani,

p.264, Livorno 2005.54 a.P.Fanano, Manoscritto “Cronistoria degli Arcipreti Battistini-Monari”, capo VII – Restau-

ro della Chiesa di San Colombano.55 a.P.serrazzone, Stato delle Anime dell’anno 1854.

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FANANOfra storia e poesia

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Uno dei nomi che ricorreva spesso in questo ceppo era Valentino, dal qua-le alcuni rappresentanti di questa famiglia presero il cognome Valentini. Il cognome Foli trae origine dal nome del capostipite Folo o forse dal luogo detto “Follo” situato a Fanano e citato nel 161456.

I Foli, nei documenti del Cinquecento e Seicento, vengono citati anche con il cognome Fuoli e Folli. Del ramo più importante di quest’antica fami-glia fananese disegniamo l’albero genealogico diretto del celebre Cecilio Foli:

Folo

Silvestro

Barducco + il 6/8/1579

Silvestro Battista Bartolomeo Biagio 1554 + 10/10/1614 + il 6/8/1579

Barducco Giambattista Ercole Giulia 1581 1585 c.+1654 1592+1616 c. 1587 Cecilio 1615+1682

Questo ramo fu coinvolto profondamente nei combattimenti fratricidi tra le fazioni e nelle liti e delitti che caratterizzarono il Cinquecento e il Seicento di Fanano. Barducco Foli ed il figlio Biagio morirono nell’Agosto del 1579 colpiti da alcune archibugiate in piazza a Fanano. A sparare furono Giovanni Muccini, Francesco Neruzzi e Nicolo Lucietto, infrangen-

56 b.e.Mo., Fondo Sorbelli, busta 873 (II). Bartolomeo Fuoli e Cornelia Ciardi, rimasti ve-dovi, si unirono in matrimonio il 20 settembre 1594 e la donna, affidati i figli ai parenti di Antonio Ottonelli, andò ad abitare in casa di Bartolomeo. Dopo circa venti anni, i due si separarono. Dalle lettere scritte al principe di Modena da Orazio Livizzani prima e poi da Geminiano Ronchi, entrambi governatori del Frignano, si evince che nel gennaio del 1614 Cornelia abbandona il marito e, a sua insaputa, andò ad abitare con il figlio Rogante Ottonelli. Nel mese di luglio, durante il periodo della mietitura, Cornelia, con l’intervento anche di persone forestiere, fece tagliare un campo di grano nel luogo detto “Follo” -pro-prietà di Bartolomeo- e comandò che il raccolto venisse trasportato a casa del figlio.

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do la pace tra le due fazioni e la parola data al duca estense57. Il nota-io Bartolomeo Foli, figlio di Barducco, il 10 ottobre 1614, fu ucciso con un’archibugiata mentre parlava con una persona all’uscita della messa. A sparare fu Guido di Matteo Baruffi di Montalto su ordine di Rogante Ottonelli58. Quest’ultimo venne condannato al bando capitale dallo Stato e alla confisca dei beni. Giambattista e Ercole, figli di Bartolomeo non si accontentarono della condanna inflitta dalla giustizia ed il 3 dicembre del 1615 insieme ad altri complici uccisero il capitano Pietro Ottonelli e ferirono il fratello Ascanio59. Banditi perpetuamente dallo Stato estense se ne andarono a Venezia, dove si arruolarono nell’esercito della Serenis-sima impegnato nella guerra del Friuli, (1616-1617) contro gli Asburgo d’Austria: Ercole come capitano e Giambattista come medico al servizio degli ufficiali. Ercole morì valorosamente sul campo di battaglia, mentre Giambattista conseguì grandi meriti, esercitando in seguito il prestigioso incarico di Protomedico della Serenissima. Giambattista prese sotto la sua tutela Cecilio, orfano del fratello Ercole. Cecilio studiò nell’università di Padova, ove ottenne la laurea in filosofia e medicina. Nel 1650 prese il posto dello zio nell’incarico di Protomedico della Serenissima, diresse il Nuovo Teatro Anatomico di Venezia, pubblicò diverse opere illustrando le sue importanti scoperte in campo medico60.

lolli

I fratelli Andrea e Lolo, figli dell’Appollonia di Monterastello di Verica, vengono ad abitare a Pian della Farnia di Serrazzone verso la metà del Cin-quecento. Il nome Lolo genera il cognome Lolli mentre il nome Andrea dà vita al cognome Andreoni, famiglia che in seguito si trasferirà ad Ospitale. Sui registri parrocchiali sono indicati come Andrea e Lolo “della Polonia”61. I Lolli ebbero come punto fermo il borgo di Pian della Farnia di Serrazzone.

57 b.e.Mo, Compendio breve abbozzato del Hystoria de’ miei tempi, delle cose più notabili accadute A FANANO…. del dr. Benedetto Rinaldi.

58 b.e.Mo., Fondo Sorbelli, busta 873 (II).59 Ibidem.60 G.loDoVisi, Le cause dell’odio tra Ottonelli e Foli, la guerra del Friuli, i capitani della

famiglia Ottonelli, pp.63-70, in Fanano fra storia e poesia nr.23; R. Rossi Ercolani, L’av-vincente storia della cappella Foli, pp.103-110, in Fanano fra storia e poesia nr.13; M. Bresadola, Da Fanano alla Serenissima – Cecilio Foli e la medicina d’età moderna, pp. 57-68, in Fanano fra storia e poesia nr.22.

61 A.P.F., I Libro dei battesimi, 1565-1624.

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La fondazione del Convento delle suore Cappuccine avvenne sul finire del Seicento nella villa di Ospitale per volere di don Giovanni Battista Lolli, rettore della chiesa di San Giacomo dall’agosto 1679 al 1707.

“Uomo intelligente, attivo, pieno di spirito, lavorò molto per il bene della parrocchia particolarmente dal lato spirituale; fondò una piccola comunità di suore del terzo ordine francescano e la corredò anche di una piccola chiesetta che poi finì col servire da parrocchiale quando per ordine del cardinale De Angelis, Abate di Nonantola, la vera parrocchiale nel 1688 venne sospesa per-ché pericolante”62.

Nel 1707 fu trasferito Arciprete a Fanano. Egli

“vedendo di non poter prestare al nuovo Conservatorio quell’as-sistenza che aveagli prestata sino allora colla sua vicinanza e presenza, pensò di trasferire le religiose nella terra medesima di Fanano, ove avrebbe avuto maggior comodo di provvedersi del bisognevole per il proprio sostentamento, nelle infermità più assistenza de’ medici e per il loro profitto spirituale direttori più scelti e qualificati”63.

62 A.P.O., Don Giovanni Ricci, appunti dattiloscritti sulla parrocchia di Ospitale.63 n. PeDrocchi, Storia di Fanano, Fanano 1927, p. 178.

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FANANOfra storia e poesia

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Il cardinale abate Sebastiano Tanari accolse la sua domanda e don Lolli preparò un edificio vicino alla chiesa parrocchiale, nel luogo detto di “Sambuco”. Don Giovanni Battista Lolli era figlio del dottor Andrea Lolli, nato a Serrazzone il 17 agosto 1622, e di Pellegrina, figlia del capitano Battista Muzzarelli. Il dottor Andrea Lolli, dopo il matrimonio avvenuto il 9 ottobre 1646, esercitò la professione di medico a Fanano; ammalatosi, morì nella canonica d’Ospitale il 26 aprile 1686 e fu sepolto in quella chie-sa. L’oratorio di San Rocco fu fondato dalla famiglia Lolli. “Il verbale della visita pastorale del 1828 risulta l’unica fonte certa per risalire alle origini di questa istituzione religiosa. Tra vari documenti, infatti, è presentato un atto di fondazione, datato 4 settembre 1712, in cui si specifica che, dietro istanza degli uomini di Serrazzone in occasione della pestilenza, si diede inizio ai lavori di costruzione, con la dotazione di 600 scudi modenesi, il reddito dei quali doveva essere impegnato nel mantenimento della fab-brica, delle sacre suppellettili e per la celebrazione delle messe: tre nel giorno di San Rocco e due in quello di San Sebastiano. Col rimanente della somma si doveva provvedere alla celebrazione delle messe per i bene-fattori vivi e defunti. Poiché i 600 scudi furono sborsati dai fratelli Carlo, Marco e Giovanni Lolli, se ne deduce che l’oratorio fu fondato in quei tem-pi dalla famiglia Lolli di Pian della Farnia di Serrazzone, che ne deteneva il giuspatronato e che destinò vari beni in beneficio dello stesso”64.

64 a. silVesTri, Fanano Sacra: Cielo e Terra d’Appennino, Centro Studi Storici Nonantolani, pp. 263-264, Livorno 2005.

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i moNTERAsTElli

Antica famiglia d’Ospitale proveniente da Monterastello di Verica, lo-calità dalla quale trassero il nome. Vennero ad Ospitale nella prima metà del Cinquecento, Bartolomeo è il capostipite di questa casata. I rappresen-tanti della famiglia Monterastelli nei registri parrocchiali delle chiese di Fanano ed Ospitale in principio spesso erano indicati con il nome seguito dal paese di provenienza “da monte Rastello” (Monterastello). Biagio, fi-glio di Bartolomeo, si unisce in matrimonio con Maria. Da Biagio e Maria, nascono Bartolomeo, Elisabetta, Caterina, Domenica e Giulia. Bartolomeo ha come figlio Sabatino:

“Adì 12 di settembre 1589 fu battezzato un figliuolo di Barto-lomeo di Biagio Monterastelli dall’Ospitaletto e di Antonia sua mogliera, il compare fu Alberto f° di Luca Ballocco, comare Do-menica di Tonno di Giuntarino e sigli pose nome Sabbatino”.

Il borgo di Montemezzano fu un punto fermo per i Monte-rastelli. Sabatino (1589-1671) con certezza vive in questa bor-gata, si sposa con Domenica da cui ha numerosa prole. Dai figli Biagio (n.1629), Giovanni (n.1634) e Bartolomeo (n.1638) proseguirà la discendenza dei Monterastelli d’Ospitale.

Un ramo di questa casata venne ad abitare a Serrazzone verso la metà del Settecento. Giuseppe, figlio del fu Domeni-co, dopo aver sposato il 14 set-tembre 1756 Lucia Muzzarelli65, si stabilì alle Caselle; rimasto vedovo, sposò in seconde nozze il 29 aprile 1762 Maria Antonia Benassi66.

65 a.P. serrazzone, II Libro dei matrimoni, 1721-1779.66 Ibidem.

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FANANOfra storia e poesia

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i muZZARElli - BARoNCiNi - lomBARDi

Il cognome trae origine dai nomi proprio latini Mucius e Mutius, cioè Muzio col doppio suff.-ario+ello”67. In un rogito del 5 luglio 1377, col quale il consiglio ed arengo del comune e uomini di Fanano nominano France-sco fu Nicolai di Fanano sindaco e procuratore con l’abate di Nonantola per l’investitura delle alpi, tra gli uomini di Fanano figurano Joanis Ba-roncino (famiglia Muzzarelli) e Michele Octoneli-Bondi eius fratri (fami-glia Ottonelli)68. La casata Muzzarelli, spesso riportata col cognome Muc-ciarelli, è senza ombra una delle più antiche di Fanano: si ramificò sin dal Quattrocento nella vicina Serrazzone, dove è la maggiore per numero di nascite. Nella chiesa di Serrazzone aveva un suo sepolcro, “detto de’ Muzzarelli antichi”, che nel Settecento serviva sei rami di questa famiglia:

eredi di Giò. Muzzarelli detto il Sordino, eredi di Niccolò Muz-zarelli, eredi di Sabbatino Muzzarelli, eredi e discendenti de’ Muzzarelli detti li Lombardi, eredi del fu Antonio Muzzarelli da cà di Picchiotto e gli eredi del fu Alessandro Muzzarelli.

Il Pedrocchi scrive

“come attesta il Padre Franchini nella sua Bibliosofia, sono cre-duti del medesimo sangue co’ conti Mucciarelli di Bologna e Fer-raresi d’oggi”69.

Una ipotesi a mio parere opinabile. Lo storico fananese cita poi errone-amente come uomini illustri del ramo di Fanano Giacopo, figlio di Lodovico, Canonico di S. Pietro di Bologna nel 1429 e poi Chierico della Reverenda Camera di Roma, città dove morì nel 1476 e Gasparo di Vincenzo Muz-zarelli, Vicario Generale dell’Arcivescovo di Pisa nell’anno 1593. In realtà Giacomo di Lodovico e Gaspare di Vincenzo appartenevano al ramo nobile di Bologna70. In un atto notarile, rogato a Fanano l’undici gennaio 1458 dal notaio Giovanni Albinelli, sono indicati Corso e Baroncino di Muzzarello del fu Giovanni di Baroncino i quali assieme ad altri uomini di Fanano, promettono di pagare lire 50 ad Andrea fu Contro e a mastro Antonio Zana-

67 F. Violi, Cognomi a Modena e nel modenese, p.110. Modena 1996.68 a.s.Mo., Archivi Privati, Raccolta Jacoli.69 n. PeDrocchi, Storia di Fanano, p.287. Fanano 1927.70 G. FanTuzzi, Notizie degli scrittori Bolognesi raccolte da Giovanni Fantuzzi, Tomo Sesto,

1788 Bologna.

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rello di Fanano. Baroncino è il capostipite della casata dei Muzzarelli, nato presumibilmente agli inizi del Trecento. Muzzarello ha due figli: Baroncino e Corso (Accursio) dai quali si dirameranno i rami più importanti di questa casata. Giovanni figlio di Baroncino nato nel 1470 divenne un medico cele-bre, fu chiamato al servizio di Massimiliano, re d’Ungheria, poi imperatore. Giovanni nel 1519 ottenne l’aggregazione alla cittadinanza di Modena; nel-lo stesso privilegio vennero nominati e compresi i cinque figli di Antonio, suo fratello: Sabbatino, Domenico, Bartolomeo (detto Bertoia), Giovanni Francesco e Barone. In molti atti notarili ed anche nei libri battesimali della chiesa di Fanano e successivamente di Serrazzone, molti rappresentanti del ramo di Baroncino assunsero il cognome Baroncini. Nel I libro dei bat-tesimi della chiesa di Serrazzone (1621-1690) alcuni membri della famiglia Muzzarelli generarono anche il cognome Lombardi. Corso (Accursio) fratello di Baroncino ebbe come figli Giacomo detto Roc-ca, Domenico detto Menno e Sabbatino. Giacomo detto Rocca ebbe come figlio il notaio Accursio Muzzarelli. Accursio ebbe quattro figli maschi: il dottor Lodovico, medico stimato in Lom-bardia e Toscana, il capitano Giovanni Paolo, Ruggero e il capitano Giovanni. Domenico detto Menno non ebbe figli. Sabbatino ebbe un figlio, Giovanni Nicola. Quest’ultimo ebbe come figli Gio-vanni Battista – sposato con Emilia Rinaldi, il famoso capitano Sabbatino sposato con Ippolita Zanelli, Domenica – sposata con Giovanni Domenico Ottonelli, capitano della montagna e colonnello del Frignano e Santa spo-sata con il dottor Benedetto Rinaldi, podestà di Modena e infine di Ferrara.

Molti altri uomini illustri nella religione, nelle armi, nelle scienze e nelle lettere ha avuto questa famiglia, alla quale dedicherò un articolo approfondito in un prossimo numero della rivista.

Gli oRlANDiNi

La casata Orlandini, presente nel Seicento a Lotta, si diramò a Fanano nel Settecento e successivamente a Serrazzone. Angelo, figlio di Giuseppe Orlandini, verso il 1830, dopo aver sposato Pasqua Muzzarelli, andò ad abitare in località “al Rio” di Serrazzone. Quest’ultimo era nato a Fanano l’11 agosto 1807 ed esercitava la professione di muratore71.

71 a.P.serrazzone, Stato delle Anime dell’anno 1854.

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i Poli

La famiglia Poli venne a vivere a Serrazzone proveniente da Trigna-no. Domenico, figlio del fu Geminiano Poli, dopo aver sposato nel 1679 Antonia Muzzarelli, si stabilì a Serrazzone72. Geminiano, padre di Dome-nico, morì il 13 Settembre 1662 a Trignano. Nell’atto di morte si legge

“Geminianus di Polis ad pns Trignani habitator etatis An.55”73.

Da questo si evince che Geminiano abitava a Trignano da poco tem-po. È ipotizzabile, anche se non documentato, che questa famiglia fosse originaria del comune di Lizzano, ove questo cognome è presente princi-palmente a Chiesina e a Monte Acuto.

i Rossi

Giovanni Rossi detto il Cridone è il capostipite di questa casata, una delle più antiche di Serrazzone. In un atto notarile del 22 ottobre 1581, Bartolomeo figlio del fu Giovanni Rossi detto il Cridone di Fanano vende a Giovanni Maria, figlio del fu Francesco di Rivo, un pezzo di terra prativa posta nella curia di Fanano nel luogo detto i Lagacci. Nell’atto sono no-minati anche i fratelli Domenico e Cristofano (Cristoforo) Rossi74. Nell’atto di matrimonio, celebrato il 4 novembre 1590, tra Giacomo Rossi e Silvia Pasquini, Giacomo viene annotato come figlio di Cristofano (Cristoforo) Rosso da Serrazzone75. Nel Cinquecento e nel Seicento i rappresentanti di questa famiglia venivano spesso trascritti col cognome in latino Rubei, cioè Rosso, originato da un soprannome formato, in relazione al colore dei capelli, o anche dalla barba.

i TAssoNi

La famiglia Tassoni, originaria di Gavinana, venne ad abitare a Ser-razzone nel Seicento. Andrea, figlio di Lorenzo Andrei di Gavinana diocesi

72 a.P.serrazzone, I Libro dei matrimoni, 1622-1723. Atto del 14 Ottobre 1679.73 a.P.TriGnano, I Libro dei morti, 1626-1752.74 a.s.Mo., Archivi notarili provinciali di Pavullo, b.21, n.294-295, notaio Magnanino Ma-

gnanini. Atto del 22 ottobre 1581.75 a.P.Fanano, I Libro dei matrimoni, 1567-1687.

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pistoiese, sposa, nella chiesa di s.Giacomo d’Ospitale, Maria figlia di Tad-deo Lardi del Serretto76. Si trasferisce poi a Serrazzone, ove dal figlio Luca e Caterina Rossi nasce Andrea, come testimonia l’atto di nascita del 13 agosto 1678, ove si legge che il rettore Bartolomeo Tonini di Serrazzone battezza

“infantem ex Luca fil. Andreas de Cavinana, Caterina q. fil. Jo-annis Rubei, cui fuit impositu’ nomen Andreas…”.

Nello stato d’anime della chiesa di S. Maria di Serrazzone dell’anno 1724 tra le famiglie è annotata quella di “Andreas Tassonius” figlio di Luca.

i ToNiNi

Cognome originato da Tonino forma abbreviata del nome Antonio. Il 25 febbraio 1590, Antonio figlio di Giacomo di Tonino sposò Domenica figlia di Apollonio di Andreone dal Pian della Farnia77. Tonino è il caposti-pite di quest’antica famiglia di Serrazzone. Nel 1639 Giovanni Francesco Tonini, chiamato come testimone nelle annose controversie della Riva, dichiarò di essere nato in Valfredda e di avervi sempre abitato, come i suoi vecchi e antenati78.

76 a.P.o., I Libro dei matrimoni, 1614-1639. Atto di matrimonio del 10 settembre 1628.77 a.P.Fanano, I Libro dei matrimoni, 1567-1687.78 a.s.Mo., Confini dello Stato, busta 61/b.

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i ToRRiCElli

Antica famiglia fananese presente già agli inizi del Cinquecento. In principio erano annotati nei registri parrocchiali e negli atti notarili con il cognome Turricella. In un atto notarile del 24 giugno 1556,

Caesar q Gianini Turricella di Fanano vendiderit a D. Domenica q Antony alias signori

una casa nel castello di Fanano alla piazzetta79. Questa famiglia era già presente a Serrazzone nel Cinquecento come si evince dall’atto di ma-trimonio del 29 ottobre 1595,

ove Domenico di Giovanni dalla Pieve sposa Caterina figlia fu d’Andrea Torricella da Serrazzone80.

Il cognome è assente nei registri parrocchiali di Serrazzone, iniziati nell’anno 1621, sino al 1654, anno nel quale Bartolomeo Torricelli sposò Maria Munarini81. Dai discendenti di Bartolomeo continuerà la genealogia dei Torricelli di Serrazzone.

i TuRCHi

Cognome derivato dal soprannome Turco con cui s’indicava una per-sona feroce, crudele. La famiglia Turchi si trasferì a Fanano, proveniente da San Marcello Pistoiese, agli inizi del Cinquecento. In un atto notarile del 19 maggio 1509 - Frate Silvestro del fu Filippo Silvestro di Fanano, guardiano del convento di San Francesco … vende una casa a Bartolo-meo, detto il turco, del fu Bartolomeo Pellegrino di San Marcello, abitante a Fanano. La casa è sita

in castello fanani in loco dicto campo del fiore82.

79 A.s.Mo., Archivi notarili provinciali di Pavullo, b. 20, n. 36-37, notaio Battista Magnanini.80 a.P.Fanano, I Libro dei matrimoni, 1567-1687. 81 a.P.serrazzone, I Libro dei matrimoni, 1622-1723. Atto di matrimonio del 24 ottobre 1654.82 A.s.Mo., Archivi notarili provinciali di Pavullo, b. 7, notaio Giovanni Battista Albinelli, atto

del 19 maggio 1509.

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Bartolomeo detto il Turco ebbe tre figli: Mignano (Geminiano), Lippo (Filippo) e Geppo (Iseppo) che resero florida la genealogia dei Turchi di Fanano. A Serrazzone i Turchi erano già presenti nel Seicento; vari rami, in diversi periodi, ma specialmente nell’Ottocento s’insediarono alla Ca-stellaccia, in Valfredda ed in altri borghi spesso provenienti da Fanano.

VENTuRA

Pellegrino, detto dalla Ventura, è il capostipite di questa famiglia; ver-so la metà del Cinquecento proveniente da Lotta, venne ad abitare in Val-fredda. Nel 1639 suo figlio Francesco, pastore di Pian della Farnia, venne chiamato come testimone nelle antiche controversie di Fanano con Rocca Corneta sulla giurisdizione della Riva. Francesco dichiarò di avere 100 anni, di essere nato in Valfredda e di avervi sempre abitato. Testimoniò inoltre che suo padre, sebbene fosse nato a Lotta, da piccolo si trasferì in Valfredda abitandovi per tutta la sua vita83.

83 a.s.Mo., Confini dello Stato, busta 61/b.

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Nello “Stato delle anime” dell’anno 1854 sono riportate le varie loca-lità della parrocchia, le famiglie che le abitavano e in molti casi la profes-sione del capofamiglia:

LOCALITÀ NOME DEL CAPO FAMIGLIA CHE L’ABITAVA PROFESSIONE

A casa de Roganti Amidei Bartolomeo possidenteAl Serrino Amidei Clemente possidenteIn Valle Fredda Bonucci Gregorio possidenteAlle Pianchette Bonucci Domenico Maria possidenteAlle Pianchette Bonucci Giovanni non scrittaAlle Pianchette Bonucci Giacomo Francesco possidenteAlla Canonica Bonucci D. Pietro Battista rettoreAlla Chiesa Vecchia Bonucci Pellegrina filatrice Alle Caselle Bondi Francesco pastoreA casa di Picchiotto Bondi Signor D. Giacomo sacerdoteA casa di Picchiotto Bondi Francesco possidenteA casa de Bonucci Benassi Antonio Maria pastoreA casa de Bonucci Benassi Giuseppe pastore

Il Serrino

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A casa de Bonucci Benassi Antonio Maria braccianteAl Piano della Farnia Benassi Pasquale pastoreIn Valle Fredda Benassi Francesco pastoreA casa de Bonucci Benassi Giovanni pastoreAlle Caselle Benassi Domenico non scrittaAlle Caselle Benassi Giacomo possidenteA casa de Bonucci Benassi Domenico Antonio pastoreA casa de Bonucci Benassi Pompeo pastoreA casa di Picchiotto Benassi Dr. Annibale medicoA casa de Bonucci Benassi Francesco possidenteAl Rio Benassi Battista pastoreAlle Caselle Benassi Giuseppe pastoreAlle Caselle Benassi Andrea possidenteAl Piano della Farnia Bonfiglioli Alessandro non scrittaAl Piano della Farnia Bonfiglioli Pasquale non scrittaAl Piano della Farnia Bonfiglioli Pasqua non scrittaAl Piano della Farnia Bonfiglioli Felice non scrittaAlla Caselle Chiesi Giovanni braccianteAlla casa Nuova Chelucci Giuseppe non scrittaAl Preda Cialdini Michele non scrittaAlla Chiesa Vecchia Foli Giuseppe braccianteAlla Chiesa Vecchia Foli Ferdinando non scrittaAlla Chiesa Vecchia Foli Sante Francesco muratoreAlla Chiesa Vecchia Foli Battista muratoreA casa de Fuochi Foli Paolo pastoreAi Lagacci Fantini S.r. Giorgio non scritta

Ca’ Picchiotto

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Al Piano della Farnia Ferrari Benedetto pastoreA casa de Bonucci Ghirardini Domenico possidenteA casa de Bonucci Ghirardini Giuseppe braccianteA casa de Bonucci Ghirardini Francesco possidenteAlla Chiesa Vecchia Ghirardini Giorgio contadinoAl Piano della Farnia Lolli Pietro non scrittaAl Fosso Lolli Marco possidenteAl Piano della Farnia Lolli Giovanni non scrittaAl Piano della Farnia Lolli Andrea pastoreAl Piano della Farnia Lolli Michele pastoreAl Piano della Farnia Lolli Simone braccianteAl Piano della Farnia Lolli Marco muratoreAl Piano della Farnia Lolli Domenico pastoreAl Piano della Farnia Lolli Pellegrino pastoreAl Piano della Farnia Lolli Giovanni Antonio pastoreAl Piano della Farnia Lolli Simone pastoreAl Piano della Farnia Lolli Marco pastoreAl Piano della Farnia Lolli Domenico pastoreAl Piano della Farnia Lolli Felice pastoreAlle case di sotto Muzzarelli Domenico Antonio possidenteAlle case di sotto Muzzarelli Battista possidente

La Preda

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Casa Fuochi

Alle Pianchette Muzzarelli Francesco possidenteA cà di Golo Muzzarelli Pietro possidente……………….. Muzzarelli Clemente non scrittaAlla Castellaccia Muzzarelli Battista possidenteA casa di Picchiotto Muzzarelli Giuseppe possidenteA casa di Magagna Muzzarelli Giovachino possidenteAlla casa Nuova Muzzarelli Battista non scrittaA casa di Chiarinna Muzzarelli Pasquale di Battista bottaioAlla Castellaccia Muzzarelli Pasquale di Nicolò possidenteAlla Teggia Muzzarelli Giovanni pastoreAlla Teggia Muzzarelli Marco pastoreA casa de Bonucci Muzzarelli Giovanni pastoreAlle Caselle Monterastelli Giovanni pastoreAlle Caselle Monterastelli Giuseppe pastoreAlle Caselle Monterastelli Pietro possidenteAl Piano della Farnia Monterastelli Battista pastoreAlle Caselle Monterastelli Cesare pastoreAlle Caselle Monterastelli Giuseppe pastoreAlle Caselle Monterastelli Pasquale non scrittaAl Rio Orlandini Angelo muratoreAl Serino Poli Domenico non scritta

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In Valle Fredda Poli Giovanni Antonio pastoreIn Valle Fredda Torricelli Pasquale pastoreIn Valle Fredda Torricelli Pellegrino non scrittaIn Valle Fredda Torricelli Alessio non scrittaAlla Teggia Turchi Giovanni non scrittaAl Rio Turchi Maddalena non scrittaIn Valle Fredda Turchi Antonio bottaioAlla Piaggia Turchi Giovanni non scrittaInValle Fredda Turchi Domenico non scrittaAlla Castellaccia Turchi Innocente non scrittaAlle Coste Celeste vedova Tassoni Gio.Antonio non scrittaAlla Castellaccia Tassoni Luigi non scrittaAlla Castellaccia Tonini Giuseppe calzolaio………………. Serafini Serrafino calzolaio proveniente da Sestola

Ca’ Golo

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Testo della conferenza tenuta il 30 luglio 2009 nella chiesa di San Giuseppe di Fanano dal professor Fausto Renzi dell’Università per gli adulti “Bosi Maramotti” di Ravenna

Nel 1651, l’arcivescovo di Ravenna Torreggiani, in visita alla par-rocchia di Lavezzola, ordinava di scavare una fossa attorno al cimitero, all’epoca sulla pubblica via, per impedire alle greggi di profanare il sacro recinto dei defunti. Da un altro documento, sappiamo che il parroco di Co-digoro, una località sul Po di Volano non lontana dall’abbazia di Pomposa, il 17 gennaio 1707 stilava l’atto di sepoltura di Domenico Monari, origina-rio della “Terra Fanani Status Mutine”, e certamente un pastore come si evince dal cognome e dalla provenienza. Nel 1755 il parroco di San Biagio d’Argenta, don Pellegrino Monti, rispondendo ad un questionario diocesa-no, informava il suo vescovo della presenza in paese di sette pastori

“che annualmente arrivano a novembre e partono a maggio, adempiendo in questa parrocchia al precetto della Pasqua”.

UOMINI E PECOREDA SERRAZZONE E DA FANANO

ALLA PIANURA ROMAgNOLA E AL DELTA DEL POdi Fausto Renzi

17 gennaio 1707. Atto di sepoltura di Domenico Monari (Archivio parrocchiale di Codigoro)

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Ancora: il 14 aprile 1772, a Campotto, un insediamento di quattro capanne circondato da una vasta palude, don Guido Ferri, sacerdote di San Nicolò di Argenta, teneva a battesimo Maria Diana Fiocchi, di Pietro e Caterina Bernardi coniugi di Rocca Corneta. Di nuovo a Lavezzola, il 20 ottobre 1799, il parroco don Michele Azzaroli registrava l’atto di sepoltura di un giovane e anonimo pastore di Fanano, del quale

“non è comparso peranco il padre vivente a dare il nome e co-gnome del defunto”.

La presenza di allevatori itineranti con il loro seguito di armenti nelle pianure ferraresi e ravennati è con ogni probabilità certamente più antica di quanto certificano queste testimonianze.

La transumanza dal Frignano verso il delta padano risale almeno al medioevo ma conobbe un certo sviluppo soltanto dopo il Quattrocento, fa-vorita sia dai disboscamenti dell’Appennino che dalle concessioni ai pasto-ri, da parte degli Estensi, di agevolazioni (esenzioni da dazi e gabelle) per consentire alle greggi di svernare nel Ferrarese. Peraltro, notizie simili a quelle Sei-Settecentesche, poco fa riportate, si infittiscono nel secolo succes-sivo e sembrano rivelare un incremento del fenomeno della transumanza.

Il 31 agosto 1841 Pasquale Bonfilioli, un pastore proveniente da Ser-razzone, una borgata del comune di Fanano, giungeva a Conselice, un paese della bassa pianura romagnola all’epoca appartenente alla lega-zione di Ferrara. Dopo quasi due settimane di viaggio, con alcuni garzoni al seguito, il pastore fananese aveva percorso circa 150 chilometri, con-ducendo un gregge di mille pecore, insieme a 15 cavalli e 4 asini. Arrivato ai confini del territorio conselicese dovette però vedersela con le guardie campestri e il veterinario del posto, preposti al controllo degli animali fo-restieri a scopo di tutela sanitaria del patrimonio zootecnico locale. Erano infatti assai diffuse e temutissime all’epoca epidemie come le afte epizoo-tiche e altre infezioni contagiose che non di rado falcidiavano il bestiame autoctono, all’epoca una risorsa di assoluto rilevo vitale per la collettività.

Egli consegnava dunque ai pubblici ufficiali una fede di sanità, rila-sciata dal comune di provenienza. Quel documento, che portava la data del 17 agosto, il timbro del comune di Fanano e la firma del sindaco, cer-tificava che il pastore

“parte da questo capoluogo per trasferirsi nel ferrarese onde governare il sottocitato bestiame, scevro da qualunque morbo epidemico e segnatamente dalla cosiddetta epizozia”.

Indispensabile passaporto per far transitare il gregge da un territorio comunale all’altro, una volta pagata una tassa di soggiorno, quel docu-

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mento sarebbe stato restituito al pastore prima della partenza da Con-selice. Quel “passaporto”, insieme a numerosi altri, è stato ritrovato fra i carteggi amministrativi dell’archivio storico di Conselice e Pasquale Bonfi-lioli forse non avrebbe mai immaginato che quel pezzo di carta si sarebbe trasformato in una preziosa testimonianza storica e che ora siamo qui a parlare di lui.

Sempre da quelle carte, sappiamo oltretutto che il pastore fananese sarebbe ripassato da Conselice nel settembre del 1843 con 834 capi ovini, e poi ancora nel 1844 con 650 capi ovini, 9 cavalli e 5 asini, e di nuovo un anno dopo ancora con 700 pecore, 20 agnelli, 20 cavalli e un asino.

Naturalmente il nostro pastore era uno dei tanti: il suo caso è emble-matico per chi intende studiare la transumanza nella regione emiliano romagnola nella prima metà dell’Ottocento, quella di cui disponiamo di fonti abbastanza ricche, e segnatamente le 44 fedi di sanità, redatte tra il 1808 e il 1846, conservate presso l‘Archivio storico comunale di Conseli-ce. Si tratta di un corpus di testimonianze scritte che consentono di rico-struire aspetti importanti delle transumanze tra l’alto Frignano e la vasta regione del delta padano. Conselice, insieme alla vicina Argenta, era la porta d’ingresso verso quella grande area della bassa pianura ravennate e ferrarese, tra il Po e il basso corso del Reno, un fiume che qualche de-cennio prima grandi opere di bonifica avevano immesso nello stesso alveo dell’antico Po di Primaro.

Le fedi sanitarie, pur nella loro scarna e telegrafica brevità, forni-scono preziose informazioni su alcuni aspetti della transumanza, come a) la provenienza dei pastori e la loro identità anagrafica; b) il periodo di permanenza a Conselice; c) le loro successive destinazioni; d) la composi-zione e la consistenza degli armenti.

Per cominciare, il quadro che risulta suddividendo le 44 fedi di sani-tà in base alla provenienza, mostra la seguente ripartizione: Serrazzone 13 (Benassi, Bondi, Bonfilioli), Fanano 8 (Bellettini, Benassi, Lolli, Pedro-ni, Ranieri), Lizzano in Belvedere 7 (Bernardini, Dagl’Antoni, Marcucci, Farneti, Fiocchi, Polmonari), Rocca Corneta 5 (Castelli, Fondaroli, Vighi), Gaggio Montano 4 (Cioni, Filipalli, Margelli), Granaglione 2 (Macionselli, Tombelli), Vidiciatico 2 (Cioni), Ospitale 1, Sestola 1 (Danesi), Sant’Anna Pelago 1 (Ori). Questa serie di località delinea con una certa precisione un’area, ovvero l’alto appennino bolognese e modenese, e segnatamente l’areale tra il monte Cimone e del Corno alle Scale, ovvero quella porzione di appennino tosco-emiliano che raggiunge la massima altitudine, supe-rando i 2000 m slm (una fascia altimetrica oltre la linea dei faggeti, ricca di pascoli estivi). Da quei paesi, peraltro, le transumanze annuali pren-devano non una ma due direzioni: di fatto, se tutti gli armenti in arrivo a Conselice provenivano dal Frignano (e dal Bolognese), non tutti i pastori

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di quelle zone si trasferivano nella pianura romagnola, poiché, come è noto, non pochi di loro conducevano le loro greggi a svernare lungo il ver-sante tirrenico, nella Maremma. Dall’autunno alla primavera, il soggiorno dei pastori in pianura durava circa 8 mesi, un arco di tempo, anch’esso “itinerante”, e dunque trascorso in varie località.

A Conselice la permanenza oscillava da un massimo di 5 mesi, ovvero da agosto a gennaio, a un minimo di 2, limitandosi ai mesi di settem-bre e ottobre. Ma vi capitavano greggi anche tra marzo e aprile, quelle che provenienti dal ravennate e dal ferrarese facevano tappa a Conselice durante il ritorno verso i pascoli estivi del Frignano. La permanenza in una data località era del resto spesso legata alla scadenza di permessi e a regolamenti comunali volti a tutelare le preziose risorse prative da uno sfruttamento indiscriminato.

Questo aspetto emerge in particolare – come attestano le carte ritro-vate in un altro archivio storico, quello del comune di Bagnacavallo – dalle richieste al gonfaloniere, nel 1842, dei pastori Durindo e Antonio Monari, Pasquale Cantelli, Luigi e Giovanni Corsini di prorogare le scadenze di permanenza di qualche giorno, oltre il termine ultimo del 25 marzo.

9 agosto 1840. Fede di sanità di Domenico Benassi di Serrazzone (Archivio storico comunale di Conselice).

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Ad ogni modo, il vantaggio che le comunità o i proprietari fondiari ottenevano nell’ospitare le greggi transumanti consisteva essenzialmente nella possibilità di “stabbiare”, “mandriare”, ovvero concimare i prati e altre colture con le deiezioni animali, come ad esempio i canapai, e ri-pulire i terreni dalla vegetazione indesiderabile. Inoltre, per i proprietari di terreni incolti e semiallagati, ricchi di prati naturali, era abbastanza conveniente dopotutto, affidarli a quei pastori in cambio di un canone in denaro o in natura. Era questo del resto il caso di Conselice, dove, diversamente dall’alta pianura romagnola più densamente popolata e ap-poderata, i prati vallivi e le paludi occupavano circa la metà del territorio comunale, una caratteristica ambientale, retaggio del passato, particolar-mente adatta agli armenti transumanti.

