fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini · una requisizione al re di Jugoslavia per...

17
l’antifascista fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini Periodico degli antifascisti di ieri e di oggi • anno LXII - n° 11-12 Novembre - Dicembre 2015 Poste Italiane s.p.a. - spedizione in abbonamento D.L. 353/2003 (conv.in. L. 46 del 27.02.2004) - Art.1, comma 2, DCB - Roma Falso Storico Churchill-Mussolini di M. FRANZINELLI a pag. 5 INIZIATIVA DEL DEPUTATO DEMOCRATICO FIANO E DI ALTRI 63 SUOI COLLEGHI INNEGGIARE AL DUCE E AL FASCISMO È UN REATO E VA PUNITO COL CARCERE Presentata una proposta di legge che punisce chi fa il saluto romano e commercia immagini e ricordi di Mussolini L'EDITORIALE di Mario TEMPESTA Caro Direttore. all'inizio del mio mandato riten- go di avere l'obbligo di inviare un affettuoso e cordiale saluto a tutti i Lettori dell'Antifascista, agli an- tifascisti di ieri e di oggi. I delegati al XVIII Congresso dell'ANPPIA hanno voluto porre sulle mie debo- li spalle un compito esaltante e nel contempo gravoso essendo i miei predecessori uomini che hanno de- terminato la Storia del nostro Paese e fatto dell'Anppia un importante baluardo contro il fascismo, un vi- vace centro culturale e di ricerca sul fascismo e di popolarizzazio- ne della Costituzione. Ricordo i Padri Fondatori Pertini e Terracini, e i successori Bufalini, Venanzi, Spallone, Albertelli. Si può ritenere superato il pericolo fascista e quindi superato il fine precipuo di questa Associazione? Questa domanda - a mio avviso - deve essere rovesciata: vi sono in Italia e in Europa organiz- zazioni fasciste e/o parafasciste? Licio Gelli, il gran maestro della Loggia P2 se n’è andato con il suo carico di misteri che hanno insanguinato l’Italia per anni. Nella sua bara ha voluto anche uno dei simboli che più gli erano cari: una spilletta con il fascio littorio. Giuliano Turone, il giudice di Milano che con Gherardo Colombo ordinò alla Guardia di Finanza di perquisire la sua villa di Castiglion Fibocchi, dove venne trovata la lista della P2, dice: ”Di questa loggia lui era il notaio, non la vera mente. Il notaio di un sistema di potere occulto”. Occulto, appunto. Il “venerabile” ha sempre agito nell’ombra, tessendo trame pericolose che hanno fatto male all’Italia democratica. La morte lava tutto e perciò, nell’anno del Giubileo della misericordia, non vogliamo infierire su un personaggio così ambiguo. Non parliamo di stragi o di episodi che lo hanno coinvolto. Ma vogliamo ricordare le 20 tonnellate di lingotti d’oro che 30 anni fa Gelli fece sparire durante una requisizione al re di Jugoslavia per conto del servizio informazioni militari fascista. Ne prese 60 tonnellate, ne restituì 40. Ecco chi era l’uomo che a lungo lottò e tramò contro la democrazia. (g.m.) LA MORTE DI GELLI, IL NEMICO DEL SISTEMA DEMOCRATICO IL CAPO DELLA P2 E I SUOI MISTERI I 64 deputati del Pd chiedono di introdurre nel codice penale un nuovo arti- colo, il 293 bis, che prevede la pena della reclusione da sei mesi a due anni per chiunque “propaganda le immagini e i contenuti propri del partito nazionalsocialista tedesco, ovvero delle relative ideologie, anche soltanto attra- verso la riproduzione, distribuzione o vendita di beni raffiguranti persone, immagini, o simboli ad essi chiaramente riferiti, ovvero ne richiama pubblica- mente la simbologia o la gestualità”. Una proposta che avrebbe anche l’effetto di azzerare i guadagni di commercianti e speculatori che a Predappio e dintorni fanno ottimi affari vendendo ricordi, immaginette, cimeli, busti, quadri, monete e perfino bottiglie di vino dedicate a Mussolini. Sotto tiro sono anche i social network che si prestano alla diffusione di questa propaganda neofascista. Parigi La paura nutre i fascismi di A. DI MARIA a pag. 2 Terrore La notte horror di Colonia di m. galli a pag. 19 segue in ultima pagina Colorni Il socialista europeista di C. TOGNOLI a pag. 22

Transcript of fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini · una requisizione al re di Jugoslavia per...

Page 1: fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini · una requisizione al re di Jugoslavia per conto del servizio informazioni militari fascista. Ne prese 60 tonnellate, ne restituì

l’antifascistafondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini

Periodico degli antifascisti di ieri e di oggi • anno LXII - n° 11-12 Novembre - Dicembre 2015

Poste Italiane s.p.a. - spedizione in abbonamento D.L. 353/2003 (conv.in. L. 46 del 27.02.2004) - Art.1, comma 2, DCB - Roma

Falso StoricoChurchill-Mussolinidi M. FRANZINELLIa pag. 5

INIZIATIVA DEL DEPUTATO DEMOCRATICO FIANO E DI ALTRI 63 SUOI COLLEGHI

INNEGGIARE AL DUCE E AL FASCISMO È UN REATO E VA PUNITO COL CARCERE

Presentata una proposta di legge che punisce chi fa il saluto romano e commercia immagini e ricordi di Mussolini

L'EDITORIALEdi Mario TEMPESTA

Caro Direttore. all'inizio del mio mandato riten-

go di avere l'obbligo di inviare un

affettuoso e cordiale saluto a tutti

i Lettori dell'Antifascista, agli an-

tifascisti di ieri e di oggi. I delegati

al XVIII Congresso dell'ANPPIA

hanno voluto porre sulle mie debo-

li spalle un compito esaltante e nel

contempo gravoso essendo i miei

predecessori uomini che hanno de-

terminato la Storia del nostro Paese

e fatto dell'Anppia un importante

baluardo contro il fascismo, un vi-

vace centro culturale e di ricerca

sul fascismo e di popolarizzazio-

ne della Costituzione. Ricordo i

Padri Fondatori Pertini e Terracini,

e i successori Bufalini, Venanzi,

Spallone, Albertelli. Si può ritenere

superato il pericolo fascista e quindi

superato il fine precipuo di questa

Associazione? Questa domanda - a

mio avviso - deve essere rovesciata:

vi sono in Italia e in Europa organiz-

zazioni fasciste e/o parafasciste?

Licio Gelli, il gran maestro della Loggia P2 se n’è andato con il suo

carico di misteri che hanno insanguinato l’Italia per anni. Nella sua bara

ha voluto anche uno dei simboli che più gli erano cari: una spilletta con

il fascio littorio. Giuliano Turone, il giudice di Milano che con Gherardo

Colombo ordinò alla Guardia di Finanza di perquisire la sua villa di

Castiglion Fibocchi, dove venne trovata la lista della P2, dice: ”Di questa

loggia lui era il notaio, non la vera mente. Il notaio di un sistema di potere

occulto”. Occulto, appunto. Il “venerabile” ha sempre agito nell’ombra,

tessendo trame pericolose che hanno fatto male all’Italia democratica.

La morte lava tutto e perciò, nell’anno del Giubileo della misericordia,

non vogliamo infierire su un personaggio così ambiguo. Non parliamo

di stragi o di episodi che lo hanno coinvolto. Ma vogliamo ricordare le

20 tonnellate di lingotti d’oro che 30 anni fa Gelli fece sparire durante

una requisizione al re di Jugoslavia per conto del servizio informazioni

militari fascista. Ne prese 60 tonnellate, ne restituì 40. Ecco chi era

l’uomo che a lungo lottò e tramò contro la democrazia. (g.m.)

LA MORTE DI GELLI, IL NEMICO DEL SISTEMA DEMOCRATICO

IL CAPO DELLA P2 E I SUOI MISTERI

I 64 deputati del Pd chiedono di introdurre nel codice penale un nuovo arti-colo, il 293 bis, che prevede la pena della reclusione da sei mesi a due anni per chiunque “propaganda le immagini e i contenuti propri del partito

nazionalsocialista tedesco, ovvero delle relative ideologie, anche soltanto attra-verso la riproduzione, distribuzione o vendita di beni raffiguranti persone, immagini, o simboli ad essi chiaramente riferiti, ovvero ne richiama pubblica-mente la simbologia o la gestualità”. Una proposta che avrebbe anche l’effetto di azzerare i guadagni di commercianti e speculatori che a Predappio e dintorni fanno ottimi affari vendendo ricordi, immaginette, cimeli, busti, quadri, monete e perfino bottiglie di vino dedicate a Mussolini. Sotto tiro sono anche i social network che si prestano alla diffusione di questa propaganda neofascista.

ParigiLa paura nutre i fascismi

di A. DI MARIAa pag. 2

TerroreLa notte horror di Colonia

di m. gallia pag. 19

segue in ultima pagina

ColorniIl socialista europeista

di C. TOGNOLIa pag. 22

Page 2: fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini · una requisizione al re di Jugoslavia per conto del servizio informazioni militari fascista. Ne prese 60 tonnellate, ne restituì

32 Parigi Parigi

CHE COSA INSEGNANO LE STRAGI DI PARIGI E LE FEROCI VIOLENZE DELL’IS

TERRORISMO, LA PAURA NUTRE I FASCISMI

Guerra e propaganda

I musulmani vogliono che gli occidentalilascino i loro territori

di Giorgio GALLI

Alla fine del 2015 ci troviamo in una

situazione come quella del suo inizio,

con una strage anche più grave a Parigi.

Riprendo le considerazioni qui svolte

allora, per partire da un giusto inqua-

dramento degli eventi. Scrivevo: “Vi è

una minoranza di intellettuali (islamici)

della lotta armata la cui richiesta non

è la conquista dell’Europa, ma che gli

occidentali sgomberino le terre islami-

che. Questa posizione ha il sostegno di

cinquanta-sessanta milioni di musulma-

ni, secondo le valutazioni più attendi-

bili”. Confutavo la validità del concetto

di “islamo-fascismo” usato, soprattutto

da studiosi anglo-sassoni, per definire

L'annus horribilis 2015 non è ancora finito, nel momento in cui scriviamo, ma passerà certamente alla storia per il grande numero di attentati terrori-stici andati a segno. Scorrere un breve sommario di quelli più clamorosi lascia la sensazione di trovarsi di fronte a un bollettino di guerra. Dalla strage di Charlie Hebdo dei primi giorni di gennaio a quella di Beirut del 12 novem-bre - senza dimenticare la carneficina al Museo del Bardo di Tunisi, l'attacco all'Università di Garissa in Kenya, la strage del resort di Sousse in Tunisia, l'attentato alla manifestazione pacifi-sta di Ankara, il disastro dell'aereo civile russo che sorvolava la penisola del Sinai - enorme è il numero di vittime civili e di feriti causato dagli attentati rivendicati dall'IS e da Al-Qaeda. Ma l'evento che scuote maggiormente l'opinione pubblica europea avviene a Parigi, il 13 novem-bre, quando un attacco terroristico senza precedenti nella storia della Quinta repubblica francese, causa 130 vittime in diverse zone della città: lo Stade de France dove, sotto gli occhi del presi-dente francese Hollande, si sta giocando l'amichevole tra le nazionali di calcio della Francia e della Germania; alcuni locali nel 10° e nell'11° arrondissement; e la sala concerti del Bataclan, sold-out per il concerto degli Eagles of Death Metal. Se l'attacco allo stadio fallisce e un kamikaze si fa esplodere nei pressi dell'impianto, all'interno del Bataclan va in scena una mattanza. Ma non è finita qui. Ancora, il 2 dicembre, a San Bernar-dino in California, due lupi solitari fanno irruzione in un centro per disabili e aprono il fuoco causando 14 morti.

Il giorno dopo a Parigi, nelle stesse ore in cui l'IS rivendica l'attentato, la commozione è spontanea, generale, sincera. Il logo con il simbolo della pace realizzato con una sagoma stilizzata della Tour Eiffel (inizialmente attribu-ito all'artista Bansky, ma in realtà opera dell'illustratore Jean Jullien) è condiviso sui social network da milioni di persone. Il fatto che la prima reazione di massa sia stata rappresentata da un simbolo di pace tradisce paura e la consapevolezza di una reazione durissima del governo francese che non tarda ad arrivare.

Il 16 novembre Hollande tiene un discorso al Parlamento francese riunito a Versailles e annuncia modifiche alla carta costituzionale, il potenziamento dell'apparato repressivo, la sospensione di Schengen, l'estensione ad oltranza dello stato d'emergenza, l'appello a una coalizione internazionale contro l'IS e l'imminente bombardamento delle sue posizioni in Siria. È un discorso di guerra accolto da una standing ovation finale e suggellato dal canto della Marsi-gliese. Nei giorni successivi scendono in campo i principali partner europei. Il 26 novembre, a Berlino, la cancel-liera Merkel, a dire il vero mantenendo un profilo basso che contraddice la sua fama di lady di ferro, annuncia che la

Luftwaffe è a disposizione della coali-zione internazionale per il supporto logistico. Il 2 dicembre, la Camera dei Comuni del Regno Unito approva l'al-largamento dall'Iraq alla Siria dei raid della RAF contro l'IS. Tra coloro che sono contrari ai bombardamenti, il leader laburista Corbyn invita a non perseverare negli errori del passato. «Ci attaccano per quello che siamo, non per quello che facciamo» risponde il premier Cameron in aula.

Sembra un destino ineluttabile che la lotta al terrorismo sia condotta dai governi, condizionati dalla necessità di apparire forti e sicuri di sé, attraverso politiche estere aggressive e politiche interne di esasperato securitarismo.

Si capisce, è necessario placare i senti-menti di paura, rabbia e indignazione che gli attentati suscitano. Ma la mili-tarizzazione delle città, la sospensione della democrazia in nome del clima di tensione, la retorica nazionalista e l'osti-lità verso il “diverso”, tralasciando la deriva antidemocratica che portano in nuce, sono provvedimenti che tradi-scono paura, il principale elemento di cui si nutre il terrorismo. Di asso-luto buonsenso è sembrato, invece, il discorso alla nazione di Obama del 6 dicembre, pochi giorni dopo la strage di San Bernardino. Tra le altre cose, il presidente degli USA ha cercato di tran-quillizzare la popolazione affermando la necessità di impedire che i musulmani

di Alberto DI MARIA

il fondamentalismo estremista, definizione

errata e sviante, abbondantemente ripresa

dopo la seconda strage di Parigi: Kerry, per

il Dipartimento di Stato:

“Dobbiamo fermare questo fascismo mo-

derno e medievale”; la filosofa Àgnes Heller:

“L’islamismo è il nazismo contemporaneo e

va combattuto allo stesso modo”; lo scritto-

re algerino Kamel Daoud: “Siamo di fron-

te a un fascismo, la religione è soltanto un

mezzo”; lo scrittore inglese Martin Amis:

“Il fondamentalismo islamico è paragonabi-

le al nazismo”; Putin ne deduce che occorre

essere “uniti come contro Hitler”. Voci au-

torevoli; e contraddittoriamente con questo

erroneo confronto, ci si suggerisce di usare,

invece della sigla “Isis”, la sigla “Daesh”,

che esclude il termine “Islam”, in quanto

significa “esercito terroristico”. Non si trat-

ta di disquisizioni terminologiche, ma di

incomprensione di un fenomeno, da capire

per poterlo fronteggiare adeguatamente. Lo

tenta Lucio Caracciolo, il più accreditato ge-

opolitico italiano, con la sua rivista “Limes”,

quando, utilizzando ricerche che segnala-

no tra i “terroristi” anche occidentali, “fra

cui centinaia di donne e diversi minorenni

convertiti dall’ideologia della fine dei tem-

pi” (eco dell’Apocalisse), scrive: “I terroristi

che fanno strage in Europa non sono reli-

giosi… Non è la radicalizzazione dell’Islam,

ma l’islamizzazione della radicalità”. Ho

una formazione laica, che mi esclude dalla

competenza sulla religiosità degli stragi-

sti di Parigi e del Mali, ma “islamizzazione

della radicalità” mi pare una buona defini-

zione per comprendere questo fenomeno

di comportamento collettivo. Per fronteg-

giarlo, avevo già scritto a gennaio, la scel-

ta è fra una “guerra asimmetrica” da com-

battere con le sue regole (quelle di Daesh,

per chi così lo chiama), oppure tentare una

pace con chi vuol combattere a casa propria

per decidere una contesa tra sunniti e sciiti

che risale alle modalità di successione del

Profeta Muhammad un millennio e mezzo

fa. Perché, ripeto, al di là della loro enfatica

propaganda sulla conquista di Roma, i mu-

sulmani vogliono soprattutto che gli occi-

dentali se ne vadano da casa loro.

Questa impostazione mi sembra analoga a

quanto ho sentito dire, a “Piazza pulita”, da

Edward Luttwak, il maggior esperto statu-

nitense di problemi militari, non certo so-

spetto di simpatie pacifiste-sinistrorse. Egli

ritiene che la scelta sia questa: o mettere in

campo un corpo di spedizione che distrugga

l’Isis e poi presidi per un paio di secoli ter-

ritori ribelli, oppure ritirarsi e lasciare che

gli islamici decidano tra loro combattendo

chi deve comandare su quegli stessi ter-

ritori. Questa seconda soluzione mi pare

evidentemente preferibile.

Ovviamente per l’Occidente si pre-

senterebbe il problema dei riforni-

menti di petrolio e quello delle migra-

zioni, che continuerebbero dalle aree

di conflitto. Ma è pensabile che il pe-

trolio ci verrebbe egualmente venduto

(già avviene dalla Libia e dall’Iraq),

mentre i profughi potrebbero diminu-

ire, se i giovani islamici vedessero con

più chiarezza, e quindi vivessero con

maggiore partecipazione, i termini

della competizione nei loro Paesi. La

stessa chiarezza gioverebbe anche a

noi e la pur perdurante difficoltà delle

due questioni (petrolio e migranti), sa-

rebbe molto meno grave delle fumiste-

rie del cosiddetto ’’islamo-fascismo”,

che ci impediscono la comprensione

del fenomeno da fronteggiare.

d'America siano marginalizzati a causa del crescente clima di sospetto e odio. Mettere contro le comunità musul-mane e la popolazione degli USA, ha affermato Obama, è il principale obiet-tivo dell'IS che non rappresenta l'Islam ma una organizzazione di potere che va distrutta.

Attraverso quale strategia non è chiaro, considerate le profonde contrad-dizioni della politica USA contro il terrorismo, condizionata dai rapporti economici con partner quali l'Arabia Saudita, il Qatar e gli Emirati Arabi. Questi paesi sunniti, a dispetto della loro formale collocazione nello scacchiere internazionale a fianco dell'Occidente – è notizia del 15 dicembre la nascita di

una coalizione a guida saudita contro il terrorismo - più che l'IS, avversano i governi sciiti della Siria, dello Yemen e dell'Iran. Come l'IS, sono nemici degli Hezbollah libanesi e dei curdi del PKK, attualmente le uniche due forze in campo ad avere ottenuto maggiori risultati contro i tagliagole in nero. Ma soprattutto sono regimi retrogradi che, sembra potersi affermare con un ampio margine di certezza, sarebbero finan-ziatori e ispiratori dell'IS, oltre che il principale canale attraverso il quale gli uomini del califfo Al-Baghdadi si procurerebbero le armi che l'Occidente, inclusa l'Italia, vende senza porsi scru-poli sul loro possibile utilizzo.

I rapporti con questi paesi probabili fiancheggiatori del terrorismo coinvol-gono anche i principali paesi europei. Pochi giorni dopo la strage di Charlie Hebdo, i tifosi della squadra di calcio corsa del Bastia esponevano uno stri-scione nel quale si leggeva «Il Qatar finanzia il Paris Saint-Germain e il terrorismo». Obiettivo polemico era Al-Khelaifi, presidente del club calci-stico parigino e guida del fondo sovrano qatariota che vanta, tra le altre, grosse partecipazioni azionarie nelle tede-sca Volkswagen, nella banca inglese Barclays e persino in Walt Disney, ed è proprietario dei magazzini Harrods di Londra. Non stupisce che la denun-cia di queste ambiguità venga da settori inaspettati della società occi-dentale. Parte dell'opinione pubblica si

La commozione dei parigini il giorno dopo la strage Abdelhamid Abaaoud, ideatore degli attentati di Parigi

Page 3: fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini · una requisizione al re di Jugoslavia per conto del servizio informazioni militari fascista. Ne prese 60 tonnellate, ne restituì

54 Parigi Documenti

Churchill-Mussolini: una patacca antistorica creata ad arte per assolvere il neofascismo e i suoi fallimenti

Il fascismo è stato anzitutto un grande regime di polizia e di propaganda, la cui poli-

tica estera era finalizzata alla guerra. Dopo la campagna d’Abissinia, la spedizio-

ne dei legionari in Spagna a sostegno degli insorti franchisti e la conquista dell’Al-

bania, nel giugno 1940 Mussolini gettò l’Italia nel secondo conflitto mondiale, a fianco

del presunto vincitore. Sappiamo come andarono invece le cose e conosciamo i terribi-

li risultati di quella politica bellicista, cui contribuirono pure monarchia, circoli mili-

tari e grandi gruppi industriali. Incapaci di ammettere che il fascismo aveva rovinato

l’Italia, alcuni seguaci del duce escogitarono la leggenda dei rapporti segreti intercor-

si nel 1940-45 tra Mussolini e Churchill, mentre Italia e Regno Unito si combattevano

aspramente. Si tratta di una tra le più clamorose e fortunate invenzioni del dopoguerra.

