Formazioni Lineari Arboree in Piemonte

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1 MONOGRAFIA Pubblicata sul n. 31 di Quaderni della Regione Piemonte - Montagna Filare capitozzato di salice bianco nella pianura circostante Stupinigi. Foto G. Della Beffa FORMAZIONI LINEARI ARBOREE IN PIEMONTE

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MONOGRAFIA

Pubblicata sul n. 31 di Quaderni della Regione Piemonte - Montagna

Filare capitozzato di salice bianco nella pianura circostante Stupinigi. Foto G. Della Beffa

FORMAZIONI LINEARI ARBOREE IN PIEMONTE

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INDICE TRADIZIONE E RISORSE NEI FILARI DEL PIEMONTE pag. 3 FILARI ARBOREI IN PIEMONTE pag. 4 Metodi di ricerca e indagine pag. 4 Funzioni e significati delle formazioni lineari pag. 5

I filari nella storia piemontese pag. 5 Funzione ecologica pag. 7 Funzione produttiva pag. 8 Funzione protettiva pag. 9

CARATTERIZZAZIONE GEOGRAFICA DI ALCUNE DELLE PIÙ SIGNIFICATIVE TIPOLOGIE DI FILARI IN PIEMONTE pag. 10 GLOSSARIO DEI PRINCIPALI TERMINI TECNICI pag. 11 PRINCIPALI TIPOLOGIE DI FILARE pag. 12 Filari di platano a ceduo, a capitozza bassa o a capitozza alta pag. 12 Piantata di salice pag. 14 Filari di robinia, a ceduo o ad alto fusto, puri o misti pag. 16 Filari cedui di ontano, puri o misti pag. 18 Filari di farnia pag. 20 Filare di pioppo d’alto fusto pag. 22 Filari misti a salice, pioppo, farnia, ontano, acero campestre e specie arbustive pag. 24 Filari di noce nero ed europeo pag. 26 Filari di pioppo puri o misti, ceduati a capitozza pag. 28 Filari di gelso pag. 30 Filari di pioppo cipressino pag. 32 Filare di pioppo bianco e ciliegio maritati alla vite pag. 33 BIBLIOGRAFIA pag. 34 Numero monografico a cura di: Giuseppe Della Beffa, Andrea Ebone, Paolo Ferraris Il presente documento costituisce la sintesi del progetto di studio sviluppato sul tema dall’Istituto per le Piante da Legno e l’Ambiente – I.P.L.A. S.p.A. - promosso dal Settore Politiche Forestali della Regione Piemonte negli anni 1999 e 2000. Le fotografie sono di G. Della Beffa eccetto quelle a pagina 16, 18, 19, 22, 25, 26, 27, 29, 32 che sono di P. Ferraris.

Trama di filari a Salbertrand in Val di Susa.

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Questa monografia nasce dall’esigenza di conoscere sempre meglio il territorio regionale e le sue risorse, specialmente quelle che, legate alle tradizioni, meritano di essere salvaguardate. Fino a qualche decennio fa, i numerosi filari arborei presenti in Piemonte venivano mantenuti per lo più a scopo produttivo, per far fronte alle necessità dell’azienda agraria, specialmente quando la stessa non disponeva di sufficienti superfici a bosco. Nei primi decenni del dopoguerra, il mutato contesto economico ha profondamente modificato il paesaggio agrario con l'eliminazione di numerose siepi, filari e singole piante che in qualche modo risultavano di impedimento allo sviluppo della meccanizzazione ed alla massimizzazione delle produzioni. Pur essendosi ridotto il loro significato produttivo, le formazioni lineari rivestono ancora particolare importanza per ragioni paesaggistiche, per la memoria delle tradizioni locali e per la funzione ecologica svolta, considerando che, specialmente nelle aree di pianura, la presenza del bosco è ormai limitata alle sponde fluviali ed alle zone corrispondenti alle incisioni degli antichi terrazzi, mentre la restante copertura arborea è per lo più rappresentata da pioppeti.

Per meglio chiarire l’importanza dei filari, è inoltre utile ricordare che questi contribuiscono al miglioramento delle produzioni agricole funzionando da rifugio per gli insetti utili alle colture, proteggendo le stesse dal vento, ostacolando l’erosione del suolo e svolgendo funzioni di filtraggio delle sostanze inquinanti e di assorbimento dei fertilizzanti in eccesso. Resta inoltre valida la possibilità di ricavare assortimenti ancor oggi utili all’azienda come la legna da ardere o manufatti impiegabili per le recinzioni, come paleria per vigneti o colture orticole, oltre alla possibilità di ottenere assortimenti di ottimo pregio dalle alberate coltivate a tale scopo. Troppo spesso però queste funzioni sono scarsamente considerate ed ancor oggi, pur se in misura inferiore al passato, le formazioni lineari vengono inopportunamente sacrificate, in nome di un produttivismo e di una intensificazione colturale ormai disincentivati dalla politica agricola europea.

Roberto Vaglio

Assessore Regionale alle Politiche per la Montagna, Foreste e Beni Ambientali

Filare di farnia. Disegno a china di Maria Operti

TRADIZIONE E RISORSE NEI FILARI DEL PIEMONTE

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L’individuazione e la descrizione delle principali formazioni lineari arboree del Piemonte sono state sviluppate per valutare gli aspetti paesaggistici, ecologici ed economici delle varie tipologie ancora presenti, nonchè per evidenziarne le caratteristiche e le attuali problematiche di gestione. Il progetto è stato orientato verso quei filari che tuttora contornano coltivi e corsi d’acqua e che pertanto conservano uno stretto legame con il contesto agrario. Quindi non sono state prese in considerazione le alberate stradali o i filari in fregio alle ville storiche, in quanto non hanno ripercussioni sull’economia, sugli usi e sui costumi della popolazione rurale. Le formazioni lineari giunte fino ai giorni nostri possono essere fatte risalire in via generale a tre diverse origini (Fohmann-Ritter, 1991). 1. Residue: ovvero fasce lineari residuate dal taglio

di boschi preesistenti. Si tratta di formazioni piuttosto rare e dall’alto valore ecologico e paesaggistico, caratterizzate sia dalla presenza di soggetti arborei di grandi dimensioni, sia dall’elevata eterogeneicità strutturale e specifica.

2. Piantate: formazioni di origine artificiale poste a dimora per la delimitazione dei confini, la protezione dal vento, la difesa delle sponde dei fossi e la produzione di vari assortimenti. Si tratta di formazioni coetanee, piuttosto omogenee nella struttura, con bassa diversità specifica e generalmente alto valore paesaggistico.

3. Rigenerate: formazioni alberate arricchite da siepi arbustive generatesi spontaneamente per la disseminazione da parte degli uccelli. Sono per lo più riscontrabili lungo i corsi d’acqua, a margine di filari di origine artificiale, di recinzioni e a contorno di campi parzialmente abbandonati.

La ricerca, realizzata a partire dall’analisi aereofotogrammetrica delle aree interessate, si è sviluppata sulla base di specifiche segnalazioni, con sopralluoghi e verifiche in campo. In particolare l’indagine ha coinvolto le zone di pianura del Tortonese, Cuneese, Pinerolese, Torinese, basso Canavese, Vercellese e Novarese. Non sono state considerate le zone pedemontane e collinari, dove la presenza più o meno ampia di fasce boscate rende meno importante il significato delle formazioni lineari. I dati relativi a consistenza, tipologia e stato di utilizzo o abbandono, ottenuti mediante i rilievi di campagna, sono stati riportati su una scheda corredata di riferimenti topografici, iconografici e tipologici. Tali schede sono poi state raggruppate in tipologie, per le quali è stata realizzata una descrizione completa contenente le peculiarità strutturali, le funzioni, i criteri di gestione e le principali aree di diffusione. Ciò ha permesso, in molti casi, di caratterizzare determinate zone della pianura piemontese per la presenza di particolari tipologie di filare, legate a quel territorio per ragioni di carattere storico, morfologico e culturale.

METODI DI RICERCA E INDAGINE

FILARI ARBOREI IN PIEMONTE

Filare capitozzato misto di salice bianco e pioppo nero presso Cervere tra Fossano e Marene.

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I FILARI NELLA STORIA PIEMONTESE Nel paesaggio rurale padano l’utilizzo di filari lungo i campi coltivati deve essere fatto risalire ai tempi dei Romani, i quali solevano delimitare con fasce boscate i confini dei lotti. Questi erano porzioni di territorio, da destinare ai cittadini romani, ricavati dalla frammentazione delle centurie, che, a loro volta, erano il risultato della suddivisione eseguita, mediante la costruzione di una rete di strade (cardini e decumani), nella fase della “centuriazione”. All’epoca, l’utilizzo del suolo per fini agricoli avveniva secondo due sistemi: il primo presupponeva lo sfruttamento di campi aperti, ovvero non totalmente delimitati da filari, strade, fossi ed altre barriere fisiche; in essi veniva praticata la cerealicoltura seguita dal pascolo comunitario. Il secondo prevedeva l’utilizzo dei campi chiusi, ovvero porzioni di territorio delimitate e difese da siepi e filari lungo tutto il perimetro, nei quali si alternavano maggesi e colture cerealicole seguite dal pascolo, limitato però ai soli proprietari. Nel tardo impero, il mutato contesto storico portò progressivamente all’abbandono delle colture cerealicole a vantaggio del pascolo brado. Questa forma di sfruttamento estensivo dello spazio rurale si affermò in modo definitivo con l’instaurarsi del sistema feudale nel periodo medioevale, nel quale si assistette ad un progressivo accorpamento delle proprietà nelle mani di un unico signore. Durante tale periodo, il paesaggio rurale comprendeva vaste superfici boscate intervallate da pascoli; solo una parte del territorio, generalmente situata nei pressi dei castelli feudali poiché più difendibile, era destinata ai seminativi. Verso la fine del medioevo, nei secoli X e XI, in Piemonte si assistette ad un prima espansione economica, sotto la spinta di nuovi centri di potere che portò all’ampliamento di nuovi borghi (Fossano, Cuneo, Mondovì, Savigliano e Alessandria), con conseguente aumento della domanda di superfici coltivabili a discapito del bosco, che, fino ad allora, occupava ampie aree planiziali, tra le quali gran parte della pianura cuneese. Sotto questo nuovo stimolo presero corpo le prime opere di bonifica e di disboscamento della montagna alle quali seguì la comparsa di nuovi centri abitati. In questo periodo tornò lentamente il regime dei campi chiusi e si diffusero nuovamente le siepi ed i filari per la definizione dei confini, la creazione di barriere protettive e la produzione di frasca; inoltre lungo canali e strade vennero impiantate nuove siepi e filari. Tra il 1580 e il 1581 il Montagne, durante un viaggio in Italia, scrisse che la pianura padana era molto fertile e che in mezzo ai campi di cereali sorgevano numerosi filari ai quali erano maritate le viti. Come risulta da questa testimonianza storica, nella pianura padana la

“piantata” raggiunse una propria fisionomia, anche se la sua estensione non conseguì mai valori molto elevati. Nel secolo successivo, il particolare contesto storico ed economico condusse alla definizione di due situazioni diametralmente opposte: in alcune zone le nuove scoperte in campo tecnologico, portarono allo sfruttamento intensivo dei campi chiusi, con l’introduzione della tecnica delle rotazioni colturali. Nelle altre zone, invece, presero nuovamente il sopravvento i campi aperti e ritornò su queste superfici la pratica del pascolo, favorito anche da una certa abbondanza di cereali. Nel settecento, in particolare nella pianura padana occidentale, i filari cui era associata la vite persero lentamente di importanza a causa delle scarse produzioni ottenute e della sempre maggiore diffusione dei vigneti in zone più vocate e vennero sostituite da altre tipologie di alberate. Si diffusero pertanto formazioni meno specializzate in grado di fornire assortimenti diversi: legna da ardere e da opera, palerie ed elementi per la costruzione di attrezzi agricoli. Durante questo periodo, si diffuse il gelso per l’allevamento dei bachi da seta. Alla fine del XVIII secolo i filari erano diffusi in ampi tratti di pianura, imprimendo al paesaggio rurale un’impronta duratura che, in alcuni casi, rimase tale o venne solo parzialmente modificata pochi decenni fa. Dalle testimonianze di diversi viaggiatori la pianura, vista in prospettiva, ricordava una foresta un po’ rada.