Riguardo invece alle destinazioni successive dei transumanti – tranne qualcuno che si trattenne a Conselice piuttosto a lungo, e precisamente nei fondi della prebenda parrocchiale di San Martino a “mandriare” i ca-napai dell’Arciprete Tarlazzi – quasi tutte le oltre 40 fedi di sanità indica-no le mete ulteriori dei pastori una volta terminato il soggiorno nel conse-licese: parte di loro si sarebbero diretti verso il cuore del delta padano, ad Ariano Polesine, a Santa Maria Codifiume e nel comune di Ferrara, men-tre altri si sarebbero spostati lungo il fiume Reno, fino alla zona costiera delle pinete ravennati. Di norma, i conduttori di un armento erano legati da vincoli parentali e succedeva spesso che giunti in pianura, una parte del gregge seguisse un itinerario diverso, per poi ricongiungersi all’altra qualche tempo dopo, prima di ripartire per la montagna. In pianura, lo spostamento di quelle greggi doveva poi seguire percorsi consueti, piste preferenziali, tanto che l’attuale toponomastica stradale ne conserva an-cora le tracce: ne sono esempi il “Passo pecore” nel comune di Medicina, “via della Pecora” a San Biagio d’Argenta, “via Pastorella”, a Voltana, nel-

Via Pecora, San Biagio d’Argenta (FE)

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la bassa lughese. Anche nella toponomastica fondiaria sono ravvisabili tracce come nel caso di “Schiappette” (da ‘schiappo’, ossia gregge), un sito della campagna conselicese.

Nelle fonti qui considerate, restano poi significativi i dati relativi alla consistenza delle greggi. Quello di mille capi condotti da Pasquale Bonfi-lioli nel 1841 era il più numeroso, un caso unico fra quelli segnalati nelle carte dell’archivio conselicese. Le cifre riportate dalle fedi di sanità evi-denziano una crescente consistenza numerica delle greggi: dai 70 capi di Giovanni Danesi nel 1822 si passava ai 300 di Giovanni Cioni nel 1825, ai 390 di Domenico Benassi nel 1829, ai 450 di Giovanni Polmonari nel 1835, ai 500, ancora dei Benassi nel 1840, ai 650 di Cipriano Tombelli da Granaglione nel 1839, infine, agli 843 capi del Bonfilioli nel 1843. I certificati sanitari precisano inoltre la tipologia del bestiame, annotando in primo luogo il numero degli agnelli, presenti in 15 casi su 44 e quello dei cavalli, presenti soprattutto al seguito delle greggi più consistenti. Non mancano gli asini, ma solo aggregati agli armenti più modesti. Sporadica resta invece la presenza dei montoni. Riguardo alle capre, infine, l’unico caso è quello dei fratelli Ranieri di Fanano che nel 1819 guidano un ar-mento di 50 capi.

Della transumanza durante il periodo qui considerato, le carte d’ar-chivio nulla ci dicono invece sull’itinerario seguito dai pastori dal monte al piano. Per colmare, almeno in parte, questa lacuna è dunque necessario ricorrere alle testimonianze orali.

Almo Pasquali, studioso di storia e di tradizioni fananesi, molti anni fa ha raccolto la memoria di Fabio Benassi (poi pubblicata nel 1999 in E pôver Pantalùn), un pastore di Serrazzone negli anni Venti del secolo scorso. Stando a questa ricostruzione, gli oltre 150 km della discesa al piano si coprivano in 6 giorni e toccavano le seguenti località: Fanano, Canevaro-Montespecchio, Pradole, Rivabello, Tretorri, Corticella, Sab-biuno, Altedo, San Gabriele, Santa Maria Codifiume, Argenta. Il viaggio avveniva in buona parte nella provincia bolognese, lungo la direttrice del fiume Reno – e possiamo immaginare un viaggio non molto dissimile per i pastori che giungevano a Conselice nel primo Ottocento – anche se non sono da escludere in tempi più remoti piste erbose alternative (mulattiere, torrenti, fiumi, argini, golene) o itinerari più spostati verso est, lungo la di-rettrice della via San Vitale. Tra una tappa e l’altra i pastori trovavano una sistemazione presso proprietari del luogo, che fornivano il pernottamento in cambio di latte e formaggio. Prodotti caseari, agnelli e lana venivano poi barattati o venduti nei mercati settimanali dei paesi di pianura per ottenere grano, granoturco e sale, dando luogo ad un vero e proprio scam-bio alimentare tra pianura e montagna: nel 1764 il “Formaggio di monte secco” era in vendita nelle pizzicherie della terra di Conselice; nel 1810, il

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pizzicagnolo di Lavezzola offriva analoghe specialità casearie provenienti dall’appennino: “formaggio di monte”, “forma dura da pastore”, “forma passa da pastore”.

L’abbondanza di fonti del primo Ottocento (le fedi di sanità), almeno per Conselice, viene drasticamente meno nei decenni successivi mentre in quelle bagnacavallesi non è raro imbattersi in carte di pastori fananesi che chiedevano di prolungare la loro permanenza nelle praterie di quel comu-ne. Per Conselice l’unica notizia è contenuta nella relazione sull’inchiesta agraria del 1879 (la celebre inchiesta Jacini) che parla di circa 5000 pecore transumanti oggi anno, un numero di capi di gran lunga superiore agli ovini autoctoni, ad allevamento stanziale, che, stando ai censimenti del bestiame postunitari, a Conselice non superavano le 500 unità.

Riguardo alla pastorizia non c’è dunque dubbio che le differenze tra pianura e montagna restassero assai nette. Basti pensare che nel 1875, a Fanano, 150 chilometri più a monte, il patrimonio delle greggi transu-manti ammontava a 33 mila capi; e che, nello stesso periodo, la piccola parrocchia montana di Fellicarolo contava 40 famiglie di pastori equiva-lenti ad oltre un quinto della popolazione, mentre a Conselice i pastori di professione si contavano a mala pena sulle dita di una mano.

Eppure, in pianura le premesse del lento declino della transuman-za erano già in atto, dopo l’unità d’Italia. La risicoltura, che a Conselice toccava il suo apice negli anni postunitari, sottraeva di fatto molte aree pascolive alle greggi transumanti; un analogo effetto ebbero inoltre le bo-nifiche avviate sistematicamente un po’ ovunque nel XX secolo. Con lo sviluppo dell’agricoltura in zone da secoli occupate dagli incolti, e l’affer-marsi di moderi sistemi di fertilizzazione, la presenza di greggi forestiere poteva del resto apparire incompatibile, anche se il fenomeno sopravvisse fino al secondo dopoguerra, grazie ai sia pure sempre più esili residui prativi. Si può dunque affermare che il fenomeno della transumanza sia cessato con la progressiva scomparsa delle condizioni ambientali che per secoli lo hanno reso possibile.

Resta comunque il fatto che i viaggi di Pasquale Bonfilioli e dei suoi conterranei allevatori di pecore, incarnando una pratica zootecnica an-tica di secoli, hanno rappresentato il principale interscambio fra le genti di pianura e quelle di montagna, un aspetto rilevante della nostra storia regionale degno di essere indagato e raccontato.

Fonti

Archivio storico comunale di ConseliceArchivio storico comunale di Bagnacavallo Archivio parrocchiale di Codigoro

Archivio parrocchiale di Lavezzola Archivio Diocesano di Ravenna Archivio parrocchiale di Fanano

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A Serrazzone c’è una località chiamata “I Salaroli” e non tutti sanno da dove deriva questo nome. La mia nonna, vissuta tra il 1884 e il 1971 mi ha sempre raccontato la seguente storia.

Fino a 60-70 anni fa, a Serrazzone Alto c’erano molti pastori che in settembre emigravano in pianura a piedi, con il loro gregge, per ritornare in montagna a maggio, con l’arrivo della bella stagione. Percorrevano la strada che si chiama ancora oggi Via dei Pastori. Il viaggio era lungo e faticoso, secondo le abitudini. Ebbene, lungo la strada che oggi da Serraz-zone va a Trignano, a un certo puto c’era una “masèra” (termine dialettale che significa mucchio di sassi) con delle grosse pietre che si prestavano molto bene per dare il sale alle pecore, le quali potevano leccarlo fino all’ultimo granellino senza sprecare nemmeno un grammo. In quel luogo i pastori di Serrazzone Alto si fermavano appunto per riposarsi un po’ e gratificare, con il sale, il loro gregge. Le pecore, infatti, sono ghiotte di sale e dopo averlo leccato avvertono una gran sete, così poi bevono molta acqua e fanno più latte. Da sale è derivato poi il nome “I Salaroli” che significa luogo in cui si dava il sale alle pecore. Nello stesso luogo, di re-cente, è stata costruita una “Maestà” dedicata alla madonna e denominata Madonna dei Salaroli.

Oggi la “masèra” e le grosse pietre sono scomparse e delle pecore in giro non se ne vedono più, anche perché con l’arrivo dei lupi non potreb-bero sopravvivere.

Nota aggiuntivadi Alda Poli

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Anni fa e precisamente negli anni ‘70, ‘80 e oltre del secolo scorso, in un gruppo di “giovani” fananesi compivamo escursioni nelle nostre montagne, in inverno con gli sci in prevalenza sui crinali, e nella buona stagione, a piedi, naturalmente, sul medio Appennino, approfittando delle vacanze per festività civili e religiose, (San Giuseppe, Lunedì di Pasqua, anniversario della Repubblica, ecc.).

Delle escursioni invernali ho già scritto in altre occasioni1, e in questa parlerò di una “gita” degli anni ‘70 sui monti di Trignano e Serrazzone.

Appassionato e cultore degli avvenimenti bellici degli anni 1944/45 che interessarono direttamente il nostro Fanano, proposi il percorso che da Trignano porta al Pizzo di Campiano, Monte Cappel Buso, Monte Ser-rasiccia, Pratignana, in breve “La Riva”, e per gli storici della Linea Gotica, Linea Verde o “Riva Ridge”. Chiarisco subito che parlerò anche di assalti, contrattacchi, cannonate, morti, feriti e prigionieri, ecc. ma in prevalenza di località, boschi, metati, mulattiere e sentieri e “viandare”.

Era un due giugno degli anni ‘70, festa della Repubblica, come detto all’inizio: ci ritrovammo in piazza di sotto, io, Almo Pasquali, Ezio Sar-genti, Gottardo Turchi e Mario Dinelli, da me sollecitato a partecipare per-chè partigiano che aveva combattuto in quei luoghi. Mezzo di trasporto, la Fiat 1100 di Almo, ove facemmo posto anche a Fero, cane da lepre di Almo cacciatore: destinazione la Chiesa di Trignano.

All’arrivo, dopo una panoramica sul percorso che avremmo dovuto affrontare ed un saluto ad alcuni conoscenti abitanti del luogo, zaino in spalla e bastoni alla mano, scendemmo al metato del prete, percorremmo la mulattiera che attraversa il castagneto ancora ben tenuto raggiungendo il metato dei Castelli, con a lato il “rusco”, la pula delle castagne dell’anno precedente; più avanti, all’inizio della lunga e impegnativa salita al Pizzo, i Due Metati.

Coraggio e passo da montanari! Dopo un certo tratto si incontra un bivio: sentiero a sinistra che porta alle miniere e metati di Rocca Corneta con dopo un breve tratto la nota sorgente “desmozz”, di cui non si riesce

CAPPEL BUSO E DINTORNIdi Alfonso Pasquali

1 Si veda, ad esempio, su questa stessa rivista, l’articolo “Lunedì di Pasqua”

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a individuare l’origine del nome e che meriterebbe uno studio idro-geo-logico particolare; noi seguiamo il percorso di destra in forte salita attra-versando castagneti, raggiungendo il metato “ed Giurgiun” o “d l’Albina” ancora in discrete condizioni ed anche qua con il “rusco” di lavorazione delle castagne essiccate. Più avanti raggiungiamo un pianello dove si in-travvede tra le piante il metato “dei Muzzarelli”, anche questo in discrete condizioni: il sentiero si biforca e a sinistra si va nel bolognese e precisa-mente al castagneto e metato “ed Birun”. Noi avanti per l’ultimo tratto in aspra salita, fiancheggiato sulla destra da strati di roccia, sfruttati dalle truppe tedesche come rifugi a riparo dei tiri dell’artiglieria alleata: eccoci in cima al Pizzo di Campiano (per i bolognesi di Campovecchio).

Il vasto panorama ci compensa della fatica: il bosco allora era ancora rado e parte delle piante non avevano le foglie e così ci mostrava la valle del Dardagna, dal Corno al Belvedere, in tutta la sua ampiezza. Il Pizzo di Campiano fu teatro di sanguinosi combattimenti tra tedeschi e americani con attacchi e contrattacchi con molti morti e feriti da entrambe le parti, causati anche dal “tiro amico” dell’artiglieria, soprattutto di quella alleata che disponeva di pezzi e proiettili in abbondanza; leggevo che anche il comandante del 1044° Rgt. Tedesco, tenente colonnello, partecipò ai con-trattacchi con i suoi soldati; comunque dopo alcuni giorni restò nelle salde mani dei soldati USA.

Nel dopo guerra e precisamente nel 1949, si procedette all’esuma-zione dei caduti tedeschi e in zona ne furono recuperati una quaranti-na. Gli americani, i loro, li portavano via subito appena lo consentivano

Dal Pratignano: Cima Tauffi, Monte Lancio e, sullo sfondo, il Monte Cimone

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le operazioni. Vi ho detto del panorama, i tedeschi da questi osservatori individuavano i nemici e con la loro artiglieria molestavano in modo or-mai intollerabile, la vita e le attività, anche in vista dell’attacco finale di primavera, degli alleati. Erano ancora evidenti i resti delle postazioni, i camminamenti, i rifugi, dei fanti tedeschi.

Dopo una buona sosta con relativi commenti e considerazioni che non riguardavano solo la guerra, ma anche il tipo di vegetazione, i castagneti e i metati ormai abbandonati, affrontiamo la salita per Cappel Buso, nota cima non solo per la guerra, ma anche per la strada che collegava, e col-lega ancora, Serrazzone-Trignano ai Pianacci, Farnè ed altre importanti borgate della Riva bolognese: anche qua sosta con commenti. Il nome di questa cima, sembra derivi, come affermava l’Avv. Giorgio Filippi, Massa-ro del Rugletto dei Belvederiani, da un antico castello o torre, abbandona-ta e diruta, con qualche finestra o feritoia rimasta e quindi castello bucato o buso; permettemi che abbia qualche dubbio! E poiché avevamo con noi Mario che fu partigiano combattente e decorato e che nel 1944/45 si era trovato in zona, egli ci descrisse alcuni avvenimenti cui partecipò insieme ai commilitoni di Fanano. Andammo a visitare i resti di un “bunker”, rifu-gio dei tedeschi, sui rovesci della linea, collegato alle postazioni di crinale, da camminamenti a quel tempo certamente coperti, che permettevano di accorrere nella trincea su allarme, con sicurezza.

Sempre camminando e sostando ogni tanto ad osservare il panorama ad est e ovest, ricordavamo che queste zone erano sfruttate come pascolo per le greggi, numerose anche a Serrazzone, che davano un reddito suffi-ciente per vivere, con le castagne, agli abitanti di questa frazione.

Raggiungemmo il luogo chiamato “Maestà del Capitano”, notissima “posta” dei cacciatori di lepri e conosciuta direi in tutto il Comune e non solo. Accennerò brevemente alla storia di questa maestà realizzata non secondo i modelli nostrani, ma una cappelletta vera e propria per dare riparo al viandante, al pastore, al boscaiolo. Me la raccontava qualche anno fa, Fabio Benassi, discendente del Capitano Benassi, ex ufficiale dell’Armata francese di Napoleone (L’Armée) che aveva partecipato tra le altre alla campagna di Russia e che, seppur marginalmente, era stato interessato con un gruppo di fananesi, alla congiura contro Francesco IV del 1831. Mi raccontava appunto Fabio che questo suo antenato per rin-graziare la Madonna di aver avuto salva la vita nella lunga e pericolosa carriera militare, costruì nella parte alta di Serrazzone a ridosso della Riva una cappelletta a forma rettangolare, coperta a piagne, con sul fondo la nicchia in cornici di sasso lavorate e, al suo interno, l’immagine sacra e a ridosso dei muri laterali dei sedili per riposare, pregare e conversare. Dopo la morte del Capitano, si cominciò a sospettare che sotto il piccolo fabbricato sacro, fosse stato nascosto un tesoro (allora i sospetti di tesori

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nascosti, le pignatte, si riferivano a diversi luoghi) essendo nota la ric-chezza posseduta dall’interessato. E così si cominciò a scavare intorno, poi all’interno, sempre con esiti negativi; e allora, successivamente, si tolse qualche pietra della muratura e via......... fino a quando della cap-pelletta o maestà del Capitano, rimase una “mascera” cioè un mucchio disordinato di pietre. E ciò fin dai primi anni del 1900! Vi dirò infine che dietro mia insistenza, un giorno di bel tempo, l’amico Fabio ci portò sul posto, io e Almo, a “toccare con mano” la tanto nominata “maestà”. E così conversando e commentando si parlò anche del “Manganello”, ubicato a valle, vasto prato con casello, nel quale saliva nella buona stagione Gu-glielmo Muzzarelli e la moglie Umiltà (una Corsini della Poscione di Fel-licarolo), coltivato in parte a patate e grano “marzuolo”. Allora, al tempo della nostra gita, un bel prato, pulito e senza cespugli di alcun genere, con il casello circondato da alcune piante di conifere.

Ma torniamo alla nostra escursione: anche questa zona fu teatro di aspri e sanguinosi combattimenti, con conquista e perdita, anche più volte della posizione. Dal verbale di recupero dei caduti tedeschi, ne risultano esumati sei, proprio intorno alla “mascera” della maestà”. Ancora ben evi-denti i resti delle postazioni e dei rifugi sui rovesci della linea, che dopo essere stati conquistati dagli americani, furono rivoltati con fronte da est a ovest. I tedeschi raccontano che avendo all’inizio del contrattacco sorpreso i difensori avversari costringendoli a ritirarsi, trovarono le postazioni rifor-nite abbondantemente, oltre che di munizioni e bombe a mano, di viveri come scatolette, cioccolata, sigarette, fornelletti a benzina da trincea, ecc. portandoli via almeno in parte dopo il ritorno offensivo avversario.

Ma a chi, in questa gita, avranno teso l’agguato gli amici Alfonso (Pasquali), Gottardo (Turchi), Almo (Pasquali) ed Ezio (Sargenti)?

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Dopo una sosta per rifocillarci sotto “l’ombrello” di un pino silvestre, affrontiamo l’ultima salita per il Monte Serrasiccia, cima aspramente con-tesa per la sua importanza. Da qua, a quel tempo, si intravvedevano ad est al di sotto della cima, ancora i resti della borgata, disabitata, facente parte del territorio belvederiano, che aveva dato il nome alla cima (o viceversa): nessun resto di apprestamenti difensivi, perché? Perchè gli esperti difen-sori, le postazioni le costruivano in posti defilati, ai fianchi, per sfuggire ai tiri dell’artiglieria. In anni successivi vi furono installati ripetitori tele-fonici, successivamente spostati a valle; e ultimamente, un monumento in struttura metallica, a ricordo dei soldati brasiliani, cui, dopo la conquista americana, fu assegnato il presidio e la difesa unitamente ai partigiani italiani di “Armando”. In questa occasione Mario ci parlò di questi commi-litoni, simpatici e generosi, che si comportavano da veri camerati “comra-des”. Dopo aver sostato sulla cima più alta della nostra gita, con scatto di foto e ammirato ancora una volta, il vasto panorama, imbocchiamo il sen-tiero, all’inizio non molto agevole, che ci conduce in Pratignana e al lago.

Altra sosta prolungata con consumazione dei resti del contenuto degli zaini, compreso il vino, naturalmente, e c’è chi “schiaccia” anche un piso-lino. Il lago è in buone condizioni per il recente scioglimento dei nevai nel-la prateria a sud, canne e altri vegetali non erano così invadenti come oggi e si commentano eventuali iniziative per sfruttare turisticamente questa interessante zona anche in campo naturalistico.

Si riparte per la lunga discesa percorrendo le vecchie mulattiere an-cora in buone condizioni, fino alla chiesa di Serrazzone dove troviamo chi ci porterà a Fanano e, Almo a Trignano a recuperare la sua auto.

Il lago Pratignano, qualche decennio fa, quando era ancora un lago e non una (più o meno prossima) torbiera

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Nel numero 7 di Fanano fra storia e poesia (luglio 2000) fu pubblicato un bell’articolo dal titolo Alfonso Bossetti: “piangian” modenese venuto dal “futuro” nell’antica terra di Fanano. In poche pagine si accennava alla complessa personalità di questo protagonista della cultura modenese fra le due guerre (soprattutto nell’ambiente futurista) che poi,“ufficialmente il 4 settembre 1979”, divenne “montanaro” a tempo pieno (in particolare, fellicarolese). A conclusione dell’articolo, l’autore, l’architetto Giovanni Capucci – strettamente legato al Bossetti da vincoli culturali, di amicizia e di parentela – prometteva di continuare a studiare le tantissime carte del Bossetti in suo possesso, per recuperare in particolare tutto quanto da lui dedicato al suo paese di adozione (Fanano). Da questo studio è così nato un sostanzioso articolo che l’amico (e nostro socio) Giovanni Capucci ci ha gentilmente proposto per la nostra rivista; poiché, tuttavia, in queste ricerche erano emersi anche degli scheletrici appunti di Alfonso Bossetti per un proprio articolo su Serrazzone (mai poi scritto, a quanto pare), dietro nostra richiesta, Giovanni si è rimesso al lavoro e, da ottimo architetto qual è, da quelle poche basi ha “costruito” l’articolo che il Bossetti non ha mai avuto modo di redigere. Lo pubblichiamo qui di seguito, ringraziando l’autore (o coautore) Capucci e scusandoci se, a questo punto, siamo costretti a rinviare al prossimo numero della rivista la pubblicazione dell’altro articolo che ci era stato proposto e che, come si legge nelle prime righe qui riprodotte, avrebbe logicamente dovuto precedere quello di Serrazzone.

Premessa

Concludendo il profilo di Alfonso Bossetti (il modenese che si era fatto montanaro) abbiamo finito per affermare che forse è stato davvero un se-gno del destino il ritrovamento di alcuni appunti scovati tra le sue carte e riguardanti la frazione di Serrazzone.Forse era destino che qualcun altro, il sottoscritto, anche lui modenese (in verità solo d’adozione, perché di sangue romagnolo e toscano per na-scita, in un paesino del versante pistoiese, non lontano dal crinale fana-nese), anche lui definitivamente tornato sui monti per avvicinarsi al cielo, scoprisse quegli spunti, come una sorte di benedizione quasi paterna, anche per l’ultima scelta di vita.Di qui il pensiero di chiudere il contributo ad memoriam, con la trascri-zione di quegli spunti di cinquant’anni fa, forse neppure troppo rivelatori del mondo di allora nella frazione in questione.

QUALCOSA DI SERRAZZONEdi Giovanni Capucci

su appunti di Alfonso Bossetti

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Abbiamo finito invece per considerarli come il passaggio del testimone, nel viaggio che entrambi (tra l’altro legati da un vincolo di parentela, essendo egli zio della citata nipote Maria Silvia, che ho avuto la ventura di prendere in moglie) abbiamo intrapreso, con aspetti reciprocamente similari, ovvero la passione per la poesia e la scrittura (anche giorna-listica, visto che negli anni ho scritto ed anche ora continuo a scrivere sui giornali, per la precisione, di argomenti di architettura e dintorni, comunque molto spesso collegati a situazioni specifiche della montagna modenese e di quel benedetto paese che si chiama Fellicarolo) e l’amore per gli stessi luoghi montani.È a quei pochi appunti che cercheremo di rifarci per tracciare “qualcosa di Serrazzone”.

Giovanni Capucci

Quanto si vede oggi arrivando a Serrazzone, a dire il vero, non credia-mo sia proprio quello che forse aveva incontrato, probabilmente sul finire del 1955, Alfonso Bossetti.

L’abitato attuale appare sfrangiato e oggettivamente non sembra resti molto di significativo della storia passata ; l’impressione è che, almeno nel nucleo centrale, si tratti di un agglomerato di case senza grandi caratte-ristiche.

Eppure, come annota Alfonso Bossetti, la frazione, al pari di quella di Trignano, è una località antica, anch’essa sulla via Romea: tutte e due quindi erano importanti perché successive alla fondazione del monastero di Fanano, ad opera di S.Anselmo, nel 749, e si incontravano salendo dai luoghi di pianura nonantolani e dalle colline tagliate dal fiume Panaro, oltre che provenendo dal versante di Lizzano in Belvedere.

Forse anche esse, affacciate sul torrente Leo, erano postazioni di frontiera, come la bolognese Rocca Corneta, a loro modo fortificate e a guardia delle alture circostanti.

Certamente in queste zone c’erano dei feudatari. Per Trignano ricorre il nome del casato dei Magnani, quello dei Paggiari per Sarrazona, sicu-ramente uno dei nomi nel tempo passato di Serrazzone. Da dove viene il toponimo? “Serra” è parola che, come le derivazioni quali serretta o ser-retto (di luoghi cosi denominati ce ne sono diversi nel nostro territorio), dovrebbe indicare un posto riparato, un poggio o uno sperone, da cui si dominano aree poste più in basso da tenere sotto controllo.

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In ogni caso queste frazioni fananesi erano raggiungibili facilmente, perché qui, avendo alle spalle, in particolare Serrazzone, pendii di una certa altezza, siamo poco al di sopra dei 600 metri, quindi esse non erano così isolate rispetto alle frazioni alte come Ospitale o Fellicarolo e, conse-guentemente, avevano una economia aperta agli scambi con il retroterra circostante e con le zone pedemontane, caratterizzata da attività collegate all’allevamento e al seminativo, ossia alla coltivazione del frumento, alla preparazione del fieno,...

Percorrendo l’attuale strada che, dai Ponti, porta a Serrazzone e, pro-seguendo, a Trignano, mentre, girando sulla destra dopo la Chiesa, si sfiorano alcune località e si sale verso il Lago di Pratignano, guardandosi attorno si intuisce che le costruzioni erano, quasi sicuramente sino agli anni del dopoguerra, quelle tradizionali in pietra o sassi di fiume, accor-pate in piccoli complessi abitativi e di servizio, alcune non lontane dalla chiesa, altre sparpagliate lungo i tracciati principali.

A proposito della Chiesa, nel foglietto di Alfonso Bossetti, non c’è cen-no, né di quando fosse né delle caratteristiche esterne o interne né della sua dedicazione alla Natività di Maria S.S. Il piccolo edificio attuale a noi sembra databile indicativamente attorno agli anni ‘60, per via della sua forma, della tipologia dei materiali (blocchi di pietra squadrati e legno) e di alcuni dettagli (come le asole vetrate tra muro in elevazione e il pia-no inclinato del tetto a due falde) riscontrabili in altri edifici ecclesiali analoghi della nostra montagna appenninica. Sicuramente è stato impo-stato sull’impianto della chiesa preesistente, altrettanto semplice nella sua struttura e con caratteri non dissimili da quelli che si vedono nella piazzetta di Trignano, con la chiesa legata al fabbricato contiguo corri-spondente alla canonica e con, affiancato, il massiccio campanile a base quadrata concluso dalla cuspide poligonale.

Queste sono state le prime considerazioni scaturite da una nostra recente visita a Serrazzone. In seguito, per la gentile disponibilità della signora Giovanna Rocchi, che ultimamente si occupa del riordino degli archivi parrocchiali di Fanano e delle sue frazioni, siamo riusciti a trovare qualche notizia. Ci sono atti originali datati 1616-1621, con la registrazio-ne del dono di terre da parte di abitanti di Serrazzone e del raggruppa-mento di altri che chiedono la costituzione di Serrazzone in parrocchia, divenuto tale i primi giorni di luglio del 1621, primo Rettore Don Marcan-tonio Rota.

In effetti la chiesa era stata edificata agli inizi del ’600. Della chiesa, abbiamo trovato una semplice pianta in un capitolo della Storia della Par-rocchia della Natività B.V. manoscritta dal Rettore Don Antonio Martinelli fananese (1725), tra l’altro ricca di diversi capitoli, una dozzina e forse più, che trattano dei Confini della Parrocchia, dell’obbligo che hanno i

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parrocchiani per il mantenimento della Chiesa, della canonica, delle Se-polture, Sedili, Banchi, Altari e Reliquie di questa chiesa, di altro ancora. Si tratta certamente di un documento molto importante, utilissimo agli studiosi di storia locale a ricostruire lo stato delle cose. Nella pianta, ad esempio, sono indicati l’altare, in corrispondenza dell’abside semicirco-lare, gli sfondi delle pareti laterali dedicati, da una parte, a S.Carlo e a S.Antonio, dall’altra, al Rosario, alla Cintura, al Battesimale, le sepolture sparse sotto il piano calpestabile e riferite agli appartenenti di una doz-zina di famiglie del luogo (Bonfiglioli, Lolli, Bacci, Muzzarelli, Bonucci, Tonini, Rossi, Munarini, ...).

Riferendoci al complesso parrocchiale nel suo insieme, aggiungiamo che la prima memoria legata alla Torre Campanaria sembra risalire allo stesso periodo dell’edificazione della chiesa. Per quanto riguarda la Torre (come del resto per la stessa Canonica), sappiamo che nelle ottocentesche memorie di Don Pietro Antonio Bonucci si racconta che nell’arco di tempo compreso fra il 1838 e il 1877, lo stato di quegli edifici non era dei miglio-ri, sicché si dovette provvedere al rifacimento. Gli esiti, sempre in merito alla Torre, non furono certamente straordinari, se, come si legge nel Bre-ve cenno di Serrazzone di Don Bartolomeo Monzali, rettore sino al 1914, nel 1894, su progetto dell’ingegnere Mazzetti di Montese, si dette inizio alla realizzazione di un nuovo campanile, che fu concluso nel 1903. Si tratta quindi del campanile che vediamo oggi, ripristinato completamente dopo il progetto di restauro conservativo e di consolidamento effettuato a cavallo della metà del primo decennio 2000. Altre notizie riguardanti la struttura parrocchiale e tutta la comunità si ritrovano anche nella breve storia di Serrazzone manoscritta di Don Baldini, corrispondente al quin-quennio successivo al dopoguerra: scopriamo che a Serrazzone Alto (Val di Fredda), attorno all’Oratorio di S.Rocco (che, non dobbiamo dimentica-re, è un edificio costruito nel XVII secolo), vivevano ben quaranta famiglie, che nel 1948 fu acquistato un armonium, che si mise mano alla strada nel tratto dai Ponti alla Chiesa di Serrazzone e a Monteluzzo. Tornando alla Chiesa nuova, cui accennavamo precedentemente, abbiamo trovato conferma della sua edificazione, inizi anni ‘60, anche da un quaderno in cui sono registrate le offerte del 1960-63, per la costruzione della stessa.

Per inciso, da tutto ciò si evince quante notizie sono reperibili negli archivi parrocchiali, dallo stato dei beni della Chiesa a quello delle anime, ma anche le le più disparate. Confessiamo la nostra tentazione di mettere il naso, uno di questi giorni, in una cartella che sul dorso per titolo ha “Poesie contro l’opera di Napoleone Bonaparte 1813 ...”. Significa davvero che il vento della storia era passato anche quassù.

Nei pressi della chiesa ora si stacca la carrabile asfaltata che porta al Lago di Pratignano, distante una dozzina di chilometri. Certamente,

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in origine, partiva proprio di lì il percorso che, affrontando un versante piuttosto ripido, sfiorava località come Monteluzzo, Val di Fredda, Pian della Farnia, per poi raggiungere Pratignano. Questa è certamente la più particolare emergenza ambientale e naturale del territorio, nota per la presenza nel suo habitat di una rara pianta carnivora (Alfonso, cui in-teressavano molto il mondo delle piante erboree ed officinali, l’avrebbe citata di acchito con il nome scientifico di Drosera Rotundifolia), ma ulti-mamente anche (lo aggiungiamo noi, come piccola notizia di cronaca) per una frana avvenuta nel corso del 2013.

Vuoi vedere che anche la presenza di quella pianta, in un modo o nell’altro, ha finito per generare qualcuna delle storie fantasiose che cir-colano nelle valli e sui monti nostri? Alfonso Bossetti di ciò fa un cenno, appuntando che a Fellicarolo si raccontava di fate, che, lungo il sentie-ro che scende alla Madonna del Ponte da Vasbedolla, c’è una roccia con “l’orma del diavolo”, che in uno stradello di Ospitale c’è una stele riferita ad un muratore, che tornando a casa ubriaco, vedeva strane figure che lo circondavano. Quanto al lago Scaffaiolo (il cui nome avrà pure una radice originaria longobarda come altri luoghi di quassù, per indicare una sorta di pianoro), pare che per i vecchi montanari fosse un sito che rimandava a possibili pericoli o alla paura, tanto è vero che per loro lì si aggirava un grande “zione”, che poi non era altro che una figura minacciosa.

Se le cose stavano così, non ci si stupisce che anche nelle terre di Serrazzone ci fossero dicerie strane, ovvero che, vicino ai pozzi isolati e sparsi qua e là, esistevano (e magari vi si riparavano, tanto grandi erano quei pozzi) figure leggendarie, pare dei giganti.

Proprio questi ultimi sono gli appunti conclusivi del foglietto mano-scritto di Alfonso Bossetti, chiaro segno di un interesse che andava oltre la pura e semplice ricognizione fisica del luogo, come se per lui quello che chiamiamo “genius loci” non fosse costituito solo dalle vecchie case di pietra, dai primi castagni della valle, dalle acque che scendono dall’alto, dagli animali nascosti nel bosco, ma proprio dalle atmosfere, più o meno misteriose, che si percepivano sfiorare i rami degli alberi o provenire dai cespugli o dai punti più remoti.

In effetti, attraversando queste zone, anche ora e a prima vista, si percepisce nettamente la piacevolezza intrinseca del paesaggio, in alcuni punti ancora naturale e senza tempo, ma pure una sua atmosfera silente, lontana, a suo modo effettivamente misteriosa.

Se questo pezzo, o articolo che dir si voglia, fosse stato redatto davve-ro cinquanta e passa anni fa, gli appunti di partenza sarebbero stati legati tra loro da Alfonso Bossetti, con la sua scrittura scorrevole, curiosa e mos-sa dallo stupore per le cose, per le persone, per i luoghi; forse sarebbero stati sviluppati con una maggiore precisione circa le caratteristiche del

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territorio, dei sentieri o percorsi che lo segnavano (Alfonso era, tra l’altro, un camminatore instancabile e di ciò c’è traccia, come detto altrove, nei suoi articoli, oltre che negli scatti fotografici che ha lasciato), degli inse-diamenti abitativi più datati e ancora mantenuti in condizioni di vivibilità. Letto oggi, quel resoconto probabilmente avrebbe consentito di percepire lo stato delle cose in quel decennio del dopo-guerra e, a noi, cioè al croni-sta di oggi, di valutare eventualmente i successivi cambiamenti avvenuti.

Noi confessiamo di esserci limitati in un certo senso al compito di scrivani, cercando di mettere in fila, nel modo più semplice e misurato possibile, le annotazioni ritrovate e, sulla base di queste e con l’aggiunta di qualche notizia, dando forma ad un racconto che i lettori, soprattutto quelli che vivono nella frazione, prenderanno come un modesto tentativo di rappresentazione del loro luogo di appartenenza e come traccia da col-legare alla propria memoria del luogo.

Se questa ricostruzione di “qualcosa di Serrazzone” è servita, ne sia-mo naturalmente felici, nel ricordo di un uomo (modenese) che si era fatto montanaro.

FONTANA DI CASA DEL VENTOdi Corrado Ferrari

Ho sentito la tua voce nelle mie mani,

fontana di Casa del Vento, che togli in eterno

la polvere dalle labbra.Nuota verdissimocome un bimbo

nella gioia di vivereil lucido crescione,

mentre danza nel profumodel finocchio selvatico

il fantasma di un pittore.Cadono intanto

dagli angeliche ti danno l’ombra

le prime foglie.Anche in Paradiso si muore.

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La chiesa nuova di Serrazzone è sicuramente bella, luminosa, spa-ziosa, il suo stile “alpino” si inserisce bene nell’ambiente di montagna, però... quella vecchia era ancora più bella. Pare che fosse del ‘500.

A documentare com’era esternamente c’è qualche bella storica foto, ma per quanto riguarda l’interno ho dovuto cercare a fondo nella memo-ria per riuscire a ricordare almeno i particolari più significativi, alcuni dei quali documentati, solo in parte, da vecchie sfuocate foto, scattate in occasione di qualche cerimonia religiosa.

Vi era un’unica navata, con ai lati due file di banchi, gli stessi che oggi sono nella chiesa nuova. L’altare era piuttosto imponente, di marmo chiaro e ai suoi lati vi erano due bellissime colonne, pure di marmo. Due archi mettevano in comunicazione la navata della chiesa con lo spazio che si trovava dietro all’altare ed erano chiusi da pesanti tendaggi di colore rosso scuro, ornati tutti intorno da decorazioni in stoffa e pizzi dorati. A destra dell’altare c’era la porta per accedere alla sacrestia. Una bellissima ba-

LA VECChIA ChIESA

E IL PARROCO DI SERRAZZONEdi Alda Poli

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laustra in ferro battuto delimitava la zona dell’altare. Davanti, a destra, c’erano l’organo e il fonte battesimale e a sinistra un grande quadro con l’immagine della Madonna, tutto circondato da una ghirlanda di fiori di carta colorata, come si usava allora e arricchito anche da qualche oggetti-no d’oro, come ex voto. In fondo a sinistra c’era il confessionale, lo stesso che esiste ancora oggi. Il pavimento era fatto di mattonelle a forma di rombo, di due colori alternati: grigio chiaro e rosso scuro.

Appoggiate ai muri della chiesa c’erano anche alcune decorazioni, come pannelli ondulati, in rilievo, forse realizzati in cartongesso, che però da lontano sembravano di marmo. Di fianco alla porta principale della chie-sa, a sinistra, c’era un’altra porticina che dava in una stanzetta dove si conservavano gli stendardi ed altri oggetti che servivano per le processioni.