Un mito funzionale al trasferimento delle responsabilità dell’intervento italiano sulla

«perfida Albione», in chiave rigorosamente controfattuale e con l’ausilio di clamorose

falsificazioni di documenti. Decenni di tambureggiamento, con un’alluvione di articoli

all’insegna dello scoop, hanno tramutato in senso comune una tesi bizzarra, che nessun

studioso straniero prende sul serio ma cui molti italiani credono. L’operazione propa-

gandistica, impostata per fini politico-ideologici negli anni della ricostruzione postbelli-

ca, ha arricchito i suoi artefici. Nella prima metà degli anni Cinquanta, falsari e custodi

del «tesoretto» – in primis il falsario milanese Aldo Camnasio e il faccendiere triesti-

no Enrico De Toma – intascarono diversi milioni da Mondadori e Rizzoli, desiderosi di

assicurarsi i documenti che riscrivevano la storia della recente guerra. I due maggiori

editori italiani, accortisi poi della natura truffaldina di quel materiale, ne sospesero la

pubblicazione. Negli anni Cinquanta e Sessanta sul fiabesco carteggio hanno ricama-

to i settimanali popolari «Oggi», «Gente», «Domenica del Corriere», oltre a quotidia-

ni ad ampia diffusione come «la Notte». Ai servizi giornalistici si sono affiancati volu-

mi dal taglio sensazionalista, sulla madre dei misteri italiani, con le più inverosimili (e

ripetitive) teorie. Il testo-base per rilanciare il carteggio, accreditandolo agli occhi di

molti lettori, è Dear Benito, caro Winston, scritto nel 1985 da Arrigo Petacco per

Mondadori. Una monografia che nella sostanza (e a tratti persino nella forma) attinge a

un raro libro del 1956: Storia di un fatto di cronaca, di Aldo Camnasio, ovvero dal

falsario che per quell’imbroglio venne condannato in tribunale. Il punto, comunque, non

consiste nel riciclaggio di parti della Storia di un fatto di cronaca, bensì nella veicolazio-

ne dell’impostura camnasiana da parte di un celebrato divulgatore di storia contempora-

nea. Un significativo riscontro sul persistente radicamento del mito lo fornisce la pagina

di Wikipedia Carteggio Churchill-Mussolini. L’esistenza di un collaudato canale

segreto tra i due statisti ufficialmente nemici è affermata come realtà incontrovertibile,

con sofismi che coniugano la disinformazione con il bluff. Esemplare, a questo riguar-

do, l’incipit: «Nell’immediato dopoguerra, Churchill e i servizi segreti britannici, si mosse-

ro con successo per recuperare gli originali e gran parte delle copie del carteggio. Pertanto,

poiché tale documentazione è ancora inaccessibile agli storici o è andata distrutta, è azzar-

dato definirne il contenuto, pur essendone state formulate numerose ipotesi e ricostruzio-

ni». Segue l’acritica sintesi dei teoremi escogitati dai «creduloni del carteggio», in preva-

lenza fantasiosi giornalisti o storici dilettanti i cui testi sono elencati in calce al lemma

(Andriola, Campini, Festorazzi, Garibaldi, Giuliani Balestrino, Zanella...). Non viene

prospettato alcun dubbio sull’esistenza dei «documenti segreti», con straordinaria prova

di faziosità e di credulità. Si sostiene che quegli importantissimi documenti passarono

per le mani di familiari del duce, di ministri, di ambasciatori, di banchieri, di prefetti, di

agenti segreti, di partigiani comunisti e non... appartenenti a varie nazionalità (italia-

na, svizzera, inglese, giapponese...). Nessuno, di quella folta compagnia, riuscì a salva-

re anche solo una lettera, poiché una perfida congiura fece sparire ogni reperto. Chi ha

creato e modificato una voce così faziosa e irrispettosa della realtà, in stridente contra-

sto con l’affidabilità del sito? La risposta è suggerita dalle argomentazioni a senso unico:

qualche volonteroso affiliato alla compagnia di giro che usa quei documenti fasulli come

cavallo di battaglia. È un reperto disinformativo che non fa onore a Wikipedia, poiché

prosegue e moltiplica la manipolazione avviata con metodi artigianali nell’immediato

dopoguerra da incalliti manipolatori filomussoliniani. Oltre a utilizzare strumentalmen-

te Wikipedia come autorevole pulpito per le loro menzogne, gli assertori del carteggio

gestiscono un imponente numero di siti.

Digitando Carteggio Churchill-Mussolini su di un qualsiasi motore di

ricerca, si evidenziano migliaia di schede

che, in stragrande prevalenza, sciorinano

la storia delle borse di Mussolini e delle

astute trame churchilliane per riprender-

si gli epistolari. Google fornisce ben 17.900

siti sul carteggio segreto, con le versioni

più strampalate e inaffidabili. È un monu-

mento alla credulità, che dimostra la stra-

ordinaria capacità del web di moltipli-

care il falso, legittimandolo. Il carteggio

segreto Churchill-Mussolini è una leggen-

da metropolitana all’insegna del «verosi-

mile», un mantra dietrologico e autocon-

solatorio che pretende di trasformare la

tragedia bellica in un giallo nel quale il

duce sarebbe vittima delle macchinazio-

ni britanniche. Rientra nella mitologia del

«tradimento»: tutti – dagli antifascisti ad

altolocati gerarchi – avrebbero tradito l’I-

talia, impedendo al dittatore di realizzare

i suoi piani di gloria. In realtà, se si vuo-

le utilizzare il criterio esplicativo del tra-

dimento, bisogna quantomeno ricordare

il brusco voltafaccia mussoliniano di fine

1914 dall’antimilitarismo all’interventi-

smo, seguito dai rovesciamenti di fron-

te dal repubblicanesimo alla monarchia

e di nuovo alla repubblica, passando dal

più becero anticlericalismo al più oppor-

tunistico confessionalismo... Ma questa, è

un’altra storia.

Mimmo Franzinelli è autore del vo-

lume L’arma segreta del duce. La vera storia del Carteggio Churchill-Mussolini, pubblicato nel 2015 da Rizzoli

di Mimmo FRANZINELLI

tiene informata e per la lotta al terrori-smo pretende provvedimenti concreti che vadano oltre i retorici appelli dei governi all'union sacrée. Si pensi alla génération Bataclan - cui il quoti-diano francese Libération, nell'edizione di lunedì 16 novembre, ha dedicato la copertina - i giovani occidentali aperti e cosmopoliti che per il loro stile di vita sarebbero il principale obiettivo dei terroristi. Era il 2003 quando i giovani di questa generazione, i trentenni di oggi, allora appena maggiorenni, anima-vano in tutto il mondo manifestazioni pacifiste per chiedere agli USA di non attaccare l'Iraq. Quella richiesta rimase inascoltata e oggi le conseguenze di quella guerra fondata sulla menzogna sono sotto gli occhi di tutti.

L'ascesa dell'IS infatti, non è mai su-perfluo ricordarlo, è anche il frutto marcio delle strategie geopolitiche oc-cidentali in Medio Oriente. Nato in Iraq tra le macerie della guerra di Bush con-tro Saddam Hussein, l'IS si è sviluppato durante la “primavera araba” siriana, grazie al sostegno degli USA e all'indif-ferenza dell'Europa. Solo quando ha co-minciato a rappresentare una minaccia piuttosto che un semplice movimento anti-Assad, gli USA sono intervenuti per impedire la sua espansione. È la solita vecchia storia. Anche Al-Qaeda nacque grazie al supporto delle amministrazioni USA che tra il 1979 e il 1989 armarono i mujahidin afghani in funzione anti-so-vietica. Il risultato di quella politica fu lo sceicco del terrore Osama bin Laden, responsabile degli attentati dell'11 set-tembre 2001, vero e proprio spartiac-que tra il secolo XX e il successivo. IS è la dimostrazione di come si sia perse-verato nell'errore, ora che gli uomini di Al-Baghdadi sono diventati il punto di riferimento dello jihadismo mondiale e raccolgono crescenti simpatie fra le masse islamiche, in cerca di rivalsa con-tro il colonialismo e l'imperialismo.

Nei giorni successivi alle stragi di Parigi, apprezzabile è stato l'atteggia-mento del governo italiano che, affer-mando di non volere «inseguire le bombe degli altri», ha preso tempo sulla de-cisione di partecipare ai bombarda-menti contro l'IS in Siria. Se la volontà è quella di perseguire la tradizione di-plomatica italiana, per contribuire a una soluzione politica della crisi, non è un

ragionamento sbagliato. Sbagliato sa-rebbe invece assecondare l'altrettanto tradizionale politica attendista italiana per capire quali vantaggi si possano otte-nere da un eventuale intervento. È certo che nel centenario della Grande Guerra, la soluzione bellica deve essere l'ex-trema ratio. Se intervento militare deve esserci poi, esso non può prescindere da una strategia chiara che miri alla stabi-lizzazione definitiva dell'area e da un suo credibile inserimento in un quadro di legalità internazionale ampiamente condiviso. E attualmente non sembrano esservi le premesse considerati i diversi interessi in gioco e l'odio tra le diverse componenti di quello che dovrebbe es-sere il fronte anti-IS. Si pensi alle seco-lari tensioni tra Turchia e Russia - attori fondamentali dello scenario - rinnovate il 24 novembre dall'abbattimento, opera della contraerea turca, di un Mig russo colpevole di avere sconfinato.

Anche il governo italiano poi, ha un problema di credibilità legato ai rap-porti che intrattiene con le ambigue monarchie sunnite - appena due giorni prima dei tragici fatti di Parigi, Renzi si è recato a Riad per celebrare la part-nership con i sauditi – e non è chiara quale sia la sua strategia per arginare la minaccia terroristica interna. Su questo tema ancora meno credibile ri-sulta la proposta politica delle opposi-zioni di casa nostra. Non si può pensare di scongiurare il rischio attentati con provvedimenti xenofobi come quello re-centemente adottato dal governo regio-nale lombardo che ha vietato l'utilizzo del burqa e del niqab negli ospedali pub-blici. È stupido invocare, come ha fatto Salvini, «i libri di Oriana Fallaci obbliga-tori in tutte le scuole». «La rabbia e l'or-goglio» accecano, semplificano la realtà e si risolvono nell'odio puro che, tra l'al-tro, è ormai diffuso presso una larga fetta di popolazione culturalmente po-vera e aizzata dai professionisti della paura. Gli islamici, si dice, ci odiano e sul Corano c'è scritto che ci devono am-mazzare. Non ammetterlo, si dice, è «buonismo».

Per arginare la minaccia terroristica interna è piuttosto necessaria, come sot-tolinea il filosofo Augusto Cavadi, una «inversione a U» rispetto alla prassi po-litica. Bisogna agire seguendo la lun-gimiranza della saggezza piuttosto che

assecondando l'emozione popolare». Certo nell'immediato dobbiamo difen-dere le nostre città inventando forme di controllo che salvaguardino la sicu-rezza senza abdicare alle libertà che caratterizzano le nostre democra-zie. Potenziare la nostra intelligence per ridurre le probabilità che si verifi-chino attentati. Ma nel lungo periodo si deve provare a battere una strada di-versa - non importa quanto impervia - che porti all'eliminazione delle cause della disperazione di quanti si sentono attratti dal fondamentalismo islamico perché vedono in esso una risposta. Un dato fondamentale: gli attentatori di Parigi erano cittadini europei. I nemici non vengono da fuori ma sono membri della nostra società, prodotto delle no-stre contraddizioni. Il rischio è che de-flagri una guerra civile, con i giovani immigrati di seconda generazione – sia quelli delle periferie, rimasti ai mar-gini della società, che i figli istruiti della classe media, alla ricerca di un senso per le proprie esistenze - a far da serbatoio al fondamentalismo.

Le rivolte nelle banlieue parigine del 2005, i London riots del 2011, tanto ra-pidamente quanto superficialmente ar-chiviate come jacquerie criminali, erano spie di un malessere profondo. Nella percezione di molti tutto ciò che la no-stra società sa offrire è la libertà di pos-sedere, a patto che tu possa comprare. Come scrisse Leonardo Sciascia in un j'accuse su La Stampa del 25 novembre 1977, nel cuore degli anni di piombo, «il terrorismo alligna e cresce come erba tra le rovine, e queste rovine siete state voi a farle». Il dito del grande intellettuale si-ciliano era puntato contro i governi di allora che a suo dire nulla facevano per combattere il terrorismo brigatista «il cui consenso cresce a misura che disagio e disperazione crescono». In una società ingiusta e non inclusiva, la fracture so-ciale è il terreno fertile nel quale pro-spera il terrorismo. E nella paura del terrorismo prosperano i fascismi di casa nostra. Bisogna creare anticorpi con-tro il fondamentalismo e il fascismo, due facce della stessa medaglia, condi-videndo sviluppo economico, sociale e culturale. È prioritario fare dell'Occi-dente un posto migliore per tutti. Più che esportare la democrazia, farla rifio-rire in casa nostra.

Page 4: fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini · una requisizione al re di Jugoslavia per conto del servizio informazioni militari fascista. Ne prese 60 tonnellate, ne restituì

76 In Primo PianoIn Primo Piano

DOSSIER SULLE SIGLE NEOFASCISTE E NAZISTE

L’ESTREMA DESTRA IN LOMBARDIAdi Saverio FERRARI

L’ultimo appuntamento è stato il 28 novembre scorso a Milano città, quartiere Rogo-redo, dove in un

capannone privato si sono radunati almeno 700 naziskin del circuito Hammer provenienti da diversi paesi europei, in particolare dalla Germania, in occasione di un raduno in cui si sono esibite band appartenenti al circuito Nsbm (National Socialist Black Metal).Milano e la Lombardia sono da anni teatro di raduni e concerti di stampo neofascista e neonazista. Quasi impos-sibile ricordarli tutti, dalla “festa” del 20 aprile 2013 a Malnate (Varese) per il “compleanno” di Adolf Hitler all’in-contro del 15 giugno dello stesso anno, sempre a Rogoredo, con gruppi neo-nazisti da tutta Europa, al convegno milanese di Casa Pound con Alba do-rata del 15 marzo 2014, al concerto nazi del 1° novembre dello scorso anno a Trezzano, con arrivi da Germania, Austria e Finlandia, al meeting inter-nazionale di Forza nuova a Cantù a metà settembre di quest’anno, con or-ganizzazioni europee antisemite, al festival nazionale di Casa Pound a Castano Primo, sempre lo scorso set-tembre. Questa situazione, non lo si può tacere, è stata favorita dall’atteg-giamento permissivo di questure e prefetture sempre disponibili nei fatti a tollerare le peggiori organizzazioni

dell’estrema destra razzista, oltre che dal comportamento della giunta re-gionale lombarda, prona a ogni ri-chiesta di utilizzo da parte di costoro di spazi pubblici. È cresciuta in que-sto modo l’agibilità politica per gruppi apertamente nazisti e fascisti. Ma la Lombardia, da questo punto di vi-sta, ha una storia lunghissima e ha già conosciuto altri momenti difficili. Ripercorriamoli brevemente.

L’ESTREMA DESTRAIN LOMBARDIAIl neofascismo milanese e lombardo fin dall’immediato Dopoguerra ha assunto tratti di durezza e intransigenza. Quale erede diretto dell’ultima tragica sta-gione del fascismo, rappresentata dalla Repubblica sociale, ha visto subito ri-versarsi tra le sue fila molti degli sche-rani provenienti dai suoi tanti corpi militari e dalle sue innumerevoli polizie private. Un sostanziale filo di continuità in una città come Milano, che fu la vera capitale della Rsi, e in una regione dove, sulle sponde del lago di Como, si con-sumò il suo ultimo drammatico destino.Da qui il formarsi degli iniziali gruppi dirigenti missini e delle stesse prime organizzazioni terroristiche, a par-tire dalle Sam (Squadre d’azione Mussolini), che già alla fine del 1945 operarono tra Milano, Monza e Como, ben oltre l’attentato dimostrativo, as-saltando le sedi dei partiti di sinistra e causando più di una vittima.

IL RETROTERRADEGLI ANNI SETTANTAQuest’impronta e questi tratti si sono poi tramandati negli anni. È a Milano, già alla metà degli Anni Cinquanta, che prende corpo quel nucleo di Ordine nuovo che ritroveremo poi come organizzazione stragista alla fine degli anni Sessanta, responsabile dell’eccidio di piazza Fontana. Ed è sempre a Milano che si tengono, tra il 1958 e il 1967, ben tre riunioni di quella Internazionale nera che prese il nome di Noe, acronimo di Nuovo ordine eu-ropeo, ferocemente razzista e antise-mita. Il fatto stesso che la Lombardia abbia rappresentato il teatro princi-pale della strategia della tensione non è stato certo un caso. Ben tre sono state le stragi in questa regione (in piazza Fontana a Milano, il 12 dicem-bre 1969, e davanti alla questura, il 17 maggio 1973, a Brescia, in piazza della Loggia, il 28 maggio 1974), diverse al-tre quelle tentate (a Varese dove la si cercò in piazza Maspero, ancor prima di Brescia, il 28 marzo 1974). Il tutto nel contesto di un’impressio-nante escalation di violenze squadri-ste. In un dossier pubblicato nel 1975 dalla giunta regionale (Rapporto sulla violenza fascista in Lombardia), tra il gennaio 1969 e il maggio 1974, si con-teggiarono: 180 aggressioni, 46 de-vastazioni, 36 lanci di bombe a mano o ordigni similari, 63 lanci di bombe molotov, 14 esplosioni di bombe carta, dieci attentati con dinamite o tritolo, 25 casi di ritrovamenti di armi o esplo-sivi, 35 aggressioni a colpi di pistola, dieci accoltellamenti e 30 incendi. In neanche cinque anni e mezzo. È in questo triangolo (tra Milano-Brescia-Varese) che l’estrema destra mise i suoi picchiatori al servizio dei settori più reazionari della borghe-sia per rompere i picchetti operai e attaccare gli studenti. Varese, spesso passata in secondo piano, è stata in-vece una città che, corroborata da uno “zoccolo duro” di imprenditori e professionisti disponibili a forzature eversive, foraggiò e spalleggiò neofa-scisti di ogni risma. Qui l’Msi toccò la soglia del 10%, ben oltre la media nazionale, qui si

svilupparono formazioni terroristi-che, dalla Costituente nazionale rivo-luzionaria ad Avanguardia nazionale alle Squadre d’azione Ettore Muti, fino a Ordine nero, che si resero protagoni-ste di sistematiche azioni squadriste e dinamitarde.Ed è nuovamente tra Milano, Brescia e Varese, che bisogna tornare a guar-dare in questi anni. In una regione dove accanto alle formazioni presenti sul territorio nazionale ne sono cre-sciute altre a livello locale.

FORZA NUOVAForza nuova, la più vecchia tra le or-ganizzazioni post-missine, nata nel 1997 e riconosciuta come “nazifa-scista” da una sentenza del 2010 della Cassazione, si è sviluppata in Lombardia attraverso piccoli nuclei, con sedi a Milano, Monza, Brescia, Bergamo, Pavia e Como. Ultimamente l’attività ha teso a privilegiare i temi classici dell’ultradestra cattolica, dalla cancellazione della legge sull’aborto alle campagne omofobiche, stringendo alleanze con alcune associazioni in-tegraliste, tra le altre Le sentinelle in piedi, collaterali ad Alleanza cattolica, la più antica tra queste realtà, da sem-pre ricettacolo di estremisti di destra.Un secondo terreno è quello del con-trasto all’immigrazione e alla “società multirazziale”. Qui il tentativo è di scavalcare a destra la stessa Lega con iniziative e slogan ancor più radicali in nome di un nazionalismo becero ed esasperato. Funzionale a questo scopo è stato anche il varo di un’asso-ciazione (Solidarietà nazionale) impe-gnata a raccogliere alimenti e generi di conforto per gli italiani in difficoltà sul modello di Alba dorata in Grecia. In alcune città Forza nuova è conflu-ita, facendo blocco, in organismi “uni-tari”, è il caso di Brescia ai bresciani, che ha provato anche ad attaccare fisi-camente il 28 marzo scorso un corteo di immigrati scontrandosi con la poli-zia. Dato il numero esiguo di militanti, non più di 150 complessivamente, il metodo è di farli confluire nelle inizia-tive principali per disporre di un mi-nimo di massa critica.

CASA POUNDDopo vari tentativi andati a vuoto di insediamento nelle principali città lombarde, sfruttando l’alleanza con la

Lega, ora Casa Pound prova a rilan-ciarsi. È presente al momento con pro-prie sedi in un quartiere popolare di Milano (Quarto Oggiaro), a Varese e a Cremona, realtà quest’ultima pro-tagonista a gennaio di un’aggressione criminale ai danni del centro sociale Dordoni. A Brescia (San Vigilio), causa contrasti interni, ha aperto ma an-che subito chiuso i battenti. Sempre a Milano, nei pressi della stazione cen-trale, con l’intento di autofinanziarsi, ha aperto un piccolo ristorante spe-cializzato in cucina romana, l’Oste-ria Angelino. L’attività principale si incentra al momento sull’attacchinag-gio di manifesti e striscioni in alcuni quartieri sui temi della crisi econo-mica e sociale, sulla promozione di presidi in favore dei “due Marò”, di piccoli concerti e conferenze a carat-tere interno per lo più rievocativi del futurismo marinettiano. Il modello cui guardare, anche qui, è quello del primo movimento fascista del 1919-20. Il suo momento più alto è stato indubbiamente il 18 ottobre dello scorso anno, quando, in occasione della prima manifestazione nazionale della Lega dell’era Salvini, sfilarono a Milano in camicia nera, fianco a fianco con le camicie verdi, fino a piazza Duomo, duemila suoi aderenti affluiti da tutta Italia. Praticamente nulla la presenza del Blocco studentesco negli istituti su-periori della regione. Anche in questo caso il corpo militante non supera le 150 unità.

LEALTÀ AZIONE Accanto alle organizzazioni nazionali sono presenti in Lombardia almeno altre due formazioni locali degne di nota. La prima, Lealtà azione, nata come associazione nell’ambito del cir-cuito Hammerskin, è cresciuta velo-cemente nel giro di pochi anni fino a diventare la realtà più consistente della regione con circa trecento ade-renti. Nostalgica del nazionalsocia-lismo (i suoi aderenti amano tatuarsi stemmi e insegne del Terzo Reich) è stata promotrice di raduni e concerti anche a carattere internazionale, tra l’altro quello già ricordato del 15 giu-gno 2013 a Rogoredo, con delegazioni naziste da mezza Europa ed esponenti del Ku Klux Klan. Lealtà azione ha inaugurato sedi a Milano (quartiere

Certosa), a Bollate (denominata Skinhouse), a Lodi e a Monza, in pieno centro, con una diponibilità di risorse finanziarie decisamente superiori a tutte le altre organizzazioni d’area, in parte provenienti da attività commer-ciali e di ristorazione di alcuni dei suoi soci. Strutturatasi con associazioni colla-terali a tema: I lupi danno la zampa (a favore di cani e gatti), I lupi delle vette (per l’escursionismo montano), Branco (contro l’aborto e la pedofilia), dedica gran parte del proprio tempo, anche attraverso l’associazione Memento, al recupero e alla cura nei cimiteri delle tombe dei caduti repubblichini e de-gli squadristi degli anni Venti. Fuori dalla Lombardia Lealtà azione si è nel frattempo gemellata con altre espe-rienze, ad Alessandria con Arcadia e a Firenze con La Fenice.

