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« Italia contemporanea » dicembre 1980, fase. 141 Fra classe operaia e ceti medi: note sulla base sociale del Pd’A La fortuna storiografica del Partito d’azione è stata fino ad oggi caratterizzata da un singolare destino *. Alla scarsezza di ricostruzioni critiche della vicenda del partito che non fossero le memorie dei protagonisti, si è accompagnata, all’inter- no della storiografia e della pubblicistica sulla Resistenza, una discreta fortuna delle analisi e dei giudizi politici formulati dagli azionisti nel fuoco della bat- taglia politica, sul complesso della lotta di liberazione e su singoli episodi di essa. Entrambi questi fattori hanno congiurato affinché l’immagine del Partito d’azione che è giunta fino a noi, o che almeno ha prevalso in gran parte della sto- riografia corrente, fosse quella che il partito aveva voluto dare di sé, un’immagine che, mentre all’esterno voleva caratterizzarsi con l’intransigenza e il rigore della battaglia democratica e antimonarchica, all’interno descriveva la dialettica delle posizioni politiche come scontro fra singole personalità che incarnavano ciascuna una definita strategia politica. Complessivamente, poco è stato fatto per far discendere il Pd’A dal limbo del mito resistenziale1 2 e per ricollocarlo nel prosaico mondo dei concreti rapporti sociali, ricostruendo la dimensione organizzativa del partito, la sua composizione di classe, i suoi rapporti con i diversi settori sociali. Eppure ciò che è stato fatto finora con un taglio metodologico di questo tipo 3, ha messo chiaramente in luce quanto esso sia utile, non solo ad una ricostruzione meno approssimativa delle vicende del partito, ma anche ad una comprensione della più generale storia della società italiana, delle classi e dei rapporti fra le classi negli anni che vanno dalla crisi del fascismo alla nascita della repubblica. 1 Per un rapido ma efficace quadro della storiografìa azionista, cfr. Giovanni de luna . La ri- voluzione democratica e il Partito d’azione. Guida ai documenti del P.d’A. in Piemonte dell’Ar- chivio del Centro Studi Piero Gobetti, Milano, Guanda, 1979, pagg. 3-5. 2 In questo limbo lo lasciano sia le recenti rievocazioni di taglio politico-ideologico (cfr. Io « special » di « Critica sociale », marzo 1979, n. 4-5, p. 49 e segg.) che gli studi condotti con intenti pressoché apologetici come quelli di Alosco: cfr. Antonio alosco , Il Partito d’azione a Napoli, Napoli, Guida 1975; IDEM, Il Partito d’azione dell’Italia liberata e la « svolta di Salerno», in «Storia contemporanea», aprile 1979, n. 2, pp. 359-375. 3 Cfr. Giovanni de luna , Operai e consigli nella politica del Partito d’azione a Torino (1943-1945), in «Mezzosecolo», Annali del Centro Studi Piero Gobetti, 1975, Torino, 1976, p.p. 203-259; IDEM, Il dibattito sulla riforma agraria e l’organizzazione contadina nel P.d’A. (1943-1945), in «Mezzosecolo», 1976-1977, Torino, 1978, p.p. 261-286; IDEM, Il Partito d’a- zione (1946-1947 ), in II Mondo Contemporaneo. Storia d’Italia, voi. II, Firenze, La Nuova Ita- lia, 1978, p.p. 836-845.

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« Italia contemporanea » dicembre 1980, fase. 141

Fra classe operaia e ceti medi: note sulla base sociale del Pd’A

La fortuna storiografica del Partito d’azione è stata fino ad oggi caratterizzata da un singolare destino *. Alla scarsezza di ricostruzioni critiche della vicenda del partito che non fossero le memorie dei protagonisti, si è accompagnata, all’inter­no della storiografia e della pubblicistica sulla Resistenza, una discreta fortuna delle analisi e dei giudizi politici formulati dagli azionisti nel fuoco della bat­taglia politica, sul complesso della lotta di liberazione e su singoli episodi di essa. Entrambi questi fattori hanno congiurato affinché l’immagine del Partito d’azione che è giunta fino a noi, o che almeno ha prevalso in gran parte della sto­riografia corrente, fosse quella che il partito aveva voluto dare di sé, un’immagine che, mentre all’esterno voleva caratterizzarsi con l’intransigenza e il rigore della battaglia democratica e antimonarchica, all’interno descriveva la dialettica delle posizioni politiche come scontro fra singole personalità che incarnavano ciascuna una definita strategia politica.Complessivamente, poco è stato fatto per far discendere il Pd’A dal limbo del mito resistenziale1 2 e per ricollocarlo nel prosaico mondo dei concreti rapporti sociali, ricostruendo la dimensione organizzativa del partito, la sua composizione di classe, i suoi rapporti con i diversi settori sociali. Eppure ciò che è stato fatto finora con un taglio metodologico di questo tipo 3, ha messo chiaramente in luce quanto esso sia utile, non solo ad una ricostruzione meno approssimativa delle vicende del partito, ma anche ad una comprensione della più generale storia della società italiana, delle classi e dei rapporti fra le classi negli anni che vanno dalla crisi del fascismo alla nascita della repubblica.

1 Per un rapido ma efficace quadro della storiografìa azionista, c f r . Gio v a n n i d e l u n a . La ri­voluzione democratica e il Partito d’azione. Guida ai documenti del P.d’A. in Piemonte dell’Ar­chivio del Centro Studi Piero Gobetti, Milano, Guanda, 1979, pagg. 3-5.2 In questo limbo lo lasciano sia le recenti rievocazioni di taglio politico-ideologico (cfr. Io « special » di « Critica sociale », marzo 1979, n. 4-5, p. 49 e segg.) che gli studi condotti con intenti pressoché apologetici come quelli di Alosco: cfr. An t o n i o a l o s c o , Il Partito d’azione a Napoli, Napoli, Guida 1975; IDEM, Il Partito d’azione dell’Italia liberata e la « svolta di Salerno», in «Storia contemporanea», aprile 1979, n. 2, pp. 359-375.3 Cfr. Gi o v a n n i d e l u n a , Operai e consigli nella politica del Partito d’azione a Torino (1943-1945), in «Mezzosecolo», Annali del Centro Studi Piero Gobetti, 1975, Torino, 1976, p.p. 203-259; IDEM, Il dibattito sulla riforma agraria e l’organizzazione contadina nel P.d’A. (1943-1945), in «Mezzosecolo», 1976-1977, Torino, 1978, p.p. 261-286; IDEM, Il Partito d’a­zione (1946-1947), in II Mondo Contemporaneo. Storia d’Italia, voi. II, Firenze, La Nuova Ita­lia, 1978, p.p. 836-845.

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Certo le difficoltà che si incontrano nel tentativo di dirigere la ricerca su questa strada sono davvero notevoli. Se si pensa che, a quanto ci consta, la pur stermina­ta messe di giornali, riviste, opuscoli e varia pubblicistica del Pd’A è così povera di dati concreti sulla consistenza del partito tanto da offrirci unicamente il nu­mero complessivo degli iscritti al momento del Congresso di Roma del febbraio 1946 (oltre a quello degli iscritti nell’Italia liberata al momento del Congresso di Cosenza, nell’agosto 1944); se si pensa che è andato disperso, o non è comunque reperibile, l’Archivio centrale del partito, che possa colmare le enormi lacune che le fonti edite lasciano — allora si capisce bene come appaia difficoltoso proporsi di ricostruire con una certa esattezza la consistenza, la composizione sociale, la variazione quantitativa nel tempo e la dislocazione geografica del partito, nonché altri aspetti non meno importanti, come la presenza nelle organizzazioni di mas­sa, nei sindacati, all’interno degli organismi professionali e via dicendo. Occor­rerà, per lo più, ricorrere agli archivi locali, alcuni dei quali di notevole consi­stenza, a notizie indirette; occorrerà supplire alla scarsezza dei dati quantitativi con notizie di ordine qualitativo.Malgrado queste limitazioni, indubbiamente notevoli, crediamo non debba sem­brar temerario il tentativo di compiere una prima ricostruzione dello sviluppo del rapporto fra Partito d’azione e società italiana, almeno attraverso l’analisi di alcuni nodi problematici: gli spunti d’interesse e gli stimoli che il tema può suggerire, riteniamo siano tali che, anche se parzialmente, esso valga la pena di essere affrontato4,

il Pd’A delie origini

Non si può certamente affermare che i primi documenti nei quali la neonata for­mazione antifascista precisò le proprie caratteristiche e il proprio programma ponessero, esplicitamente e con chiarezza, il complesso problema degli interlocu­tori sociali ai quali il partito intendeva rivolgersi nella ormai prossima crisi del fascismo che l’andamento della guerra lasciava prevedere. I Sette punti, pubblica­ti sul primo numero dell’« Italia libera », nel gennaio 1943 5, non affrontavano direttamente questo tema.Come è noto i Sette punti erano principalmente espressione delle posizioni della corrente liberaldemocratica che aveva a Milano il suo centro e i suoi massimi rappresentanti in La Malfa, Tino, Parri e Albasini Scrosati. Era stato questo gruppo che aveva con forza sostenuto la necessità di fondare il partito vincendo la titubanza dei liberalsocialisti, i quali avrebbero preferito conservare ancora la caratteristica di movimento 6.Dei liberaldemocratici milanesi, i Sette punti raccoglievano, in buona parte, ri­flessioni e propositi, nello sforzo che essi riflettevano di trovare una terza via d’uscita dalla crisi del fascismo fra una soluzione di pura e semplice continuità

4 Nelle pagine che seguono il nostro interesse sarà concentrato essenzialmente sul rapporto tra Partito d’azione e ceti urbani (classe operaia e « ceti medi »), ignorando del tutto la poli­tica azionista nei confronti dei contadini, per la quale cfr. il già ricordato articolo di G. De Luna.5 I Sette punti sono stati ripubblicati varie volte, ad esempio in Ca r l o L u d o v i c o r a g g h i a n t i , Il Partito d’azione, il suo programma, la sua storia, in Disegno della liberazione italiana, Pisa, Nistri - Lischi, 1954, pp. 314-317.6 Per queste vicende cfr. ivi, pp. 304-305.

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col fascismo (quello che sarebbe stato poi il tentativo monarchico-badogliano dei quarantacinque giorni) ed una possibile, e temuta, prova di forza rivoluzionaria della classe operaia, che si stava rimettendo in moto con notevole vigore nono­stante i vent’anni di oppressione. La via era, appunto, quella delle riforme, capa­ce di riagganciare l’Italia alle democrazie occidentali, come « riformisti » o co­munque senza alcuna velleità rivoluzionaria, erano i metodi che ci si proponeva di usare nella lotta contro il fascismo7.Sul piano economico, le trasformazioni da attuare erano, da un lato, la restaura­zione della libertà di iniziativa privata, soffocata, a giudizio degli azionisti, dalle bardature burocratiche imposte dal fascismo all’economia, dall’altro, una serie di nazionalizzazioni che colpissero i principali complessi monopolistici. Si pro­spettava, inoltre, un modello di rapporto fra capitale e lavoro ispirato alla « col­laborazione e [...] responsabilità nel processo produttivo » da parte della classe operaia, in cambio della riaffermazione della libertà sindacale e della partecipa­zione agli utili dell’impresa.Pur senza essere nominati esplicitamente, i referenti sociali di questo programma politico, emergevano, bene o male, dal senso complessivo del progetto. Il nodo centrale era quello dell’attivizzazione politica dei « ceti medi ». Si trattava, in sostanza, di realizzare una assai ampia mediazione fra classi diverse, che, sotto la direzione della media borghesia produttiva ed intellettuale, raccogliesse strati di piccola borghesia con propaggini fin nella classe operaia, assieme a settori della grande borghesia non eccessivamente compromessi col fascismo o comun­que consci della necessità di imprimere caratteristiche di « modernità » alla struttura statale postfascista. Questo progetto non significava che La Malfa e gli azionisti a lui più vicini si proponessero la fondazione di un grande partito inter­classista. Il concetto di « partito di massa » non sembrava affatto presente nel­l’elaborazione lamalfiana, almeno fin dopo la liberazione di Roma. Ad esempio, nei dieci punti coi i quali il dirigente azionista si contrappose alle tesi di Lussu, nel dibattito che attraversò l’esecutivo romano del partito, all’inizio del ’44, egli spiegò, aggirando il problema con una sorte di tautologia, che per lui « il Pd’A. (era) partito di masse », in quanto aveva « coscienza di problemi di masse » 8. L’idea non era quindi quella di organizzare nel partito vaste e stabili adesioni di massa, quanto quella di creare un partito di « governo », che potesse contare su un personale tecnico-politico capace di occupare i posti chiave nella direzione dello stato e della società, di costruire insomma il partito che esprimesse buona parte della classe politica postfascista.Il « realismo » e la credibilità di questo ambizioso disegno risiedevano non solo nel fatto che all’interno della cospirazione antifascista negli anni ’42-’43, la nuova formazione appariva, dopo il partito comunista, come la più attiva e la più dif­fusa, ma soprattutto stava nelle caratteristiche del gruppo che aveva elaborato i Sette punti.Il gruppo milanese e l’intera corrente liberaldemocratica avevano, naturalmente,

7 Fra questi occorre almeno ricordare il progetto di costituire un governo in esilio, presie­duto da Bonomi, per avere un organo che si presentasse come legittimo successore del fascismo al momento della crisi decisiva. Cfr. UGO l a m a l f a , Intervista sul non-governo, a cura di Al b e r t o r o n c h e y , Bari, Laterza, 1977, pp. 18-19. Lo stesso La Malfa poco prima aveva ricor­dato che gli azionisti a quel tempo puntavano su Croce come primo presidente della repub­blica.8 I IO punti sono finora inediti. Si possono vedere in Archivio dell’Istituto storico della Resistenza in Piemonte (AISRP), PA/ag 3.