FUNZIONI E SIGNIFICATO DELLE FORMAZIONI LINEARI

Filari di ciliegio capitozzati a sostegno della vite. Carpignano Sesia.

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Agli inizi dell’ottocento, secondo quanto osservato da Lullin de Chateauvieux durante un viaggio in Piemonte, la divisione del territorio regionale appariva già netta: da un lato la montagna definita come selvaggia ed impervia, in grado di fornire ai propri abitanti poco più che i soli prodotti del bosco, dall’altro la pianura dove la presenza dell’uomo risultava sempre più consistente, ricca e florida tanto da poter esportare i propri prodotti agricoli. Con il ritorno dei Savoia, dopo i pesanti tagli delle foreste avvenuti nel periodo napoleonico, il patrimonio boschivo piemontese dovette essere ricostituito. I mezzi per attuare questa ristrutturazione furono dettati dalla regia patente del 15 ottobre 1822 e riguardarono il rilievo dell'estensione, lo stato dei boschi, il tipo di governo e l'epoca dei tagli, nonché la stesura di dettagliatissimi regolamenti per lo sfruttamento e il miglioramento dei beni: "Tutti i boschi, tanto cedui, che d'alto fusto, sono posti sotto la vigilanza della pubblica Amministrazione, siano essi demaniali, siano di proprietà privata, o di Comuni, o di Corpi amministrati. Sono parimenti compresi nei boschi cedui o di alto fusto rispettivamente le ripe di prati, campi, vigne, fiumi, torrenti, rivi, canali, strade e simili, ogni volta che sono di non minor larghezza di nove metri, e di non minor lunghezza di trenta metri". Fu così che molti dei filari e delle siepi di quell’epoca furono sottoposte ad un regime di tutela molto restrittivo. Esso restò in vigore fino al 1877, quindi sin oltre l’Unità d’Italia, pur con alcune modifiche (regia patente del 1 dicembre 1833), che riguardavano una riduzione dei vincoli sulle proprietà private, apportate dopo l’ascesa al trono di Carlo Alberto.

Alla fine dell’ottocento, sotto l’influsso di un crescente sviluppo economico e industriale, nella regione piemontese andarono tracciandosi quelle che saranno le linee guida di tale sviluppo con la definizione di nuovi spazi industriali, urbanistici ed economici. Durante questo periodo l’intera area planiziale fu sottoposta a coltura grazie anche alla fitta rete di canali di irrigazione realizzati durante gli ultimi decenni del secolo (Sereni, 1976; Robasto, 1980). A partire da questa data si assiste ad un lento, ma inesorabile, cambiamento della fisionomia del territorio: la motorizzazione prima e la meccanizzazione poi, imposero l’accorpamento delle superfici coltivabili, causando l’eliminazione, in gran parte della pianura, delle siepi e delle alberate poste ai limiti dei campi. L’esistenza ancora oggi di formazioni lineari è strettamente legata alle caratteristiche del territorio, al tipo di uso del suolo e al tipo di attività agricola. Altro fattore è la dimensione aziendale che obbliga il piccolo

proprietario ad integrare il proprio reddito con la raccolta di legna da ardere e di altri assortimenti utili, in particolare durante il periodo invernale in cui gran parte delle attività legate alla conduzione dei campi sono sospese. La presenza dei filari si ripercuote immediatamente sulla qualità del paesaggio, in particolare quello planiziale che resta più variato, riprendendo spesso gli antichi connotati storici, con risvolti positivi anche sulla fruizione turistica degli ambienti agrari. L’alternanza di colture con fasce boscate imprime poi al territorio una fisionomia gradevole, soprattutto nelle stagioni intermedie dove si concentrano le fioriture e dove si assiste ai cambiamenti cromatici dovuti all’interruzione autunnale del ciclo vegetativo. FUNZIONE ECOLOGICA Negli ultimi decenni i processi economici e il progresso tecnologico hanno orientato l’attenzione degli agricoltori verso la ricerca di una maggiore resa per ettaro delle superfici coltivate, a discapito di tutto

Questa stampa del 1764 della Tenuta della Mandria fornisce una chiara immagine di come poteva apparire, in epoca romana, il paesaggio rurale dopo la divisione in lotti. I lotti erano porzioni di territorio conquistato, da destinare ai cittadini romani, ricavati dalla frammentazione delle centurie, che a loro volta erano il risultato della suddivisione ottenuta, mediante la costruzione di una rete di strade (cardini e decumani), generalmente accompagnate dall’impianto di siepi e filari, nella fase della “centuriazione” (Robasto, 1980).

Filari di gelso, come si presentavano negli anni ’70, tra Alessandria e Piacenza.

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ciò che poteva essere di ostacolo al raggiungimento immediato di tale obiettivo. Si è pertanto assistito all’eliminazione delle siepi e dei filari poiché limitavano la possibilità di manovra dei mezzi meccanici e diminuivano, con l’ombreggiamento, le produzioni delle colture; inoltre erano erroneamente ritenuti ricettacolo di insetti fitofagi e piante infestanti. Questo sistema di conduzione delle aziende agricole si è sempre più specializzato basando la produzione su uno o pochi prodotti. Inoltre l’ambiente è stato modificato per meglio adattarlo ai tipi di coltura, al contrario di quanto avveniva in passato quando le colture erano scelte preferibilmente in funzione delle caratteristiche ambientali. Ciò ha portato alla trasformazione di numerose porzioni del territorio piemontese in ambienti monotoni e banali. Recenti studi hanno invece rivalutato il significato naturalistico di filari e siepi, perché luoghi di transizione tra situazioni adiacenti di natura diversa, quali sono gli ambienti ripari, agrari e forestali. Qui infatti si riscontrano un numero ed una densità di specie maggiore rispetto a quelle dei singoli ambienti considerati separatamente. A titolo esemplificativo, si riportano i dati di uno studio effettuato confrontando la ricchezza avifaunistica di due zone ad agricoltura intensiva, una ricca di siepi e filari e l’altra totalmente priva di copertura arboreo-arbustiva. Nella prima furono censite 25 specie di uccelli per un totale di 85 coppie nidificanti, nella seconda erano presenti solo 9 specie con 15 coppie nidificanti (Groppali, 1991). Un altro esempio utile a comprendere quanto sia legata la sopravvivenza di alcune specie animali alla presenza dei filari è quello fornito dai chirotteri arboricoli. Questi pipistrelli, attivi cacciatori di insetti, hanno subito un calo nella consistenza delle popolazioni anche a causa della progressiva mancanza dei rifugi che essi solevano trovare con estrema facilità tra le cavità e gli anfratti delle capitozze dei filari. Altro animale legato alle alberate campestri è il coleottero Osmoderma eremita, il più grosso rappresentante europeo delle cetonie; tale specie è protetta dalla Direttiva Habitat1 riguardante la conservazione degli ambienti naturali, della flora e della fauna selvatiche. La larva vive esclusivamente nelle cavità piene di detriti dei vecchi alberi (pioppo bianco, salice, gelso). Molte delle specie appartenenti ai gruppi animali succitati risultino direttamente utili per la difesa delle colture dagli insetti fitofagi, si pensi agli uccelli che in maggioranza basano la nutrizione della prole proprio sugli insetti (larve, adulti, crisalidi e uova), ma un contributo ancor maggiore proviene dalla presenza all’interno delle siepi e dei filari di tutti quegli insetti 1 Direttiva 92/43/CEE del Consiglio, del 21 maggio 1992, regolamentata in Italia dal D.P.R. n. 357 del 8 settembre 1997.

antagonisti naturali dei più comuni nemici delle piante (Mezzalira, 1990). A dimostrazione dell’utilità di questi insetti è importante ricordare che, nelle aree agricole circondate da siepi e filari il 30-40% dei fitofagi è parassitizzato, mentre nelle aree prive di siepi ciò avviene solo per l’1%. Altri animali presenti nei filari e nelle siepi, utili al contenimento degli insetti dannosi, sono i ragni. È assodato che dove esistono formazioni lineari di una certa estensione il controllo delle specie entomologiche potenzialmente dannose è garantito principalmente da questi costruttori di tele. Tra gli “abitanti” utili delle formazioni lineari si ricordano ancora gli insetti pronubi, ossia gli insetti impollinatori (Imenotteri, Ditteri e Lepidotteri), che consentono la fecondazione dei fiori delle specie vegetali, naturali o coltivate. Ed ecco allora l’importanza di tutelare, ripristinare ed impiantare filari e siepi per la loro funzione di rifugio per numerose specie animali e vegetali indispensabili ad assicurare quel minimo grado di diversità, soprattutto in un contesto agrario che, come accennato in precedenza, tende sempre più ad essere semplificato. Come noto, la conservazione di popolazioni animali e vegetali è legata al mantenimento degli ambienti in cui vivono, ma anche alla possibilità di scambi genetici con le popolazioni limitrofe. Molte specie vegetali, grazie all’impollinazione ad opera del vento, e molti animali con buone capacità di dispersione superano con una certa facilità le barriere naturali o artificiali, ossia create dall’uomo, e quindi popolazioni apparentemente isolate possono beneficiare di scambi genetici regolari. Al contrario le popolazioni di alcune specie acquatiche o terricole di piccole dimensioni rimangono completamente isolate e sono più facilmente soggette ad estinzioni locali dovute all’alterazione degli habitat o ad eventi più o meno casuali. Il massiccio fenomeno dell’antropizzazione della pianura, iniziato parecchi secoli fa e andato intensificandosi negli ultimi decenni, ha portato alla progressiva frammentazione degli habitat naturali, impedendo lo spostamento delle specie. La presenza di siepi o filari può così svolgere un’importante funzione all’interno della rete ecologica costituendo ambienti idonei al passaggio e alla diffusione di specie animali o vegetali altrimenti confinate. Viene così a delinearsi una sorta di connessione territoriale e funzionale tra le aree naturali ancora presenti in ambiente planiziale, scongiurando quel fenomeno noto sotto il nome di deriva genetica che talvolta porta all’estinzione le popolazioni rimaste isolate. Va comunque ricordato che il valore ecologico di un filare, e quindi la capacità di assolvere tutte le funzioni attribuitegli, è proporzionale alla ricchezza floristica e alla complessità strutturale in esso riscontrabile. Azione disinquinante Per evidenziare l’azione insostituibile di depurazione svolta dalle fasce boscate interposte tra coltivi e corsi

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d’acqua, di cui i filari non sono altro che una semplificazione, appare necessario prima definire quali siano le dinamiche e le fonti di inquinamento ed eutrofizzazione di origine agricola. Prima peculiarità è il loro carattere diffuso sulle vaste superfici coltivate e non da un punto preciso, come avviene ad esempio, in origine, per gli impianti industriali. Altro elemento è la mancanza di una immediata corrispondenza tra causa ed effetto, determinata dalle complesse interazioni che si instaurano nel sistema pianta-suolo-atmosfera. Tale mancanza impedisce di quantificare l’entità dell’inquinamento in modo semplice e diretto, ad esempio analizzando il concime utilizzato. Ulteriori difficoltà sorgono dall’impossibilità di governare pienamente il fenomeno, in quanto entrano in gioco fattori, come quello atmosferico, difficilmente prevedibili. Ai precedenti fattori si unisce poi l’azione degli agricoltori che rendono l’evento scarsamente controllabile e gestibile (Borin, 1998).