Nella facciata principale sono ben visibili, in una foto, una finestrella quadrata e, sopra, un minuscolo finestrino rotondo. C’era poi un’altra porta laterale, proprio di fronte al vecchio ingresso della canonica che allora era staccata dalla chiesa ed era chiamata “l’uscio degli uomini” perché da lì entravano gli uomini, secondo una vecchia abitudine.

Come si intravede dalle foto, davanti alla chiesa c’era uno spazio ab-bastanza vasto e pianeggiante, molto amato dai bambini, perché lì, prima e dopo la scuola, prima e dopo la messa, potevano correre, saltare e gio-

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care liberamente: lo chiamavano il Pianello, anche se si poteva definire un castagneto, in quanto c’erano dei bellissimi castagni alcuni certamente se-colari, altri caratteristici, storti e contorti a causa dei venti che li avevano sferzati per tanti anni. Nei giorni di festa, dopo la funzione pomeridiana, a volte si ballava nel Pianello.

Il campanile era una vera opera d’arte, ma alla fine del secolo scorso era veramente mal ridotto. Da tempo se ne programmava il restauro e fi-nalmente negli anni 2004-2005 fu riportato agli antichi splendori. È emo-zionante per i Serrazzonesi sentire di nuovo suonare le campane, anche se purtroppo accade poche volte all’anno.

***

Non si può parlare della chiesa di Serrazzo-ne senza ricordare Don Paolo Foli, anche se chi l’ha conosciuto, sicuramente non potrà dimenti-carlo. La Parrocchia della Natività di Maria San-tissima di Serrazzone è Parrocchia autonoma dal 1443 ed ha sempre avuto un Parroco residente.

Nel 1913, circa 100 anni fa, gli abitanti di Serrazzone erano 753. La mancanza di servizi e di infrastrutture essenziali hanno determinato, dopo la seconda guerra mondiale, un vero esodo dalla zona. Solo nel 1954 la strada carrozzabile

ha raggiunto il centro della frazione e solo tra gli anni 60-70, per l’ope-rosità dei residenti, costituitisi in consorzi volontari, si realizzarono ac-quedotti, elettrodotti e strade interpoderali per raggiungere le zone più disagiate. Fu costruita la nuova chiesa parrocchiale, ebbe inizio la ristrut-turazione della canonica e fu progettato il restauro del campanile.

Don Paolo fu Parroco di Serrazzone per ben 50 anni: dal 1952 al 25-10-2002 quando scomparse improvvisamente, lasciando un gran vuo-to. Collaborò in tutti i modi alla realizzazione delle opere sopra elencate. Ricordo in particolare che nel 1960, quando stavano costruendo i baci-ni dell’acquedotto, Don Paolo era sempre presente: dirigeva, consigliava, zappava, “sbadilava”, trasportava cemento e materiale vario con la sua storica giardinetta di colore rosso scuro, targata MO 2 – 6716 e la sera tornava a casa infangato dalla testa ai piedi. Alla fine della messa e delle funzioni, la gente non aveva fretta di andarsene, ma aspettava di vederlo comparire sorridente sul sagrato della chiesa e lui si intratteneva col suo gregge. Per tutti aveva una parola buona, una battuta scherzosa, e per i bambini un complimento e una carezza.

Caro Don Paolo, quanto ci manchi!

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Pubblichiamo di seguito tre brevi contributi di “vita vissuta” a Serrazzone, la frazione di Fanano a cui è dedicata buona parte della presente rivista. Da nessuno di essi il lettore si aspetti testi di particolare valore letterario o di approfondimento storico (al quale è comunque dedicato ampio spazio in altre parti della rivista). Confidiamo, piuttosto, che egli apprezzi la loro spontanea genuinità e il loro fortissimo intento di trasmettere – con l’inevitabile nostalgia che da sempre accompagna questi ricordi – qualcosa che, al di là delle semplici vicende raccontate, rimanda a un mondo che in gran parte non c’è più, ma del quale è bello (e, secondo noi, anche doveroso) conservare qualche memoria.

RiCoRDi Di uN FANCiullodi Gioacchino Orlandini

Vorrei provare a descrivere la frazione di Serrazzone, il luogo dove sono nato e per diverso tempo ho vissuto, rinnovando e liberando sensazio-ni e ricordi di fanciullo, cercando di tratteggiare persone e luoghi di 60-70 anni fa, ricordi che rimarranno indelebili nella mia mente e nel mio cuore.

Ricorderò per primi i miei genitori che mi hanno voluto e generato in una modesta casa di campagna, dove mi hanno cresciuto con amore e orgoglio assieme a mio fratello, in una famiglia numerosa e patriarcale. La casa, denominata “La Piaggiola” vicino al fosso dei Gamberi, il fiume Leo e la via Porrettana, è situata in un vasto territorio incontaminato.

Qui ho conosciuto la felicità e la gioia di essere amato, ma ho speri-mentato anche l’ansia inconscia della guerra.

Cresco un po’ e comincio ad andare a scuola. Giorno dopo giorno, im-pegni e difficoltà, lungo percorso, strada impervia ed accidentata: quante volte la raccomandazione «Stai attento ad attraversare il fosso del Re! Non avvicinarti ai dirupi del Cinghio!».

Percorrevo la strada sempre da solo in quanto mio fratello più piccolo frequentava la scuola in un altro turno, diverso dal mio. La scuola era sta-ta ricavata in una ex-falegnameria, tuttavia era grande e ben illuminata: nell’ampia sala che costituiva la nostra aula troneggiava una grande stufa che riscaldava l’ambiente. Qui ho incontrato la maestra Pasqua Bondi, quasi arrivata al termine della sua missione di insegnante. Con enfasi

RICORDI DA SERRAZZONE

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posso ben dire “la mia maestra”, che non avrà fatto la storia di Serrazzo-ne, ma che certamente ha insegnato la storia e che mi ha insegnato con amore oltre la storia. Per lei ci sarà sempre un sentito ricordo e un fiore commemorativo.

Non posso non ricordare Don Paolo Foli, uomo e sacerdote, grande impegno per la sua gente, grande esempio di spiritualità. Lo ricordo oltre la mia fanciullezza: mi ha protetto, mi ha diretto, mi ha sposato. Pace a te, Don Paolo!

Ora cercherò di tratteggiare alcuni luoghi per me significativi. Ricordo con affetto il borgo della Castellaccia, dove è nata la mia mamma e dove andavo a raccogliere le castagne con i miei nonni. Ripenso alla magia del mulino: portavamo castagne secche e ne usciva farina bianca! Lungo il fosso del Re allora erano in funzione tre mulini.

Altro borgo che ricordo è Val di Fredda. Ci andavo da bambino con mia nonna. Oggi, ci ritorno ogni anno il 16 agosto per la festa di San Roc-co: ripercorro il grazioso borgo e sosto in preghiera nell’oratorio, recen-temente ristrutturato.

Vorrei ricordare anche Pratignana, con il suo splendido lago di allora ...ora per salvare un po’ di natura il lago sta morendo, forse sarà il miste-ro della Tana delle fate...

Da ultimo, il Pianello, nelle vicinanze della scuola e davanti alla chie-sa, al campanile maestoso e alla canonica. Qui si completava la spiritua-lità delle persone e la gioia dei ragazzi. Il tutto era completato ed attutito da grandi castagni secolari dove i bambini giocavano a nascondino e la gente si raccontava gli eventi delle varie borgate. Era anche il luogo in cui, in due precisi periodi dell’anno, maggio e ottobre, si poteva vedere la transumanza. Le greggi si fermavano a riposare, i pastori con cura sorve-gliavano il proprio gregge e con preoccupazione proteggevano anche noi ragazzi curiosi da qualche ariete bizzarro.

Ora tutto è cambiato, anche se per me rimane sempre come allora. Ora su quella piazza, su cui si affaccia sempre la chiesa e il campani-le completamente ristrutturati, non ci sono più tanti fanciulli e persone. Eppure, l’impulso e l’intuito religioso del nuovo parroco Don Michele ha prodotto quasi un miracolo in occasione della festa della Natività di Maria, patrona della frazione, l’8 settembre del 2013: tanta gente e in particolare tanti bambini presentati alla protezione di Maria Bambina.

In quel momento, ho provato una profonda emozione e commozione: ho cercato di immaginare come potrebbero essere ora i volti dei miei giovani amici di quando io ero bambino, perché pochi sono quelli che ora riesco saltuariamente ad incontrare.

Ma per quanto mi sia sforzato di immaginarli, ho rivisto soltanto i loro visi di fanciulli.

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Gli “ZuCCHERiNi” DEllA NoNNA sEVERiNADi sERRAZZoNE

di Alberto Orlandini

La nonna era un’ottima cuoca: tutti i suoi piatti erano cucinati con semplicità. Primi, secondi e dolci di nonna Severina erano delizia per il palato, e noi piccoli eravamo felicissimi quando potevamo pranzare da lei; ci piaceva molto anche poterla aiutare in cucina quando, finiti i lavori nei campi, si dedicava a prepararci qualche buona cosina...

La specialità della nonna erano i dolci, in particolare gli “zuccherini”, dolci montanari semplici e gustosi, indicati per tutte le feste, e soprattutto rigorosamente presenti sulle tavole dei commensali in tutti i matrimoni. Un dolce povero, che faceva sempre tanta gioia ritrovare alla fine di un pranzo, bianco come le spose, simbolo di abbondanza, di fertilità, di dol-cezza e di antichi e ancestrali sapori.

La lavorazione, tutta manuale, iniziava dall’impasto di ingredienti molto comuni: zucchero, uova, farina... in quantità che l’occhio esperto della nonna dosava sempre bene; poi si passava a trasformare l’impasto in tanti anelli di giuste dimensioni, che poi entravano nel forno per la cottura.

Anche quando noi nipoti la aiutavamo, la nonna era sempre presente a tutte le fasi dello svolgimento del lavoro, in particolar modo alla cottura e alla glassatura finale, operazione molto complicata che da noi veniva detta “canditura”.

A quei tempi non esistevano termometri per il forno che veniva rigoro-samente riscaldato con le fascine di legna: il momento giusto per infornare e cuocere gli anelli di pasta dolce era dato dal colore bianco intenso dei mattoni refrattari. Oggi sembra molto complicato, allora era così normale!

E per la canditura la nonna metteva in un recipiente di rame (cal-drin) sempre lucido e splendente, una certa quantità di acqua, zucchero, un po’ di liquore dolce, bucce di arancia o di limone e faceva bollire, e bollire... Al momento giusto versava nel caldrin tutti gli anelli di pasta precedentemente cotti e li faceva ruotare nella glassa con vera maestria, senza romperli, servendosi solo di un mestolo di legno: la glassa aderiva in modo uniforme alla pasta grezza e gli zuccherini erano pronti: bianchi, profumati e gustosi al palato.

Quanta bravura e professionalità, la nonna! E quanta nostalgia nel ricordo di quei momenti felici della mia giovinezza! Ciao nonna!

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uN CuoRE PiENo Di RiCoRDi di Maurizio Poli

Sono nato e cresciuto nella piccola frazione di Serrazzone circa mez-zo secolo fa e le cose in questi anni sono parecchio cambiate; solo una cosa non è cambiata e non cambierà mai: il ricordo che mi hanno lasciato alcuni abitanti che ora purtroppo non sono più tra noi.

Sono sposato e ho due figlie alle quali mi piace molto raccontare fatti ed eventi accaduti in passato per far capire loro come è cambiato il modo di vivere e soprattutto per arricchire il loro bagaglio culturale. Ma se oggi mi trovo qui a scrivere è perché voglio che anche voi lettori di Fanano fra storia e poesia siate a conoscenza di questi avvenimenti del passato; vi racconterò quindi alcune piccole storie che rimarranno sempre nel mio cuore.

Qui vicino a casa mia abitava mio zio Enzo, un uomo distinto e ap-prezzato da tutti; finita la quinta elementare si mise a fare il falegname, ma le uniche cosa che gli riuscivano bene erano le casse da morto. Mi rac-contava che ne teneva sempre una pronta e che, quando veniva a sapere che il prete era andato a dare l’estrema unzione ad un anziano, si metteva al lavoro per prepararne un’altra. Quando i parenti del defunto si recava-no da lui, mostrava loro i due tipi di casse: uno più brutto ed economico (che era quella ancora da finire) e un altro che lui definiva più lussuoso (che era sempre la stessa ma terminata); e ovviamente loro sceglievano sempre il secondo tipo.

Nella borgata di Casa Pichiotti viveva Viterbo, un signore che non ho mai visto lavorare. Lui raccontava sempre del periodo passato in Francia dove si era fidanzato con Joséphine Baker, insieme alla quale aveva fatto una vita da vero signore: tutti i giorni pranzo e cena al ristorante e sempre in giro al volante di una Isotta Fraschini 8 cilindri, da noi mai vista tranne che in foto.

Quando tornò ad abitare qui, si fece notare subito sia per l’abbiglia-mento molto elegante e sia per il suo originale modo di pranzare, che po-tremmo definire “al contrario”: ora vi spiego... Un giorno, con tre cravatte, andò a mangiare al ristorante “Frignano” (l’attuale “Firenze”) e ordinò come prima cosa un caffè, poi un dolce e così via, terminando con un piatto di tortellini: disse che così era di moda in Francia.

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Al ponte sul “fosso del Re” vivevano due mugnai, marito e moglie, en-trambi molto gentili, ma in una cosa molto diversi tra loro: lui era piccolo piccolo, lei invece molto grande. Quando si passava da lì, o per necessità o semplicemente per fare un giretto, loro offrivano sempre dei biscotti buonissimi che conservavano in un vaso di vetro con il coperchio in al-luminio, posto sopra una mensola dell’ingresso. Quel piccolo gesto allora era molto apprezzato.

Ma il ricordo più bello riguarda il primo dell’anno. Io e mio fratello gemello alla mattina ci svegliavamo presto, partivamo a piedi e facevamo il giro di tutte le case. Suonavamo il campanello e, quando ci aprivano, facevamo gli auguri di un felice anno nuovo con la frase «Bun dì e bun ann». Soprattutto gli anziani erano molto contenti di questa “tradizione”; si rimaneva un po’ in loro compagnia, si scherzava e si rideva. Loro ci ripagavano con caramelle e cioccolatini, piccole cose in apparenza, ma in realtà piccole non lo erano affatto: per noi era un tesoro immenso.

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Francesco (Franck) Benassi nacque alle “Caselle” (borgata di Serraz-zone) il 14 aprile 1883 da Andrea e Rosa Seghi. Emigrato negli Stati Uniti, lavorò inizialmente nelle miniere di carbone dell’Illinois, diventando poi un apprezzatissimo esperto di giardinaggio; morì il 9 gennaio 1979 ad Highwood (Illinois). Non dimenticò mai il proprio paese natale a cui dedi-cò molte delle sue poesie, raccolte in un volumetto (Rime spontanee di un emigrante) stampato a Modena nel 1961.

Oltre all’autobiografico sonetto L’emigrante, pubblichiamo due sue poesie dedicate a Monteluzzo di Serrazzone e alla natia borgata delle Ca-selle, che fu completamente abbandonata a seguito della frana che la colpì nel dicembre 1952.

l’emigrante

Ai nostri tempi col progresso attese;quantunque avesse avuto poca scuola,

praticamente pur presto compresenon esservi per lui che una via sola.

Di abbandonare il natìo paeseverso gli Stati Uniti il pensier vola;

per procurarsi il pane, e far le spesesol la speranza è in sé che lo consola.

Partì; qui venne, e fu ben ospitatosu questo lido da lui sconosciuto,oggi contento d’esser qui arrivato.

Lavorò tanto e fu riconosciutodal nuovo mondo che l’ha migliorato,dove gran libertà sempre ha goduto.

Da

RIME SPONTANEE DI UN EMIgRANTEdi Francesco Benassi

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monteluzzo (Dove vi fu il Castello e la prima Chiesa di Serrazzone)

Da chiamarlo bella vista,l’occhio effettua una conquista,

panorama grande e bellopare un quadro d’acquerello.

Fanan guarda in addizione:ben si vede ogni frazione,

che son sette e le fan rondacome un cerchio che circonda.

Da ovest giro a levante:di vedute ce n’è tante,

v’è Gaià con Montespecchioil cui nome è molto vecchio.

Poi più in là Cucol paeseche si specchia con Montese,

Ranocchio, Salto e San MartinVi si ammira in chiar mattin.

Verso il termin della metavedi un po’ Rocca Cornetae più in su con ver piacerescorgo il monte Belvedere.

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la Rovina delle Caselle

Questa è una cosa tristemai da nessun pensataper cui più non esiste

la misera borgata.

Fenomen molto stranoimprovvida natura,

tu che portasti un vanotravolto in sventura.

Qualche vecchio abitanteper indizzi temeva,da crepature tante

un guaio si prevedeva.

Or, chi è andato a Trentinoe chi è andato in Toscana

ove c’è del buon vinoper far scordar la frana.

Fra gli altri un mal ridottoper fare almen le spese, portava il suo fagottoentro Trignan paese.

Chi in America è andatoper questa circostanzapermesso gli fu dato

d’entrar nell’abbondanza.

Da tutti abbandonatoquel posto di rovina,

altro luogo han trovatoda star meglio di prima.

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Domenica 6 luglio, h. 10,30 - Chiesa di San Giacomo di Ospitale Conferenza del prof. Renzo Zagnoni: “l’ospitale in Val di lamola in epoca medievale”

Giovedì 17 luglio, h. 16,30 - Chiesa di San Giuseppe Conferenza della prof.ssa Stefania Roncroffi“Antichi suoni da rare carte fananesi”1

Giovedì 24 luglio, h. 16,30 - Chiesa di San GiuseppePresentazione del libro“storie di confine: Appunti e ricerche su un territorio montano (Frignano, secoli Viii-XXi)” e, in particolare, del saggio “Ascanio magnanini e Giovanni Gherardini magistri fananesi”prof. Matteo Al Kalak e prof.ssa Sonia Cavicchioli2

Giovedì 31 luglio, h. 16,30 - Centro Bortolotti Presentazione del libro “Di là dal ponte (storie, personaggi, poesie, ricette… da un paese chiamato Fellicarolo)” da parte dell’arch. Giovanni Capucci e del n. 24 della rivista “Fanano fra storia e poesia”2

Giovedì 7 agosto, h. 16,30 - Centro BortolottiConferenza del prof. Giancarlo Montanari: “Confini montani agitati del primo seicento: la seconda guerra di Garfagnana (1613)”

Giovedì 14 agosto, h. 16,30 - Centro BortolottiPresentazione del libro “Recuperanti e riciclanti delle due guerre mondiali” del dott. Jean Pascal Marcacci

INIZIATIVE CULTURALI DELL'ESTATE 2014

1 Si veda in proposito l’articolo pubblicato a pag. 125 della presente rivista2 Una breve recensione del libro è pubblicata nella rubrica Scaffale fananese della presente

rivista

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Nell’ambito della III Rassegna Musicale “Armoniosamente”, l’Associazio-ne collaborerà inoltre all’organizzazione dei seguenti concerti :

Venerdì 8 agosto, h.21 - Chiesa di San Lorenzo a Trentino(Festa del patrono San Lorenzo)All’organo Margherita Sciddurlo

lunedì 25 agosto, h. 21 - Chiesa di San Giuseppe Sposo di Maria a Fanano(Giorno di San Giuseppe Calasanzio) Maria Teresa Casciaro (soprano) e Renato Negri (organo)

Venerdì 5 settembre, h. 21 - Oratorio della Madonna del Ponte a Fanano(Festa triennale degli Emigranti) All’organo Irene De Ruvo

***

La biblioteca “Rossi - Di Bella” dal 15 di giugno al 15 di settembre sarà aperta anche in due pomeriggi alla settimana, il giovedì e il venerdì, dal-le 15 alle 18. Essa sarà affidata ad Andrea Ballocchi, che è anche il segretario della nostra Associazione Culturale della Valle del Leo “Ottonello Ottonelli”: pertanto ci si potrà rivolgere a lui anche per tutto quanto riguarda l’Asso-ciazione stessa.

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In questi ultimi tempi gli studiosi di storia locale e i ricercatori di archivio hanno scoperto molti interessanti documenti sulle famiglie degli Ottonelli di Fanano, dei Tanari di Gaggio Montano e dei Barozzi di Vi-gnola. Eppure, recentemente abbiamo conosciuto un documento il quale – una volta che sia accertata con chiarezza la sua provenienza – dovrebbe indurre a rivedere in gran parte quanto è stato scritto finora sulle origini di queste tre importanti famiglie del nostro territorio.

In realtà non è un vero e proprio documento: si tratta infatti della fo-tocopia della pagina di un libro nella quale, con riferimento a documenti dell’Archivio Teodosiano di Ravenna, si parla soprattutto della famiglia Barozzi, ma anche delle altre due. Si tratta di una pagina che è giunta dal-le nostre parti in modo insolito, un po’ rocambolesco: brevemente questa è la sua storia.

Nell’estate del 2009 uno studioso di Vignola, il professor Gianfranco Gibellini, trovandosi in vacanza nella bella isola greca di Naxos (Nasso: la stessa della mitica Arianna), ebbe modo di conoscere un gentilissimo signore che, parlando un ottimo italiano, gli fece visitare la propria casa avita, un tempo di proprietà dei nobili veneziani Barozzi, e successiva-mente trasformata nel Museo Veneziano Domus Della Rocca-Barozzi; quando poi conobbe la provenienza vignolese del professor Gibellini, egli fu ben lieto di mostrargli la fotocopia cui si è accennato e che, per inten-derci, d’ora in poi chiameremo la “pagina di Naxos”.

Ebbene, assai raramente è capitato agli studiosi di storia locale di imbattersi in un testo che, in uno spazio così ristretto (poche decine di righe), fornisse tante e così importanti notizie storiche! Di conseguenza si cercò in tutti i modi possibili di riprendere i contatti con il gentilissimo signore greco per venire a conoscenza del titolo e dell’autore del libro da cui era stata fotocopiata una pagina di tale interesse, ma fu tutto inutile: telefonate, fax e lettere da Vignola a Naxos rimasero sempre senza rispo-sta. Neppure un secondo viaggio a Naxos compiuto appositamente dal professor Gibellini nell’estate successiva portò a risultati concreti.

Da un attento esame della “pagina di Naxos” si può comunque dedur-re quanto segue: 1) in base alle caratteristiche tipografiche, allo stile e al

E’ TUTTA DA RISCRIVERE LA STORIADEgLI OTTONELLI, DEI TANARI E DEI BAROZZI?

di Raimondo Rossi Ercolani

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linguaggio utilizzati nel brano, il libro da cui esso è tratto dovrebbe esse-re stato scritto verso la fine dell’ ‘800 o, al massimo, agli inizi del secolo successivo; 2) considerando l’abbondanza e la precisione dei particolari (date, nomi e luoghi), la sostanziale non contraddizione con i dati in nostro possesso, il continuo riferimento a documenti di archivio e la presenza di un albero genealogico, esso non può essere stato scritto da un dilettante più o meno fantasioso; deve essere invece opera di uno storico italiano serio e ben documentato che bisognerà assolutamente individuare. Come tutti gli storici, anch’egli può essere caduto in qualche inesattezza, più o meno grave; ma liquidare il documento come inattendibile solo perché di autore (per ora) ignoto, oppure perché – peggio – in parziale contrasto con le ricostruzioni storiche attualmente più accreditate, ci sembra un grave errore che nessuno storico dovrebbe commettere.

Anche alcune sue espressioni di gusto apparentemente forse un po’ “letterario” che hanno fatto storcere il naso a qualche studioso (Fra stenti di ogni sorta... in una notte di tormenta e di neve...) si possono ben giusti-ficare tenendo conto del periodo in cui il brano pare sia stato scritto. Non dimentichiamo infatti che l’ ‘800 fu in tutta Europa il grande secolo del romanzo e, in particolare, del romanzo storico (da Victor Hugo a Walter Scott, dal Manzoni a Tolstoj): pertanto è più che comprensibile che in quel periodo gli storici abbiano talvolta risentito dello stile dei loro colleghi “di lettere”, così come questi ultimi avevano abbondantemente attinto alle loro ricerche storiche.

Ma veniamo finalmente al contenuto di questa “pagina di Naxos”. Come si diceva, essa riguarda soprattutto la famiglia Barozzi, ma con de-gli addentellati che hanno suscitato enorme interesse in noi fananesi (per quanto riguarda gli Ottonelli) e, in seconda battuta, anche nei nostri amici “di là dall’acqua”: nei bolognesi di Gaggio Montano (per i Tanari).

Per gli Ottonelli, il maggiore storico fananese, Niccolò Pedrocchi (1681-1749), afferma nella sua Storia di Fanano che la famiglia Ottonelli (“o Tonelli come anticamente dicevasi”) fu cacciata da Bologna – sembra nel 1509 – perché di parte “guelfa” e si divise in due rami: uno con nuova

1 Del problema relativo agli Ottonelli e al loro arrivo a Fanano mi sono occupato anch’io nella seconda edizione del mio libro fananese (San Giuseppe di Fanano, la “Chiesa dei Padri”), nel quale ben due capitoli (su sette) sono in gran parte dedicati proprio agli Ottonelli. In partico-lare, nella nota 12 del II capitolo ho citato tutti i documenti scoperti in proposito da Gaetano Lodovisi e da altri. Non vi ho invece citato l’importante “pagina di Naxos”, non potendone indicare la fonte; ho però provveduto a citarla a parte, in un segnalibro, appositamente stam-pato e allegato al volume, con l’invito al lettore ad aiutarci a scoprirne l’origine. Di questo segnalibro si parla anche a pag. 182 di questa rivista (nella quale è anche riprodotto).

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residenza a Fermo (nelle Marche) e l’altro a Fanano, con Battista, il nonno del nostro Ottonello Ottonelli. Ma in realtà, nonostante l’autorevolezza del Pedrocchi, gli storici locali non sono mai stati del tutto convinti di questa versione degli avvenimenti. Ad esempio è sempre sembrato piuttosto im-probabile che proprio Battista, se davvero arrivato da pochi anni a Fana-no, risultasse già in grado (nel 1521) di guidare una schiera di fananesi alla riconquista del castello di Sestola, allora controllato dai funzionari del papa Leone X, (secondo quanto riferisce il nostro Pedrocchi); ed è ancora più improbabile che lo stesso Battista “del quondam Domenico Tonelli” (Ottonelli) potesse rappresentare già nel 1514 il Comune di Fanano in una complessa controversia con la comunità di Trignano, come risulta da un documento scovato all’Archivio di Stato di Modena dal nostro infaticabile Gaetano Lodovisi.

Lo stesso Gaetano Lodovisi ha dedicato all’argomento un importante saggio che è stato pubblicato sul n.15 di Fanano fra storia e poesia (“Nel Quattrocento gli Ottonelli risiedevano già a Fanano”); in esso vengono ci-tati diversi documenti che attestano la presenza degli Ottonelli a Fanano nei secoli precedenti al XVI: ad esempio nel più antico di essi (un rogito

del 1331, pubblicato per la prima volta da Albano Sorbelli) un certo Ottonello di Domenico di Trigna-no, allora residente a Bologna, lasciava in eredità alcune sue proprietà site nella stessa Trignano.

Rispetto però a questi documenti – importan-tissimi, ma “isolati” uno dall’altro, e di non sempre facile interpretazione – la “pagina di Naxos” ci dice molto, ma molto di più: stando ad essa, infatti, ri-sulterebbe che nel 1319 quella degli Ottonelli fosse già da tempo una delle più potenti famiglie fana-nesi, strettamente legata agli Estensi (come fu poi anche nei secoli successivi) e ad altre importanti famiglie del territorio, in grado di ospitare per un mese dei profughi politici braccati dai “segugi” del-la loro patria e di donare loro “una piccola terra in quel di Spilamberto”.1

E le sorprese non mancano neppure per i Ta-nari di Gaggio Montano: anche per essi, infatti, non si avevano notizie documentate di una loro significativa presenza in una data così antica nel paese di Gaggio, dove, secondo le fonti attualmente note, diventarono potenti – prima economicamen-te e poi anche politicamente – soltanto nei secoli successivi.

Stemmi degli Ottonelli e dei Tanari

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Ma forse la sorpresa più clamorosa è quella riguardante i Barozzi. Discutendo delle origini della famiglia dell’architetto Jacopo Barozzi (il Vignola, 1507-1573) gli storici locali non propongono certezze, ma avan-zano alcune ipotesi: in base alle fonti storiche (scarsissime), parlano di una possibile provenienza dal Milanese fra la fine del secolo XV e l’inizio del successivo, oppure di un’origine autoctona risalente “quantomeno agli inizi del XV secolo”; imboccata poi la strada archivistica (“colma per al-tro di trabocchetti e assai difficoltosa”) essi concludono propendendo per una provenienza dalla zona di Orta, nel Novarese, allora appartenente al Ducato di Milano. Ebbene, di fronte a queste ipotesi, la “pagina di Naxos” prospetta una situazione ben diversa: non soltanto l’arrivo dei Barozzi a Vignola verrebbe anticipato di più di un secolo, ma – secondo l’albero genealogico della “pagina” – ad essi andrebbe attribuita non un’oscura origine lombarda, ma una nobile ascendenza veneziana!

E non si tratterebbe di una nobiltà qualunque. Per rendercene piena-mente conto bisogna ricordare che la Repubblica Veneta era una repubbli-ca aristocratica e che il suo massimo organo politico (il Maggior Consiglio) era costituito dai patrizi iscritti nel Libro d’Oro della nobiltà veneziana. Nel tempo, tuttavia, questo Libro d’Oro fu ampliato includendovi nuovi no-bili; si poterono così distinguere: le case vecchie, quelle più antiche, consi-derate nobili già da prima del IX secolo (fra le quali, le dodici apostoliche: famiglie che si vantavano di avere eletto il primo Doge di Venezia); le case nuove, riconosciute nobili dal X secolo fino alla Serrata del 1297; le case

Venezia, Palazzo Barozzi sul Canal Grande

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Venezia, Chiesa di San Francesco della Vigna, Lastra tombale della famiglia Barozzi

nuovissime, iscritte nel Libro d’Oro nel 1380 per benemerenze militari e, infine, le case fatte per soldo, quelle ammesse al Maggior Consiglio dopo il 1646, quando Venezia, dissanguata dalla guerra contro i Turchi, si era trovata in gravi difficoltà economiche.

Ebbene, la famiglia veneziana dei Barozzi era proprio una delle più antiche in assoluto, appartenendo al ristretto numero delle famiglie apo-stoliche. Essi possedevano un bellissimo palazzo gotico sul Canal Grande, nella parrocchia di San Moisè, (che esiste ancora, ma completamente tra-sformato nei secoli successivi); dal 1207 al 1335 governarono le isole gre-che di Santorini e Thirassia che furono poi inglobate nel Ducato di Naxos, conquistato successivamente dai Turchi, nel 1566. Quasi certamente risale a quel periodo la costruzione di quella che è ora la Domus Della Rocca-Barozzi dalla quale proviene la nostra interessantissima “pagina di Naxos”.

Ma, tornando alle famiglie del Maggior Consiglio, è noto che fra di esse non mancarono nel tempo contrasti anche piuttosto forti. Nel 1310 due delle più importanti di esse (Querini e Tiepolo), godendo di un certo favore popolare, organizzarono addirittura una congiura contro il doge Pietro Gradenigo, da loro considerato poco meno che un usurpatore. A causa di un tradimento la congiura fallì e i congiurati sopravvissuti agli scontri si rifugiarono negli stati vicini, braccati dai “segugi della Serenissi-ma”: fra costoro, i nobili Bartolomeo e Giovanni Barozzi, i quali, secondo la ormai ben nota “pagina di Naxos”, si rifugiarono prima a Ravenna, poi (nel 1319) a Gaggio Montano presso i Tanari, quindi a Fanano presso i nostri Ottonelli e, infine, “nella piccola terra in quel di Spilamberto” dove “c’è ancora la casa dove nacque il Vignola, a pochi passi dal confine con il Comune di Spilamberto”.

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BiBLioGRAFiA ESSENZIALE

niccolò PeDrocchi, Storia di Fanano, Fana-no, 1927Raimondo rossi ercolani, San Giuseppe di Fa-nano, la “Chiesa dei Padri”, Livorno, 2013 Gaetano loDoVisi, Nel Quattrocento gli Otto-nelli risiedevano già a Fanano, Fanano, 2007Stefano sanTaGaTa, La famiglia Tanari (in:

Gaggio Montano, Storia di un territorio e della sua gente), Gaggio Montano, 2008 D. DaMeri, a. loDoVisi, G. TrenTi, Il Palazzo di Hercole il Vecchio, Secolo XVI, Vignola, 2002Giuseppe Tassini, Curiosità veneziane, Vene-zia, 1863Alvise zorzi, I palazzi veneziani, Udine, 1989

Concludiamo con una nota curiosa. Alla congiura “Querini-Tiepolo” si ispirarono, soprattutto nel XIX secolo, alcuni romanzieri e musicisti (at-tenzione ai titoli!). Fra i primi, va ricordato il veronese Giulio Pullè, con il romanzo storico Alba Barozzi ovvero una congiura sotto il Doge Pietro Gradenigo (Venezia, 1846); quanto alla musica, fu composta addirittura un’opera (Alba Barozzi, dramma lirico in quattro atti) che stranamente non è ancora stata rappresentata in teatro, nonostante la fama del librettista (Antonio Ghislanzoni, lo stesso dell’Aida di Giuseppe Verdi) e del musicista Paolo Giorza (1832-1914), autore di molta musica da ballo di grande suc-cesso e di musica popolare di successo ancora maggiore (La bella Gigogin). Chissà se quest’anno, a un secolo esatto dalla morte del suo autore, riusci-remo ad assistere alla prima esecuzione assoluta della sua Alba Barozzi!

L’autore dell’articolo nel Campiello Barozzi di Venezia (con Sotteportego verso la Corte Barozzi)

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I territori del Belvedere e del Fananese hanno sempre avuto qualcosa in comune, pur divisi dal crinale dei monti della Riva. Nelle mie scorri-bande tra questi due territori che amo in ugual misura (mia madre è di Fanano), ho avuto modo di notare che i tratti comuni sono riferibili in spe-cial modo all’architettura e alla religiosità. Questo mio breve intervento riguarderà perciò questi “segni comuni”.

Gli oratori sparsi sui nostri monti sono una commovente e forte testimonianza della fede dei nostri antenati. Di solito era-no costruiti per volere di una fa-miglia o di una piccola comuni-tà, e attualmente il loro stato di conservazione è affidato molto al buon cuore dei residenti nel-le piccole frazioni in cui essi si trovano. Non tutti, purtroppo, hanno avuto la medesima buona sorte, tanto che sono stati tra-sformati in magazzini, pollai o semplicemente demoliti.

Un bell’oratorio è quello di Casa Fantini di Serrazzone, che purtroppo ho potuto vedere solo

SEgNI SACRI COMUNI FRA IL BELVEDERE E IL FANANESE

di Alessandra Biagi

Nel numero precedente della presente rivista è stato parzialmente pubblicato un documentatissimo saggio della nostra socia Alessandra Biagi riguardante I segni del sacro nelle case, tratto da una sua importante pubblicazione alla quale rimandiamo il lettore interessato ad approfondire l’argomento. Ben sapendo che l’amica Alessandra ha un piede ben piantato di qua dall’acqua (nel fananese) e l’altro al di là (nel Belvedere), le abbiamo chiesto di completare il discorso con specifico riferimento ai segni comuni fra i nostri territori, lizzanesi e fananesi (con particolare riguardo a quelli più vicini al “confine”: Serrazzone e Trignano).

Oratorio di Casa Fantini

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all’esterno; ha la stessa struttura di quello di Valdifredda e, nel Belvedere, di quello di Casa Gabrielli.

Un altro oratorio che a me piace molto è quello di San Rocco di Valdi-fredda, recentemente restaurato con attenzione e competenza. L’interno è semplice, “more montano”, ma allo stesso tempo mostra una certa cura costruttiva: sull’altare maggiore il tetto è a volta, mentre il resto della copertura è a capanna. Nel restauro è stato lasciato in evidenza l’arco di piccole pietre che divide la zona dell’altare maggiore dal resto dell’interno dell’oratorio; sono ben visibili le due catene in ferro che tengono unite le pareti dell’edificio.

La statua del Santo è bella e significativa, con gli elementi iconografici che connotano il Santo, cioè il cane con il pane in bocca, la piaga sulla gamba e il bordone del pellegrino. L’esterno è anch’esso estremamente semplice: il bel portale in arenaria (pietra regina delle nostre zone) è sor-montato da una finestra quadrangolare destinata a dare luce all’interno (a sua volta sormontato da un minuscolo finestrino rotondo), e fiancheggiato da due piccoli finestrini quadrangolari che servivano a vedere l’interno anche quando l’oratorio era chiuso; questo era particolarmente importan-

L’interno dell’oratorio di San Rocco di Valdifredda

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te per i viandanti, che potevano trovare un conforto nella preghiera pur non entrando materialmente nell’edificio (una situazione simile è quella dell’oratorio di San Rocco di Vidiciatico).

Sul lato sinistro dell’edificio il restauro ha lasciato in evidenza una piccola bozza di arenaria con croce latina incisa abbastanza profonda-mente nella pietra, quindi un segno sul segno.

Valdifredda è un luogo dove molti sono i segni: uno dei più singolari è una macina da mulino murata in alto sulla parete di un bel edificio antico recentemente restaurato. Il foro centrale è certo troppo piccolo da fungere da finestra, ma del resto i nostri avi erano maestri nel reimpiego di manu-fatti e le macine erano spesso riutilizzate dopo che avevano terminato la funzione per la quale erano state costruite: le troviamo reimpiegate come finestrini, come tavolini, come gradini di scale, come parapetti per i “bot-tacci” (vasche di raccolta dell’acqua nei mulini)…

Un altro elemento caratteristico è costituito dai finestrini monolitici (ricavati cioè da un’unica pietra), che peraltro sono anche indizio di anti-chità, in quanto si trovano di solito in edifici non posteriori al XVIII secolo. A Trignano ce n’è uno minuscolo, in alto, su una vecchia stalla datata, se non ricordo male, al 1535. Anche nel Belvedere ce ne sono vari esempi, come quello bellissimo del Palazzo di Rocca Corneta.