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una forte caratterizzazione intellettuale 9, ma questa caratterizzazione era di tipo particolare. I suoi membri si distinguevano per le loro spiccate competenze tecni­co-economiche, essendo essi impiegati presso uffici studi di grandi imprese (come gli stessi Parri e La Malfa o Raimondo Craveri), oppure collegati con istituti di ricerca, come l’Ispi, dalla facciata tecnicistica e dalle ambizioni di oggettività e di neutralità ideologica (tali erano, per esempio, Silvio Pozzani, Enrico Bonomi e Giovanni M ira)10. Moltissimi erano, nel gruppo, gli studiosi di questioni econo­miche (Giuliano Pischel, Adolfo Tino, Massenzio Masia, Gino Luzzato e Riccar­do Lombardi), così come molti erano coloro che si occupavano di studi giuridici o storico politici, come Mario Paggi, Mario Vinciguerra, Cesare Spellanzon, Ma­rio Boneschi. Più in generale, l’intera rete cospirativa liberaldemocratica vedeva nettamente prevalere avvocati e magistrati accanto ad ingegneri e professori uni­versitari.Sempre di estrazione intellettuale, ma con una formazione prevalentemente sto­rico-filosofica, era anche la maggior parte del gruppo liberalsocialista. Esso por­tava nella nuova organizzazione politica, insieme al tentativo di fornire una ideologia nuova ed originale, capace di sostituire l’influenza del socialismo sto­rico all’interno della società italiana, una maggiore tensione verso le classi lavo­ratrici. Le precisazioni, chieste dai liberalsocialisti come postilla ai Sette punti e comparse sull’« Italia libera » nell’aprile 1943, introducevano, proprio su questo argomento, alcuni importanti elementi di novità rispetto alla prima carta pro­grammatica. In esse era esaltata la funzione delle grandi masse lavoratrici « fatte consapevoli del valore della libertà e della necessità storica di instaurare e difendere saldamente le istituzioni rappresentative » e capaci di esprimere dal loro seno « le élites destinate al diretto intervento sulla scena politica nella fun­zione di classi dirigenti11 12 ». Ma soprattutto l’adesione dei liberalsocialisti al nuovo partito recava in esso la larga influenza che questi avevano alTinterno di ampi strati di gioventù intellettuale che andava maturando la propria opposizione al regime n.È probabile che Tunica componente confluita nel Pd’A che portasse inizialmente adesioni di estrazione popolare, fosse quella di origine repubblicana, che per lunga tradizione, a Roma e nel centro Italia, aveva un certo seguito fra le masse popolari e che, con alcuni suoi esponenti, come Oronzo Reale, Giuseppe Bruno ed altri, aveva aderito al Pd’A ben prima della rifondazione del Partito repub­blicano storico.Comunque, la composizione iniziale del partito e l’impostazione della sua linea politica erano destinate a subire rapidi mutamenti. Gli ultimi mesi del ’43 deter­

9 « La storia delle origini e della nascita del Partito d’azione - ha scritto Leo Valiani - è anche la storia della politicizzazione d’un gran numero d’intellettuali italiani durante il fa­scismo ». cfr. l e o v a l i a n i , Il Partito d’azione, in L. v a l i a n i , l . b i a n c h i , e . r a g i o n i e r i , Azionisti, cattolici, comunisti nella Resistenza, Milano, F. Angeli, 1971, p. 15.10 Sull’Ispi cfr. a n g e l o M o n t e n e g r o , Politica estera e organizzazione del consenso. Note sull’Istituto per gli studi di politica internazionale. 1933-1943, in « Studi storici », ottobre-di­cembre 1978, n. 4, p. 777-817.11 Fra i liberalsocialisti non mancavano i tentativi di stabilire rapporti con gruppi di operai. Cfr. quanto afferma a questo proposito ruggero ranieri, Premesse politiche e ideologiche del Partito d’azione, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Firenze, Facoltà di Lettere e Filoso­fia, anno accademico 1977-1978, pp. 334-335. Per le Precisazioni cfr. « L’Italia libera » anno I, n. 2, aprile 1943. In realtà si tratta del terzo numero perché il secondo uscì come supple­mento al primo.12 Cfr. r u g g e r o z a n g r a n d i , Il lungo viaggio attraverso il fascismo, Milano, Feltrinelli, 1962, p p . 234-235 e UGO l a m a l f a , Intervista, cit., p . 13.

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minarono una sostanziale modifica della fisionomia del Partito d’azione, che acquistò, sotto la spinta di fattori esterni ed interni al partito, una dimensione tutto sommato nuova rispetto ai mesi immediatamente successivi alla fondazio­ne. Da un lato, la scelta di una frontale opposizione al governo Badoglio durante i quarantacinque giorni e la pronta decisione di passare alla lotta armata contro i nazifascisti subito dopo l’8 settembre, dislocarono il partito in una posizione nettamente di sinistra nello schieramento dei ricostituiti partiti antifascisti, men­tre la ripresa delle lotte operaie nell’agosto prima, e durante l’inverno ’43, poi, dettero fiato, nel partito, alle opposizioni più a sinistra, soprattutto, in alcune si­tuazioni, a quelle decisamente operaiste. Dall’altro lato, il ritorno dalle carceri, dal confino o dall’esilio di dirigenti giellisti, come Franco Venturi, Vittorio Foa, Leo Valiani, Aldo Garosci ed Emilio Lussu, inserì nel vertice del partito nuovi elementi di dialettica politica rinfocolando il dibattito mai sopito sulla caratteriz­zazione ideologica e programmatica del partito e sul suo eventuale indirizzo so­cialista.

Partito d’azione e ceti medi

Come abbiamo precedentemente ricordato, il problema dell’attivizzazione poli­tica dei cosiddetti « ceti medi » urbani rappresentava un punto fermo nel dibat­tito sui referenti sociali del Partito d’azione, condiviso da tutte le varie compo­nenti dell’organizzazione, seppure da angolazioni diverse. Gli azionisti richia­mavano così l ’attenzione su uno dei principali risultati della disgregazione delle basi di massa del fascismo: la « liberazione » di questi settori sociali dal blocco di potere che aveva sostenuto la dittatura mussoliniana, una certa qual fluidità nella loro collocazione sociale e politica che teoricamente poteva essere il presup­posto di una loro diversa dislocazione nella ricomposizione degli equilibri so­ciali dopo la scomparsa del fascismo.La guerra e la politica economica del fascismo avevano, in effetti, provocato un peggioramento delle condizioni di esistenza dei « ceti medi », contribuendo non poco a determinare il loro distacco dal regime. Questa situazione interessava un po’ tutte le categorie del « ceto medio » urbano: da quelle impiegatizie a quelle artigiane, dalle professioni intellettuali a quelle commerciali. Queste ultime, per esempio, che pure avevano goduto di misure di favore e di sostegno fin dai pri­mi anni del regime, avevano visto a partire dagli anni successivi alla guerra d’Etiopia, ridursi gradualmente i margini di redditività delle proprie aziende, so­prattutto di quelle di più ridotte dimensioni. Uno studio della Confederazione fascista dei commercianti fornisce alcuni dati approssimativamente indicativi di un tale fenomeno: dal 1929 al 1937 gli utili netti dei negozi al minuto (i gua­dagni, cioè, che restavano coperte tutte le spese, compresa la remunerazione del proprietario del negozio e dei familiari eventualmente impiegati, remunerazione calcolata secondo il contratto di categoria dei dipendenti di aziende commer­ciali) sarebbero diminuiti dall’1,35 per cento nel ’29, a —0,25 per cento nel 1937. Questa perdita era concentrata nel settore delle piccole aziende che vede­vano scendere i propri utili a —2,12 per cento, mentre le grandi e medie aziende conservavano una loro redditività, rispettivamente dell’ 1,85 per cento e dello 0,10 per cento 13. Negli anni successivi, la situazione invece di migliorare, dovette

13 Costi e ricavi nel commercio al dettaglio, a cura deirUfficio studi e statistica della Con­federazione fascista dei commercianti, Roma, 1939. Le percentuali sono naturalmente riferite al totale dei ricavi.

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al contrario farsi ancora peggiore. Da un lato la crescita dei prezzi al minuto non riusciva a star dietro a quella molto più rapida ed intensa dei prezzi aH’ingrosso, dall’altro, il blocco dei prezzi che era stato istituito a partite dalla guerra d’Etio­pia, per quel poco che funzionava, colpiva solo il commercio al dettaglio. Con lo scoppio della guerra, a questi elementi di disagio della categoria se erano ag­giunti altri: il fallimento dell’organizzazione della distribuzione dei generi razio­nati e contingentati e la nascita del mercato nero. Se il primo fattore aveva turbato profondamente il normale andamento delle vendite riducendo al minimo gli affari, il secondo aveva vanificato lo strumento di difesa corporativa della ca­tegoria, la licenza, ed aveva dato il colpo di grazia al blocco dei prezzi. Il mal­contento dei commercianti finiva per trapelare anche dagli organi del regime 14.Analoghe considerazioni possono essere fatte per i settori impiegatizi pubblici, i quali, pur dovendo al regime la difesa del proprio status sociale ed un notevole accrescimento delle proprie schiere, conobbero, a partire dall’inizio della guer­ra, una sostanziosa riduzione dei propri privilegiIS. Con la guerra, infatti, la tendenza che la politica salariale del fascismo aveva instaurato, ad un incre­mento della divaricazione fra salari operai e stipendi dei dipendenti pubblici, a tutto favore di questi ultimi, si andò rapidamente invertendo, determinando, nella caduta generale delle retribuzioni, un avvicinamento delle condizioni di vita degli impiegati a quelle operaie: facendo uguale a 100 l’indice dei salari operai nell’industria nel 1914, esso scese da 124 nel 1922 a 101 nel 1939 per passare a 27 nel 1944. Contemporaneamente gli stipendi reali dei dipendenti pubblici passarono da 93 nel 1922 a 96 nel 1936, per scendere a 10 nel 1944 16.Inoltre, malgrado la crescita intensa dell’impiego pubblico, esistevano fenomeni di diffusa disoccupazione e sottoccupazione intellettuale. Anche se è difficile quantificare esattamente il fenomeno, chi lo ha studiato 17 ha documentato diffi­coltà occupazionali per categorie come i periti industriali, geometri, ragionieri e soprattutto diplomati degli istituti magistrali.Per le libere professioni, che erano, insieme all’impiego pubblico e privato, il tra­dizionale sbocco occupazionale per i laureati, soprattutto in alcune affollate di­scipline come giurisprudenza, medicina o ingegneria, le fonti dell’epoca parlano con insistenza di perdita di privilegi, di diminuzione degli affari, di difficoltà di inserimento nella professione. Sembra così accertata una condizione di disoccu­pazione o di sottoccupazione per categorie come gli ingegneri, i chimici, ma anche per medici e avvocati. Per quanto riguarda questi ultimi, ad esempio, è facile trovare, nella rivista del sindacato di categoria articoli che descrivono « una crisi professionale forense [...] grave per la sua intensità, gravissima per la sua estensione », oppure « una disastrosa rarefazione del lavoro verificatasi in

14 c. b i n e l l o , In tema di blocco dei prezzi, in «Commercio», maggio-giugno 1942 n. 5.-6, pp. 19-21; Idem, Caratteri e risultati della politica dei prezzi, in «Commercio», marzo-aprile 1943, n, 3-4, pp. 18-21, ma in generale negli ultimi anni del regime quasi ogni numero della rivista della Confederazione fascista dei commercianti riportava articoli con apprezzamenti critici, anche pesanti, su tali argomenti.15 II numero dei dipendenti pubblici era passato da 509.145 nel 1923 a 1.430.060 nel luglio 1943. Se da questa cifra si toglie il gonfiamento dovuto alla militarizzazione, resta pur sempre un incremento degli impiegati pubblici superiore al 100% rispetto agli anni ’20. Cfr. f r a n c o d e m a r c h i , I laureati nella pubblica amministrazione, in I laureati in Italia, Bologna, Il Mulino 1968, pp 222-223.16 Sono dati elaborati da Giorgio Fuà e riportati da p a o l o s y l o s l a b i n i , Sviluppo econo­mico e classi sociali in Italia, in « Quaderni di sociologia », 1972, n. 4, p. 438.17 Cfr. m a r z i o b a r b a g l i , Disoccupazione intellettuale e sistema scolastico in Italia, Bologna, Il Mulino, 1974.

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questi ultimi anni [...] che continua a progredire con ritmo sempre più preoc­cupante » 18.L’anello debole sul quale si concentravano, in massima parte, le conseguenze di questa crisi dei « ceti medi », era rappresentato dai giovani che si affacciavano in misura crescente con un titolo di studio sul mercato del lavoro. A fronte di una critica situazione come quella cui si è accennato stava, infatti, una crescita sensibile delle iscrizioni alle scuole secondarie e alle università con la conseguen­za di incrementare rapidamente il numero di coloro che aspiravano ad una oc­cupazione intellettuale19. Così se i lavoratori intellettuali già impiegati avevano almeno qualche buona possibilità di mettere in moto meccanismi di freno ai pro­cessi di mobilità discendente che li coinvolgevano, « i giovani laureati e gli stu­denti universitari dovettero invece fare i conti con un processo di mobilità ascen­dente parzialmente bloccato » 20. Non sembra allora troppo lontano dal vero chi ha indicato in questa incapacità del fascismo di tenere aperti i canali di promo­zione sociale ai giovani intellettuali, nella sfera professionale come in quella po­litica, una delle cause materiali del distacco delle nuove generazioni dal fascismo e il loro passaggio, in connessione, naturalmente, con altri decisivi elementi, a posizioni coscientemente antifasciste21.Certamente analoghe considerazioni non possono essere estese agli altri settori del « ceto medio » urbano, che, in generale, sviluppano, nella loro maggioranza, una reazione corporativa e moderata alle difficoltà che li investono e che, pur staccandosi dal regime che li ha portati allo sfacelo, guardano con passività allo svolgersi degli avvenimenti22. E non è ovviamente possibile stabilire alcun mec­canico collegamento fra la nascita del Partito d’azione e i fenomeni di distacco dal regime fascista da parte di consistenti settori di « ceto medio » urbano, an­che se in questa direzione occorre ulteriormente approfondire la ricerca. Resta però indubitabile il fatto che buona parte delle minoranze politicamente attive all’interno di questi strati, soprattutto fra i giovani, gli intellettuali, i liberi pro­fessionisti, si raccolsero, negli anni della guerra, nella nuova organizzazione poli­tica antifascista.Si spiega così anche il fatto che la riflessione sui fenomeni che avevano investito i « ceti medi » era destinata a rappresentare una costante nell’elaborazione poli­tica del Pd’A: l’analisi, certo, non era mai molto approfondita e il riferimento ai « ceti medi » restava sostanzialmente generico. La rottura fra essi e la classe do­minante, configuratasi con la crisi del fascismo, era più postulata che dimostrata,

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18 Per le due citazioni cfr. rispettivamente G. p a l i a d r i , Crisi degli avvocati, in « Rassegna del sindacalismo forense», maggio-giugno 1939 fase. VII-VIII, p. 443 e M . r e v a t t i n i , Crisi delia professione forense. Cause e rimedi, in « Rassegna del sindacalismo forense », di­cembre 1938, fase. II, p. 78.19 M. barbagli, Disoccupazione intellettuale cit., pp. 213-214, dove è riportata una tabella con il numero degli iscritti alle scuole secondarie e aH’università negli anni del fascismo.29 Ibid, p. 299.21 Per questa tesi cfr. g in o g e r m a n i , La socializzazione dei giovani nei regimi fascisti: Italia e Spagna, in «Quaderni di sociologia», gennaio-giugno 1969, pp. 11-58 e lo stesso b a r b a g l i , op. cit., pp. 299-301.22 La situazione del «fronte interno» negli anni 1942-43 è così caratterizzata dal Gallerano: « protagonista dei primi tentativi di resistenza attiva contro le difficoltà economico-alimentari e i disagi sempre più gravi causati dalla guerra è [...] la classe operaia [...] Accanto ad essa si può rilevare la presenza di un nucleo politicizzato e combattivo di giovani intellettuali ». Invece, « la massa della piccola borghesia [...] vive passivamente la crisi economica e politica in cui si dibatte il paese, frustrata e delusa». N ic o l a g a l l e r a n o , Il fronte interno (1942-1943) in « II movimento di Liberazione in Italia », 1972, n. 109, pp. 14-15 e 19.