Numerosi studi, negli ultimi anni, sono stati rivolti alla ricerca della reale efficacia delle formazioni riparie nella difesa della qualità delle acque. In particolare è emerso che una fascia boschiva di soli 10 m è in grado di asportare dalla falda superficiale circa il 90% dei nitrati contenuti nelle acque. Altri studi (Cornelio, 1996) hanno confermato che la vegetazione è altrettanto efficace nel contenimento

della dispersione del fosforo in quanto, fungendo da filtro, favorisce la deposizione delle particelle in sospensione che veicolano tale elemento. L’effetto tampone è massimo qualora la fascia boscata sia composta da numerose specie e nel sottobosco sia presente un fitto strato erbaceo. Questo riveste la funzione di ulteriore filtro per la deposizione dei sedimenti e favorisce l’infiltrazione dell’acqua nel suolo rendendola disponibile per l’assorbimento radicale. Alcuni autori sono concordi nell’affermare che il limite minimo di larghezza per una fascia tampone sia 10 metri, tuttavia si ritiene che anche solo 3-5 m siano sufficienti per limitare notevolmente le concentrazioni di nutrienti nella falda. E’ indispensabile che nelle formazioni dove questa funzione sia ritenuta preminente si attui il governo a ceduo con turni piuttosto brevi, in quanto il mantenimento di piante mature o deperienti riduce la produzione di biomassa e, di conseguenza, anche l’assorbimento di nutrienti (Cornelio, 1996). Inoltre le fasce boscate interposte tra le vie di comunicazione e i centri abitati possono essere validi strumenti contro la diffusione dei rumori e delle emissioni del traffico veicolare. La loro efficacia è condizionata dalle specie che compongono il filare, in quanto sono proprio le caratteristiche specifiche, prima fra tutte la consistenza dei tessuti fogliari, a determinare il grado di assorbimento del rumore. È infatti evidente come un filare a struttura stratificata costituisca un elemento aggiuntivo al contenimento dell’inquinamento acustico. FUNZIONE PRODUTTIVA Oggi la produttività dei filari riveste sicuramente un ruolo meno importante rispetto al passato quando, come accenna Mezzalira (1990) per il Veneto, fino a cinquant’anni fa la produzione “fuori foresta” (filari, siepi, boschetti e alberi isolati) era almeno pari a quella ricavabile dalla foresta. La produzione dei filari e delle siepi, a parità di superficie, è maggiore rispetto a quella riscontrabile in bosco: ciò è dovuto al fatto che, ogni singola pianta, beneficia di più luce, può disporre delle concimazioni e delle irrigazioni fornite ai campi limitrofi e attingere acqua dai canali irrigui. La produzione legnosa nelle aree di pianura, è in gran parte dovuta alle piantagioni industriali (per lo più pioppeti nelle aree golenali). Parte minore della produzione deriva invece ancora oggi da formazioni lineari soprattutto se arricchite da specie quali noce, ciliegio, farnia, frassino che oggi come in passato forniscono legna da opera e da ardere come prodotto secondario. Tali produzioni sono assimilabili a quelle ritraibili da una fustaia, ma hanno minor costo d’esbosco e trasporto. Il pioppo, se allevato in filare, presenta caratteristiche qualitative inferiori a quelli allevati in formazioni compatte, pur mantenendo un discreto valore commerciale.

Doppio filare di salice lungo un fossato di irrigazione. Cervere (CN).

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Altre formazioni lineari di interesse economico, anche in prospettiva futura, sono quelle governate a ceduo con produzione di legna da ardere. La messa a punto negli ultimi anni di impianti termici in grado di ottimizzare la resa della combustione della legna da ardere pone nuove basi per un impiego di tale fonte energetica per il riscaldamento degli edifici. Uno studio condotto su filari di specie con legno ad alto potere calorifico (in questo caso platano, ma il discorso è analogo per la robinia), partendo dall’analisi della produttività della massa legnosa ricavabile dal filare, dai costi di produzione della legna da ardere e dai consumi necessari per soddisfare il fabbisogno energetico di una abitazione rurale tipo, ha evidenziato come il legno prodotto in azienda possa essere conveniente rispetto ai tradizionali combustibili fossili per il riscaldamento dell’abitazione (Pettenella e Serafin, 1999). Pertanto sotto la spinta di nuove tecnologie e dei contributi erogati dall’Unione Europea, sia per il reimpianto e la manutenzione di siepi e filari, sia per lo sfruttamento delle fonti energetiche alternative, si può prospettare un lento ritorno di tali formazioni a contorno dei coltivi, con indubbi benefici, come si è visto, anche sull’ambiente e il paesaggio. Tra le produzioni un tempo molto apprezzate ma oggi richieste in quantitativi inferiori, oltre al legname da opera e da ardere, vi sono gli assortimenti di piccole dimensioni, impiegabili come paleria da recinzioni, per vigneti o colture orticole, e per la produzione di manici. Nelle piantate a capitozza con salice bianco era consueto il taglio dei rami di 3-4 anni di età, curvati naturalmente, per produrre manici per pale, badili e tridenti. Tra le altre produzioni, anch’esse un tempo ricercate, ma oggi scarsamente utilizzate, si annoverano i vimini, ottenuti da varie specie di salici (in particolare da Salix alba ssp. vitellina, il quale fornisce vimini più sottili e flessibili adatti anche alla lavorazione fine) trattati a capitozza, potati annualmente, ed utilizzati poi per legare i tralci della vite o per la produzione di cesti, contenitori e altri manufatti. La lavorazione del vimini si articola su alcune fasi: la prima prevede la mondatura, ovvero l’eliminazione dei getti laterali, seguita dalla sbucciatura e dall’essiccatura, che un tempo veniva realizzata lasciando i vimini almeno 2-3 ore al sole, o per un tempo maggiore sotto le tettoie (De Philippis, 1933). Da specie arbustive presenti anche nelle formazioni lineari era spesso ottenuto materiale per altri manufatti di utilizzo aziendale, come le scope di sanguinello (Cornus sanguinea), di ligustro (Ligustrum vulgare) e di altre specie. I filari di gelso (Morus alba), un tempo ampiamente diffusi, ma oggi quasi del tutto scomparsi tranne in alcune aree della pianura alessandrina, non più destinati alla produzione di foglia per l’allevamento del baco da seta, se capitozzati forniscono legno per paleria e da ardere.

Un tempo era consuetudine asportare annualmente i rami lungo il fusto degli alberi di interi filari (sgamollo), con produzione di foglia per l’alimentazione del bestiame. Tale tecnica, quasi del tutto scomparsa, viene praticata ormai in modo sporadico su alcuni alberi isolati, facilmente individuabili per essere privi di rami lungo tutto il fusto, tranne che per la parte terminale dove conservano ancora una porzione di chioma. Oggi purtroppo la pratica è ancora diffusa per ridurre l’ombreggiamento e favorire il movimento dei mezzi agricoli. Le specie arboree ed arbustive dei filari influenzano positivamente anche la produzione mellifera, ed in questo caso la specie più importante ed apprezzata è senza dubbio la robinia. Ancora da citare rimangono le produzioni di frutti, sia spontanei (ad esempio il sambuco per la produzione di tisane febbrifughe, marmellate, sciroppi, ecc.) che coltivati, come ad esempio il nocciolo. FUNZIONE PROTETTIVA Il filare offre un efficace riparo dal vento alle colture per un’estensione di 10-15 volte la sua altezza, limitando l’evapotraspirazione e quindi la perdita di acqua, con significative ripercussioni sulla produzione, in particolare quella cerealicola (AA:VV., 1998). Per avere maggiore efficacia la formazione lineare deve possedere una lunghezza pari al lato del fondo sottovento, presentare dei vuoti solo nella parte medio-alta del piano arboreo ed essere assolutamente compatta nella parte inferiore. La mancanza di una delle succitate caratteristiche può generare nella parte retrostante delle turbolenze in grado di annullare i benefici per le colture (Fohmann-Ritter, 1991). L’effetto di questi popolamenti sulla difesa dall’erosione spondale è un altro aspetto sicuramente non secondario; le rive e le sponde di canali di una certa portata, se prive di vegetazione, possono venire a contatto con i campi arati e i prati, aumentando il pericolo, in caso di corrente vorticosa, di trasporto di materiali terrosi o ciottolosi da parte della corrente, con conseguente perdita di terreno coltivabile. Pertanto i canali irrigui e i piccoli corsi d’acqua affiancati da un filare, una fascia boscata o una semplice siepe, possono beneficiare dell’effetto consolidante fornito dagli apparati radicali con positive ripercussioni sulla loro funzionalità. La gestione oculata e il ripristino dei filari preserva la funzionalità delle sponde e limita lo sviluppo di specie infestanti e di alghe, riducendo buona parte dei problemi di gestione dei canali irrigui e dei piccoli corsi d’acqua e limitando gli interventi di manutenzione ordinaria (Mezzalira, 1990). Inoltre nelle numerose cavità che l’acqua ricava attorno agli apparati radicali possono trovare rifugio pesci, molluschi e crostacei.

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CARATTERIZZAZIONE GEOGRAFICA DI ALCUNE DELLE PIÙ SIGNIFICATIVE TIPOLOGIE DI

FILARE IN PIEMONTE

Filare di gelso

Piantata a salice e pioppo

Filare ceduo di ontano

Filare ceduo di platano

Capitozza bassa di salice

CUNEO

TORINO

ASTI ALESSANDRIA

VERCELLI

BIELLA NOVARA

VERBANIA

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GLOSSARIO DEI PRINCIPALI TERMINI TECNICI Assortimento (di legname): una delle categorie con cui vengono classificati tronchi e pezzi di legno in base alla destinazione economica, alle dimensioni ed al tipo di lavorazione. Capezzagna: strisce di terreno che rimangono da arare alle estremità del campo, dove l’aratro inverte la marcia. Capitozza: particolare forma di ceduazione eseguita ad un’altezza da terra che varia a seconda delle specie e dell’impiego degli assortimenti. (Vedi Ceduo). Ceduo (governo a): bosco formato dai polloni prodotti dalle gemme presenti sulle ceppaie o sulle radici delle piante portate via con il taglio precedente (propagazione vegetativa). La ceduazione può essere eseguita al piede (taglio in prossimità del colletto della pianta), a capitozza (taglio a 1-3 m da suolo) o a sgamollo (vengono tagliati i rami, ma non il cimale della pianta). Ceppaia: piede dell’albero tagliato a fior di terra in modo che ne germoglino nuovi polloni. (Vedi Ceduo). Classe di fertilità: classi in cui i suoli sono stati ripartiti in funzione della fertilità. Cure colturali: insieme di operazioni e interventi volti a migliorare un giovane soprassuolo forestale. Diradamento: taglio intercalare eseguito per ridurre la densità in un popolamento. Eliofila: di pianta che vegeti ottimamente alla diretta e forte luce del sole. Eutrofizzazione: arricchimento eccessivo in nutrienti di un ambiente acquatico. Fasce tampone: fasce di vegetazione arborea che separano scoline, fossi e canali da aree agricole, filtrando e assorbendo sostanze inquinanti e fertilizzanti in eccesso. Fitofago: animale che si nutre di cibo vegetale. Frasca: ramo con foglie utilizzato per l’alimentazione animale. Fustaia (governo a): bosco formato da piante nate da seme (riproduzione sessuata). Governo: categoria di classificazione dei sistemi selvicolturali basata sul processo di riproduzione adottato ai fini della rinnovazione del popolamento. Habitat: insieme delle condizioni ambientali in cui vivono determinate specie di animali e vegetali. Lepidottero minatore: larva di lepidottero che si nutre scavando una galleria fra le due pagine della foglia. Maggese: pratica agricola consistente nel lasciare un terreno a riposo per un certo tempo, ma concimandolo e lavorandolo di frequente in modo da fargli riacquistare fertilità. Maritata, pianta: albero impiegato come tutore dei filari di vite, per lo più ceduato a capitozza. Parassita: organismo animale o vegetale che vive a spese di un altro. Pollone: germoglio che nasce dalla ceppaia di una pianta tagliata. Popolamento: comunità di alberi sufficientemente uniforme da poter essere distinta dal suo intorno per composizione delle specie arboree, età e struttura. Sgamollo: vedi Ceduo (governo a). Struttura: distribuzione degli alberi nello spazio orizzontale e verticale per classi di età, sociali e di diametro. Trattamento: sistema di operazioni destinate a regolare l’evoluzione e la rinnovazione di un bosco nell’ambito di una determinata forma di governo. Turno: il periodo di tempo necessario perché una pianta raggiunga la maturità. Utilizzazione: il termine comprende il taglio di una pianta e le operazioni successive fino all’esbosco.