Una delle consuetudini più radicate in questo nostro territorio mon-tano era quella di porre un’immagine sacra sulla casa: poteva essere una

La facciata dell’oratorio di San Rocco di Valdifredda

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maestà, una croce, un IHS, una testina di cherubino. Anche le abitazioni più povere cercavano di avere uno di questi segni, che spesso venivano posti anche sugli edifici pro-duttivi come stalle e fienili, perché è noto che in un’economia a base agricolo-pastorale come era quella delle nostre zone il bestia-me era più importante di qualsiasi cosa. Non erano segni messi a caso, ma avevano un si-gnificato preciso: Sant’Antonio Abate vedeva la sua giusta collocazione sulla porta della stalla o del metato (che qui nel Belvedere si chiama “casóne”), mentre una Madonna, for-se per l’immagine materna e protettiva che rappresenta, si colloca meglio sulla porta di casa. Certo, la discrezionalità personale po-teva portare a collocazioni diverse da quelle considerate “canoniche” senza che ciò com-

portasse alcun problema: l’importante era avere il segno, avere qualcosa che rendesse sacro uno spazio proprio.

Tra le molte nicchie con targhe devozionali che ho visto girando in lungo e in largo, ne ricorderò qui solo alcune, anche perché il territo-rio di Fanano è stato molto ben analizzato dal professor Silvestri in un libro di qualche anno fa, che raccoglieva tutti i segni del sacro (Fanano sacra: cielo e terra d’Appennino). Le nicchie che ospitano le immagini sacre sono spesso molto belle, decorate con motivi floreali, girali di foglie,

croci, motivi architettonici a falsa porta o a falso tempio, ovali, cornici a denti di lupo, oltre ad essere completate dalle iniziali del proprietario e dello scalpellino e dall’indica-zione della data.

Le targhe devozionali all’interno delle nicchie e delle maestà erano spesso acqui-state in occasione di pellegrinaggi o di fie-re; quelle delle nostre montagne sono quasi tutte di provenienza romagnola. Il santo di gran lunga più diffuso è Sant’Antonio, se-guito dalla Madonna (nel Belvedere quelle di San Luca è assolutamente preponderante, mentre così non è nel Fananese) e da San Giuseppe, il Santo fananese per eccellenza, ben poco presente invece nel Belvedere.

Serrazzone, Casa Altada. Sant’ Antonio Abate

Borgo di San Rocco in Val di Fredda. Madonna di San Luca

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Gli esempi sono tanti: qui mi limiterò a segnalarne alcuni che mi sono sembrati singolari, come per esempio la minuscola nicchia a tutto sesto (in realtà poco più di un buco nel muro) visibile a Fanano ai Marcedrini, circondata da una spessa cornice di arenaria purtroppo dipinta di bianco. La nicchia è chiusa da un bel cancelletto in ferro battuto formato dalla let-tere A(ve) e M(aria) sovrapposte, cancelletto che non ha impedito il furto della targa originaria.

Un altro esemplare molto bello è quello di Valdifredda, una nicchia quasi monumentale, con frontale a falso tempio con tanto di frontone; le iniziali del proprietario e la data 1868 sono scolpite in una lastra rettan-golare sotto la nicchia, che ospita all’interno una bella targa devozionale in terracotta invetriata e dipinta, di forma ovale con cornice a rilievo, che reca l’immagine di una Madonna velata a mezzo busto, un’iconografia poco consueta perciò tanto più apprezzabile, presente peraltro anche a Canevare. Sempre a Valdifredda c’è la targa più particolare che io abbia visto sulle nostre montagne: si tratta di una piccola targa ret-tangolare acroma e senza rivesti-mento in maiolica, che reca quello che a me sembra un Sant’Antonio Abate e dico “sembra” sia perché è accompagnato da un animale che potrebbe essere un maiale, sia perché anche il Santo è raffigura-to inconsuetamente, con il corpo di profilo e il volto girato verso l’os-servatore, con la testa sormontata da una grande aureola. Il Santo ha

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un braccio sollevato e regge quella che dovrebbe essere una campanella, uno dei Suoi attributi tipici. Data la particolarità di questo manufatto, non ho proprio idea di una sua possibile officina di provenienza, e d’altra parte mi sembra che non si possa dire che si tratti di un’opera di un’auto-didatta; non so che pensare, se non che si tratta di un oggetto certamente da tutelare.

Altro elemento che spesso si rinviene è la croce. La collocazione for-se più importante della croce è sulla bocca del forno, a simboleggiare la sacralità del cibo: infatti la croce veniva tracciata anche su ogni pezzo di pane da cuocere, e al momento dell’infornata si tracciava la croce anche sulla bocca annerita del forno, anche se era già presente la croce scolpi-ta nella pietra. Il pane era veramente inteso come Corpo di Cristo, così come era sacro anche il grano da cui esso proveniva: la consuetudine di porre le Croci di Maggio nei campi seminati e negli orti, per scongiurare le tempeste, prosegue ancor oggi sull’Appennino, in occasione della festa del ritrovamento della Santa Croce il 3 maggio. Le Croci di Maggio sono realizzate con due sottili bastoni (di solito, nelle aree oggetto di questo studio, di legno di pioppo), che recano nel punto di giunzione una foglia di ulivo benedetto e un frammento di candela benedetta il giorno della Can-delora. La croce doveva proteggere il raccolto nella fase finale prima della mietitura, e in alcune zone del centro Italia si poneva anche alle finestre, per proteggere la casa dalle intemperie e dalle avversità.

Nel cimitero di Trignano c’è una croce monumentale sulla tomba di Luigi Dinelli, decorata da fiori e da una grande colomba. È di marmo, ma-

teriale inconsueto per le nostre zone, ma che ha una valenza simbolica particolare, poiché è considerata la pietra degli eroi e dei martiri, e in effetti questo Luigi Dinelli è morto in giovane età. Sempre a Trignano c’è una piccola croce latina incisa poco profondamente e poco accu-ratamente al centro dell’architrave della porta d’ingresso di un edificio agricolo da tempo in stato di abbandono. La croce si trova tra le ul-time due cifre che compongono la data 1554, anch’essa scolpita poco profondamente e con il 4 parzialmente coricato. In tempi recenti è stata aggiunta una croce, dipinta con vernice acrilica rossa su quella antica, forse nell’inten-to di metterla in evidenza e di rimarcare la ne-cessità della protezione divina sull’edificio; si tratta comunque di un altro esempio di persi-stenza di un simbolo e di ciò che esso significa.

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Il trigramma del nome di Gesù è un simbolo notissimo e molto diffuso in tutto il mondo cristiano. Si tratta, com’è noto, dell’abbreviazione del nome di Gesù in greco, usata fin dal VI secolo, con la S che a volte è resa mediante una C. Dal IX secolo cominciò ad essere inciso sulle monete dell’impero bi-zantino, ma è con san Bernardino da Siena, nel XV secolo, che questo segno conobbe una vastissima diffusione, con l’introduzione della sua adorazione, fatto che costò al Santo tre processi per eresia nei quali fu assolto.

San Bernardino, che predicò a lungo nell’Italia centro-settentrionale (per esempio, visse a Carpi tra 1423 e 1428, divenendone il patrono nel 1631), era solito mostrare, durante i suoi sermoni, il nome di Gesù scritto su una tavoletta, nella forma abbreviata IHS; una riproduzione della tavo-letta di San Bernardino era raffigurata anche su sottili lamine metalliche che i sacerdoti lasciavano nelle case in occasione delle benedizioni pasquali (fino agli anni ’20 del Novecento), lamine destinate ad essere appese sulla porta d’ingresso a protezione della casa. L’immagine era completata dalla preghiera più diffusa tra le genti delle campagne, «Gesù mio misericordia». Attualmente questi oggetti sono divenuti una rarità da devoti collezionisti.

Il segno del nome di Gesù fu attributo anche di sant’Ansano (anch’egli senese), martire sotto Diocleziano nel 303; lo si trova raffigurato, dal Me-dioevo, con il vessillo della Resurrezione e con un cuore recante il trigram-ma IHS1. Nel corso dei secoli la lettura di questo segno ha subito diverse varianti; la più comune e diffusa fu Iesus Hominum Salvator, peraltro più immediatamente percepibile da parte dei fedeli. Nel XVI secolo fu adot-tato come insegna dell’ordine della Compagnia di Gesù di Sant’Ignazio di Loyola, e in tale contesto fu letto come Iesus Habemus Socium, (Abbiamo Gesù come compagno). Un’altra lettura è In Hoc Salus (In ciò la salvezza), anche questa funzionale alla devozione popolare, data la sua immediatez-za. Forse furono letture di questo tipo che fece-ro di questo segno uno dei più potenti segni di protezione, secondo la convinzione che bastas-se il nome per evocare il nominato, secondo un noto processo di devozione “simpatica”.

Dal punto di vista quantitativo è certamen-te uno dei segni più diffusi sulle case dell’Ap-pennino: lo si trova scolpito nelle nicchie, nelle maestà, sugli architravi delle porte più antiche o isolato sulla parete principale dell’abitazione dove si trova la porta d’ingresso, e perfino sui comignoli. Anche per ciò che riguarda l’aspetto

1 Hall, cit., pag. 47. Trigramma di Caselle

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“artistico”, il trigramma è il segno più bello da vedere tra quelli censiti, quello che presenta le varianti più interessanti. Questo segno può essere raffigurato in un tondo, circondato da fiamme o raggi solari o dalla corona di spine (motivo, questo, che si diffonde nell’arte europea a partire dalla seconda metà del XIII secolo, quando Luigi IX di Francia tornò da una cro-ciata portando con sé la reliquia). I raggi solari sarebbero un’evoluzione della prima forma figurata di questo segno, nell’ambito di uno sviluppo di una mistica nel nome di Gesù soprattutto presso gli spirituali francescani, in particolare Ubertino da Casale, che iscrisse queste lettere al centro delle fronde spiegate di un albero, poi trasformate da Bernardino in raggi di sole. La sua natura propria di trigramma, poiché in effetti si tratta di tre lettere, si ritrova anche in esemplari formati da una sola lettera, solitamen-te la H e meno frequentemente la S. In realtà, si parla di monogramma di San Bernardino data la stretta connessione delle tre lettere che lo com-pongono, connessione a volte anche visivamente evidente, dato lo stretto intreccio delle lettere tra loro in un viluppo di nastri, viticci e quant’altro. Lo si trova quasi sempre associato ai tre chiodi della crocifissione e alla croce, che si alza al centro della H. Le associazioni più frequenti sono con la croce e con il monogramma mariano, ma vi sono anche esempi di asso-ciazioni a elementi fitomorfi, anch’essi quasi sempre in ambito mariano.

A Fanano si trova in un caso la croce associata al monogramma ber-nardiniano IHS, nella chiave di volta dell’edificio signorile denominato Palazzo Coppi in Via Pedrocchi, datata 1852. La croce sorge dal tratto orizzontale della H e la singolarità è data dai festoni che si staccano a metà del braccio verticale; il tutto è completato dai tre chiodi della Crocefissio-ne visibili al di sotto del monogramma. La ghirlanda pendente ai due lati dello stipes, ghirlanda che parte dall’incrocio dei due bracci, si unisce a

un sottile arco dalla concavità poco accennata. Questo tipo di simbolo è solitamente da riferirsi a una confraternita, e a Fanano erano almeno quattro quelle importanti; oppure potrebbe esse-re in relazione alle celebrazioni cristocentriche della Settimana Santa, un riferimento al sudario di Cristo o al sepolcro velato: Fanano infatti è nota ben oltre i suoi confini per una grandiosa Festa Triennale che si tiene, da secoli, in occa-sione della Settimana Santa.

Per concludere questo breve percorso nei segni, si può dire che essi sono spesso soprav-vissuti nei secoli, resistendo all’arrivo di “nuovi” segni, resistendo alla rifunzionalizzazione, resi-stendo al disinteresse umano.

Fanano, trigrammadi Palazzo Coppi

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MOVIMENTI MIgRATORI DA FANANOVERSO LA MAREMMA TOSCANA E LAZIALE

di Gaetano Lodovisi

Già a partire dal Trecento le zone della Maremma venivano progres-sivamente abbandonate causa le guerre, la malaria, la fame. Lo stato se-nese dopo la metà del Quattrocento adottò alcune politiche per ripopolare queste aree. Diversi documenti notarili e atti dei registri parrocchiali del XVI e XVII secolo attestano che diverse famiglie fananesi si stabilirono in Toscana e nel Lazio e più precisamente nell’Amiatino a Santa Fiora, Ca-stel del Piano, Arcidosso, Piancastagnaio e nell’alta Tuscia a Viterbo, Ona-no, Piansano e Valentano. I fananesi contribuirono così al ripopolamento di quelle campagne, incrocio e fusione di popoli e genti, giunte attraverso le vie della transumanza appenninico-maremmana.

Il primo caso d’immigrazione di frignanesi nella Maremma di cui si abbia notizia è quello della comunità di Lotta di Fanano, che nel 1473 tornò a ridare vita al paese di Samprugnano – oggi Semproniano – situato nel Grossetano meridionale. A causa della crisi demografica del XIV seco-lo e della guerra tra la potente famiglia degli Orsini di Pitigliano e Siena, a cui si aggiunse la peste, il paese, a quei tempi sotto il dominio senese, era infatti decaduto fino al completo spopolamento. Poco oltre la metà del Quattrocento Siena aveva ordinato di demolirne i resti delle fortificazioni affinché Samprugnano, che era ormai un paese fantasma, non servisse da base per le incursioni delle milizie degli Orsini.

Nel dicembre del 1473 l’occasione di rinascita del paese venne pro-spettata da parte degli uomini di Lotta che abitualmente svernavano nelle maremme senesi. In cambio di alloggi e terreni, i pastori di Lotta si impe-gnarono a insediarsi con almeno 40 famiglie1.

1 G.cecchini, Una colonia Frignanese in Maremma, in Rassegna Frignanese, VII-VIII, 1959-60, pp.11-18. “Essendo venuti a noi Giovanni del Forte e Antonio di Gabrino del comune di Lota del contado di Modena, et havendo offerto per loro et per quaranta famiglie con più di cento o cento vinti huomini voler venire a stare et habitare perpetuamente sotto l’onbra et governo del magnifico comune di Siena, et che saranno poi ad venire homini dugento o più in quanto lo fusse conceduto uno luogo conveniente a lloro et nominatamente havendo domandato di gratia dovere essere alloggiati nel castello guasto di Sancto Prugnano per loro uso et la cortesia d’esso castello…”

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Il 30 aprile 1474 il patto veniva concluso con interesse da entrambe le parti. La colonizzazione all’inizio ottiene esito positivo, ma ben presto venne funestata come riportato da Emanuele Repetti:

“Nuovi e più terribili guasti forono fatti al castello di Sampro-gnano e a quello suo vicino delle Rocchette da un esercito spa-gnuolo nel 1536 quando quelle truppe posero a sacco e barba-ramente devastarono entrambi cotesti paesi in maniera che non poterono insorgere mai più da tanto esterminio”2.

Santa Fiora, sita ai piedi dell’Amiata e confinante con Semproniano, ha avuto antiche relazioni con Fanano, come provano diversi atti notarili del Cinquecento e un documento datato 10 gennaio 1650 in cui l’Arciprete di Fanano, Giovanni Parigi, riceve un diploma di dottorato da Paolo dei conti Sforza, dei conti di Santa Fiora. Tali collegamenti vengono confer-mati dallo studioso Lidiano Balocchi il quale, esaminando scrupolosamen-te l’archivio parrocchiale di Selva (frazione di Santa Fiora), ha dimostrato

2 e.rePeTTi, Dizionario Geografico Fisico Storico della Toscana, volume V, Firenze 1843.

Uno scorcio caratteristico di Semproniano

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le antiche radici ospitalesi della sua famiglia attraverso una ricerca incro-ciata con i documenti parrocchiali di Ospitale di Fanano. Domenico e Gio-vanni Ballocchi di Ospitale di Fanano infatti si trasferirono a Santa Fiora nel 1719, originando l’albero genealogico dei Ballocchi di Santa Fiora.

In Toscana i Ballocchi a causa di un errore di trascrizione del cogno-me persero una “l” diventando Balocchi. Altra famiglia oriunda di Ospi-tale che emigrò a Santa Fiora nel 1737 è quella dei Sega, che muterà il cognome in Seghi. La ricerca ha rivelato inoltre che 50 persone di Selva provenivano dall’Emilia Romagna: 20 di queste dal Ducato di Modena, principalmente da Fanano nel XVII e XVIII secolo, 22 dal ducato di Parma e 5 dal bolognese3.

Parte del diploma di dottorato rilasciato all’arciprete di Fanano

3 l. balocchi, e. balocchi, La mia gente Selva di Santa Fiora 1598-2007.

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Antonio Mattei, direttore responsabile e fondatore della rivista “La Loggetta”4, ha riferito e documentato il sorprendente legame esistente tra Fanano e i comuni di Piansano e Valentano, situati nell’alta Tuscia laziale, in provincia di Viterbo.

La storia di Piansano, comune che si trova a pochi chilometri dalla sponda occidentale del lago di Bolsena, tra Valentano e Tuscania, è analo-ga per certi versi a quella di Semproniano. Il paese,

“dopo alterne vicende e fiere battaglie tra i signorotti del luogo rimase semi-abbandonato a seguito della distruzione del castel-lo ad opera di un certo Bertoldo Farnese (1396). Piansano rinac-que a nuova vita soltanto nel 1560, quando, inserito nel Ducato

4 La Loggetta - notiziario di Piansano e la Tuscia -. Una rivista trimestrale, giunta al numero 97, che raccoglie e registra i particolari aspetti sociali, storici e artistici di circa 30 comuni del viterbese e di alcuni altri delle province limitrofe.

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di Castro istituito da papa Paolo III nel 1537, fu fatto ripopolare dal cardinale Alessandro Farnese (nipote omonimo dello stes-so papa), che appunto mise in atto una previdente politica di recupero di vaste zone abbandonate e boscose. Di Piansano, in particolare, favorì la colonizzazione con un contingente di fa-miglie provenienti dal Casentino: momento cruciale, nella vita di questo paese, perché fu quella colonizzazione a segnarne la definitiva rinascita e a fissare i tratti caratteristici della popo-lazione”. 5

Ebbene, dallo studio degli atti di battesimo del periodo 1564-1579 dei 134 bambini, provenienti dal Castello di Piansano, battezzati nella par-rocchia di S. Giovanni Battista di Valentano compaiono 15 bambini nati da genitori fananesi e modenesi. Tra i nominativi, alcuni indicati come “mastro”, vale a dire artigiani, occupazione particolarmente utile in quella prima fase di ricostruzione del paese.

Da un successivo studio incrociato dell’Index generalis omnium Bap-tizatorum e dei registri della parrocchia di San Giovanni Battista di Valen-tano, si è accertato che tra gli abitanti di Valentano, oltre agli autoctoni, alla componente etnica proveniente dalla Toscana e quella umbro-mar-

5 Notizie scritte dal dott. Antonio Mattei.

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Joannes Bartolomeus filius Joannis di Fanano...... compater Stefanus Johannis Modanensis...

Andrea Francesco figliolo di Bartolomeo modanese habitante nel Castello di Pianzano...

... et fu compater m° Gioanni murator figliolo di m° Pollonio Albinello da Lotta in Lombardia [Lotta frazione di Fanano]...

... et comater Piera de Giovantonio fananese...... et fu compater Pietro de Sabatino modonese...

... et comare donna Francescha moglie di Biascio romagniolo habitante al detto castello.

Pietro Domenico figliolo di Antonio di Matteio modonese habitante al Castello di Pianzano...

... et fu compare Rinaldo di m° Francescho modonese...... et fu compare Ventura di Gianino da Fanano...

... et comare donna Lucia figliola de Andrea modonese... et fu compare Giovanni di Domenico da Fanano...

Atti di battesimo del periodo 1564-1579, relativi ai figli, padrini e madrine fananesi e modenesi abitanti al Castello di Piansano

chigiana, tra il 1558 e il 1641, un centinaio di neonati risultano essere di origine emiliana: figli di modenesi, fananesi, romagnoli o bolognesi. Fra gli emiliani romagnoli che presenziarono al sacramento, compresi padrini e madrine, i modenesi ricorrono più o meno nel 40% dei casi e i fananesi all’incirca nel 35%, costituendo in assoluto la presenza di gran lunga più numerosa. Dai dati disponibili si ha l’impressione che la presenza mo-denese nel valentanese sia più tarda e maggiormente concentrata negli ultimi anni del Cinquecento e nei primi del Seicento, rispetto a quella piansanese dei decenni 1560-15706.

6 a. MaTTei, Pellegrino da Fanano “Modonesi” nel Castrense tra ‘5 e’600, in la Loggetta n.97, pp.5-10, Anno XVIII n.4, Ottobre/Dicembre 2013; Habitatores Planzani. I primi nati nella “terra promessa” dopo la colonizzazione del 1560, in la Loggetta n.96, pp. 4-9, Anno XVIII n.3, Luglio/Settembre 2013.

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L’ipotesi più plausibile è quella che modenesi e fananesi siano arrivati a Valentano richiamati dai primi giunti a Piansano impegnati con varie maestranze ed operai nella ricostruzione del castello. Questa tesi è avva-lorata dal fatto che mastro Giovanni muratore, figlio di mastro Apollonio Albinelli da Lotta, come dimostra un atto battesimale del 6 febbraio 1575, era a Piansano:

“…et fu Compater m° Gioanni murator figliolo di m° Pollonio Albinello da Lotta in Lombardia..”7.

7 Spesso genericamente i mastri o capomastri arrivati dal Nord venivano detti lombardi.

Atto di battesimo del 6 febbraio 1575 dove è nominato mastro Giovanni Albinelli

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Il suo trasferimento in terra piansanese è provvisorio, collegato ai lavori di riedificazione. Mastro Giovanni, ultimata la sua opera, ritorna a vivere a Lotta di Fanano, come si evince da vari documenti8. Questa migrazione temporanea, probabilmente, fu comune alla maggioranza dei fananesi, che tornati a casa promossero il centro di Valentano, più grande e con maggiori possibilità lavorative rispetto al vicino castello di Piansano.

Dai rogiti di magnanino magnanini e Antonio Giacomelli

L’emigrazione di diverse famiglie fananesi verso la Maremma e l’alta Tuscia è confermata da vari atti notarili rogati dal notaio Magnanino Ma-gnanini tra il Cinquecento e il Seicento:

Donna Clarice Bacci, figlia del fu Rogante Bacci, era sposata con Lattanzio di Viterbo9;Santino, figlio del fu Giacomo Pellegrino Foli di Fanano, abitava a Viterbo10;Donna Marsilia, figlia del fu Francesco Giovanni di Trignano, abitava a Piancastagnaio di Siena11;Antonio, figlio del fu Giovanni Belli di Fanano, abitava a Santa Fiora12;Dano figlio del fu Antonio Dani e la moglie Domenica Giunta - entrambi di Fanano - abitavano a Santa Fiora nel luogo detto la Trinità13; Donna Clara, figlia del fu Bertoia Valentini di Fanano e moglie di Giovanni Antonio Zannoni, anch’egli di Fanano, abitavano a Arcidosso. Il fratello di Clara abitava a Santa Fiora di Grosseto14. Donna Maria, figlia del fu Pietro, detto di Baldina, e il marito Giovanni Giacomo Bianchini - entrambi di Fanano - abitavano a Santa Fiora15.

8 A.S.Mo., Archivi notarili provinciali di Pavullo, b.21 notaio Magnanino Magnanini atto n. 277 del 21 Settembre 1581. Donna Antonia figlia del fu Battista Ciardi di Pianorso abitan-te a Fanano vende a Mastro Giovanni figlio di mastro Apollonio Albinelli di Lotta un pezzo di castagneto posto, nella curia di Fanano, in luogo detto Monte.

9 A.S.Mo., Archivi notarili provinciali di Pavullo, b. 21 notaio Magnanino Magnanini, atto n. 230 del 1 Dicembre 1580.

10 Ibidem, atto n.445 del 20 Agosto 1583.11 Ibidem, atto s.n. del 2 Settembre 1584.12 Ibidem, atto n.364 del 12 Agosto 1582. Contratto di matrimonio con donna Elisabetta

Parisini di Fanano, lo sposo promette di abitare in una casa in località Santafiora. 13 Ibidem, atto n.448 del 28 Agosto 1583.14 Ibidem, atto s.n. del 20 Giugno 1586.15 Ibidem, atto s.n. del 13 Settembre 1586.

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FANANOfra storia e poesia

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Borso, figlio del fu Antonio, altrimenti detto Borso Fardilli di Fanano abitava al castello di Castel del Piano di Grosseto16.

Pietro, figlio del fu Matteo Pedroni, di Trignano abitava al castello di Onano in provincia di Viterbo, “in castro Onani ducato degli Sforza di Santa Flora”17.

Dagli archivi parrocchiali di ospitale, serrazzone e Trignano

Gli abitanti di Ospitale e Serrazzone hanno vissuto per secoli grazie al bracciantato e soprattutto alla pastorizia, migrando con le loro greggi da fine settembre sino a tarda primavera in Toscana, nell’alta Tuscia laziale e nel ferrarese.

In una nota separata riportata nel primo registro dei morti della par-rocchia di San Giacomo di Ospitale sono trascritte le morti avvenute fuori

16 Ibidem, atto n. 906 del 8 Settembre 1592.17 a.s.Mo., Archivi notarili provinciali di Pavullo, b.77 notaio Antonio Giacomelli, atto n. 16

del 9 Settembre 1598.

Uno scorcio panoramico di Santa Fiora

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dal paese. In questa memoria tra il 1639 e il 1680 sono registrate 85 scomparse e due nel 1699. Le morti, come attestano gli atti, avvenivano principalmente in Maremma: 9 a Campiglia di Livorno 8 a Castagneto di Grosseto (oggi Castagneto Carducci) 8 a Grosseto (7 indicano come luogo di morte l’ospedale ed una la campagna) 7 a Suvereto di Livorno 4 a Montepescali di Grosseto 3 a Scarlino di Grosseto 3 all’ospedale di Siena 3 registrano “in Maremma”3 all’ospedale di Ravenna 3 a Bologna2 a Arcidosso di Grosseto 2 a Buriano comune di Castiglione della Pescaia di Grosseto 2 a Alberese di Grosseto 2 annotano genericamente “nelle campagne di Roma”2 a Cutigliano di Pistoiaseguono altre località della Toscana e dell’Emilia.

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Nel primo registro dei morti (1621-1720) della chiesa di Serrazzone le prime morti avvenute in Maremma sono registrate dall’anno 1689. Nel periodo tra il 1689 e il 1720 sono registrati 25 decessi, quasi tutti avvenuti nel grossetano: 4 a Santa Fiora, 4 a Grosseto, 2 a Scansano, una a Monte-merano di Manciano, a Magliano, a Buriano di Castiglione della Pescaia, a Pereta di Magliano, a Sasseto e una indicata genericamente “in Marem-ma”. Fuori dalla provincia di Grosseto sono indicate le località di Suve-reto di Livorno, Siena, Roma e Bassano Romano in provincia di Viterbo, Sant’Agata Bolognese e San Matteo della Decima in provincia di Bologna.

Il primo “Stato delle Anime18” della parrocchia di Trignano del 1752 riporta che tra il 1751 e il 1817 furono registrati 13 decessi di abitanti di Trignano in Maremma, mentre vi si accasarono la famiglia Giovanni Dinelli di Lorenzo di Casa Grigio e quella di Giuseppe Dinelli di Giovanni Pellegrino, che abitava alle Teggie.

Nel Cinquecento molte famiglie arrivarono a Fanano

In un interessante atto notarile, del 10 agosto 1537, rogato dal nota-io Accursio di Giacomo Muzzarelli alias Rocha di Fanano19, la comunità di Fanano, riunita in un consiglio generale o arengo, si pronuncia sulla

18 Gli Status Animarum o stati delle anime erano dei registri che, in seguito al Concilio di Trento (1545-1563), i parroci erano tenuti a compilare regolarmente: in esso erano regi-strati dati anagrafici e religiosi dei parrocchiani, pertanto possono essere considerati un censimento della popolazione.

19 a.s.Mo., Archivi Privati, Raccolta Jacoli.

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domanda di “comitatinanza”20 compiuta da alcuni forestieri abitanti a Fa-nano. I quali, infatti, non avevano gli stessi privilegi e vantaggi riservati ai terrieri; il capitolo XXV degli statuti di Fanano titolato

“Come i Forestieri possono essere fatti terrieri” recitava “Ordinia-mo, et deliberiamo che niun Forestiero di qualsivoglia grado, et preminenza, et niun suo discendente possa essere uomo del Com-mune di Fanano, ne ha verun modo godere alcuni honori, utilità, et entrate di esso Commune, se prima insieme adunati il Massaro, i Consiglieri, et i Sindici et l’Università, egli non sia accettato per huomo del Commune dalle due parti almeno delle tre di essi”.

Quasi tutti i cognomi si formano dopo il Concilio di Trento del 1564 ove si sancisce l’obbligo per i parroci di gestire un registro dei battesimi con nome e cognome, al fine di evitare matrimoni tra consanguinei. I cognomi, in questo documento dell’anno1537, non erano ancora formati e i forestieri sono indicati nell’atto con il nome seguito dal patronimico, dalla professio-ne svolta, dal luogo d’origine o dal soprannome. Tra questi figurano: Alessandro figlio del fu Giovanni, detto da Gaiato. In seguito i membri di questa famiglia assunsero il cognome GAIATI, originato dal luogo di provenienza.Pietrino del fu Bernabeo Mucino. Antonio Mucino, padre di Bernabeo, sul finire del Quattrocento venne ad abitare a Fanano proveniente da Vesale di Sestola. Il cognome MUCCINI, dato ai discendenti, in questo caso è ori-ginato dal nome del capostipite.Il magister Gregorio detto “balugano”, figlio del fu Bertoni, mugnaio di Torre Pietrabuona (munarii di turi petri boni), località di Pescia (PT). Il soprannome balugano darà vita al cognome BALLUGANI21.

GHERARDINI; gli appartenenti a questa casata sono indicati con il nome seguito dal paese di origine: Apollonio del fu Corradino di vexallo (di Ve-sale). I figli di Apollonio verranno indicati col cognome originario.

20 La comitatinanza status politico e giuridico spettante agli abitanti del territorio extraurba-no (comitatus) soggetto alla città dominante. In questo caso la differenza dei diritti civili è tra gli uomini del comune di Fanano che tramite una istanza soggetta a successiva vota-zione dei componenti l’assemblea generale degli uomini del comune potevano chiedere di essere accettati come terrieri. Una volta concessa la “cittadinanza”, questa era trasmissi-bile per sempre ai propri discendenti.

21 a.s.Mo., Archivi notarili provinciali di Pavullo, busta 22, atto n. 901 del 1 Agosto 1594, notaio Magnanino Magnanini. Da questo atto si evince che Camilla e Polissena, sorelle e figlie del fu Antonio Ballugani di Fanano, andarono a vivere in Toscana. Antonio Ballugani era figlio di Gregorio detto “Balugano”.

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FANANOfra storia e poesia

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I “magistri” Giacomo del fu Guglielmo di valle San Martino (M.r Iac. q. guie di valli s.ti martini) e Antonio del fu Guglielmo scalpellino di Firenze (M.r Ant. q. guielmi scarpelini di florintia). Guglielmo, figlio di quest’ultimo, si sposerà, poco oltre la metà del Cinquecento, con Giovanna Ballocchi e si trasferirà ad Ospitale dove si stabilirà definitivamente. Si può ipotizzare che Giacomo e Antonio fossero fratelli, considerato che la provenienza del primo (valle S.Martino) è l’equivalente dell’odierna S. Martino a Mensola, località di Fi-renze. Il mestiere di scalpellino che aveva caratterizzato fino a quel momento tutti i componenti di questa famiglia genererà il cognome SCARPELLINI. Mastro Simone del fu Pietro da Rota in Val d’Imagna in provincia di Ber-gamo e il fratello mastro Antonio, detto il bravo. I discendenti di Pietro assumeranno il cognome ROTA dal paese di origine del capostipite.Andrea del fu Guido di Monterastello di Verica, per sé ed in nome di Giob-be e Lolo suoi fratelli chiese di poter diventare fananese. I fratelli Andrea e Lolo, figli del fu Guido e dell’Apollonia, si trasferiranno a Pian della Farnia di Serrazzone ed in seguito si dirameranno nella vicina Ospitale. Il nome Andrea darà vita al cognome ANDREONI, mentre il nome Lolo genererà il cognome LOLLI. Nei registri parrocchiali vengono indicati come Andrea e Lolo “della Polonia”. Alessandro detto il fra, figlio del fu Giacomino da Digano di Montecreto per sé e suo fratello Picinotto. Questa famiglia in seguito assumerà il co-gnome PICCINOTTI e abiterà a Serrazzone.

La formazione dei cognomi è stata comprovata dalla ricostruzione degli alberi genealogici avvalendoci dei documenti dell’Archivio di Stato di Modena e dell’Archivio Parrocchiale di Fanano. Nell’elenco dei forestieri abitanti a Fanano figurano anche Giovanni detto “comastro” del fu Cristo-foro da Marchirolo di Varese e Giovanni Maria del fu Simone di Monteba-ranzone, comune di Prignano sulla Secchia. Per questi non si è arrivati a determinare il cognome.

Nel Cinquecento a Fanano la presenza di famiglie provenienti da altri comuni del Frignano, dal Ducato Estense e da paesi esteri come il Ducato di Milano, la Toscana e il bolognese, è rilevante, stimabile con buona ap-prossimazione attorno al 45% della popolazione complessiva22. Oltre alle famiglie precedentemente illustrate: Andreoni, Ballugani, Gaiati, Gherar-dini (ramo di Fanano), Lolli, Muccini, Piccinotti, Rota e Scarpellini nel XV e XVI secolo si trasferirono nel territorio fananese molte altre casate.

22 P. Mucci, “Movimenti migratori verso l’alto Frignano all’inizio dell’età moderna”, pubblicato in Migranti dall’Appennino. Atti delle giornate di studio (Capugnano, 7 settembre 2002), a cura di Paola Foschi e Renzo Zagnoni, Porretta Terme - Pistoia, 2004, pp. 103-112

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Notizie di alcune famiglie venute a Fanano nel XV e XVi secolo

FAmiGliA luoGo sEColo luoGo PRimo Di PRoVENiENZA TRAsFERimENTo

Gli Albinelli Sestola XVI (1559)23 SerrazzoneI Bastagli Roncoscaglia di Sestola XVI (1603)24 FellicaroloI Bazzani Coscogno di Pavullo XVI (1509)25 TrentinoI Benassi Vaglio di Lama Mocogno XVI (1582)26 SerrazzoneI Benedelli Benedello di Pavullo XVI (1576)27 FananoI Bonucci Roncoscaglia di Sestola XVI (1577)28 SerrazzoneI Borri Milano XVI (1590)29 FananoI Boselli Sestola XVI (1598)30 Lotta

23 a.s.Mo., Archivi notarili provinciali di Pavullo, b. 20, n.105, notaio Battista Magnanini. Atto del 24 gennaio 1559, “Salustius del fu Baldassaris Albinelli de Sextula ad pns habi-tator in Curia fanani a Serazoni”.

24 A.P.F., I Libro dei battesimi, 1565-1624, atto di nascita, del 18 marzo 1603, è stata battezzata Caterina figliola di Giovanni Bastaio da Roncodiscaglia e di Fiore sua moglie. Il cognome Bastagli deriva del mestiere svolto dal capostipite il bastaio. Il bastaio era un artigiano che costru-iva i basti, specie di grossa e rozza sella di legno, che si metteva sul dorso delle bestie da soma per il trasporto di ceste od altro carico. Giovanni Bastaio da Roncoscaglia di Sestola verso la fine del Cinquecento con certezza abitava a Fellicarolo

25 a.s.Mo., Archivi notarili provinciali di Pavullo, b. 7, notaio Giovanni Battista Albinelli, atto del 14 aprile 1509, Andreas filius iacobi dei Bazanis di coscogno habitator trentiny. L’atto oltre che rivelarci la provenienza di questa casata è interessante perché tra i presenti figura il rettore della chiesa di Trentino don Giacomo Tarolo di Reggio Emilia.

26 a.s.Mo., Archivi notarili provinciali di Pavullo, b. 21, n.392, notaio Magnanino Magnanini, Nel testamento di Accursio Muzzarelli redatto il 18 ottobre 1582, tra i confinanti è citato “Ioannem Marcum Benassium de Valio habitantem Fanani”

27 a.s.Mo., Archivi notarili provinciali di Pavullo, b. 20, n.216, notaio Battista Magnanini. Atto del 31 agosto 1561 – Ruggero figlio del fu Gio.Battista Alberghini di Fanano vende al Magnifico Signore Antonio Benedelli fisico e habitator fanani una casa nel luogo detto “alla casa del bastaio”. Questa importante casata era originaria di Benedello di Pavullo.

28 A.P.F., I Libro dei matrimoni, 1567-1687. Atto di matrimonio del 16 Giugno 1577, Antonio figlio di Buonucio da Ronchodeschiaia sposa Chamila fiola di GioGiacomo d’Andrea Muc-ciarello

29 A.P.F., I registro dei battesimi 1565-1624, atto di nascita del 29 Settembre 1590, “fu bat-tezzato un figliolo di Bartolomeo fu di Ambrogio fabro milanese e di Elisea sua moglie si le pose il nome Ambrogio”.

30 a.P.loTTa, I Libro dei matrimoni, 1594-1762. Atto di matrimonio del 10 Aprile 1598, La-zarum de Bosellis Parochie Sti Nicolai de Sextula et Luciam filiam Petri de Mengonis.