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pur essendo considerata ormai definitiva. Comunque, sulla precisa definizione del rapporto da instaurare con questi ceti — se cioè il partito dovesse proporsi di essere il « partito dei ceti medi » oppure no, che tipo di alleanza dovesse correre fra questi settori sociali e la classe operaia — vi era accesa contesa, all’interno del Pd’A.Nel dibattito apertosi nell’esecutivo romano, agli inizi del ’44, a La Malfa che riproponeva, nei 10 punti, la linea programmatica dei primi documenti del par­tito con le medesime preferenze nei riferimenti sociali, Lussu rivolgeva l’accusa di avere « una concezione audace ma borghese », che interpretava « l’aspirazione sociale e politica dei ceti medi diretti dalla media borghesia progressista intellet­tuale ». Egli sosteneva, invece, che il Pd’A, dandosi un programma socialista, anche se di un socialismo rinnovato, dovesse aspirare a diventare « l’organizza­zione politica degli operai, dei contadini, dei tecnici, degli artigiani, degli intel­lettuali, e di quanti altri vivono del proprio lavoro ». Voleva, insomma, che esso fosse « il partito dei lavoratori italiani » che, riconoscendo gli interessi comuni che avvicinavano questi ultimi ai « multiformi ceti della piccola borghesia lavo­ratrice e produttiva », propugnasse, pur nella reciproca distinzione, sociale e po­litica, un’alleanza con essi23.Nel troncone settentrionale il dibattito su queste tematiche appariva certamente più concreto e ricco di riferimenti alla realtà politica del momento, inserito come era nell’elaborazione di quel disegno di « rivoluzione democratica » che comincia­va a definirsi proprio all’inizio del ’44 e che era destinato a diventare la linea politica della maggioranza dell’azionismo settentrionale fino alla liberazione. La base sociale della « rivoluzione democratica » veniva individuata proprio nel rap­porto di alleanza fra classe operaia e « ceti medi », almeno in questa prima fase in cui più spiccato era l’interesse verso l’iniziativa della classe operaia e versogli obiettivi economico-sociali, oltreché istituzionali, della lotta in corso. L’atten­zione era soprattutto rivolta ai settori tecnici ed impiegatizi legati alla produ­zione di fabbrica. Le analisi azioniste sottolineavano come in queste categorie si fosse sviluppato un processo di «proletarizzazione [...] anche in conseguenza della miseria generale della guerra », rilevando, pur tuttavia, come continuasse ad esistere in questi settori una resistenza psicologica a tirare tutte le conseguen­ze di un tale fenomeno: « l’impiegato — osservavano gli azionisti — rifiuta di proletarizzarsi ». La ricomposizione unitaria fra operai, impiegati e tecnici dove­va proprio partire dal luogo di lavoro, la fabbrica, dove sia gli uni che gli altri avrebbero dovuto organizzarsi all’interno dei Consigli di fabbrica. In essi, le fun­zioni professionali dei tecnici e degli impiegati avrebbero trovato un’adeguata va­lorizzazione, dal momento che ai Consigli di fabbrica si voleva attribuire la ge­stione diretta delle aziende, inattuabile, a giudizio degli azionisti, senza la col­laborazione di tutti i lavoratori collegati in qualche modo alla produzione.

Nel Consiglio di fabbrica, — scrivevano gli azionisti — organo della democrazia azien­dale è il vero punto di convergenza dei bisogni umani sociali e politici degli operai e degli impiegati, fusi nella classe unica dei lavoratori. Il Consiglio di fabbrica [...] come organo politico ed economico, che valorizzi nella consapevolezza dei fini comuni, l’opera di ciascuno. Nella partecipazione alla gestione, nessuna classe lavoratrice ha qualcosa da perdere, ma tutto da guadagnare24.

23 Per il dibattito nell’esecutivo romano, oltre ai già citati 10 punti di La Malfa, cfr. Una lotta nel suo corso a cura d i l i c i a r a g g h ia n t i c o l l o b i e s a n d r o c o n t i n i b o n a c c o s s i , Venezia, Neri Pozza, 1954, pp. 67-104, dove sono riportati anche gli scritti di Lussu da cui sono tratte le citazioni.24 II problema degli impiegati, in « Voci d’officina », anno I, maggio ’44, n. 4.

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In altri settori del partito, più distanti dal lavoro sindacale, si era, invece, propensi a rivendicare un ruolo più autonomo e, in qualche maniera, dirigente ai tecnici e agli impiegati, all’interno della « rivoluzione democratica ». All’iniziativa operaia occorreva fossero posti dei limiti per evitare che scivolasse verso una rivoluzione sociale troppo radicale: l’attivizzazione dei settori tecnici ed impiegatizi doveva essere una garanzia affinché questa eventualità fosse evitata.

Se gli impiegati e i tecnici — ammoniva un volantino azionista, espressamente dedicato ad essi — non prendessero l’iniziativa di una propria cosciente collaborazione con le masse [...] se dovessero restare irresoluti tra due fuochi rinunciando ad imprimere un carattere al movimento in corso con l’apporto della loro ideologia politica, frutto delle loro esigenze materiali e spirituali, le conseguenze di tale atteggiamento passivo rica­drebbero su di loro. Assenti essi, il movimento di massa delle fabbriche, irrefrenabile qual è, potrebbe sboccare in un ’agitazione a carattere esclusivamente classista25.

Ma nel troncone Alta Italia del Pd’A c’erano anche posizioni che andavano mol­to più in là in questa medesima direzione, c’era, cioè, anche chi pensava che i « ceti medi » dovessero senz’altro proporsi come la classe egemone nella lotta antifascista e nella costruzione del nuovo stato democratico e che il Partito d’a­zione dovesse, di conseguenza, assolvere la funzione di « partito dei ceti medi ». Le teorizzazioni più lucide e coerenti di queste tesi furono espresse da quel gruppo di militanti azionisti, che, provenienti dal gruppo liberaldemocratico lom­bardo, si raccolsero nell’estate del ’44 attorno alla rivista « Lo stato moderno » 26.Fin dal suo primo numero, il periodico milanese rivendicava per i « ceti medi » un ruolo dirigente nella lotta democratica ed assegnava a se stesso il compito di elaborare un programma che, esprimendone le esigenze di fondo, desse loro una coscienza unitaria. Per i « ceti medi », scriveva Giuliano Pischel,

si tratta [...] di assurgere da una poco consistente congerie, a classe politica, capace di pensare acutamente e arditam ente e di decidere risolutamente e di agire energicamente. Appunto per questo, quella che si affaccia è l’ora veramente decisiva per i ceti medi: ora che li deve chiamare a raccolta; ora che può segnare il loro riscatto; ora che impone loro l’azione solidale e coerente. Non come passivo fenomeno storico e sociale, ma come nuova classe politica capace di agire risolutamente e di manovrare avvedutamente, i ceti medi potranno stringersi attorno ad un programma atto a suscitarne la loro solidarietà27.

I capisaldi del programma prospettato dallo « Stato moderno » erano due: la fon­dazione di uno stato la cui efficienza non fosse messa in forse dal rispetto dei principi democratici e la rivendicazione di una politica antimonopolistica che ampliasse gli spazi di iniziativa dei ceti medio e piccolo borghesi e li difendesse dalla « strapotenza economica e finanziaria dell’alto capitalismo », arginando i processi di proletarizzazione dai quali questi ceti erano investiti. Mantenendosi « esterno » e « neutrale » rispetto al mondo della produzione, il nuovo « Stato

25 Ai tecnici e agli impiegati dell’industria, v o l a n t i n o a q u a t t r o p a g i n e d e l l ’« I t a l i a l i b e r a » ,

s e n z a d a t a , m a p r o b a b i l m e n t e f e b b r a i o ’4 4 , i n « L ’ I t a l i a l i b e r a » , M i l a n o , F e l t r i n e l l i R e p r i n t ,

1 9 7 6 .

26 F r a i r e d a t t o r i d e l l a r i v i s t a , i l c u i p r i m o n u m e r o u s c ì n e l l u g l i o 1 9 4 4 , v i e r a n o M a r i o

P a g g i , d i r e t t o r e , G a e t a n o B a l d a c c i , V i t t o r i o A l b a s i n i S c r o s a t i , A n t o n i o B a s s o , G i u l i a n o P i s c h e l .

L o « S t a t o m o d e r n o » d i v e n n e l ’e s p r e s s i o n e d e l l a d e s t r a a z i o n i s t a m i l a n e s e e d i q u e l l a m i n o r a n z a

c h e s i o p p o n e v a , n e l l e s t r u t t u r e d i r i g e n t i d e l P d ’A A l t a I t a l i a , a l l a l i n e a d e l l a « r i v o l u z i o n e d e m o ­

c r a t i c a » . S u l l a « S t a t o m o d e r n o » c f r . p a o l o u n g a r i , « Lo Stato moderno ». Per la storia di un’ipotesi sulla democrazia (1944-1949), i n Studi per il XX anniversario dell’Assemblea costi­tuente, v o i . I , F i r e n z e , V a l l e c c h i , 1 9 6 9 , p p . 8 4 1 - 8 6 8 e « Lo Stato moderno ». Antologia di una r i v i s t a , a c u r a d i M . b o n e s c h i , M i l a n o , C o m u n i t à , 1 9 6 7 .

27 p i g r e c o (g . p i s c h e l ) , Il problema dei ceti medi, i n « L o S t a t o m o d e r n o », a n n o I , n . 1 ,

p . 9 ; a l l o s t e s s o a u t o r e s i d e v e a n c h e u n v o l u m i n o s o l i b r o d a l l ’o m o n i m o t i t o l o p u b b l i c a t o a

M i l a n o n e l 1 9 4 6 .

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moderno », forte ed autorevole, doveva garantire il corretto funzionamento delle leggi del mercato, presupposto di un sano sviluppo economico 28.Destinate a restare minoritarie nel troncone settentrionale come nel complesso del partito, queste posizioni erano avversate con maggior accanimento dagli ambienti sindacali, i quali dimostravano certo meno fiducia nelle virtù democratiche dei ceti medio e piccolo borghesi e rifiutavano qualsiasi forma di loro egemonia nel partito e nella lotta in corso. Così si esprimeva, ad esempio, l’organo sindacale del Pd’A fiorentino:

filistee, conformiste, pavide, egoistiche, e attaccate ai meschini vantaggi — e tanto più attaccate quanto più questi vantaggi erano meschini — certe categorie piccolo-borghesi hanno costituito la spina dorsale del fascismo, lo hanno servito (e se ne sono servite) e costituiscono tuttora un grande pericolo [...] Sono elementi di queste categorie che — domani — si opporranno a che venga smantellata tutta l’organizzazione burocratica fa­scista. Sono elementi di queste categorie che —■ domani — pretenderanno — come hanno sempre preteso — un trattamento economico superiore a quello di altre categorie di pari capacità produttiva29.

La « politica operaia »

Anche sul rapporto con la classe operaia, le posizioni che si affrontavano nel Par­tito d’azione erano ampiamente divergenti.Nel troncone settentrionale del partito, a Torino, per merito di un gruppo di organizzatori sindacali eredi della tradizione gobettiana e dell’intervento nelle fab­briche di Giustizia e Libertà e di alcuni dirigenti del Pd’A Alta Italia di provenienza giellista, si andò elaborando, fra la fine del ’43 e i primi mesi del ’44, una « poli­tica operaia » dai tratti indubbiamente originali e interessanti30. L’asse portante di questa politica stava nella valorizzazione dell’iniziativa autonoma delle masse operaie e nella riproposizione, quali strumenti attraverso i quali 1’« autonomia operaia » potesse esprimersi direttamente, dei Consigli di fabbrica, concepiti non come puri organi di difesa sindacale, ma come strumenti di intervento comples­sivo della classe operaia, sia sulla gestione dell’azienda che, più in generale, sulla totalità dei problemi politici e sociali31. I Consigli dovevano «porsi al di fuori dei tradizionali schemi marxisti di lotta di classe [...] miranti esclusivamente al­l’indebolimento e alla disorganizzazione degli organismi produttivi, al fine della

28 per i concetti sviluppati nel testo cfr., a titolo di esemplificazione, i seguenti articoli: p i g r e c o (g . p i s c h e l ) , Difesa dello stato, difesa dallo stato, « Lo Stato moderno », n. 4, ottobre 1944; v i t t o r ( m . p a g g i) , Alcuni aspetti della socializzazione, «Lo Stato moderno», I, n. 3, settembre 1944; Scienza e vita economica, « Lo Stato moderno », I, n. 5, novembre 1944.25 Una mentalità da combattere (a proposito delle classi medie), in « La libertà del lavoro », anno I, n. 2, 25 luglio 1944.30 Del gruppo operaista torinese facevano parte, fra gli altri, F. Momigliano, Riccardo Levi, Giorgio Diena, oltre ad alcuni militanti operai. A queste elaborazioni non erano estranei alcuni dei maggiori esponenti del Partito d’azione Alta Italia, come Vittorio Foa, Franco Venturi e, dopo il suo definitivo trasferimento in qualità di segretario del Pd’AAI, lo stesso Leo Valiani, al quale anzi va attribuito l’impulso decisivo alla precisazione di questa politica e alla fonda­zione del periodico operaio del partito « Voci d’officina », nelle due edizioni torinese e mila­nese. Sull’operaismo torinese cfr. naturalmente, G. d e l u n a , Operai e consigli, cit.31 Sulla concezione azionista dei consigli, oltre agli articoli di « Voci d’officina » (in parti­colare, Consigli di fabbrica di ieri e di domani, «Voci d’officina», anno I, n. 2, marzo 1944) cfr. l u i g i u b e r t i ( f . M o m i g l i a n o ) , Le commissioni di fabbrica, « Quaderni dell’Italia libera », n. 12, s.n.t. e lo scritto di LEO v a l ia n i in Tre lettere sul socialismo e l’Europa, « Nuovi Qua­derni di Giustizia e Libertà», anno I, n. 1, maggio-giugno 1944, pagg. 54-61.

