I brani antologici che figurano nel presente testo sono ... · Fondazione Calzari Trebeschi. ......

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Renzo Baldo PASOLINI Poeta civile Brescia Fondazione Calzari Trebeschi

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Renzo Baldo

PASOLINIPoeta civile

BresciaFondazione Calzari Trebeschi

Quest'opera di Renzo Baldo è concessa sotto la Licenza Creative CommonsAttribuzione: Non commerciale - Non opere derivate

I brani antologici che figurano nel presente testo sono stati tolti, nell'ordine, da: «Proiezione al ‘Nuovo’ di ‘Roma città aperta’» (p. 189), «Serata romana» (p. 173): p. II; «Una polemica in versi» (p. 119): p. 13; «La terra di lavoro» (p. 129): p. 14; «Una polemica in versi» (p. 124): p.16; «La religione del mio tempo» (p. 238): p. 17; «La religione del mio tempo» (p. 234): p. 19; «La ballata delle madri» (p. 325): p. 21; «Alla mia nazione» (p. 279): p. 22; «A un papa» (p. 261): p. 23; «La religione del mio tempo» (p. 219): p. 24; «La religione del mio tempo» (p. 237): p. 26; «La Resistenza e la sua luce» (p. 196): p. 27; «A un ragazzo» (p. 209): p. 27; «Al sole» (p. 301): p. 28; «Lacrime» (p. 198): p. 29; «Vittoria» (p. 539): p. 3o; «Comizio» (p. 32): p. 32; «Versi sottili come righe di pioggia» (p. 252): p. 34; «Nuova poesia in forma di rosa» (p. 473): p. 36; «Il sogno della ragione» (p. 477): p. 37.

I numeri di pagina posti tra parentesi rinviano al testo dell'edizione Garzanti: Pier Paolo Pasolini, Le poesie, Milano 1975; escluso il brano di p. 34, che è tratto da La nuova gioventù, Einaudi, Torino 1975.

Una scelta antologica da un corpus poetico si configura sempre, se non proprio come un tradimento, certamente come una delimitazione che non può non destare molte perplessità. Prima fra tutte il sospetto di arbitrarietà o quanto meno quello di una parzialità che, per quanto motivata, non può liberarsi da quelle connotazioni di discutibile soggettività che ogni prospettiva parziale comporta. Va però anche detto che ogni corpus poetico, soprattutto se di una certa consistenza - e quello di Pasolini lo è, quantitativamente e qualitativamente -, se percorso da una attiva coscienza critica, difficilmente resiste all'esigenza di scoprire e distinguere ciò che vi è in esso di marginale, di collaterale, per quanto magari per più aspetti degno di attenzione, rispetto a ciò che vi si riveli invece di più illuminante, rispetto a ciò che sulla scena, dove compare il cosiddetto fatto letterario, lo rende storicamente significativo. «Storicamente»: nella doppia e inscindibile accezione di voce di un'epoca e di voce connotata da un suo specifico, inconfondibile linguaggio, che gli conferisce quella valenza che lo rende «eterno», «universale». Mi rendo conto che questi termini rischiano di suonare vaghi, anzi verbosi e retorici; ma intendo qui usarli, per comodità di linguaggio, ad indicare, quasi metaforicamente, una poesia che risuona, pur nella sua concretezza storica e temporale, come voce che non si chiude nel datato, non si pone davanti a noi come un puro documento, ma continua direttamente e vitalmente a coinvolgerci. Queste due osservazioni preliminari ci conducono quindi a chiarire la non casualità del titolo che è stato dato a questa rassegna: Pasolini poeta civile. Titolo dettato dalla convinzione che il nucleo più vero, più autenticamente carico di significato della poesia di Pasolini stia proprio nella straordinaria forza di radicamento nella realtà sociale a lui, e a noi, contemporanea, con quelle caratteristiche che, appunto, per tradizione si usa definire col termine di «poesia civile». Poesia civile è quella che coglie le contraddizioni, le colpe, i vizi, le tensioni, anche il positivo, se c'è e quando e dove c'è, di una società. Ed è noto, del resto, che Pasolini ambiva a qualificarsi come tale, come poeta civile. E per quanto sia vero che non tocca al poeta ma a noi definire il significa to della sua poesia, nei casi - e certamente il caso di Pasolini rientra fra questi - nei quali la lucida coscienza critica toglie in buona misura la preoccupazione che ci sia uno scarto fra le intenzioni e le dichiarazioni da un lato e la concreta realizzazione dall'altro, l'indicazione offertaci dallo scrittore può indubbiamente costituire un segnale del quale non sbarazzarsi con eccessiva facilità.

Pasolini entrava prepotentemente sul terreno della poesia civile negli anni Cinquanta con i due romanzi Ragazzi di vita e Una vita violenta e, ciò che ci riguarda direttamente per il nostro assunto, con le due raccolte Le ceneri di Gramsci e La religione del mio tempo. Compare vistosamente in queste raccolte un tema che potremmo definire «la scoperta delle borgate romane». Pasolini è a Roma. Ha lasciato alle sue spalle il Friuli, il microcosmo che gli ha dettato le sue prime prove poetiche, in dialetto friulano ma anche in italiano, percorse da sottili brividi «decadenti», sulle cui ascendenze culturali e letterarie, pascoliane, simboliste e altro ancora, la critica, a cominciare da Gianfranco Contini, ha rivolto subito una positiva attenzione. Già là, larvata mente, nell'umile realtà di una società contadina sottomessa ed emarginata, serpeggiava qualche germe di ribellione e di attesa di riscatto, si configurava un linguaggio che, in alcune sue pieghe

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riposte, appare orientato a sottrarsi alle tentazioni ermetiche e tardo-dannunziane o alle cosiddette «aure poetiche», le tentazioni allora più diffuse nel clima letterario italiano. Ora, a contatto con la violenza della metropoli, con una emarginazione tragica e paurosa, il linguaggio pasoliniano si rinnova profondamente rispetto alle sue prime esperienze poetiche, irrompe sulla scena letteraria ed esplode la poesia civile. Si delinea quello che in suo celebre verso Pasolini definisce «l'epico paesaggio neorealista», con esplicito riferimento al cinema neorealista, soprattutto ad alcune sue prove, prima fra tutte Roma città aperta di Rossellini. A questo film e al paesaggio che vi compare - paesaggio nel senso il meno naturalistico possibile o, diciamo meglio, di una natura che fa tutt'uno con determinate condizioni di vita - fa riferimento questo testo

ecco... la Casilina,su cui tristemente si apronole porte della città di Rossellini...ecco l'epico paesaggio neorealista,coi fili del telegrafo, i selciati, i pini,i muretti scrostati, la misticafolla perduta nel daffare quotidiano,le tetre forme della dominazione nazista...Quasi emblema, ormai, l'urlo della Magnani,sotto le ciocche disordinatamente assolute,risuona nelle disperate panoramiche,e nelle sue occhiate vive e mutesi addensa il senso della tragedia.È lì che si dissolve e si mutilail presente, e assorda il canto degli aedi.