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I Brani S. Martino a Mensola (FI) XV (1496)31 FananoI Cameroni Montecenere di Lama M. XVI (1531)32 FananoI Cattinari Bergamo XV (1480)33 Lotta-FananoI Cavoli Cavola di Reggio Emilia XV (1461)34 TrignanoI Contri Castello di Riolunato XVI (1591)35 LottaI Contughi Bologna XVI (1530)36 Fanano

31 a.s.Mo., Archivi notarili provinciali di Pavullo, b. 4, n. 167. Notaio Giacomo Albinelli, atto dell’undici Aprile 1496. Donazione di beni al convento di San Francesco presso Fanano, tra i testimoni figurano il maestro scultore Masio (o Tommaso) del fu Papino di Firenze ed il maestro muratore Guglielmo del fu Mariano di Val di Lugano, entrambi dimoranti nella terra di Fanano. Il ramo di Giovanni Battista, nipote di Masio, assumerà il cognome Brani.

32 b.e.Mo., Fondo Campori, n.262, Notizie di Fanano, origine d’alcune Famiglie, dove si legge “Li Cameroni da Montecenre instrom.pacis”. Il riferimento è al documento del 9 febbraio 1531, rogato da Pellegrino Orio, relativo alle condizioni della pace conclusa fra le parti di Fanano, dette la parte di fuora e la parte di dentro. Tra i rappresentanti della parte di fuori figura “Sanctus Cambroni de monticinere”. In principio il cognome usato nei vari atti era Camberoni che muterà verso la fine del Cinquecento in Cameroni.

33 Ibidem., I Cattinari vennero ad abitare a Lotta e Fanano sul finire del Quattrocento come attesta un atto del notaio Tommaso Bellettini del 25 luglio 1480 Michelli quondam Cati-nari de Bergamo; A.S.Mo., Archivi notarili provinciali di Pavullo, notaio Giovanni Battista Albinelli, b.7, atto del 28 ottobre 1507, “Magistro Michaeli Catinario q. magistri Joanis di bergamo habitatory fanani”. Il cognome trae origine dalla professione di “catinarius” ossia fabbricante di catini, di vasi, di mastelli e secchi.

34 a.s.Mo., Confini dello Stato, busta 61/b. Nell’atto di unione tra Fanano e Trignano del 15 maggio 1461, figura Silvestro del fu Giovanni di Cavola abitante a Trignano.

35 A.P.F., I registro dei battezzatti, atto di nascita del 18 aprile 1591 “fu battezzata una figliu-ola di mastro Mariano da Castello….”

36 b.e.Mo., Fondo Campori, n.262, Notizie di Fanano, origine d’alcune Famiglie. Li Contughi da Bologna. Pellegrino Rinaldi 1530. li 19 giugno presens Francescum quondam Christo-pori Contughi da Bononia Fanani habitator.

Gli Stemmi delle famiglie fananesi riprodotti sono stati tratti da un libretto del 1915 opera di Ettore Lardi per le biografie delle famiglie e di Guglielmo Lardi per i disegni.

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FANANOfra storia e poesia

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I Gambaiani Vesale XVI (1595)37 LottaI Gherardini Vesale XVI (1575)38 TrentinoI Fogliani Montalbano di Zocca XVI (1569)39 FananoGli Iacoli Missano di Zocca XVI (1583)40 FananoI Lardi Riva di Montese XVI (1584)41 FananoI Livaldi Benedello di Pavullo XVI (1555)42 FananoI Monari Roncoscaglia di Sestola XVI (1573)43 Fellicarolo

37 a.P.loTTa, Maria primogenita d’Apollonio nacque a Lotta il 24 novembre 1595. “…..baptizzavi infantem natam die antedicto ex Apolonio Gambaiano et Matthea coiugibus de Vexalo….”.

38 Archivi notarili provinciali di Pavullo, notaio Donino Gherardini di Vesale, atto del 21 gennaio 1575: rinnovazione del livello da parte di don Antonio, rettore della chiesa di Trentino, a Giovanni e GiovanGiacomo, suoi fratelli e figli del fu Donino Gherardini.

39 A.P.F., I registro dei battesimi, atto di nascita del 18 dicembre 1569, fu battezzata Giacoma di Michele Tessitore e Margherita. Michele Tessitore da Montalbano ha quattro figli maschi: Agramante, nato il 3 Gennaio 1582; Baldisserra (Baldassarre) nato il 9 Settembre 1579; I registro dei matrimoni, Aquilante di Michele di Antonio Fogliani sposa, il 22 luglio 1592, Caterina del fu Guidetto; Antonio, figlio di mastro Michele Tessitore sposa, il 2 Febbraio 1593, Anastasia di Alessandro; Mastro Michele, figlio di Antonio, svolgeva la professione di tessitore. Il cognome Fogliani nei registri parrocchiali si rafforzerà agli inizi del Seicento.

40 A.P.F., I Libro dei matrimoni, 1567-1687. Atto di matrimonio del 13 ottobre 1583, Ge-miniano figlio di Leonello Thaquila (Iacoli) da Misano e Violante figlia del fu capitano Sabadino Mucciarello.

41 a.s.Mo., Archivi notarili provinciali di Pavullo, b.21,s.n., notaio Magnanino Magnanini. Atto del 14 ottobre 1584, testamento di Bona figlia di Matteo dei Lardi di Ripa (Riva), abitante a Fana-no, questa nomina erede universale di tutti i suoi beni il fratello Giacomo con il patto che essi cadano poi in successione a Ripa (Riva) figlio del medesimo Giacomo nipote della testatrice.

42 b.e.Mo., Fondo Campori, n.262, Notizie di Fanano, origine d’alcune Famiglie. I Livaldi vennero da Benedello nel 1555 esercitavano l’arte del fabbro.

43 A.P.F., I Libro dei morti, dal 1565 al 1687, atto di morte del 9 giugno 1573, è morto Batista da Roncho di Scaia, Munaro di M. Batistino Ottonelli. La casata Monari, proveniente da Roncoscaglia, verso la metà del Cinquecento abitava a Fellicarolo. Battista da Roncosca-glia di Sestola è il capostipite, esercitava la professione di molinaro ed era mezzadro di Battista Ottonelli. Monari è una variante del cognome Molinari derivato dal mestiere di molinaro “proprietario, gestore di un mulino”. Il cognome Monari, trae origine da monaro o munaro, munèr, forma dialettale usata nell’Emilia Romagna.

Da sinistra, gli stemmi

delle Famiglie Contri, Gherardini

e Perfetti

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FANANOfra storia e poesia

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I Monterastelli Monterastello di Verica XVI (1589)44 OspitaleI Palazzini ducato di Milano XVI (1585)45 OspitaleI Perfetti Lama Mocogno XV (1458)46 LottaI Ranieri S.Dalmazio Serramazzoni XVI (1529)47 FananoI Rossi Varana di Serramazzoni XVI (1507)48 LottaGli Scaramuccia S.Vittore Olona/Legnano(MI) XVI (1580)49 FananoI Turchi S. Marcello Pistoiese (PT) XVI (1509)50 FananoGli Zanarini Roncoscaglia di Sestola XVI (1577)51 Fellicarolo

44 A.P.F., I rappresentanti della famiglia Monterastelli nei registri parrocchiali delle chiese di Fanano ed Ospitale in principio, spesso erano indicati con il nome seguito dal paese di provenienza “da monte Rastello” (Monterastello). Biagio, figlio di Bartolomeo, si unisce in matrimonio con Maria. Da Biagio e Maria, nascono Bartolomeo, Elisabetta, Caterina, Domenica e Giulia. Bartolomeo ha come figlio Sabatino: “Adì 12 di settembre 1589 fu battezzato un figliuolo di Bartolomeo di Biagio Monterastelli dall’Ospitaletto e di Antonia sua mogliera”.

45 A.P.F., I Libro dei battesimi, 1565-1624. Nel battesimo di Maria Sabbatini avvenuto il 24 aprile 1585, la testimone annotata è “Maria fu figlia di Mro Pedro Palazzino Milanese habitante a Fanano”

46 a. sorbelli, Regesti del notaio Giovanni Albinelli, Bologna 1903, p.89. Atto del 29 marzo 1458 redatto a Sestola si legge “Burnato fu Antonio di Lotta vende a Perfetto fu Bondì di Mocogno un prato posto nella curia di Sestola e Lotta detto Le Panigaie per lire 27, con diritto di ricupera entro 4 anni”.

47 b.e.Mo., Fondo Campori, n.262, Notizie di Fanano, origine d’alcune Famiglie.“Li Ranie-ri da S. Almasio. Pellegrino Rinaldi 1529. li 10. giugno. Iacobo tutor de Raineriis de S.Almasio Fanani habitator”

48 a.s.Mo., Archivi notarili provinciali di Pavullo, b. 7, notaio Giovanni Battista Albinelli, atto del 15 marzo 1507, Joanes antonius q. marci de rubey de Varana habitator Lotte.

49 A.P.F., I Libro dei matrimoni, 1567-1687. Atto del 17 Aprile 1580, “Si e contrato il sposa-litio fra gio.batista Milanese et Maria fiola fu di posente bianchino in presentia di Mastro Scaramucia Magnano Milanese et giovane di lando lazaroni”.

50 a.s.Mo., Archivi notarili provinciali di Pavullo, b. 7, notaio Giovanni Battista Albinelli, atto del 19 maggio 1509 - Frate Silvestro del fu Filippo Silvestro di Fanano, guardiano del con-vento di San Francesco … vende una casa a Bartolomeo, detto il turco, del fu Bartolomeo Pellegrino di San Marcello, abitante a Fanano. La casa è sita in castello fanani in loco dicto campo del fiore.

51 A.P.F, I Libro dei morti, 1565-1687. La genealogia dei Zanarini di Fellicarolo ha origine da Agostino di Roncoscaglia, mezzadro del signor Gio.Domenico Ottonelli. Agostino, muore il 9 ottobre 1577, a quasi settanta anni.

A.S.Mo., Archivi notarili provinciali di Pavullo, b. 21, atto di vendita del 17 giugno 1583, rogato da Magnanino Magnanini, ove si legge che i figli di Agostino: Giovanni detto Za-narino e Domenico “habitatores di presenti curia Fanani in villa vulgariter nuncupata il Fellicarolo”.

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maestri artigiani calzolai, scalpellini e muratori

Nel Cinquecento Fanano era uno centri più ricchi del Frignano; basti pensare che sulle duecentonovantatre famiglie del territorio del Frignano che possedevano beni non inferiori ai 500 scudi, ben novanta vivevano a Fanano. Un paese florido, relativamente alla nostra montagna, ove diver-se maestranze vi giungevano per lavorare e successivamente ne richiede-vano la comitatinanza. Un mestiere assai diffuso e di cui troviamo nume-rose testimonianze nei documenti del Quattrocento ed anche del secolo successivo è quello del calzolaio

“e lo comprendiamo facilmente se pensiamo ai freddi, ai ghiacci, alla condizione dei sentieri e delle vie piene di sassi e irte di punte aguzze e al conseguente notevole bisogno e facile logora-mento delle scarpe o dei calzari”.52

Nel Cinquecento risultano molti calzolai attivi a Fanano di provenienza esogena: mastro Giacomo da Siena53, mastro Giovanni da Porretta Terme54, mastro Michele del fu Felice da Iddiano di Pavullo55, mastro Luca del fu

52 a. sorbelli, Il Comune rurale dell’Appennino emiliano nei secoli XIV e XV, Bologna 1910, pp.318-319.

53 A.P.F., I Libro dei matrimoni, 1567-1687. Atto di matrimonio del 6 settembre 1569, Ma-stro Cristoforo Scarpellino sposa Cassandra figlia di Mastro Giacomo calzolaio da Siena.

54 Ibidem., Atto di matrimonio dell’otto luglio 1568, Mastro Giovanni dal Bagno sposa Loren-za figlia di Cassandra di Iona da Fanano.

55 a.s.Mo., Archivi notarili provinciali di Pavullo, notaio Magnanino Magnanini. Atto di ven-dita del 30 maggio 1574, Mastro Michele calzolaio di Iddiano, abitante a Fanano, compra da Matteo figlio di Giacomo Sabbatini un pezzo di castagneto a Fanano nel luogo volgar-mente detto le Roncadelle.

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FANANOfra storia e poesia

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Fabiano da Samone di Guiglia56, mastro Giovanni Antonio del fu Geminia-no da Porretta Terme57, Mastro Luca da Miceno58. Tra i calzolai troviamo anche un mastro Battista calegaro, ossia un artigiano che fabbricava le calzature, i sandali e provvedeva anche alla loro riparazione. Battista, sposato con Polissena Lardi, in alcuni atti veniva anche definito scandola-io, o “del scandolaio”, in quanto anche il padre Andrea esercitava questa professione, che consisteva nel lavorare il legno e fabbricare le scandole, che erano delle assicelle che venivano utilizzate per la copertura dei tetti. Arrivano anche molti “magistri” bravi architetti, costruttori o scultori del-la pietra, questi ultimi chiamati modestamente: tagliapietra, scalpellini o lapicidi. I maestri scultori fiorentini, originari di San Martino a Mensola, vicino a Settignano di Firenze, discendenti del maestro scarpellino Masio del fu Papino e da suo fratello Antonio59. Giovanni Battista, nipote di Ma-sio, assumerà il cognome Brani60, un altro ramo di questa famiglia avrà il cognome Scarpellini. I maestri scalpellini Contri provenienti da Castello di Riolunato che si stabilirono a Lotta61.

I Lardi provenienti dalla Riva di Maserno di Montese, alcuni di loro ap-pellati col titolo di “mastro scalpellino”. I Gambaiani provenienti da Vesale con mastro Apollonio scalpellino-muratore. Gli Albinelli provenienti da Se-stola con mastro Giovanni muratore di Lotta. Gian della famiglia Perfetti di Lotta, altrimenti detto “GiovanMaria comastro”. Alcuni sono maestri della zona, altri sono muratori-scalpellini forse eredi dei maestri comacini, dei laghi lombardi. Questi ultimi sono già presenti a Fanano nel Quattrocento e continuano ad arrivare anche nel Cinquecento come attestano: Giovannni

56 A.P.F., I Libro dei battesimi, 1565-1624. Atto di nascita, dell’otto aprile 1582, Fabiano figlio di Luca calzolaio da Samone.

57 a.s.Mo., Archivi notarili provinciali di Pavullo, b. 21, notaio Magnanino Magnanini. Atto del 23 aprile 1581, Magistri Io.Ant. q. Geminiani di Balneo Porectar habit. Fanani. Atto del 6 no-vembre 1580, Mastro Luca del fu Fabiano di Samone abitante a Fanano riceve la dote di sua moglie Cassandra figlia di Mastro Giovanni Antonio calciolarij di Balneo habitatoris Fanani.

58 A.P.F., I registro dei morti, 1565 al 1687, atto di morte del 27 marzo 1585, “e morta cha-mila madre di Mastro Luca calzolaro da mozeno”.

59 P. Mucci, Maestri scultori fiorentini attivi a Sestola e Fanano nel Cinquecento, E’ Scamadul n.5/2003; Fanano fra storia e poesia n.15/2007. In questo interessante articolo il professore Paolo Mucci illustra con dati e documenti la storia e le opere di questa famiglia di scultori.

60 a.s.Mo., Archivi notarili provinciali di Pavullo, b. 22, atto n. 1118 del 3 Luglio 1596 “olim m° Dionisio f.q. m° Jo.Baptista di Brani”. A.P.F., I registro dei battezzati, atto di nascita del 10 ottobre 1600 “fu battezzato un figliolo di Francesco Brani e di Domenica sua moglie. Francesco è figlio di Dionisio di Giovanni Battista Brani...”.

61 A.P.F., I registro dei battezzatti, atto di nascita del 18 aprile 1591 “fu battezzata una figliu-ola di mastro Mariano da Castello…”.

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Maria, mastro muratore di Ferrera di Varese62, Pietro capostipite della fa-miglia Palazzini, costruttore di palazzi, venuto dal Ducato di Milano63, ma-stro Giovanni detto “comastro” del fu Cristoforo da Marchirolo di Varese64.

Curiosità

Per alcuni storici la casata Lardi discendeva da Rivo, aristocratico no-taio di Ferrara inviato dagli estensi a Fanano verso la fine del Cinquecento, con l’incarico di commissario, ciò non corrisponde a verità; in realtà tra il 1597 ed il 1602, era attivo a Fanano un notaio Riva Lardi fananese, non blasonato e con una storia singolare. Mastro Riva svolgeva infatti la pro-fessione di scalpellino: diventato notaio, per motivi a noi ignoti dopo circa 5 anni torna ad esercitare il suo primo lavoro. Questa ricostruzione è stata possibile grazie al rinvenimento di un documento inviato dal governatore di Sestola al duca di Modena, il 21 febbraio 1606, in occasione del delitto del notaio Domitio Lardi. Nella deposizione di un testimone si legge:

“m. Riva Lardi chi per mezo di ser Alberto di scarpelino diventò notaro, e non gli parve vero honorato volsi farsi per piazza Gen-tilhuomo di Fanano ni havendo potuto è tornato scarpelino”. 65

Bartolomeo Borri scalpellino

Dal primo registro dei matrimoni è evidente la propensione a sposarsi tra figli di maestri artigiani. Il 27 gennaio 1587, mastro Bartolomeo, figlio di mastro Ambrogio Borri – fabbro milanese, sposò Elisea, figlia di Ma-

62 A.P.F., Giovanni Maria, mastro muratore da Ferrera di Varese, il 21 gennaio 1591, nell’o-ratorio di Fellicarolo, sposò Maria Maddalena Guidarini.

63 Nel battesimo di Maria Sabbatini avvenuto il 24 aprile 1585, la testimone annotata è “Ma-ria fu figlia di Mro Pedro Palazzino Milanese habitante a Fanano”. Bernardino, figlio di Pietro, continuerà la professione del padre, sposandosi a Fellicarolo, l’otto giugno 1578, con Orsina figlia di Michele di Biaso da Risicciola” ed in seconde nozze il 4 ottobre 1579, con Rosina sorella d’Orsina. La coppia andrà a vivere ad Ospitale, dove dai figli Pietro e Fanano detto Fananino proseguirà la genealogia dei Palazzini di Ospitale

64 a.s.Mo., Archivio privato Iacoli, mazzoII/1, “Copia del secolo XVI di due atti, il primo del 9 febbraio 1531, rogato in Sestola dal notaio Pellegrino Orio, e l’altro del giorno ultimo di febbraio rogato in Sestola dal notaio Stefano Magnani, relativi alle condizioni della pace conclusa fra le parti di Fanano, dette la parte di fuora e la parte di dentro”. Tra i fautori della parte di fuori figura il “Magr. Johanes q. xphori de marchirolo”.

65 a.s.Mo., Rettori dello Stato - Frignano, busta 9, governatore Puglia Flaminio 1605-1609.

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stro Dionisio Brani, scalpellino discendente dei maestri di San Martino a Mensola (FI). Curiosamente Bartolomeo diversamente da quanto era so-lito accadere nel periodo, non seguì l’arte del padre ma si applicò nell’ar-te di scalpellino insegnatagli dal suocero Dionisio. Betta, sorella di mastro Bartolomeo, sposò il milanese mastro Scaramuccia, figlio del fu Domenico Chiappi, definito in vari atti “magnano milanese”, cioè un fabbro di chiavi, serramenti, toppe, gangheri ecc.66 I discendenti di Domenico Chiappi di San Vittore presso Legnano a Fanano assumeranno il cognome Scaramuccia.

Il prof. Paolo Mucci, nel suo saggio “Movimenti migratori verso l’alto Frignano all’inizio dell’età moderna”, aveva chiuso l’articolo augurandosi che la ricerca su questo tema diventasse oggetto di approfonditi studi mul-tilaterali. Ho cercato di contribuire all’avverarsi dell’autorevole auspicio con questa ricerca sui movimenti migratori da e per Fanano attingendo anche dagli studi in materia condotti da Antonio Mattei di Piansano (VT) e Lidiano Ballocchi di Santa Fiora (GR), che colgo l’occasione di ringraziare. Si tratta di piccole microstorie che mi auguro si rivelino utili alla ricostru-zione di parte del passato delle nostre amate terre.

66 a.s.Mo., Archivi notarili provinciali di Pavullo, b. 22, notaio Magnanino Magnanini, atto n. 875 del 6 Novembre 1591. “Honesta mulier D. Bettha f.q. Ambrosy di m.ri Jacobini Borri di Fanano uxorem m.ri Scaramutia f.q. Dom.ci di Chiappis Ducato Mediolanensis ad pns habitator Fanani”. Da questo atto è evidente che i Borri erano già stati accettati come “cittadini” di Fanano, mentre gli Scaramuccia erano ancora considerati forestieri.

Incontro a Fanano tra Antonio Mattei, con la moglie, Gaetano Lodovisi e Raimondo Rossi Ercolani

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FANANOfra storia e poesia

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Nell’archivio storico parrocchiale di Fanano sono conservati due re-gistri rilegati con quattro fogli che provengono da un antico codice scritto in notazione nonantolana. Si tratta di un tipo di scrittura musicale molto importante e particolare, diffusa soprattutto tra la fine del secolo X e la prima metà del XII in un’area geografica ristretta che trova il suo centro principale in Nonantola.

I fogli provengono probabilmente da uno stesso manoscritto smem-brato e sono databili fra i secoli XI e XII. Rilegano due libri della par-rocchia di Lotta: il volume dei matrimoni celebrati tra il 1594 e il 1782 e quello delle cresime impartite tra il 1611 e il 1772. Se si suppone che i registri siano stati confezionati in concomitanza con le prime registra-zioni degli atti, fu probabilmente il parroco don Camillo Stacchini (morto nel 1620),2 ad aver avuto in mano il codice completo, da tempo caduto in disuso, o forse alcune delle sue robuste carte pergamenacee, molto adatte all’impiego come coperta dei più delicati registri cartacei. C’è da chiedersi come ne sia venuto in possesso per cercare di ricostruire la storia di questi rari documenti.

Frammenti così antichi conservati a Fanano inducono a pensare alla storica abbazia benedettina fondata nel 749 dal monaco Anselmo, cogna-to del re longobardo Astolfo. Le carte potrebbero verosimilmente aver fatto parte di un libro liturgico in uso in questo illustre cenobio, di cui costituirebbero prova di vita e attività nei secoli XI e XII. Tuttavia, l’assen-

ANTIChI SUONI DA RARE CARTE FANANESI1di Stefania Roncroffi

1 Ringrazio il prof. Cesarino Ruini e il dottor Milo Spaggiari che mi hanno segnalato la pre-senza del primo registro, indizio che mi ha permesso di rinvenire poi il secondo; il parroco di Fanano don Michele Felice, la prof.ssa Giovanna Pasini Rocchi e Andrea Ballocchi per la disponibilità nella consultazione dei registri; la dottoressa Silvia Battistini per i sugge-rimenti sulla datazione; don Riccardo Fangarezzi, il professor Raimondo Rossi Ercolani e il dottor Giovanni Varelli per le preziose indicazioni bibliografiche; mons. Adriano Tollari, direttore dell’Ufficio dei Beni Culturali della Diocesi di Modena, che mi ha concesso di effettuare le riproduzioni fotografiche.

2 Cfr. alFreDo silVesTri, Sulle frazioni. Lotta, “Fanano fra storia e poesia”, XII, 2004, pp. 13-33: 26.

(Immagini pubblicate per gentile concessione dell’Ufficio Beni Culturali della Diocesi di Modena)

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FANANOfra storia e poesia

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za totale di documentazione in merito alla storia dell’abbazia in questo periodo porta a considerare l’ipotesi che i frammenti provengano da un volume prodotto per Nonantola, da cui peraltro il monastero di Fanano dipendeva.3 Forse il parroco di Lotta, trovandosi a dover rilegare i pri-mi registri dei sacramenti, ha impiegato carte provenienti da un codice nonantolano smembrato poiché caduto in disuso. Già dal secolo XV nel-la biblioteca di Nonantola viene documentata una dispersione di volumi, soprattutto libri liturgici, sostituiti perché non più aggiornati, le cui carte vennero in parte riutilizzate nelle rilegature dei codici amministrativi cin-quecenteschi e seicenteschi.4

Fanano, Archivio storico parrocchiale, Libro dei matrimoni (1594 -1782)

3 La bibliografia più datata sulla storia del monastero è stata esaminata da Raimondo Rossi Ercolani che fa chiarezza sulle posizioni dei vari storici e le sintetizza in raiMonDo rossi ercolani, La chiesa e il convento di San Giuseppe nella storia di Fanano, Livorno, Debatte Editore, 2002, p. 10 e a p.12 della nuova edizione della stessa opera, rivista, corretta e largamente ampliata, pubblicata nel 2012 dallo stesso editore con il titolo San Giuseppe di Fanano, la “Chiesa dei Padri”

4 Cfr. MariaPia branchi, Lo scriptorium e la biblioteca di Nonantola, Modena, Artestampa, 2011, p. 114.

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I frammenti rinvenuti constano di quattro fogli di due carte ciascuno e costituiscono la coperta anteriore e posteriore dei due registri. Sono stati adattati in modo da essere consoni al nuovo formato: ne è stato dunque modificato l’orientamento, per cui è stata assunta la base orizzontale ori-ginale come lato verticale. Il primo foglio, passante per il dorso, è stato cucito sul secondo e ne copre parte del contenuto. I bordi sono ripiegati all’interno e sopra ad essi sono incollati fogli cartacei. Dieci sono le linee di testo e musica visibili, anche se probabilmente nelle pagine del codice originario ne erano presenti dodici. Le carte presentano scrittura carolina in inchiostro nero, iniziali e rubriche in rosso e la tipica notazione nonan-tolana.

La notazione musicale comincia ad apparire nei manoscritti tra i se-coli VIII e IX, nel periodo di formazione del canto gregoriano. Era basata su neumi (segni), posti sopra al testo, che indicavano l’andamento della melodia, ed erano un ausilio mnemonico per i cantori. Si svilupparono in tutta Europa numerose grafie neumatiche, diverse a seconda delle aree geografiche e dei centri di produzione. Una svolta si ebbe con l’opera di Guido d’Arezzo nel secolo XI, che promosse l’introduzione di un sistema

Fanano, Archivio storico parrocchiale, Libro dei cresimati (1611 -1772)

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5 Sulla storia della notazione neumatica cfr. Mauro casaDei Turroni MonTi, La nascita della scrittura musicale in Atlante storico della musica nel Medioevo, a cura di Vera Minazzi e Cesarino Ruini, Milano, Jaca Book, 2011, pp. 50-53.

6 Cfr. rené-Jean hesberT, Corpus Antiphonalium Officii, 6 voll., Roma, Herder, 1963-1979 (Rerum Ecclesiaticarum Documenta Cura Pontifici Athenaei Sancti Anselmi de Urbe Edita - Series maior: Fontes, VII-XII): voll. III: Invitatoria et antiphonae, Roma, Herder, 1968, e IV: Responsoria, versus, hymni et varia, Roma, Herder, 1970.

di linee in modo che i neumi, posti su righi e spazi, venissero a determi-nare l’altezza precisa dei suoni.5 Tra le diverse famiglie neumatiche si an-novera anche quella nonantolana, una tipologia di scrittura rara e diffusa in un’area circoscritta, che presenta come peculiare caratteristica un’asta verticale che, partendo dal testo - solitamente la vocale di riferimento - si estende verso l’alto fino a raggiungere l’altezza della nota corrispondente. Le carte di Fanano presentano questa notazione nella sua fase più tarda di sviluppo: i neumi sono posizionati su un sistema di righi con una linea rossa per il Fa e una gialla per il Do. Nonostante le difficoltà di lettura, per il naturale deterioramento dei fogli, tutti i canti sono stati identificati e fanno parte del vasto repertorio del canto gregoriano conosciuto e censito in un fondamentale repertorio di riferimento, il Corpus Antiphonalium Officii.6

Il canto gregoriano era la preghiera del periodo medievale, in lingua latina, generalmente monodico (a una sola voce) per solisti e coro, senza accompagnamento strumentale, cantato nelle comunità monastiche sia maschili che femminili durante la Messa e la Liturgia delle Ore, cioè quei diversi momenti del giorno e della notte in cui nelle comunità monastiche ci si ritrovava per la preghiera corale.

Le otto carte di Fanano contengono canti dell’Ufficio delle Ore, in par-ticolare responsori e antifone per le feste dei santi Cecilia (22 novembre), Clemente (23 novembre) e Andrea (30 novembre), e altri previsti inve-ce per la liturgia del Proprio del tempo, con testi tratti dai libri biblici di Tobia, Ester, Giuditta e i Profeti, eseguiti solitamente dopo la fine di settembre prima dell’Avvento. I canti appartengono a festività vicine nel calendario liturgico e i fogli provengono a due a due dallo stesso fascicolo; anzi i due fascicoli potevano anche essere contigui all’interno del codice originario che era dunque un antifonario, il libro liturgico destinato ai canti dell’Ufficio delle Ore.

L’analisi dettagliata dei testi e le particolarità delle varianti rilevate mostrano le caratteristiche della liturgia benedettina unitamente ad una commistione di antiche tradizioni: il modello cluniacense è evidente nelle

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feste dei santi Clemente e Andrea, mentre per il Proprio del tempo sono prevalenti le tradizioni italiche, soprattutto beneventane.7

Oltre che per lo studio delle tradizioni liturgiche e per la rarità della notazione, le carte rinvenute a Fanano sono molto importanti perché sono fonti relative ai canti dell’Ufficio delle ore, abbastanza rare all’interno dei codici e frammenti in nonantolana attualmente conosciuti riguardanti principalmente la liturgia della messa. Le informazioni gentilmente for-nite da Giovanni Varelli, che sta studiando il corpus dei testimoni in no-tazione nonantolana rinvenuti, consentono di affermare che costituiscono le uniche fonti per i canti che tramandano, non presenti in altri frammen-ti o antifonari noti. Aggiungono inoltre un tassello alla mappatura delle zone di diffusione di questo particolare tipo di notazione che, praticata soprattutto nell’abbazia Nonantola, è stata ampiamente impiegata anche a Verona. Altre attestazioni si trovano in vari manoscritti, alcuni d’origine incerta, ma soprattutto di area lombarda (Mantova, zona del bergamasco, vari i frammenti conservati a Monza ma dubbia la provenienza)8 che in-ducono a ipotizzarne una diffusione nella zona compresa tra l’Emilia set-tentrionale e la Lombardia, di cui Fanano, insieme a Bombiana,9 verrebbe a costituire uno dei centri più a Sud.10

7 Per una descrizione delle carte con il dettaglio dei contenuti e delle varianti riscontrate cfr.

sTeFania roncroFFi, Frammenti in notazione nonantolana nell’archivio storico parrocchiale di Fanano in Celesti sirene, Musica e monachesimo dal Medioevo all’Ottocento, Atti del se-condo seminario internazionale di studi svoltosi a San Severo di Puglia dall’ 11 al 13 ottobre 2013, a cura di Annamaria Bonsante e Roberto Matteo Pasquandrea, in corso di stampa.

8 Sui frammenti monzesi cfr i due studi di KiTTy Messina, La tradizione liturgica nonan-tolana nei frammenti monzesi, “Rivista Internazionale di Musica Sacra”, XXIII, 2002, pp. 149-169 e I neumi nonantolani nel patrimonio frammentario monzese, “Studi Gre-goriani”, XX, 2004, pp. 85-125. Per il codice di probabile provenienza bergamasca cfr. GionaTa brusa, La notazione nonantolana a Vercelli, “Rivista Internazionale di Musica Sa-cra”, XXX, 2009, pp.119-140.

9 Anche a Bombiana, sull’Appennino bolognese, in una situazione storico-geografica simile a quella di Fanano, è stato ritrovato un frammento in notazione nonatolana che rilega un registro parrocchiale. Cfr. GiacoMo baroFFio, I frammenti liturgico-musicali italiani nell’ar-chivio storico abbaziale di Nonantola, in Sant’Anselmo di Nonantola e i santi Fondatori nella tradizione monastica tra Oriente e Occidente, Atti della giornata di Studio, Nonan-tola 12 aprile 2003, a cura di Riccardo Fangarezzi, Paolo Golinelli e Alba Maria Orselli, Roma, Viella, 2006, pp. 321-334: 333-334.

10 Dopo gli studi di aVe MoDerini che, nel 1970, segnalava 22 testimoni in notazione nonanto-lana (La notazione neumatica di Nonantola, I: Testo, Cremona, Athenaeum Cremonense, 1970, pp. 52-81), GiacoMo baroFFio nel 2011 fa il punto della situazione sulle fonti cono-sciute e le elenca alla nota 38 p. 112 del suo saggio Music Writing Styles in Medieval Italy, in John haines (ed), The Calligraphy of Medieval Music, Turnhout, Brepols, 2011, (Musicalia Medii Aevi, I), pp. 101-124. Si attende la pubblicazione degli studi di Giovanni Varelli che potrà aggiornare i dati fin qui raccolti.

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Quando – nel 1998 – assunsi l’impegno di ordinare, inventariare e, successivamente, incrementare la biblioteca che il professor Luigi Di Bel-la aveva istituito e donato dieci anni prima al Comune di Fanano, la sua collocazione fu individuata nella sagrestia della chiesa di San Giuseppe: infatti la chiesa era chiusa al pubblico in attesa dei restauri che sarebbero iniziati nel 2000 e, quindi, la sagrestia era del tutto inutilizzata. O, per me-glio dire, era da tempo inutilizzata come sagrestia, ma in compenso aveva generosamente svolto un improprio ruolo di ampio ripostiglio: si trovava pertanto in un pittoresco e polveroso stato di disordine generale, con can-delabri, cartegloria, libri antichi e moderni, quadri e quadretti ammassati sugli scaffali, sui mobili e sul pavimento.

Nel (quasi disperato) tentativo di creare nell’ambiente un minimo di ordine, fui colpito da sei stampe antiche, in cattivo stato di conservazione, attorniate da sgangherati listelli di legno che forse un tempo avevano avu-to la velleità di funzionare da cornici.

L’attento studio di queste stampe, compiuto anche con l’aiuto del sem-pre gentilissimo professor Alfonso Garuti, ha portato a risultati di estremo interesse. Iniziamo dai soggetti in esse rappresentati e dalla tecnica utiliz-zata; passeremo poi ai loro autori.

Nelle prime quattro sono raffigurati i grandi dottori della Chiesa, accompagnati da uno o più angeli o angioletti: San Girolamo, Sant’Am-brogio, Sant’Agostino e San Gregorio; un’altra è dedicata al “padrone di casa”, San Giuseppe col Bambino; nella sesta, la più malandata, è infine rappresentata la liberazione di San Pietro dal carcere.

Per quanto riguarda la tecnica usata, tutte le sei stampe sono state rica-vate da lastre di rame, ma non secondo il classico procedimento “a bulino”, che si era rivelato poco adatto alla riproduzione di dipinti: fu utilizzata infat-ti una tecnica più moderna, detta “mezzatinta” (o “maniera nera”), inven-tata nel 1642 da Ludwig von Siegen di Utrecht. Senza entrare in particolari tecnici (per i quali rimandiamo a testi specifici), si può senz’altro affermare che, fra i vari metodi di incisione, questo è quello che si avvicina di più alla pittura nella resa del chiaroscuro: pertanto fu ampiamente utilizzato fino ai primi decenni del XIX secolo per stampare riproduzione di quadri.

LE SEI STAMPE ANTIChE DELLA SAgRESTIA

DELLA ChIESA DI SAN gIUSEPPEde Il Bibliotecario

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Sagrestia della Chiesa di San Giuseppe, San Girolamo, San Gregorio, Sant’Agostino e Sant’Ambrogio

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Ed è proprio il caso delle stampe fananesi, che sono infatti riprodu-zioni di opere pittoriche. Di quali autori? A parte l’ultima citata (San Pie-tro), che fu tratta da un dipinto del francese Antoine Coypel (1661-1722), tutte le altre portano l’indicazione (“pingebat” o “pinxit”) di Alessandro Marchesini (1664-1738).

La vicenda artistica di questo pittore veronese, dotato di uno stile ten-denzialmente eclettico, ma assai gradevole e apprezzato dai contempora-nei, è piuttosto singolare. Allievo, prima del veneto Biagio Falcieri e poi del bolognese Carlo Cignani, lavorò nella propria città natale e quindi a Padova e a Venezia, dove si trasferì verso la fine del secolo. Dei molti qua-dri da lui dipinti ne restano relativamente pochi, conservati soprattutto in Veneto e in Germania, dove il Marchesini ebbe uno straordinario succes-so. Successo confermato e amplificato dalle moltissime riproduzioni (per lo più nella “maniera nera”) di suoi dipinti uscite dalle famose stamperie della città di Augusta.

Sagrestia della Chiesa di San Giuseppe, San Pietro liberato

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In proposito così si è espresso uno storico d’arte1:

«Abituati come siamo a considerare il numero delle riproduzio-ni come un parametro per misurare la fama e il successo di un pittore, dovremmo dedurre che nella prima metà del Settecen-to Alessandro Marchesini fosse di gran lunga il più ammirato fra i pittori veneti di figura… Esponente della pittura bologne-sizzante che caratterizza tanta parte della pittura veronese, il Marchesini seppe creare un repertorio di immagini ‘facili’ e piacevoli, composizioni equilibrate, disegno accurato e nitido, volti e figure pieni di nobiltà e di grazia, miriadi di bimbi e putti-ni teneri…, qualche concessione al sentimentale e all’ idilliaco, senza mai cadere nel patetico o nel drammatico».

E, in conclusione, a conferma del suo successo,

«Si può dire che nei primi decenni del Settecento fra i pittori italiani contemporanei [il Marchesini] sia il più riprodotto dagli incisori augustani».