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vittoria operaia sulle classi capitalistiche » 32. Al contrario, il loro contenuto do­veva essere eminentemente « produttivistico » e gli stessi lavoratori dovevano or­ganizzarsi al loro interno, non sulla base dei propri interessi di classe, ma in quanto « produttori », fattori essenziali della vita produttiva dell’azienda e porta­tori delle necessità oggettive della produzione. Ai consigli così caratterizzati, do­vevano essere attribuiti compiti di gestione e di controllo dell’azienda, compiti, che al momento dell’insurrezione avrebbero dovuto concretizzarsi nell’obiettivo del « sequestro popolare provvisorio delle grandi aziende ». Alla cacciata dei fascisti e dei nazisti, gli operai assieme a tecnici ed impiegati si sarebbero impossessati delle grandi aziende e, mettendo da parte i padroni, le avrebbero gestite in proprio attraverso i Consigli di fabbrica. La decisione finale sulla loro sorte sarebbe spet­tata alla Costituente, ma nel frattempo si sarebbe messa una forte ipoteca sulle future riforme economico sociali33 34.Strumenti, a giudizio degli azionisti, ben più adeguati del sindacato e dei partiti politici nel raccogliere la spinta rivoluzionaria delle masse, i consigli dovevano essere attori non certo di una rivoluzione socialista concepita in senso tradizio­nale, ma di una « rivoluzione democratica », dai contorni piuttosto sfumati, ma che si proponeva di realizzare una radicale rottura col regime fascista e una trasformazione profonda della struttura statale e dei rapporti sociali che avevano generato il fascismo stesso.Lo sforzo di inserire la piena valorizzazione dell’« autonomia operaia » in una prospettiva di « rivoluzione democratica », che sfumasse i connotati classisti del­l’intervento politico organizzato delle masse operaie, oltre ad una sottovaluta­zione della lotta ecomonica e rivendicativa M, portava con sé, inevitabilmente, con­sistenti elementi di ambiguità. Da un lato, infatti esso appariva come un tenta­tivo, di portata certamente « eversiva », di basare la lotta politica sulla spinta dal basso, sull’autorganizzazione delle masse, sulla loro azione autonoma, dal­l’altro, però, appariva come una prudente ricerca degli strumenti per incanalare e frenare i possibili sviluppi « classisti » della radicalizzazione operaia all’interno della lotta antifascista. Questa duplicità di accentuazioni, pur coesistendo, tal­volta, all’interno della medesima formulazione, diventava particolarmente eviden­te, quando questi temi erano affrontati al di fuori degli ambienti legati all’inter­vento operaio. Nella Circolare della Segreteria Alta Italia del 26 maggio 1944, con la quale, pure, l’intera linea consiliare diventava patrimonio del Pd’A setten­trionale nel suo complesso, molti degli accenti più « rivoluzionari » delle posizioni torinesi scomparivano, indice evidente di quanto sensibili fossero state le media­zioni raggiunte con altre, più moderate, posizioni. Dei consigli erano, in questo testo, esaltate le funzioni di collaborazione operaia alla gestione dell’azienda, di umanizzazione del lavoro, di democratizzazione dell’ambiente di fabbrica, men­tre erano decisamente ignorati gli aspetti di antagonismo e di lotta. Inoltre, i con­sigli venivano identificati con le Commissioni interne, all’interno di una più gene­rale rivalutazione della funzione del sindacato.

Le commissioni interne — affermava la Circolare — portano il calore della libertà all’in­terno degli stabilimenti. E colla libertà la partecipazione dei maggiori interessati, dei la­

32 l. u b e r t i , op. cit., pp. 17-18.33 Sul «sequestro popolare provvisorio» cfr. LEO valiani, Tre lettere, cit., pp. 58-59, e le circolari del Pd’A AI, Ai Comitati regionali provinciali e cittadini del P. d’A, 14 febbraio 1944, in A1SRP PA/ag 3, fase. 4 e Ai Comitati Regionali e al fiduciari del lavoro fra gli operai, 26 maggio 1944, in Istituto storico della Resistenza in Toscana (ISRT), Carte Ramat, Busta 1.34 Su questo punto ha particolarmente insistito G. d e l u n a , Operai e consigli, cit. e Lotte operaie e Resistenza, in «Rivista di storia contemporanea», ottobre 1974, fase. 4, p. 503.

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voratori, alla realizzazione di quelle misure di razionalizzazione, di rigorosa organizza­zione scientifica del lavoro, di cui l’industria moderna non può fare a meno, ma che rischiano spesso di risolversi in uno sfruttamento scientifico della mano d ’o p era35.

Negli altri tronconi del partito, il problema dei rapporti con la classe operaia era posto spesso in termini assai meno chiari ed originali di quanto non si facesse a Torino e nel resto dell’Italia settentrionale. A Firenze, ad esempio, un articolo della « Libertà », nel quale era presente la penna di Carlo Ludovico Ragghiami, negava perfino la necessità per il Pd’A, di una specifica politica operaia, rilanciando la definizione di quest’ultimo come di un indifferenziato « partito del lavoro »: « noi ci proponiamo dunque — affermava l’articolo, espressamente dedicato Agli amici operai — come partito del lavoro, cioè rappresentante di tutti coloro che creano valori sociali (operai, contadini, tecnici, professionisti, artigiani e così via) » 36.Anche nelle formulazioni liberalsocialiste, che nell’opuscolo di Tristano Codi- gnola, Direttive programmatiche, si accostavano molto ad una visione politico­ideologica decisamente socialista, la volontà di prendere le distanze « dagli sche­mi classistici e marxisti », annegava il problema del rapporto con la classe ope­raia in un progetto di società che ponesse « tutti gli uomini in partenza, in posi­zione uguale ». Per il resto, erano presenti nell’opuscolo, molte suggestioni del­l’operaismo torinese, private, però, del loro significato originale: la svalutazione del sindacato si accompagnava alla richiesta di ampi poteri per le Commissioni di fabbrica, viste, anziché come espressione dell’« autonomia operaia », come mi­nuscoli parlamenti, all’interno dei quali i partiti mettessero « alla prova i loro uomini e le loro idee » 37.Un discorso a parte occorre fare a proposito dell’attività sindacale del Pd’A nell’Italia liberata fra il 1943 e il 1944. Alcuni militanti azionisti, per lo più di provenienza giellista, come Dino Gentili e Bruno Pierleoni, svolsero in quel pe­riodo una intensa attività di organizzatori sindacali, ispirandosi al modello di sindacalismo angloamericano, di cui erano esperti conoscitori per averlo visto da vicino.Anche nelle loro concezioni si insisteva molto sulla partecipazione dei lavora­tori alla conduzione delle imprese. I toni conciliativi e solidaristici erano deci­samente predominanti, mentre era allo stesso sindacato che si attribuiva il com­pito di rappresentare i lavoratori nella gestione dell’azienda.

Senza una più diretta e reale partecipazione dei lavoratori alla gestione del proprio la­voro — scriveva Pierleoni — si può affermare sino da ora che niente o poca cosa sarà fatta [...] Persuadiamoci che l’essenziale del problema sindacale oggi è la modificazione radicale dei rapporti dell’azienda, del cantiere, dell’officina [...] L’unità della nazione, tanto necessaria per la ricostruzione del nostro martoriato paese, non si può fare che nel luogo stesso di lavo ro38.

Non mancavano i tentativi di tradurre in pratica queste concezioni, con iniziative che, il più delle volte, partivano dall’alto, dai dirigenti delle industrie, piuttosto che dal basso, dall’iniziativa operaia. Così, il dirigente azionista Ruggero de Ri- tis, membro dell’esecutivo del Centro meridionale del partito, commissario al­l’Alfa Romeo, prese, nel maggio 1944, l’iniziativa di creare una Commissione

35 Ai Comitati regionali e ai fiduciari del lavoro fra gli operai, c i t .

36 Agli amici operai. Il nostro socialismo i n « L a l i b e r t à » , n . 2 , 2 7 o t t o b r e 1 9 4 3 . C o r s i v o

d e l l ’a u t o r e .

37 C f r . Direttive programmatiche, P a r t i t o d ’a z i o n e , s e z i o n e t o s c a n a , g i u g n o 1 9 4 4 , p e r l e c i t a ­

z i o n i , p p . 8 - 9 .

38 b r u n o p i e r l e o n i , Verso la costituente del lavoro, « Q u a d e r n i d e l l ’ I t a l i a l i b e r a » , n u o v a

s e r i e n . 2 , s . n . t . , p p . 1 8 - 2 0 .

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paritetica di produzione, « con lo scopo di ottenere attraverso la collaborazione [...] sincera ed efficace fra lavoratori e direzione [...] il risorgere dell’[...] in­dustria ». «Tale collaborazione — affermava il comunicato dell’Alfa — prende forza dai lavoratori, che in tal modo sono direttamente impegnati all’andamento regolare del lavoro e della produzione » 35 * * * 39. Proposte di questo tipo caratteriz­zavano anche l’intervento degli azionisti nella Cgl napoletana e lo stesso Gen­tili se ne fece portavoce al congresso della Confederazione svoltosi a Salerno nel febbraio 194440.Negli organi dirigenti della Confederazione generale del lavoro gli azionisti occu­pavano una posizione di preminenza accanto ad altre componenti eccentriche rispetto ai partiti antifascisti tradizionali, come i dissidenti comunisti guidati da Enrico Russo. Come è noto, la Cgl napoletana si distingueva dal tipo di organizzazione sindacale che avrebbe prevalso con la firma del Patto di Roma nel giugno 1944 — e che nel sud era rappresentato dalla confederazione barese, risorta in occasione del Congresso di Bari, alla presenza di Lizzadri — perché rivendicava un’assoluta autonomia dai partiti politici e perché escludeva i cat­tolici, i quali, a Napoli, avevano ricostituito una Confederazione « bianca », la Cil. Entrambe queste caratteristiche misero presto la Cgl in forte contrasto con i partiti antifascisti, soprattutto con il partito comunista41.Durante la prima metà del ’44 la Cgl raggiunse indubbiamente un certa consi­stenza ed una presenza abbastanza diffusa, anche se concentrata quasi esclusi­vamente in Campania42, guidando pure alcune significative vertenze fra gli impiegati pubblici. Ciò nonostante, la confederazione aveva al proprio interno numerosi elementi di debolezza che ne spiegano il rapido isolamento e l’auto- scioglimento poco tempo dopo la ricostituzione della Cgil romana. Notevole era l’eterogenità politica del suo gruppo dirigente, diviso fra il tradeunionismo azio­nista e le posizioni di ascendenza bordighiana dei dissidenti comunisti, anche se l’esigenza di difendere la confederazione dagli attacchi concentrici cui era sot­toposta, costituiva un forte cemento unitario. Inoltre, la Cgl, soprattutto nella componente azionista, intratteneva con gli alleati ambigui rapporti che offri­vano molte armi polemiche ai comunisti. In più occasioni i sindacalisti azio­nisti sollecitarono dagli angloamericani, sostegni morali e materiali che aiutas­sero la Cgl a « organizzarsi compiutamente in Italia e a mantenere la sua indi- pendenza da ogni forza politica » 43. Gli alleati tuttavia mostravano un atteg­giamento di prudenza e non si spinsero certo fino a difendere apertamente la confederazione napoletana.

35 Commissioni paritetiche all’Alfa Romeo, in « Battaglie sindacali », organo della CGL,nuova serie, 28 maggio 1944, n. 13.40 Cfr. l’intervento di Gentili al Congresso riportato in « Battaglie sindacali », 27 febbraio 1944.41 Sulla CGL sono da vedere: b r u n o b e z z a , La ricostruzione del sindacato nel Sud, in Problemi del movimento sindacale in Italia 1943-1973, Annali della Fondazione Giangiacomo Fel­trinelli, XVI, 1974-75, Milano, Feltrinelli, 1976, pp. 109-133; P i e t r o b ia n c o n i , 1943: La CGL sco­nosciuta, Milano, 1975; più recentemente, caratterizzato dal taglio apertamente apologetico, chedistingue l’autore è stato pubblicato An t o n i o a l o s c o , Alle radici del sindacalismo. La ricostru­zione della CGL nell’Italia liberata {1934-44), Milano, Sugarco, 1979.42 Al Congresso di scioglimento della confederazione, il dirigente della Camera del lavoro na­poletana, Iorio, facendo il bilancio complessivo dell’organizzazione, parlò di 44.500 tessere di­stribuite dalla CGL nell’arco della propria esistenza. Cfr. « Battaglie sindacali », 29 agosto 1944, n. 26.43 Cfr. Redazione Gentili 25 maggio ’44, in ISRT, Fondo Bianconi; la Relazione è pubblicata anche in b . b e z z a , La ricostruzione del sindacato, cit.