Ed ecco quel paesaggio dilatarsi, uscire, per così dire, dallo schermo, coinvolgere l'intera città:

Nel quartiere borghese, c'è la pacedi cui ognuno dentro si contenta,anche vilmente, e di cui vorrebbepiena ogni sera della sua esistenza.Ah, essere diverso - in un mondo che pureè in colpa - significa non essere innocente...Va, scendi, lungo le svolte oscuredel viale che porta a Trastevere:ecco, ferma e sconvolta, comedissepolta da un fango di altri evi- a farsi godere da chi può strappareun giorno ancora alla morte e al dolore -hai ai tuoi piedi tutta Roma...Scendo, attraverso Ponte Garibaldi,seguo la spalletta con le nocche,contro l'orlo rosicchiato della pietra,dura nel tepore che la notte,teneramente fiata, sulla volta,dei caldi platani. Lastre d'una smorta,sequenza, sull'altra sponda, empiono,il cielo di lavato, plumbei, piatti,gli attici dei caseggiati giallastri.

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E io guardo, camminando per i lastrici,slabbrati, d'osso, o meglio odoro,prosaico ed ebreo - punteggiato d'astri,invecchiati e di finestre sonoreil grande rione familiare:la buia estate lo indora,umida, tra le sporche zaffate,che il vento piovendo dai laziali,prati spande su rotaie e facciate.

E come odora, nel caldo, così pieno,da esser esso stesso spazio,il muraglione, qui sotto:da ponte Sublicio fino sul Gianicolo,il fetore si mescola all'ebbrezza,della vita che non è vita.Impuri segni che di qui sono passati,vecchi ubriachi di Ponte, antiche,prostitute, frotte di sbandata,ragazzaglia: impure traccie,umane che,umanamente infette,son lì a dire, violente e quiete,questi uomini, i loro bassi dilettiinnocenti, le loro misere mete.

È facile constatare che il linguaggio pasoliniano ha bruciato ogni residuo ermetico, ogni approccio simbolistico. Le cose vi compaiono nella loro asciutta nudità, sono oggetto di una esplorazione analitica, vengono scoperte nella loro incombente corposità. Questo procedimento è stato talvolta definito come una «regressione ottocentesca», anche per l'impiego sistematico di una versificazione che, per quanto liberamente svolta, si richiama all'endecasillabo e alle forme chiuse della tradizionale narrazione in versi, la terzina dantesca, il poemetto quale fu usato dal Pascoli. Penso sia meglio dire che questi strumenti sono in funzione di una lettura oggettiva e realistica. Adopero questi termini, «oggettivo», «realistico», nel senso con cui sono stati usati da Lukàcs: realismo come antitesi alle tentazioni del disfacimento, al ripiegamento intimistico, all'estenuarsi delle cose in atmosfere filtrate nella morbida e avvolgente prevaricazione del soggetto. Ecco un altro esempio di questo procedimento espressivo e stilistico:

Ho fissato col mio occhio inespertodiventato atrocemente esperto - umilefotografo che la notte inerte

batte dietro l'immoto miraggio del costume -gli inutili angoli sperdutidel mondo, con qualche grido, qualche lume,

qualche parola di uomini vendutinei più scuri mercati della vita.Ne ho riportato attestati muti

d'allegria in cuore a una città nemica.

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Grande, di questa città, è la notte,e misera: mille fiati di scheletrita

luce getta il flash su file dirottedi gioventù, torrenti di motori,laghi d'angoli bui tra palpitanti grotte

e inanimati grattacieli. Ma, in cuore,ognuno dei mille atti è lo stesso.Uno, delle mille allegrie, il dolore.

Muti attestati di un popolo oppressoe non conscio, diviso in scantinati,tuguri, lotti - proletariato che il sesso

e il terrore tengono attaccatoalle sue strade di fango: ma, per stradenuove - ancora ignote - a lui segnato

da avidità e cinismo, l'anima invadela fame della storia.

Questa realtà, dove si intrecciano miseria e selvaggia bellezza, abbrutimento e allegria, emarginazione e fierezza, non è un dato di natura, da cogliersi con la distaccata fred -dezza di un obiettivo fotografico. Anche se Pasolini dice in un suo passo di volerne essere il fotografo, in realtà si tratta di una macchina fotografica guidata e animata da un taglio di lettura che porta le cose a parlare della loro densità storica e sociale. Quella realtà è il frutto di vicende storiche che hanno avuto il loro drammatico acme nella diaspora che negli anni Cinquanta vide lo sradicamento delle plebi del Sud verso la metropoli, la nascita mostruosa della periferia delle baracche romane. Ecco una scena di emigrazione sul treno, verso l'oscuro domani della metropoli:

nel trenoche corre mezzo vuoto, il gelo

autunnale vela il triste legno,gli stracci bagnati: se fuoriè il paradiso, qui dentro è il regno

dei morti, passati da dolorea dolore - senza averne sospetto.Nelle panche, nei corridoi,

eccoli con il mento sul petto,con le spalle contro lo schienale,con la bocca sopra un pezzetto

di pane unto, masticando male,miseri e scuri come canisu un boccone rubato: e gli sale

se ne guardi gli occhi, le mani,

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sugli zigomi un pietoso rossore,in cui nemica gli si scopre l’anima.

Ma anche chi non mangia o le sue storienon dice al vicino attento,se lo guardi, ti guarda con il cuore

negli occhi, quasi, con spavento,a dirti che non ha fatto nulladi male, che è un innocente.