Filare di pioppo nella pianura cuneese.

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Si tratta di formazioni per lo più disposte su una singola fila in cui i soggetti risultano generalmente distanziati di circa 2 m. Si sono osservate ceduazioni raso terra, a capitozza bassa (0,5-1m) o a capitozza alta (2,5 m); i turni sono variabili, ma generalmente brevi. Negli ultimi anni il platano è stato oggetto di intensi attacchi da parte di numerosi parassiti di origine animale e fungina. Tra gli insetti responsabili di gravi danni a carico dell’apparato fogliare, in ordine di importanza, si citano: Iphantria cunea, lepidottero defogliatore di origine nord-americana che compie normalmente due cicli sul platano causando, a volte durante la seconda generazione, una defogliazione totale; Corithuca ciliata, Rincote Tingide, con apparato boccale “pungente-succhiante”, causa di disseccamenti fogliari; Metcalfa pruinosa, Rincote Flatide, il quale, succhiando la linfa dai getti giovani, ne causa la necrosi e la riduzione dello sviluppo. Tra le patologie fungine che danneggiano il platano è necessario ricordare il cancro colorato (Ceratocystis fimbriata), in grado di uccidere la pianta in breve tempo. La malattia, molto contagiosa, si trasmette facilmente per contatto, ad esempio durante le fasi di potatura e/o ceduazione; per arginare la diffusione della patologia è stato emesso un decreto ministeriale che impone la distruzione immediata di tutti i soggetti infetti. Esistono almeno 6 specie di platano nel mondo. Solo una (Platanus orientalis) è presente nel sud-est europeo, in particolare in Turchia, ma l’areale arriva a lambire anche la Sicilia. La specie più diffusa in Italia è un ibrido (P. orientalis X P. occidentalis) che grazie alle proprie caratteristiche ecologiche (adattabilità a condizioni di umidità e acque correnti), è stato in passato introdotto nelle piane risicole del Vercellese e del Novarese per scopi produttivi (legna da ardere, paleria, manici, attrezzi per la cucina e lavori di artigianato, fogliame usato per lettiera).

Dopo l’avvento della meccanizzazione agricola, che qui più che in altre zone del Piemonte ha influito sulla struttura del territorio, appare necessario proporre, per i pochi filari relitti di una certa estensione e in buono stato di conservazione, l’adozione di una forma di tutela e salvaguardia. Si ritiene quindi che debbano essere eseguite cure colturali e fitosanitarie con rinfoltimenti dei filari esistenti. I filari rimasti hanno essenzialmente una funzione produttiva fornendo, con turni di circa 10 anni, quantitativi di legna da ardere destinati prevalentemente all’autoconsumo aziendale; turni più brevi sono stati osservati sulle formazioni a capitozza alta del Cuneese e del Canavese per la produzione di paleria. La quantità di biomassa ritraibile da questa tipologia di filare non raggiunge mai valori considerevoli per le limitazioni di carattere patologico precedentemente ricordate. Tuttavia la qualità della produzione legnosa risulta decisamente interessante avendo il legno di platano un alto potere calorifico: si ricorda che 3,3 kg di legno di questa specie equivalgono, in termini di resa termica, ad 1 kg di gasolio. Purtroppo i problemi di carattere fitosanitario limitano l’impiego del platano in nuovi impianti di filari, i quali, considerate le elevate produzioni ottenibili in condizioni ottimali, potrebbero rivestire un ruolo importante nella produzione di biomassa per il riscaldamento delle abitazioni rurali (Mezzalira, 1997). Attualmente le formazioni di platano più significative sono distribuite soprattutto nelle pianura risicola del Novarese e del Vercellese.

FILARI DI PLATANO A CEDUO, A CAPITOZZA BASSA O A CAPITOZZA ALTA

PRINCIPALI TIPOLOGIE DI FILARE

Filare di platano a capitozza alta lungo la strada tra Beinette e Peveragno in provincia di Cuneo.

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FILARE DI PLATANO A CEDUO A CAPITOZZA BASSA Distanziamenti: 1-2 m Altezza: 4-7 m; capitozza a 1 m Diametro: 15-20 cm a 20-25 anni Patologie: corituca, metcalfa e ifantria,

cancro colorato

Contesto: seminativi (riso). Produzioni: ceduazione periodica per la produzione di legna da ardere destinata all’autoconsumo. Il platano fornisce anche ottima paleria. Diffusione: pianura vercellese.

FILARE DI PLATANO A CAPITOZZA ALTA Distanziamenti: 2 m Altezza: 2,5 m; capitozza a 2,5 m Diametro: 25 cm a 25-30 anni Patologie: corithca, metcalfa e ifantria,

cancro colorato

Contesto: seminativo, frutteti, prati stabili. Produzioni: capitozzatura con unico taglio per la produzione di manici e legna da ardere. Diffusione: pianura cuneese, Canavese.

Filare ceduo di platano della pianura risicola presso Collobiano (VC).

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Si tratta di filari disposti in fila singola o doppia principalmente lungo i corsi d’acqua e i canali della pianura fresca o irrigua. I distanziamenti rilevati tra i singoli individui sono regolari (circa 2 m); l’altezza complessiva oscilla intorno ai 6-7 m, mentre la capitozzatura avviene generalmente a 2-2,5 m, anche se non sono rari i casi in cui, per la produzione di vimini, la ceduazione viene effettuata a 0,5 m; le età e i diametri sono spesso elevati, segno di una scarsa tendenza alla sostituzione delle piante morte. La foglia di salice risulta appetita da numerosi insetti defogliatori tra i quali la ifantria, responsabile di defogliazioni ingenti talvolta estese all’intero filare. A tali formazioni, spesso poste a margine delle scoline e dei fossi di adduzione con la funzione di protezione delle sponde, va attribuita un’importante funzione naturalistica, per il rifugio che molti animali possono trovare nei microhabitat presenti negli anfratti e nelle carie delle capitozze, e tra le radici che si immergono nell’acqua. Ormai solo raramente i filari di salice vengono utilizzati per la produzione di assortimenti destinati all’autoconsumo aziendale; tra i più apprezzati si citano: paleria per l'orticoltura, manici per attrezzi agricoli (valore di mercato 0,5 � al pezzo), legna da ardere (in quantità non elevata e qualitativamente scadente) ed in ultimo vimini, richiesti nelle zone viticole. La produzione di manici e legna da ardere viene ottenuta con un turno di capitozzatura di 3-4 anni durante il quale viene effettuato un diradamento per selezionare i 4-5 polloni con forma idonea; turni di un anno vengono adottati in prevalenza su salice bianco (ssp. vitellina) per la produzione di vimini. Nella pianura cuneese il centro per la produzione di manici era Sanfront, dove erano presenti numerosi impianti specializzati in pieno campo, mentre a Moretta il prodotto tipico erano le scope. Un tempo il salice veniva anche utilizzato per produrre frasca da foraggio, zoccoli, attrezzi per la cucina e carbone per la fabbricazione della polvere da sparo (De Philippis, 1933). Un articolo comparso sulla rivista L’Alpe negli anni ’30 descrive come enormi le potenzialità produttive di tali tipologie di filare e suggerisce alcune delle tecniche più idonee per l’impianto, come l’utilizzo di talee di 3-4 cm di diametro e dell’altezza di due metri. Viceversa, per ottenere piante capitozzate da individui spontanei, il consiglio era quello di procedere al taglio del fusto ad un’altezza di 1,5-2 m all’età di 10-12 anni. Le formazioni di salice a capitozza bassa (0,5 m), ancora presenti in brevi tratti dei fondovalle umidi e nelle zone viticole, erano utilizzate, ed alcune di esse lo sono ancora, per la produzione di vimini, usati soprattutto in viticoltura, o per lavori di intreccio. Il taglio dei vimini doveva essere effettuato annualmente per garantirne la massima flessibilità.

Nel caso di filari a densità troppo elevata (distanziamenti inferiori a 1-1,5 m) è consigliabile effettuare tempestivamente un diradamento dei fusti per evitare che il progressivo sviluppo delle chiome delle piante, impedendo l’ingresso della luce, sia causa di deperimento delle capitozze, spesso accompagnato dalla comparsa dei funghi tipici della carie legnosa. Per diminuire progressivamente la densità del filare evitando il rischio di eventuali schianti da vento, per la repentina esposizione di soggetti non sufficientemente stabili, e impatti negativi sul paesaggio generati da tagli troppo intensi, si consiglia di procedere come segue. Si effettua un primo intervento sulle capitozze del 50 % delle piante asportando circa il 25-30% dei polloni presenti. Tale trattamento viene ripetuto ogni 3-4 anni fino ad eliminare il 60 % della chioma; solo allora l’intero soggetto può essere abbattuto. La scelta dell’individuo da eliminare deve essere presa con estrema cautela: si privilegeranno gli individui già deperienti o deficitari, evitando i diradamenti sistematici e tenendo conto della densità attuale e di quella finale (I.D.F., 1996). Nella maggior parte dei filari osservati non si è provveduto alla sostituzione dei soggetti morti, con la diretta conseguenza di generare ampie interruzioni nel filare; sarebbe opportuna un’opera di rinfoltimento con l’impianto di talee di salice, anche di grosse dimensioni, facilmente reperibili dalle piante circostanti. Anche i soggetti deperienti o morti possono avere un certo interesse per le abbondanti e apprezzate fruttificazioni di Armillaria mellea (famigliole). I salici sono legati alla presenza di acque correnti e quindi alla praticoltura; il salice, trattato a capitozza, ha il vantaggio di non ombreggiare il prato con le chiome. Ciò spiega perché tali tipologie di filare siano ancora presenti, anche se in modo sporadico, in gran parte del settore occidentale della regione (specialmente nella pianura cuneese), in formazioni pure o talvolta miste a capitozze di pioppo, ovunque la zootecnia risulti l’attività agricola predominante.

Filare a capitozza bassa di salice bianco a sud dell’abitato presso Piea in provincia di Asti.

PIANTATA DI SALICE

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FILARE MISTO SALICE E PIOPPO Distanziamenti: 2 m tra i salici, 6-8 m tra i pioppi Altezza: 7-8 m; capitozza a 2,5 m Diametro: variabile Patologie: carie

Contesto: prati stabili su terreni di II e III classe di fertilità. Produzioni: fascine, legna da ardere. Diffusione: Cuneese. Piuttosto diffusi e ancora curati lungo la strada reale tra Marene e Fossano.

Filare capitozzato di salice bianco. Cascina Parpaglia, Candiolo (TO).

FILARE DI SALICE A CAPITOZZA BASSA Distanziamenti: 1,5 m Altezza: 4 m; capitozza a 1,5 m Diametro: variabile Patologie: attacchi diffusi di ifantria

Contesto: prati stabili, seminativi (mais). Produzioni: formazione diffusa nei fondovalle a margine dei vigneti per la produzione di vimini, utilizzati poi per la legatura della vite. Diffusione: Astigiano.

FILARE MISTO SALICE E PIOPPO Distanziamenti: 1,5 – 2 m Altezza: 6 m; capitozza a 2,5 m Diametro: variabile Patologie: carie diffuse

Contesto: erbai, seminativi. Produzioni: un tempo venivano capitozzati per produrre manici e fascine. Oggi vengono tagliati ogni 5 anni e il materiale viene usato come legna da ardere. Al secondo anno viene operato un taglio a scelta dei polloni con peggiore portamento che vengono utilizzati da ardere. Diffusione: pianura di Stupinigi e in generale del Cuneese.