Non è un caso, infatti, che gli incisori delle stampe fananesi (indicati come “sculptores” e/o come “excudentes”) siano proprio tutti di Augusta, la città che in quel periodo era considerata una delle capitali dell’incisione a livello mondiale. Ad essa, infatti, arrivavano commissioni, pubbliche e private, da tutti i paesi europei, compresi quelli cattolici: cosa piuttosto singolare in tempo di controriforma, considerando che quasi tutte le fami-glie degli stampatori di Augusta erano di fede protestante. Una di queste famiglie, fra le più importanti nei secoli XVII-XIX fu quella dei Rugendas, e il suo maggiore rappresentante fu Georg Philipp I (Augusta, 1666-1742). Ebbene, delle sei stampe di Fanano, una (San Giuseppe col Bambino) fu incisa dal noto Georg Kilian (1683-1745); tutte le altre sono opera proprio del citato Georg Philipp Rugendas.

Quando il bibliotecario si rese conto del valore storico e artistico delle sei stampe, si attivò perché esse fossero salvate, restaurate e valorizzate:

1 Le frasi riportate fra virgolette sono state desunte dal catalogo della mostra “Ex Universa Philosophia: Stampe barocche con le Tesi dei Gesuiti di Gorizia” a cura di Maddalena Malni Pascoletti, che il professor Alfonso Garuti ha fatto gentilmente conoscere all’autore del presente articolo

Fra i testi di storia fananese, l’unico (a quanto ci risulta) in cui si parla delle stampe della sagrestia della chiesa di San Giuseppe è: San Giuseppe di Fanano, la “Chiesa dei Padri” di Raimondo Rossi Ercolani.

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ma la cosa non fu facile da concretizzare. Poiché l’ente proprietario – il Comune di Fanano – non aveva fondi disponibili per l’operazione, il bi-bliotecario propose che ad essa fosse destinata la somma che in quell’an-no il Comune aveva stanziato per acquisti a favore della biblioteca; la pro-posta, inizialmente respinta, («diversi capitoli di bilancio»), fu poi – dopo reiterate insistenze – benevolmente accolta. E così il restauro delle sei stampe fu finalmente affidato al laboratorio “Il Segnacolo” di Cristina Agù, con una delibera comunale del 13/11/2002, nella quale veniva impegnata la somma di 1324,80 euro nel bilancio relativo a “Prestazioni di servizio per biblioteche”.

Quando, infine, le sei stampe, perfettamente restaurate, tornarono nella sagrestia della chiesa di San Giuseppe, sorse il problema di una loro adeguata sistemazione. Tale problema fu risolto soltanto alcuni anni più tardi, quando la nostra Associazione Culturale della Valle del Leo “Otto-nello Ottonelli” commissionò all’amico e socio Gottardo Turchi la costru-zione di sei belle cornici, che consentirono di appendere le stampe alle pareti della sagrestia della chiesa di San Giuseppe, dove erano state per secoli e dove ora sono finalmente tornate.

Sagrestia della Chiesa di San Giuseppe, San Giuseppe col Bambino

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LE ANTIChE INCISIONI DEL FRIgNANONUOVE SCOPERTE E NUOVE INTERPRETAZIONI

di Adolfo Zavaroni

Lo scenario in cui occorre inquadrare il ritrovamento di quelle che in un primo momento avevo chiamato “iscrizioni nordumbre” oggi è decisa-mente meglio definibile rispetto a quello che si poteva prospettare quan-do pubblicai Le iscrizioni nord-umbre antiromane della valle di Ospitale (Appennino Modenese) [BAR International Series 2250 (Oxford 2011)] contenente tutte le iscrizioni reperite fino al maggio 2011. Fino a quel mese le iscrizioni erano state scoperte solo nelle due località La Sega e La Tana della valle di Ospitale.

Poi nell’agosto 2011 visitai il Ponte d’Ercole, distante da Ospitale oltre 40 km. per le strade attuali: ebbi la fortuna di scoprire anche lì iscrizioni in scrittura e lingua friniate (fig. 1). Il Ponte d’Ercole, localmente noto an-che come Ponte del Diavolo, si trova presso il punto d’incontro dei territori di tre comuni dell’Appennino modenese: Polinago, Pavullo e Lama Moco-

Fig. 1. Ponte d’Ercole. Antiche scritte sul fianco occidentale (Testata Sud).

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gno. Esso appare come una roccia di arenaria, lunga 41 e larga al massi-mo 2,9 metri, sagomata a forma di ponte. Un’analisi delle superfici e del suolo sottostante mi induce ad affermare che la forma di ponte è dovuta in gran parte all’opera umana e non alla natura, come si è sempre creduto. I lavori tendenti a modellare la roccia in quella forma furono certamente eseguiti prima – forse qualche secolo prima – della fine delle guerre che i Romani combatterono contro i Friniati, dato che varie iscrizioni sono chiaramente antiromane. Tali lavori avevano lo scopo di trasformare la roccia in un santuario di forma singolare. Infatti nella testata settentriona-le del Ponte fu scavata una cella in cui fu incisa una complessa figurazione con due dèi sovrapposti. In base alla ricostruzione di questa e di altre figure divine, suppongo che un dio, maturo o anziano, avesse insieme le personalità degli dèi latini Vulcano, Silvano, Saturno e l’altro, bambino e giovanile, fosse assimilabile a Marte, Apollo, Bacco.

Trovai poi altre iscrizioni nella Tana delle Fate presso il Lago Prati-gnano. Oggi quasi del tutto interrato, esso si trova ad un’altezza di circa 1300 metri s.l.m. in uno stretto pianoro che sovrasta la valle di Ospitale e in particolare La Sega (circa 850 metri s.l.m.), cioè la località con le pa-reti rocciose più densamente iscritte. Nella vicina piccola grotta chiamata Tana delle Fate vi sono alcune iscrizioni antiche con caratteristiche lega-ture e combinazioni di segni di tipo friniate (fig. 2) oltre a numerosi graffiti moderni. Degna di nota è la presenza di un e del tipo II presente anche in iscrizioni latine dell’Italia settentrionale almeno dal I secolo a.C.

A San Michele di Pievepèlago due pietre iscritte sono incastonate nel-la parete di una vecchia casa non lontana dall’antica pieve di San Michele, presso l’imbocco del sentiero che porta ad un altro Ponte del Diavolo, quello presso Fiumalbo. Le lettere su queste due pietre sono certamente friniati, dato che esistono anche delle legature, ma la loro lettura è diffi-cile e non porta a risultati sicuri. A poche centinaia di metri, sullo stesso sentiero, una scritta friniate fu incisa su una roccia: qui la lettura è pro-blematica a causa della sottigliezza dei solchi, alcuni dei quali sono quasi svaniti. Pochi metri più in là, dietro una colonna eretta in onore della Ma-donna, sorge un’altra roccia in cui sono incisi dei segni, fra cui , , : in grafìa friniate essi sarebbero legature denotanti ti “trafiggi, uccidi” (dalla radice indoeuropea *(s)teig- con normale caduta di g: nella lingua friniate questo suono non esisteva). Un’altra legatura è , che potrebbe denotare tit “egli trafigge”. Una sequenza sarebbe leggibile come tiio “io trafiggo”; un’altra come ui iti (o ui ii?) “con la forza procedi” (le lettere sottolineate fanno parte di legature).

Ho poi scoperto iscrizioni friniati in due siti dell’Appennino reggiano. Almeno una parte delle montagne reggiane era abitata da Friniates. Da un passo dello storico latino Tito Livio (41.18) si deduce che il territorio

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dei Friniati si estendeva dal crinale appenninico fino al fiume Audena. Mi sembra possibile che Audena fosse il nome friniate del corso mon-tano dell’attuale Secchia, che scorre tra le montagne reggiane prima di diventare il confine tra le province di Modena e Reggio. Il nome del suo affluente Òzola, nell’alto Appennino reggiano, può riflettere soltanto un antico *Audiola, diminutivo di *Audia ≈ Audena, dalla radice indoeuro-pea *awe-d- “bagnare, fluire”. Ma a prescindere dal problema del confi-ne nord-occidentale dei Friniati, il fatto è che sul Monte Valestra, dove i reperti archeologici evidenziano una frequentazione già nella tarda Età del Bronzo, alcune iscrizioni di tipo friniate – che ora sono in fase di stu-dio – sono incise dentro una piccola grotta che si trova dietro la cappella di Santa Maddalena, mentre altre due brevi scritte sono incise su una roccia che sta davanti alla cappella ed è prospicente all’impressionante dirupo che strapiomba dal crinale del monte sul lato verso la valle del Secchia.

Ho trovato un’iscrizione nordumbra anche sotto la grande rupe chia-mata Pietra di Bismantova, su una delle innumerevoli rocce che sovra-stano il Campo Pianelli, noto per i reperti della tarda Età del Bronzo e

Fig. 2. Iscrizioni friniati nella Tana delle Fate presso il Lago Pratignano.

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del periodo etrusco. Questa iscrizione (fig. 3) è abbastanza ben leggibile nonostante le incrostazioni e la corrosione subìta dalla roccia arenaria che a Bismantova è di scarsa compattezza. Leggo bustros ica. In alcune scritte di Ospitale e del Ponte d’Ercole bustros indica il dio Picchiatore, Colpitore. Non si può stabilire se ica sia un imperativo (2a persona sing.) o un indicativo senza t finale. Siccome la base *ic-, presente in latino oltreché ben attestata nelle scritte friniati, denota ‘colpire’, bustros ica è facilmente interpretabile come “(Oh, dio) Picchiatore, colpisci!” oppure come “il (dio) Picchiatore colpisce”.

Ancora più importanti sono i ritrovamenti nel vecchio piccolo borgo, ora in rovina, di Rovinamala (comune di Montecreto), distante circa 30 km. da Ospitale. A Rovinamala Carlo Beneventi ha scoperto più di trenta pietre con iscrizioni friniati, il cui contenuto è simile a quello delle iscrizio-ni di Ospitale e del Ponte d’Ercole. Alcune, poi, contengono raffigurazioni di grande importanza per la conoscenza della religione friniate.

Infine, pure in un altro antico borgo abbandonato, dominante la me-dia valle di Ospitale, su tre pietre riutilizzate in vecchie case ci sono inci-sioni attribuibili agli antichi Friniati. La pietra più importante è un archi-trave con scritte e figure di carattere religioso. Il suo rinvenimento si deve ad Ivan Tintorri.

Fig. 3. Pietra di Bismantova: scritta friniate su una delle rocce sovrastanti il Campo Pianelli.

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Ora si può con certezza affermare che tutte queste iscrizioni, aventi in comune il lessico ed un sistema scrittorio basato su un frequentissimo uso di legature, furono incise da Friniates che, come risulta da varie iscrizioni d’Ospitale e del Ponte d’Ercole, chiamavano se stessi Ombri, Umbri. Quel che nei miei primi studi definii come “nord-umbro” appare ora come la lingua parlata e scritta dagli antichi Friniati. Oltre al sistema scrittorio, le iscrizioni hanno in comune lessico e grammatica, da cui si può dedurre che la lingua delle iscrizioni è un dialetto italico. Tale dialetto mostra af-finità con umbro, osco, sudpiceno e latino e rivela contatti linguistici con Etruschi e Galli. Inoltre, per lessemi assenti in latino e negli altri dialetti italici, esso ammette comparazioni lessicali con il germanico più di quan-to la posizione geografica del Frignano potesse far pensare. Tali termini furono certamente in uso prima delle guerre con Roma e quindi aprono interessanti interrogativi sulle origini dei Friniati, che comunque sono in-doeuropee.

Sarebbe, dunque, erroneo considerare i Friniates come Ligures sulla base della menzione di Tito Livio? In un passo Livio (39, 2) parla di Ligu-res Friniates; ma nell’unico codice del XLI Libro si ha Briniates (41, 19): trans Apenninum Briniates fuerant, intra Audenam amnem. Il riferimen-to geografico è certamente al territorio del Frignano. In altri capitoli dei libri XXXIX e XL, Livio parla semplicemente di Ligures, ma i nomi dei monti Letum, Suismontium e Balista e del fiume Scultenna indicano che si tratta di Friniates.

La lingua dei Friniates è palesemente italica, mentre sulla lingua dei Liguri qualsiasi ipotesi non mi sembra poggiare su solide basi. Le rare iscrizioni antiche trovate in territorio ligure sono redatte in alfabeto etru-sco e nella maggior parte di esse ci sono dei nomi etruschi. Le ipotesi sulla natura della lingua ligure si basano essenzialmente sull’analisi dei nomi dei popoli liguri, dei toponimi ed antroponimi. Devo ammettere il mio generale scetticismo su molte etimologie di toponimi la cui radice indoeu-ropea non sia evidente.1 Francisco Villar in un passo scrive che “in epoca romana la Liguria ha per lo meno i seguenti strati ben identificati: latino, gallico, lepontico, europeo antico e ligure”; in un altro passo egli osserva che “è impossibile chiarire la precisa appartenenza del materiale topo-nomastico ai diversi strati”, sicché è impossibile “sapere se i Liguri erano o no indouropei”.2 Ciò riflette bene l’incertezza relativa all’antico ligure.

1 Tra gli studiosi che considerano il ligure un ramo particolare del gruppo celtico si veda B. serGenT, Les Indo-Européens. Histoire, langues, mythes, Paris, 1995, p. 69-77.

2 F. Villar, Los indoeuropeos y los orígines de Europa. Lenguaje e historia, Madrid. 19962, p. 469-470.

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Per Plinio (Nat. Hist. III, 47-48), che registra le regioni secondo l’or-ganizzazione amministrativa voluta da Augusto, i Liguri più ad Oriente erano i Veleiates, il cui territorio non si estendeva ad Est dell’attuale pro-vincia di Parma. Quindi il territorio dell’attuale Frignano ufficialmente non era abitato da Liguri.

Nelle iscrizioni del Frignano i principali elementi grafo-fonologici de-gni di rilievo sono: 1. la mancanza delle gutturali sonore [g], [gh]; 2. la presenza del grafo (che trascrivo per affinità visiva con б), denotante presumibilmente il suono aspirato [bh] (da ie. [bh] e a volte [dh]) a cui cor-rispondono umbro e latino [f].

Parecchie attestazioni, però, mostrano che all’epoca delle iscrizioni era in atto la tendenza alla deaspirazione [bh] > [b]. Per un verso tale fe-nomeno può essere considerato una prova che non poteva denotare [f]. D’altra parte si può supporre che la deaspirazione fosse dovuta al contatto con parlate galliche e, appunto, liguri.

Dunque, la mancanza di f rende problematico lo stesso etnico Fri-niates di Livio (39, 2); e però un passaggio [b-] > [f-] in età medievale per giustificare l’esistenza del moderno toponimo Frignano, sarebbe ancora più problematico. Come tanti altri nomi in -ates, Friniates indica degli abitanti, cioè “gli abitanti della *Frinia”.

L’ipotesi etimologica più semplice – a mio avviso la più convincen-te – è che *Frīnia (*bhregh-y- > *frei- > 1. *frī-, 2. *frē-) fosse lo sviluppo di un antico *Frighinia o *Freghinia “montagnosa”, nome derivante dalla nota radice indeuropea *bh(e)regh- “altura, monte”. L’etimo qui proposto è avvalorato dall’esistenza del nome di monte Frignone (< *Frīnion-) nella vicina alta Garfagnana, non lontano dal Monte Alto e dal Monte Umbriano (che ovviamente richiama Ombri, Umbri). C’è poi un Monte Frena fra il Mugello e il confine tosco-imolese ed un sito Fregnanello nelle colline a sud di Faenza. I due ultimi toponimi sono in un territorio che certamente era abitato dagli Umbri settentrionali.

Date l’assenza di f e la numerosa sostituzione di con b, dovremmo forse supporre che b indicasse nelle iscrizioni tarde sia [b] sia [f] ? Ciò mi pare francamente dubbio e comunque indimostrabile. Rimane tuttavia il fatto che l’etnico Friniates = Briniates, essendo attestato solo da un autore latino, non è decisivo per stabilire se i Friniates fossero Umbri o Liguri. Supponendo che nelle scritture Briniates e Friniates non ci sia un errore di trascrizione, l’ipotesi meno contraddittoria è che entrambi i nomi fosse-ro usati: il primo con pronuncia ligure o celtizzante, l’altro con pronuncia umbra o latinizzante. Tale variazione poteva riflettere una commistione etnica degli abitanti dell’antico Frignano. Una tale commistione, però, non è testimoniata dalle iscrizioni finora trovate: in esse l’unico etnico che appare è Umbri, Ombri.

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Tabella 1. L’alfabeto usato dagli Umbri dell’antico Frignano

Tabella 2. Alcuni esempi di legature semplici

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Avevo supposto3 che le iscrizioni della valle d’Ospitale fossero state incise durante il bellum sociale del 91-89 a.C. Non solo è frequente l’ap-pello alla rivolta, ma in un passaggio del blocco di scritte SeP1S4 avevo ritenuto che fossero menzionati gli Osci, la lega degli Italici e il generale romano Pompeo Strabone (Osp. 2011, p. 44). Ora, il ritrovamento di iscri-zioni in altri luoghi del Frignano e la doverosa attribuzione ai Friniates mi inducono a dilatare anche lo spazio temporale entro cui le scritte potreb-bero essere state incise. L’ostilità verso i Romani durò certamente qualche secolo e non cessò immediatamente con la fine del bellum sociale. Ritengo ancora valida l’ipotesi che in SeP1S4 si menzionino gli Osci e Pompeo, ma una rilettura dell’iscrizione di macrofoto eseguite con luce artificiale ra-dente mi induce a ricusare parte delle precedenti letture e interpretazioni.

I termini uscum uemбom “degli Osci la lega” furono soprascritti so-pra seitom umua “all’alleanza unisciti”. Probabilmente la modifica fu contestuale al cambiamento della riga che sta sopra dove la frase ilaut vilumбut tot “tanti si sono rivoltati, si sono alleati” fu trasformata in ilaut vitelius tot “si sono rivoltati tanti federati” (fig. 4). Forse si volle adeguare

3 A. zaVaroni, Iscrizioni nord-umbre nella Valle di Ospitale. Seconda raccolta, op. cit. (n. 11), p. 208

Fig. 4. Sovrapposizioni di scritte friniati alla Sega di Ospitale (settore SeP1S4).

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il lessico ad un nuovo evento: la costituzione ufficiale della Lega Italica, nella quale erano in netta maggioranza i popoli di lingua osca.

La Riga 10 è leggibile come ueni pompeiom. L’ipotesi più semplice è che pompeiom indichi Gneo Pompeo Strabone, padre del più famoso Gneo Pompeo avversario di Giulio Cesare. Come sappiamo dallo storico greco Appiano, Gneo Pompeo Strabone comandava un esercito romano che operava contro i rivoltosi del territorio piceno. In un primo tempo il suo esercito fu sconfitto dagli insorti guidati da C. Vidacilio, T. Lafrenio e P. Ventidio che avevano unito le loro forze presso il monte Falerino. Gneo Pompeo dovette rifugiarsi a Fermo in attesa di rinforzi. (Appiano Bello Civ. 47).

BiBLioGRAFiA

C. beneVenTi, Lo strano mistero dei graffiti di Rovinamala, in Il Frignano 3, 2011, p.185-200.Dario e Mario bruGioni, Incisioni rupestri nel territorio del Frignano, Pavullo, 2006Raimondo rossi ercolani, E’ “Ribel” e gli anti-chi Umbri: le incisioni rupestri nella valle di Ospitale, in Il Frignano, n.3 (dicembre 2011)Giancarlo sani, Iscrizioni pre-romane in val-le di Ospitale, in Fanano fra storia e poesia, n. 18 (dicembre 2008).A. zaVaroni, Iscrizioni nord-umbre nella Valle di Ospitale: seconda raccolta, in Indogerma-nische Forschungen 113, 2008, p. 207-270.A. zaVaroni, Iscrizioni nord-umbre del bellum sociale nella valle di Ospitale: terza raccolta (Sega Parete 3 Settore 3), in Indogermani-sche Forschungen 114, 2009, p. 173-239.

A. zaVaroni, Le iscrizioni nord-umbre anti-romane della valle di Ospitale (Appennino Modenese). BAR International Series 2250 (Oxford 2011).

A. zaVaroni, Apporto di alcuni lessemi nor-dumbri di Ospitale alla ricerca etimologica di termini indoeuropei ed etruschi, in In-dogermanische Forschungen 116, 2011, p. 225-270.

A. zaVaroni, Il sacro Ponte d’Ercole (Ponte del Diavolo). Iscrizioni religiose e antiromane degli antichi abitanti del Frignano (Pavullo 2012).

A. zaVaroni - G. sani, Iscrizioni nord-umbre del bellum sociale nella Valle di Ospitale: prime indicazioni, in Klio 91/1, 2009, p. 69-103.

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La nomina di Giusti tra le na-zioni che lo Stato di Israele ha attri-buito ai coniugi Luigi Succi e Maria Pini di Verica, che per quasi due anni nascosero in casa una famiglia ebrea di Bologna, sarà iscritta nel Viale dei Giusti allo Yad Vashem, museo memoriale della Shoah a Gerusalemme. I Giusti modenesi, non ebrei che durante la Shoah rischiarono la propria vita per sal-vare ebrei dalla persecuzione, arri-vano così dieci. E potrebbero non essere gli ultimi. È infatti stata inol-trata la richiesta alla Commissione competente in Israele per attribuire l›onoreficienza a Gildo Andreoni e la sua famiglia. Gli Andreoni, che vi-vevano a Casa Gioiello nella vallata di Ospitale a Fanano, nascosero per più di un anno Casare Valabrega e la moglie Carla, famosi concertisti di Bologna da cui fuggirono insieme

alle figlie Benedetta ed Emma. Con-sigliati da amici, gli stessi che ne avevano caldeggiato la fuga dopo la promulgazione nel 1938 delle legge razziali, arrivarono a Sesto-la dove erano sfollate molte altre famiglie ebree. I Valabrega sog-giornarono per alcuni mesi presso un’abitazione presa in affitto, poi la calma apparente venne ben pre-sto interrotta quando i soliti amici si fecero di nuovo vivi consigliando di cambiare aria. Il parroco di Se-stola li mandò a Ospitale, da dove il curato della parrocchia Don Ricci li accompagnò a casa di Gildo An-dreoni. Questa la testimonianza di Emma Valabrega, la figlia più pic-cola che oggi vive in Israele, su quei lunghi giorni a Casa Gioiello. «Non solo la famiglia Andreoni mise a re-pentaglio la propria sicurezza, con-dividendo con noi tutto quello che

DOMENICA 23 MArzO 2014

Salvarono famiglia ebrea Gli Andreoni tra i Giusti Fanano. Per i coniugi di Ospitale avanzata richiesta alla commissione israeliana. Evitarono la deportazione ai concertisti Valabrega.

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Da destra:Cesare Valabrega, sua figlia

Benedetta, con in braccio un piccolo e molto sorridente

Gioiello Andreoni, e il fratellino Riccardo. Alle loro spalle, i monti

della Valle di Ospitale

aveva, ma anche l’intera popolazio-ne seppe mantenere il segreto del-la nostra presenza-ha spiegato. Un esempio tale di solidarietà umana si trova solo nei romanzi». Emma Valabrega ricorda poi un episodio particolare. «Un brutto giorno ven-nero i repubblichini a catturare Gil-do-racconta- che era rientrato dalla Russia ma non era più tornato al corpo ed era considerato un diser-tore. Io e la mia famiglia eravamo rinchiusi in camera terrorizzati, ma per fortuna o miracolo la casa non venne perquisita. Tempo dopo Gil-do tornò a casa Gioiello, ma per noi i pericoli erano diventati troppi e decidemmo di passare il fronte che era vicinissimo. E così ci salvam-mo». La richiesta alla Commissione dei Giusti, è stata inviata una volta verificate e depositate le testimo-nianze dal notaio. Fra i testimoni anche Gioiello Andreoni, il figlio di Gildo che all’epoca non era ancora nato ma ha assorbito dai racconti del genitore moltissimi dettagli del-la vicenda. Dalla storia delle fami-glie Valabrega e Andreoni e con il coordinamento della professoressa Caterina Muzzarelli, le terze classi della scuola media di Fanano han-

no tratto uno spettacolo teatrale al quale hanno preso parte 24 alun-ni. Alla rappresentazione, che si è tenuta nel Giorno della Memoria, ha assistito il nipote di Cesare Vala-brega, Marco, noto violinista che ha eseguito un concerto. Tanta com-mozione e ringraziamenti all’otti-mo lavoro svolto dai ragazzi sono giunti, oltre che dalla famiglia Va-labrega, anche dalle tante persone intervenute per assistere allo spet-tacolo. La rappresentazione, che ha registrato infatti un grande succes-so di pubblico, potrebbe nei prossi-mi mesi essere replicata a Roma. E intanto, Gioiello Andreoni attende buone notizie da Israele.

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A completamento di quest’articolo, preparato dall’amico Francesco Seghedoni per la Gazzetta di Modena, pubblichiamo il testo del messag-gio pervenutoci alla fine del mese di maggio da parte di Marco Valabrega, nel quale si fa riferimento proprio alla rappresentazione teatrale prevista a Roma e di cui si è letto nelle ultime righe dell’articolo. Ci ripromettiamo comunque di riprendere ampiamente l’argomento nei prossimi numeri della nostra rivista.

Cari amici, domenica 8 giugno al Centro Ebraico Italiano “Pitigliani” di Roma, alle ore 16.30, si terrà un evento molto singolare. Per questo vorrei che tutti voi vi partecipaste!Si tratta della rappresentazione della storia della mia famiglia: Cesa-re Valabrega, sua moglie Carla e le due figlie bambine tra le quali mia madre... che, perseguitati dalle leggi razziali, in fuga tra le montagne degli Appennini, vennero messi in salvo da coraggiosi antifascisti.La singolarità dell’avvenimento sta nel fatto che oggi a far rivivere quei momenti e quegli esseri umani a me così cari sia una clas-se di scuola media del piccolo paese in cui i miei vennero accolti e nascosti. Ragazzini che riscrivono e interpretano con passione ed emozione un capitolo significativo della storia italiana. Ragazzini che rievocano il coraggio di quel piccolo paese, Fanano, che mantenne un grande segreto, mettendo a rischio se stesso, la propria vita, per salvare quella di una famiglia di artisti ebrei.Con l’occasione sarà ricordata la figura di mio nonno appunto, l’arti-sta e musicologo Cesare Valabrega, autore della storia della musica italiana e di numerosi saggi e monografie di famosi compositori italia-ni e stranieri! Seguirà un piccolo concerto di ringraziamento dedicato a tutti coloro, donne e uomini, che hanno contribuito a salvare degli esseri umani. Sarà un regalo per me condividere questo momento con voi, vi aspetto.

Marco Valabrega

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Cosa vorrà raccontarci questa volta l’amico Alfonso del Lunedì di Pasqua? Del tradizionale “coccetto” delle uova colorate, in piazza della fontana, come da tempo immemorabile? No, voglio raccontarvi di gite in montagna e di escursioni sci alpinistiche che anni fa compivamo in un gruppo di “baldi giovani” (si fa per dire) sul crinale del nostro Appennino: escursioni impegnative e faticose, non prive di pericoli, ma ricche di gran-di soddisfazioni, che andavano dal Lago Scaffaiolo a Cima Tauffi, Monte Lancio, Fellicarolo, ecc. In questa occasione ne descriverò una, forse la meglio riuscita, sia per il numero di partecipanti che per il finale al Casel-lo del Pizzo ai Pianacci di Fellicarolo, ove erano ad accoglierci all’incirca altrettante persone, addette alla preparazione del “rancio”.

Era quello un anno di ottimo innevamento e quindi era assicurato un “fuori pista” piacevole su neve dura ma non troppo, che ripagava la faticosa e lunga salita. Con l’occasione ricordo che in passato le escursioni le facevamo per la festa di San Giuseppe, il 19 marzo; poi, quando fu sop-pressa, passammo al Lunedì di Pasqua con cadenza variabile. Quando la meta era il Casello del Pizzo, qualcuno e anche più di uno, dopo un buon pasto e il riposo, annotava e descriveva l’escursione con in calce la firma dei partecipanti, nel “diario” del rifugio.

E così, quando mi sono ripromesso di scrivere queste righe, ho pen-sato di consultare i diari. Ed ecco il primo problema: dove saranno? Nell’armadio-archivio dove metto quelli di casa non c’erano; pensa e ri-pensa: dove vanno a finire le cose meno importanti di casa? Nelle soffitte! E così infatti, eccoli, ben legati da una cordicella (sei volumi-agende) con un foglio bianco con scritto “Diari del Casello del Pizzo”. E ho cominciato a sfogliarli: ah, quanti ricordi caduti nel dimenticatoio, quanti nomi di persone, anche parenti, che non ci sono più, come quello del fratello Gioa-chino, medico condotto di Canazei, che venne al Pizzo durante un’estate, e descrisse i malori o incidenti che potevano capitare in montagna e i rimedi da applicare nell’urgenza e lontano da presidi sanitari! (era stato e non ricordo se lo era ancora, capo stazione del Soccorso Alpino dell’Alta Val di Fassa).

Ma vediamo di scegliere tra tante descrizioni, quella più interessante e completa, e così sono andato al 23 aprile 1984 (trent’anni fa).

LUNEDI’ DI PASQUAdi Alfonso Pasquali

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Innanzitutto mi recavo in barberia in piazza Corsini da Remo Turchi a prospettare la gita perché diffondesse la notizia ai soliti amici e non solo; quindi si sceglievano gli “atleti” validi per l’escursione con gli sci e le per-sone che sarebbero andate da Fellicarolo ad aprire il casello, accendere i fuochi, preparare i tavoli, ecc. e soprattutto a cucinare il “rancio” per tutti. C’era sempre abbondanza di cibi e di bevande più o meno alcooliche (immaginarsi!).

Venivano “prenotate” almeno due auto per il trasporto degli sciatori a Capanna Tassoni, con sci e zaini, mentre gli altri concordavano tra di loro il viaggio a Fellicarolo (Casa Baroni o il Poggio).

E così, il mattino alle otto, appuntamento in piazza Corsini (non man-cava mai qualche ritardatario!) e via, fino alla Capanna che allora dai “foresti” era chiamata Tassone (lasciando da parte le polemiche).

E da qui, sci e zaini in spalla, con entusiasmo e allegria, si iniziava la lunga salita per il Passo di Croce Arcana, percorrendo in parte la carroz-zabile, ma in prevalenza le antiche mulattiere, ancora coperte da un alto strato di neve, ma con traccia di precedenti escursionisti: voglio ricordare che qualche volta, sopra la Capanna, i pali della recinzione dei daini (m. 1,50) erano coperti dalla neve!

Da sinistra: Gottardo Turchi, Almo Pasquali, Leonardo Perfetti, Ezio Sargenti, presso il Monumento agli Alpini, al Passo della Croce Arcana

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Dopo un po’ si cominciava ad alleggerire l’abbigliamento per attenua-re il sudore, qualche breve sosta per riprendere fiato: ma non avevamo problemi, allenati come eravamo quasi tutti. Al Butale (“é Biudal”) ora c’è una fontanella, ma allora la sorgente sgorgava direttamente dalla terra e si intravedeva in fondo all’alto strato di neve e non era attingibile. Eccoci fuori dal bosco e sul crinale, una volta segnato dalla “palonata” (importan-te e vitale segnaletica, quando c’era la nebbia o imperversava la tormenta, e ripristinata di recente) che portava al Passo, dominato dalla croce in ferro a ricordo dell’Anno Santo 1933 (restaurata dagli Alpini nel 1972) dopo un’ora buona di impegnativa salita, compensata dal vasto e affa-scinante panorama del nostro Appennino: riposo e visita al Monumento degli Alpini.

Dopo l’arrivo di qualche ritardatario ed esserci riuniti e rifocillati, si af-fronta il crinale spartiacque tra Emilia e Toscana – Modena e Pistoia – (una volta dopo la confinazione della seconda metà del 1700, tra il Ducato di Modena ed il Granducato di Toscana), come dai ben evidenti cippi confi-nari. Qualcuno inforca gli sci, allora con gli attacchi kandahar, e altri no, per un certo tratto (non usavamo le racchette da neve o ciaspole o scara-battole in dialetto fananese): la neve reggeva bene e c’erano tracce di altri escursionisti.

La Croce al Passo della Croce Arcana

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Allora avanti: si sale in quota, si marcia agevolmente, eccoci alla Vista del Paradiso (m 1706), in discesa al Colle della Piaggiacalda, e dopo una breve sosta per riunire la comitiva, si affronta la lunga e non difficile salita ai Balzoni.

A questo proposito mi ritorna in mente il “beverone” (“é bevrun”) che preparava Almo per le escursioni e che diede luogo a qualche “inconve-niente”, ma che racconterò in un’altra occasione.

La lunga salita viene superata bene, salvo un caso di cui dirò più avanti: anche dai Balzoni il panorama è splendido: Toscana ed Emilia sono ai nostri piedi, nebbie in pianura, nubi lontane a nord verso le Alpi e a sud verso la Maremma; magnifica discesa sul Colle dell’Acquamarcia (m. 1632), valico antico e una volta molto frequentato, tra la parte ovest di Ospitale e il Melo, frazione alpestre di Cutigliano.

A questo punto mi raggiunge (se ben ricordo) Franco Querciagrossa e mi riferisce che Gianni Ascari è fermo ai Balzoni e non intende prose-guire perché stanco: a gesti e a voce lo invito a scendere e, non riuscendo nell’intento, decido di risalire e parlargli; che dura salita! Mostrandogli il percorso ormai vicino alla Cima, dopo la breve salita dal passo, constato che è ben deciso a ritornare indietro; allora lo avverto che non lo lascerò andare solo e anch’io abbandonerò la “compagnia”... La mia decisione lo convince e così scendiamo al Colle.

Dopo la bella discesa si sentì rinfrancato (è sempre stato un buon discesista) e così insieme affrontammo, con gli sci in spalla, la dura sali-ta che nella parte finale necessita anche dell’uso delle mani. Finalmente l’ultimo tratto di crinale con qualche saliscendi, col versante nord che pre-cipita sulla Piana del Bravo, (testata del Rio Gambolino-Fosso della Miran-dola) coperto da un’alta cornice di neve (che ogni tanto precipita a valle travolgendo le piante di conifere e ostacolandone da sempre la crescita).

Eccoci a Cima Tauffi, sudata conquista coi suoi 1798 m: da qua una lunga discesa, non sempre agevole, per la presenza di bosco e zone roc-ciose, ma si sa che in discesa tutti i santi aiutano. Una lunga sosta per riunirci e rifocillarci, al caldo sole e con una fresca brezza, con cambio di indumenti (qualcuno), fotografie e visione del superbo panorama da sud a nord e da est a ovest: è una delle soddisfazioni degli alpinisti e degli escursionisti e comunque di chi sale sulle montagne! Come detto, è il mo-mento di affrontare la lunga discesa che ci porterà al Casello del Pizzo ai Pianacci di Fellicarolo, la nostra meta. Percorrendo il versante ovest della lunga gobba con neve solida e veloce si raggiunge la Scaffa delle Rose: da qua per un tratto consistente, si deve percorrere il sentiero interrotto da modesti salti di roccia e dal fitto bosco di faggio e così fino alla Rondanara.

Ritengo di segnalare un infortunio capitato a un nostro compagno proprio alla Scaffa delle Rose: Franco cade e con un braccio finisce in una

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frattura della roccia nascosta dalla neve, e dobbiamo accorrere per aiu-tarlo a togliersi dalla dolorosa posizione: niente di grave ma per diverso tempo ne risentirà. Anche Gottardo, che non è mai stato un grande scia-tore, spesso cadeva, ma con grande costanza, riprendeva, senza demora-lizzarsi, destando l’ammirazione di tutti noi della compagnia.

Dalla Rondanara a Monte Lancio una buona discesa, con qualche fag-gio e soprattutto pini mughi che cominciavano a infestare la zona. Da Monte Lancio, poi fino a poco sopra le Capanne qualche difficoltà per scarsità di neve a causa dell’esposizione a sud est. Da qua in avanti si percorreva la larga via dei pastori, con neve alternata a erba e cespugli, ma in qualche modo, adattandoci, si raggiungevano le Serre, la Buca di Rocco e si arrivava a poche decine di metri dal Casello, con gli sci ai piedi. E qui c’era la calda accoglienza degli amici... Lando della Sega in prima fila col suo largo sorriso ci offriva il tè che era invece un bianco delle colli-ne bolognesi, Giancarlo Franchini con la sua voce inconfondibile, il caffè, le donne, i giovani e giovanissimi, con grida di gioia e di benvenuto; pian piano arrivavano tutti con in retroguardia Gottardo, per il suo sciare a sin-ghiozzo: ma tutti eravamo felici e soddisfatti di quella impresa. Da notare che il tempo impiegato da Capanna Tassoni al Casello era di 6 ore, più o meno, quindi una escursione sci alpinistica di tutto rispetto.

Proprio in questa escursione del 1984 (quasi trent’anni passati...) ebbi un caso di disidratazione che mi riguarda personalmente: come ho detto all’arrivo Lando mi venne incontro offrendomi un bicchiere di “tè”, ma constatai che non potevo gradire alcun tipo di bevanda; andai subito in casa a distendermi sul lettino; venne Giancarlo a sentire cosa volevo, ma niente andava; mi resi conto allora che ero disidratato (a quei tempi si consigliava di non bere durante le camminate... immaginarsi, per un esperto!); ritornò Giancarlo con un caffè corretto e dopo insistenza lo por-tai alla bocca e riuscii a trangugiarlo, subito passato l’inconveniente!

E così tornai di sotto con la compagnia, mentre si preparava la tavo-lata, si stappavano bottiglie di vini i più svariati, formaggi, salumi, ecc., fu servito un abbondante piatto di pastasciutta ben condita e poi, e poi... una giornata indimenticabile che vi ho descritto un po’ sommariamente, con riferimento non a una sola gita.

Chi c’era? Vediamo le firme del diario e non solo: Maurizio, Giancar-lo, Don Andrea, M. Grazia, Gianni, Giordano, Lando, Gottardo, Remo con la Tina, Ezio con la Lella, Leonardo, Pierluigi con Brunella, Lorenzo, Almo con le figlie e altri...