Una donnetta, di Fondi o Aversa, cullauna creatura che dorme nel fondod’una vita d’agnellino, e la trastulla

- se si risveglia dal suo sonnodicendo parole come il mondo nuove -con parole stanche come il mondo.

Questa, se la osservi, non si muove,come una bestia che finge d’esser morta;si stringe dentro le sue povere

vesti e, con gli occhi nel vuoto, ascoltala voce che a ogni istante le ricordala sua povertà come una colpa.

Si badi bene. Questi testi potrebbero dare l'impressione (e forse la lettura per frammenti a cui dobbiamo attenerci potrebbe avvalorarla) di un gusto veristico, vicino, per esempio, a certa letteratura ottocentesca di ispirazione sociale. Qualcuno ha fatto perfino il nome di De Amicis. Ma è un grosso abbaglio. Il realismo di Pasolini non conosce i rigagnoli della facile commozione e non conosce la comoda chiusura nel descrittivismo. Il suo è un realismo epico, che nasce dalla scoperta di un mondo nel quale abiezione e speranza, disperato cinismo e ventate di passione si fondono a farne un «diverso» segnato da una consistenza che al tempo stesso affascina e inquieta, suona come un rimprovero e oggettivamente rivela connotazioni di una radicale autenticità, dovuta alla sua capacità di sottrarsi alla logica irriducibile del suo antagonista, la società perbene, la società dei finti buoni sentimenti e della reale degradazione nella viltà e nell'asservimento. Diciamo pure, a questo punto, che la poesia di Pasolini è percorsa in continuazione, senza mai alcun cedimento, da un filo ideologico che le ha consentito di sollevarsi a significati non caduchi. Esso si costituisce dell’intreccio, costante e mai smentito, di istanze profonde di riscatto, di ricerca della verità, di illuminazione della realtà, di rifiuto di acquietarsi in elegiache pacificazioni. Da qui la «scandalosa» virulenza della sua poesia, che non è, come pur è stato detto da autorevoli critici, il frutto di una irrefrenabile esibizione dell'io, una sorta di nuovo dannunzianesimo, ma un continuo lacerante scontro e incontro dell'io con la realtà e con la storia. Non mi ricordo più chi ha detto che ci sono delle poesie che fanno «clic» e delle poesie che fanno «choc». Quelle di Pasolini appartengono con evidenza alla seconda categoria. Proviamo a leggere questi due brani. Per la comprensione del primo teniamo presente che la scena è a una festa dell'Unità nella periferia romana.

Come un tremito o una cieca risacca

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passa sulla folla disordinata tra i clivi, i prati senza erba, le baracche,

una musica intonata dalle bande sparse qua e là, luccicando l'ottone tra magliette e coccarde rosse,

nell'ingorgo del fiume senza nome. Ed ecco, incerto, un vecchio si leva dalla testa bianca il berretto,

afferra nella nuova ventata di passione una bandiera retta sulle spalle da uno che gli è davanti, al petto

se la stringe, e poi mentre cantano tutti, affratellati intorno alle gialle trombe paesane, si pianta

sulle vacillanti gambe, e scuote al tempo la bandiera a lui santa sopra le teste cantando con voce

rauca, di povero manovale ubriaco. Poi il canto, che s'era levato gioioso, disperato, cessa, e il vecchio

lascia cadere la bandiera, e lento, con le lacrime agli occhi, si ricalca in capo il suo berretto.

Per il brano che ora segue, si badi bene al trapasso finale, quando la rappresentazione della città tetra, sgretolata e subumana sfocia, per contrapposizione, nelle immagini della volgare fiumana dei pii possessori di lotti, alunni di un Gesù corrotto. Sono così in piena evidenza le componenti di fondo dell'ideologia pasoliniana, veramente decisive per comprenderne la poesia, chiamiamole pure col loro nome, marxismo e cristianesimo.

Tutto mi dà dolore: questa gente che segue supina ogni richiamo da cui i suoi padroni la vogliono chiamata, adottando, sbadata, le più infami

abitudini di vittima predestinata; il grigio dei suoi vestiti per le grigie strade; i suoi grigi gesti in cui sembra stampata

l'omertà del male che l'invade; il suo brulicare intorno a un benessere illusorio, come un gregge intorno a poche biade; la sua regolarità di marea, per cui resse

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e deserti si alternano per le vie, ordinati da flussi e da riflussi ossessi e anonimi di necessità stantie; i suoi sciami ai tetri bar, ai tetri cinema, il cuore tetramente arreso al quia...

E intorno a questo interno dominio della volgarità, la città che si sgretola ammucchiandosi, brasiliana o levantina,

come l'espressione di una lebbra che si bea ebbra di morte sugli strati dell'epoche umane, cristiane o greche,

e allinea tempeste di caseggiati, gore di lotti color bile o vomito, senza senso, né di affanno né di pace;

sradica i riposanti muri, i gomiti poetici dei vicoli sui giardini interni, i superstiti casolari dalla tinta di pomice o topo, tra cui fichi, radicchi, svernano beati, i selciati striati di una grama erbetta, i rioni che parevano eterni

nei loro lineamenti quasi umani di grigio mattone o smunto cotto: tutto distrugge la volgare fiumana

dei pii possessori di lotti: questi cuori di cani, questi occhi profanatori, questi turpi alunni di un Gesù corrotto

nei salotti vaticani, negli oratori, nelle anticamere dei ministri, nei pulpiti: forti di un popolo di servitori.

Si sarà notato, dai brani che sinora sono stati letti, che non solo Pasolini non si limita dunque a «descrivere» quel mondo di degradazione e di miseria che ha scoperto, ma, contrariamente a quello che alcuni suoi frettolosi lettori hanno creduto, è ben lontano dall'idoleggiarlo, dal presentarlo come un esemplare modo di vita.