I DODICI RAGGILa Comunità militante dei dodici raggi opera invece da qualche anno in pro-vincia di Varese alternando la propria denominazione con Varese skinheads. La base è situata a Caidate (frazione di Sumirago) dove dispone di ampi locali attrezzati grazie ai quali ha promosso raduni e intessuto relazioni con il va-riegato arcipelago naziskin, facendo da perno per altre realtà, da Pavia a Bergamo a Torino. Do.Ra, questo il suo acronimo, è da tempo penetrata nella curva dello stadio di Varese (mi-schiandosi con Blood&Honour) e nella tifoseria della squadra di pallacane-stro attraverso gli Arditi.Un centinaio i militanti e due le osses-sioni: celebrare ogni 20 aprile il com-pleanno di Adolf Hitler, il più delle volte con concerti propagandati con immagini rievocative e oltraggiare il sacrario partigiano di Monte San Martino sulle Prealpi dell’alto vare-sotto (teatro di una battaglia tra il 13 e il 15 novembre 1943), omaggiando, in-sieme al Manipolo d’avanguardia di Bergamo (i loro gemelli orobici), i ca-duti repubblichini con l’infissione nel terreno di decine di Toten rune, il sim-bolo con il quale si onoravano le spo-glie delle SS. Quest’anno, grazie alla mobilita-zione antifascista, lo sfregio è stato impedito, costringendo le autorità a intervenire e fermare per tempo i ne-onazisti dei Dodici raggi.

Neofascisti manifestano per le strade di Milano

Page 5: fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini · una requisizione al re di Jugoslavia per conto del servizio informazioni militari fascista. Ne prese 60 tonnellate, ne restituì

98 PersonaggiPersonaggi

Nel libro “Compagni” la nipote di Gian Carlo narra le vicende di un pezzo di storia italiana

PAJETTA, VITA DI UNA FAMIGLIA COMUNISTAdi Elisabetta VILLAGGIO

È uscito Compagni di Elvira Pajetta, pubblicato da Pietro Macchione editore. Il libro narra le vicende di una famiglia e un pezzo di storia italiana. Elvira è figlia di Giuliano e di Claudia Banchieri, proveniente

anch’essa da una famiglia antifascista. Il volume racconta la storia di sua madre e suo padre, nel centenario della loro nascita, Giuliano nel ’15 e Claudia nel ’16, e delle traversie familiari, dure e faticose per la storia di quel periodo, nonché l’im-pegno militante dei due personaggi nel Partito comunista italiano. Elvira, che nasce in Romania nel '48, dove il padre aveva un incarico di lavoro per il partito, ha un fratello più grande e una famiglia numerosa composta da nonni, zii, con la madre che ha sei fratelli, e tanti cugini. Cresce in un ambiente particolare, dove tutti sono impegnati politicamente. I suoi genitori si erano conosciuti in Francia, a Parigi, dove Claudia era emigrata con la famiglia poiché il padre, avvocato socialista di Feltre, era scampato a tre attentati, e Giuliano, arrivato diretta-mente da Mosca poiché il fratello maggiore Gian Carlo era già stato arrestato e la sua famiglia subiva persecuzioni dal ‘27, era il responsabile della gioventù comu-nista italiana nel partito comunista francese.

Elvira com’è stato crescere in una famiglia così importante? Questo è un po’ anche il senso del libro perché per compagni intendo i compagni di vita, di partito, di crescita, i cugini che sono in copertina. È una parola che ha molto senso proprio perché è intrecciata con la crescita. Quando ero piccola, nel dopo-guerra, erano gli anni nei quali il partito comunista smetteva di essere una specie di gruppo totalmente chiuso e faceva tante cose, mio padre si occupava di politica estera e avevamo questi amici internazionali da aiutare perché noi eravamo buoni e organizzati, io sapevo che avevo i nonni, gli zii e le zie comunisti, e gli altri dove-vano essere convinti a diventare come noi. Ricordo che sentire nominare il nome Pajetta alla radio mi faceva un certo effetto, era come vivere in un’avventura.

Lei racconta nel libro che da piccola ha imparato che alcune cose non si dovevano dire, per esempio al telefono mai fare il proprio co-gnome ma aspettare che l’interlocutore parlasse.C’è un’eredità di anni difficili. Io c’ero negli anni '50 quando manganellavano le persone e negli anni '60 quando si facevano le prime manifestazioni per la Spagna contro Franco o per Cuba. C’erano i parlamentari che ci scortavano perché era una garanzia rispetto a una polizia della quale non ci si poteva fi-dare. Ero una bambina piuttosto estroversa e mia madre cercava di contenermi

evitando che io urlassi il nome Pajetta qui e là. La Roma degli anni ‘50 non era gestibile con tranquillità e i comunisti allora erano visti come i nemici, infatti, quando sono andata a Firenze per frequentare l’università ero stupita di quante copie dell’Unità si vedessero in giro e la gente poteva sfogliarla in qualsiasi situazione. Noi la leggevamo con le spalle al muro perché c’era sempre il rischio che un fascista ci potesse dare uno spintone. Quest’aspetto di un nome o di una fa-miglia speciale io l’ho sentito come un dovere abbastanza fuori dimensione, dovevo fare la mia parte e la facevo come una ragazzina: con petulanza e ingenuità.

La sua è una grande famiglia in tutti i sensi: per importanza, di nome, d’ideali ma anche di nu-mero, dove tutti hanno avuto un ruolo politico e anche sua ma-dre, che si è trovata da sola con un bambino piccolo poiché suo padre era prima clandestino e poi internato, si è sempre impe-gnata politicamente. Come si di-ceva una volta, il personale e il politico si sono mischiati.Io credo che questa cosa sia venuta fuori dopo quando io mi sono chiesta: ma noi chi siamo? E la domanda mi è servita per capire meglio me stessa. C’è stato per me un momento di con-fusione politica e ho dovuto dipanare una matassa non semplice. Credo che sarebbe potuto succedere anche alla figlia di un militare o chiunque ab-bia vissuto in un gruppo abbastanza chiuso.

Chiuso ma molto compatto.Sì, anche speciale e autosufficiente. C’era l’idea di spiegare agli altri come diventare migliori. Io ci ho messo del mio e mi sentivo perfettamente a mio agio in questo ruolo, probabil-mente mia madre era più silenziosa e avrebbe preferito per me un atteggia-mento più attento ma io seguivo quello che mi sembrava più importante. Però non crescevo perché rimanevo in uno schema, era una visione infantile.

Sua madre è andata a vivere con suo padre nel ‘35 che non aveva neanche vent’anni senza essere spo-sati, lo faranno dieci anni dopo. È stata coraggiosa e all’avanguardia.L’ho riconosciuto solo dopo perché la mia testa si è aperta tardi. Credo che mia madre abbia avuto voglia di essere una persona consapevole sia come donna sia come operaia ma anche come la prima figlia femmina di una famiglia nume-rosa quindi quella sulla quale ricadono molte responsabilità e lei ha visto nella convivenza con mio padre un impegno superiore, dove si riunivano desideri ma anche doveri, poi sono stati travolti dalla guerra e i sacrifici che le sono stati chiesti sono stati davvero eccezionali.

Sua madre si è trovata giovanissima con un figlio piccolo e con un uomo che non ha potuto vedere per dieci anni in un momento difficilissimo e con una suocera, Elvira, sua nonna che ha il suo stesso nome, molto presente.Sì, mia nonna cercava di tenere insieme una famiglia attra-verso le forze delle sue relazioni. Le è morto il figlio più pic-colo, Gaspare, che aveva solo diciotto anni. È stata anche colpita nella sua carriera scolastica perché era una brava in-segnante montessoriana. Credeva in un mondo più ampio per tutti. Mia nonna in qualche modo aveva una capacità di teo-rizzazione, era molto raffinata in quello.

È molto bello, anche se struggente, il passo di quando annunciano a sua nonna la morte del figlio minore e lei fece un urlo terribile.È incredibile come il partito fosse in grado di organizzarsi. Il partito ha mandato mia madre con una dirigente partigiana per avvertirla. In questo modo era aiutato chi doveva ricevere una notizia terribile e poi veniva anche supportato. Avevo letto dei fratelli Rosselli e della madre, che ha delle analo-gie con mia nonna soprattutto per l’atteggiamento molto pe-dagogico di queste due donne. La madre dei fratelli Rosselli al funerale fece un urlo agghiacciante e inaspettato perché era una donna controllatissima.

Lei ha avuto uno zio, Gian Carlo Pajetta, molto ca-rismatico. Come lo ricorda?Con Gian Carlo andavo molto d’accordo anche se vedevo che era totalmente dedicato al partito. Era diverso da mio padre che era più tenero verso di me ma anche verso il mondo. Più tardi, quando ho scritto il libro, ho avuto l’impressione che il tipo di vita abbia costretto mio zio e la sua umanità dentro un contenitore molto rigido e gli ho perdonato degli aspetti che lo facevano apparire come una figura legata al potere, cari-smatico ma imperativo.

Com’era suo padre visto dal punto di vista di una figlia?Volevo essere tutto per lui quindi ero una specie di control-lore e lo volevo sempre disponibile. Rappresentava un mondo, non solo un padre.

E sua madre?Era una donna che ha mantenuto la propria consapevolezza e identità che in quel periodo era facile perdere. Credo che ab-bia sofferto anche in termini di depressione. Ha sopportato di perdere tutto in nome di qualcosa che era più di un sogno: era speranza di realizzazione.

Lei nel 1982 ha saputo da Natta che suo padre stava male. Ha mai avuto la sensazione che il partito in-terferisse troppo nella sua vita privata?È evidente e ho dovuto fare uno sforzo per capire che tipo di vita avessimo fatto in modo da oggettivarla e rielabo-rarla. In ogni caso siamo stati dei privilegiati perché la mia famiglia faceva parte di una classe dirigente e questo è stato un valore ma anche un senso di partecipazione alle cose importanti.

Si è mai sentita figlia di?E le è mai pesato il suo nome?Certo, sempre. Sono andata a Firenze a frequentare l’u-niversità perché ho visto la possibilità di scegliere il mio percorso e per non stare troppo vicina a un posto che si chiamava direzione del partito, Botteghe Oscure etc.

Che cosa ha ereditato da una famiglia così?Che questa eredità in quanto blasone non mi interessa proprio.

Giuliano Pajetta durante un comizio nel dopoguerra

Elvira Pajetta

Page 6: fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini · una requisizione al re di Jugoslavia per conto del servizio informazioni militari fascista. Ne prese 60 tonnellate, ne restituì

1110 Il Ricordo Anniversari

Un libro di Licia, “Dopo” racconta emotivamente l’importanza degli affetti e degli ideali

Il libertario Pinelli e l’inno alla vita cantato da sua moglie

Licia Pinelli ha ricevuto dall’ANPPIA di Torino la tessera di socio onorario, durante la presentazione del libro scritto insieme a Piero Scaramucci “Una storia quasi soltanto mia”, avvenuta a Torino al circolo dei lettori, tre anni fa. Per me è stata una grande emozione, anche perché ha accettato volentieri questa tessera, ha capito che in questo nostro gesto c’era la voglia di comunicare messaggi che con le parole non si riescono ad esprimere.

di Boris BELLONE

Avevo quindici anni quando la bomba fascista esplose nella banca dell’agricoltura in

piazza Fontana a Milano, uccidendo.Ricordo perfettamente quanto disse

mio padre Sergio: “Il Potere usa i fasci-sti per fermare la classe operaia e i fa-scisti uccidono come al solito in modo vigliacco”. Pochi giorni dopo i giornali parlano di un certo anarchico Pino Pinelli che, “messo alle strette durante l’interrogatorio in questura a Milano, si suicida gettandosi dalla finestra. È si-curamente il mostro, l’autore del crimi-nale attentato del 12 dicembre”. Sempre mio padre, a tavola dove eravamo sem-pre insieme, disse: “gli anarchici non uccidono persone innocenti, non si na-scondono come i vili fascisti. Questa è l’ennesima provocazione di destra per accusare la sinistra e non potendo col-pire il partito comunista direttamente, perché troppo ben organizzato, accu-sano gli anarchici, notoriamente poco organizzati e per questo vulnerabili”.

Il libro di Licia Pinelli mi ha fatto rivivere quei momenti tragici quando

sentivo accuse terribili rivolte a un uomo sincero e buono, come lo sentivo io quindicenne, attraverso l’analisi lu-cida di mio padre, un antifascista che aveva pagato con una condanna a 14 anni la sua opposizione all’infame re-gime. Sentire al telegiornale accuse tremende rivolte all’anarchico Pinelli e sapere che erano costruzioni per co-prire i veri responsabili e colpire la classe operaia cercando così di fer-mare le lotte del cosiddetto autunno caldo, mi rendevano ribelle e, come tutti i giovanissimi, pieno di rabbia per questa spaventosa ingiustizia.

Il 7 ottobre 1967 era stato ucciso in Bolivia, per ordine del governo norda-mericano, Ernesto Guevara. Anche in quella occasione mio padre mi spiegò le ragioni della rivoluzione cubana. Ebbene il 15 dicembre 1969 moriva, ucciso innocente, un altro difensore degli umili: Pino Pinelli, anarchico, padre felice di due bambine, liberta-rio, sincero e indifeso.

Il libro di sua moglie Licia racconta proprio questo: la voglia di vivere,

l’importanza degli affetti familiari, degli ideali, la necessità di lottare per difendere i diritti di tutti, senza ri-nunciare alla propria vita, soprat-tutto vivendo la propria vita. Una vita stroncata dalla “ragion” di Stato, dalla necessità di trovare un colpevole su-bito. Licia Pinelli prosegue raccon-tando la sua vita “dopo”, dedicata alle figlie e alla necessità di vivere comun-que. Molti italiani capiscono e si inne-sca una solidarietà verso la famiglia Pinelli vera, a volte toccante, sia degli amici sia di tanti sconosciuti.

L’analisi politica è splendidamente riportata nella postfazione di Marino Livolsi che arricchisce questo libro, ri-cordando ai più vecchi cosa è successo in Italia e, si spera, spiegando ai gio-vani i troppi misteri, le troppe falsità nascoste con altre morti come quella del commissario Calabresi.

Ma il valore del libro risiede nell’inno alla vita che Licia Pinelli è riuscita a cantare. Sembra che Pino sia rimasto con Lei, non se ne sia mai an-dato, vivo e allegro.

Ricordato, come ogni anno, l’anniversario dell’attentato alla Banca nazionale dell’Agricoltura

Milano, 46 anni fa la bomba fascista che seminò morte e avviò la tensione

Il 12 dicembre del 1969 una bomba ad alto potenziale e di chiara matrice neofascista esplodeva nella Banca Nazionale dell'Agricol-tura di Milano provocando 17 morti e 84 feriti. Fu l'inizio della

strategia della tensione e il preludio alla stagione del terrorismo e dell'eversione in Italia. Nonostante numerosi processi e diverse sentenze, nonostante i colpevoli siano stati chiaramente individuati, per questa strage nessuno ha pagato.

A 46 anni dalla strage, il Comitato Permanente Antifascista contro il terrorismo e per la difesa dell'ordine repubblicano, d'intesa con i Familiari delle Vittime, come tutti gli anni, ha promosso una manifestazione non solo per rendere il doveroso tributo di memoria ai caduti, ai feriti ed ai familiari, ma anche per riflettere su una vicenda che presenta ancora troppi lati oscuri. Ecco il programma .

Ore 15:30 Concentramento del corteo con alla testa i Gonfaloni dei Comuni, della Regione Lombardia e della Città Metropolitana in piazza della Scala.

ore 16:30 arrivo delle staffette podistiche da Villasanta e Seregno; ore 16:37 posa delle corone in piazza Fontana, alla presenza delle autorità; ore 17:00 interventi conclusivi in piazza Fontana: Carlo Arnoldi, Presidente Associazione Familiari Vittime di Piazza

Fontana; Giuliano Pisapia Sindaco di Milano; Danilo Margaritella Segretario Generale UIL Milano e Lombardia; Carlo Smuraglia, Presidente ANPI Nazionale; Introduce e coordina Roberto Cenati, Presidente Comitato Permanente Anti-fascista contro il terrorismo per la difesa dell'ordine repubblicano. All’iniziativa è presente anche l’Anppia con il suo presidente, Gino Morrone, la bandiera medaglia d’oro della Resistenza, dirigenti, iscritti e simpatizzanti dell’Associazione degli antifascisti italiani. Roberto Cenati ha letto il testo del discorso concordato con tutte le associazioni che fanno parte del Comitato antifascista. Eccolo.

Il 14 Novembre 2015 in piazza Fontana abbiamo manifestato il nostro sdegno e la nostra condanna della sanguinosa strage compiuta a Parigi dal terrorismo jihadista, contro cittadini inermi. Essa ha costituito un aperto e gravissimo attacco alla convivenza civile, alla libertà di tutti noi, alla democrazia, conquistata a prezzo di enormi sacrifici dalla Resistenza Italiana, Europea e dagli Eserciti Alleati.

Il 12 dicembre 1969 di quarantasei anni fa, in piazza Fontana, con la terribile esplosione alla Banca Nazionale dell’Agricol-tura che provocò 17 morti e 84 feriti ebbe inizio la strategia della tensione. Quella sanguinosa strage nazifascista fu preceduta da preoccupanti segnali, già evidenziati nel documento del Comitato Permanente Antifascista per la difesa dell'ordine repubbli-cano costituitosi a Milano, nel mese di maggio, all'indomani delle bombe neofasciste del 25 aprile 1969 alla Fiera Campionaria e alla Stazione Centrale. Nel documento si denunciava l'intensificazione dell'attività criminosa neofascista, la mancata iden-tificazione di esecutori e mandanti da parte della struttura dello Stato e non aderente agli ideali della Repubblica e della Resistenza. Il nostro pensiero, il 12 dicembre, non può non andare alle vittime inermi di quella strage, a quei semplici lavoratori e commercianti la cui vita, le cui speranze sono state inesorabilmente spezzate e al dolore inconsolabile dei familiari, alle loro sofferenze e delusioni patite in questi lunghissimi anni. I parenti sono stati colpiti due volte: per la perdita dei loro cari e per i depistaggi degli apparati dello Stato, per la copertura dei veri colpevoli, per lo spostamento del processo a migliaia di chilo-metri di distanza da Milano. E il nostro commosso ricordo non può non andare alla diciottesima vittima di piazza Fontana, Giuseppe Pinelli, che, come osservò il 9 maggio 2009 il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, fu vittima due volte, prima di pesantissimi infondati sospetti e poi di una improvvisa assurda e tragica fine. Con la strage di piazza Fontana si vole-vano fermare i processi di riforme e di rinnovamento della società italiana frutto delle lotte dei lavoratori e dell'avanzata delle forze di progresso. Il 1969 fu l'anno in cui ci si batteva per l'unità sindacale, per ottenere non solo migliori condizioni contrat-tuali, ma anche per una società più giusta. Nel 1970 vengono approvate le leggi sullo Statuto dei Lavoratori, sull'ordinamento regionale e sul divorzio. E negli anni successivi seguiranno quelle sulla parità tra donne e uomini nei luoghi di lavoro, sulla riforma del diritto di famiglia, sulla fissazione a 18 anni della maggiore età, sulla chiusura dei manicomi, sull'interruzione di gravidanza, sull'istituzione del Servizio sanitario nazionale. La rivoluzione dei diritti ha attraversato gli Anni settanta e ci ha consegnato un'Italia più civile. Con la strage di piazza Fontana, di piazza della Loggia, del treno Italicus, di via Fatebenefra-telli, di Peteano, di Bologna, si attuò quella strategia della tensione che tante vittime innocenti doveva mietere e che aveva come suo obiettivo quello di minare le basi del nostro regime democratico e di colpire a morte la Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza. Milano e l'Italia hanno corso un pericolo gravissimo. Se Milano avesse ceduto alla paura il corso degli eventi avrebbe potuto essere un altro. Il 15 dicembre 1969 ai funerali delle vittime della strage piazza Duomo era affollata all'invero-simile: c'era un silenzio impressionante. Quei cittadini, quegli operai, quei lavoratori, quegli studenti sono stati fondamentale garanzia di democrazia.

Pino Pinelli

Page 7: fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini · una requisizione al re di Jugoslavia per conto del servizio informazioni militari fascista. Ne prese 60 tonnellate, ne restituì

1312 Personaggi Personaggi

SI È SPENTA UNA DELLE FIGURE PIÙ RAPPRESENTATIVE DELL’ANTIFASCISMO ROMANO

ADDIO A LUCIA OTTOBRINIERA L’ULTIMA DELLE 4 RAGAZZE DEI GAP CENTRALI

di Giorgio GIANNINI

Sabato 26 Settembre 2015 si è spenta, dopo una lunga malattia, Lucia Ottobrini, l’ultima delle “quattro ragazze dei gap centrali” di Roma, moglie di Mario Fiorentini, Comandante del Gap Centrale “Gramsci”, suo compagno nella Resistenza.

Lucia nasce a Roma il 2 ottobre 1924. È la seconda di nove figli. All’inizio del 1925,

quando ha 5 mesi, la madre Domenica De Nicola ritorna con lei e l’altro figlio a

Mulhouse (Alsazia), che era stata annessa dalla Francia dopo la Grande Guerra.

In seguito, il padre Francesco li raggiunge nella cittadina industriale alsaziana, dove

nascono gli altri sette fratelli minori di Lucia. A Mulhouse, Lucia frequenta le scuole di

lingua francese e nel contempo impara il tedesco, che è la lingua parlata comunemente

dalla popolazione di origine tedesca. Lucia vive in un ambiente cosmopolita, dato che

a Mulhouse lavorano persone provenienti da Paesi lontani (oltre che dall’Italia, anche

dalla Boemia e dalla Polonia), di lingua e religione diverse (cattolici, protestanti, ebrei).