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Si tratta di formazioni lineari con distanziamenti irregolari, talora disposti su una singola fila o in fasce larghe anche alcuni metri, se collocate lungo le sponde di corsi d’acqua di una certa portata. Contrariamente ad altre specie la robinia non è colpita, se non in modo del tutto occasionale, da insetti fitofagi. L’unico parassita di un certo rilievo è Parectopa robiniella (lepidottero minatore fogliare), che sviluppa la generazione potenzialmente più dannosa a fine agosto, quando ormai il ciclo vegetativo volge al termine; non è pertanto in grado di indurre nei soggetti colpiti danni rilevanti. Gli agricoltori in passato hanno favorito la diffusione dei filari di robinia per consolidare capezzagne, sponde di fossi e canali irrigui, per fare delimitazioni e recinzioni di proprietà, per ottenere facilmente legna da ardere e paleria agricola, ma anche per la sua attitudine mellifera apprezzata dagli apicoltori. I filari puri di robinia rivestono uno scarso valore ecologico essendo ambienti semplificati, infatti questa specie di origine nord americana è accompagnata da un numero di specie animali e vegetali ridotto, spesso banali. Tuttavia negli ampi tratti della pianura piemontese, dove le formazioni arboree costituite da specie spontanee sono estremamente sporadiche, essi possono divenire i siti di nidificazione e rifugio per molti uccelli, in particolare per quelle specie che prediligono luoghi con vegetazione intricata, e non troppo elevati rispetto al suolo. Così, in contesti agrari fortemente antropizzati, le formazioni lineari di robinia partecipano alla costituzione di una rete di collegamenti minori (corridoi ecologici). Nel complesso costituiscono un vero e proprio sistema articolato che può garantire continuità fisica tra aree di interesse naturalistico (I.P.L.A., 2000). Infine non va ignorato il valore paesaggistico che tali formazioni assumono durante l’abbondante, vistosa e profumatissima fioritura primaverile; invece è negativa l’invadenza con la quale la robinia si appropria delle aree agricole abbandonate e delle zone boscate degradate della pianura e della collina, partendo dai popolamenti esistenti e sviluppandosi con vigore per polloni radicali. La robinia in filare, talvolta mista con altre specie, produce legna da ardere di ottima qualità e in gran quantità, se trattata a ceduo con turno breve, ma può anche fornire paleria per la viticoltura o travature per piccole costruzioni, se gestita con turni appropriati. Un tempo la robinia trovava anche impiego per lavori da carradore, doghe e ingranaggi. Si è stimato che la provvigione di questi filari con turni superiori ai 20 anni, raggiunga valori di circa 400-500 m3/ha dato questo comparabile solo con i boschi di ottima fertilità. Una produzione così elevata di biomassa è principalmente imputabile, come accennato in precedenza, a tre fattori: i soggetti disposti in formazioni lineari usufruiscono di una maggiore

quantità di luce che la robinia, specie notoriamente eliofila, sfrutta manifestando accrescimenti molto rapidi. Inoltre le piante poste al margine dei campi possono utilizzare una parte delle concimazioni provenienti dalle colture; infine, se collocate lungo il corso di un canale irriguo, possono disporre di acqua in abbondanza per tutto il periodo vegetativo. Sotto il profilo economico è sicuramente interessante l’associazione con altre latifoglie (noce, ciliegio etc.); queste, allevate ad alto fusto per la produzione di assortimenti di pregio, sono favorite nella crescita dalla presenza del ceduo di robinia in quanto capace di fissare azoto rendendolo disponibile nel terreno per le radici. Una variante particolare alla tipologia fino ad ora descritta è costituita dal filare osservato nella zona tra Salmour e Bene Vagienna; si tratta di una formazione di modesta estensione, gestita in una forma inconsueta per la robinia, mai osservata in altre aree piemontesi, ossia con soggetti capitozzati a circa 0,5 m per la produzione di paleria e manici. Costituisce un’altrettanta particolarità il filare ad alto fusto riscontrato nel Tortonese. Si tratta di una formazione composta da soggetti con altezza prossima ai 20 m e diametri di 25-30 cm. I filari e le formazioni lineari di robinia, come precedentemente ricordato, sono ampiamente diffuse in tutto il territorio piemontese; pertanto non possono essere considerati tipici di una particolare zona geografica.

Filare misto a capitozza bassa di robinia e salice bianco situato tra Salmour e Bene Vagienna in provincia di Cuneo.

FILARI DI ROBINIA, A CEDUI O AD ALTO FUSTO, PURI O MISTI

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Contesto: seminativi (grano). Produzioni: principalmente legname da opera e secondariamente legna da ardere di ottima qualità. Diffusione: pianura alessandrina.

Filare di robinia ad alto fusto nei pressi di S. Quirico tra Alessandria e Pozzolo Formigaro.

FILARE A CAPITOZZA BASSA DI ROBINIA E SALICE Distanziamenti: 2-3 m Altezza: 8 m; capitozza a 0,5 m Diametro: 12 cm a 15-20 anni Patologie: nessuna di rilievo

Contesto: prati stabili, seminativi (mais). Produzioni: legna da ardere e paleria dalla capitozzatura della robinia; manici dalla ceduazione del salice. Diffusione: pianura cuneese.

FILARE CEDUO DI ROBINIA Distanziamenti: irregolari, variabili Altezza: 10 m Diametro: 10-13 cm a 20 anni Patologie: sporadici minatori fogliari

Contesto: prato stabile, seminativi (mais). Produzioni: legna da ardere di ottima qualità ottenuta con turni di 15 anni. Diffusione: diffuso in tutto il Piemonte.

FILARE ALTO FUSTO DI ROBINIA Distanziamenti: variabili (4-6 m) Altezza: 15-20 m Diametro: 25-30 cm a 40-50 anni Patologie: sporadici minatori fogliari

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Il ceduo di ontano nero in filare o in pieno campo, costituito in tal caso da serie di filari tra loro distanziati, è una formazione tipica della pianura canavesana, nella quale si è diffuso grazie alle particolari caratteristiche del territorio. Tuttavia è altresì riscontrabile nel Chivassese, nel Pinerolese e localmente nel Cuneese. Il lento divagare di fiumi e torrenti (Dora Baltea, Chiusella e Orco) giunti allo sbocco con la pianura ha da sempre favorito la formazione di ristagni d’acqua ed il depositarsi di estese alluvioni sabbiose che, in concomitanza di piogge di una certa intensità, davano origine a vasti tratti di pianura totalmente sommersi. In queste aree, precluse alle consuete colture agrarie, si diffusero presto i cedui di ontano che fornivano assortimenti di qualità e in quantità apprezzabili. Gli impianti erano realizzati in filari accoppiati (distanza tra le fila 2 m) lungo i fossi di scolo che delimitavano aree prative destinate all’allevamento. Durante la prima metà del Novecento i castagneti cedui del Canavese furono colpiti dal mal dell’inchiostro, infezione fungina, e l’ontano nero diventò un’ottima alternativa per la produzione di paleria per le viti; con turni che oscillavano dai 4 ai 7 anni era possibile ottenere, previo diradamento dei polloni soprannumerari, una provvigione di 125 m3 ad ettaro (Giordano, 1933). Un tempo l’ontano era utilizzato, oltre che per paleria e legna da ardere, per la produzione di carbone, apprezzato per la sua combustione lenta e priva di scintille e scoppi, e per la realizzazione di barche, di tubi e di canali per le antiche fontane (Senni, 1933); esso inoltre era apprezzato per la produzione di piccoli oggetti (zoccoli, rocchetti, fusi e basti) e di frasca destinata all’alimentazione del bestiame. Essendo specie in grado di vivere in presenza di abbondante acqua nel suolo, l’ontano era utilizzato per sottrarre quella in eccesso e permettere l’impianto di specie più esigenti.

Da queste formazioni si ricava, oggi, principalmente legna da ardere. Assortimenti ricavati da soggetti di età maggiore possono trovare collocazione come legname per segheria e torneria minuta, impiegati poi nell’industria del giocattolo (Canavese). La gestione dei filari cedui del Canavese prevede, nei primi 2-3 anni successivi al taglio, uno sfollo dei getti laterali per ridurre l’ombreggiamento sulle zone prative circostanti. In seguito viene effettuata la potatura dei polloni rimasti fino a un’altezza di circa 2,5 metri. Raggiunti i 6-7 anni di età vengono utilizzati i polloni con caratteristiche di scarso avvenire e rilasciati 1 o 2 polloni a ceppaia con migliore portamento, destinabili in futuro alla segheria. Tra le funzioni di carattere ecologico va ricordato che le formazioni lineari di ontano nero, poste a ridosso delle colture, garantiscono un effetto depurativo sia sui deflussi superficiali sia sotterranei, costituendo una cosiddetta fascia tampone. Questa prerogativa deriva dall’attitudine di tale specie a crescere facilmente in ambienti saturi d’acqua, dove si concentrano le maggiori quantità di nitrati e fosfati. In ultimo i filari di ontano possono rivestire un importante ruolo nella protezione delle sponde dei canali irrigui e dei piccoli corsi d’acqua, grazie al profondo e fascicolato apparato radicale di cui dispongono. Filari interessanti, sotto l’aspetto produttivo, sono i filari cedui di ontano misti a frassino presenti negli ambienti pedemontani. Questi filari, ceduati con turno variabile, oltre a fornire gli assortimenti tipici delle formazioni pure, possono produrre una discreta percentuale di legname di pregio se il frassino viene governato ad alto fusto.

Ceduo di ontano

Filare ceduo di ontano nero tra Castellamonte e Ozegna in provincia di Torino.

FILARI CEDUI DI ONTANO, PURI O MISTI

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FILARE CEDUO DI ONTANO E FRASSINO Distanziamenti: 1-1,5 m Altezza: 4-6 m Diametro: 10-15 cm Patologie: nessuna di rilievo

Contesto: prati stabili. Produzioni: principalmente legna da ardere e vimini dalle capitozze di salice presenti. Diffusione: pianura cuneese. Imbocco delle vallate alpine.

FILARE CEDUO DI ONTANO NERO Distanziamenti: variabili Altezza: 10-12 m Diametro: 15 cm a 15 – 20 anni Patologie: nessuna di rilievo

Contesto: prato stabile, seminativi (mais). Produzioni: legna da ardere di qualità. Assortimenti da torneria. Diffusione: pianura canavesana.

Filare ceduo misto di ontano nero e frassino maggiore nel Comune di Sanfront in provincia di Cuneo.

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Filari riscontrabili sia semplici, ossia costituiti da una singola fila di piante priva di specie associate, sia misti, a formare delle vere e proprie quinte in cui la farnia occupa il piano dominante, spesso con soggetti di grandi dimensioni (diametri talora di 60-70 cm e altezze superiori ai 20 m) mentre gli strati inferiori sono composti da molte altre specie arboree e arbustive; talora, nel Chierese, è presente il cerro. Sulle chiome sono stati spesso riscontrati attacchi di oidio, patogeno di origine fungina che, in soggetti adulti, generalmente non reca danni di grossa entità; alla base dei fusti sono frequenti le carie, dovute a patogeni fungini che spesso si insediano quale conseguenza di danni originati dai macchinari agricoli. Inoltre, è stata notata con una certa frequenza, la presenza di nidi dei lepidotteri Euproctis chryssorea e Thaumetopoea processionea, le cui larve sono fortemente urticanti, che possono essere causa di ingenti defogliazioni. Tale tipologia di filare, in virtù dell’elevata eterogeneità che la contraddistingue, si pone tra le formazioni a maggiore polifunzionalità. Si tratta in molti casi di formazioni di origine antica che rivestono un elevato valore storico-paesaggistico; infatti sono spesso lembi relitti di tipologie boschive planiziali ormai del tutto scomparse dalla nostra pianura, tranne in alcune rare e localizzate aree. L’elevato numero di specie (sono infatti riscontrabili nel ristretto spazio del filare quasi tutte quelle arboree e arbustive che compongono naturalmente il bosco di farnia) e l’estensione laterale (10-15 m), costituiscono i requisiti essenziali a rendere questi filari un luogo di elevato interesse ambientale per il rifugio e la riproduzione della fauna. Sono di particolare pregio naturalistico le formazioni presenti lungo i fontanili, dove la purezza e la freschezza delle acque consentono la vita di una ricca flora e fauna acquatica con specie anfibie.