Quel mondo, semplicemente, è lì, nella sua oggettiva e perciò epica grandezza, nella quale contemporaneamente si legge la sua disperata emarginazione e la sua qualità di «diverso» rispetto al mondo profanato e invilito dalla potenza degradante del denaro, della ricchezza. Nella poesia di Pasolini costantemente si proietta l'ombra del Potere, che da un lato emargina (chi non lo accetta, o chi non è avvolto dalle sue spire, diventa «altro», «diverso») dall'altro asservisce e rende vili. Per dirla in termini sociologici: le plebi sono «altro», la borghesia è «vile». E va ben tenuto presente che nel discorso di Pasolini è sempre implicita la consapevolezza della differenza tra borghesia come classe che detiene il capitale nella sua oscura e tragica potenza e la borghesia come massa su

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cui il capitale, il potere, proietta la sua forza condizionante, la sua terribile capacità di asservire, di piegare, di determinare costumi di vita e forme mentali assimilate in modo inconscio e servile: quella è oggettivamente la potenza del male, la fonte della alienazione e del degrado, quest'altra è una massa che nella sua piramidale articolazione in ceti, giù giù fino alla piccola borghesia, non riesce, non può porsi come popolo, come portatrice di una luce di riscatto e di trasformazione, non può ribaltare il negativo.

La viltà, la pigrizia morale della borghesia diventano dunque nella poesia di Pasolini un altro polo fondamentale intorno al quale si costruisce la sua poesia civile e si intreccia la durezza della sua polemica. Pasolini è duro, crudele, quando si trova di fronte alla potenza corrompitrice del Potere. E va subito detto che il Potere per Pasolini non è un'a-stratta e mitica potenza metafisica, ma ha un volto ben definito: è il Capitale, la sua gestione neocapitalistica, con i suoi degradanti ammorbamenti e la sua desolante forza di appiattimento e di degradazione. Di fronte a questa forza storica Pasolini ha spesso un atteggiamento di sgomento, venato da un non taciuto pessimismo:

Genio arreso, con le sue quattro ossa sotto eleganti vesti, ognuno porta intorno una faccia intenta, dove gli altri possano

sospettare qualcosa; nei caffè, di giorno, nei salotti, la sera: ma ognuno cerca nella faccia dell'altro invano un ritorno

delle speranze antiche: e se vi accerta una speranza, è una speranza inconfessabile, nel cerchio della domanda e dell'offerta,

il cui sguardo è come per uno spasimo di interna ferita: che rende esanimi, accidiosi, scontenti, spinge a uno sciopero

dei sentimenti, a una colpevole stasi della coscienza, ad una pace insana, che vuole i nostri giorni grigi e tragici.

Così, se guardo in fondo alle anime delle schiere di individui vivi nel mio tempo, a me vicini o non lontani,

vedo che dei mille sacrilegi possibili che ogni religione naturale può enumerare, quello che rimane

sempre, in tutti, è la viltà. Un sentimento eterno - una forma del sentimento - fossile, immutabile,

che lascia in ogni altro sentimento diretta o indiretta, la sua orma. È quella viltà che fa l'uomo irreligioso.

È come un profondo impedimento

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che, all'uomo, toglie forza al cuore, calore al ragionamento,

che lo fa ragionare di bontà come di un puro comportamento, di pietà come di una pura norma.

Può renderlo feroce, qualche volta, ma sempre lo rende prudente: minaccia, giudica, ironizza, ascolta,

ma è sempre, interiormente, impaurito. Non c'è nessuno che sfugga a questa paura. Nessuno perciò è davvero amico o nemico.

Nessuno sa sentire vera passione: ogni sua luce subito s'oscura come per rassegnazione o pentimento

in quell'antica viltà, in quell'ormone misterioso che si è formato nei secoli. Lo riconosco, sempre, in ogni uomo.

Lo so bene che altro non è che insicurezza vitale, antica angoscia economica: che era regola della nostra vita animale

ed è stata assimilata ora in queste povere nostre comunità: che è difesa, disperata, che si annida là dove

c'è un minimo di pace: nel possesso. E ogni possesso è uguale: dall'industria al campicello, dalla nave al carretto.

Perciò è uguale in tutti la viltà: com'è alle grige origini o agli ultimi grigi giorni di ogni civiltà...

Alle volte il grido di protesta erompe impetuoso e polemico, con accenti di ribellione che ben si comprende abbiano fatto gridare allo scandalo. Ma è - sia consentito dirlo - lo scandalo evangelico, che ci scuote richiamando alla coscienza realtà cui siamo così abituati da non più avvertirle, da non più volerle conoscere:

Ballata delle madri

Mi domando che madri avete avuto.[…]Madri vili, con nel viso il timoreantico, quello che come un maledeforma i lineamenti in un biancoreche li annebbia, li allontana dal cuore,

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li chiude nel vecchio rifiuto morale.Madri vili, poverine, preoccupateche i figli conoscano la viltàper chiedere un posto, per essere pratici,per non offendere anime privilegiate,per difendersi da ogni pietà.

Madri mediocri, che hanno imparatocon umiltà di bambine, di noi,un unico, nudo significato,con anime in cui il mondo è dannatoa non dare nè dolore nè gioia.Madri mediocri, che non hanno avutoper voi mai una parola d'amore,se non d'un amore sordidamente mutodi bestia, e in esso v'hanno cresciuto,impotenti ai reali richiami del cuore.

Madri servili, abituate da secolia chinare senza amore la testa,a trasmettere al loro fetol'antico, vergognoso segretod'accontentarsi dei resti della festa.Madri servili, che vi hanno insegnatocome il servo può essere feliceodiando chi è, come lui, legato,come può essere, tradendo, beato,e sicuro, facendo ciò che non dice.

Madri feroci, intente a difenderequel poco che, borghesi, possiedono,la normalità e lo stipendio,quasi con rabbia di chi si vendichio sia stretto da un assurdo assedio.Madri feroci, che vi hanno detto:Sopravvivete! Pensate a voi!Non provate mai pietà o rispettoper nessuno, covate nel pettola vostra integrità di avvoltoi!

Ecco, vili, mediocri, servi,feroci, le vostre povere madri!Che non hanno vergogna a sapervi- nel vostro odio - addirittura superbi,se non è questa che una valle di lacrime. È così che vi appartiene questo mondo:fatti fratelli nelle opposte passioni,o le patrie nemiche, dal rifiuto profondoa essere diversi: a risponderedel selvaggio dolore di esser uomini.

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Altrettanto crudo, impietoso, nutrito di uno sdegno esemplare pur nella sua paradossalità questo scatto epigrammatico:

Alla mia nazione

Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo anticoma nazione vivente, ma nazione europea:

e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti,governanti impiegati di agrari, prefetti codini,

avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi,funzionari liberali carogne come gli zii bigotti,

una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino!Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci

pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti,tra case coloniali scrostate ormai come chiese.

Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti,proprio perché fosti cosciente, sei incosciente.

E solo perché sei cattolica, non puoi pensareche il tuo male è tutto male: colpa di ogni male.

Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.

Questa realtà che impietosamente e angosciosamente viene denunciata è dunque, per Pasolini, «borghese». Borghesia nel senso più lato del termine, come classe sociale, abbiamo detto, variamente articolata, ma tutta impregnata di una forma mentis, di un costume di vita fatto di cupidigia e di compromessi, che affonda le sue radici nella logica spietata del profitto, nella logica della società del benessere, nelle forme sottili insidiose e pervicaci che essa diffusamente assume, così diffusamente che, come abbiamo sentito, Pasolini può dire che, nella generale omologazione, «è uguale in tutti la viltà». Realtà borghese, dunque. Ma anche cattolica. Cattolica non in senso teologico, nel senso di una professione di fede che illumini le coscienze, ma come raggrumarsi di comportamenti sotto l'ala protettrice dell'istituzione che, consapevole o non, viene a far corpo col Potere e si fa portatrice di determinate scelte etico-sociali. E un papa può ben esserne stata l'immagine.

A un Papa

Ci sono posti infami, dove madri e bambinivivono in una polvere antica, in un fango d'altre epoche.Proprio non lontano da dove tu sei vissuto,in vista della bella cupola di San Pietro,c'è uno di questi posti, il Gelsomino...Un monte tagliato a metà da una cava, e sotto,tra una marana e una fila di nuovi palazzi,un mucchio di misere costruzioni, non case ma porcili.Bastava soltanto un tuo gesto, una tua parola,perché quei tuoi figli avessero una casa:tu non hai fatto un gesto, non hai detto una parola.Non ti si chiedeva di perdonare Marx! Un'ondaimmensa che si rifrange da millenni di vitati separava da lui, dalla sua religione:ma nella tua religione non si parla di pietà?Migliaia di uomini sotto il tuo pontificato,davanti ai tuoi occhi, son vissuti in stabbi e porcili.

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Lo sapevi, peccare non significa fare il male:non fare il bene, questo significa peccare.Quanto bene tu potevi fare! E non l'hai fatto:non c'è stato un peccatore più grande di te.

Pasolini ha avuto un'educazione cattolica. Un cattolicesimo, per usare le sue parole, intriso di «mistero contadino». Quel cattolicesimo che sembra - o è sembrato - con-sustanziarsi nelle diffuse aspirazioni di riscatto delle plebi delle campagne italiane. Una disponibilità religiosa che non è mai venuta meno all'orizzonte culturale e ideologico dello scrittore. Quando Pasolini ritenne di avere trovato in Marx gli strumenti atti a spiegare la società del nostro tempo, il suo marxismo ha assunto sempre esplicitamente un volto che escludeva banali laicismi e astratti intellettualismi di ascendenza illuministica. La storia di quella adolescente ardente passione e il suo svolgimento critico compaiono in una pagina particolarmente intensa:

Eppure, Chiesa, ero venuto a te.Pascal e i Canti del Popolo Grecotenevo stretti in mano, ardente, come se

il mistero contadino, quietoe sordo nell'estate del quarantatre,tra il borgo, le viti e il greto

del Tagliamento, fosse al centrodella terra e del cielo;e lì, gola cuore e ventre

squarciati sul lontano sentierodelle Fonde, consumavo le oredel più bel tempo umano, l'intero

mio giorno di gioventù, in amorila cui dolcezza ancora mi fa piangere...Tra i libri sparsi, pochi fiori

azzurrini, e l'erba, l'erba candidatra le saggine, io davo a Cristotutta la mia ingenuità e il mio sangue.

Cantavano gli uccelli nel pulviscoloin una trama complicata, incerta,assordante, prede dell'esistere,

povere passioni perse tra i verticiumili dei gelseti e dei sambuchi:e io, come loro, nei luoghi deserti

destinati ai candidi, ai perduti,aspettavo che scendesse la sera,che si sentissero intorno i muti

odori del fuoco, della lieta miseria,

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che l'Angelus suonasse, velatodel nuovo, contadino mistero

nell'antico mistero consumato.

Fu una breve passione. Erano serviquei padri e quei figli che le seredi Casarsa vivevano, così acerbi,

per me, di religione: le severeloro allegrezze erano il grigioredi chi, pur poco, ma possiede;

la chiesa del mio adolescente amoreera morta nei secoli, e viventesolo nel vecchio, doloroso odore

dei campi. Spazzò la Resistenzacon nuovi sogni il sogno delle RegioniFederate in Cristo, e il dolce ardente

suo usignolo... Nessuna delle passionivere dell'uomo si rivelònelle parole e nelle azioni

della Chiesa. Anzi, guai a chi non puònon essere ad essa nuovo! Non daread essa ingenuo tutto ciò

che in lui ondeggia come un maredi troppo trepidante amore.Guai a chi con gioia vitale

vuole servire una legge ch'è dolore!Guai a chi con vitale doloresi dona a una causa che nulla vuole

se non difendere la poca fede ancorarimasta a dar rassegnazione al mondo!Guai a chi crede che all'impeto del cuore

Debba l'impeto della ragione rispondere!Guai a chi non sa che è borghesequesta fede cristiana, nel segno

di ogni privilegio, di ogni resa,di ogni servitù; che il peccatoaltro non è che reato di lesa

certezza quotidiana, odiatoper paura e aridità; che la Chiesaè lo spietato cuore dello Stato.

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E così, quando e se la chiesa si configura come «cuore dello Stato», la categoria del «religioso» si rovescia in quella dell'empietà:

Così la mia nazione è ritornata al puntodi partenza, nel ricorso dell'empietà.E, chi non crede in nulla, ne ha coscienza,

e la governa. Non ha certo rimorso,chi non crede in nulla, ed è cattolico,a saper d'essere spietatamente in torto.Usando nei ricatti e i disonoriquotidiani sicari provinciali,volgari fin nel più profondo del cuore,

vuole uccidere ogni forma di religione,nell'irreligioso pretesto di difenderla:vuole, in nome d'un Dio morto, essere padrone.