Per alcuni anni continuammo con le “sci alpinistiche”, fino a quan-do, e purtroppo per diverso tempo, l’innevamento risultò scarso o quasi assente; andavamo allora al Casello a piedi, ma non era più accettabile e, così, tutto finì!

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Una bella foto di Amarcord fananese, scattata al Casello del Pizzo nei primi anni ‘80. Da sin.: Pierluigi Perfetti con la moglie Brunella Bellettini, Raoul Corsini, Tina

(moglie di Remo Turchi), Leonardo Perfetti con la moglie, Lando Seghi, Almo Pasquali con le figlie Nora e Paola, Michela (figlia di Licurgo Pasquali), Massimo Turchi, Anna

Pasquali; davanti: Alfonso Pasquali, Ezio Sargenti, Remo Turchi e Gottardo Turchi

Rievocando questa escursione, ho pensato di dedicarla a quelle perso-ne che non ci sono più, che sono andate avanti, come diciamo noi alpini: Lando della Sega, amico da una vita, sempre disponibile con la sua conta-giosa allegria, la Brunella, giovane sposa, la Lella di Ezio sempre presente a riaprire e segnare i sentieri, Leonardo esperto sciatore e alpinista, Remo il barbiere, il nostro riferimento nell’organizzazione, e il carissimo fratello Almo, che ci ha lasciato proprio pochi mesi fa.

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I RACCONTI DEL VETERINARIO DI FANANOdi Marco Turchi

il GiusTiZiERE

«La metta a pancia in su sostenendola con tutte e due le mani, anzi l’appoggi direttamente sul tappetino chirurgico tenendole le zampe estese e le blocchi con l’altra mano la testa: questa è una posizione che tende come ad ipnotizzarla e con poca anestesia locale riuscirò a darle i punti; la ferita è molto ampia ma altrettanto superficiale e dovremmo…»

«Ah!, mi sono affacciato alla finestra e quel maledetto se l’era presa proprio con lei... ma guarda un po’ se si devono vedere cose del genere! Ma è sicuro che non senta male? Mi raccomando! Proprio non lo sopporto quel vecchio dittatore! Già un’altra volta l’aveva ferita facendola sangui-nare, ma stavolta ha proprio esagerato»

«La tenga con un po’ più di forza per favore, non abbia paura di farle male, del resto è meglio che senta ‘’qualcosina’’ così da evitare l’anestesia totale sempre più rischiosa»

«Ah…, ma gliel’ho fatta pagare sa….; l’avevo già visto varie volte darle fastidio: gli sono volato addosso e quando l’ho avuto tra le mani... È sicuro che non senta niente eh..., mi raccomando..., ma ha chiuso gli occhi, respira? Non sarà mica morta? Ah, ma gliel’ho fatta pagare! Quel vecchio rimbambito non farà più del male a nessuno..., ma si deve ve-dere... Lui grande e grosso, lei piccolina e mingherlina, ah... ma gliel’ho fatta pagare!»

«Ecco questo è l’ultimo punto, adesso delicatamente la rimetta a “pancia in giù”»

«L’avevo già avvisato: prima o poi se continui così finirai male, e così è stato. Ma si deve vedere una cosa del genere: questa volta l’ha pagata per tutte le altre, e gli sta proprio bene»

Avete capito con quale strano animale avevo a che fare? E quello che lo spazientito proprietario aveva fatto passare a miglior vita? Si trattava di un gallo “seviziatore” e di una gallina troppo sottomessa.

Esasperato dalle sue continue violenze non ne poteva proprio più e ha pensato di metter fine a quella brutta storia, nel modo più sbrigativo:

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tirandogli letteralmente il collo. Fra l’altro questa era una persona che conoscevo da tempo, sempre calma, riservata, forse un po’ timida e di pochissime parole.

Quel giorno invece raccontandomi ciò che era accaduto, si era pro-fondamente trasformato diventando estremamente loquace ed esprimen-do in tono molto colorito e decisamente rabbioso, le disavventure della sua amata gallina.

Le parole gli uscivano dalla bocca come lava da un vulcano: ripeteva ossessivamente alcune frasi, mettendo sempre in evidenza la gratuita vio-lenza del burbero assalitore, contrapposta all’estrema sudditanza e mitez-za della cara “cocca Marietta”. Sì, perché lui le sue galline le chiamava tut-te per nome: Marietta, Giovannina, Lisetta...; non ne aveva mai mangiata una e morivano tutte di vecchiaia. Ai galli invece era destinata una ben altra “sorte” e se si fossero comportati male questa sarebbe sopraggiunta anche molto prima della scadenza naturale.

«Fin da giovane quella bestiaccia aveva qualcosa di strano addosso: era sempre a petto in fuori, spadroneggiando nel pollaio e per un non nul-la beccava furiosamente tutte le galline; ma io con i violenti non ho nulla a che spartire e ha avuto la fine che si meritava; quando devo tornare per togliere i punti?»

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«Tra 8-9 giorni e sarà necessaria anche un terapia antibiotica, le sa fare le iniezioni?»

«Come... le iniezioni alle galline?»«Certo è molto più comodo ed efficace che somministrare il farmaco

per bocca!» «Ma in che punto si fanno?»Presa una dose di antibiotico la iniettai allontanando le penne nella

coscia carnosa e rosea, dell’ancora imbambolata Marietta.«Ecco come si fa, è più facile a farsi che a dirsi»«Bene, bene, penso proprio di farcela, tutt’al più mi darà una mano

mia moglie»Rimessa con molta attenzione la gallina nello scatolone con pareti

bucherellate, ci salutammo; chiusi la porta dell’ambulatorio e dalla fine-stra ancora aperta: «Ma guarda un po’ quel vigliacco di un bastardo di un gallo! Per dispetto non lo mangerò nemmeno: finirà direttamente nel letamaio a far grasso concime per le piante».

lE VEGliE NEllE sTAllE, uN Po’ Di PsiColoGiA E TANTE RiFlEssioNi

Si pensa come si viveDemostene, Olintiche

Indottrinati come siamo al super consumismo, abituati, vorrei dire obbligati, all’usa e getta, “costretti” anche se a volte con grandi sacrifici, a mantenere un tenore di vita che va oltre le nostre possibilità; piacevol-mente abituati a vacanze al mare e in montagna, a divertimenti di ogni tipo, quasi addormentati dal caldo innaturale delle nostre case.

Il pensare che solo fino agli anni cinquanta la gente di campagna usasse per economizzare la legna, scaldarsi al “caldo animale” delle stal-le, sembra veramente incredibile.

Se consideriamo che la temperatura normale di una vacca è di 38-39°, la cessione di calore che ne deriva all’ambiente è molto elevata e se poi la moltiplichiamo per il numero di animali presenti, ci spieghiamo il per-

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ché di tanto riscaldamento per lo più completamente gratuito. Fra l’altro le stalle di una volta essendo molto basse e con un perfetto isolamento termico (muri in sasso, pavimento e pareti coperte spesso da mucchi di paglia e fieno), mantenevano costante la temperatura creando un micro-clima interno molto gradevole.

I bambini giocavano, gli uomini parlavano di aratura, di semina, di malattie degli animali, della futura mietitura estiva, augurandosi un ab-bondante raccolto.

Le donne facevano le loro “chiacchiere”: «Lo sai che la figlia di Antonio si sposa con il figlio della Giuseppa?

Speriamo che vadano d’accordo..., ma se ti devo dire la verità lui mi sembra un po’ troppo giovane e poi …pensa più ad andare all’osteria che a lavorare; bah..., speriamo in bene! Anche la sua famiglia… dicono che non abbia tutti i venerdì a posto».

E gli uomini più vicini ai problemi che quotidianamente dovevano essere risolti:

«Quest’anno le “mestiti” (in italiano mastiti), sembra ce l’abbiano con me, su cinque vacche che ho, tre sono malate, hanno le mammelle grosse e gonfie e il latte è diminuito della metà. I man det ed fag d’impac cun

La mungitura

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l’acqua dal taiadlen …, ma e n’è servè a nient; e go anc mes d’la pumada, ma nient! E veterinari l’a det...».

(Mi hanno detto di fare degli impacchi con l’acqua delle tagliatelline, ma non è servito a niente, ho messo anche della pomata ma niente, il veterinario mi ha detto ...).

Molte volte i rimedi popolari alle malattie hanno effetti benefici. Lo sperare però di guarire un’infiammazione di una mammella con l’acqua delle tagliatelline, anche se fatta in casa, è davvero troppo.

Le donne portavano con sé il lavoro di cucito e spesse volte l’ago cadeva loro di mano scomparendo nella paglia, che spesso copriva l’ac-ciottolato della stalla. Ritrovarlo era proprio come “cercare un ago in un pagliaio”.

Questa all’apparenza innocua disattenzione si trasformava però come vedremo, in un grosso problema per la salute dell’animale che accidental-mente lo avesse ingerito.

Infatti l’ago una volta presa la via del tubo digerente, arrivato nel reticolo (uno scomparto gastrico dei ruminanti), ne fuoriesce forandolo e cominciando il suo micidiale “vagabondare” nel corpo del malcapitato.

Se va bene si va ad infilare da qualche parte formando un grosso ascesso che lo delimita e può anche non dare più problemi.

Fra piccoli ci si intende sempre molto bene

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Altre volte, nelle situazioni ancor più fortunate, fuoriesce letteral-mente dalla cute. Spesso però, e questa è l’evenienza peggiore, prende la strada che conduce al cuore generando una pericardite con conseguen-te scadimento generale dell’animale che dimagrisce di giorno in giorno emettendo a tratti un caratteristico rumore di gola (ehmmm….), tradotto in dialetto: «la vacca la gnecca» (la vacca si lamenta), che è l’espressione del dolore provocato dall’ago che si sposta al suo interno. Questa patolo-gia definita scientificamente “sindrome da corpo estraneo”, è ben cono-sciuta dagli allevatori che per definirla usano l’espressione: «la vacca l’è inguchià», ovvero sia la vacca ha mangiato la “gocchia” (l’ago).

Lo stare insieme, unito al quasi obbligo di colloquiare, (non c’erano né televisori, né radio, né tantomeno cd da ascoltare), induceva le persone a comunicare i propri sentimenti, i propri dubbi, le proprie perplessità.

Si chiedevano consigli, si facevano partecipi anche gli altri dei propri problemi, si giungeva, di comune accordo, a soluzioni di cui tutti avrebbe-ro beneficiato. Era una vera e propria moderna “terapia di gruppo”.

Il parlare di un problema che si ha dentro comunicandolo ad altre persone già alleggerisce di molto il proprio travaglio interno. Non per niente il verbo condividere significa: dividere con, metà a me metà a te, il peso si sopporta in due.

Come spesso accade quando nasce una nuova teoria in campo scienti-fico, mi riferisco alla moderna e già citata “terapia di gruppo”, ci si accor-ge, ad un attento esame, di quanto non abbia veramente niente di nuovo; ma che sia soltanto una rielaborazione o una riscoperta di un qualcosa che esisteva già, di un qualcosa di preesistente, ben sperimentato e codifi-cato, ma al quale non avevamo prestato la dovuta attenzione.

Nel nostro caso la convivialità delle veglie e diciamo pure la sua in-trinseca necessità (vantaggio puramente materiale cioè, riscaldarsi), ser-viva forse all’insaputa degli ignari partecipanti, a farli star meglio anche psicologicamente.

Aggiungerei che la semplicità di ragionamento, l’ingenuità con cui si affrontano determinate situazioni, l’essere benignamente all’oscuro di tante teorie pseudoscientifiche più o meno veritiere, li portava fondamen-talmente da un “riposo mentale”, ad una “cessazione di stimoli”, il più delle volte nocivi. Tutto questo essere un po’ “meno complicati”, a lungo andare, ha sicuramente un tangibile effetto benefico sulla nostra psiche. Spesso il segreto per non avere troppi problemi, è semplicemente quello di non porseli.

Una volta parlai con un vecchio medico che mi raccontò un simpatico aneddoto pieno di significato.

«C’era una volta un anziano signore che aveva una lunga e fluente barba bianca, era molto orgoglioso di portarla e non gli arrecava nes-

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sun fastidio. Una volta incontrò un suo conoscente che gli disse: “Ma tu, quando vai a letto, la barba la tieni sopra o sotto le coperte?” Il vecchio non aveva mai pensato a questo e cominciò a porsi ossessivamente questa domanda, fino ad arrivare al punto di non riuscire più a prender sonno».

Tante volte mi sono chiesto: «Si può soffrire d’ansia, non sapendo cosa questa sia, non conoscendo la sua esistenza?».

In questa situazione di “non conoscenza”, avvertiremo ugualmente dei disagi fisici riconducibili a tensioni nervose, ma questi tenderanno sicuramente ad ingigantirsi se ne conoscessimo l’intima esistenza e i mec-canismi alla base della loro genesi. Interviene un’ “auto induzione dello stress” che va a peggiorare il nostro già precario equilibrio psichico.

Anche la troppa divulgazione e informazione medico-scientifica, può essere deleteria se non viene offerta e recepita in modi più che appropria-ti. Ci sono persone che effettivamente ne traggono un vantaggio, mettendo in pratica tutti i consigli finalizzati alla prevenzione. Altri invece, sapendo che quel determinato sintomo potrebbe in qualche modo essere messo in relazione con una patologia molto seria (si tratta spesso di persone poten-zialmente ansiose), non fanno altro che incrementare il loro livello di ap-prensività già presente, peggiorando sensibilmente il loro stato di salute.

Tutto questo per dire che alle volte la famosa “beata ignoranza”, nel senso proprio del termine di (ignorare, non essere a conoscenza), ci ren-derebbe la vita molto meno complicata.

Mi sto accorgendo di allargarmi un po’ troppo su argomenti che me-riterebbero sicuramente ben altre competenze e altre sedi. Però il bello dello scrivere è proprio questo. Scrivendo puoi dire, pensare, esporre, divulgare le tue idee e convinzioni (personalmente ne ho veramente poche di saldamente radicate), facendo un benefico e importantissimo esercizio di ragionamento mentale.

L’essere liberi di divagare, poter saltare da argomenti ad altri senza nessun vincolo se non quello indispensabile di un “susseguirsi logico”, mi porta adesso ad indagare sul significato della scrittura e sulle sue motiva-zioni. Per cui, anche se partito da argomenti completamente differenti, mi lascio piacevolmente coinvolgere da questo anche per me, nuovo stimolo.

Se devo esporre un concetto, sono costretto a pensare, a ragionare. Il pensiero o meglio l’intuizione che lo precede, deve poi essere trasformata in scrittura e nuovamente elaborata, ripensata, alle volte modificata, al fine di trovare le parole più adatte a esprimere un determinato concetto.

Quindi esiste una doppia griglia filtrante che si evolve e modifica ulte-riormente nell’atto dello scrivere.

Ci potremmo trovare paradossalmente a scrivere esattamente il con-trario di quello che avevamo inizialmente pensato. Facendo questa conti-nua ginnastica mentale, scopriremo un mondo a noi sconosciuto, fatto di

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sensazioni purtroppo dimenticate o stancamente assopite. Risveglieremo ricordi più o meno piacevoli, ci soffermeremo riflettendo e ragionando sui vari aspetti del vivere quotidiano, traendone grandi benefici. Impareremo soprattutto a fare nostro un atteggiamento mentale, ritenuto da me im-portantissimo: cioè l’arte di osservare.

Solo con l’attenta osservazione riusciremo a percepire fino in fondo la realtà, sia questa rappresentata dalle armoniose movenze di un cavallo in corsa, dal viso rugoso e pensieroso di un vecchio o dallo sguardo aperto alla vita di un bambino.

Come spesso accade nella storia della scienza (gravità Newton, peni-cillina Fleming), il saper osservare con occhio esperto e abituato a captare le modificazioni indotte da determinati fenomeni fisici, ha permesso che si giungesse alla futura scoperta scientifica, così anche la sensibilizzazio-ne e iniziazione allo scrivere prevede un cammino fatto di osservazioni ottenute da acquisizione di sensibilità, da evidenziazione di particolari, cercando di diventare anche un po’ più curiosi nell’atto della conoscenza.

Riusciremo così, se già predisposti, a percepire e fare nostre sen-sazioni e sentimenti di cui non conoscevamo l’esistenza, essendo questi come assopiti sotto il troppo impegno mentale rivolto alle troppe preoccu-pazioni del vivere quotidiano.

Ognuno di noi ha qualcosa da dire, da comunicare. Per farlo bisogna solo aspettare quella che viene definita genericamente “ispirazione” o con significato più profondamente religioso: “vocazione”.

Questi due benefici stati mentali (vocazione e ispirazione), in fondo in fondo, non sono altro che la materializzazione dello sforzo fatto in prece-denza, mirato ad acuire e dare forza all’osservazione, lasciandoci compe-netrare apertamente e senza nessuna difesa da tutte quelle sfumature e ricchezze di particolari di cui è ricchissima la realtà.

Chiusa questa parentesi, di come mi piace chiamarlo “benefico ra-gionamento”, concluderei questo capitolo consigliando a tutti coloro che per caso stessero leggendo queste righe, di provare loro stessi a scrivere.

Ritrovarsi a tu per tu con i propri pensieri, le proprie emozioni, non soffermandosi ad un’osservazione superficiale, ci farà ritrovare anche noi stessi.

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il Fusano

«Pronto chi parla?»«Eh sun me» (sono io)«Ho detto chi parla?»«Eh sun me!»Già l’essere svegliato nel cuore della notte non è sensazione molto

piacevole, ma non capire nemmeno chi stia parlando è davvero troppo. Dopo vari: «Pronto…chi parla?» Seguiti da altrettanti: «Eh sun me»,

riuscii a capire di chi fosse la misteriosa voce dall’altra parte del filo tele-fonico.

Il mio riservato interlocutore credeva forse di essere il mio solo clien-te (e per fortuna si sbagliava!) e aveva pensato di presentarsi in quel modo a dir poco sbrigativo.

«Ho la pecora che sta male…venga subito a visitarla! Sta per mori-re...!»

Sembrava veramente un caso di assoluta urgenza.Mia moglie, svegliata dallo squillo del telefono, decise di accompa-

gnarmi. «Vengo anch’io perché sono più tranquilla…. c’è la strada gela-ta… poi intanto non dormirei ugualmente fino al tuo ritorno, tanto vale andare in due».

Col tempo questa sua apprensione diminuì gradatamente, ma ancora oggi – sono passati più di vent’anni – le mie uscite notturne, soprattutto col brutto tempo, non la fanno dormire tranquilla.

Quella notte la temperatura era di molto sotto lo zero. La pioggia caduta fino a poco prima aveva lasciato il posto a una sottile lastra di ghiaccio. Ci vestimmo velocemente e uscimmo di casa dirigendoci verso il Fusano (località posta a 1350 metri ai piedi del monte Cimone).

La nottata era limpidissima tanto che guardando il crinale innevato e illuminato dalla luna, sembrava poterlo toccare. L’atmosfera quasi irreale di quella notte lasciò però subito il posto alla “dura realtà”: la macchina era completamente coperta di ghiaccio.

«Vai a prendere un po’ di acqua tiepida che sgeliamo le serrature e i vetri, le chiavi non entrano!»

Una volta effettuata la “manovra di scongelamento” partimmo verso la nostra destinazione. Sebbene avessi la trazione integrale e i pneumatici da neve, alle prime curve mi accorsi dell’estrema scivolosità e pericolosità del fondo stradale. Quello che mi impensieriva di più, però, non era tanto la salita, ma la conseguente e inevitabile discesa.

In montagna si sa: si sale e poi si scende!

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«Rallenta! Non senti che stiamo sbandando? Stai più sul centro della strada!»

Questi continui suggerimenti mi accompagnarono incessanti fino all’arrivo al Fusano. Ad aspettarci c’era Franco.

«Signor, dottore, veterinario! Si dice così…, è vero?»Non avevo mai ricevuto tanti titoli accademici contemporaneamente.«La pecora sembra stare un po’ meglio, ma se l’avesse vista prima,

sembrava proprio che volesse morire! Non si voleva alzare e aveva degli strani occhi… Ad ogni modo, ormai che è qui, andiamo pure a visitar-la…».

Entrai nella stalla e la pecora che poco prima, a detta dell’apprensivo proprietario,era in procinto di tirare le cuoia, mi venne incontro tutta bal-danzosa, quasi a voler mettere in ridicolo l’eccessivo zelo del suo padrone.

«Ma guarda un po’ come possono cambiare le cose in poco tempo… Ma sa…, la vedevo così male! Meglio chiamare per niente che per qualco-sa! E poi ho pensato: è tanto una bella nottata che al dottore farà sicura-mente piacere fare un giretto in montagna!»

Queste parole furono dette con una così profonda convinzione e ac-compagnate da un’espressione talmente serafica che non mi fu possibile controbatterle in nessun modo.

Visitai ugualmente l’animale e lo trovai in buona salute; salutai Fran-co e ripresi la via del ritorno.

Quando scendemmo però l’estrema pericolosità della strada e i con-tinui e assillanti consigli sul “come guidare” di Simonetta, mi fecero ritor-nare col pensiero alle parole di Franco: «È una così bella serata…».

Avrei voluto dirgliene bonariamente quattro, ma ormai, e sincera-mente non mi dispiacque, era già troppo tardi.

Al Fusano c’ero già stato parecchie volte e in ogni occasione l’ac-coglienza era sempre stata sentita e calorosa, come quella volta che mi chiamarono per un parto molto difficoltoso.

Come al solito era notte, d’inverno e c’era la neve.Statisticamente è stato osservato che le vacche partoriscono di prefe-

renza durante le ore notturne.La causa di tutto questo potrebbe essere ricondotta al fatto che il dra-

stico calo nel sangue degli ormoni che inducono il parto, avvenga soprat-tutto di notte, seguendo i cicli Circadiani luce-buio.

Anche la tranquillità e il silenzio, rotto soltanto dal caratteristico e rassicurante rumore emesso dalle vacche durante la ruminazione o dallo zampettare frettoloso di un grosso topo campagnolo in cerca di cibo, con-tribuiscono a rilassare tutti gli animali. In particolare quelli che devono partorire risentono positivamente di questa atmosfera, iniziando così il

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loro travaglio. Molti contadini sono persino convinti che riescano a “trat-tenere il parto”, fino a quando siano loro stessi a decidere di iniziarlo. Fatto sta, che anche questa volta il mio intervento era richiesto di notte.

Arrivai al Fusano verso le tre del mattino. Tutta la famiglia, moglie, marito, fratello e l’anziana mamma, erano già tutti in piedi pronti a dare una mano in caso di bisogno.

Il grande camino, acceso da tempo, emanava quel buon “caldo a fiamma” che solo il fuoco sa diffondere.

La casa era percorsa da un via vai incredibile come se fosse stato pieno giorno. C’era chi si infilava gli stivali e la tuta da lavoro, chi scal-dava l’acqua, chi prendeva lo strutto che avrebbe poi avuto una duplice funzione: quella di lubrificare al bisogno il canale del parto e quella ben più gradita di friggere delle profumatissime paste fritte a lavoro ultimato.

A proposito del termine “vacca”, questo risulta essere ai non addetti ai lavori, un po’ volgare, quasi dispregiativo, ricordando il suo significato meno edificante.

Niente di più sbagliato! In quasi tutti gli allevamenti viene praticata la fecondazione artificiale (una fredda cannula di metallo, guidata dal veteri-nario in modo asettico depone il seme in utero): figuratevi quindi che gran godimento per lo sfortunato animale!

Pensandoci bene però è l’unico vocabolo che in italiano riesca a defi-nire correttamente l’animale di cui stiamo parlando. Il termine “mucca” è un vocabolo più gentile, meno “violento”, ma come diceva il prof di ana-tomia: «Ricordate: in medicina veterinaria esiste solo il termine “vacca”! Non si studia l’anatomia della “mucca”... ma quella della “vacca”. L’altro termine, se proprio volete, indica la “mucca Carolina”». Per chi non lo ricordasse questo era un simpatico e conosciutissimo personaggio pubbli-citario di una casa produttrice di formaggi: “L‘Invernizzi”

«Dai…., andiamo in stalla! Mio fratello Natale sta aspettando!»Indossai il classico camice di plastica, i lunghi guanti ostetrici e mi

diressi verso la partoriente«Deh ragaz, cuma vala?» (Dì, ragazzo, come va?)Natale, fratello di Franco, mi salutava e saluta tutt’oggi sempre in

quel modo gioioso e quasi paterno.Essendo un uomo di corporatura massiccia, alto e imponente, vede

tutti gli altri, me compreso che non sono certamente piccolo, come se fos-sero ancora bambini, come se dovessero ancora crescere.

Oltre questo, c’era nel suo tono una componente affettiva nei miei confronti, che lo faceva esprimere in quel modo.

Si dice che fosse, e forse lo è ancora oggi, il più forte di Canevare. Lo vidi più volte sollevare disinvoltamente bidoni del latte da cinquanta chili o portarne due contemporaneamente.

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Una volta stavo visitandogli un cavallo particolarmente irrequieto. Gli chiesi allora se avesse un torcinaso (strumento costituito da un robusto bastone di circa cinquanta centimetri alla cui estremità viene legato un pezzo di altrettanto robusto e resistente cordino, che va a formare una specie di anella, in modo da poter legare con questa il naso del cavallo stringendolo fino al punto di fargli male e costringendolo quindi a stare fermo). Un po’ “drastico” come metodo di contenzione! Alle volte però con animali altamente eccitati è veramente indispensabile.

Natale mi guardò un po’ negli occhi poi mi disse con voce stentorea: «È turcinas è gl’o me in tal man! Sta a veder» (Il torcinaso l’ho io nelle mani! Sta a vedere).

Si avvicinò all’imponente animale che già aveva “tirato” le orecchie all’indietro in atteggiamento di difesa, subodorando quello che gli sareb-be accaduto. Gli infilò l’indice e il pollice della mano destra nelle narici e torse violentemente il naso. Inizialmente il cavallo accennò a un timido atteggiamento di ribellione, ma sentendo che la presa si faceva sempre più serrata, si ammansì e potei così visitarlo tranquillamente.

Franco “del Fusano” e i suoi cavalli

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Ma torniamo al nostro parto.Dopo una veloce esplorazione vaginale mi resi subito conto di quale

fosse il problema:«Il vitello ha il collo torto da un lato e un arto flesso; così messo non

potrà mai passare! Bisogna metterlo in posizione fisiologica (arti all’avanti e muso appoggiato su di questi), quindi cominciare a fare trazione».

La vacca cercava in tutti i modi di liberarsi “da quell’ingombro” ma sebbene spingesse energicamente proprio non ce la faceva. Il “passaggio” era troppo stretto e angusto, soprattutto per un vitello messo in quella posizione anomala.

Mi “rinfilai” dentro la vacca e con la mano destra col dorso appoggia-ta alla parete dell’utero cercavo di ricondurre il vitello in giusta posizione.

«Spingono sempre quando non è necessario! Però sento che la testa si sta muovendo; ancora una piccola spinta ed è fatta. Dopo penseremo a raddrizzare l’arto flesso. Ecco... la testa è a posto! Dammi un laccio da ballino che cerco di legare l’unghione incastrato!»

Dopo aver messo una mano sotto lo zampino a protezione dell’utero, con l’altra feci forza sull’articolazione del gomito e contemporaneamente ordinai a Natale, che teneva le estremità dei lacci, di tirare: «Conto fino a tre! Al tre tira…! Mi raccomando non troppo forte!»

Presi lo strutto che avevo a portata di mano e lo spalmai ben bene sulla testa del vitello. «Uno, due, tre!»

Come d’incanto lo zampino si raddrizzò e il vitello con una lieve tra-zione fu all’esterno.

Franco, che intanto aveva assistito quasi passivamente a tutta l’ope-razione, appena visto il nascituro leggermente assopito, disse: «Bisogna subito fargli una di quelle iniezioni che lo fanno respirare meglio e che lo “tirano su”. Poi un bel po’ di aceto nelle orecchie e vedrà che cambiamen-to!»

In effetti il vitello non aveva assolutamente bisogno di niente: tutt’al più gli sarebbe servito un energico massaggio con del fieno, ma data l’insisten-za di Franco: «Male sicuramente non gli fa!» e la frase di rito: «Meglio per niente che per qualcosa!», dovetti iniettare una piccola dose di analettico cardiorespiratorio che in realtà male non gli avrebbe sicuramente fatto.

È usanza comune quando nasce un vitello, a prescindere che stia male o bene, versagli dell’aceto nelle orecchie. Questa sostanza che fun-zionerebbe da “stimolante olfattivo” viene invece usata in modo impro-prio: l’animale sbatte ripetutamente la testa per liberarsi dal liquido che gli scorre nel canale uditivo e questo, dicono in campagna, “lo sveglia”. L’aceto semmai funziona come i famosi “Sali” che si davano da annusare una volta alle persone che avessero accusato un malore, nella speranza di farle rinvenire.

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Dopo questo trattamento, e visto il benefico effetto, Franco aggiunse: «Se n’è lighen, è scappa foeura di’la stalla!» (Se non lo leghiamo scappa fuori dalla stalla! Ha visto come s’è ripreso!)

Il vitello aveva già la testa dritta e cercava in tutti i modi di alzarsi.«Adessa è metten sotta la vacca, che è lecca ben ameud, po’ egh da-

ren eh coloster» (Adesso lo mettiamo sotto alla vacca che lo lecca ben bene, poi gli daremo il colostro).

L’animale fu messo alla portata della lingua della vacca che subito cominciò a leccarlo da tutte le parti. Questo comportamento materno (leccare il neonato) è tipico di molti animali. Serve per favorire il circo-lo sanguigno, libera le narici da eventuale muco, elimina completamente gli invogli fetali che avvolgono il neonato. È un comportamento naturale, istintivo. Alle volte però qualcosa non funziona anche nella meticolosa e quasi perfetta programmazione ereditaria.

Ho visto e mi è stato riferito più volte di vacche che “prese dal troppo entusiasmo” con cui accudivano il vitello e, soprattutto se questo aveva il cordone ombelicale sanguinante, gli hanno provocato, leccandolo, vere e proprie lacerazioni sull’addome tanto da farlo morire. Anche cani e gatti alcune volte passano dal semplice leccamento dei neonati a vero e proprio cannibalismo.

Franco “del Fusano” nella sua stalla

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Intanto il profumo delle paste fritte aleggiava nell’aria insinuandosi da tutte le parti, riuscendo anche a sovrastare quello pur forte della stalla.

«Venite finché sono ancora calde!»Chi parlava era l’Ermentina, moglie di Natale, purtroppo prematura-

mente scomparsa. Lei, vera donna di campagna, sempre attenta a tutto e a tutti, infaticabile, cordiale e ottima cuoca.

Specifico che erano le quattro del mattino! Ma in campagna si sa: i rit-mi sonno-veglia sono completamente diversi da quelli a cui siamo adesso abituati. Si va a letto presto e ci si alza prima dell’alba.

Una volta giunsi a casa di un allevatore che erano le sei del mattino; era il mese di maggio.

«Car eh me duttur, eh sul è sé bel alvà da un pez» (Caro il mio dottore il sole si è già alzato da molto)

Con queste parole mi accolse un arzillo vecchietto ultra ottantenne che alzatosi alle quattro aveva già lavorato due ore nella stalla. Secondo i suoi ritmi le sei di mattina erano da considerarsi un orario già troppo tardivo.

«Si sente bene che le avete fritte nello strutto... hanno quella fragran-za che nessun olio riesce a dargli, poi mangiate calde con questo ottimo parmigiano sono veramente insuperabili»

Tra un bicchiere e l’altro parlammo della loro gioventù trascorsa a “badar greggi” a quei tempi molto numerosi. Alla fine dell’ottocento si contavano parecchie migliaia di ovini pascolare nelle nostre zone.

Avevo di fronte a me persone che da bambini avevano vissuto l’espe-rienza fantastica e avventurosa della transumanza:

“Settembre, andiamo. È tempo di migrare.Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori lascian gli stazzi e vanno verso il mare:scendono all’Adriatico selvaggio che verde è come i pascoli dei monti.”

(Gabriele D’Annunzio, I Pastori).

Al Fusano sono particolarmente legato perché vi ero già stato pa-recchie volte con mio padre e lui mi raccontava di quando da bambino, accompagnato a sua volta da suo padre, vi si recasse per contrattare l’ac-quisto di una mezzena di maiale.

Mi piace immaginare i loro discorsi, mi piace ripercorrere gli stessi sentieri, calpestare gli stessi sassi, toccare gli stessi alberi, fermarmi ad ammirare gli stessi paesaggi e leggere le iscrizioni delle stesse maestà: “O passeggero fermati a salutar Maria…”.

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Purtroppo il tempo passa, le generazioni si avvicendano, la vita lascia il posto alla morte, ma fortunatamente anche la morte lascia il posto a una nuova vita. Certe cose però sembrano non cambiare.

La dura pietra della maestà, il centenario ciocco di castagno, l’acciot-tolato ben levigato del sentiero, sembrano avere un’anima immortale che pare innescare sentimenti ed entusiasmanti sensazioni che si trasmettono immutate e inalterate nel tempo, stimolando e generando gli stessi pen-sieri e gli stessi stati d’animo che furono propri di chi, prima di noi, aveva attraversato quei luoghi.

Entrare a far parte di quest’“anima immanente” è un modo quanto mai naturale di essere più vicini alle care persone scomparse.

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«Su Bruno! È ora di alzarsi!»A fatica emergo dal sonno ed apro, dubbioso, un occhio ancora gravi-

do di sonno. Il volto sorridente di mia madre è chino sul letto, mentre con una mano mi scuote dolcemente.

«Avanti pigrone! Non vuoi venire alla Superchina?»Un lampo squarcia la mia sonnolenza: accidenti! Mi ero dimenticato!

Oggi è martedì! La mamma vuole andare a rivedere il posto dove siamo stati sfollati in tempo di guerra!

Sotto il suo sguardo divertito, mi siedo sul letto, mettendo i piedi sul pavimento alla ricerca delle ciabatte. Alzandomi, fatico a mantenere l’e-quilibrio e annaspo nell’aria; un braccio mi sorregge.

«Piano! Piano! C’è tutto il tempo! Adesso lavati e scendi per la cola-zione»

Ormai sono del tutto sveglio e mi affretto. Verso l’acqua della brocca nel catino e tuffando entrambe le mani mi detergo rapido il viso. Afferro l’asciugamano e mi sfrego energicamente il viso. Mi guardo nello specchio mentre un raggio di sole, penetrando dagli scuretti accostati, taglia lo spa-zio con una lama dorata, nella quale ondeggia un pulviscolo di polvere e mi colpisce gli occhi. Mi perdo nella contemplazione di quelle particelle

QUANDO MIA NONNA FUMAVAdi Bruno Turchi

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brillanti mentre un profumo di pane fresco si sparge nella stanza, prove-niente dal camino del forno di Dionigi.

Un colpo di tosse, proveniente dal piano terra mi riporta alla realtà.Indosso rapido, gli indumenti, lasciati in bella mostra da mia madre

sulla sedia e scendo le ripide scale con precauzione, memore delle scivo-late passate.

Attraverso la sala in punta di piedi per non svegliare il villeggiante dell’albergo Roma che dorme sul divano letto protetto dal paravento. L’al-bergo ha meno camere dei villeggianti che ospita in estate e nei momenti di ressa, ne affitta nelle vicinanze e anche posti letto.

In cucina ci sono mia madre, mia zia e la nonna che stanno prepa-rando la tavola. Sulla stufa economica si sta scaldando il bricco del latte mentre nella caffettiera napoletana scende la miscela di orzo e surrogato Leone. La zia mi porge una tazza di latte fumante, versa la miscela e mi allunga un piattino con dei cubetti di pane.

Mentre inzuppo il pane osservo mia madre che toglie dal fuoco un tegamino con delle patate lesse, cotte nel burro e le accompagna alla sua colazione. È una usanza svizzera, di quando sono emigrati a Bulle nel Canton Friburgo. Mio nonno faceva il livellatore di strade mentre la nonna lavorava in una fabbrica di cioccolata. Mia zia, che è più grande di mia mamma, ha fatto le scuola là e nella sua camera custodisce ancora i libri di scuola in francese. Anche mia nonna a volte ricorda nel parlare quel-la lingua; infatti quando deve dire “partire” lei dice sempre “sortire”. A me non piacciono le patate col latte, mentre invece sono molto ghiotto di un’altra usanza svizzera e cioè accompagnare il caffè-latte con una bella fetta di formaggio tenero.

«E il formaggio?» protesto. Vengo subito accontentato e mi riempio la bocca di pane, latte e formaggio.

La nonna mi osserva severa.«Non ingozzarti come un’oca! Sembra che sia una settimana che non

mangi! Di su, hai detto le preghiere?»Perbacco mi sono dimenticato! Divento rosso e non so cosa risponde-

re. Fortunatamente interviene mia madre «Mamma, lascialo stare! Avrà tempo di rimediare quando saremo alla

maestà del cimitero…vero Bruno?»La nonna si lamenta della interruzione. «Difendilo pure quel birbante. Vedrai quando sarà grande…»Innervosita dall’osservazione, la nonna infila una mano nel grembiu-

le e cerca nervosamente qualcosa. «Chi mi ha nascosto le sigarette?» protesta lamentosa. E sì! Sembra

impossibile, ma la nonna fuma! Una abitudine riprovevole che penso ab-bia contratto quando era in Svizzera, dove, fumare, per le donne, era una

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forma di emancipazione. Non so se il nonno era d’accordo o meno. Sta di fatto che ora che è rimasta vedova, una sigaretta al giorno, dopo pranzo la fuma e sembra proprio che la gusti.

«Sono le sette di mattina mamma!» protesta la zia «Adesso vado a vedere in camera tua dove le hai lasciate ma fino a dopopranzo niente. Hai capito!»

All’improvviso la stanza cade in una totale oscurità. La cucina, infatti, prende aria da un finestrone molto piccolo, situato in alto, e di luce ne scende pochina. Infatti tutto il giorno l’ambiente è illuminato dal lampa-dario

«Accidenti! È saltata di nuovo la valvola!» brontola mia zia e si lascia sfuggire un grido di dolore: ha evidentemente urtato contro una sedia.