Lucia vive a contatto con questo mondo multietnico e plurireligioso, che è importan-

te per la sua formazione culturale, di tolleranza e di apertura verso gli altri, anche se

“diversi” per religione o per nazionalità. A scuola, la sua migliore amica è una ragazza

polacca. Inoltre, per un po’ frequenta anche un doposcuola gestito dalla Comunità ebrai-

ca. Al riguardo, Lucia racconta che un giorno il Rabbino gli pone la mano sulla testa e la

benedice. Quel gesto, racconta, “non lo dimenticherò mai e da allora ho sempre amato gli

ebrei”. Peraltro, questo “amore per gli ebrei” è uno dei motivi che la portano a maturare

la “scelta” di combattere i nazisti ed i fascisti, dato che discriminano e perseguitano gli

ebrei. Lucia, a 13 anni fa la prima comunione. Il sacerdote che la istruisce nel catechismo

ha una profonda influenza su di lei, tanto che, da allora, sarà una cattolica praticante,

tranne nei 9 mesi in cui combatte nella Resistenza. A Mulhouse, Lucia vive a contatto con

un ambiente sociale proletario (anche se non ne fa parte), costituito da operai, che svol-

gono lavori pesanti, come nelle industrie tessili e nelle miniere di potassio. Tutto que-

sto contribuisce alla “formazione sociale” di Lucia, che la porta ad essere “dalla parte”

dei lavoratori sfruttati dagli imprenditori, anche senza aderire e militare in un Partito

di Sinistra. Nella formazione di Lucia ha un ruolo importante anche la madre Domenica,

che ha rigidi principi morali ed è molto solidale nei confronti di chi ha bisogno di aiuto.

LUCIA RITORNA A ROMANel 1940, l’Alsazia è occupata dai Tedeschi, che deportano nei Lager nove parenti della

zia Elisabetta perché ebrei. I genitori di Lucia decidono di ritornare a Roma. Poiché la

famiglia è molto numerosa (11 persone: i 2 genitori e 9 figli minori) e povera, gli viene

assegnata una casa popolare nella “borgata” periferica di Primavalle, dove il governo

fascista ha fatto insediare soprattutto gli abitanti sfollati dai quartieri del centro della

città, che sono stati abbattuti per costruire alcune strade simboliche del regime, quali Via

dei Fori Imperiali e Via della Conciliazione. Il padre Francesco non riesce a trovare un

lavoro dignitoso perché non è iscritto al Partito Nazionale Fascista. Inoltre, nonostante

abbia nove figli minori, è chiamato alle armi nei Servizi Sanitari ed è inviato in Russia,

dove è considerato “disperso”. Ritornerà a Roma solo alcuni anni dopo la fine della

guerra. L’unica che lavora, in un ospedale, è la madre Domenica. Pertanto, per aiutare

economicamente la famiglia, nel 1940, Lucia, benché abbia appena 16 anni, va a lavorare

all’Ufficio Valori del Ministero del Tesoro, in Via XX Settembre, dove è impiegata alla

Cassa Speciale, nel controllo delle banconote. Consegna il suo stipendio alla madre per

il mantenimento della famiglia e trattiene per sé solo pochi soldi per comperare libri.

Infatti, Lucia ama leggere, soprattutto opere degli autori classici francesi e russi. Anche

altre due sorelle lavorano come commesse in negozi del centro storico di Roma, dato che

parlano bene il francese. Lucia è una bella ragazza, ma è molto riservata, quasi timida.

Per questo motivo, unitamente al fatto che non parla bene l’italiano, non ha amicizie.

Quindi, pensa solo a lavorare ed a leggere. L’unico svago è, la domenica, passeggiare con

una sorella per la città o assistere ad un concerto gratuito, in una piazza.

L’INCONTRO CON MARIO FIORENTINI

Una domenica di maggio 1942, mentre

assiste, insieme con una sorella al concerto

di una Banda musicale militare, sulla

Piazza del Pincio (il belvedere di Villa

Borghese, sopra Piazza del Popolo) conosce

Mario Fiorentini, il quale, sentendo che

parlano in francese, si avvicina ed inizia

a parlare con loro in questa lingua, che

conosce bene. È un “colpo di fulmine”, o

meglio “una fiammata che non si è mai

spenta né attenuata”, in oltre 70 anni di

vita insieme, come Lucia e Mario hanno

detto in numerose interviste.

Mario è un intellettuale antifascista.

Appartiene ad una famiglia borghese, di

religione ebraica, ma lui è un laico (o meglio

si definisce un “libero pensatore”), che ama

tutte le arti: la musica (il padre lo porta, fin

da piccolo, ai concerti di musica classica,

soprattutto al Teatro Adriano), la pittura,

il cinema ed il teatro. Mario frequenta

scrittori (Ugo Betti, Giorgio Caproni, Francesco Jovine, Sibilla Aleramo, Sandro Penna, Vasco Pratolini…), pittori

(Giulio Turcato, Emilio Vedova, Renato Guttuso, Domenico Purificato…).

Mario proviene da un ambiente sociale

e culturale profondamente diverso da

quello in cui ha vissuto Lucia a Mulhouse.

In particolare, non ha conosciuto i

conflitti politici e sociali, tipici di una città

industrializzata, dato che Roma è una

“città ministeriale”. Inoltre, non conosce

i problemi di emarginazione sociale

ed economica delle periferie perché

appartiene ad una famiglia borghese ed

ha sempre vissuto nel centro storico della

città.

LA SCELTA ANTIFASCISTALucia e Mario iniziano a frequentarsi

e questa frequentazione opererà un

profondo cambiamento in entrambi: Mario

prenderà coscienza del problema sociale

e dell’emarginazione socio-economica

degli operai; Lucia, che era già contraria

al regime fascista perché aveva dichiarato

guerra alla Francia, nel giugno 1940, quando era già stata sconfitta

dai nazisti (è la “pugnalata alle spalle”, di cui parlano gli storici),

matura una piena consapevolezza politica antifascista, entrando

in contatto con l’ambiente intellettuale e di sinistra frequentato

da Mario. Nell’agosto 1943, dopo la caduta del fascismo (25 luglio),

Lucia partecipa (è l’unica donna) con Mario ed altri antifascisti

(Antonio Cicalini, Antonello Trombadori, Franco Di Lernia...),

alcuni dei quali militanti del Partito di Azione (come Fernando Norma, futuro dirigente del movimento Giustizia e Libertà)

e di area cattolica (Antonino Tatò, Adriano Ossicini), alla

costituzione del Movimento degli “Arditi del popolo”, che

organizzano la mobilitazione antifascista. In particolare, attuano

una manifestazione, con corteo, nel quartiere Prati.

LA DECISIONE DI COMBATTERE I NAZISTI La scelta di partecipare attivamente alla Resistenza antinazista,

la maturano l’11 Settembre 1943, quando vedono sfilare in Via del

Tritone, dall’angolo con Via Zucchelli, i carri armati tedeschi

dalle cui torrette si ergono fieri, come guerrieri invincibili e come

dominatori, i capo-carro. Mentre sfilano i carri tedeschi, Mario

prende la mano di Lucia per rassicurala e le dice in francese (

perché Lucia parla male in italiano) “Nous sommes dans un cul

de lampe” (questa ultima parola, alcuni studiosi l’hanno resa

in “cul de sac”). Capiscono che la situazione è diventata molto

difficile e pericolosa, dato che ricordano l’ingresso trionfale dei

nazisti a Parigi, con l’instaurazione di un regime repressivo e la

deportazione degli ebrei francesi.

Lucia e Mario decidono di fare “qualcosa” contro i nazisti, di

agire, di combattere. Pertanto, vanno, con altri antifascisti, nelle

caserme incustodite, a prendere le armi abbandonate dai soldati

italiani dopo l’Armistizio dell’8 Settembre 1943. Lucia ne nasconde

alcune a casa sua. Il primo incarico politico, affidato a Lucia da

Laura Lombardo Radice, è la raccolta di indumenti, medicine e

alimentari da portare ai prigionieri politici antifascisti, rinchiusi

nelle carceri, ed alle loro famiglie. Lucia partecipa poi ai “comizi-

lampo” ed alle manifestazioni di protesta antifasciste.

Quando la madre Domenica, che è filotedesca e lavora come

infermiera in un ospedale militare tedesco, viene a conoscere

la sua “decisione” di combattere i tedeschi, la picchia e la caccia

di casa, come ricorda in alcune interviste. A quel punto, Lucia

abbandona la famiglia ed inizia una nuova vita insieme a Mario.

Quando vengono trasferiti al Nord i Ministeri, dopo la

costituzione della Repubblica Sociale Italiana –RSI (23 settembre

1843), Lucia lascia il lavoro al Ministero del Tesoro e si impegna a

tempo pieno nella Resistenza.

LA COSTITUZIONE DEI GAP CENTRALIAll’inizio di Ottobre 1943, vengono costituiti all’interno dei

Gruppi di Azione Patriottica –GAP, su proposta di Mario e di altri

partigiani, dei piccoli gruppi di 4-5 partigiani combattenti, che

devono attaccare i nazisti ed i fascisti, senza dare loro tregua,

con la tattica della “guerriglia urbana”, mutuata dai partigiani

francesi, per far capire ad essi che non sono i “padroni” della

città, ed inoltre non rispettano lo status di “città aperta”, cioè

smilitarizzata, dato che è la retrovia del fronte. Il primo nucleo

è il GAP Antonio Gramsci, diretto da Mario Fiorentini (nome di battaglia Giovanni) e Lucia è Vice Comandante.

Nelle settimane successive si costituiscono altri tre GAP: il

GAP Gastone Sozzi (un comunista emiliano, morto il 6 febbraio

1928 in seguito alle torture inflittegli dalla polizia fascista

mentre era detenuto nel carcere di Perugia), diretto da Franco Calamandrei (Cola), nel quale milita Maria Teresa Regard (Piera) , che sarà poi sua moglie; il GAP Carlo Pisacane, diretto

da Rosario Bentivegna (Sasà), nel quale milita Carla Capponi (Elena), che sarà poi sua moglie; il GAP Giuseppe Garibaldi,

diretto da Ernesto Borghesi (Ernesto, già militante nel GAP di Calamandrei), nel quale milita Marisa Musu (Rosa).

I quattro GAP sono chiamati GAP Centrali perché operano nel

Centro storico della città, che costituisce la Quarta Zona delle

Otto Zone operative in cui Roma è stata divisa dai Movimenti

della Resistenza.

Il Comando dei quattro GAP è affidato ad Antonello Trombadori, che ha l’idea ingegnosa che i gappisti agiscano

in coppia (un uomo ed una donna) per dare meno nell’occhio e

quindi poter eludere più facilmente i controlli dei nazifascisti.

Si costituiscono quindi quattro coppie: Lucia e Mario; Mauro

Mario Fiorentini e Lucia Ottobrini nella loro casa romana

Page 8: fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini · una requisizione al re di Jugoslavia per conto del servizio informazioni militari fascista. Ne prese 60 tonnellate, ne restituì

1514 Personaggi

Calamandrei e Maria Teresa Regard; Sasà Bentivegna e Carla Capponi; Ernesto Borghesi

e Marisa Musu. Le prime tre coppie saranno unite anche nella vita, con il matrimonio.

Però solo una, quella di Lucia e Mario, rimarrà unita fino alla fine, per oltre 72 anni. Lucia

Ottobrini, Maria Teresa Regard, Carla Capponi e Marisa Musu diventano Le “quattro

ragazze dei Gap Centrali”. Sono tutte giovanissime (alcune neppure ventenni, come

Lucia e Marisa). Per la loro attività nella Resistenza, ricevono tutte la decorazione al

Valore Militare ed un Grado Militare: Carla Capponi ha la Medaglia d’Oro e le altre tre

quella d’Argento. Due (Carla e Lucia) hanno il Grado Militare di Capitano e le altre due

(Marisa e Maria Teresa) quello di Tenente.

I GAP Gramsci e Pisacane operano spesso insieme, per cui si crea, nel tempo, una

solida amicizia tra Lucia, Mario, Sasà Bentivegna e Carla Capponi, anche se i quattro

hanno una personalità molto diversa.

L’IMPEGNO NEI GAP CENTRALIEntrando nella Resistenza armata, a 19 anni, Lucia cambia vita: vive in clandestinità, con

una carta di identità falsa, intestata a Maria Fiori. Gira sempre armata, portando nella

borsetta una pistola calibro 625 (ed anche una bomba a mano quando deve partecipare a

qualche “azione”). Opera quasi sempre insieme con Mario, di cui porta nella sua borsetta

la pistola calibro765.

Lucia opera con il “nome di battaglia” di Maria (i nomi di molti gappisti sono stati tratti

dal Vangelo, su proposta del prof. Gioacchino Gesmundo, caporedattore del giornale

comunista clandestino L’Unità), che i tedeschi ricercano con impegno in tutta Roma,

perché la considerano una partigiana “pericolosa” in quanto parla tedesco e quindi elude

facilmente i controlli.

Lucia partecipa ad importanti azioni militari dei Gap Centrali.

Il 31 ottobre 1943, partecipa, con il compito di “copertura”, ad un'azione in Corso

Vittorio Emanuele II, compiuta da Mario Fiorentini, Rosario Bentivegna e Franco di

Lernia, che uccidono tre militi della RSI, che sono usciti da Palazzo Braschi , la sede del

Partito Fascista Repubblicano, vicino a Piazza Navona.

Il 18 novembre 1943, insieme con Mario Fiorentini, svolge compiti di “copertura”

di alcuni gappisti del GAP Pisacane, che entrano nel Teatro Adriano e mettono sotto

il palco un estintore imbottito con circa 6 Kg di tritolo, con dispositivo ad orologeria,

che avrebbe dovuto esplodere il giorno seguente, quando nel Teatro si teneva una

manifestazione politica fascista, con la partecipazione del Generale Stahel, Comandante

tedesco della "Piazza" di Roma, di molti alti Ufficiali tedeschi e di numerose autorità

fasciste repubblicane , tra cui il maresciallo Rodolfo Graziani, Comandante delle Forze

Armate della RSI. Però, il congegno non funziona e quindi non c’è l’esplosione.

La sera del 17 dicembre 1943, Lucia, con Mario Fiorentini, Rosario Bentivegna e Carla

Capponi , compie un’azione contro un alto ufficiale tedesco, che ha una borsa piena di

documenti importanti, ma la sua arma e quella di Mario si inceppano. Intervengono

quindi Bentivegna e Capponi, che colpiscono a morte l’ufficiale tedesco. Lucia, nelle

interviste, dice che ricorda ancora le urla, le grida di aiuto ed i lamenti del nazista ucciso.

Il giorno dopo, 18 dicembre 1943, lo stesso quartetto di gappisti partecipa ad una

azione contro i soldati tedeschi, all’uscita del Cinema Barberini ( nella Piazza omonima,

vicino a Via Vittorio Veneto). L’azione è conclusa da Bentivegna che in bicicletta lancia

una bomba contro i soldati, provoca la morte di otto militari ed un numero imprecisato

di feriti. Lucia è fermata dalle SS insieme a Carla Capponi ma, grazie alla sua ottima

conoscenza del tedesco, le due donne vengono subito rilasciate e trovano rifugio in

mezzo agli sfollati, nel Traforo Umberto I.

Il 28 dicembre 1943, Mario Fiorentini lancia un ordigno con due kg di tritolo contro

l'ingresso del carcere di Regina Coeli, mentre transita in bicicletta sul Lungotevere

sovrastante Via della Lungara ( in cui si trova il carcere), mentre una ventina di militari

tedeschi sono impegnati nel “cambio della guardia”. Lucia partecipa, insieme a Carla

Capponi, Rosario Bentivegna e Franco di Lernia, alla “ copertura” dell’azione. Rimangono

feriti sette tedeschi. Fiorentini, riesce a fuggire, nonostante il fuoco cui è fatto segno

dalle guardie e militari affacciati alle finestre della prigione. In seguito a questa azione

gappista, le autorità naziste di occupazione vietano la circolazione delle biciclette. Però,

il divieto è raggirato dai cittadini romani che aggiungono una terza ruota, piccola, alle

biciclette, che così diventano “tricicli”.

Alla fine di gennaio 1944, dopo lo sbarco degli Alleati ad Anzio (22 gennaio), i GAP

Centrali sono sciolti ed i gappisti sono inviati nelle zone a Sud di Roma per operare

insieme con i gappisti locali, per attaccare i convogli militari tedeschi diretti al fronte.

Lucia e Mario sono inviati nella VIII Zona, sulla Via Tuscolana.

I GAP Centrali si ricostituiscono

all’inizio del marzo 1944 e riprendono la

lotta armata contro i nazifascisti. Sono

unificati in due Reti: la prima, formata

dai GAP Gramsci e Pisacane, è diretta da

Carlo Salinari (Spartaco) , che è anche il

Comandante dei GAP dato che Antonello Trombadori è stato arrestato dai nazisti

il 2 febbraio. L’altra Rete, formata dai GAP

Sozzi e Garibaldi, è diretta da Franco Calamandrei.

Il 3 marzo 1944, i gappisti (tra cui

Lucia) sono presenti in massa alla

manifestazione di protesta, davanti alla

caserma del 81° Reggimento di Fanteria,

in Viale Giulio Cesare, delle donne che

chiedono la liberazione dei propri uomini

(mariti, padri, fratelli), catturati dai

nazifascisti durante un rastrellamento.

Durante la manifestazione è uccisa

da un milite fascista, Teresa Gullace,

madre di cinque figli ed incinta del sesto,

che si era avvicinata alla caserma per

cercare di parlare con il marito, che si era

affacciato da una finestra. A lei si ispira il

personaggio della Sora Pina, interpretato

magistralmente da Anna Magnani nel

bellissimo film “Roma città aperta”,

diretto da Roberto Rossellini nel 1945.

Il 10 marzo 1944 Mario Bentivegna e

Franco Ferri spuntano improvvisamente

dai chioschi del mercato rionale di Piazza

Monte d’Oro (vicino a Via Tomacelli) e

lanciano alcune bombe contro il battaglione

fascista “Onore e Combattimento” degli

Allievi Ufficiali della Guardia Nazionale

Repubblicana ( costituita dalla Repubblica

Sociale Italiana-RSI), che aprono il corteo

fascista che celebra l’anniversario della

morte di Giuseppe Mazzini. I gappisti

riescono a dileguarsi, dopo aver causato

tre morti e numerosi feriti tra i fascisti.

Luca partecipa alla copertura dell’azione.

L’operazione gappista più “famosa”,

nella quale è coinvolta Lucia insieme con

Mario Fiorentini , è l’organizzazione

dell’azione di via Rasella del 23 marzo 1944. Sono infatti loro, che abitando nel

centro storico, vedono sfilare ogni giorno

una Compagnia del III Battaglione del

Poliziei Regiment Bozen, e decidono,

molto temerariamente, di attaccarlo

perché non si può tollerare la visione di

quel reparto, che sfila con solennità ed in

armi per le strade di Roma, cantando inni

militari e patriottici tedeschi.

Così, il 20 marzo 1944 invitano a pranzo,

in una trattoria vicino a via Rasella, Sasà

Bentivegna e Carla Capponi. Quando passa

il reparto nazista, Sasà dice “Dobbiamo

attaccarlo” e Mario gli risponde “Siamo qui per questo”.

Lucia però non partecipa, perché malata, all’azione di via Rasella del 23 marzo 1944, alla quale prendono parte ben 12 gappisti e nella

quale sono uccisi 33 soldati tedeschi e due civili coinvolti nell’esplosione. Scatta subito la rappresaglia nazista, con la barbara uccisione,

il giorno seguente (24 marzo), di 335 italiani, detenuti nel carcere nazista di via Tasso 145 e nel carcere di Regina Coeli (tra i quali 75

ebrei, tra i 14 ed i 75 anni e anche l’ingegner Pilo Albertelli), alle Cave Ardeatine , da allora chiamate Fosse Ardeatine.

LA RESISTENZA NELLA ZONA DI TIVOLIAlla fine di aprile 1944, dopo l’arresto di vari gappisti in seguito al tradimento di uno di essi (Gugliemo Blasi), sottoposto a tortura, il

comando regionale del PCI decide di inviare i gappisti rimasti fuori Roma per organizzare nuove bande partigiane. Lucia (che ora ha

una nuova carta di identità falsa, intestata a Leda Lamberti) e Mario sono inviati nella zona di Tivoli-Castel Madama per organizzare

gli attacchi alle autocolonne tedesche sulla via Tiburtina, sulla via Empolitana e sulla via Palombarese. Lucia tiene i collegamenti con il

Comando di Roma, dove si reca a piedi, percorrendo, con grande rischio, il tragitto di oltre 70 Km , tra l’andata ed il ritorno. Nelle sue

interviste, Lucia racconta che quasi sempre aveva i piedi gonfi e piagati, ma per fortuna ha sempre trovato qualcuno che glieli ha curati.

Il territorio tiburtino di operazione dei gappisti romani è però molto diverso da quello romano. Ora devono agire in zone aperte

e devono fronteggiare non più singoli nazisti o piccoli gruppi di soldati, ma interi reparti, ben equipaggiati mentre loro hanno un

armamento leggero. Non possono più nascondersi in case di amici, ma in grotte ed in casolari abbandonati, ma, per fortuna, trovano

sempre la solidarietà della popolazione locale.

A Tivoli una mattina, dopo una notte passata in gran parte a discutere sul modo migliore per bloccare il piano tedesco di distruzione

di alcune centrali idroelettriche della zona, mentre Lucia sta uscendo di casa, dopo gli altri, c’è un bombardamento. Lucia vede cadere

vicino a sé le bombe, che squarciano le case, distruggendo tutto. La pervade una grande paura, come non era mai capitato prima,

durante i sette mesi di guerriglia urbana condotta a Roma, dal settembre 1943 al marzo 1944. Per la prima volta ha paura, si sente in

pericolo, forse anche perché è “sola”, non ha più vicino il “suo Mario”, che è stato inviato ad operare in un’altra zona. Lucia si trasferisce

nella zona di Castel Madama, dove continua ad operare insieme con i partigiani locali.