Eppure questa nazione dove Chiesa e Stato cooperano e si intrecciano in difesa del privilegio ottenendo la resa e l'asservimento, dove trionfa l'appiattimento della omologazione nella viltà, ha conosciuto un momento di luce: la Resistenza. Alla Resistenza, a quella vicenda di sacrificio e di speranza, Pasolini ha fatto più volte riferimento. Non esito a dire che nella letteratura ispirata alla Resistenza i versi di Pasolini spiccano non solo per la potenza evocativa, ma per la sicura individuazione del significato storico-civile più profondo di essa. Sappiamo quale uso distorto, retorico, fittizio è stato spesso fatto della Resistenza nella verbosità di tanta Italia ufficiale, un uso che spiega il fastidio e il rifiuto che spesso si avverte soprattutto presso i giovani, quasi come di chi si trovi di fronte ad una memoria priva ormai di attualità e di significato. Confido riesca non difficile verificare come quella vicenda, rivissuta anche nel filtro della tragedia domestica (il fratello di Pasolini, partigiano nella brigata Osoppo, trovò la morte in un drammatico scontro sulle montagne della Carnia), nei brani che ora seguono assuma connotazioni che ne sottolineano con straordinaria forza espressiva il significato storico e la non spenta attualità:

Così giunsi ai giorni della Resistenzasenza saperne nulla se non lo stile:fu stile tutta luce, memorabile coscienzadi sole. Non poté mai sfiorire,neanche per un istante, neanche quandol’Europa tremò nella più morta vigilia.Fuggimmo con le masserizie su un carroda Casarsa a un villaggio perdutotra rogge e viti: ed era pura luce.Mio fratello partì, in un mattino mutodi marzo, su un treno, clandestino,la pistola in un libro: ed era pura luce.Nella soffitta del casolare mia madreguardava sempre perdutamente quei monti,già conscia del destino: ed era pura luce.

Coi pochi contadini intorno

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vivevo una gloriosa vita di perseguitatodagli atroci editti: ed era pura luce.Venne il giorno della mortee della libertà, il mondo martoriatosi riconobbe di nuovo nella luce…

Quella luce era speranza di giustizia:non sapevo quale: la Giustizia.La luce è sempre uguale ad altra luce.Poi variò: da luce divenne incerta alba,un’alba che cresceva, si allargavasopra i campi friulani, sulle rogge.Illuminava i braccianti che lottavano…Così l’alba nascente fu una lucefuori dell’eternità dello stile…Nella storia la giustizia fu coscienzad’una umana divisione di ricchezza,e la speranza ebbe nuova luce.[…]Era ormai quasi estate, e i più bei coloriardevano nel mite, friulano sole.

Il grano già alto era una bandiera stesa sulla terra, e il vento la muoveva

fra le tenere luci, riapparse a ricolmare di festa antica l’aria tra i monti e il mare.

Tutti erano pieni di disperata gioia:sulla tiepida polvere delle vie ballatoi

e balconi tremavano di fazzoletti rossi e stracci tricolori; pei sentieri, pei fossi

bande di ragazzi andavano felicida un paese all’altro, nel nuovo mondo usciti.

Mio fratello non c’era, e io non potevo urlare di dolore, era troppo breve

la strada verso il granaio perso nei campi, dove per un anno l’ingenua, eternamente giovane,

povera nostra mamma aveva atteso, e ora era lì che attendeva, sotto il tiepido sole...

[...]

Ho saputo, eccome ho saputo!,ventenne, capire quale era il sentimentopiù forte in quel luminoso caosdi ogni sentimento:

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la libertà. Era rimasto muto,per anni, e ora era un doloroso canto, improvviso, assoluto. E quantoè mutato il senso della nostra esistenza! Ricordo, di quei tempi, solo la tua luce,alta, sopra le perduteradure del Friuli, sopra una gente senza speranza: risplendevi puro,sempre, eri l'acerba luce della Resistenza.In un tempo che mai al mondo fu più scuroeri l'acerba luce del futuro.

La Resistenza come pura luce. Ma anche come luce che non ha investito, come era nelle attese, il futuro. Il poeta ha assistito alla proiezione di Roma città aperta. Quel paesaggio di assolata e tragica periferia si ripresenta ora a distanza di non molti anni nel doloroso stupore di una oscurità che ha trasformato «la luce in cui vivemmo» in «sogno ingiustificato, inoggettivo, fonte di lacrime»:

Ecco quei tempi ricreati dalla forzabrutale delle immagini assolate:quella luce di tragedia vitale.Le pareti del processo, il pratodella fucilazione: e il fantasmalontano, in cerchio, della periferiadi Roma biancheggiante in una nuda luce.Gli spari; la nostra morte, la nostrasopravvivenza: sopravvissuti vannoi ragazzi nel cerchio dei palazzi lontaninell'acre colore del mattino. E io,nella platea di oggi, ho come un serpenei visceri, che si torce: e mille lacrimespuntano in ogni punto del mio corpo,dagli occhi ai polpastrelli delle dita,dalla radice dei capelli al petto:un pianto smisurato, perché sgorgaprima d'essere capito, precedentequasi al dolore. Non so perché trafittoda tante lacrime sogguardoquel gruppo di ragazzi allontanarsinell'acre luce di una Roma ignota,la Roma appena affiorata dalla morte,superstite con tutta la stupendagioia di biancheggiare nella luce:piena del suo immediato destinod'un dopoguerra epico, degli annibrevi e degni d'un'intera esistenza.Li vedo allontanarsi: ed è ben chiaroche, adolescenti, prendono la stradadella speranza, in mezzo alla macerieassorbite da un biancore ch'è vitaquasi sessuale, sacra nelle sue miserie.E il loro allontanarsi nella luce

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mi fa ora raggricciare di pianto:perché? Perché non c'era lucenel loro futuro. Perché c'era questostanco ricadere, questa oscurità.Sono adulti, ora: hanno vissutoquel loro sgomentante dopoguerradi corruzione assorbita dalla luce,e sono intorno a me, poveri uominia cui ogni martirio è stato inutile,servi del tempo, in questi giorniin cui si desta il doloroso stuporedi sapere che tutta quella luce,per cui vivemmo, fu soltanto un sognoinigustificato, inoggettivo, fonteora di solitarie, vergognose lacrime.