Sulle ampie e alte chiome delle querce nidificano numerose specie di corvidi e rapaci, mentre, sui bassi rami degli arbusti, trovano riparo, cibo e siti idonei alla riproduzione molti altri piccoli uccelli e mammiferi. In passato il filare di quercia era una risorsa estremamente preziosa per l’economia rurale: il legno era utilizzato per travature, lavori da carradore, paleria, doghe per botti, attrezzi agricoli, carbone di ottima qualità e legna da ardere. Inoltre, alcune piante venivano ceduate a sgamollo per l’alimentazione con frasca degli animali, mentre la ghianda veniva utilizzata per l’allevamento dei suini. I filari venivano spesso rinfoltiti artificialmente con altre specie per diversificare le produzioni e soddisfare tutte le esigenze aziendali. Attualmente, se sottoposti a regolari potature, i filari di farnia allevati ad alto fusto possono ancora fornire, compatibilmente con le esigenze di carattere paesaggistico e naturalistico, prodotti legnosi di un certo valore economico. Da essi sono ritraibili tronchi da segheria, più difficilmente da trancia, e legna da ardere di ottima qualità come sottoprodotto. Dalle altre specie associate è possibile ottenere legna da ardere di buona qualità e quantità. Si ricorda che le ceduazioni, per motivi di carattere naturalistico e legislativo, non devono essere praticate con turni troppo brevi, su superfici troppo estese e nei periodi di riproduzione degli uccelli (aprile). Fra le varie formazioni di pregio paesaggistico e naturalistico i filari presenti lungo i fontanili di Cavallermaggiore risultano tutelati in quanto biotopo ai sensi della L.R. 47/95 “Norme per la tutela dei biotopi”. I filari di querce risultano piuttosto rari in gran parte del Piemonte; hanno una concentrazione maggiore nella pianura cuneese, analogamente ad altre tipologie di filare, e nella pianura alessandrina nei pressi di Tortona.

Maestoso filare misto ad alto fusto di cerro e farnia a margine della provinciale tra Ternavasso e Pralormo in provincia di Torino.

FILARI DI FARNIA

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FILARE DI FARNIA MISTO Distanziamenti: 3-6 m Altezza: 20 m Diametro: 50 cm a 60 anni Patologie: lepidotteri defogliatori e

urticanti

Contesto: prato stabile, seminativo (mais). Fontanili. Produzioni: tronchi per segheria; legna da ardere di qualità apprezzabile dal ceduo. Diffusione: pianura cuneese.

FILARE DI FARNIA PURO Distanziamenti: 6 m Altezza: 20 m Diametro: 40 cm a 40 anni Patologie: lepidotteri defogliatori e

urticanti

Contesto: seminativi (mais, soia, riso). Produzioni: principalmente legna da ardere. Le ripetute potature hanno compromesso la qualità degli assortimenti ritraibili. Diffusione: pianura novarese.

FILARE DI CERRO E FARNIA Distanziamenti: variabili Altezza: oltre 25 m Diametro: >65 cm a circa 100 anni Patologie: lepidotteri defogliatori e

urticanti

Contesto: seminativi (grano, orzo). Produzioni: legna da ardere prodotta dalla ceduazione delle specie del piano dominato (frassino maggiore, olmo, robinia). Diffusione: altopiano di Poirino.

Filare puro ad alto fusto di farnia. Comune di Agognate in provincia di Novara.

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Tipologia di filare riscontrabile su fila singola o doppia, composto da soggetti di grandi dimensioni che, con turni di circa 25 anni, raggiungono facilmente i 25-28 m di altezza con diametro spesso superiore a 50 cm. Le patologie normalmente riscontrate sui filari di pioppo sono le stesse delle formazioni di pieno campo anche se i danni prodotti risultano generalmente di entità inferiore. Infatti le formazioni lineari presentano condizioni meno idonee allo sviluppo degli organismi patogeni (maggiore esposizione alla luce e al vento e ridotta possibilità di diffusione) e gli alberi, avvalendosi delle condizioni di margine ad essi favorevoli, rispondono con maggiore vigoria ai danneggiamenti. In passato le formazioni di pioppo in filare erano preferite a quelle di pieno campo poiché da esse era possibile ottenere una produzione legnosa maggiore che allora giustificava la sensibile perdita in qualità degli assortimenti. Le piante venivano poste a dimora in filari lungo le sponde dei canali irrigui, a file distanti almeno 3 m e con le piante a 2 m tra loro; tra i filari binati erano rispettati distanziamenti di almeno 14 m. Oggi che la coltura del pioppo viene quasi esclusivamente effettuata in pieno campo e il pioppo di ripa viene ritenuto un limite allo sviluppo delle colture circostanti, le formazioni lineari di tale specie sono divenute molto meno frequenti. I filari di pioppo ancora presenti sono puri o, più spesso, misti, con salice, successivamente capitozzato, acero di monte, noce, ciliegio e talora ontano piantati per soddisfare le diverse esigenze dell’azienda e per incrementarne il valore economico. Nella pianura lombarda era tipica la “gabbata”, ovvero un filare di pioppo ceduato a sgamollo misto a salice capitozzato lungo i canali di irrigazione (Pavari, 1933). Da essi era possibile ritrarre paleria, legna o fasciname e, talora, frasca per foraggio. Dalla ceduazione a sgamollo dei pioppi, che di regola avveniva ogni 3-4 anni, si ottenevano produzioni elevatissime che, nelle aree vocate alla pioppicoltura potevano raggiungere le 0,2 t di legna verde, ridotte poi dalla stagionatura alla metà del peso (Pavari, 1933). Tali formazioni, caratterizzate soprattutto dall’elevato sviluppo in altezza, costituiscono senza dubbio un elemento di diversificazione e variazione della fisionomia del paesaggio rurale, interrompendone la banalità e la monotonia. Il pioppo in filare riveste primariamente un ruolo produttivo potendo fornire legname in quantità importanti; sono stimati incrementi annui che possono variare, in funzione della fertilità stazionale, da 20 a 30 m3/anno/ha. Il pioppo ibrido allevato in filare, o pioppo di ripa, può produrre, con adeguato turno, assortimenti da segheria e cartiera e legno per pannelli di particelle. Le tensioni nel fusto, generate dalla competizione per la luce che si instaura tra le piante del filare stesso, ne riducono la qualità rispetto a quelle in pieno campo.

Ai prodotti dell’utilizzazione del pioppo si aggiungono, oltre agli assortimenti tipici ritraibili dal salice e dall’ontano, tradizionalmente capitozzato il primo e ceduato il secondo, quelli derivanti dalle latifoglie nobili: ciliegio, noce nostrano e noce nero. Comunque è importante sottolineare che specie così esigenti di luce, sotto la copertura dei pioppi, non sono in grado di fornire prodotti comparabili a quelli degli impianti specializzati in pieno campo e dai filari puri. Quando tali filari sono arricchiti con specie arbustive e arboree, anche se di scarso interesse commerciale, acquisiscono interesse per la funzione naturalistica. Sono riscontrabili formazioni di estensione significativa nella pianura cuneese e alessandrina, in particolare sulle rive delle rogge e dei corsi d’acqua di maggiore dimensione, in contesti agrari caratterizzati dalla presenza di prati stabili.

Filare puro ad alto fusto di pioppo ibrido presso Staffarda in provincia di Cuneo.

FILARE DI PIOPPO D’ALTO FUSTO

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FILARE MISTO DI PIOPPO IBRIDO E ONTANO CEDUO E/O ALTO FUSTO Distanziamenti: pioppo 6 m, ontano 2 m Altezza: pioppo 17-20 m, ontano 12 m Diametro: pioppo 40-50 m, ontano 12 m Patologie: nessuna

FILARE DI PIOPPO CON CAPITOZZA DI ACERO DI MONTE Distanziamenti: 1 m alternati pioppo e acero Altezza: pioppo 18 m, acero 6 m; capitozza

acero a 2 m Diametro: pioppo: variabile, 40-70 cm a 25

anni; acero: 15-20 cm a 20 anni Patologie: metcalfa su acero

Contesto: prati stabili. Produzioni: il pioppo fornisce gli assortimenti tradizionali della specie, mentre l’acero viene utilizzato per la produzione di legna da ardere. Diffusione: baraggia novarese.

Contesto: seminativi (grano). Produzioni: il pioppo viene utilizzato per segheria, cartiera e legna da ardere, l’ontano esclusivamente per legna da ardere. Un tempo l’ontano era ceduato a sgamollo per la produzione di frasca da foraggio. Diffusione: diffuso nell’alta pianura di Mondovì, dove veniva anche impiegato per preservare le sponde dei canali dall’erosione.

FILARE DI PIOPPO IBRIDO Distanziamenti: 3-4 m Altezza: 25m Diametro: 40 (60) cm a 25 anni Patologie: tipiche dei pioppi di coltura

Contesto: prati stabili, seminativi (mais). Produzioni: produzione di assortimenti legnosi per segheria di medio valore. La qualità e il valore cresce al crescere del distanziamento. Diffusione: pianura cuneese. Piana terrazzata di Bosco Marengo.

Alto fusto di pioppo ibrido con siepe arborata di Cornus sanguinea nei pressi di Bosco Marengo in provincia di Alessandria.

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Si tratta di una tipologia di filare eterogenea nella struttura e nella composizione specifica, derivante in parte da formazioni naturali nelle quali sono state introdotte, in tempi successivi, specie arboree e arbustive col fine di ottenere assortimenti di maggiore pregio e in grado di soddisfare tutte le esigenze aziendali. Si riscontrano con maggior frequenza lungo i corsi d’acqua di una certa estensione. Il piano dominante risulta generalmente costituito da pioppo ibrido, farnia e frassino maggiore, mentre gli strati dominati sono occupati da ontano nero, ciliegio, salici capitozzati, acero campestre e da alcune specie arbustive, tra le quali sambuco, sanguinello e nocciolo. Questa tipologia di filare, oltre a rivestire una notevole importanza paesaggistica, si colloca, al pari delle formazioni a farnia, tra quelle con il più alto valore ecologico; in virtù del significativo numero di specie vegetali che la compongono offre un habitat idoneo alla vita di molte specie animali. Sotto questo aspetto è doveroso sottolineare lo splendido filare presente lungo la bealera Cortigiana, presso la piana di Torre San Giorgio (CN). Il corso d’acqua sul quale si snoda il filare è in parte alimentato da risorgive e ciò si ripercuote in modo positivo sulla qualità delle acque, tanto da rendere attuabile un piano di recupero. Tale piano prevede un rinfoltimento della formazione boschiva riparia con le specie tipiche dell’ambiente, ma anche la reintroduzione di elementi dell’ittiofauna ora scomparsi.