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L’intervento nella società durante la Resistenza

Come si è potuto constatare da quanto si è venuto dicendo fino adesso, atteg­giamenti ampiamente diversificati ed accesi contrasti caratterizzavano il dibat­tito azionista sui referenti sociali del partito, rendendo estremamente difficoltosa la realizzazione di una sintesi unitaria e la scelta di una definita base di classe. Questo nodo, cruciale per l’esistenza del partito, non fu mai sciolto: la posizione che tendeva per lo più a prevalere era, come ha notato giustamente De Luna, « per un partito interclassista, qualificato dal programma e profondamente eclet­tico nei suoi interlocutori sociali » 44. Anche sul piano pratico, il problema della penetrazione e dello stabile radicamento nella società italiana della nuova orga­nizzazione politica, che, priva di tradizioni o di punti di forza, interni ed inter­nazionali, come le altre formazioni antifasciste, doveva crearsi ex novo un pro­prio spazio « sociale », fu lasciato spesso ad iniziative disorganiche ed estem­poranee.Con l’estendersi della battaglia politica a sempre più larghe masse, dopo il 25 lu­glio e l’8 settembre, anche il raggio d’influenza del Pd’A tendeva indubbiamente ad uscire dai gruppi intellettuali che ne avevano promossa la costituzione, per raggiungere più larghi settori sociali. Comunque, quando cominciò la lotta ar­mata, il Pd’A era ancora un partito in buona parte da costruire, non solo dal punto di vista delle posizioni politiche, ma soprattutto da quello delle strutture organizzative. La scelta compiuta a ridosso dell’8 settembre di intraprendere la strada della lotta partigiana, segnò fortemente l’attività del partito fra la fine del ’43 e l’inizio del ’44. Nella creazione delle formazioni, nel reclutamento de­gli uomini per la montagna, nell’approntamento dei servizi logistici indispensa­bili alla lotta, il Pd’A impegnò tutte le proprie forze. Se questa intensa atti­vità conquistò al Pd’A un posto di primo piano, accanto ai comunisti, nello schieramento delle forze combattenti, contribuì decisamente a porre sullo sfondo il problema di un’intervento organizzato in direzione delle diverse forze so­ciali.Fu con gli scioperi dell’autunno-inverno del ’43 che, almeno nel troncone set­tentrionale del partito, il Pd’A si pose il problema di elaborare quella politica operaia che abbiamo esaminato precedentemente e di dar vita ad un proprio diretto intervento nelle fabbriche. Pur non presente nell’organizzazione degli scioperi della fine del ’43, il Pd’A mostrò immediatamente grande interesse per essi, dedicando loro ampio spazio nella stampa di partito con articoli che esaltavano il significato « nazionale » più che quello di classe, della lotta ope­ra ia45. Può apparire quasi un paradosso, ma è un fatto indubbio che, almeno nel troncone centrosettentrionale del partito, fu soprattutto rivolgendosi alla clas­se operaia che il Pd’A cercò un proprio radicamento nella società.Il momento cruciale durante il quale il Partito d’azione mise alla prova le proprie potenzialità di mobilitazione e di intervento in fabbrica, fu in occasione dello sciopero generale del marzo 1944. In quella circostanza, unico fra i partiti anti­fascisti, il Pd’A dette un costante e coerente appoggio al Pei e al Comitato se­greto di agitazione, sia al momento della proclamazione della lotta che nel corso di essa. La stampa azionista proclamò, fin dal primo momento, l’adesione all’agi­tazione: il primo numero di « Voci d’officina » fu interamente dedicato allo scio-

44 G. de luna, Operai e consigli, cit., p. 227.45 Cfr. « L’Italia libera », edizione lombarda, 20 dicembre 1943; cfr. anche il numero datato novembre 1943 dell’« Italia libera » piemontese.

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pero generale, mentre neppure i socialisti si preoccuparono di pubblicare sul- 1’« Avanti! », l’appello del Comitato d’agitazione. Il taglio specifico che carat­terizzava l’adesione azionista non si esauriva nella propaganda delle tesi consi­liari. Il Pd’A si faceva portavoce della necessità di estendere la lotta oltre i con­fini della classe operaia, di coinvolgere altri settori sociali, interni ed esterni alla fabbrica, nel tentativo di realizzare, in questa agitazione, quella convergenza fra classe operaia e « ceti medi » che era considerata, come abbiamo visto, la base sociale fondamentale della « rivoluzione democratica ». Il volantino rivolto ai tecnici e agli impegati dell’industria che abbiamo citato più sopra fu pubbli­cato proprio a ridosso dello sciopero ed andava appunto in quella direzione. Nel­la stessa direzione andava anche la richiesta di porre lo sciopero sotto l’egida dei Cln, non solo formalmente, come richiedeva anche il Pei, ma attraverso un im­pegno in prima persona dei Comitati di liberazione nella preparazione di esso. Con l’intervento dei Cln, sosteneva il Pd’A, si sarebbe attenuato il carattere classista della lotta, favorendo l’adesione di altri strati sociali come gli impie­gati, la piccola borghesia commerciale ecc.Quando si trattò di tradurre in concreta pratica politica questa linea tattica, tut­te le debolezze politiche ed organizzative del partito vennero allo scoperto. A Torino, durante Io sciopero fu distribuito un solo volantino, mentre il diri­gente comunista Colombi, notava, in un rapporto successivo allo sciopero, che gli azionisti « nulla (avevano) fatto nella partecipazione e non (avevano) com­piuto nessuna azione militare durante lo sciopero malgrado le promesse » 4é. Più consistente fu, come al solito, l’impegno all’interno dei Cln. Nel Cln Regione Piemonte, fu il Pd’A che propose un manifesto, il quale, accollando a tutta la coalizione antifascista la paternità dello sciopero, respingesse il tentativo del pre­fetto di dividere il fronte antifascista, attribuendo la responsabilità dello scio­pero ai soli comunisti e minacciando la pena di morte per i comunisti notori46 47. La scadenza dello sciopero generale, ribadì quindi la « sproporzione tra l’impegno politico istituzionale del Pd’A, la sua azione in seno al Cln, e la sua presenza politica di massa » 48. Anche il tentativo di coinvolgere altri settori della popo­lazione a fianco della classe operaia, non sembra desse frutti eccessivamente bril­lanti. In un opuscolo di poco successivo allo sciopero, Vittorio Foa notava che lo sforzo di « allargare la base agitatoria fuori delle fabbriche » aveva ottenuto « scarsi risultati date le diffidenze degli altri partiti » 49. A Milano si assistè, in alcune situazioni, alla partecipazione degli impiegati allo sciopero, anche con funzioni di avanguardia, come alla Montecatini, alla Cerretti e Tanfani, alla Cassa di Risparmio e alla Edison. È probabile che in queste ed analoghe situazioni il Pd’A abbia svolto un ruolo significativo50. Ma fu proprio a Milano che i fascisti, nelle settimane seguenti allo sciopero, attraverso il lancio di un prestito pub­blico, « Per la Milano di domani », dimostrarono di raccogliere ancora un certo

46 Su Torino cfr. G. de luna , Operai e consigli, cit., pp. 215-217, da cui è tratta la citazione di Colombi.47 Cfr. raimondo luraghi, Il movimento operaio torinese durante la Resistenza, Torino, Ei­naudi, 1958, pag. 188.48 G. de luna, Operai e consigli, cit. pp. 215-216.49 Carlo inverni (Vittorio foa), 1 partiti e la nuova realtà italiana (La politica del CLN), « Quaderni dell’Italia libera », nuova serie, senza luogo di stampa, 1944, n. 1, p. 70.50 Cfr. Rapporto sullo sciopero generale del 1° marzo a Milano e provincia, in Adolfo scal­p e l l i, Scioperi e guerriglia in Val Padana (1943-1945), Urbino, Argalia 1972, pp. 41-68; Il Rap­porto è opera del Comitato federale milanese del PCI; cfr. anche « L’Italia libera » ed. lombarda del 7 marzo 1944.

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consenso fra settori di « ceto medio » 51. Pure a Firenze, l’impegno che il partito aveva preso di una partecipazione attiva allo sciopero, cercando di « organizza­re anche la resistenza e la solidarietà degli artigiani, bottegai, impiegati ecc. » per evitare « l’isolamento della minoranza operaia » non fu mantenuto. Il 10 marzo Ragghianti scriveva a Valiani che, nello sciopero generale, il Pd’A non « aveva avuto alcuna parte (ed è grave) », giustificando questa assenza con la crisi che aveva investito l’organizzazione clandestina azionista a seguito di al­cuni arresti52.Lo sciopero generale del marzo 1944, insomma, se sul piano politico mise in evi­denza la difficoltà che incontrava il progetto di convergenza fra operai e « ceti medi » nei termini perseguiti dal Pd’A, sul piano organizzativo rivelò la debolez­za di radicamento del partito non solo all’interno delle fabbriche, ma anche nei settori di « ceto medio » urbano ai quali, pure, apparteneva la maggior parte degli aderenti al partito53.Per quanto riguarda questi settori sociali, d’altra parte, se è vero che è diffi­cile individuare nell’elaborazione politica specificatamente diretta alla conquista e all’organizzazione dei « ceti medi » che sia qualcosa di originale e distinto dal­l’ideologia e dalla strategia del partito, ciò vale a maggior ragione per i primi mesi della lotta di liberazione, durante i quali l’unica iniziativa in questa dire­zione fu praticamente la battaglia contro il giuramento imposto dalla Repubblica sociale italiana ai funzionari e agli impiegati dello stato. Fu durante l’estate del ’44, in coincidenza di una complessiva precisazione della propria linea politica, che gli azionisti settentrionali si posero il problema dell’organizzazione di strati sociali piccolo e medio borghesi. La scelta ciellenistica del partito diventò, in quei mesi, sempre più netta e definita, con la conseguenza di trasferire l’asse cen­trale della « rivoluzione democratica », dalla fabbrica, dove gli azionisti sembra­vano averlo collocato, almeno durante la tornata di lotte culminate nel marzo, alla società più in generale, facendo perno sulle istituzioni del movimento di Re­sistenza: i Cln, da quelli regionali e provinciali a quelli di base, e le organizza­zioni di massa. In questo contesto anche le tesi consiliari passarono in secondo piano, insieme allo sfumarsi, nella strategia della « rivoluzione democratica », delle tematiche economico-sociali. La decisa scelta ciellenistica, poneva sul tap­peto tematiche più squisitamente istituzionali e faceva della rifondazione dello stato il nodo centrale della lotta di liberazione nazionale.Fu proprio nella costruzione di Cln di categoria, di professione e via dicendo che si concretizzò lo sforzo diretto all’organizzazione dei « ceti medi ». Una lettera di Valiani, nel luglio del ’44, testimoniava di questo tentativo e delle difficoltà che

51 Cfr. luigi ganapini, Milano, in Operai e contadini nella crisi italiana del 1943-1944, Mi­lano, Feltrinelli, 1974, pp. 190-192.52 Ragghianti a Valiani, 27 febbraio 1944 e Ragghianti a Valiani, 10 marzo, in Una lotta nel suo corso, cit., rispettivamente p. 50 e p. 64.53 La presenza azionista nelle fabbriche restò debole anche successivamente. Nel febbraio 1945, a Torino su otto Comitati d’agitazione di grandi fabbriche il P. d’A. era presente in due, alla Grandi Motori e all’Aeronautica; il mese successivo, veniva segnalata una presenza azionista soltanto in due CLN di fabbrica, sempre alla Aeronautica e alla Riv di Villar Perosa. Cfr. In­formazioni dal Piemonte 10-12 febbraio e Informazioni dal Piemonte, 5-10 marzo 1945, in appen­dice a Giorgio amendola, Lettere a Milano, Roma, Editori Riuniti, 1973, rispettivamente p. 608 e pp. 679-680.A Milano, sempre secondo una fonte comunista, il 9 marzo 1945 gli azionisti erano presenti in 11 CLN di fabbrica su 41, a Sesto San Giovanni in 3 su 7. Cfr. Informazioni da Milano, in Pietro secchia, Il Partito Comunista e la guerra di liberazione, 1943-1945, Milano, Annali Fel­trinelli, XIII, 1973, p. 973.

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esso incontrava: « Tra i professionisti — scriveva il dirigente azionista — siamo numerosi come al solito, ma questo ceto non è ancora galvanizzato come po­trebbe essere, ora stiamo creando associazioni degli studenti, dei professori, degli avvocati e dei giudici » 54.Una delle poche iniziative intraprese su questo terreno fu la fondazione dell’Unio­ne dei tecnici italiani. L’Uti si proponeva di organizzare sulla base della loro pro­fessionalità e degli interessi sindacali e culturali che essa comportava, i tecnici, laureati o diplomati di scuole medie superiori (ingegneri, architetti, geometri, chimici, periti industriali, ecc.), sia che esercitassero la libera professione, sia che fossero dipendenti di aziende industriali. Come organizzazione di difesa sindacale l’Uti voleva restituire alla categoria quella forza contrattuale che essa era andata perdendo con la guerra e con la ripresa delle lotte operaie. I tecnici, scriveva il bollettino dell’Unione, « stretti fra le necessità dei Sindacati operai e le neces­sità dei Sindacati padronali sono tante volte (come ad esempio oggi) sacrificati e ridotti in situazioni economicamente precarie, non corrispondenti neppure a quel­le elementari necessità di vita quasi sempre corrisposte agli operai » 5S.Il programma scientifico e culturale si proponeva, a sua volta, « di promuovere il progresso della tecnica e di stimolare i tecnici italiani a raggiungere il più alto grado di perfezionamento, riunendoli e fondendone gli intenti allo scopo di porre la tecnica al servizio della collettività » 56.L’insistenza nell’esaltazione delle caratteristiche professionali ed intellettuali dei tecnici non andava esente da rischi di corporativismo e da tentazioni tecnocra­tiche, fino a richiedere che « nell’ambito delle nuove istituzioni che regoleranno il paese » fosse assicurata alla « Tecnica » quella « funzione direttiva che le com­pete ». Con ciò si voleva evidentemente sottintendere un progetto politico che rivendicasse a questi strati sociali un ruolo dirigente nella ricostruzione econo­mica e nella creazione del nuovo stato democratico. Sotto questo aspetto, quindi, l ’Uti rappresentava « il risvolto sindacale della teorizzazione del Pd’A come « partito dei ceti medi » 57.Gli azionisti volevano fare dell’Unione dei tecnici una forte associazione e vi pro­fusero un impegno non disprezzabile. Nel comitato direttivo dell’Unione vi erano dirigenti del partito di rilievo locale e nazionale, come Lombardi e Savelli, ad indicare l’alta considerazione nella quale l’associazione veniva tenuta. Dopo la liberazione dell’Italia settentrionale si cercò di estendere l’associazione da Mi­lano, dove era nata nella clandestinità, al resto d’Italia, creando sezioni in grandi città come Firenze e Roma. L’intenzione era di fare dell’Uti una organizzazione di massa riconosciuta dal Clnai ed ammessa almeno nei Cln aziendali. Questo progetto non si realizzò per l’ostilità degli altri partiti di sinistra e l’associazione,

54 Lettera di Giuseppe (L. Valiani) a Tito (A. Damiani), in Istituto per la Storia del Movi­mento di Liberazione (ISML), Carte Damiani, Busta 1, fase. 2. Cfr. anche gli accenni dello stesso LEO valiani in Tutte le strade conducono a Roma, Firenze, La Nuova Italia, 1947, pag. 286.55 L’Unione Tecnici Italiani: cos’è e cosa vuole, in « Bollettino dell’UTI », novembre-dicembre, 1944, n. 1, p. 2.56 UTI, Principi di Etica, Programma scientifico e culturale ecc. in ISRT, Fondo Pd’A, b. 16.57 Cfr. G. de luna, Operai e consigli, cit. p. 223. Per quella duplicità di interpretazioni che, come abbiamo già visto, caratterizzava le elaborazioni azioniste, dello sforzo associativo dei tec­nici veniva data anche una versione anticapitalistica, come mezzo per staccare questi strati sociali dalla borghesia e per portarli nell’orbita delle classi lavoratrici: « organizzandosi i tecnici in anti­tesi ai datori di lavoro essi vengono a sganciarsi dall’influenza di questi per schierarsi interamente e definitivamente nel campo dei lavoratori accanto agli operai». L'Unione dei Tecnici e il suo programma, ISRT, Fondo Pd’A, b. 16.