Questo tema ritorna in un vasto quadro lirico-epico con un andamento di narrazione visionaria, che costituisce, ritengo, una delle più alte pagine della poesia di Pasolini:

sogno nel fangoarmi nascoste, nel fango elegiacotra piccoli che giocano, vecchi padri che vangano,

mentre dalle lapidi cade la malinconia,le liste dei nomi si incrinano,i coperchi delle tombe saltano via,

e i giovani cadaveri con la spolverinache usava in quegli anni, i calzonilarghi, e sulla chioma partigiana la bustina

militare, scendono lungo i muraglionidove stanno i mercati, già dai viottoliche uniscono i primi orti ai costoni

delle colline: scendono dai cimiteri. Giovanotticon negli occhi qualcos'altro che amore:una follia segreta, di uomini che lottano

come chiamati da un destino diverso dal loro. Con quel segreto che non è più segreto, scendono giù, muti, nel primo sole,

e, pur così vicino alla morte, il loro è il passo lieto di chi ha tanto cammino da fare nel mondo. Ma essi sono abitanti del monte, del greto

selvaggio del fiume padano, del fondo della fredda pianura. Cosa fanno fra noi?Tornano, e nessuno li ferma. Non nascondono

le armi - che stringono senza dolore né gioia -

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e nessuno li guarda, come accecato dal pudoreper quell'osceno brillare di mitra, quel passo d'avvoltoi,

che scendono al loro oscuro dovere, nella luce del sole.

[...]

Vorrei vedere chi ha il coraggio di dirgli che l'ideale che arde segreto nei loro occhi è finito, appartiene ad altro tempo, che i figli

dei loro fratelli da anni ormai non lottano più, e la storia crudelmente nuova,ha dato altri ideali, li ha quietamente corrotti...

Toccheranno, rozzi come barbari poveri, le nuove cose che in questi due decenni l'uomo crudele si è dato, cose inette a commuovere

chi cerca giustizia...

[...]

Che cosa dirgli? Che la realtà ha una nuova tensione

che è quella che è, e ormai non ha più senso altro che accettarla...CHE LA RIVOLUZIONE DIVENTA ARIDITÀ

S'È SENZA MAI VITTORIA... che forse non è tardiper chi vuol vincere, ma non con la violenzadelle vecchie, disperate armi...

Che bisogna sacrificare la coerenzaall'incoerenza della vita, tentare un dialogo creatore, anche contro la nostra coscienza.

Che la realtà, anche di questo piccolo, avaro Stato, è più di noi, è sempre un'immensa cosa: e bisogna rientrarne, se pure è così amaro...

Ma che ragione volete che ascolti questa ansiosa masnada di uomini, che hanno lasciato - come dicono i canti - la casa, la sposa,

la vita stessa, proprio nel nome della Ragione?

[...]

Quelli di voi che hanno cuore puro e innocente vadano a parlare in mezzo ai tuguri, ai caseggiati della povera gente,

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che dietro i suoi vicoli e i suoi murinasconde la peste vergognosa, la passività di chi si sa tagliato fuori dai giorni futuri.

Quelli di voi che possiedono un cuore votato alla maledetta lucidità, vadano nei laboratori, nelle scuole,

a ricordare che nulla in questi anni hamutato la qualità del conoscere, eterno pretesto, forma utile e dolce del Potere, NON MAI VERITÀ.

Quelli di voi che obbediscono a un onesto vecchio imperativo di religione vadano tra i figli che crescono

col cuore vuoto di ogni reale passione,a ricordare che il loro nuovo maleè SEMPRE ANCORA la divisione del mondo

[...]

Se ne vanno... Aiuto, ci voltano le schiene, le loro schiene sotto le eroiche giacche di mendicanti, di disertori... Sono così serene

le montagne verso cui ritornano, batte così leggero il mitra sul loro fianco, al passo ch'è quello di quando cala il sole, sulle intatte

forme della vita - tornata uguale nel basso e nel profondo! Aiuto, se ne vanno! Tornano ai loro silenti giorni di Marzabotto o di Via Tasso...

Con la testa spaccata, la nostra testa, tesoroumile della famiglia, grossa testa di secondogenito, mio fratello riprende il sanguinoso sonno, solo

tra le foglie secche, i caldi fienidi un bosco delle prealpi - nel dolore e la pace d'una interminabile Domenica...

Eppure, questo è un giorno di vittoria!

Di contro, il rigurgito del fascismo, ancora ben presente nel contesto della società italiana, ancora squallidamente sotto gli occhi del poeta. Il quadro è quello del fascismo che compare sulle piazze. Pasolini lo guarda con tristezza amara, non disgiunta da una sorta di pietas:

Una smorta folla empie l'aria

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d'irreali rumori. Un palco stasu essa, coperto di bandiere, del cui bianco il bruno lume fa

un sudario, il verde acceca, annerail rosso come di vecchio sangue. Arista o tetro vegetale guizza cereanel mezzo la fiammella fascista.

[...]

Ecco chi sono gli esemplari vivi, vivi, di una parte di noi che, morta, ci aveva illuso d'esser nuovi - privi

d'essa per sempre. E invece, scorta d'improvviso, in questa lieve piazza orientale, ecco la sua falange, folta,

urlante - coi segni della razza che nel popolo è oscura allegriae in essa triste oscurità - che impazza

cantando la salute. E l'energia sua non è che debolezza, offesa sessuale, che non ha altra via

per essere passione, nella mente accesa, che azioni troppo lecite od illecite: e qui urla soltanto la borghese

impotenza a trascendere la specie, la confusione della fede che l'esalta, e disperatamente cresce

nell'uomo che non sa che luce ha in sè.

Pasolini non infierisce sul manovale del fascismo, sul fascismo che si fa massa fanatica e irresponsabile, soprattutto guarda ai giovani e ai sottoproletari, che ne sono attratti, avvertendone la condizione di vittime, e avvertendo anche il richiamo vitale ed oscuro che li porta a quelle scelte. Il vero fascismo sta altrove, sta nel Palazzo, come egli dice con una metafora diventata celebre, sta nella sopraffazione che si organizza intorno ai grandi centri del potere. Come dice in un suo epigramma: «Tutto ciò che essi difendono è il puro male / sono così ciechi ed avidi che non sanno speranza». Questo diventa il tema dominante che troverà corpo, più ancora che nei suoi versi, nelle sue prose corsare. L'antagonista di Pasolini è dunque quel fascismo profondo ed occulto che prende altri nomi, magari quello di sviluppo e di progresso, ma destituiti di ogni umana autenticità, ridotti a meccanica offerta di beni di consumo, al trionfo dell'avere sull'essere. Per questa strada, della omologazione nell'appiattimento della società consumista del neocapitalismo, rischia di mettersi anche chi crede di essere «a sinistra» e non vuole avvertire di essere irretito o rischiosamente in procinto di esserlo, nelle spire della peggiore delle violenze, quella che

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riduce l'uomo a ingrediente servile, spenta ogni innocenza, sradicata la vitale forza dei sentimenti, della «natura», distrutta la coscienza di classe.