I filari riconducibili a questa tipologia erano in passato, al pari di altre formazioni miste, particolarmente apprezzati poiché fornivano, in relazione alle specie che li componevano, legna da opera, da ardere e una vasta gamma di prodotti secondari, come ad esempio il fasciname di sanguinello tradizionalmente utilizzato per la costruzione artigianale delle scope usate nelle stalle. L’acero campestre, oltre a fornire legna da ardere di ottima qualità, era anche utilizzato per produrre paleria, manici e assortimenti venduti anche per la realizzazione di calci da fucile; l’olmo era richiesto per costruire i raggi delle ruote dei carri. Per quanto riguarda la gestione futura dei filari misti non si prevedono limitazioni all’utilizzo del pioppo ibrido, pur consigliandone la sostituzione con specie quali farnia, ciliegio e frassino maggiore. Le utilizzazioni sono possibili a patto che esse non interessino superfici troppo ampie, fatto che altererebbe eccessivamente le caratteristiche microclimatiche del luogo; inoltre non devono avvenire con turni troppo brevi, né cadere nei periodi di riproduzione dell’avifauna. Dopo il taglio delle querce, che dovrebbero giungere a maturità tra 80 e 100 anni, è opportuno prevederne la sostituzione. Sono inoltre consigliabili cure colturali, il contenimento delle piante rampicanti e il taglio periodico dei rovi, particolarmente in presenza di soggetti giovani. Formazioni molto interessanti per estensione e conservazione sono ancora osservabili in gran parte della pianura cuneese lungo i fossi e le rogge, in particolare nella zona compresa tra Marene e Fossano e nella zona di Moretta, in un contesto agrario di seminativi e prati stabili o avvicendati.

Filare misto di ciliegio, frassino maggiore, farnia e ontano nero ad alto fusto su ceduo di nocciolo tra Mondovì e Fossano in provincia di Cuneo.

FILARI MISTI A SALICE, PIOPPO, FARNIA, ONTANO, ACERO CAMPESTRE E SPECIE ARBUSTIVE

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FILARE MISTO DI PIOPPO E SALICE CON ONTANO E FARNIA, FRASSINO, CILIEGIO ECC. Distanziamenti: irregolari Altezza: salice 6 m, pioppo 15 m,

farnia 20 m; capitozza del salice a 2 m

Diametro: variabile Patologie: presenza di carie

Contesto: pianura irrigua destinata a seminativi e a colture foraggere di prato stabile o avvicendato. Produzioni: frasca da foraggio dall’ontano nero. Manici, palerie e legna da ardere di scarsa qualità e quantità dalla capitozzatura del salice. Assortimento da segheria dalla farnia. Diffusione: Cuneese; Biellese.

FILARE MISTO DI LATIFOGLIE NOBILI SU CEDUO DI NOCCIOLO Distanziamenti: 3 m Altezza: farnia 18 m, ciliegio 12 m,

frassino 12 m, ontano 12 m Diametro: variabile Patologie: nessuna di rilievo

Contesto: prati stabili e seminativi (mais). Produzioni: legname da opera di buona qualità dall’alto fusto e legna da ardere dal nocciolo. Diffusione: pianura cuneese.

Filare misto di pioppo ibrido, salice bianco, ontano nero, frassino maggiore, farnia e ciliegio, alto fusto e ceduo, in Comune di Torre S. Giorgio, provincia di Cuneo.

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Formazioni lineari a spiccata vocazione produttiva poste al margine dei campi, spesso sulle rive di fossi o rogge. Il noce nero è specie originaria dell’America del Nord di non remota introduzione; viceversa, il noce europeo è un albero di antichissima coltivazione per lo più a piante sparse nei campi oppure a piccoli gruppi. L’origine di quest’ultima specie appare piuttosto controversa; al pari di altre, ampiamente diffuse in Europa durante il Terziario, con l’avvento delle ere glaciali ha trovato rifugio a oriente, soprattutto nel Caucaso (Bernetti, 1995); secondo altri autori è anche spontaneo in parte dei Balcani. In base agli studi sui pollini più diffusi in passato, è possibile affermare che il noce europeo era specie indigena in Italia, anche se diffusa in natura in modo sporadico al margine dei boschi, essendo rimasta, durante i periodi interglaciali, sul territorio italiano probabilmente allo stato di relitto. In Piemonte fu probabilmente diffuso dai Romani. Tipiche produzioni di questi filari sono assortimenti di pregio da destinarsi alla segagione ed alla trancia; quelli ritraibili dal noce europeo sono di maggiore qualità. Come sottoprodotto si ottiene legna da ardere apprezzata. Tali produzioni, se ben gestite secondo i criteri dell’arboricoltura da legno, possono produrre un reddito interessante in tempi medio-lunghi. Il noce nero ha una rapidità di accrescimento maggiore rispetto al noce nostrano e, grazie alla spiccata dominanza apicale, mantiene elevati accrescimenti

anche in quelle condizioni stazionali che per il noce nostrano sarebbero considerate prossime al limite. Se la disposizione in filare, da un lato, si ripercuote in modo positivo sulla rapidità di accrescimento (in tali condizioni infatti ogni singolo individuo dispone di una maggiore quantità di luce) dall’altro può costituire un limite alla qualità dei prodotti, favorendo la ramificazione bassa sul fusto e l’apertura della chioma. E’ possibile porre un parziale rimedio con potature regolari, eliminando i rami sul fusto fino a 1/3 dell’altezza totale della pianta prima che abbiano superato i due centimetri di diametro, limite oltre il quale il danno prodotto dal nodo può causare una perdita sensibile del valore dell’assortimento. Il legno di noce trova largo impiego nell’industria del mobile; il nome di “gunwood” sotto cui è noto negli Stati Uniti ricorda l’impiego nei calci di fucile. I filari osservati sono quasi tutti in purezza e solo occasionalmente si riscontrano filari nei quali le due specie sono associate. Questo perché esistono, tra le specie, differenze di accrescimento e di carattere ecologico, pur giovandosi entrambe di suoli profondi, sciolti e freschi. A differenza di altre formazioni lineari quelle di noce non possono essere considerate tipiche di particolari zone geografiche del Piemonte; esse hanno in generale una scarsa diffusione tranne nella pianura occidentale della regione dove sono più frequenti.

Filare di noce europeo lungo la strada tra Boves e Cuneo passando per S. Anna.

FILARI DI NOCE NERO ED EUROPEO

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FILARE DI NOCE NERO Distanziamenti: 8 m Altezza: 15-20 m Diametro: 20-25 cm a 15 anni Patologie: nessuna

Contesto: pianura irrigua di II classe di fertilità destinata alla pioppicoltura e praticoltura nelle aree idromorfe. Produzioni: tronchi da segheria e trancia di elevata qualità e valore mercantile; legna da ardere come sottoprodotto dell’utilizzazione. Diffusione: pianura Cuneese. È un tipo di alberata scarsamente diffuso e privo di valenza storica.

FILARE DI NOCE EUROPEO Distanziamenti: 5 m Altezza: 12-15 m Diametro: 40 cm a 50-60 anni Patologie: nessuna di rilievo

Contesto: prati stabili. Produzioni: legname da trancia e da segheria di buona qualità e legna da ardere come sottoprodotto dell’utilizzazione. E’ possibile una produzione collaterale di frutti. Diffusione: sporadico nella pianura cuneese.

Filare di noce nero nel Comune di Torre S. Giorgio, provincia di Cuneo.

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Filari costituiti da pioppo bianco o nero, spesso associato a salice. I distanziamenti sulla singola fila sono regolari, essendo variabili in uno spazio abbastanza ristretto (1,5-2,5 m); le capitozze, rispetto alla piantata a salice, risultano più alte e sono impostate intorno a 2,5-3,5 m. Si tratta di filari talora abbandonati perché sprovvisti ormai di qualsiasi interesse economico; le capitozze, non più utilizzate, sono spesso danneggiate da numerose carie e marciumi, e i fusti talvolta si inclinano pericolosamente fino a cadere nei corsi d’acqua. Lungo i filari sono riscontrabili lacune originate dalla mancata sostituzione delle piante morte o abbattute; tra le piante si insediano rovi, sanguinello ed altre specie invadenti, indicatrici di una mancata gestione che ormai si protrae da diversi anni. Si tratta di formazioni storicamente legate al paesaggio rurale, connesse ad un contesto agrario ancora poco compromesso e basato sulla zootecnia. Ad esse vengono attribuite le funzioni ecologiche tipiche delle altre formazioni capitozzate trattate in precedenza (siti per la riproduzione e il rifugio della fauna e funzione disinquinante delle acque). In questo senso particolare importanza assumono le capitozze non più utilizzate, le quali, almeno nei primi anni dopo l’ultimo taglio, ovvero prima che subentri la naturale selezione dei polloni, sviluppano una chioma molto fitta, ideale per la nidificazione dell’avifauna. Dall’utilizzo dei pioppi è ritraibile materiale legnoso di impiego ancor più limitato rispetto alle capitozze di salice, in quanto si riduce ad assortimenti da ardere di scarso valore ed eventualmente a palerie per l’orticoltura.

Nei filari ancora utilizzati a turni brevi, 3-4 anni, dai polloni del pioppo bianco e del pioppo ibrido si ottiene soltanto legna da ardere di basso valore, mentre, con turni ancora più brevi, si ottiene frasca per l’alimentazione degli animali. Un tempo la fronda del pioppo nero era particolarmente apprezzata; la ceduazione autunnale forniva ottimo foraggio ricco di proteine, grassi, e di sostanze albuminoidi, di elevato valore nutritivo (Pavari, 1933). Il salice, generalmente associato al pioppo, viene trattato o con i turni tradizionali di un anno per la produzione di vimini, o di più anni per la piccola paleria agricola e i manici. I filari di pioppo nero sono riscontrabili solo più in ristrette zone della pianura piemontese; sono presenti filari di un certa estensione, ancora a regime, nel tratto compreso tra Santhià e Bianzè, in provincia di Vercelli, e nel Tortonese, dove le formazioni osservate versano viceversa in stato di abbandono. Formazioni miste o pure con presenza notevole di pioppo bianco, in differenti stadi di conservazione, caratterizzano la pianura cuneese in particolare tra Fossano e Racconigi.

FILARI DI PIOPPO PURI O MISTI, CEDUATI A CAPITOZZA

Filare a capitozza alta misto di pioppo bianco e salice bianco nella pianura di Moretta, Savigliano e Saluzzo, in provincia di Cuneo.

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FILARE DI PIOPPO NERO, PIOPPO BIANCO E SALICE CAPITOZZATI Distanziamenti: 1,5 m Altezza: variabili 5-8,5 m;

capitozza a 2,5 m Diametro: 30 cm a 20-25 anni Patologie: carie sulle capitozze

Contesto: seminativi, prati stabili. Produzioni: attualmente nessuna. Un tempo venivano prodotti, a seconda delle specie, paleria, manici e legna da ardere. Diffusione: pianura cuneese nei pressi di Marene.

FILARE DI PIOPPO BIANCO A CAPITOZZA IN PUREZZA Distanziamenti: 2 m Altezza: 10 m; capitozza 2,5-4 m Diametro: 40 cm a 40-50 anni Patologie: numerose carie sulla

capitozza e al piede

Contesto: seminativi (mais). Produzioni: prevalentemente legna da ardere. Diffusione: pianura cuneese.

FILARE DI PIOPPO NERO A CAPITOZZA IN PUREZZA Distanziamenti: 2 m Altezza: variabile;

capitozza a circa m 2,5-3 Diametro: 30-40 cm a 40-50 anni Patologie: marciumi e carie

abbondanti. Fallanze

Contesto: pianura irrigua di I classe di fertilità destinata a seminativi (mais, grano, barbabietola da zucchero, ortaggi). Produzioni: legna da ardere di scadente qualità. Diffusione: presenza sporadica constatata solo nei pressi di Tortona.

Filare capitozzato di pioppo nero con sottobosco di corniolo, rovo e robinia nei pressi di Tortona, provincia di Alessandria.