L’UMANITÀ DI LUCIA DURANTE LA RESISTENZADurante la sua attività nei GAP, Lucia, anche se è religiosa e praticante, “mette da parte” la religione, perché “sente” che il Vangelo

non è compatibile con la pistola. Quindi non può essere una “praticante” mentre usa le armi. La pratica religiosa, con la frequenza

della messa, la riprenderà dopo la Liberazione di Roma. Lucia partecipa, come abbiamo visto, ad importanti azioni armate, nelle

quali dimostra grande coraggio, ma anche freddezza e lucidità, che causano la morte di ufficiali nazisti e di semplici soldati

tedeschi. Lucia però non ama parlare del suo impegno nella Resistenza. Infatti, in varie interviste, anche recenti, afferma : “Non

amo ricordare quelle storie perché per me sono troppo brutte. Mi fanno ancora male. Per me, quel periodo è stata la parte più brutta

della mia vita, se fosse possibile le cancellerei dalla memoria”. Lucia quindi non ama ricordare le cose “brutte” che ha dovuto fare.

Spesso, nell’immediato dopoguerra, pensa con tristezza e dolore, a quello che ha fatto (e forse si vergogna anche di averlo fatto)

e non si riconosce in quella “Lucia con la pistola”, che sparava a sangue freddo per uccidere. Si domanda anche se quella persona

era veramente lei o era un’altra Lucia. Sicuramente, ha avuto uno “sdoppiamento di personalità” mentre combatteva nei GAP per la

liberazione dall’occupazione nazista. Lucia però, anche se impugna le armi, è di animo buono. Così, una volta, come dice in alcune

interviste, si commuove ascoltando alcuni giovanissimi soldati tedeschi che cantano “Andiamo a casa, dove staremo bene”, una

canzone che esprime la nostalgia della casa e della famiglia.

LUCIA E MARIO SI SPOSANOMario e Lucia si sposano a Roma il 16 agosto 1945. Lui indossa la sua divisa militare logora; lei veste un abito semplice, che una sarta ha

confezionato con la seta di un paracadute, che le ha portato Mario. Da allora hanno vissuto sempre insieme, serenamente, per 70 anni,

tenendosi spesso per mano, come quel giorno dell’11 settembre 1943, in cui hanno visto sfilare in via del Tritone i carri armati tedeschi

dalle cui torrette si ergevano fieri, come guerrieri invincibili, i capo-carro. Nel 1945, Lucia e Mario aderiscono al PCI e vi rimangono

sempre iscritti fino ad oggi, celebrando i 70 anni di militanza politica in questo Partito, ora PD. Nel 1946, Lucia e Dolores Ibarruri ( la

famosa “pasionaria” della Resistenza spagnola al franchismo) contattano Ho Ci Min, che guida la Resistenza nella lotta di liberazione

del suo Paese (il Vietnam) dalla dominazione francese. Per Lucia è una decisione difficile perché la Francia è la sua seconda Patria,

nella quale ha vissuto gli anni della sua infanzia e della sua giovinezza. Però i 9 mesi di attività partigiana , a Roma ed in Sabina, l’hanno

convinta che la Libertà è il “bene supremo” per ogni uomo. Pertanto, riconosce che è dovere di ogni uomo agire, ed anche lottare con le

armi, se necessario, per conquistare la propria Libertà e quella del proprio Paese. Riguardo alla Libertà, ricordiamo quello che Lucia ha

detto nella sua ultima intervista, nel giugno 2015, quando, al giornalista che le chiede “Cosa è la Libertà”, lei risponde: “Bisogna essere

onesti.. Bisogna lottare per le cose giuste”. Per Lucia, quindi la Libertà è un “valore fondamentale”, come l’Onestà ( oggi poco praticata,

soprattutto da molti politici). Però, non ci può essere la Libertà senza la Giustizia, soprattutto quella sociale.

LUCIA RICEVE LA MEDAGLIA D’ARGENTO AL VALOR MILITARENel 1953 Lucia riceve la Medaglia d’Argento al Valor Militare con la seguente motivazione:

“Ottobrini Lucia, di Francesco e di Domenica De Nicola, Roma, Classe 1924, Partigiana combattente. Giovane e ardimentosa partigiana, dava alla causa della Resistenza a Roma e nel Lazio, apporto entusiastico e infaticabile. Raccoglieva e trasportava armi, procurava notizie, contribuiva validamente alla organizzazione di numerosi atti di sabotaggio. Con coraggio virile non esitava ad impugnare le armi, battendosi più volte a fianco dei compagni di lotta, sempre dando esempio di impareggiabile ardimento facendosi ricordare tra le figure più rappresentative della Resistenza romana. Zona di Roma,settembre 1943-giugno 1944”

Personaggi

Page 9: fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini · una requisizione al re di Jugoslavia per conto del servizio informazioni militari fascista. Ne prese 60 tonnellate, ne restituì

1716 Congresso ANPPIA Congresso ANPPIA

I LAVORI DEL DICIOTTESIMO CONGRESSO NAZIONALE: IMPORTANTI DECISIONI PER CONTINUARE LA LOTTA AL FASCISMO

L’ANPPIA ELEGGE MARIO TEMPESTA NUOVO PRESIDENTEGuido Albertelli acclamato nella Presidenza Onoraria

Il 6, 7 e 8 novembre si è tenuto a Roma, presso l’Hotel Genova, il XVIII Congresso Nazionale dell’ANPPIA. I dele-gati erano chiamati ad affrontare e discutere gli argomenti di un nutrito ordine del giorno:

Comunicazioni del Presidente, andamento degli iscritti

all’Associazione, situazione finanziaria, trattativa con la proprietà

per la sede nazionale, proposte di adeguamento statutario alla

normativa vigente, nomina dei consiglieri nazionali.

Prima dell’avvio dei lavori congressuali, il Consiglio nazionale ha

discusso sulle dimissioni del Presidente ingegner Guido Albertelli

e del Segretario Generale dottor Mario Tempesta, dimissioni

avvenute per ragioni largamente condivise dal Consiglio Nazionale.

Dopo una approfondita discussione, si è passati alle deliberazioni

da sottoporre all’assemblea del Congresso che ha eletto per

acclamazione Guido Albertelli alla carica di Presidente Onorario,

Mario Tempesta, Presidente dell’ANPPIA nazionale e Serena

Colonna Segretario Generale. Sono stati anche eletti due vice

Presidenti: Spartaco Geppetti e Massimo Meniconi, rispettivamente

Presidenti dell’ANPPIA di Livorno e di quella bolognese.

Ha presieduto l’Assemblea Gino Morrone, Presidente della

Federazione milanese e direttore dell’Antifascista.

In apertura dei lavori, dopo un sentito saluto di Albertelli, ha

preso la parola il neo presidente dottor Mario Tempesta.Di seguito il testo del suo intervento al Congresso:

"Saluto tutti i Congressisti presenti ma un saluto va anche

a tutti quelli che per ragioni varie - soprattutto di salute - non

sono potuti venire. Seguirò nella trattazione gli slogan del nostro

Congresso: Valori Costituzionali, Memoria Storica, Presidio

Territoriale, Promozione Sociale. La Repubblica italiana ha

sempre riconosciuto l'Antifascismo - e la Resistenza - come

base della nostra Costituzione, una base difficile per le soffe-

renze che vi sono state all'origine e le cose accadute. Quindi uno

stretto legame Antifascismo-Costituzione che non deve venire

meno neppure con la sostanziale revisione della Seconda parte

della Carta, quali la Riforma del Senato e del Titolo Quinto.

Deve continuare ad essere chiaro a tutti, in primis alle forze

politiche, che la Costituzione della Repubblica debba essere

quella controfirmata da Umberto Terracini, quale Presidente

dell'Assemblea Costituente il 2 dicembre 1947, cofondatore e

primo presidente della nostra Associazione; debba essere quella

del '48 […] Memoria storica. Oltre a quanto si è detto circa le

attività fasciste o parafasciste, vi sono atti di revisionismo, ai

quali si aggiunge la marginalità data nei programmi scolastici

alla conoscenza storica del 1° Cinquantennio del XX secolo. Si

è affermata negli ultimi decenni una cultura generica, superfi-

ciale, nozionistica, e poco riflessiva. Di qui, ecco l'esigenza che

la nostra Associazione riempia questi cambiamenti con proprie

ricerche, approfondimenti, documenti che si vogliono occultare

o dimenticare. La diffusione del nostro periodico bimestrale può

costituire una strategia portante per la nostra Associazione. Cito

ora alcune pubblicazioni del triennio 2012-15 delle quali siamo

particolarmente orgogliosi: nell'anno 2012, "Le Repubbliche

Partigiane" a cura di Carlo Vallauri, nel 2014, "L'urlo contro il

Regime. Gli Antifascisti in Tunisia" di Leila El Houssi, del quale

l'autrice ha avuto il piacere e l'onore del Premio Matteotti 2015;

nel 2015, "Antifascisti alla sbarra" di Simonetta Carolini e Fabio

Ecca, che raccoglie i profili politici e biografici degli oltre 5.000

processati dal Tribunale Speciale Fascista, integrato da 30 profili

diversi. Inoltre, l'Anppia ha avviato nel corso di questo anno 2015,

ottenendo già i primi tangibili e concreti risultati, una linea di

ricerca storica incentrata sullo studio del processo di "continu-

ità dello Stato" in Italia. Un fenomeno questo che ha garantito

l'impunità alla grande maggioranza degli esponenti del regime

fascista attraverso la cosiddetta "mancata Norimberga italiana",

cioè la non celebrazione dei processi per i criminali di guerra ed il

fallimento dell'epurazione all'interno delle istituzioni dello Stato,

concorrendo alla costruzione del mito degli "italiani brava gente".

Un momento di alto rilievo umano e storico si è vissuto il 25 novem-

bre 2014 quando si è tenuto il Convegno sul Tribunale Speciale nella

stessa Aula di Tribunale del Palazzo di Giustizia con la presenza

del Primo Presidente della Corte di Cassazione, dei Presidenti di

Sezione e soprattutto dei due superstiti che furono condannati da

quel Tribunale, i nostri Garibaldo Benifei

e Liubimiro Susic. Uno strumento della

Memoria Storica è la nostra biblioteca.

Presidio Territoriale: Questo aspetto è

strettamente connesso con l'organizza-

zione della nostra Associazione. Per quanto

si è detto sull'Antifascismo e il riemergere

di fascismi appare necessario che l'Anppia

abbia una capillare presenza sul territorio

nazionale in particolare nelle Regioni ove

è forte anche politicamente la presenza

dei movimenti di estrema destra. C'è un

fascismo strisciante che arriva ai vertici

nazionali di Paesi importanti dell'Unione

Europea. Ecco confermarsi la necessità

di riallacciare e consolidare rapporti

con la Federazione Internazionale della

Resistenza. Oggi il fascismo si esprime

con mezzi più sofisticati, con quelli della

finanza, creando mediante movimenti di

capitale e tecniche finanziarie serie dif-

ficoltà economiche e sociali, generatrici

a loro volta, di difficili condizioni di vita,

di situazioni disperate, fertili contesti per

politiche avventuristiche. Altra forma di

fascismo - volgare, violenta e disumana

- si sta sviluppando in tutta Europa e in

minor misura in Italia: quella contro i

migranti. Su questo fenomeno, la nostra

Associazione dovrebbe effettuare un

approfondimento non soltanto socioeco-

nomico ma anche politico-organizzativo.

Dobbiamo creare una nuova Anppia an-

che alla luce della prossima legislazione

diminuendo o eliminando le difficoltà

costituite dall'elevata età della maggio-

ranza degli iscritti. Riprendendo una

sollecitazione del Presidente Albertelli,

ritengo opportuno che le rappresentanze

territoriali abbiano un rapporto costante

con giornalisti locali che possano infor-

mare sulle iniziative dell'Anppia terri-

toriale accompagnando la presenza alle

manifestazioni con le nostre bandiere.

Linee Guida per l'Unità delle Associazioni

della Memoria: in un momento in cui il

Paese attraversa una profonda crisi mo-

rale con una corruzione dilagante, un alto

livello di antipolitica, la crisi strutturale

di molti partiti con episodi di corruttela

non è sorprendente l'affermazione di

Movimenti senza storia e di un certo re-

vanscismo. Sono quindi le Associazioni

come la nostra che debbono far sentire la

presenza dando un contributo non solo

per difendere la Memoria ma per rappre-

sentare i valori etici e democratici della

Repubblica e con un orizzonte entro il

quale non vi siano soltanto gli avveni-

menti nazionali ma anche quelle euro-

pei. Ossia porsi all'avanguardia per una

ristrutturazione di tutte le Associazioni

della Memoria tenendo conto degli eventi

epocali .. Quale cosa migliore della istitu-

zione presso la Presidenza del Consiglio

o presso la Presidenza della Repubblica

di un Organismo che raggruppi tutte le

Associazioni della Memoria articolato

Presidente Nazionale: Mario TEMPESTASegretario Nazionale:Serena COLONNAVice PRESIDENTI:Spartaco GEPPETTIMassimo MELICONICOMITATO ESECUTIVO:A. Aleandri; B. Bellone; S. Colonna; C. Dore; C. Fano;S. Geppetti; C. Longhitano; M. Meliconi; V. Merazzi; M. Miccoli; L. Morrone;A. Piccioni; M. Tempesta

REVISORI DEI CONTI:M.Polimanti; G. Salsa; L. SchmidPROVIBIRIG.Baffè; P.Pierantoni; F. SenatoreNOMINATI NELLAPRESIDENZA ONORARIAGuido ALBERTELLIOsmana BENETTIBianca BIANCHETTIInes FIGINIDomenico GIANNACEGiuseppe MARRASSOLjubomiro SUSICPaolo ZONTA

ELETTI AL XVIII CONGRESSO NAZIONALE ANPPIA

in settori in base alle finalità statutarie

come ad es. Antifascismo e Resistenza,

Memoria, Internati e Deportati, Vittime

Civili di Guerra , ecc? Potrebbe essere un

primo passo per la riorganizzazione del

settore e per una sua maggiore efficienza.

Sono altresì intervenuti:Salvatore Settis, Caccialupi (Segretario

Nazionale ANEI), Marco Miccoli

(ANPPIA Roma), Ubaldo Baldi (ANPPIA

Salerno), Valter Merazzi (ANPPIA

Como), Gustavo Salsa (ANPPIA Vercelli),

Renzo Bacci (ANPPIA Livorno), Paolo

Pierantoni (ANPPIA Roma), Emanuele

Nicora (ANPPIA Varese), Gennaro

Carbone (ANPPIA Lodi), Andrea Stroscio

(ANPPIA Biella), Donatella De Martino

(ANPPIA Livorno), Giusy De Pas (ANPPIA

Livorno), Tiziana Mirotti (ANPPIA

CasalPusterlengo), Alberto Piccioni

(ANPPIA Terni), Anna Graglia (ANPPIA

Cuneo), Roberto Bonente (ANPPIA Verona),

Alberto Aleandri (ANPPIA L'Aquila),

Maurizio Galli (Segreteria ANPPIA).

Foto dal XVIII Congresso Nazionale dell’ANPPIA

Page 10: fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini · una requisizione al re di Jugoslavia per conto del servizio informazioni militari fascista. Ne prese 60 tonnellate, ne restituì

1918 Scandalo in Europa Politica

IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO RENZI: SE PERDO IL REFERENDUM SMETTO DI FAR POLITICA

Riforma, madre di tutte le battagliedi Nicola CORDA

“Se perdo il referendum non solo, vado a casa ma smetto di fare politica”. L’annuncio di Matteo Renzi sulle conseguenze della mancata riforma istituzionale potrebbe segnare uno spartiacque del suo governo. Non significa “che si tornerebbe alle urne” e neppure “un tentativo di trasfor-mare il referendum in un plebiscito ma l'assunzione del principio della respon-sabilità di chi governa”. L’impegno a lasciare il campo in caso di sconfitta è tutt’altro che azzardato e il premier italiano sembra scommettere quasi sul sicuro. A confortarlo, i sondaggi fatti dalla società Demopolis, in concomitanza con il voto di prima lettura della riforma costituzionale con una maggioranza piuttosto larga: 367 sì, 194 no. Ora ci saranno altri due passaggi “in copia conforme” di Senato e Camera e poi il referendum confer-mativo senza quorum.

Il polso del Paese Se il referendum si dovesse tenere

in questi giorni, il 60 per cento degli italiani confermerebbe la riforma, il 21 per cento la boccerebbe mentre gli indecisi sono il 19 per cento. L’af-fluenza è stata stimata al 45 per cento, un dato lusinghiero visto che solo un terzo dei potenziali elet-tori ha compreso quali cambiamenti sono previsti della Carta e il 47 per cento dichiara di averli capiti solo

in parte. Positiva per 92 italiani su cento la riduzione del numero dei senatori anche se per il 45 per cento sarebbe stato meglio abolire del tutto il Senato. Le stesse tendenze sono registrate da altri istituti di sondaggi che rilevano come l’abolizione del bicameralismo e una sola Camera che vota la fiducia al governo sia un motivo molto convincente per la maggioranza degli italiani.

Il referendum tra vantaggi e rischi

Con questi numeri, il referendum confermativo che dovrebbe tenersi nell’autunno prossimo, non farebbe correre rischi al governo e all’in-quilino di Palazzo Chigi. L’uso del condizionale però è d’obbligo come tutte le previsioni fatte in politica e in questo caso, ancora di più. Il primo valido motivo che dovrebbe spin-gere Renzi a sfuggire dalle certezze è che l’agguerrito fronte del ‘No’ ha fatto partire le macchine solo recen-temente e dunque alcuni orientamenti della pubblica opinione in dieci mesi potrebbero mutare. “Dal mese di aprile comincerò la campagna elettorale per il sì al referendum”, ha annunciato Renzi, confermando l’intenzione di impegnarsi personalmente in questa che definisce lui stesso la “madre di tutte le battaglie” e la ragione prin-cipale della sua azione politica. In molti, anche nel suo partito, gli

hanno consigliato un supplemento di prudenza: puntare tutto sulla vita del governo può essere molto perico-loso. È vero che gli italiani sembrano apprezzare la riforma, specialmente negli aspetti di semplificazione (supe-ramento del bicameralismo paritario, riduzione a 100 del numero dei sena-tori, abolizione del Cnel e delle province) ma in mezzo a tutto questo c’è anche l’importante tornata elet-torale delle amministrative, un appuntamento piuttosto insidioso per la maggioranza.

I precedenti Nel mese di giugno del 2006 le

modifiche costituzionali approvate da una maggioranza di centrode-stra furono sottoposte a referendum. Oltre il 61 per cento degli elettori però la bocciarono, nonostante conte-nesse anche allora una riduzione del numero dei parlamentari, la fidu-cia assegnata solo alla Camera e un premierato forte. La parte della devo-lution con il senato federale pesò in modo decisivo facendo prevalere i contrari. Andò diversamente nel 2001. Gli italiani dissero ‘sì’ alle modifiche costituzionali approvate da una risi-cata maggioranza di centrosinistra che prevedeva la legislazione concor-rente tra stato e regioni (che con le prossime norme sarà cancellata).

Renzi contro tuttiI tempi in politica non sono neutri:

proviamo a immaginare che cosa sarebbe successo se il referendum confermativo si fosse svolto in un momento di grande difficoltà per il governo come lo scandalo delle banche. Il giudizio degli italiani sul merito della riforma potrebbe finire in secondo piano e il voto sarebbe forte-mente condizionato dalle nubi sopra Palazzo Chigi. Se consideriamo che la vicenda delle quattro banche di credito cooperativo non sia ancora conclusa e che altre responsabilità potrebbero emergere, sarebbe meglio non correre rischi. Non a caso, contro Renzi e il governo, punta tutte le fiches il leader della Lega, Matteo Salvini: “Se dice che sarà un referendum su di lui e che se perde va via, è un modo per votare un presidente del Consiglio che nessuno ha mai votato. Io do appuntamento a 60 milioni di italiani a ottobre, così lo mandiamo a casa”.

Il fronte del No Salvini non è solo. Il cartello del ‘No’ alla riforma è

ampio quanto variegato e accoglie tutte le opposizioni: Movimento 5 Stelle, Forza Italia, Lega, Sinistra e Libertà, Rifondazione Comunista e Fratelli d’Italia, ed è destinato

a diventare un fronte “anti Renzi”. Ma il comitato contra-rio punta alla mobilitazione oltre i partiti con il supporto di associazioni e gruppi di pressione che si autoasse-gnano il titolo “in difesa della Costituzione”. Tra queste, la corrente di Magistratura Democratica che individua come un pericolo il combinato della riforma con la nuova legge elettorale dell’Italicum. Rischio che un presidente emerito della Corte Costituzionale come Gustavo Zagrebelsky individua con il “passaggio dalla democrazia all’oligarchia”. Critiche pesanti che in questa lunga campagna referen-daria potrebbero trovare terreno fertile. Tutto ciò però rientra in una disputa sul merito e il fattore tempo avrà il suo peso. Se invece, sul piano comunicativo, il conte-nuto della nuova Carta passerà in seconda battuta, allora a determinare le scelte degli italiani sarà il gradimento e lo stato di salute del governo nelle settimane in cui si cele-brerà il referendum. Sarà per questo che a dieci mesi da quella data il premier prova ad anticipare il rischio con un segnale preciso da dare alla riforma: “Votare sì a un Paese che si è rimesso in cammino”.

La notte horror di Colonia

I gravissimi e ripugnanti episodi (definirli semplicemente

teppistici è riduttivo) avvenuti la notte di San Silvestro a

Colonia davanti alla cattedrale, uno dei luoghi simbolo

della Germania occidentale, e in altre città tedesche come

Amburgo, hanno destato scalpore e scandalizzato il mondo

civile. È vero, la polizia locale si è mossa con lentezza e

superficialità: sottovalutò i pericoli e non chiese rinforzi.

Sia come sia, sta di fatto che centinaia di energumeni, tra

cui numerosi migranti (arabi o musulmani), generosamente

accolti dal governo guidato da Angela Merkel, si sono resi

responsabili di violenze, stupri, furti, rapine ai danni di

donne indifese, che chiedevano inutilmente aiuto. Come

risposta a quella nottata horror, la Germania, sia pure

tardivamente, ha ora usato il pugno di ferro: tolleranza zero

contro tutti gli stranieri e chiunque molesti e aggredisca

le donne, ma anche contro i neonazisti e le loro violenze.

Secondo i dati forniti dal governo, sono almeno 600 le donne

che hanno denunciato la polizia per omissione di soccorso.

Ma le vittime dei soprusi sessuali sono molte di più.