Bisogna condannare severamente chi creda nei buoni sentimenti e nell'innocenza.

Bisogna condannarealtrettanto severamente chi ami il sottoproletariato privo di coscienza di classe.

Bisogna condannarecon la massima severitàchi ascolti in sé e esprimai sentimenti oscuri e scandalosi.

Queste parole di condanna hanno cominciato a risuonare nel cuore degli Anni Cinquanta e hanno continuato fino ad oggi.

Frattanto l'innocenza,che effettivamente c'era,ha cominciato a perdersiin corruzioni, abiure e nevrosi.

Frattanto il sottoproletariato,che effettivamente esisteva,ha finito col diventareuna riserva della piccola borghesia.

Frattanto i sentimentich'erano per loro natura oscurisono stati investitinel rimpianto delle occasioni perdute.

Naturalmente, chi condannava non si è accorto di tutto ciò: egli continua a ridere dell'innocenza, a disinteressarsi del sottoproletariato

e a dichiarare i sentimenti reazionari.Continua a andare da casa all'ufficio, dall'ufficio a casa, oppure a insegnare letteratura:

è felice del progressismo che gli fa sembrare sacrosanto il dover insegnare ai domestici l'alfabeto delle scuole borghesi.

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È felice del laicismo per cui è più che naturale che i poveri abbiano casa macchina e tutto il resto.

È felice della razionalitàche gli fa praticare un antifascismogratificante ed eletto,e soprattutto molto popolare.

Che tutto questo sia banale non gli passa neanche per la testa: infatti, che sia così o che non sia così, a lui non viene in tasca niente.

Parla, qui, un misero e impotente Socrate che sa pensare e non filosofare, il quale ha tuttavia l'orgoglio non solo d'essere intenditore

(il più esposto e negletto)dei cambiamenti storici, ma anche di esserne direttamentee disperatamente interessato.

«Disperatamente interessato»: la clausola finale costituisce una delle tante impetuose enunciazioni che contraddistinguono con drammatica continuità la pasoliniana par-tecipazione alla realtà; alla storia, nel suo farsi, nel suo religioso proiettarsi nel mistero del futuro:

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Chèio, del Nuovo

Corso della Storia- di cui non so nulla - comeun non addetto ai lavori, un

ritardatario lasciato fuori per sempre -una sola cosa comprendo: che sta per morire

l'idea dell'uomo che compare nei grandi mattinidell'Italia, o dell'India, assorto a un suo piccolo lavoro,

con un piccolo bue, o un cavallo innamorato di lui, a un piccolorecinto, in un piccolo campo, perso nell'infinità di un greto o una valle,

a seminare, o arare, o cogliere nel brolo vicino alla casao alla capanna, i piccoli pomi rossi della stagione

tra il verde delle foglie fatto ormai ruggine,in pace... L'idea dell'uomo... che in Friuli...o ai Tropici... vecchio o ragazzo, obbedisce

a chi gli dice di rifare gli stessi gestinell'infinita prigione di grano o d'ulivi,

sotto il sole impuro, o divinamente vergine,a ripetere a uno a uno gli atti del padre,

anzi, a ricreare il padre in terra,in silenzio, o con un riso di timido

scetticismo o rinuncia a chi lo tenti,perché nel suo cuore non c'è posto

per altro sentimentoche la Religione.

La parola Religione è in piena evidenza, anche tipografica. Sempre più convinto della forza distruttrice del Potere, quale si configura nella società neocapitalistica, Pasolini giunge alla soglia della disperazione. «La borghesia è il diavolo: vendergli l'anima senza contropartita?» egli si domanda, in una poesia che sembra esprimere la sensazione angosciata di essere con le spalle al muro, di non aver più terreno dove alzare le difese. Ma la contropartita c'è, e sta nel non portare mai la disperazione al silenzio, nel non cessare mai la protesta, di non abiurare dal rifiuto. La religione di Pasolini è, totalmente e inequivocabilmente, alzarsi della coscienza contro ogni stasi, contro ogni riposante quiete, da qualunque parte venga, fosse anche la più invitante e la più accettabile ortodossia.

Specialmente nell'ultima raccolta, Trasumanar e organizar, la poesia di Pasolini si fa cronaca di una risentita moralità, in una situazione psicologica che non abbiamo nulla in contrario a definire, come altri ha detto, schizoide, se intendiamo questo termine come una approssimazione metaforica per indicare una drammatica lacerazione: non si possono negare le istituzioni, ma vanno contestate; l'omologazione trionfa, ma bisogna trovare lo spazio per il diverso; allo sconforto, alla pena, all'angoscia impotente va sempre contrapposta una disperata volontà di sperare. Il discorso di Pasolini si fa talvolta labirintico, non sempre di facile decifrabilità, avvolto com'è nei meandri di queste drammatiche contrapposizioni. Sul fondo, sempre, l'irriducibile ansia di verità, domande che vogliono una risposta, la disperazione accompagnata dal sogno irrinunciabile di vedere un'umanità diversa. Di contro alla dilagante omologazione, all'appiattimento, alla volgarità, alla presunzione delle ortodossie si alza continuamente una voce carica di rivolta e di rifiuto, di scandalo, diciamo pure, di speranza;

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Gli uomini belli, gli uomini che danzanocome nel film di Chaplin, con ragazzettetenere e ingenue, tra boschi e mucche,gli uomini integri, nella salutepropria e del mondo, gli uominisolidi nella gioventù, ilari nella vecchiaia- gli uomini del futuro sono gli UOMINI DEL SOGNO.

Ora la mia speranza non hasorriso, o umana omertà:perché essa non è il sogno della ragione, ma è ragione, sorella della pietà.

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