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dopo aver conosciuto un certo successo subito dopo la liberazione, si andò svuo­tando di contenuto. L’Uti non riuscì ad avere quelPampia risonanza che gli si era cercata di dare e restò un’organismo strettamente legato al Pd’A 58.Le difficoltà che gli azionisti incontravano nel loro tentativo di attivizzazione poli­tica dei « ceti medi », trasparivano ripetutamente dalla stampa del partito. Nel giugno ’44, ad esempio, « L’Italia libera » torinese lamentava che « l’apporto dato a questa lotta senza quartiere da commercianti, artigiani, impiegati, profes­sionisti è veramente scarso. Anche se qualcuno tra questi si è votato compieta- mente alla causa si tratta di pochi elementi » 59.Alcuni documenti interni davano giudizi ancor più drastici su singole categorie, denunciando sia l’assenteismo degli impiegati dalle lotte operaie che il paras­sitismo e l’egoismo dei commercianti, verso la recuperabilità dei quali ad atteg­giamenti democratici venivano avanzate serie riserve60.Era il problema di come la piccola e la media borghesia stava attraversando la crisi sociale e politica provocata dalla guerra e dalla sconfitta del fascismo, che queste analisi azioniste sollevavano. Questa tematica, certo di estremo inte­resse storico anche attualmente, è stata tanto poco studiata che su di essa non è possibile formulare che poche schematiche ipotesi che abbisognano di molti ap­profondimenti. Vi sono alcuni elementi che spingono a ritenere significativa la partecipazione alla lotta armata di liberazione nazionale, da parte di alcuni set­tori di « ceto medio ». I dati che si conoscono sulla composizione sociale delle formazioni partigiane sono, a questo proposito, abbastanza illuminanti. Il saggio, ormai classico, di Giovana sulle formazioni gielliste piemontesi, tanto più interes­sante proprio perché volto ad esaminare formazioni direttamente collegate al Pd’A, quantifica l’apporto dei « ceti medi » alla Resistenza. Secondo questi dati, nelle formazioni gielliste piemontesi, accanto al 30 per cento di operai e al 20 per cento di contadini, vi era l’11,7 per cento di artigiani, il 5,3 per cento di pro­fessionisti, il 4,1 per cento di commercianti e il 10 per cento di impiegati, per un totale di 31,1 per cento, che arrivava al 45 per cento aggiungendo studenti ed uffi­ciali di carriera. Queste cifre dimostrano una consistente partecipazione alla lotta armata soprattutto per alcune categorie, come i professionisti e gli artigiani61.Dati inferiori, ma ugualmente significativi, sono quelli raccolti nell’Indagine sulla composizione sociale delle formazioni bergamasche, secondo i quali nelle tre bri­gate che operavano nella zona (due Gl ed una Garibaldi) vi erano percentuali di artigiani, impiegati, commercianti, oscillanti, rispettivamente, attorno al 7 per cento, per i primi, al 10 per cento, per i secondi, e al 2 per cento per gli ultimi. I liberi professionisti qui non raggiungevano sempre l’I per cento, mentre gli studenti erano circa il 4 per cento. In totale le categorie assimilabili al « ceto medio » davano un apporto valutabile intorno al 20-25 per cento del totale dei combattenti62.

58 Cfr. Lettera della segreteria sindacale Alta Italia al Comitato Esecutivo, per l’Italia centro­meridionale, luglio 1945, ISRT, Fondo P d’A, b. 16.59 II problema della piccola borghesia, in « L’Italia libera», ed. piemontese, giugno 1944, n . 3.60 Cfr. i documenti del Pd’A torinese sui « ceti medi » illustrati in G. de luna, La rivoluzione democratica, cit., p. 43.61 M ARIO giovana, La composizione sociale delle formazioni « GL » in Piemonte, in « Il mo­vimento di liberazione in Italia », gennaio 1951, n. 10, pp. 20-29.62 angelo bendotti, giuliana bertacchi, Carla chiodi, Indagine sulla composizione sociale delle formazioni bergamasche, in « Studi e ricerche di storia contemporanea » Rassegna dell’Isti­tuto bergamasco per la storia del movimento di liberazione, novembre 1977, n. 10; giugno 1978, n. 11; febbraio 1979, n. 12.

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Altri elementi, invece, e fra questi lo stesso fallimento di alcune ipotesi e di al­cuni tentativi azionisti — come quello attuato nello sciopero generale del marzo 1944 — mostrano come in altri ambiti la partecipazione dei « ceti medi » fu ri­dotta al minimo. In particolare, notevolmente inferiore rispetto al contributo dato alle formazioni partigiane fin quasi a giungere all’assenza totale, fu l’apporto che la piccola e la media borghesia dette alle lotte sociali che accompagnarono tutto il corso della Resistenza. Sembra, insomma, non troppo azzardata un’ipotesi che del comportamento dei « ceti medi » durante i mesi della Resistenza metta in risalto l’indubitabile spostamento a sinistra di alcuni settori piccolo-borghesi, so­prattutto intellettuali, ma nello stesso tempo sottolinei come questi settori resta­rono tutto sommato minoritari, esaurendo quasi essenzialmente nell’apporto da­to alla lotta armata la loro radicalizzazione politica63 64.In fondo era questo il modello che descriveva, in un’analisi pubblicata sui « Nuovi quaderni di Giustizia e libertà », Giorgio Diena, nell’ottobre 1944, sottolineando come ad una classe operaia capace di esprimere alti livelli di combattività si con­trapponesse un comportamento assai diverso dei « ceti medi ». Fra questi ultimi c’erano, a suo giudizio, ampi strati « anziani e maggiormente burocratizzati », nei quali si notava « una completa assenza di capacità di iniziativa » accanto a settori giovanili, « sani e con abitudini più indipendenti », che si dimostravano invece « in piena rivolta », partecipando « con tutte le loro energie alla lotta anti­fascista » e alimentando « i quadri della lotta partigiana e dei partiti » M.Era, questa, un’analisi che confermava quanto l’attivizzazione politica in senso progressista degli strati piccolo e medio borghesi fosse minoritaria e come, quin­di, molte delle analisi e delle ipotesi politiche azionistiche, che postulavano un profondo spostamento a sinistra dei « ceti medi », non avessero che uno scarso riscontro nella realtà.

Il Pd’A nell’Italia liberata fra il 1944 e il 1945

L’evento politicamente più significativo per la vita del Pd’A dopo la liberazione di Roma fu certamente il congresso dell’organizzazione centromeridionale, tenu­tosi a Cosenza nei primi giorni dell’agosto 1944. Con la vittoria dell’ordine del giorno « socialista » di Lussu il congresso vide la clamorosa sconfitta della destra azionista capeggiata da La Malfa, il quale, pure, il mese prima aveva visto pre­valere le proprie idee nella stesura, da parte dell’esecutivo romano, del nuovo programma del partito in 16 punti65. La sconfitta di La Malfa rivelò chiaramente come il tipo di partito, che si era venuto formando a partire dal 25 luglio 1943, era molto diverso da quello del periodo successivo alla fondazione e mal incar­nava, nella base sociale che esprimeva e nelle sue tendenze, il progetto politico perseguito dalla destra. Insomma, la sorpresa per coloro che, come La Malfa, erano stati i principali artefici della fondazione del partito non dovette essere

63 Per un ridimensionamento del contributo dei « ceti medi » alla Resistenza si è pronunciato anche massimo legnani, La sociélé italienne et la Résistance, in « Revue d’Histoire de la deux- ième guerre mondiale », ottobre 1973, n. 92, pag. 47.64 Pietro pautassi (Giorgio diena), I problemi permanenti della politica del P. d’A., in «Nuovi quaderni di Giustizia e Libertà», luglio-ottobre 1944, n. 2-3, pp. 133-134.65 I Punti programmatici fondamentali del Partito d’azione furono pubblicati su « L’Italia libera », ed. romana, anno II, 19 luglio 1944, n. 59. Anche ad un esame superficiale si può con­statare come i 16 punti rappresentassero una mediazione fra i 10 punti di La Malfa e i 21 punti di Lussu, con una netta prevalenza dei primi sui secondi.

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poca: essi si trovavano ad avere adesso a che fare con un’organizzazione politica molto distante da quella che avevano voluto creare con la fondazione del Pd’A. Anche la nuova versione del progetto che aveva presieduto a quella fondazione, data da La Malfa al congresso e ripresa nei mesi successivi, con la proposta di varare una Concentrazione democratico-repubblicana, come primo passo verso un grande partito di centro che raccogliesse azionisti, socialisti, repubblicani e con­sistenti frange della Democrazia cristiana, ebbe un ben scarso successo. Opposi­zioni vennero, alPinterno del partito, da parte di Lussu e della corrente liberal­socialista, mentre all’esterno, l’idea fu bocciata rapidamente da democristiani e socialisti.La proposta di La Malfa era anche un tentativo di aggirare le difficoltà organiz­zative che il partito incontrava di fronte alla forza dei cosiddetti « partiti di mas­sa ». Appena fu quantificabile la consistenza del partito non apparve molto rile­vante66. A Firenze, nell’ottobre ’44, gli iscritti al partito avevano raggiunto la cifra di 900, che lo stesso Codignola giudicava « cifra bassissima di fronte alla complessità del nostro lavoro » 67. Nel capoluogo toscano il partito era per consi­stenza superiore soltanto ai liberali di gran lunga inferiore a comunisti e demo- cristiani. Anche nel resto della Toscana la situazione non era molto migliore. Al 31 dicembre ’44 gli iscritti a Siena erano 115, 200 circa nel resto della provincia68; ad Arezzo gli iscritti erano circa 6069. A Pisa la situazione era migliore: nel marzo 1945 vi si contavano circa 200 iscritti in città e 500 in tutta la provin­cia 70.In altre zone si assistè ad un fenomeno certo non previsto dai dirigenti azionisti. Il Partito repubblicano storico, appena ricostituito, dimostrò di avere, in quelle regioni che vantavano una antica tradizione repubblicana, un consistente seguito. A Grosseto, a fronte di 400 iscritti repubblicani, vi erano nel febbraio ’45 solo 37 azionisti71. A Livorno, invece, subito dopo la fondazione del partito repub­blicano, avvenne una sorta di fusione, o meglio, di « inqualificabile incapsula­mento », della sezione del Pd’A nel Partito repubblicano, come ebbe a scrivere un militante azionista72. Ad Ancona c’era una situazione inversa rispetto alle pre­cedenti: il partito, abbastanza numeroso, contava circa 1500 iscritti di prove­nienza in gran parte repubblicana. Questa ascendenza pesava però fortemente sull’identità del partito, che qui si caratterizzava per un costante riecheggiamento delle « tradizioni mazziniane e risorgimentali » 73Anche nel meridione si assistè ad un « rapido declinare delle fortune del Pd’A » 74.

66 « Il partito - scriveva Garosci in una lettera ai compagni settentrionali - non ha, senza dubbio, mantenuto nel primo periodo di attività politica libera, quel che sembrava se ne potesse attendere in periodo clandestino [...] Numericamente, il partito non viene in testa nei grandi cen­tri, neppure in quelli in cui sembrava avesse acquistato importanza dominante »: Lettera di Aldo Garosci, senza destinatario e senza data (ma probabilmente fine nov. ’44), in 1SLM, Fondo CLNAI, b. 8.67 Relazione al C.E. centrale sulla situazione del P d’A a Firenze e in Toscana, ottobre 1944, in ISRT, fondo Pd’A, b. 20. L’autore della relazione è Codignola.68 Relazione del Comitato esecutivo senese, 31-12-44, ISRT, b. 33.69 Relazione del comitato provinciale di Arezzo, 12-12-44, ISRT, Fondo Pd’A, b. 32.70 Note informative su Pisa, 29-3-45, ISRT, Fondo Pd’A, b. 32.71 Relazione del Comitato esecutivo di Grosseto, febbraio '45, ISRT, Fondo Pd’A, b. 32.72 Relazione di Romolo Biotti su Livorno, 6-11-45, ISRT, Fondo Pd’A, b. 32.73 Relazione di Sergio Baratimi sulla situazione generale dei partiti nella zona di Ancona eprovincia, 12-10-44, ISRT, Fondo Pd’A, b. 20.74 Cfr. A. alosco. Il Partito d’azione a Napoli, cit., p. 117. Secondo i dati forniti al Congresso di Cosenza da Schiano, il Pd’A poteva contare, in quel momento, su 524 sezioni le quali avevano

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Numerose furono infatti le sezioni che passarono in blocco al Partito socialista, co­me quella di Marano, la più forte, con i suoi 800 iscritti, di tutta la provincia di Napoli. Questo fenomeno era indice di come il Pd’A si fosse spesso trovato a rac­cogliere la vecchia tradizione socialista, in assenza di una adeguata riorganizzazio­ne del partito socialista. Adesso che però questo si ricostituiva il Pd’A ne subiva tutte le conseguenze, mentre anche le divisioni registrate a Cosenza offrivano, pro­babilmente, ulteriore impulso alla crisi organizzativa.Alla scarsa consistenza quantitativa del partito contribuiva in modo sensibile anche la gracilità dell’apparato organizzativo. Privi di continuità erano i rapporti fra cen­tro e periferia, pochissimo curato, dagli organismi dirigenti, lo sviluppo capillare del partito; le organizzazioni locali si trovavano spesso isolate, mentre l’assenza di centralizzazione e di iniziative unificanti, aggravava la già pur notevole disomo­geneità del Pd’A. Voci di protesta e di denuncia per questa situazione si levavano soprattutto dalla sezione fiorentina. Piero Calamandrei rientrando nel settembre ’44 da Roma, lamentò di fronte all’esecutivo del capoluogo toscano « la mancanza nell’esecutivo centrale dì una seria attività organizzativa » e in particolare l’assenza di una adeguata iniziativa per lo sviluppo « dell’organizzazione provinciale » 7S. Po­chi mesi dopo una Dichiarazione della Direzione politica fiorentina formulava un’accorata denuncia:

l’assoluta deficienza di un qualsiasi indirizzo organizzativo, la manifesta inadeguatezza degli organi ed uffici centrali, la mancata diffusione della stampa, la carenza di un con­tatto costante, animatore e direttivo fra centro e periferia, il distacco che continuamente si approfondisce fra Direzione e sezioni, disgustano ed amareggiano profondamente tutti i compagni che hanno occasione di tenere rapporti con la Direzione del partito. Il senso di rilassamento che si nota in gran parte del partito, specialmente al Centro, è l’effetto di questa situazione e può produrre alla fine conseguenze fatali76.Se per le vicende interne al partito, il Congresso di Cosenza fu l’evento centrale seguito alla liberazione di Roma, sul terreno dell’intervento « sociale » l’evento più importante fu l’esclusione del partito dal « patto di Roma ». La polemica aper­ta dal partito contro la propria emarginazione dagli organi dirigenti della Cgil non sortì l’effetto sperato. Il veto nei confronti del Pd’A rimase, aggravato, agli occhi degli altri partiti, soprattutto del Pei, dalla posizione che esso aveva assunto nello scontro fra la Confederazione romana e la Cgl delineatosi rapidamente. Evidentemente il Pd’A pensava di poter recuperare una propria presenza nelle strutture dirigenti del sindacato attraverso i militanti azionisti della Cgl napole­tana. Ma alla proposta di quest’ultima di tener in vita una struttura sindacale meridionale autonoma fino al momento in cui si fosse potuto svolgere un libero

oltre 100 mila aderenti di cui 80.000 tesserati (cfr. « L’Azione », edizione meridionale dell’« Italia libera», 15 agosto 1944, n. 19). Si trattava, come si vede, di dati tutt’altro che disprezzabili che danno l’idea di uno sviluppo non indifferente del partito nelle regioni meridionali fra il ’43 e il ’44.75 Cfr. Verbale della seduta del Comitato Esecutivo fiorentino, 1-9-44, ISRT, Fondo Pd’A, b. 25.76 Dichiarazione della Direzione politica fiorentina al Consultivo nazionale dell’l 1-3-45, ISRT, Fondo Pd’A, b. 29. Neppure dopo la liberazione del nord la situazione organizzativa del partito migliorò. Scriveva, ad esempio, Schiavello, segretario del Comitato sindacale nazionale nel novembre 1945: « Nelle mie recenti visite fatte in Piemonte, nel Veneto, nell’Emilia e nella Romagna ho dovuto constatare un’impressionante disorganizzazione del Partito, scetticismo e de­moralizzazione fra i dirigenti e fra i soci, la completa assenza di ogni forma di vitalità nel campo politico [...] Nelle singole federazioni desolazione assoluta. Segretari assenti, comitati direttivi abulici, senso di demoralizzazione generale ». Lettera senza firma (ma sicuramente di Schiavello) alla Segreteria del Pd’A, 21-11-45, ISRT, Fondo Pd’A, b. 16.