Come antifascisti, non possiamo non condividere queste

scelte che prevedono misure adeguate alla circostanza:

restrizione al diritto d’asilo, nuove norme per espulsioni

per direttissima di migranti colpevoli di reati penali. L’uso

della clava (era ora!) riguarderà anche xenofobi, neonazisti,

cultori della violenza etnica. Pensate che alcuni gruppi di

estrema destra stavano organizzando attacchi alle moschee

come rappresaglia per le violenze sessuali consumate a

Colonia. Anche l’Europa si è schierata con Berlino: “Non

vogliamo tornare al Medioevo”.

Il timore è che, cessati i rumors sull’allucinante vicenda,

tutto ritorni come prima. Senza alimentare rivalse

razzistiche, che sono estranee al nostro Dna, anche noi

pensiamo che chi delinque e si comporta in modo barbarico,

vada punito ed espulso dal nostro Paese. Senza se e senza

ma.(m.g.)

Il Senato della Repubblica

Le aggressioni davanti al Duomo di Colonia durante il capodanno

Page 11: fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini · una requisizione al re di Jugoslavia per conto del servizio informazioni militari fascista. Ne prese 60 tonnellate, ne restituì

2120 Personaggi Personaggi

Durante la resistenza era stato un fiero antifascista e partigiano, militanza che pagò con il carcere Duro a milano

La scomparsa di Cossutta, l’ultimo dei sovietici

Armando Cossutta, nato a Milano,

il 2 settembre 1926, è stato un

politico e partigiano italiano Si

iscrisse nel 1943 al Partito Comunista

Italiano e partecipò da partigiano delle

Brigate Garibaldi alla Resistenza anti-

fascista e antinazista. Venne arrestato dai

nazifascisti e detenuto per un certo perio-

do nel carcere di San Vittore a Milano. Nel

dopoguerra divenne dirigente del partito,

di cui incarnava la corrente più filo-sovie-

tica: questa sua tendenza a considerare

l'Unione Sovietica come "Stato guida" del

movimento comunista mondiale lo por-

tò a polemizzare con Enrico Berlinguer.

Collaboratore de l'Unità ed ininterrotta-

mente parlamentare dal 1972 al 2008 (pri-

ma come senatore, dal 1994 al 2006 come

deputato, e quindi nuovamente come senatore), molti furono gli

incarichi politici da lui ricoperti: ad esempio fu consigliere comu-

nale a Milano dal 1951; fu segretario comunale e poi regionale

del PCI (nel primo caso a Milano, nel secondo in Lombardia) e

fu inoltre membro della direzione della segreteria nazionale del

Partito Comunista Italiano.

Filosovietico per antonomasia, nel 1981 si oppose strenuamente

alla linea revisionista del segretario Berlinguer, il quale,

traendo spunto dal golpe che Jaruzelski compì sotto la minaccia

d'invasione sovietica della Polonia, aveva affermato che la "spinta

propulsiva" della Rivoluzione d'Ottobre si era esaurita, tentando

di sganciare il PCI dai suoi rapporti storici con i regimi comunisti

del blocco sovietico. Oltre che nel merito, Cossutta criticò il

metodo della scelta del PCI, che definì in un celebre articolo

"lo strappo", per la sua gestazione estranea alle discussioni

interne ed alla storia stessa del partito. In seguito, pur senza

rimpianti, Cossutta dichiarò di aver sbagliato nell'andare contro

Berlinguer[2]. Cossutta fu vicino anche all'operaismo, ma senza

distaccarsi mai dal PCI.

Contrario allo scioglimento del PCI, nel febbraio 1991 fondò,

con Sergio Garavini, Lucio Libertini ed altri, il Movimento

per la Rifondazione Comunista, che nel dicembre dello stesso

anno si unì a Democrazia Proletaria formando il Partito della

Rifondazione Comunista, di cui fu presidente.

In seguito alle elezioni politiche del 1996, Rifondazione

Comunista fece parte della maggioranza che sosteneva il primo

governo Prodi.

Nel 1998 Fausto Bertinotti, allora segretario del partito, ritirò

la fiducia al governo; Cossutta si oppose staccandosi dal partito e

fondandone uno nuovo, il Partito dei Comunisti Italiani (PdCI),

con Oliviero Diliberto e Marco Rizzo; il PdCI partecipò al

successivo governo D'Alema. Cossutta ricoprì quindi la carica di

presidente del PdCI e di senatore.

Dal 1999 al 2004 è stato inoltre deputato al parlamento europeo.

Sempre nel 2004 pubblicò la sua autobiografia dal titolo Una storia

comunista. Alle elezioni politiche del 2006 venne eletto senatore

per la lista Insieme con l'Unione, cui i Comunisti Italiani diedero

vita al Senato, nella regione Emilia-Romagna. È stato membro

della Commissione Affari esteri. Nel 2000 partecipò, con altri

politici come Walter Veltroni, al gay pride di Roma, prendendo

posizione a favore del matrimonio omosessuale.

A giugno del 2006, dando alla fine voce ad un dissenso sofferto

verso la linea politica del segretario Oliviero Diliberto, Cossutta

si dimette dalla carica di presidente del partito. Il 21 aprile 2007

presenta le dimissioni dal partito e non rinnova più la tessera di

alcun partito, lasciando la politica attiva.

Alle elezioni politiche del 2008 ha dichiarato di aver votato "da

comunista" per il Partito Democratico.

Dal 2009 Cossutta è stato vice presidente nazionale

dell'Associazione Nazionale Partigiani d'Italia (ANPI). L'8 agosto

2015 rimase vedovo dopo la morte della moglie Emilia Clemente,

con la quale era legato da circa settant'anni. Da "Emi" aveva avuto

tre figli: Anna, Dario e Maura, anch'essa attiva in politica come

parlamentare.

È deceduto il 14 dicembre 2015 all'Ospedale San Camillo di

Roma, dove era ricoverato da tempo, all'età di 89 anni. Armando

Cossutta era ateo.

Roberto Cenati, presidente dell’Anpi provinciale di Milano, lo

ha così ricordato.

I piace ricordare in questo triste momento il discorso che

fece,nel 1983, in occasione del cinquantesimo anniversario della

fondazione del Ginnasio Liceo Carducci, al quale Cossutta era

iscritto.

"Mi ero iscritto al Carducci - scrive Cossutta - alla quarta classe

del Ginnasio nel 1940. Venivo da Sesto San Giovanni ogni mattina

con il tram che svolgeva un servizio molto efficiente. Le ragazze

che da Sesto venivano a Milano alle scuole superiori erano

rarissime. E per la verità erano pochi anche i ragazzi, perché

allora Sesto San Giovanni consisteva in un piccolo centro di 30

mila persone e i suoi abitanti erano quasi tutti operai. I figli degli

operai facevano gli operai, dopo aver frequentato, per i casi più

fortunati, qualche scuola professionale.

Ricordo questi particolari perché quando, più tardi, cercai dei

contatti per svolgere un ruolo attivo nella lotta clandestina contro

il nazifascismo, trovai a Sesto non poche difficoltà a entrare

nell'organizzazione: ero uno studente, agli operai apparivo forse

come un privilegiato, non uno dei "loro". Comunque, ad accettare la mia iscrizione al Partito Comunista fu una magnifica figura di

operaio della Breda, Pietro Pazzaglia. Tutto questo avveniva verso la fine del 1943 quando avevo diciassette anni e frequentavo la

seconda classe del Liceo classico. Una classe di prim'ordine. Dominavano la scena alcuni professori di alto valore. Fra essi ricordo

con affetto Massariello, che insegnava italiano, Canesi per latino e greco, Mari per la matematica: professori severi e giusti e perciò

rispettati e stimati da noi studenti. Fra i compagni di classe non mi fu difficile trovare rispondenza attorno agli ideali di libertà e

di progresso che avevo abbracciati. Con altri studenti più anziani di qualche anno stabilii stretti rapporti clandestini. Scrivevamo

volantini e li diffondevamo. E cominciammo a ricercare e a trasportare armi. Un giovane, sciagurato, fece la spia. Ed una notte, nei

primissimi giorni del gennaio 1944, vennero a casa ad arrestarmi.

Seppi più tardi che c'era stata una grande solidarietà da parte dei miei compagni e dei nostri insegnanti del Carducci. Quanti furono

interrogati non dissero nulla che potesse essermi di danno. L'insegnante d'Italiano, l'illustre professore Massariello, che in seguito

seppi aderente al CLN, si affrettò a nascondere un mio tema in classe che poteva apparire troppo compromettente. Ero stato imprudente

a scrivere quel tema, ma egli era stato coraggioso a chiedere a noi di commentare i famosi versi di Dante: "Libertà va cercando, che è

si cara/come sa chi per lei vita rifiuta."

All'uscita dal carcere (dopo il duro isolamento nella cella del sesto raggio di San Vittore, le violente percosse, la finta fucilazione...)

l'anno scolastico era per me ormai irrimediabilmente perduto. Decisi perciò di studiare per mio conto e tentare di affrontare

direttamente l'esame di maturità. All'esame di autunno ritrovai in via Lulli i miei professori del Carducci, severi come sempre nel

giudizio, ma affettuosi come non mai. Credo di aver fatto un buon esame. La mia esperienza al Carducci era finita."

Luigi Polano, sassarese, e la lotta via etere al nazifascismo

Disse no a Berlinguer il comunista guastatore de ”la Voce della verità”

“Mi spiace segretario non posso, il compagno Togliatti

mi ha chiesto di non rivelarla mai”. Rispose gentile ma

fermo alla richiesta di raccontare al segretario Enrico

Berlinguer la località da dove erano disturbate le tra-

smissioni radio dell’Eiar nell’era fascista. Luigi Polano,

sassarese, classe 1897 fu un co-

munista inflessibile e non tradì

mai la parola neppure negli ulti-

mi anni della sua vita. Sua era la

“Voce della verità”, l’impresa da

guastatore dell’etere mussolinia-

no e titolo del libro che racconta

la sua vita di rivoluzionario di

professione. Frammenti di storia

e finzione narrativa che il gior-

nalista Vindice Lecis mette in-

sieme con dovizia di particolari,

documenti originali, dispacci e

fonogrammi, estrapolati dai fa-

scicoli delle prefetture di mezza

Italia e dall’archivio speciale del

ministero dell’Interno.

Un’esistenza da primula ros-

sa, vissuta fino alla liberazione,

con gli agenti dell’Ovra alle cal-

cagna che però arrivavano sempre in ritardo: quando

le relazioni lo segnalavano in Jugoslavia, Polano è già

in Finlandia, individuato a Parigi o sulla strada verso il

Mar nero. Per l’Ovra, il fascicolo che lo riguarda è uno

dei più grossi per consistenza e dei più vari per conte-

nuto, timbrato “comunista pericoloso, da arrestare alla

frontiera”. L’inafferrabile cospiratore antifascista ri-

voluzionario dovette lasciare l’Italia a metà degli anni

’20 e non solo perché ricercato dalla polizia politica di

Mussolini, diventando uno dei più fedeli collaboratori

di Togliatti, uomo di fiducia del Comintern, capo dei

comitati di cospirazione e della diffusione di materiale

della propaganda tra i marittimi di Odessa.

Nel 1941 fu il “compagno Ercoli” ad affidargli il compi-

to di mettere in piedi una stazione radio clandestina non

solo per disturbare le trasmissioni di regime ma anche

per fare vera e proprio controinformazione sulla guer-

ra in corso raccontata dall’Eiar

come una marcia trionfale. Da

allora le incursioni sulle fre-

quenze ufficiali lanciate da lo-

calità mantenute sempre segre-

te fecero impazzire di rabbia i

funzionari del ministero dell’in-

terno e continuarono fino al giu-

gno del 1944 con la liberazione

di Roma. Un’avventura partita

da Radio Mosca e proseguita in

giro per diverse località dell’est.

Al Viminale sapevano molto

bene chi era Polano ma quel-

la trasmittente a onde medie

piazzata di volta in volta su au-

tocarri militari, fu impossibile

da localizzare. Lo spettro ra-

diofonico fece la sua comparsa

il 6 ottobre del 1941. Il condut-

tore di turno del Commento ai fatti del giorno, Mario

Appelius, fu improvvisamente interrotto: “Questa è

la voce della verità, la voce dell’Italia libera e antifa-

scista. Ogni sera e a questa stessa ora dirà agli italiani

che Hitler e Mussolini perderanno la guerra, bisogna

salvare l’Italia dalla rovina e da questi criminali”. Per i

funzionari addetti alla propaganda e per il Duce stesso,

fu come una bestemmia in chiesa ma il beffardo auto-

re di quelle interferenze continuò per quasi tre anni e

riuscì sempre a sfuggire. E il segreto sul luogo da dove

trasmetteva nel maggio del 1984 se lo portò per sempre

con sé. (n.c.)

Page 12: fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini · una requisizione al re di Jugoslavia per conto del servizio informazioni militari fascista. Ne prese 60 tonnellate, ne restituì

2322 Personaggi Personaggi

EUGENIO COLORNI IL SOCIALISTA EUROPEISTACOAUTORE DEL “MANIFESTO DI VENTOTENE”, CONTRIBUÌ EFFICACEMENTE ALLA RIORGANIZZAZIONE DEL PARTITO – FU ASSASSINATO DALLA BANDA FASCISTA KOCH – IL SUO ULTIMO ARTICOLO

di Carlo TOGNOLI (sindaco di Milano dal 1976 al 1986)

Eugenio Colorni, un antifa-scista, socialista (dopo un breve passaggio da Giustizia e

Libertà) europeista ‘antelitteram’ con Ernesto Rossi e Altiero Spinelli, venne ucciso dai fascisti della banda Koch a Roma, nel maggio 1944. Faceva parte del ‘centro interno socialista’, a fianco di Lelio Basso, Lucio Luzzatto e Rodolfo Morandi.

Era nato a Milano dove si era lau-reato in Filosofia con una tesi su Leibniz.Docente di filosofia nella prima metà degli anni ’30, collabo-ratore della ‘Rivista di filosofia’, della einaudiana ‘Cultura’, elaborò uno stu-dio critico su Benedetto Croce. Il suo incontro con la politica avvenne con i gruppi di Torino e di Milano di Giustizia e Libertà. Dopo il dissolvi-mento di GL, causato dagli arresti dei più importanti esponenti, Colorni entrò in contatto con i socialisti del ‘centro’. Dopo l’incarcerazione di Morandi e Luzzatto, Pietro Nenni lo incitò a ricostituire il ‘centro’ dove il suo impegno etico e politico fu totale. Arrestato anche lui nel 1938 (tra l’altro era di famiglia ebraica) venne man-dato al confino di Ventotene nel 1939 (e poi a Montemurro, a Pietragalla e a Melfi). Il sodalizio politico e intel-lettuale con Rossi e Spinelli sfociò nella stesura del manifesto europeista e federalista che porta il nome dell’i-sola che accoglieva i confinati. Riuscì ad evadere nel maggio 1943 e a colle-garsi ai nuclei socialisti clandestini a Roma e a Milano dove partecipò alla fondazione del movimento federali-sta europeo. Ebbe una parte rilevante nella ricostruzione della Federazione Giovanile Socialista, nella organiz-zazione del centro militare socialista e nella redazione dell’Avanti! clan-destino. La prima ‘brigata Matteotti’ a Roma fu costituita da Colorni, da Leo Solari e Mario Zagari e dai giovani socialisti. Il contributo di Colorni alla ‘Resistenza’ e alla rico-struzione di un partito socialista ‘au-tonomista’ fu moderno (europeismo), profondamente democratico e inter-nazionalista.

Norberto Bobbio, che ha studiato sotto il profilo politico e filosofico il suo pensiero, a partire dalla screma-tura della parte più positiva della fi-losofia crociana, sottolinea che in Colorni “la politica è azione guidata da una concezione generale della società….un imperativo etico che gli impone di calarsi nell’azione politica e non è una scelta politica a dargli la propria etica”.

Totalmente antifascista e antinazi-sta, Colorni fu distante dallo ‘stali-nismo’, e dal comunismo, ma non dalla politica unitaria purché fosse garan-tita l’autonomia dei socialisti. Egli te-meva la subordinazione al comunismo, ma diffidava anche del ‘nazionalismo’ di molti partiti socialisti europei, che avrebbero frenato l’unità europea. In ogni caso riteneva che la battaglia per l’europeismo e per il federalismo dovesse costituire la premessa per l’affermazione del socialismo e per salvare la pace sottraendola alla pura contrattazione tra le potenze vin-citrici. Inseguito dai fascisti della ‘Koch’ il 28 maggio 1944, venne fe-rito gravemente e morì il 30 maggio, pochi giorni prima della liberazione di Roma. Come Bruno Buozzi, l’altro martire socialista fucilato dai tedeschi il 3 giugno dello stesso anno.

Si è parlato poco di Colorni come ‘coautorÈ del ‘manifesto di VentotenÈ,

nella cui stesura ebbe una parte im-portante e non si è dato adeguato ri-lievo al contributo che Lui ha dato nella ricostruzione del Partito Socialista in un periodo drammatico. C’è uno scritto di Leo Solari, che gli fu allievo e compagno, che ne dà un ri-tratto commosso per essergli stato vi-cino nei giorni precedenti alla morte. Rino Formica mi ha procurato l’ul-timo articolo che Colorni scrisse per l’Avanti!, prima di morire.

Questo articolo fu pubblicato nel n. 18 dell’edizione romana dell’ “Avanti!” clandestino: è l’ultimo scritto di Eugenio Colorni prima della sua morte).

Rivoluzione dall’alto?Quando si parla di rivoluzione, allo

stato attuale delle cose, bisogna tener conto di alcuni fattori che rendono la situazione presente profondamente diversa da quella che si era venuta creando alla fine della scorsa guerra. Allora gli stati vincitori, pur intro-mettendosi profondamente nella vita interna dei vinti dal punto di vista economico, finanziario, militare, li la-sciarono però essenzialmente liberi di scegliersi il regime interno che pre-ferivano. Germania, Austria, Grecia, Polonia, Turchia poterono compiere la loro evoluzione politica pratica-mente indisturbate; e solo la Russia

dovette difendere la propria rivoluzione contro forze sostenute ed armate delle potenze occidentali. Il principio del “non intervento” apparteneva alla morale politica dell’epoca intercorsa fra le due guerre: e furono i fascisti i primi a rom-perlo, in occasione della guerra spagnola. Oggi questo principio non vale asso-lutamente più: e benché si continui a parlare di autodecisione dei popoli, tutti sanno oramai con certezza che gli stati vincitori non lasceranno i vinti in balia di loro stessi nella crisi decisiva che si aprirà, anzi che si è già aperta, in questo scorcio della seconda guerra mondiale. L’esperienza fascista ha fatto tutti attenti all’influenza decisiva che può avere il regime interno di uno stato su tutto lo svi-luppo politico del continente; i vincitori controlleranno molto da vicino le evolu-zioni politiche dei vinti, in modo da impedire ritorni sciovinistici che mettano in pericolo il nuovo equilibrio. A questo si aggiunga la sensazione oramai dif-fusa nel pubblico che le varie ideologie non siano oramai più rappresentate dai vari partiti con le loro grandi organizzazioni di massa, ma piuttosto dagli stati che di esse si sono fatti paladini, in questa guerra tipicamente ideologica. Per l’uomo della strada comunismo significa Russia, democrazia significa America ed Inghilterra, fascismo Germania; e combattere per l’una o per l’altra di queste forme politiche significa, anche nella coscienza elementare delle masse, appog-giarsi all’uno o all’altro di quegli stati. Di ciò i vincitori stessi sono tanto con-sapevoli, che considerano spesso i partiti nei Paesi vinti come pedine nel loro giuoco internazionale, favorendo ed osteggiando questa o quella combinazione, a seconda che lo comportino le esigenze della loro politica europea e mondiale. Quando si parla di rivoluzione oggi, bisogna dunque tener conto di questi fatti elementari. È forse finita per sempre l’epoca dei grandi movimenti di massa, de-cisivi per la vita futura di un popolo, l’epoca romantica della rivoluzione come sollevamento di popolo in cui il fluttuare del favore popolare è decisivo per la vita di una nazione. Oggi gli elementi del giuoco si sono allargati, i legami di in-terdipendenza tra il regime interno di un Paese e l’assetto politico generale si sono moltiplicati. Ogni spostamento di equilibrio anche in un luogo periferico si ripercuote al centro, in modo che chi dirige la politica mondiale deve conside-rare la volontà espressa dalle masse popolari in un Paese qualsiasi non più come un fatto autonomo capace di sviluppo proprio, ma come un elemento di un gioco estremamente complesso, di cui gli convenga tenere tutte le fila salda-mente in mano. Dobbiamo concludere da tutto questo che, se ci sarà rivolu-zione, sarà una rivoluzione dall’alto, voluta, anzi imposta dai vincitori? Dobbiamo malinconicamente rasse-gnarci a non aver più nulla da dire sul nostro destino, ad essere quasi pe-dine in un giuoco di cui non è no-stro potere influenzare l’andamento? Dobbiamo limitare la nostra attività ad assecondare i disegni di quella po-tenza vincitrice a cui ci saremo acco-dati, considerando ogni evoluzione della sua politica come una direttiva cui non ci resti che adeguarci? Non lo crediamo affatto. Crediamo anzi che l’opporsi a questa tendenza costituisca uno dei motivi essenziali di essere del nostro partito. Nel valutare la funzione dei movimenti di massa, e della libera espressione della volontà popolare nella situazione in cui ora ci troviamo è necessario tener conto del fatto che le stesse potenze vincitrici non hanno ancora affatto deciso quale sarà la linea politica che esse seguiranno riguardo ai problemi del dopoguerra. Le loro

opinioni non sono affatto univoche a questo proposito, e nel loro stesso seno si agitano tendenze contrastanti: pos-siamo all’ingrosso ravvisare correnti reazionarie, imperialistiche, che ten-dono a ridurre i Paesi vinti a semplici sfere d’influenza; e tendenze progres-siste che si propongono di risolvere in modo radicale e definitivo tutte le con-traddizioni sociali, economiche, na-zionali, statali le quali hanno portato a questa guerra e condurrebbero alla perpetuazione del presente stato di marasma, qualora non venissero eli-minate con un taglio netto. È in que-sto campo ancora incerto e oscillante che deve inserirsi in modo decisivo l’a-zione dei movimenti di massa, nell’at-tuale delicatissimo momento politico. È per influire sull’opinione pubblica, sulle cancellerie, sugli stati maggiori: per mostrare ciò che può esser fatto e ciò che non può esser fatto. Un “no” deciso delle masse popolari e dei par-titi che le rappresentano può essere oggi un elemento decisivo per far ri-vedere una situazione, per far mutare radicalmente un atteggiamento alle sfere dirigenti dei Paesi che hanno in mano le fila del nostro destino.

Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni ed altri

Eugenio Colorni

Page 13: fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini · una requisizione al re di Jugoslavia per conto del servizio informazioni militari fascista. Ne prese 60 tonnellate, ne restituì

2524 Memoria Memoria

MILITANTE, OPERAIO, PARTIGIANO, FU ELETTO SINDACO DI MODENA DOPO LA LIBERAZIONE

CORASSORI, UN ANTIFASCISTA DEL NOVECENTOA cinquant’anni dalla sua morte, una mostra ripercorre il suo percorso di vita segnata da una profonda opposizione al regime mussoliniano

di Giovanni TAURASI

La vita di Alfeo Corassori attraversa la prima metà del Novecento, incarnando valori e ideali della storia del movimento operaio e testimoniando - con tenacia, coraggio e coerenza - il legame inscindibile tra lotta contro il fascismo e lotta per la democrazia. Dirigente comunista, perseguitato e condannato più volte al carcere e al confino dal Tribunale Speciale, dopo l’8 settembre 1943 fu tra gli organizzatori del movimento partigiano modenese ed entrò nel triumvirato insurrezionale emiliano. Dopo la Liberazione divenne Sindaco di Modena, incarico che ricoprì sino al 1962. Ripercorrerne la vita a cinquant’anni dalla morte (raccontata in una mostra e in un video promossi da Comune di Modena, Istituto storico di Modena e Polisportiva Corassori) consente di riscoprire il profilo popolare dell’antifascismo e il suo significato più profondo.

Alfeo Corassori nasce a

Campagnola di Reggio Emilia nel

1903. Figlio di contadini, presto

si trasferisce a Carpi, nel modenese, dove

lavora nei campi come bracciante e con-

temporaneamente svolge attività politica

sin da giovanissimo. Appena sedicenne si

iscrive alla federazione giovanile socia-

lista, ma già nel 1921 aderisce al neona-

to Partito comunista d’Italia, fondando la

Federazione modenese insieme ad uno spa-

ruto gruppo di militanti (appena una tren-

tina di aderenti in provincia). All’interno

del nuovo partito Corassori trasferisce

valori e ideali maturati precocemente. Al

congresso provinciale del Partito del 1925

è sulle posizioni di Bordiga, in contra-

sto con le tesi gramsciane, e alla fine dello

stesso anno dirige per alcuni mesi la fede-

razione come segretario. Nel periodo della

dittatura Corassori conduce con abne-

gazione, sacrificio e tenacia la sua instan-

cabile battaglia antifascista. Perseguitato

dal fascismo per la sua attività politi-

ca, Corassori viene condannato più vol-

te, subendo numerosi anni di carcere e

di confino (già nel 1923 era stato proces-

sato insieme a Bordiga ed altri dirigenti

del Partito comunista e condannato per il

possesso di una rivoltella non registrata).

A Milano, dove cambia nome e vive nel-

la semiclandestinità, viene nuovamente

arrestato il 5 aprile 1927 per organizzazio-

ne comunista, selvaggiamente picchiato e

condannato il 14 luglio 1927 dal Tribunale

Speciale a dieci anni di detenzione e tre

anni di vigilanza speciale per apologia,

cospirazione, offese al Capo del Governo

e oltraggio ai danni di agenti della Forza

Pubblica. Comincia a scontare la propria

pena prima a Volterra, poi a Pallanza e

infine a Lucca, da dove è scarcerato nel

novembre 1932, in seguito all’indulto con-

cesso dal Regime nella ricorrenza del pri-

mo decennale del fascismo. Il 25 febbraio

1933 si sposa con

Rina Nizzoli (da

cui avrà due figli)

e si trasferisce

a Carpi, ripren-

dendo l’attività

cospirativa per

riorganizzare il

partito comuni-

sta. Consapevole

che l’Ovra vigila

su di lui, si stabi-

lisce per un breve

periodo di tempo

a Littoria per lavorare e sfuggire ai con-

trolli e riprendere la sua attività antifasci-

sta. Nell’ambito di un’operazione di poli-

zia dell’Ovra che porta all’arresto nella

notte fra il 4 e il 5 ottobre 1933 di una set-

tantina di antifascisti nel modenese, anche

Corassori viene rintracciato nell’Agro

Pontino e imprigionato per attività antifa-

scista. Il 23 gennaio 1934 la Commissione

provinciale ordina l’assegnazione al con-

fino di Corassori per cinque anni pres-

so l’isola di Ponza. Sull’isola Corassori fa

parte di un comitato che affianca Giorgio Amendola, incaricato dal Partito comu-

nista di tenere un corso di storia italiana

ai confinati, e partecipa anche ad una pro-

testa collettiva per la quale viene condan-

nato a 10 mesi presso il carcere giudizia-

rio di Napoli. Gli atti di clemenza invocati

dal padre vengono tutti respinti, poiché

Corassori non dà nessun segno “di rav-

vedimento” agli occhi del regime. Nel 1939

viene trasferito alle Tremiti dove rima-

ne alcuni mesi, sino a quando nell’agosto

dello stesso anno è liberato. Viene vigilato

fino al 1943 e arrestato durante i 45 gior-

ni del governo Badoglio in seguito alla

direttiva del Capo del Governo miran-

te a neutralizzare gli antifascisti ritenuti

pericolosi.

Nel corso della guerra di liberazione

Corassori è promotore e dirigente

instancabile del movimento partigiano.

Dopo l’8 settembre 1943 gli viene affidata

la guida della federazione modenese del

Partito comunista e diviene responsabile

militare della provincia di Modena

sino al marzo 1944. Viene poi trasferito

alla federazione di Bologna e agisce in

clandestinità. Non è coinvolto in scontri

a fuoco, ma viene arrestato nell’aprile

1944 dalle SS a Bologna e rimesso in

libertà dopo alcuni giorni. Entra nel

triumvirato insurrezionale del Nord-

Emilia. Dopo la Liberazione della città

di Modena il Comitato di Liberazione

nazionale provinciale composto dai

partiti antifascisti affida a Corassori la

guida del comune capoluogo. L’incarico

viene confermato con le prime libere

elezioni amministrative democratiche

del 31 marzo 1946. Viene eletto anche in

Assemblea Costituente il 2 giugno 1946,

ma rinuncia all’incarico, dimettendosi

l’11 settembre 1946, per dedicarsi a

quello di amministratore locale. Per

la medesima ragione declina l’invito a

candidarsi alle politiche del 1948. Le

maggioranze composte da socialisti e

comunisti sostengono le sue giunte anche

nelle successive tornate amministrative e

Corassori viene riconfermato sindaco

dopo le elezioni del 1951, 1956 e 1960.

Nel dopoguerra assume anche incarichi

nel partito nazionale: nel 1946 entra nel

Comitato Centrale del PCI al V Congresso

del partito (carica riconfermata nel VI

Congresso del 1948) e nella Commissione

Centrale di Controllo. Nei passaggi

politici più delicati - come ad esempio in

occasione dei fatti ungheresi del 1956 - le

sue posizioni sono allineate a quelle della

segreteria centrale. Come in gran parte dei

dirigenti dell’epoca, prevale in Corassori la linea nazionale e l’ancoraggio all’Unione

Sovietica e alla sua interpretazione

controrivoluzionaria della ribellione

ungherese, al contrario delle posizioni di

alcuni giovani militanti e intellettuali del

partito modenese che protestano contro

l’invasione sovietica. Nella pratica però

la linea condotta da Corassori e dagli

amministratori emiliani del tempo si basa

su un approccio riformista e su un sistema

di alleanze sociali che vede assieme

classe operaia urbana, bracciantato

agricolo, ceto mezzadrile e classi medie

urbane (commercianti, artigiani e piccoli

e medi imprenditori). Ciò consente al

PC modenese ed emiliano di mantenere

un’egemonia sociale e un perdurante e

largo consenso nel lungo dopoguerra

(alle prime elezioni comunali i comunisti

ottengono il 48% dei consensi, i loro alleati

socialisti superano il 19%). Corassori fa

parte di una generazione di esponenti

politici carismatici cresciuti negli anni

della dittatura fascista che imparano il

“mestiere della politica” all’interno delle

carceri del Regime e poi nella lotta di

Resistenza. Si tratta di figure strettamente

legate alle comunità locali di provenienza,

nelle quali è maturata un’idea della politica

che si materializza nel rapporto diretto

col popolo e che opera in modo concreto

per risolvere i problemi dei cittadini. Sono

amministratori che si identificano profondamente con le realtà territoriali che governano

e ciò spiega il largo consenso, la vasta popolarità e la lunga esperienza amministrativa

di sindaci come Corassori. Le sue giunte guidano la fase della ricostruzione morale e

materiale del dopoguerra e promuovono politiche amministrative capaci di sostenere

lo sviluppo successivo, garantendo coesione sociale in un’epoca caratterizzata da

problemi di ordine pubblico, da un’aspra battaglia politica e da profonde tensioni sociali

(che tocca a Modena l’apice con l’eccidio delle Fonderie Riunite del 9 gennaio 1950,

quando, nel corso di scontri durante una manifestazione collegata ad una drammatica

vertenza sindacale, vengono colpiti a morte dalle forze dell’ordine sei operai). Sono anni

anche di forte contrapposizione ideologica tra le sinistre e la DC che guida il Governo

nazionale e di tensione con le istituzioni governative (nel 1948 numerosi sindaci

modenesi vengono sospesi e arrestati e anche Corassori viene denunciato e poi assolto

per comizio abusivo), ma l'altissima percentuale di delibere approvate all'unanimità

dal consiglio comunale di Modena testimonia la capacità di Corassori di mediare e

operare nell’interesse dell’intera comunità, raccogliendo il sostegno anche delle forze

di opposizione locale. Sono inoltre numerose le vertenze sindacali nelle quali Corassori

interviene per favorire soluzioni e si prodiga per riaprire aziende, tenendo contatti e

mediando tra associazioni imprenditoriali, sindacato e autorità provinciali e nazionali.

Durante i diciassette anni nei quali Corassori è sindaco di Modena la città si lascia alle

spalle le ferite e i segni della guerra e cambia il suo volto urbanistico e sociale. Il primo

mandato amministrativo dal 1946 al 1951 è caratterizzato dalla fase dell’uscita dalla

guerra con il Piano della ricostruzione della città elaborato nel 1947. Il comune guidato

da giunte di socialisti e comunisti affronta i problemi più urgenti in una città segnata

dai bombardamenti e dalla riconversione postbellica: la carenza di alloggi (con circa

10mila senzatetto) e quella di lavoro (oltre 50mila disoccupati sono rilevati a Modena

tra 1948 e 1949). Tra il secondo e il terzo mandato, 1951/56 e 1956/60, grazie all’opera

delle giunte socialcomuniste guidate da Corassori, la città, che vede crescere la sua

popolazione di 30mila unità arrivando a circa 140mila abitanti, vive una significativa

trasformazione economica, sociale ed urbanistica: viene inaugurato il nuovo Mercato

Bestiame nel 1951 e avviata la costruzione del nuovo policlinico a metà del decennio,

realizzate opere di edilizia scolastica e civile, ristrutturati i trasporti pubblici da

tranviari a filoviari, sviluppati servizi pubblici e realizzati investimenti in infrastrutture

e fonti energetiche, con la costituzione di due consorzi provinciali (uno per la viabilità

e uno per la distribuzione del gas metano), ampliata la viabilità della città e realizzate

aree attrezzate, con la nascita dei primi villaggi artigiani, costruita una nuova scuola

provinciale destinata a fornire quadri e figure tecniche alle imprese locali, progettate le

prime politiche sociali ed educative, promosse politiche per la casa e delineato il primo

Piano Regolatore Generale (modificato e approvato poi definitivamente nel 1965). Il

10 settembre 1962 Corassori si dimette da sindaco. Non si tratta di un passaggio del

tutto indolore per l’affetto che circonda ancora un sindaco molto popolare, ma la società

modenese, ed emiliana, è cambiata, ed è necessario aprire un nuovo ciclo politico. In

quegli anni lungo la via Emilia il PC avvia perciò una fase di rinnovamento e pone fine

alle lunghe esperienze amministrative di numerosi sindaci eletti dopo la Liberazione e

anche a Modena una nuova generazione prende in mano partito ed enti locali.

Corassori muore tre anni dopo, il 27 novembre 1965. Al suo funerale i modenesi

partecipano in massa e riempiono Piazza Grande, affollando il corteo che accompagna

il feretro. Le immagini di quel triste evento testimoniano un legame reciproco, forte e

profondo, tra la comunità locale e il suo sindaco più popolare.

Alfeo Corassori sindaco di Modena

Corassori al confino a Ponza

1954, Enrico Berlinguer (all'epoca segretario della FGCI) e Alfeo Corassori osservano divertiti la sfida a dama tra Bruno Losi (Sindaco di Carpi dal 1945 al

1970) e Giuseppe D’Alema (all'epoca segretario del PC modenese)

Page 14: fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini · una requisizione al re di Jugoslavia per conto del servizio informazioni militari fascista. Ne prese 60 tonnellate, ne restituì

2726 Cultura Cultura

SOLENNE CERIMONIA AL COMUNE DI CASALPUSTERLENGO

A Giovanni Mirotti antifascista e deportato il Premio della Pusterla

L'Amministrazione comunale ha conferito il Premio a Giovanni Mirotti, cui è intitolata la sezione Anppia. La cerimonia si è svolta sabato 19 dicembre presso il Teatro Comunale.

Giovanni Mirotti nacque a Casalpusterlengo il 7 aprile 1901. Commerciante di vini, era sposato con Guglielmina (Emma) Riva da cui ebbe 4 figli, Flora, Prospero, Enzo e Danilo. Giovanni era uno dei figli di Prospero Mirotti, che fu sindaco socialista di Casalpusterlengo subito dopo la prima guerra mondiale. Prospero fu destituito dai fasci-sti nel 1922 e costretto ad allontanarsi dal paese. Da allora Giovanni subì, come tutti i suoi familiari, le persecuzioni del regime. Pur con le difficoltà causate dalla sua opposi-zione alla dittatura, continuò l’attività di commerciante e la gestione dei negozi di fa-miglia. A Casalpusterlengo Giovanni, insieme al fra-tello Aldo e a Francesco Scotti, diede vita nel 1931 ad una organizzazione an-tifascista clandestina. Questa, tra l’altro, produsse un foglio illegale intitolato “Il risveglio” che veniva dif-fuso tra gli operai delle in-dustrie locali, le operaie della filanda e i braccianti della zona. L’attività poli-tica dei militanti fu stron-cata dagli arresti di fine ottobre 1931 che coinvol-sero una ventina di per-sone. Due di queste, Francesco Scotti e Aldo Mirotti, furono condan-nati dal Tribunale Speciale fascista a diversi anni di carcere. Giovanni fu in-terrogato nel corso dell’in-chiesta ma nessuno dei fermati fece il suo nome. Dopo la morte improvvisa del padre Prospero, colpito da infarto nel 1932 dopo aver incrociato sul treno il figlio Aldo, tradotto ammanettato da Milano a Roma per essere processato dal Tribunale Speciale, Giovanni assunse to-talmente su di sé la conduzione dell’azienda e la responsa-bilità di due famiglie: la sua e quella di Aldo. Nonostante la sorveglianza della polizia e le frequenti bastonature dei fascisti locali, riprese l’attività politica. Nel 1942, fu arre-stato per propaganda antifascista, opposizione alla guerra e disfattismo presso i militari in licenza. Il fatto era di do-minio pubblico ma nessuno dei militari interpellati lo de-nunciò. Giovanni fu comunque arrestato e imprigionato per 30 giorni. La caduta del fascismo il 25 luglio 1943 e i 45 giorni che seguirono, lo videro ancor più impegnato. A

Casale grande fu l’entusiasmo popolare per il crollo del re-gime. Il paese manifestò spontaneamente e pacificamente la propria gioia per le vie e le piazze. Casale era rimasta senza una guida politica. Fu allora che, per volontà dei concitta-dini, Giovanni e Aldo Mirotti presero in mano le redini del paese. I due fratelli si adoperarono per riportare la calma nella popolazione, risolsero le questioni amministrative più urgenti collaborando con il podestà di allora, Francesco Ramella. Grazie alla petizione inviata al Questore di Milano per il tramite del Podestà, Giovanni fece liberare i

detenuti politici casalesi, non ancora giudicati, la cui unica colpa era stata quella di aver letto un foglietto an-tifascista. Ma venne l’8 set-tembre e con la nascita della Repubblica Sociale Italiana la situazione si ro-vesciò. La risposta degli antifascisti casalesi fu im-mediata. Il C.L.N. clande-stino a Casalpusterlengo si costituì subito dopo l’armi-stizio e così pure il primo distaccamento partigiano, la “Formazione Autonoma dell’Adda”, che operò tra Cavenago e la foce del fiume. Giovanni Mirotti fu tra i promotori e partecipò come partigiano combat-tente alle prime azioni. Il 4 novembre 1943, anniver-sario della fine della prima guerra mondiale, organizzò a Casalpusterlengo quella che è stata riconosciuta

come la prima, imponente, manifestazione di massa nel Lodigiano sotto l’occupazione nazista. In quella occasione, Giovanni Mirotti tenne un discorso dai toni fortemente antinazisti, incitando apertamente i concittadini ad aderire al progetto della guerra di Liberazione. Di fronte alla forza numerica dei manifestanti, né carabinieri né autorità locali riuscirono ad abbozzare una qualche forma di risposta im-mediata. La reazione fascista si sviluppò decisa nei giorni seguenti. Il 14 novembre 1943, il PFR di Casalpusterlengo presentò alla milizia di Lodi una denuncia contro Giovanni Mirotti. Giovanni fu arrestato, tradotto prima nelle carceri di Lodi e poi a San Vittore a Milano. Da qui , il 22 febbraio 1944, fu destinato al lager di Mauthausen dove morì per esaurimento fisico il 21 marzo 1945.(t.m.)

INVERNO IN GRECIA: UN LIBRO RACCONTA L'OLOCAUSTO DI GIANNINA

All’alba del 25 marzo 1944, nella città di Gian-nina, soldati della Wehrmacht, appoggiati da poliziotti greci, svegliano con urla, bastonate e

calci, tutti gli ebrei della città che vengono cacciati dalle loro abitazioni e si devono raccogliere in piazza: 1725 uomini, donne e bambini. L’operazione, preparata nei minimi dettagli, si conclude alle ore 10 e una colonna di 80 camion parte per destinazione ignota. Tragicamente, il capo della comunità ebraica aveva esortato tutti ad ubbidire, perché credeva alle promesse del generale tedesco che l’aveva assicurato che si sarebbe trattato di un “trasferimento in nuovi insediamenti all’Est”. Non aveva mai sentito nominate Auschwitz. Solo pochissimi non si erano fidati delle promesse scappando in montagna dai partigiani. Dei deportati solo 92 ebrei di Giannina sono sopravvissuti all’olo-causto. La maggior parte degli altri, appena arrivati ad Auschwitz, sono stati avviati direttamente alle camere a gas. I1 libro descrive questa tragedia attraverso una pluriennale ricerca di testimonianze locali e conclude con una minuta descrizione dello scandalo giudi-ziario che nel dopo-

LA TESTIMONIANZA DI NINA NEGRIN SOPRAVVISSUTA AD AUSCHWITZ

Ci avevano permesso di portare 40 chili di bagaglio per ogni famiglia.

Potevamo prendere con noi cosa volevamo. Perciò avevamo portato anche roba da mangiare. Ma il 25 marzo era una giornata

gelida. Anche Sabethai Kabilis, superiore della nostra comunità, era stato caricato con i suoi su uno dei camion. Teneva la

bibbia in mano e pregava in silenzio. Anche quei ragazzi tornati dai partigiani in montagna erano stati caricati sui camion: non

avevano voluto lasciare andar via soli i loro parenti. Strada facendo nevicava senza interruzione. Faceva una pena tremenda

sentir piangere per i1 freddo i bambini in braccio alle loro madri. Due donne anziane sono morte assiderate durante i1 tragitto.

guerra porto all’impunità dei responsabili.Il libro è uscito in lingua greca e in lingua tedesca.Yad Vashem lo sta esaminando per traduzioni in inglese

ed in ebraico.(m.g.)

CHRISTOPH U. SCHMINCK-GUSTAVUS :Christoph U. Schminck-Gustavus (*1942) insegna sin dal 1974 - ormai da professore emerito - storia del di-ritto nella facoltà di giurisprudenza dell’università di Brema. Per lunghi anni è vissuto in Italia, in Grecia e in Polonia per ricercare crimini di guerra della Wehrmacht.

Gli insegnamenti di Nuto Revelli - dal quale è stato chiamato “il tedesco di Cuneo” - sono stati la stella polare dei suoi libri sugli orrori della guerra. Ha raccolto testimonianze orali molto prima che la “oral history” diventasse di moda nella ricerca sto-riografica.

Ha aiutato Nuto Revelli nella ricerca archivistica per il libro “I1 disperso di Marburg” (Einaudi I994), perché da giurista è convinto che ogni testi-monianza orale dev’esser controllata attraverso il materiale documentario, conservato negli archivi. Questo canone metodo-logico ha guidato anche la presente ricerca sulla Shoah in Epiro.