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Filare interamente di origine artificiale con distanziamenti regolari generalmente di 5 m; l’altezza totale normalmente non supera gli 8 m, con diametri piuttosto elevati (40-50 cm) ed età stimate intorno ai 70-80 anni. Tale specie, negli ultimi anni, è oggetto di intensi attacchi da parte del lepidottero di origine americana Iphantria cunea, responsabile, come su altre specie, di ingenti defogliazioni durante la seconda generazione. Le piante particolarmente colpite sono riconoscibili, anche in tardo autunno, per l’emissione di numerosi nuovi getti, nonostante la stagione avanzata. In passato, quando la diffusione del gelso era più consistente e l’ifantria non era ancora comparsa, erano soprattutto le malattie fogliari di origine fungina (note sotto il termine generico di “fersa”) a destare le maggiori preoccupazioni. Sui fusti, in particolare su quelli delle piante più vecchie, spesso si sviluppavano funghi agenti di carie del genere Polyporus, mentre l’apparato radicale era soggetto a marciumi dovuti ad Armillaria (AA.VV., 1952). Quest’ultima, sul gelso, produce delle fruttificazioni di colore giallo zolfo molto apprezzate perché di qualità superiore rispetto a quelle riscontrabili su altre specie come robinia e frassino. Infine, per quanto riguarda gli insetti, erano frequenti gli attacchi sulle parti verdi da parte di Pseudaulacaspis (Diaspis) pentagona, cocciniglia della famiglia dei Diaspididi. La leggenda vuole che la bachicoltura in occidente abbia preso origine in Grecia per mano dei monaci del Monte Athos, i quali durante un viaggio di ritorno dalla Cina portarono a Bisanzio alcune canne di bambù contenenti uova di baco da seta. Gli Arabi introdussero il gelso in Spagna e in Sicilia nei secoli X–XI, mentre nel secolo XV sappiamo che esso era già conosciuto in Toscana (AA.VV., 1952). E’ nell’Italia settentrionale, soprattutto in Lombardia, che tale specie trovò maggiore diffusione (troviamo riscontro della seta lombarda già nel primo ‘600 nei Promessi Sposi), raggiungendo il massimo della produzione alla fine dell’800. Nella tecnica colturale i gelsi venivano piantati in filari distanti 10-15 m fra loro, con spaziature di 5-6 m sulla fila; tra i filari venivano inserite colture di campo. Il tronco del gelso veniva quindi capitozzato a 2 m, altezza considerata idonea per evitare, da un lato, l’ombreggiamento delle colture e dall’altro per non rendere troppo difficoltosa la raccolta della frasca, che abitualmente avveniva ogni 2-3 anni. Un gelso poteva fornire, per ogni raccolta della foglia, dai 4-10 kg dei primi anni, ai 75-90 kg tra i 60-100 anni. Dall’inizio del secolo XX si assistette a una graduale recessione della bachicoltura sia per questioni economiche sia per le numerose avversità parassitarie (in particolare il “calcino”, malattia di origine fungina) che ciclicamente colpivano le larve.

Testimonianze di questo rapido declino vengono offerte dai dati statistici riguardanti la produzione della foglia: da un quantitativo di 15 milioni di tonnellate del 1924-25 si passò ai 4,3 del 1963, con produzione ormai quasi tutta concentrata nel Veneto. Durante questo periodo in Piemonte iniziarono i primi espianti generalizzati dei filari di gelso, per favorire la mobilità dei mezzi agricoli e l’accorpamento dei fondi. In questa sede appare utile fare un breve cenno sull’allevamento del baco da seta. Il ciclo durava 2 mesi da maggio a giugno. Le larve erano poste su dei graticci di canne sopra intelaiature sovrapponibili a castello. Dopo la schiusa dell’uovo i bachi dovevano essere nutriti con foglia di gelso tritata, successivamente veniva loro fornita la foglia intera. Quando le larve erano mature, sui graticci veniva preparato il “bosco” o l’infrascatura: si trattava di fascetti (di norma era preferita l’erica) posti verticalmente, sui quali il bruco filava il bozzolo. In seguito avveniva la sbozzolatura ovvero il distacco dei bozzoli dai fascetti di erica per essere inviati alla filanda. Oggi che la bachicoltura non è più praticata, i pochi filari rimasti nella pianura piemontese rivestono uno straordinario significato storico, testimonianza di una coltura che in passato è stata di enorme importanza per la nostra economia. Si pensi a tal proposito che alla fine dell’800 l’Italia era il primo paese produttore di foglia di gelso in Europa. Con la scomparsa della bachicoltura i residui filari di gelso sono stati utilizzati per la produzione di legna da ardere e paleria, entrambe con buone caratteristiche, mentre la frasca era impiegata per l’alimentazione degli animali. Un tempo, invece, gli assortimenti legnosi ottenuti dall’abbattimento delle piante dei filari invecchiati erano utilizzati per la costruzione di mobili, per parti di carri sottoposti a forti sollecitazioni meccaniche e doghe per botti, in particolare quelle piccole per l’aceto (AA.VV., 1952). Gli assortimenti di minori dimensioni venivano utilizzati per costruire piccoli oggetti di uso comune. Sotto l’aspetto ecologico il filare di gelso risulta importante, al pari di altre formazioni capitozzate invecchiate, disponendo di numerose cavità e anfratti all’interno della capitozza, utilizzate come rifugio e siti di riproduzione da molte specie animali. Inoltre il frutto del gelso, la mora, risulta particolarmente appetita dagli uccelli. I filari di gelso sono risultati ancora diffusi nella pianura alessandrina, sull’altopiano di Poirino e sporadicamente nella pianura cuneese. Per le formazioni di maggiore estensione e migliore stato di conservazione sarebbero particolarmente opportuni interventi per la tutela e la gestione, volti a preservarne le caratteristiche storiche e paesaggistiche.

FILARI DI GELSO

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FILARE E PIANTATA DI GELSO Distanziamenti: circa 5 m Altezza: 2-8 m; capitozza a 2-2,5 m Diametro: 40-50 cm a 70-80 anni Patologie: evidenti defogliazioni

dovute al lepidottero Iphantria cunea

Contesto: seminativi (mais, grano, bietola). Produzioni: dal taglio dei polloni si ottiene legna da ardere di media qualità. Diffusione: ancora assai diffuso nella pianura alessandrina tra Bormida e Scrivia; altopiano di Poirino.

Filare capitozzato di gelso, in Comune di Castelceriolo in provincia di Alessandria.

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Si tratta di formazioni decisamente grandiose e imponenti per dimensioni in cui non è raro vedere soggetti che superano i 20-25 m di altezza (in situazioni idonee il pioppo cipressino può raggiungere i 35 m di altezza e diametro anche di 1,20 m). Il pioppo nero var. italica differisce dal pioppo comune, oltre che per il portamento, per avere le foglie più piccole, arrotondate e con picciolo rossastro; alla base delle piante con fusti di maggiori dimensioni sono caratteristiche le profonde costolature, talvolta emergenti alcune decine di centimetri. Purtroppo i filari di pioppo cipressino sono spesso colpiti da marciumi ed altre patologie che possono essere concausa, unitamente alle ragguardevoli dimensioni non sempre accompagnate da adeguato sviluppo dell’apparato radicale, di elevata instabilità. Il pioppo cipressino, noto nel mondo come Italian poplar (così chiamato addirittura dai tecnici forestali di alcuni paesi asiatici dai quali tale specie probabilmente proviene) è una cultivar del pioppo nero, riproducibile unicamente per via vegetativa (talea) essendo un clone la cui forma tipica è attribuibile solo al genere maschile. Secondo alcuni autori, il pioppo cipressino è stato introdotto in Lombardia nel ‘700, come testimoniano alcuni dipinti dell’epoca che recano sullo sfondo proprio i filari di tale specie, da alcuni paesi dell’Asia occidentale, probabilmente Iran e Afghanistan (Bernetti, 1995).

Un tempo era largamente diffuso, in particolare nelle aree percorse da venti dominanti, per la creazione di barriere frangivento a protezione delle colture; secondariamente veniva utilizzato per la delimitazione delle proprietà e per la produzione di frasca da foraggio, resa abbondante dalla ragguardevole quantità di rami presenti sul fusto e dal loro pronto ricaccio dopo il taglio. In Piemonte la funzione attuale di questa tipologia di filari è essenzialmente di carattere ornamentale: le dimensioni e il caratteristico portamento fastigiato (presenza di numerosi rami appressati al fusto), conferiscono a tale pianta un aspetto gradevole che ne ha favorita la diffusione in quasi tutto il mondo. Le attitudini produttive sono piuttosto scadenti: la conformazione del fusto, recante alla base e all’intorno dell’inserzione dei rami, ampi contrafforti, fa sì che il legname prodotto a fine turno possa essere destinato unicamente alla legna da ardere di bassa qualità o alla produzione di pannelli di particelle. Oggi poco diffuso in ambito agricolo è più frequente come alberatura stradale; l’esempio più rappresentativo era il famoso doppio filare sul concentrico di Stupinigi, abbattuto pochi anni or sono per motivi fitosanitari.

FILARE DI PIOPPO CIPRESSINO Distanziamenti: 5 m Altezza: 25 m Diametro: 50 (60) cm a 50 anni Patologie: diffusi seccumi apicali;

schianti

Filare di pioppo cipressino un tempo osservabile nei pressi della Palazzina di caccia di Stupinigi in provincia di Torino.

Contesto: prati stabili. Altrove utilizzate come frangivento. Produzioni: legna da ardere di bassa qualità o per produzione di cippati. Diffusione: rare nel contesto agrario, sono più frequenti come alberate stradali (provincia di Alessandria).

FILARI DI PIOPPO CIPRESSINO

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Formazioni con distanziamenti regolari di circa 6 m sulla fila e tra i filari; le capitozze sono a circa 3 m, mentre le età e i diametri sono estremamente variabili. Questo antico sistema di coltura della vite, un tempo ampiamente diffuso nell’Italia centrale, è ancora oggi relativamente frequente nella pianura padana orientale mentre è divenuto raro in quella occidentale; consta di filari di specie arboree capitozzate sulle quali è condotta la vite. Nelle tipologie osservate è comune il pioppo bianco accompagnato da altre latifoglie (Sereni, 1976). Tali formazioni subirono, a partire dal ‘700, una forte contrazione in concomitanza alla maggiore diffusione della vite in coltura specializzata sui territori più vocati (Robasto, 1980). Questi filari consentivano, su una medesima superficie, la produzione di tre differenti prodotti: grano, uva e legno. Sono quindi la testimonianza di come un tempo l’agricoltura venisse praticata in modo più intensivo e di come tutte le superfici rurali dovessero comunque risultare produttive.

La produzione era dovuta principalmente alla vite, mentre le piante arboree avevano come scopo principale quello di agire da sostegno. Da esse, potate annualmente per non ombreggiare le viti, si ricavavano paletti e fascine da ardere; anche il tronco, a fine ciclo, aveva questa destinazione, ma poteva anche fornire assortimenti per la realizzazione di zoccoli, per i quali il pioppo bianco era ritenuto essere un legno particolarmente adatto (AA.VV., 1952). Attualmente le poche formazioni esistenti, sono ancora curate periodicamente; il vitigno impiegato produce uva (spesso è uva americana) mentre il materiale di risulta proveniente dalle ceduazioni a sgamollo del pioppo bianco trova impiego solo più come legna da ardere. Tale tipologia di filare in Piemonte è ancora osservabile su superfici estremamente ridotte nella pianura novarese, nella zona compresa tra la scarpata di terrazzo e il fiume Sesia nei comuni di Gattinara, Carpignano Sesia e Briona.

FILARE DI PIOPPO BIANCO E CILIEGIO MARITATI ALLA VITE

FILARI DI PIOPPO BIANCO E CILIEGIO MARITATI ALLA VITE Distanziamenti: circa 6 m Altezza: circa 6 m;

capitozza a circa m 3 Diametro: variabile Patologie: presenza di carie originatesi

dalla capitozzatura

Contesto: seminativi in rotazione (mais, soia ecc.) e prati stabili su terreni di II o III classe di fertilità. Produzioni: le produzioni sono quelle della vite in quanto il filare riveste principalmente la funzione di tutore vivo. Diffusione: Novarese. Pianura compresa tra Gattinara, Briona e Carpignano Sesia.

Filare capitozzato e alto fusto di pioppo bianco e ciliegio maritati alla vite nella pianura compresa tra Gattina, Briona e Carpignano Sesia nelle province di Vercelli e Novara.

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