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e democratico congresso di unificazione77, Di Vittorio, Lizzadri e Grandi rispo­sero negativamente, affermando che quel disegno non aveva « altro scopo che quello di salvaguardare ad ogni costo alcune posizioni personali precostituite in condizioni eccezionali, prima della liberazione di Roma »78. Dopo aspre polemi­che ed altri tentativi di accordo, la lunga vertenza si chiudeva nel modo più in­glorioso per l’organizzazione napoletana. In una lettera del 18 agosto 1944 la Cgil annunciava il proposito di rompere le trattative di unificazione, dopo che tutte le Camere del lavoro esistenti nel Mezzogiorno, esclusa solo quella di Saler­no e compresa quella di Napoli, avevano dato la loro adesione alla Confederazio­ne romana79 *. In un convegno tenuto a Napoli il 27 agosto la Cgl decideva così il proprio autoscioglimento e la confluenza nella Cgil. Anche il Pd’A, in una di­chiarazione della propria Direzione centrale, annunciava, alla fine di agosto, che avrebbe lavorato senza riserve, in nome dell’unità sindacale nelle strutture della Cgil, « per dimostrare che nelle Camere del Lavoro, nelle Commissioni Interne, i posti si conquistano dal basso e non dall’alto » *°.Di tutte queste violente polemiche sul terreno sindacale rimase al Pd’A l’imma­gine scissionista, che gli si era voluta attribuire, soprattutto da parte dei comu­nisti, nei momenti più accesi del dibattito, immagine, che, d’altra parte, resta an­cora da appurare quanto corrispondesse a tentazioni effettivamente ricorrenti al­l’interno del partito81.

Il Pd’A alla vigilia del Congresso di Roma

a) La composizione sociale del partito. Dopo questa schematica disanima di qualche aspetto dello sforzo azionista di radicamento in alcuni settori della società italiana, resta da porsi una domanda fondamentale: quale era la composizione so­ciale del partito, che tipo di strati sociali si accostò ad esso durante la lotta di Resistenza e nei mesi successivi? Le difficoltà che si incontrano nell’articolare una risposta a questa domanda sono quelle che già abbiamo accennato all’inizio del saggio: l’assenza di statistiche complessive limita qualsiasi tentativo che voglia fondarsi non su affermazioni generiche ma su dati di fatto reali. Si può rimediare a questi inconvenienti utilizzando alcune rilevazioni locali, le quali se non offro­no risposte definitive, permettono però di formulare ipotesi realistiche. I dati che abbiamo potuto raccogliere sono assai limitati: essi si riferiscono alla sezione to­rinese del partito e a sette federazioni su nove della Toscana, per un totale di 8033 iscritti. Questi dati, oltre ad abbracciare una percentuale esigua degli iscritti al partito (circa il 3 per cento sui 267.000 tesserati denunciati al Congresso di Roma del febbraio 1946) contengono molte carenze (ad esempio mancano i dati

77 Cfr. Lettera della CGL alla CGIL, 4-7-44, ISRT, Fondo Bianconi. Questa lettera, come la successiva, è anche pubblicata in p. bianconi, 1943: la CGL sconosciuta, cit., pp. 148-156.78 Lettera alla CGL firmata Di Vittorio, Lizzadri, Grandi, 12-7-44, ISRT, Fondo Bianconi.80 La CGIL e il P d’A, in « L’Italia libera », ed. romana, 3 settembre 1944, n. 97.81 Durante un viaggio a Roma di Gentili nel luglio del 1944 si tennero alcune riunioni fral’esponente azionista e i rappresentanti di vari partiti e movimenti esclusi dal « patto di Roma », come il Movimento comunista d’Italia, il PRI, la Democrazia liberale per verificare l’ipotesi della fondazione a Roma di un’autonoma organizzazione sindacale legata alla CGL napoletana. Cfr. i Verbali di queste riunioni in ISRT, Fondo Bianconi. Cfr. inoltre l’accenno contenuto in una Relazione di anonimo (Codignola?) all’Ulficio Sindacale fiorentino 23-8-45, laddove si accenna al fatto che « Pierleoni sta preparando le basi di un movimento sindacale democratico per il quale dispone di 250.000 lire », in ISRT, Fondo Pd’A, b. 23.

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di diverse sezioni delle federazioni toscane, di Firenze abbiamo solo il capoluogo), ma hanno anche alcuni pregi. Essi si riferiscono a realtà sociali variamente di­versificate, comprendendo una città industriale con forte concentrazione operaia come Torino, città con preponderanza di attività terziarie, come i capoluoghi to­scani, medi centri di provincia e, infine, piccoli paesi prevalentemente agricoli. Inoltre essi si collocano nella loro maggioranza nello stesso arco temporale, fra la fine del ’45 e i primi mesi del ’46, a ridosso del Congresso nazionale, offrono quindi l’immagine della composizione sociale del partito nel momento in cui es­so ha praticamente raccolto tutti i frutti del proprio impegno nella lotta di Resi­stenza, sia come numero di iscritti che come radicamento nella società. Insomma riteniamo che le ipotesi ricavabili da questi dati possano essere estese, con buona approssimazione, almeno all’intero Pd’A delle regioni centrosettentrionali.La prima caratteristica che salta subito agli occhi dall’esame delle tabelle 1 e 2 è l’estrema eterogeneità della composizione sociale del Partito d’azione, il quale po­teva contare su percentuali proporzionalmente consistenti sia di operai che di impiegati, di professionisti come di industriali. L’anonimo autore della relazione da cui sono tratti i dati torinesi vedeva in ciò una peculiare e positiva caratteri­stica del partito, notando che le percentuali degli iscritti « corrispondono alla di­stribuzione percentuale in categorie della città di Torino, sì che si può conclude­re che nella città di Torino il Pd’A non ha fisionomia di organizzazione politica prevalente di una classe o di una categoria » 82.L’altro dato significativo è la percentuale tutt’altro che disprezzabile di iscritti di origine operaia e, in alcune limitate situazioni (come ad esempio nella provincia di Pistoia), di origine contadina. Se il dato di Carrara con il suo 40 per cento di operai indica una situazione certo eccezionale dovuta al confluire nel Pd’A di forze di origine anarchica, è però vero che nelle altre province toscane la per­centuale operaia resta attestata sul 20 per cento circa, raggiungendo il 27 per cento a Torino. L’interna stratificazione di questa componente operaia rivela ugualmente caratteristiche interessanti: a Torino, gli operai azionisti si distingue­vano spesso per la loro appartenenza alla gerarchia di fabbrica: « capi officina, capi reparto, capi squadra, operai che si sollevano dalla massa amorfa del loro compagni ». Quest’ultima caratteristica si ritrovava anche in altre situazioni, co­me ad esempio a Livorno, dove erano iscritti o facevano riferimento al Pd’A « operai specializzati o in genere quelli con una certa cultura » 83. A Firenze, sep­pure la categoria numericamente più forte fosse quella dei metallurgici, con 60 iscritti ed una presenza abbastanza qualificata in almeno una delle maggiori fab­briche cittadine, la Galileo, la maggioranza degli operai era rappresentata da di­pendenti di piccole fabbriche e laboratori o da lavoratori designati come autisti, magazzinieri, camerieri ecc. Questo era il caso un po’ di tutto il resto della To­scana, a parte la situazione, ancora una volta di Carrara, dove il Pd’A traeva buona parte dei propri iscritti operai dalla categoria tipica della zona, i cavatori delle Apuane.La discreta presenza operaia e popolare all’interno del Pd’A seppure di settori marginali rispetto al nucleo fondamentale della classe operaia, il proletariato del­le grandi fabbriche, aggiunge evidentemente, a quelle di ordine politico-ideolo­

82 Rapporto sulla situazione in provincia, senza autore e senza data, ma fine ’45, in AISRP, PA/gv 7.83 Per la caratterizzazione del quadro di fabbrica torinese, cfr. g. de luna, Operai e consigli, cit., p. 225, anche per la citazione tratta da un documento del maggio '44; per Livorno, Relazione di Romolo Biotti, cit.

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gico, una motivazione « sociologica », nella spiegazione della collocazione nell’ar­co delle forze antifasciste del Partito d’azione. Ne risulta più intelliggibile sia il netto schieramento a sinistra del partito che l’attrazione esercitata su di esso, so­prattutto alla base, dai partiti socialista e comunista. Nello stesso tempo le posi­zioni socialiste, nelle diverse sfumature, rivelano di non essere semplicemente del­le astratte elaborazioni ideologiche di alcuni dirigenti, ma di avere, nella com­posizione sociale del partito, un proprio retroterra che ne costituisce anche la forza rispetto alle posizioni liberaldemocratiche della destra.La pur discreta presenza operaia non eguagliava certamente quella, molto più massiccia, di categorie appartenenti ai cosiddetti « ceti medi ». Notevole era la pre­senza di impiegati, di insegnanti, di liberi professionisti, discreta quella di com­mercianti ed artigiani. Aggregando ulteriormente i dati delle tabelle si può mostra­re meglio questa prevalenza. Gli iscritti appartenenti a quelli che, con una certa approssimazione, definiremo « strati inferiori del ceto medio », raggiungevano il 25 per cento nelle province toscane e il 30 per cento a Torino 84. Gli « strati supe­riori », cioè professionisti e funzionari, erano il 12,2 per cento a Torino e il 7 per cento in Toscana. La piccola iniziativa privata, commerciale ed artigiana, raggiun­geva la percentuale del 15,9 a Torino e quella più elevata del 17,3 per cento in Toscana. In totale tutte queste categorie erano circa il 50 per cento nelle province toscane (che diventava il 57,7 per cento aggiungendo gli studenti) e a Torino il58,1 per cento. Per quanto riguarda la Toscana, queste percentuali aumentano notevolmente se ci riferiamo ai soli capoluoghi di provincia8S.Queste cifre dimostrano come i cosiddetti « ceti medi », in particolare la piccola e la media borghesia delle professioni intellettuali (impiegati, insegnanti, profes­sionisti, studenti) fossero largamente maggioritari all’interno del Pd’A. Questa preponderanza sulla pur consistente presenza operaia e popolare si ricava anche dall’analisi della composizione sociale delle strutture dirigenti di sezione, le qua­li, poi, in un partito come il Pd’A. dalle molte caratteristiche di partito d’opinio­ne e dalla scarsa partecipazione degli iscritti alla vita di partito, rappresentava­no il vero e proprio quadro attivo su cui si reggeva l’organizzazione. La tabella 3, che raccoglie il risultato di un’indagine su 153 membri di Comitati esecutivi e segretari di sezione delle provincie toscane, indica chiaramente come, rispetto alle percentuali sull’intero corpo dei militanti, vi sia, in quest’ambito, una netta diminuizione per quanto riguarda gli operai (su cui, d’altra parte, influisce no­tevolmente il dato di Carrara con il 28 per cento circa di dirigenti operai) e un forte aumento nelle categorie piccolo e medio borghesi. Notevole, ad esempio, il ruolo svolto a livello dirigente da professionisti, da studenti e da impiegati.Nè percentualmente, ma neppure, probabilmente, in cifra assoluta gli altri par­titi di sinistra avevano al loro interno una rappresentanza di « ceto medio » pa­ri a quella del Pd’A. Se Morandi al Congresso socialista dell’aprile 1946 affer­mava che nello Psiup gli impiegati raggiungevano il 5 per cento degli iscritti e i professionisti erano l’I per cento, dai dati sulla composizione sociale del Pei nel ’45 risulta, invece, che professionisti, intellettuali, insegnanti raggiungevano insieme lo 0,6 per cento; gli impiegati ammontavano al 3,6 per cento, gli arti­

84 Per la Toscana, queste cifre sono ottenute aggregando le percentuali di insegnanti, impie­gati e militari, per Torino si riferiscono al solo dato degli impiegati. Questa aggregazione è molto approssimativa e, lo ripetiamo, ha un valore più illustrativo che scientifico.85 Nei capoluoghi toscani la percentuale di «ceti medi» si aggirava sul 70-75%, andando da un minimo di 61,8% a Massa (73,4% con gli studenti) ad un massimo del 78% a Grosseto (96% con gli studenti).