«Hai pagato la bolletta?» infierisce la nonna.«Mamma!» esclama esasperata la zia.«Quante volte vi dico che ci vuole un filo più grosso nella valvola! –

continua la nonna – quando lo facevo io questo non succedeva…»«Mamma per favore non ricominciamo! E adesso dove sono le can-

dele?» «Io lo so! – intervengo – le ho viste nel cassetto di bottega»«In bottega? – mormora la zia – comode da trovare al buio!»Io però sono già sgattaiolato fuori dalla stanza e alla tenue luce pro-

veniente dalla vetrata della bottega ho trovato subito le candele e i fiam-miferi.

«Eccole!» grido, pregustando già gli sviluppi della situazione. E infat-ti… Appena la zia ha acceso la candela che io tengo ben diritta nella sua bugia di latta ecco la domanda angosciosa

«Dov’è il filo di rame?» chiese la zia. Siamo alle solite: il filo di rame è introvabile (specialmente nella semioscurità che ci circonda) per cui dopo un tumultuoso aprire e chiudere dei vari cassetti della credenza la zia si lascia cadere affranta sulla sedia.

«Quante volte vi dico…» comincia allora la nonna.«Mamma!» gridano all’unisono la zia e mia mamma. È il mio momen-

to! Infilo una mano nelle tasche dei miei calzoni e trovo un pezzetto di filo che tengo sempre di riserva.

«L’ho trovato! L’ho trovato!» grido tutto festante. La mamma mi ab-braccia e mi bacia.

«Bravo il mio Bruno!»Si può così procedere nelle operazioni. La mamma, che è più disin-

volta nei lavori artigianali sale sulla sedia, stacca la piastrina della valvola e sostituisce il filo.

«Stai attenta!» le raccomanda la zia. Ed ecco che la luce illumina la bottega! È finita: possiamo partire per la Superchina.

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IL BUON PESCATORE DI FELLICAROLOdi Romelio Bellettini

Molti lettori sanno che sono nato a Fellicarolo. Vivo però a Gaggio Montano da tanti anni: qui ho famiglia, il mio lavoro e tantissimi amici. Ma immancabilmente, ogni settimana, salgo almeno una volta al mio pae-se per vedere mia madre, mio fratello, le mie sorelle e tutta la famiglia. E anche i miei compaesani. Eppoi perché mi piace non perdere contatto con il mio paese.

Durante una delle visite ho incontrato una vecchia conoscenza: Alfeo Corsini detto Alfio, classe 1946, nativo di Fellicarolo. Suo padre era Gio-vanni detto Gianin ed Zigarin, di mestiere mugnaio. Alfeo Corsini emigrò in Francia nel 1975 dove si impiegò come autista alla Renault.

«Romelio ho qualcosa da darti e da raccontarti. Ho saputo della mor-te di tuo padre Giovanni; non ho potuto partecipare, come avrei voluto, al suo funerale. Mi e tanto dispiaciuto perché ho un grande debito nei suoi confronti».

Non ero a conoscenza di niente, fui sorpreso e chiesi ad Alfeo che teneva sotto il braccio un oggetto avvolto in fogli di giornale: «Ma di cosa si tratta?».

«Era il 1951, d’estate, avevo cinque anni e il mio parco giochi era quello del greto del torrente Fellicarolo, a pochi passi dal mulino di Neri-chino dove vivevo con la mia famiglia. I miei giochi preferiti erano quelli semplici dei bambini di quei tempi: scegliere i sassi rotondi con le loro varietà di forme, gettare nell’acqua dei rametti immaginando che la cor-rente li avrebbe portati, come piccoli vascelli, verso il mare; un altro di-vertimento era quello di battere i sassi per aprirli per scovare se dentro ci fosse un tesoro.

Quel giorno avevo trovato, in mezzo ai sassi, un oggetto ovale di un vago colore marrone. Era completamente incrostato. Che sasso buffo, pensai. Lo raccolsi e con un’altra pietra cominciai a batterlo per spezzarlo e per vedere che sorpresa ci fosse all’interno.

A qualche decina di metri un uomo stava pescando tranquillamente. Lo avevo già visto, ma come capita ai bambini il nome sfugge, ma non quel viso che mi era familiare. Improvvisamente l’uomo che sembrava solo intento alla pesca di trote, ma non mi aveva perso d’occhio, mi urlò: “Fermati, aspetta!”. Con pochi balzi mi raggiunse, prese la bomba a mano

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che stavo percuotendo e la gettò lontano, nell’acqua. L’ordigno esplose fragorosamente. Capii, anche se ero un bambino di soli cinque anni, che ero scampato ad una disgrazia sconvolgente.

Il pescatore mi disse che quell’episodio doveva restare un segreto fra noi due. “Non parlarne con nessuno”. “Sì, sì” dissi, tutto tremante.

Ora te lo posso confessare: quell’uomo era tuo padre. A lui devo la vita e non l’ho mai dimenticato. Quando lo incontravo non c’era bisogno di ri-cordare quel fatto: bastavano i nostri sguardi per assicurarci, a vicenda, che avremmo mantenuto l’impegno di non rivelare il nostro “segreto”».

Alfeo aprì il pacchetto: dentro c’era una statuetta di metallo: un pe-scatore con lenza e tutta l’attrezzatura necessaria.

«Romelio, l’ho portata e ti chiedo il permesso di metterla, quando sarà pronta la lapide, sulla tomba di tuo padre».

Alfeo mi ha fatto due grandi regali: la storia che mi ha confermato la generosità d’animo di mio padre Giovanni e questa statuetta che gli terrà compagnia al camposanto.

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SERA NELLA VALLE DI OSPITALE(sull’aia di Ca’ di Cecchino)

L’ombrasi è ormai distesa

su tutte le pietre dell’aia. Ed ora, lenta, sale sui tronchi

dei frassini e dei faggi che si fanno sempre più scuri

nella sera che li avvolge.

Si spegnerà fra poco anche quell’ultima luce

che, incerta, ancora brilla sulle foglie

del frassino più alto.

Ma poi scenderà la notte,la luna salirà sui nostri monti,

e di nuovo saremo immersi nel silenzioso incanto

della nostra valle.

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«Bravo… dai… ormai sei in cima...».Gli incitamenti che la testa trasmetteva mi davano sollievo e quella

convinzione che era venuta meno al momento di partire dal paese. Già. Non mi sentivo a posto per cui la voglia di salire allo Spigolino

era ben poca. Sarà per un altro anno, pensavo, ma per fortuna l’imput decisivo arrivò a prevalere sui miei dubbi e mi sospinse in auto alla volta della Croce Arcana. Proprio “per fortuna” perché quella sera, venerdì 7 agosto del 2009, non potevo sapere che sarebbe stata l’ultima volta che – a meno di attuali eventi miracolosi di ardua previsione – avrei potuto essere presente alla seducente Messa sulla montagna.

In vetta, alla severa quota di 1827 metri, ci arrivai con una confor-tante ascesa e relativo fiatone finale, permettendomi però, con sorpresa, di sopravanzare svariate persone, anche più giovani del malandato sot-toscritto.

Lassù, con il giorno che lancia gli ultimi bagliori lasciando posto alle avvolgenti tenebre, ti aspetta un altare di spessa pietra e una robusta cro-ce di legno che rincuorano l’escursionista e che attendono pazienti, tutto un anno, per rivedere i fedeli salire le pendici del monte per il sacro rito dell’eucarestia.

Ed è una sera davvero speciale dove il ritrovarsi, anno dopo anno, di-viene quanto mai bello e gratificante. Gruppetti di persone che si salutano, si abbracciano, si rivedono, magari anche dopo tanto tempo proprio sullo Spigolino, proprio a quella Messa straordinaria.

Così si aspettano gli ultimi arrivi mentre dalla parte opposta una se-quela di luci avanza nel sentiero dello Scaffaiolo tale da dare l’impressio-ne di un presepe vivente, coi pastori che salgono verso Gesù. Ma sono, invece, gli amici di Lizzano e Vidiciatico che pure si sentono partecipi all’evento del vecchio Folgorino.

Oramai si può iniziare la speciale liturgia, sono tutti in vetta (in gene-re, col tempo buono, circa 70/80 fedeli, arrivando, a volte, al centinaio). I grappini, qua e là, hanno fatto la loro utile comparsa insieme a particolari attrezzi fotografici per riprendere un ambiente davvero unico.

Se poi, come spesso avviene, la giornata (si attende, in genere, la luna piena dell’ultima decade di luglio) è propizia, allora, lassù in vetta,

QUELLA MESSA SULLO SPIgOLINOdi Vanni Tagliani

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col vento assente e l’aria tiepida, la luna a schiarire le catene dei monti e le miriadi di stelle che paiono affacciarsi per godersi la cerimonia, l’atmo-sfera ovattata e quel silenzio strano ma corposo, appena rotto dal bisbiglio delle preghiere, ti danno la sensazione dell’irreale.

Come irreale ti appare il suggestivo paesaggio che si adagia verso la Toscana a sud, contrapposto a quello dell’Emilia a nord, con scenari unici e visuali che spaziano dalla pianura padana sino all’alto Tirreno.

Ma ecco finalmente il sacerdote dare inizio alla Messa, ora nelle vesti di don Giacomo di Vidiciatico, di don Andrea, don Paolo, don France-sco e don Michele di Fanano che si sono succeduti dal 1988, quando, su iniziativa di alcuni “Amici della Montagna” di Fanano stesso e la pronta adesione dell’allora parroco don Gianelli – a fronte dei ripetuti scellerati atti ai danni di precedenti croci erette sullo Spigolino – si decise di andarci a dire Messa, per esorcizzare e “ripulire” la vetta dai sacrilegi compiuti (croci abbattute e gettate nel dirupo).

Intanto la Funzione ha preso avvio, la gente è tutta sparsa attorno all’altare illuminato dalle luci delle pile. La concentrazione è totale, vera, intensa tanto che il rito scivola via veloce attraverso le orazioni a ricordare chi non c’è più, le riflessioni personali, i tenui canti che sembrano sorgere

Il celebrante don Francesco di Fanano, dietro sulla sinistra don Giacomo di Vidiciatico. (Foto di Claudio Andreoni)

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da terra per innalzarsi verso il cielo, la breve omelia che non può non ar-monizzarsi col luogo inconsueto teatro dell’avvenimento, con l’ambiente che ti circonda e ti fa sentire davvero più vicino a chi tutto ciò ha creato.

Poi la comunione, la benedizione ed il rituale motivo del “Signore del-le Cime”, bellissima preghiera alpina che canti con gusto e a “pelle d’oca”, perché lassù tutto ha un sapore diverso, un sapore vero.

E giunge l’ora del ritorno con le comitive a gruppetti che si salutano con calore iniziando a scendere chi verso la Croce Arcana e chi in direzio-ne dello Scaffaiolo, tutti alla luce delle torce elettriche, nel chiarore di una notte estiva di luna piena.

Uno sguardo ancora all’amato Spigolino, un arrivederci all’anno prossimo, un grazie a quella montagna che conserva gelosamente sulla sua cima il simbolo della cristianità e che regala serate indimenticabili che restano nel cuore e nella mente.

www.park hotel fanano.com

info:053669350

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SCAFFALE FANANESEa cura della Redazione

A proposito di un libro di storia fananese

Sul libro San Giuseppe di Fanano, la “Chiesa dei Padri” di Raimondo Rossi Ercolani, edito nell’estate scorsa su iniziativa della Fondazione Cas-sa di Risparmio di Modena (con un contributo della nostra Associazione e del Comune di Fanano), sono state pubblicate diverse recensioni, in quo-tidiani locali (Gazzetta di Modena, Il Resto del Carlino, Prima pagina) e in periodici della provincia (Nostro Tempo, settimanale cattolico modenese, e Notizie, giornale laico modenese).

Pur con accentuazioni diverse, in tutte viene sottolineato come sia la parte storica, concentrata nei primi capitoli del libro, che quella artistica (nei successivi) contribuiscano nell’insieme a ricostruire – in modo scorre-vole ma sempre ben documentato – la storia della chiesa e dell’importan-tissimo complesso scolopico fananese, inserendola nella più ampia storia del nostro paese e del suo territorio. Rispetto poi all’edizione precedente, del 2002 (La Chiesa e il Convento di San Giuseppe nella storia di Fana-no), viene messo in rilievo il completo rifacimento della parte fotografica, molto più ricca in quantità e in qualità, e la revisione di tutto il testo, con il dettagliato resoconto dei lunghi e ben riusciti lavori di restauro, delle notevoli scoperte effettuate in tale occasione, della nuova solenne inaugu-razione del 19/3/2008 e dei risultati delle ricerche storico- artistiche svol-te in questi ultimi dieci anni soprattutto dall’autore e dal suo validissimo collaboratore Gaetano Lodovisi.

Tuttavia, piuttosto che queste recensioni, la redazione di Fanano fra storia e poesia ha preferito riprodurne un’altra, quella che sarà pubblica-ta su Archivum Scholarum Piarum da parte del professor Goffredo Cian-frocca, lo storico dell’ Ordine Calasanziano che i fananesi già conoscono per averlo ascoltato nel Convegno su Padre Odoardo Corsini del 4-5 ot-tobre 2002. La scelta di questa recensione rispetto alle altre è motivata sia dall’autorevolezza dell’autore che dal prestigio (internazionale) della rivista, ma anche dal fatto che in essa il professor Cianfrocca amplia il di-scorso al di là del libro in oggetto, ripercorrendo con forte partecipazione i

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rapporti che hanno indissolubilmente legato il paese di Fanano all’ Ordine dei Padri Scolopi: dai tempi di Ottonello Ottonelli fino ai nostri (ad esempio con il citato Convegno del 2002).

san Giuseppe di Fanano, la “Chiesa dei Padri” di Raimondo Rossi Ercolani Debatte Editore, Livorno 2013

Qui si tratta di Fanano, una gentile e linda cittadina

in quel di Modena. Situata sul confine tosco-emiliano, ai margini della Toscana e dell’Emilia, è un grazioso centro agricolo- turistico, visitato frequentemente dalla

storia generale, specie nei tempi andati.Nei tempi pre-moderni vi transitavano i pellegrini che dalla pianura

salivano in Appennino per poi scendere in Toscana e quindi a Roma, lungo la via che sarà denominata “Romea-Nonantolana”. Era, per i Longobardi, un valico strategicamente importantissimo che consentiva i collegamenti fra i loro territori a Nord e a Sud dell’Appennino onde presidiare i loro confini orientali nei confronti del vicino Esarcato di Ravenna. Oltre che tanti eserciti, vi passarono molti personaggi, provenienti dalla Toscana o ad essa diretti, come San Bernardino da Siena, Cosimo de’ Medici, papa Eugenio IV e tanti altri.

Rimasta terra di confine fino all’unità d’Italia, nei tempi moderni vi si svolgevano tribolatissime contese per la definizione dei confini orientali, verso il bolognese. Insomma, qui è passata la storia, e pure la grande storia.

Purtroppo non vi sono passati i grandi storici.Per fortuna, gli storici – diciamoli minori – non l’hanno sdegnata, ne

curano anzi la memoria e la tramandano – si direbbe – con quasi devozio-ne alle nuove generazioni.

È successo qui quello che s’è verificato in tanti altri centri periferici. Persone letterate, aliene dal cercare la propria fama ma intese a qualificare l’identità della propria terra, hanno guardato con rispetto e con ammira-zione alle vestigia degli eventi passati, conservate nella memoria viva della popolazione tutta e talvolta anche segnate nelle denominazioni stradali e rionali antiche, oltre che scolpite da monumenti eretti a rappresentare mo-menti e personaggi di un passato di cui la comunità pregia onorarsi.

A supporto di queste rimembranze, tali studiosi hanno ricercato te-stimonianze scritte dei tempi trascorsi. Hanno trovato e non cessano di trovare carte, cronache, resoconti, notizie, fissate sulla carta o in immagi-

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ni e dipinti, e conservate con tutt’altro intento di quello che i nostri autori poi ne hanno fatto. Quando sono così diventati autentici documenti di storia sulle scrivanie di qualche letterato locale, fosse talvolta un profes-sore laico in pensione, un insegnante di seminario a riposo, tal’altra un qualche familiare di un casato nobile oppure un dipendente sfaccendato delle magistrature locali.

Una simile avventura è toccata anche a Fanano, e ve n’è ben donde.Merito di chi pose nel passato i fondamenti di una storia imperitura

per la comunità e di chi ne illustra oggi la memoria splendida non ancora spenta.

Su questi soggetti ci informa abbondantemente il saggio di Raimondo Rossi Ercolani che ne è l’autore. Praticando la Biblioteca Comunale “Ros-si-Di Bella”, è un cultore assiduo della storia di Fanano da alcuni decenni, che ha già illustrato in varie pubblicazioni.

Quest’ultima sua pubblicazione si presenta veramente magnifica per la veste tipografica, corredata di ben 40 riproduzioni a colori di dipinti, di esterni-interni delle strutture architettoniche e degli arredamenti, oltre 120 riproduzioni in bianco e nero comprendenti numerosi documenti originali.

La Fondazione Cassa di Risparmio di Modena, assieme al Comune di Fanano e alla locale Associazione Culturale della Valle del Leo “Ottonello Ottonelli”, ha patrocinato la pubblicazione in occasione del completamento dei lavori di restauro del sacro edificio, dedicato a San Giuseppe, che però la gente usa denominare “La Chiesa dei Padri”. I quali sono i Padri Scolopi.

La chiesa infatti risale agli anni Venti del ‘600, quando gli Scolopi la costruirono e la vollero attigua al proprio convento e alle aule scolastiche. Erano stati invitati a impiantare anche a Fanano quelle scuole pie che il Calasanzio aveva appena istituite in Roma e che tanto successo stavano conseguendo soprattutto nei piccoli centri in forza della loro gratuità e in virtù della povertà dei religiosi insegnanti.

Tuttavia, a dirla tutta, non fu il Calasanzio a scegliere Fanano, ma fu Fanano a scegliere il Calasanzio, prete spagnolo che, ispirato dalla carità e dalla cultura da diffondere nelle masse, s’era trovato a fondare un Ordi-ne religioso di insegnanti.

In effetti fu proprio un fananese a scoprirlo di persona a Roma, ne divenne subito collaboratore (1617), e portò le scuole a Fanano (1621). Perseguiva l’obiettivo di dotare finalmente la sua patria di scuole pubbli-che e aperte a tutti. Si chiamava Ottonello Ottonelli, di una famiglia nobile che si interessava della città e della cultura.

Avvenne allora una cosa singolare: egli ebbe le sue scuole, ma il Cala-sanzio guadagnò un “operaio” (Così chiamava i suoi collaboratori) fra i più attivi e produttivi nella sua istituzione. Tanto da venire nominato rettore della Comunità fananese, e poi eletto Assistente Generale dell’Ordine.

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Padre Ottonelli divenne così il primo di una lunga e scelta schiera di scolopi fananesi che diedero lustro all’Ordine calasanziano e alla loro città. Ne ricordiamo alcuni fra i più insigni: il filologo Odoardo Corsini dell’A-teneo pisano, che fu addirittura Superiore Generale dell’Ordine, Giulia-no Sabbatini, fatto vescovo di Modena, l’esimio teologo padre Balestri, lo storico della prima ora Niccolò Pedrocchi, padre Giovan Battista Rosani, fatto vescovo e vicario della Basilica Vaticana. Tanto per dire dei più noti, ma senza dimenticare la folta schiera degli scolopi ignoti che fino al 1810 continuarono assiduamente il magistero quotidiano, avviando alla pietà e al sapere (e alla vita civile e pubblica) innumerevoli scolari di Fanano e degli altri luoghi circonvicini. “Insomma bisogna confessare – dichiarava il Muratori in una lettera a Odoardo Corsini – che Fanano è privilegiato da Dio in materia d’ingegni”.

Ma riprendiamo il saggio del prof. Rossi Ercolani. In sette capitoli, in forma lucida e ordinata, egli svolge la narrazione dell’argomento predilet-to, sempre attento alle fonti, tanto da arrivare ad aggiungere, con un car-toncino sciolto e inserito nella pubblicazione già avvenuta, un breve brano di un documento scoperto ultimissimamente, “a testimonianza della più antica presenza della famiglia Otto-nelli a Fanano, della sua importan-za già all’inizio del XIV secolo e del-la sua antica fedeltà agli Estensi”.

Mi pare di dover concludere che il saggio di Raimondo Rossi Ercolani è veramente pregevole. Per la conti-nua contestualizzazione degli acca-dimenti narrati interessa soprattut-to i Fananesi e gli studiosi di quelle zone rimaste in penombra nelle sto-rie generali d’Italia, ma interessa in particolare gli Scolopi che hanno molto care le origini straordinarie della propria Istituzione. La presen-te opera del nostro autore si aggiun-ge con onore alla già lunga serie di studi – il che si rileva dall’abbon-dante bibliografia – che nel corso del tempo sono stati via via dedicati a questo centro di qualche migliaio di abitanti. A cominciare dai notevoli studi condotti e pubblicati da auto-revoli Scolopi, e che il nostro auto-

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re conosce assai bene, per aver frequentato l’Archivio delle Scuole Pie fiorentine e quello della Casa Madre di Roma in San Pantaleo. Che egli si fregi di essere un sincero cultore dell’istituzione calasanziana risulta in particolare dall’aver promosso nel 2002 il Convegno partecipatissimo su Padre Odoardo Corsini, un fana-nese del XVIII secolo al servizio della scuola, della cul-tura e della fede, dall’averne curato la pubblicazione degli Atti, e – non da ultimo – dall’aver ospitato con l’Amministrazione Comunale un bel gruppo di Scolopi,

in rappresentanza del Superiore Generale dell’Ordine e in funzione di re-latori al Convegno stesso.

Perciò trova giustamente posto una menzione speciale del saggio del prof. Rossi Ercolani in questo Archivum, che, essendo la principale rivista dell’Ordine calasanziano, accoglie sempre con piacere le collaborazioni che si segnalano nell’ambito della storia dell’Ordine.

Fanano: gli anni della nostra storia…di Valerio Tagliani

Noi redattori di Fanano fra storia e poesia erava-mo sinceramente convinti che l’amico Valerio Tagliani avesse esaurito tutte le proprie doti di pazienza e di costanza nel compilare, assieme a “Grival” (“al seco-lo” Giuliano Felicini), gli indici relativi ai primi venti numeri della nostra rivista. E invece siamo stati clamo-rosamente smentiti: infatti il lavoro che l’ha impegna-

to ultimamente ha richiesto, in pazienza e costanza, un impegno ancora maggiore, e di molto. Vediamo, in breve, di cosa si tratta.

In circa 540 pagine Valerio ha raccolto tutte le notizie – elencate in ordine cronologico – riguardanti la storia di Fanano, dalla sua fondazione ai giorni nostri, attingendo a tutte le fonti disponibili (nella bibliografia sono citati più di 200 testi presi in esame!).

Per la precisione è bene chiarire che non si tratta di un libro di storia in senso stretto, che avrebbe richiesto un taglio diverso, con una valuta-zione critica delle fonti, una loro scelta (e quindi anche un peso diverso a seconda della loro importanza) e una narrazione continuativa che col-legasse le une alle altre. Questo sarebbe stato possibile soltanto a uno storico professionista: e Valerio non lo è, né tanto meno vuole atteggiarsi a tale (come invece è purtroppo successo ad altri). Piuttosto, egli si è acco-

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stato alla storia di Fanano con grande umiltà (oltre che con straordinaria tenacia), mettendo in fila un’incredibile quantità di dati e di date: sarà poi il lettore, anche in base ai propri interessi, a valutarne, caso per caso, l’importanza nell’ambito della più ampia storia del paese.

In secondo luogo si può osservare che i risultati di questo impegnati-vo lavoro sono tanto più efficaci quanto più nella cronistoria fananese ci si avvicina ai nostri tempi, anche a causa della maggiore abbondanza e del più facile controllo delle fonti: e, infatti, non è un caso che circa metà dell’opera sia dedicata al solo secolo XX e agli inizi del successivo (con più di 70 pagine per il periodo della seconda guerra mondiale). Molto positiva poi la scelta delle immagini (fotografie, piantine, etc.), numerose e sempre aderenti al testo.

In conclusione si tratta di un libro che risulterà particolarmente utile a tutti coloro (storici o persone comunque interessate a Fanano) che vo-gliano studiare, o anche solo conoscere meglio, un determinato periodo storico del nostro paese, attraverso i grandi, ma anche i piccoli avveni-menti.

Chi desidera averne una copia (28 euro) si rivolga direttamente a Va-lerio Tagliani (334.7591907 - [email protected]): per evitare inutili spese, verranno infatti stampate soltanto le copie prenotate.

(R.R.E.)

storie di confineAppunti e ricerche su un territorio montano (Frignano, secoli VIII-XXI)a cura di Matteo Al Kalak

L’agile volumetto (188 pagine), pubblicato nel 2013 dalla casa editrice Viella di Roma, raccoglie una varia e numerosa serie di saggi (per l’esattezza: nove) che hanno in comune l’appassionata attenzione e l’appro-

fondito studio del nostro territorio frignanese. Il curatore e coordinatore dell’opera, il professor Matteo Al Kalak, nell’introduzione prende spun-to da un brano nel quale “Riflettendo sulla varietà come principio della bellezza e sull’inarrivabile sapienza di Dio, Ludovico Antonio Muratori invitava i suoi lettori a non liquidare troppo sbrigativamente l’asperità delle montagne, da cui tanto si poteva imparare”.

Ai tempi del nostro grande storico, infatti, la montagna era guardata ancora con una certa diffidenza, come un luogo spesso chiuso in se stesso e poco interessato alle (e dalle) grandi vicende storiche; eppure gli studi

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successivi (e il libro in oggetto ne è un ottimo esempio) hanno ampiamente ridimensionato questa visione piuttosto riduttiva della storia frignanese, arrivando anche a rivalutare elementi che la storiografia precedente ave-va considerato come del tutto negativi (ad esempio, l’apparente “chiusura al nuovo” ha avuto come contrappeso la conservazione di importanti tra-dizioni).

Non potendo elencare i titoli e gli autori di tutti i saggi contenuti nel libro, richiamiamo l’attenzione dei nostri lettori in particolare sugli ultimi due, di argomento strettamente fananese.

Nel primo di questi (Un’antica carta della montagna: la mappa della Croce Arcana di Federica Badiali) viene presentata una rarissima carta antica della seconda metà del XV secolo, conservata nell’Archivio di Stato di Modena (“Mappario Estense”) nella quale è descritto in modo partico-lareggiato, ma anche artistico, il territorio fra il Corno alle Scale e il Monte Cimone, lungo le vallate dei torrenti Dardagna e Ospitale. Nel secondo, la professoressa Sonia Cavicchioli amplia e approfondisce gli studi che – come ispettore e storico d’arte della Soprintendenza di Modena – aveva effettuato su importanti artisti fananesi: Ascanio Magnanini e (soprattut-to) Giovanni Gherardini; si veda, in proposito, anche quanto è stato ripor-tato in altra parte della presente rivista (“Posta in redazione”, pagg. 6-7).

Di là dal ponte Storie, personaggi, poesie, ricette… da un paese chiamato Fellicarolo

(Storie raccontate da Graziella Effroi, con testi poetici e letterari di Giovanni Capucci, Rosaluna Capucci e Roberta De Piccoli; zirudella di Romelio Bellettini)

Elis Colombini editore in Modena; luglio 2013

Fellicarolo è una frazione "alta" di Fanano: ciò vuol dire che la vita in questo paese è proprio vita di montagna, tanta neve d'inverno e freddo. Solo un ponte collega la valle di Fellicarolo con il resto del mondo. Ecco quindi la scelta del titolo; quasi che, passato il ponte, un'altra dimensione di vita, un altro ritmo nello svolgersi degli avvenimenti, un altro universo di rapporti e modi di essere fossero possibili. Ed è proprio questa l’im-pressione che vuol trasmettere il libro, scritto in corsivo come un diario,

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compilato giorno dopo giorno da una bambina che passa lì dai nonni, "di là dal ponte", tanta parte della sua infanzia: veramente felice, e raffinata, questa scelta tipografica che dà un’impressione anche visiva di intimità famigliare a tutta la narrazione. Nessuna fiaba: solo dura vita di tutti i giorni, con lo sferruzzare le calze di pesante lana per i pastori e il profumo di incenso nella chiesa fredda e buia, il suono delle campane per la valle a cui rispondono quelle di Canevare; persone reali, con limiti o difetti e tanto buon senso (di quello che c'era una volta), ma visti con gli occhi di una bambina attenta e felice in questo piccolo mondo.

L'atmosfera che si respira è quella della comunità in cui ciascuno ha un ruolo e un posto ben definito, in cui non ci si sente mai persi, ma sempre ben accolti, come le Agnesine, con la loro fiabesca piccola casa a misura di bambina, o la Marchesa con la casa gelida. Un libro che si legge facilmente e si gode dall'inizio alla fine, dove sono raccolte ricette (molto interessanti quelle coi funghi, potevano mancare?), raccontini (di cui i castagneti e i funghi sono i veri protagonisti), poesie, zirudelle, detti e proverbi. Bella sorpresa, infine, l’elegante inserto “floreale” allegato al volume!

(G. F.)

DI LA’ DAL PONTE(Notturno)

di Giovanni Capucci

Al rientro notturno, dopo la sera caldadi canzoni, parole di memoria e poesia,

dentro la corte antica cinta di pietra,là dove lega il ponte al paese del monte

e s’ apre appena la valle dal torrente tagliata, ci accolse la luna piena, ridente fuori

del nero denso delle alberature, chiarain un brandello di cielo puntinato di stelle.

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leggende del Frignanodi Franca Ascari Scanabissi e Liliana Benatti Spennato

Il nostro bravo Adelmo Iaccheri, “Editore in Pavul-lo”, ha aggiunto una nuova, bella pubblicazione al suo ricco catalogo, tutto meritevolmente dedicato alla cono-scenza del Frignano e alla valorizzazione del suo ricco patrimonio di arte, di storia e di tradizioni.

Le due autrici, entrambe residenti a Pavullo, hanno già collaborato fra loro in modo proficuo scrivendo diverse opere nelle quali hanno rievocato molte delle nostre tradizioni, spesso minacciate di sparizione a causa di un malinteso senso del progresso. Questa volta si sono cimentate in un’impresa tutt’altro che facile e che, a quanto mi risul-ta, non era mai stata tentata prima in modo così organico: in 288 pagine hanno infatti raccolto quasi duecento leggende della nostra montagna, raggruppandole in dieci sezioni (Streghe e fate, Il Diavolo, Esseri mo-struosi, Santi, Cavalieri e dame, Tesori, Gente del popolo, Luoghi, Piante e fiori, Animali); ognuna di esse è preceduta da una breve, ma sempre in-teressante introduzione di carattere generale e tutte sono accompagnate dalle simpatiche e appropriate illustrazioni di Dario Brugioni.

Le leggende provengono un po’ da tutto il nostro Appennino: ma, mentre alcune di esse sono strettamente legate al paese di provenienza (almeno una decina quelle fananesi), altre sono senza luogo e senza tem-po: alla loro base c’è però sempre la grande fantasia dei nostri antenati e il loro ancora più grande amore per la propria terra.

(R.R.E.)

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RaccontiGuido Cavani Incontri editrice

Sassuolo,

marzo 2014

Guido Cavani, nato a Modena nel 1897 e qui scomparso nel 1967, è stato certamente uno dei più importanti scrittori e poeti presenti sulla scena culturale modenese del ‘900.

La circostanza che fosse nato da una famiglia originaria di una locali-tà compresa fra Pazzano di Serramazzoni e Monfestino è certamente uno dei motivi del suo legame con il territorio montano (nel 1956, divenne an-che socio effettivo nella Società dello Scoltenna). Del resto, nella sua opera e nelle ambientazioni locali collegate al mondo contadino e popolare della pianura e dell’Appennino, tale legame è permeato dai temi di una uma-nità costituita da uomini e donne umili e dai loro sentimenti primordiali, propri di un mondo che sino agli inizi della seconda metà del ‘900 era ancora quello del passato.

Il nome di Guido Cavani è collegato soprattutto a Zebio Còtal, il ro-manzo di ambientazione contadina o “rustica” (come disse Pier Paolo Pa-solini), pubblicato nel 1961 da Feltrinelli, dopo la prima uscita, tre anni prima, presso il tipografo Ferraguti di Modena.

Nel corso della sua vita Cavani fu autore anche di diversi racconti, di cui la raccolta in questione presenta una selezione, a oltre quarant’anni dalla pubblicazione del volume Racconti in penombra, uscito a Modena, nel 1967, un mese dopo la sua morte. Il nuovo volume di Racconti, che in copertina propone uno splendido particolare tratto da La Mietitura di Pie-ter Bruegel il Vecchio, a confermare le atmosfere narrative a cui Cavani era sensibile, è costituito da nove storie (l’ultima, Il tramonto, viene proposta per la prima volta, come una sorta di breve e intenso apologo dell’esistenza umana), con il corredo di una estremamente misurata e puntuale intro-duzione di Fabio Marri. Proprio l’ultimo racconto e soprattutto quello ini-ziale de Il vitello (dove non cambierebbe un bel nulla se al posto dei nomi di Pieve e di Cadagnolo, ci fossero quelli di Fanano e Fellicarolo), proprio per le atmosfere e i personaggi rappresentati, rimandano perfettamente a quel mondo di un tempo, proprio anche delle terre fananesi.

Poesie Guido CavaniElis Colombini editore in Modena, maggio 2014

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Questo quanto al versante narrativo: purtuttavia Cavani si sentiva in particolare poeta, tanto è vero che, a partire dagli Anni Venti e sino a inizi Sessanta, pubblicò diversi volumi in versi.

Anche nei testi poetici, inizialmente attenenendosi ai canoni metrici tradizionali, poi, nelle opere più mature componendo in versi liberi, i suoi temi prediletti sono la visione della natura e il rapporto con essa e con il mondo antropologico espresso dagli esseri umani, dai loro sentimenti, dalla vita quotidiana, dalla miseria, dalla morte, dalla speranza e dalla volontà di resistere e di esistere.

A poca distanza dall’uscita del libro di cui sopra, è stato pubblicato il corposo volume di Poesie, curato da Patrizia Belloi ed Elis Colombini. Si tratta davvero di una “opera completa” della poesia edita di Guido Cavani, dal momento che il tomo riunisce la bellezza di quasi 800 composizioni. Il volume contiene inoltre la biografia di Cavani con informazioni inedite, la bibliografia delle opere e degli studi sull’autore e un apparato fotografico in parte inedito. In pratica troviamo i testi degli 8 volumi singoli usciti a partire dal 1923 e sino al 1960, Cavani ancora in vita; quelli di 2 volumi postumi (pubblicati, il primo da Rebellato, nel 1968, l’anno successivo alla sua scomparsa; l’altro da F.R.Levi, nel 1976), oltre che “altri componimen-ti in versi” e “poesie in dialetto” (anche in questi due ultimi casi si tratta di materiali editi in varie pubblicazioni, anche al di di fuori delle raccolte ufficiali). Siamo di fronte quindi alla riedizione della elaborazione poetica di Cavani, la quale cosa ovviamente ha comportato un nuovo lavoro di or-ganizzazione dei materiali, oltre che il confronto tra le varie edizioni degli stessi, sui quali l’autore apportò revisioni e modifiche. In realtà, pare che, come conferma Fabio Marri, tra la documentazione poetica manoscritta dello scrittore, presente, insieme ad una serie di immagini fotografiche, nell’archivio tra l’altro da tempo nelle sue mani, ci siano ancora centinaia di poesie (molte sono tracce e abbozzi), in gran parte inedite. In attesa del nuovo. non si può perciò che essere soddisfatti che, con questi due volumi, sia stata riproposta la presenza di una figura come Guido Cavani, davvero importante nel panorama letterario modenese (e nazionale), al pari di quella di Antonio Delfini. Non si può che essere orgogliosi di tutto ciò.

(G.C.)

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POPOLAZIONE RESIDENTE A FANANOa cura di Valerio Tagliani

Al 1° gennaio 2013: n. 3010 di cui n. 1462 maschi e n. 1548 femmine *

Nati: n. 17;n. 12 maschi e n. 5 femmine

Morti: n. 38;n. 17 maschi e n. 21 femmine

Differenza fra nati e morti: n. -21;n. -5 maschi e n. -16 femmine

Immigratin. 101; n. 67 da altri Comuni (n. 35 maschi e n. 32 femmine),

e n. 21 dall’estero (n. 1 maschi e n. 20 femmine) più n. 13 iscritti per altri motivi (n.11 maschi e n.2 fem-

mine)

Emigrati n. 85; n. 76 per altri Comuni (n. 37 maschi e n. 39 femmine),

e n. 7 per estero (n. 3 maschi e n. 4 femmine)più n. 2 cancellati per irreperibilità (n. 1 maschi e n. 1 femmine)

Matrimonin. 10; n. 5 civili e n. 5 religiosi

Popolazione residente al 31.12.2013:n. 3005 di cui 1463 maschi e n. 1542 femmine.

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Immigrati n. 101 Nati n. 17 al 01.01.2013 n. 3010 Emigrati n. 85 Morti n. 38 al 31.12.2013 n. 3005 più n. 16 meno n. 21 meno n. 5

*Le differenze della popolazione iniziale rispetto a quella finale dello scorso anno (n.3037) sono dovute alla conclusione delle operazioni

di confronto dati censimento anagrafe.

Chi fosse interessato a confrontare i dati dell’anno scorsopuò controllare la nostra rivista n. 23.

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Finito di stamparenel mese di Luglio 2014presso Debatte Editore

Livorno

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Che cosa è il sorrisodi Don Giovanni Monari

È un raggio di luce che spunta dal fondo dell’anima umana,e sale a fiorir sulle gote, sugli occhi, sul labbro, sul volto.

Poi lene svanisce e dilegua senza lasciar di sé traccia, come una stella che sorge,che brilla nel cielo e scompare.