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giani e gli esercenti erano il 3,7 per cento e gli studenti lo 0,6 per cento. Insieme queste categorie erano l’8,5 per cento del partito 86.Partito ancorato alla sinistra per ragioni sociali, ideologiche e politiche, il Pd’A era, quindi nella sinistra, la forza politica che annoverava al proprio interno il più consistente apporto di ceti piccolo e medio borghesi.b) La presenza nei sindacati. Conclusioni identiche a quelle che si ricavano dall’analisi della composizione sociale del partito sono suggerite anche da una sommaria verifica della presenza azionista all’interno delle strutture sindacali.La scelta compiuta di conquistarsi « dal basso » uno spazio nel sindacato dove­va rivelarsi tutt’altro che facile. Boicottati dagli altri partiti anche a livello lo­cale, 87 88 gli attivisti sindacali del Pd’A si scontravano, all’interno del partito, con l’indifferenza degli organismi direttivi centrali e con lo stato di estrema disor­ganizzazione in cui veniva abbandonato questo settore di lavoro. Al Congresso della Cgil del gennaio-febbraio 1945, il partito arrivò colla massima imprepara­zione, tanto che alcuni rappresentanti sindacali azionisti presenti al congresso, approvarono una polemica dichiarazione. Essi lamentarono « la mancanza di una preparazione efficiente della partecipazione al Congresso » che aveva loro impedito « di concertare preventivamente una eventuale linea di condotta sin­dacale » 8S. A partire dal congresso di Napoli, tuttavia, gli azionisti furono am­messi, seppure in forma largamente minoritaria, nei Consigli generali di molte categorie sindacali, sia a livello locale che a livello nazionale. In due sindacati di categoria, quello delle comunicazioni telefoniche e della scuola essi ottennero an­che la segreteria nazionale rispettivamente con Bruno Pierleoni e Alberto Bertolino.Neppure il ricongiungimento al resto del partito delle sezioni settentrionali, più vitali dal punto di vista dell’intervento in fabbrica, rappresentò un’inversione di tendenza rispetto alla situazione precedente. Anche al nord vi era una « sistema­tica ostilità » degli altri partiti di sinistra che giungeva « fino all’aperta minaccia, ai trucchi nelle elezioni, allo sbarramento sistematico effettuato con ogni mezzo per impedire la costituzione di nuove cellule » azioniste. Inoltre il disinteresse degli organi dirigenti del partito era tale che veniva denunciato dai sindacalisti del Pd’A come un « autentico sabotaggio operato dagli elementi borghesi del partito che non [vedevano] di buon occhio una adesione in massa degli ope­rai » 89. In questa situazione, anche la concessione strappata a Di Vittorio nel luglio 1945, di poter includere un quarto segretario azionista nelle segreterie delle Camere del lavoro, laddove la forza sindacale del partito fosse significativa, doveva dimostrarsi di diffìcile realizzazione. La presenza sindacale azionista al­

86 I dati socialisti sono tratti dalla relazione organizzativa svolta da Morandi al XXIV Con­gresso socialista nell’aprile 1946 e riportata in Rodolfo morandi, Democrazia diretta e riforme di struttura, Torino, Einaudi, 1975, p. 51; per il PCI cfr. L’attività del partito in cifre, opuscolo personale riservato ai delegati del VI Congresso, in La ricostituzione dei partili democratici (1943-48), a cura di Carlo valluari, Roma, Bulzoni, 1978, voi. II, pp. 1031-1032.87 Cfr. Relazione sulla situazione sindacale della provincia di Firenze, 4 maggio 1945, ISRT, Fondo Pd’A, b. 16.88 Cfr. Dichiarazione di 13 rappresentanti sindacali del Pd’A, Napoli, 1 febbraio 1945, ISRT, Fondo Pd’A, b. 23. Anche un dirigente sindacale come Pierleoni riconosceva che a Napoli il Pd’A si era trovato in una « situazione disastrosa », accusando D. Gentili di aver commesso « molti errori tattici e principalmente di esser rimasto un sol giorno a Napoli e di non aver messo piede al Congresso ». Lettera di Pierleoni a E. Fallaci, 17 febbraio 1944, ibid.89 Lettera di anonimo (Savelli?) al Comitato Esecutivo del P d’A AI 5-7-45 e Relazione sul­l’attività svolta nella provincia di Milano dal comitato sindacale del Pd’A 9-5-45, ISRT, Fondo Pd’A, b. 16.

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l’interno delle strutture sindacali locali era destinata così a restare limitata e minoritaria, come quella degli organi dirigenti centrali.Alla fine del ’45 nelle tre città del triangolo industriale, la presenza del Pd’A al­l’interno delle fabbriche e dei sindacati operai appariva assai debole. A Genova gli azionisti affermavano di essere presenti in « tutti i maggiori stabilimenti in­dustriali, ma con forze esigue se non trascurabili»90. A Torino, centro, nella Resistenza, di forti tendenze operaiste, la situazione era complessivamente de­ludente. Alle elezioni per il Consiglio direttivo della Fiom, svoltosi alla fine d’ot­tobre del ’45, i candidati azionisti ottennero 572 voti su 51.575 votanti, cioè poco più dell’l per cento, rispetto al 60 per cento dei comunisti, al 31 per cento dei socialisti e al 7 per cento dei democristiani. I risultati erano indice della limitata presenza all’interno delle fabbriche e dello scarso seguito regi­strato dal Pd’A fra gli operai della grande industria91 92. A Milano, queste stesse elezioni andarono un po’ meglio: il Pd’A ebbe 5.436 voti su 64.076 votanti, rag­giungendo l’8,5 per cento ed ottenendo 2 seggi come la De n .Il radicamento più consistente, comunque, il Pd’A lo aveva in settori impiega­tizi e fra gli insegnanti. A Genova il partito aveva propri militanti nel direttivo provinciale del Sindacato bancari (2 membri su 9) e fra gli addetti alle società di navigazione. A Torino azionisti erano il segretario del Sindacato rappresen­tanti e viaggiatori, tre membri del Sindacato scuole medie e ancora tre membri di quello degli assicuratori. Nel Veneto, dirigenti azionisti si annoveravano nei sindacati degli insegnanti elementari e in quelli degli insegnanti medi sia a Bel­luno che a Venezia; in questa città, inoltre, apparteneva al Pd’A il segretario del Sindacato dipendenti enti locali e a Padova quello dei postelegrafonici93.Nel resto dell’Italia settentrionale, mentre a Mantova, Pavia e Sondrio si lamen­tava la più completa assenza di attività sindacale, il Pd’A occupava buone po­sizioni a Novara e Vercelli, dove aveva ottenuto il quarto segretario nella segreteria della Camera del lavoro, e a Brescia, alla Breda, dove aveva 30 iscritti ed un se­guito molto più ampio94.Pure nelle provincie dell’Italia centrale il Pd’A era presente con maggior forza all’interno di sindacati non operai. Questo era anche il caso di città in cui la forza del partito in settori popolari non era disprezzabile: era il caso di Anco­na 95, di Roma96, di Firenze. In questa città il Pd’A contava buone posizioni nei sindacati postelegrafonici, ferrovieri, telefonici, bancari, ospedalieri ed altri minori, mentre erano azionisti il segretario provinciale dei sindacati antichità e belle arti, Monopoli di Stato, dipendenti del Commercio e professori univer­

90 Lettera da Genova alla segreteria sindacale azionista, ibid.91 Per alcuni dati sulla presenza azionista nelle fabbriche di Torino, G. de luna, Operai e con­sigli, cit. pp. 238-239.92 Lettera di Schiavello alla segreteria di Pd’A, 15-11-45, ISRT, Fondo Pd’A, b. 16.93 Su Belluno, cfr. Situazione sindacale della provincia di Belluno al 50-11-45-, su Venezia, Situazione sindacale e cooperativa nella provincia di Venezia, 8-5-46-, Su Padova, Lettera da Padova alla Segreteria sindacale del Pd’A, 20-10-45, ibid.94 Su Brescia: Lettera da Brescia al Centro sindacale nazionale, 12-11-45, ibid.95 Ad Ancona il Pd’A aveva 2 posti su 7 nel Comitato Direttivo provinciale dei Bancari e 3 su 11 nel Comitato intersindacale dei dipendenti pubblici: Relazione sulla situazione sindacale ad Ancona, 25-11-45, ibid.96 A Roma vi erano militanti azionisti negli organismi dirigenti dei postelegrafonici, dipen­denti comunali e bancari: Pd’A Direzione Centrale, Ulficio sindacale. Notizie sindacali, s.d., mafine ’45 inizi ’46, ibid.

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sitari97. Nettamente inferiore ma ancora concentrata in sindacati impiegatizi era anche la presenza azionista nelle provincie toscane e laziali98. Nelle regioni meridionali, infine, la scomparsa della Cgl, come scriveva Schiano a Schiavelli, nel dicembre ’45, aveva provocato « un collasso delle, pur modeste, organizza­zioni sindacali » 99 100. Erano rimasti nuclei sindacali azionisti abbastanza forti a Caserta, a Cosenza e a Bari. Più ridotta la presenza a Lecce, Foggia, Taranto e Napoli 10°.Presente ma debole nelle strutture sindacali operaie del triangolo industriale e nelle regioni settentrionali, quasi assente in quelle del resto d’Italia, il Pd’A riu­sciva a realizzare quella penetrazione dal basso nella Cgil che si era proposto solo in alcuni sindacati non operai, fra gli insegnanti, i postelegrafonici, gli im­piegati pubblici e privati, più in generale. Ma a causa della debolezza organizza­tiva e della mancanza di centralizzazione nemmeno quella relativa forza veniva sfruttata per conquistare posizioni più importanti nella confederazione.Comunque, questi dati offrono ulteriore conferma a quanto abbiamo già affer­mato ripetutamente. Irresoluto nella scelta di una propria definita base di clas­se, rapidamente ai margini della classe operaia, il Pd’A divenne, nel corso del­la Resistenza, la principale espressione di quei settori di piccola e media bor­ghesia, soprattutto intellettuale, messi in movimento e radicalizzati a sinistra dal­la guerra e dalla crisi del fascismo. Si trattava di settori destinati a restare com­plessivamente minoritari, incapaci, nel quadro dei nuovi rapporti fra le classi, di esprimere una egemonia nei confronti degli altri settori del ceto medio e di mantenere, sul lungo periodo, la propria autonomia politica.

STEFANO VITALI

97 Resoconto dell’Assemblea degli attivisti sindacali del Pd’A, tenuta il 15-1-46, in ISRT, Fondo Pd’A, b. 20.98 Per la Toscana, cfr. Schema della situazione sindacale in Apuania, Massa, Lucca, Pistoia, s.d., ma fine ’45, in ISRT, Fondo Pd’A b. 23; per il Lazio, Notizie sindacali, cit.99 Lettera di Schiano a Schiavello, 5-12-45, Fondo Pd’A, b. 16.100 Cfr. Notizie sindacali, cit. A Bari il Pd’A aveva la segreteria dei sindacati Bancari, Dipen­denti Acquedotto pugliese, Dipendenti Manifattura Tabacchi, Statali e Postelegrafonici. Per Caserta cfr. Prospetto delle leghe e dei sindacati della provincia di Caserta, 50-10-45, ISRT, Fon­do Pd’A, b. 16.

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88 Stefano Vitali

T A B E L L A N. 1

Composizione sociale degli iscritti al Pd’A in Toscana (1945-1946)Media

Professioni Firenze Carrara Arezzo Siena Grosseto Pisa Pistoia Toscana

Operai ebraccianti 16,3 39,6 24,0 21,9 19,1 14,2 24,8 24,8Contadini 0,4 4,3 8,5 11,5 15,5 2,4 16,9 7,5Artigiani 4,9 13,4 7,0 14,7 4,9 6,3 16,0 10,6Commercianti 7,0 5,0 7,4 7,0 6,2 11,5 6,4 6,7Impiegati 30,0 12,1 14,1 21,7 22,0 20,8 12,9 18,8Liberi prof. 12,0 2,0 7,4 4,9 7,0 14,8 3,7 6,8Insegnanti Funzionari e

8,5 3,2 11,1 2,4 5,3 4,5 1,1 4,6

magistrati 0,7 0,5 0,4 0,3 1,2 1,8 0,3 0,7Militari 1,5 1,1 0,4 0,3 0,4 4,5 0,9 1,4Studenti 10,0 7,1 15,5 10,4 14,7 10,9 3,3 8,1Pensionati 1,5 0,2 0,4 0,7 — 1,4 0,9 0,8Casalinghe Industriali e

4,6 10,4 1,9 3,9 0,8 2,0 11,5 7,3

possidenti 2,6 0,7 1,9 0,3 2,9 4,9 1,3 1,9TOTALE 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0

FONTI: I dati di Firenze sono ricavati dagli Elenchi degli iscritti per categoria sociale, ISRT, Fondo Pd’A., BB. 20 e 30. Gli altri dati si ricavano dagli Elenchi degli iscritti al Pd’A., ISRT, Fondo P.S.U., B. 1. Questi elenchi mi sono stati gentilmente segnalati dalla dott. Maria Pia Dradi che sta scrivendo un saggio sul Pd’A in Toscana.NOTE: I dati si riferiscono a 5530 iscritti al Pd’A. I dati di Firenze si riferiscono al solo capo­luogo. Nei dati di Carrara sono compresi alcuni paesi della Versilia appartenenti alla provincia di Lucca. Nei dati della federazione di Arezzo mancano 5 sezioni, in quelli della provincia di Siena mancano i dati del capoluogo e di alcune sezioni. Anche nei dati delle provincie di Gros­seto e Pisa mancano alcune sezioni.Cronologicamente i dati si collocano fra la fine del ’45 e i primi mesi del ’46. Solo per Pistoia si tratta di dati del novembre ’46.

T A B E L L A N. 2

Composizione sociale degli iscritti al Pd’A nella città di Torino (dicembre 1945)

PROFESSIONI N. iscritti %Operai 750 27,1Contadini 8 0,3Artigiani 172 6,2Commercianti 268 9,7Impiegati 846 30,6Liberi professionisti 337 12,2Industriali 22 0,8Categorie non definite 362 13,1

Totale 2.765 100,0

FONTE: Rapporto sulla situazione in provin­cia, senza autore e senza data ma fine die. ’45 in Archivio dell’Istituto Storico della Resisten­za in Piemonte, PA/gv 7.

T A B E L L A N. 3

Composizione sociale delle strutture dirigenti di sezione del Pd’A in Toscana (1945-1946)PROFESSIONI N. dirigenti %

Operai 28 18,3Contadini 5 3,3Artigiani 13 8,5Commercianti 11 7,1Impiegati 36 23,5Liberi professionisti 22 14,3Funzionari e magistrati 1 0,7Militari 1 0,7Studenti 20 13,1Pensionati 1 0,7Insegnanti 10 6,5Industriali e possidenti 5 3,3

T otale 153 100,0

FONTI: cfr. Tabella n. 1.NOTE: I dati si riferiscono ai comitati esecu­tivi di sezioni delle provincie di Carrara, Sie­na, Grosseto, Pisa. Inoltre, sono compresi i Co­mitati esecutivi di Livorno, Arezzo e Casti- glioncello. Per Firenze abbiamo preso in con­siderazione la Direzione politica della sezione.