Ritratto di Giovanni Mirotti

Page 15: fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini · una requisizione al re di Jugoslavia per conto del servizio informazioni militari fascista. Ne prese 60 tonnellate, ne restituì

2928 Cultura Arte

COLLABORATORI DEL GIORNALE DI DE CÈSPEDES GRANDI SCRITTORI E INTELLETTUALI IMPEGNATI CONTRO LA DITTATURA

L'ANTIFASCISMO DELLA RIVISTA "MERCURIO"di Filippo SENATORE

La scrittrice poco più che trentenne, Alba de Céspedes, rientrò nella Roma liberata dal nazifascismo dopo aver resistito e combattuto nascosta tra Abruzzo, Puglia e Napoli nell’anelito di un’Italia libera. A Bari, con lo

pseudonimo di Clorinda, la de Céspedes, che frequentò casa Laterza, parlava ogni sera dalla radio degli Alleati. Bisogna rifarsi a quegli anni, a quelle atmo-sfere, a quei giorni pieni di speranze, ma anche di angoscia e di morte, per cogliere a fondo la passione civile che animò la fondazione della rivista Mercurio destinata a durare solo quattro anni, dal ’44 al ’48. Il primo numero di Mercurio - Mensile di politica, arte, scienze - uscì a Roma nel settembre del 1944, ad appena tre mesi dalla Liberazione della città da parte delle truppe angloameri-cane e a pochi mesi della nascita di un altro interessante periodico napoletano “Aretusa”. La rivista Mercurio - diretta da una donna- si imponeva subito all'at-tenzione dei lettori per la varietà dei contenuti. Alba De Cèspedes, che ne rimarrà alla guida fino al termine delle pubblicazioni, probabilmente è l’autrice dell'anonima Premessa, dal folgorante incipit (Usciamo come da una vita subac-quea) che chiaramente alludeva a un periodo "lungo e remoto nel quale ogni energia intellettuale ha dovuto operare in zona d'aria condizionata, a prezzo di rientramenti, deviazioni, mutilazioni”. Nel contesto della testimonianza di quel tempo la rivista - nel dicembre ’44 - raccolse, in un numero speciale di oltre trecento pagine, ben settantacinque interventi dedicati alla Resistenza e al reso-conto delle esperienze vissute da politici, partigiani, intellettuali e scrittori tra l'otto settembre e la liberazione di Roma. Troviamo così le testimonianze di Corrado Alvaro, Alberto Savinio, Vasco Pratolini, Alberto Moravia, Guido Piovene, Libero Bigiaretti, Massimo Bontempelli e della stessa De Cèspedes; ma notevoli sono anche altri contributi, a cominciare dal bellissimo 16 ottobre 1943 di Giacomo Debenedetti, le poesie di Natalia Ginzburg, di Giorgio Bassani e di Eugenio Montale. Due anni fa per Sellerio è stata riproposta un’in-teressante antologia a cura di Domenico Gallo e Italo Poma dal titolo “Storie della Resistenza” che raccoglie un estratto di scritti di varia provenenza. Alcuni di questi sono tratti dalle citate riviste. Con il contributo degli intellettuali il Paese dimostrò l’impegno totale contro il fascismo che andò dalla lotta armata di liberazione a quella consapevole e ragionata del popolo italiano. “Storie della Resistenza” rieditano tre storie, tratte dal Mercurio, di Alberto Savinio, Guido Piovene e Franco Calamandrei. Questultimo, partigiano dei Gap, medaglia d’argento al valor militare e figlio dell’illustre Piero giurista e padre della Costi-tuzione del ’48, traccia nel suo breve racconto un ritratto memorabile del coman-dante partigiano Bruno, un uomo concreto che nella necessità non si sottraeva al dovere mantenendo a se stesso e ai suoi compagni, soprattutto quelli piu giovani, il senso della dignità e dell’onore. A liberazione avvenuta il comandante non cessò di ricordare soprattutto ai giovani la nuova responsabilità costituente di cittadini che si traduceva in sovranità ed esercizio diuturno. “Dovremo essere sempre pronti a combattere contro la guerra. Anche da vecchi”. Il Comandante partigiano insomma non volle trovarsi in “un Paese straniero di cui capisse la lingua solo a metà”. Di questi tempi ci sarebbe bisogno di un comandante Bruno nella selva linguistica della confusione che semplifica, enfatizza e confonde con parole indecifrabili che sviliscono il senso della ragione. Alba de Cespedes, di padre cubano e di madre italiana (Carlos Manuel de Céspedes y Quesada e Laura Bertini Alessandrini) . Alba de Céspedes nacque a Roma nel 1911 e lì ci rimase fino agli anni 60, prima di trasferirsi a Parigi dove morirà nel 1997. Il suo interesse per la scrittura fu molto precoce, alla sola età di sei anni Alba scrisse la sua prima poesia intitolata La notte. A Roma si forgerà intellettualmente e cultu-ralmente, pur non avendo una formazione basata su studi regolari. Inizia a colla-borare con vari quotidiani “Messaggero”, “Il Tempo”, il “Giornale d’Italia”. Si dà a varie forme di scrittura: da quella poetica, a quella giornalistica, a quella roman-zesca e si occuperà anche di scrittura per il teatro e per il cinema. Partecipa

attivamente alla Resistenza e nei suoi contributi radiofonici utilizza lo pseu-donimo Clorinda. “La voce di Clorinda” fu proprio la rubrica che curava tra ‘43 e ‘44 per Radio Bari con la quale entrava nelle case degli italiani per raccontare dell’Italia occu-pata. Si sposò nel 1926 all’età di 15 anni e nel 1928 nacque Franco, figlio avuto dal suo primo marito, il conte Giuseppe Antamoro, dal quale si separerà sposando in seconde nozze il diplomatico Franco Bounous. Nell’a-gosto del ‘39 le verrà annullato per un ordine voluto da Mussolini, il premio Viareggio vinto con il primo romanzo Nessuno torna indietro in ex aequo con Cardarelli. Il biennio 1941-1943 fu costituito da una vera e propria censura nei confronti della scrittrice che ridusse il numero di pubblicazioni sul “Messaggero”. Il 23 settembre ‘43 Franco Bounous e Alba lasciano Roma. Il periodo della Resi-stenza Alba lo trascorre in un paesino dell’Abruzzo, a Napoli e successiva-mente a Bari. Fondò nel ‘44 la rivista Mercurio. Trasferitasi in Francia, pubblicò nel 1967 La bambo-lona. Poi Sans autre lieu que la nuìt nel ‘73 e Nel buio della notte nel ‘76. Pubblicò nel ‘70 la raccolta di poesie: Le ragazze di maggio. Da diversi suoi libri e da sue sceneggia-ture sono stati tratti film e riduzioni teatrali. Morì a Parigi nel 1997.

Grande mostra a Milano sulla Belle Epoquedi Martina PARODI

Attraverso una preziosa selezione di 30 importanti opere esposte in occasione della mostra dal titolo Belle Epoque -La Parigi di Boldini, De Nittis e

Zandomeneghi alla GAM (Galleria d’Arte Moderna) di via Manzoni 45° Milano a cura di Francesco Luigi Maspes e Enzo Savoia è possibile comprendere il percorso artistico di tre artisti italiani che nella capitale francese seppero interpretare i sogni di un mondo tra Ottocento e Novecento. Intellettuali che scelsero di vivere nella Parigi di quegli anni, condividendo ideali, arte e amicizia con una cerchia di pittori e scrittori che segnarono la storia di un periodo dall’atmosfera effervescente e modaiola. I lavori di Boldini, De Nittis e Zandomeneghi a confronto con altri artisti italiani dello stesso periodo come Antonio Mancini, Vittorio Matteo Corcos, Edoardo Tofano, solo per citare alcuni nomi, i quali interpretarono anche un aspetto più umile della vita di quel periodo, non riuscirono così bene ad emergere tanto quanto un De Nittis o un Boldini e neppure uno Zandomeneghi. L’èlite internazionale , protagonista di quegli anni ruggenti vedeva la capitale francese al centro della scena intellettuale, economica e politica.

Particolarmente valorizzata nelle sale della GAM Manzoni è l’opera di Giuseppe De Nittis che ha saputo esaltare nei suoi quadri proprio quel clima della vita moderna nei salotti borghesi d’Oltralpe. Personaggi e luoghi dell’alta borghesia parigina sono ritratti in maniera esemplare insieme alle vedute a volte anche avveniri-stiche per quei tempi. A testimonianza della grandeur urbana della capitale francese di fine Ottocento. L’abilità nel cogliere le variazioni cromatiche della luce naturale come in un dipinto dal sapore impressionista la possiamo trovare in Au jardin del 1873, dove una donna giovane ritratta di spalle incede con eleganza in una mattina piena di sole in un vicolo punteggiato da luci e ombre procurate da piante e fiori dai mille colori e specie. Altri capolavori sono Tra le spighe di grano, del 1873; Firtation del 1874; Passeggiata con i cagnolini e Leontine in canotto del 1875, figure e scene ambientate nell’elegante mondo parigino

e caratterizzate da piccole e leggere pennellate, tocchi morbidi che sembrano essere plasmati dalla luce stessa. Mentre nella tavola I kimono color arancio del 1883-84, un quadro tra i migliori esempi di japonisme in voga nella Parigi di fine secolo, la luce pare essere artificiale.

Il pennello di Giovanni Boldini (Ferrara 1842-Parigi 1931) è riuscito a fare dei suoi lavori uno specchio fedele della Belle Epoque, dove a primeggiare era la moda raffi-natissima e ossequiosa delle regole, del buon gusto. Tutti temi che trovano nel ritratto il migliore ambito in cui Boldini si è sempre espresso con indiscussa abilità. Ne sono prova le opere La contessa Gabrielle de Rasty, un quadro più noto come La lettera mattutina del 1884 dal tratto pittorico energico e rapido fino a diventare in certi parti-colari astratto, accentuando così la vitalità del soggetto. In Nudo di donna dalle calze nere del 1885 e Testa bruna del 1891, si può cogliere l’evoluzione di quella danza vertigi-nosa del pennello sulla tela, tecnica incomparabile del maestro ferrarese capace di elaborare raffinati soggetti, ma anche paesaggi e oggetti, avvalorati dalle numerose opere grafiche alcune delle quali per la prima volta espo-ste al pubblico. Ultimo, la serie di ritratti femminili a olio e a pastello si può dire di matrice impressionista. Parti-colarmente interessanti per il tema sono le tele La psyché del 1900-1903 e Entre amies del 1913, dove si comprende benissimo la lezione di Renoir e del Maestro dell’arte Contemporanea Cèzanne. Qui l’artista veneziano in maniera originale e con una tecnica del tutto personale distilla la luce non considerandola affatto accessoria, ma ne esalta la ritmica compositiva che questa detta nel segno e nella pennellata.

Nello stesso cortile alle Gallerie Maspes una esposizione di Leonardo Bazzaro, altro ottocentista italiano dal palpitare intenso. Lo spazio è stato aperto recentemente da Fran-cesco Luigi Maspes. La mostra è accompagnata da un cata-logo edito dalle edizioni GAM Manzoni. Ingresso 6 Euro e 5 Euro ridotto. Lunedì chiuso. La mostra durerà fino al 21 febbraio.

Page 16: fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini · una requisizione al re di Jugoslavia per conto del servizio informazioni militari fascista. Ne prese 60 tonnellate, ne restituì

3130 Noi Speciale Congresso

NoiSpeciale Congresso

ALBERTO ALEANDRI Federazione ANPPIA L'Aquila

I tempi che stiamo vivendo sono sempre più contrassegnati dal riemergere,

non soltanto nei paesi dell'est europeo ma anche in quelli a consolidata tra-

dizione democratica del nord Europa, e della stessa Europa mediterranea.

Nella crisi apertasi in Ucraina le squadre naziste sono state lo strumento

operativo per sovvertire i delicati equilibri della zona a vantaggio degli inte-

ressi strategici delle potenze occidentali.

Secondo l’organizzazione World Without Nazism in Europa ci sarebbero

almeno 1.000 gruppi nazisti, un numero in costante crescita, una crescita

spesso legata a situazioni socio-economiche disagiate che genera populismo

e odio verso il “diverso”. Su internet spopolano i cosiddetti “gruppi di odio”

legati al nazismo. I Social Network sono pieni di pagine che rimandano al

nazismo e alla sua ideologia. In alcuni casi, come in Grecia con Alba Dorata,

in Ungheria con il movimento Jobbik o in Germania con il Partito Nazionale

Democratico, i gruppi legati al nazismo assumono la forma di veri e propri

partiti politici. La crisi economica, come già in passato, rischia di fungere da

incubatrice delle peggiori pulsioni di cui il nazismo si è nutrito e si nutre.

Anche in Italia l’odio per il diverso, sia esso gay o immigrato, sempre più

spesso, mascherato da ideologie politiche populiste, si va insinuando nella

vita politica e nel senso comune della gente. Persino il continuo aumento dei

femminicidi può trovare albergo in una concezione delirante di supremati-

smo maschile. Un costante e crescente lavoro nella società da associazioni

come la nostra può costituire un indispensabile argine a questa ondata retro-

grada, unitamente a risposte ferme della politica e della cultura nazionale. La

situazione internazionale, particolarmente esposta a venti di guerra, richie-

de, invece, risposte responsabili e non condizionate ad interessi economici

che spingono, invece, per una china che sembra sempre più inarrestabile.

L’ISIS è nato e prospera grazie al supporto ed alla complicità di paesi alleati

dell’occidente come l’Arabia e la Turchia e non si è ancora manifestata una

reale volontà da parte dei paesi occidentali diretta ad intervenire per recide-

re ogni legame oscuro con il terrorismo, anzi, viene ignorata, con la compli-

cità dei media, la tragedia che sta vivendo lo Yemen. L’iniziativa della nostra

associazione, cercando ogni legame con tutte le altre che si battono per la

pace, deve impegnarsi a fondo per scongiurare il coinvolgimento del nostro

paese in Libia o in altre avventure “umanitarie”.

Lotta ad ogni ipotesi di riemersione della mortifera cultura nazista ed al

propagarsi della guerra come possibile soluzione delle controversie interna-

zionali sono iscritte nelle ragioni della esistenza dell’ANPPIA e ne sostanzia-

no e attualizzano il suo impegno per l’antifascismo e la pace.

GENNY DE PAS Federazione ANPPIA LIVORNO

La Commissione scuola di Livorno ha impostato i propri progetti rivolti

ai giovani nell’ottica del rinnovamento: la memoria, filo conduttore dei pro-

getti, intesa come custode del futuro. Quindi abbiamo fatto intervenire te-

stimoni diretti ed indiretti calandoci, però, nel mondo dei giovani e dei loro

interessi. Così ci siamo occupati del mondo dell’informatica mettendone in

risalto i lati positivi ma anche mettendo i ragazzi in guardia rispetto ai peri-

coli dei social network, quale la possibilità del condizionamento del pensie-

ro. In questo senso per il 2016 continueremo il progetto “Informazione e ma-

nipolazione dalla 1° Guerra Mondiale ad oggi: per un percorso di pace” già

iniziato con le scuole superiori cittadine, consistente in incontri, proiezione

di film (in collaborazione con Lanterne Magiche e Lo Sguardo Narrante)

ed un incontro finale in cui gli studenti di ogni scuola mostreranno i lavori

ed i prodotti multimediali realizzati, aventi per oggetto la rielaborazione di

quanto esposto nel corso del progetto. Alla fine sono previsti premi finali

consistenti in borse di studio assegnate alla scuola. Ugualmente proseguirà

il corso di aggiornamento per docenti realizzato insieme al CIDI dal titolo “I

Il 15 dicembre scorso presso Palazzo Barberini a Roma si è svolta la cerimonia di consegna della Medaglia della Liberazione ai labari di 12 associa-

zioni della Resistenza e dell'Antifascismo, da parte della Ministra della Difesa Roberta Pinotti.. Con questa iniziativa si è inteso dare un riconoscimento

alle Associazioni equiparate a quelle combattentistiche che operano nello spirito dei valori della Resistenza e della Liberazione come l'Anppia. In rappre-

sentanza dell'Anppia alla manifestazione hanno partecipato il Presidente Mario Tempesta, il Segretario Generale Serena Colonna, Mauro Nenciati della

Federazione di Livorno e Fabio Ecca come alfiere. Nel corso della cerimonia hanno preso la parola i rappresentanti aPinotti che ha evidenziato come la lotta

al terrorismo dev'essere portata avanti nel rispetto dei Valori Costituzionali .

Gentile Signor Ministro, Signore, Signori, Autorità, l’Anppia

che ho l’onore (e l’onere) di rappresentare, è una Associazione

nata nel 1946 per volontà di coloro chew si opposero al regime

fascista, dalla sua instaurazione fino alla caduta. Apartitica,

unitaria, aperta a tutte le diverse “anime” dell’Antifascismo, ha

avuto – fin dalla sua fondazione – Presidente Umberto Terracini,

antifascista, condannato dal Tribunale Speciale per la Difesa

dello Stato, esiliato e poi – com’è a tutti noto – Presidente dell’As-

semblea Costituente e dopo di lui Mario Venanzi condannato

dal Tribunale Speciale, partigiano e Senatore, Paolo Bufalini,

confinato, partigiano, internato e Senatore, Giulio Spallone, con-

dannato dal Tribunale Speciale, partigiano e deputato, e Guido

Albertelli, figlio di Pilo. La Repubblica Italiana ha sempre ri-

conosciuto l’Antifascismo (e la Resistenza) come base della no-

stra Costituzione, una base difficile per le sofferenze che vi sono

state all’origine e le cose accadute. Quindi uno stretto legame

– Antifascismo-Costituzione – che non deve venire meno neppu-

re con la sostanziale revisione della seconda parte della Carta

Costituzionale, quale la riforma del Senato e del Titolo V. Deve

continuare ad essere fondamentale per tutti che la Costituzione

senza la sua forte storia alle spalle perderebbe l’anima, il senso,

gli orizzonti che essa ha avuto dai Padri Costituenti. Si può ri-

tenere superato il pericolo fascista e quindi superato il fine pre-

cipuo della nostra Associazione? Ritengo che questa domanda

debba essere rovesciata: vi sono in Italia, in Europa, organizza-

zioni fasciste, parafasciste e/o naziste? La risposta la si ha dalla

notizia dei vari meeting, in Italia e in Europa, di organizzazioni

che si ispirano in modo esplicito all’ideologia fascista e nazista.

Formazioni, raduni, attività in palese contraddizione con il det-

tato costituzionale (XII Disposizione transitoria e finale, com-

ma 1) e con l’art. 1 della legge 645/1952. La Costituzione è quindi

a un tempo vessillo di libertà democratiche, baluardo contro il

Revisionismo, portatrice di valori etico-morali che si sono offu-

scati. I suoi fondatori, che in parte sono anche i nostri, i suoi eroi

sono simbolo di vita vissuta con coraggio ispirato all’etica, sono

esempio di comportamenti ancora necessari per i nostri tempi.

MEDAGLIA DELLA LIBERAZIONE ALL'ANPPIA

mezzi mediatici strumento di apprendimento o di manipolazione? Dalla 1°

Guerra Mondiale ad oggi per un percorso di pace” e di cui si sono già tenuti i

primi due incontri: il 4 novembre con i proff.ri Franzina e Sturani che hanno

trattato la Grande Guerra attraverso le lettere dei soldati ed immagini ine-

dite quali le cartoline illustrate; il 5 novembre con i giornalisti Di Francesco

e Giulietto Chiesa sui conflitti di ieri e di oggi e sulle prospettive di pace.

Da quest’anno abbiamo ripreso a lavorare con la scuola elementare e con la

scuola media con il progetto “La storia siamo noi” che inizierà con la mostra

“A scuola di razzismo” e prevede incontri con testimoni diretti ed indiretti.

Inoltre l’ANPPIA di Livorno provvederà ad organizzare iniziative specifiche

per il Giorno della Memoria, per il 25 Aprile, per il 19 e 25 Luglio (caduta del

fascismo), in linea con quanto fatto in questi anni. Ḗ già previsto un incontro

con il prof. Ciuffoletti dell’Università di Firenze per celebrare l’8 Marzo con

attori che leggeranno brani del libro del prof. Ciuffoletti sui fratelli Rosselli.

Altre iniziative su temi di attualità, come la difesa della Costituzione, il rap-

porto con i migranti ed i problemi dell’accoglienza, sono allo studio.

RENZO BACCIFederazione ANPPIA LIVORNO

Anche la nostra Associazione si deve interrogare su cosa significhi e su cosa

deve essere oggi la Memoria, in questo periodo in cui riprendono forza in

Europa vecchi e nuovi fascismi, in Italia pericolose forme di populismo che

di fatto vanno distruggendo ogni sentimento di solidarietà e di fiducia nelle

istituzioni democratiche. La crisi economica rischia di trasformarsi in crisi

sociale e politica, travolgendo i valori democratici che sono alla base della

Repubblica e della Costituzione.

La Memoria quindi non può essere solo commemorazioni, lapidi, ricorren-

ze ma deve essere rivolta a difendere oggi, nel contesto odierno di nuove

povertà, nuove discriminazioni, inaccettabili esclusioni, quei principi per

cui tante persone sacrificarono la loro gioventù e spesso anche la vita. Deve

essere una Memoria non del passato, ma del futuro, continuazione nei nostri

giorni di una lotta perchè non siano di fatto persi quei valori e quei princi-

pi consegnatici dai “testimoni” che ora purtroppo ci hanno abbandonato. È

importante allora coinvolgere i giovani e farci partecipi di tutte le istanze di

difesa della dignità umana che sono, idealmente, una prosecuzione di quelle

lotte antifasciste, passate ma ancora attuali.

ROBERTO BONENTE Federazione ANPPIA VERONA

Porto i saluti della Sezione ANPPIA di Verona. Con me interviene ai lavori

del congresso anche il socio Federico Melotto giovane ricercatore e autore di

una storia del fascismo veronese, tesi del suo dottorato di ricerca, che presto

verrà pubblicata dall’Editore Donzelli. Egli è anche il direttore dell’Istituto

veronese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea.

Desidero iniziare il mio breve intervento porgendo un caro saluto al pre-

sidente uscente Guido Albertelli ringraziandolo per quanto ha fatto in que-

sti anni nel corso dei quali ha contribuito in modo significativo al progresso

del nostro sodalizio. A lui, oggi pomeriggio non presente, invio a nome di

tutti i soci di Verona l’augurio più sincero di un rapido recupero. L’ANPPIA

di Verona conta una cinquantina di soci ed è un numero confortante per la

nostra realtà. Riusciamo a organizzare incontri, convegni e viaggi della me-

moria perché ormai da quasi dieci anni operiamo in collaborazione con l’I-

stituto veronese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea e con

l’ANPI. Il comune ci ha concesso una palazzina dove le tre organizzazioni

trovano ospitalità. Il capofila, per struttura e organizzazione, è l’Istituto per

la storia della Resistenza di cui anch’io faccio parte quale membro dell’or-

gano direttivo. Bisogna francamente riconoscere che la nostra sezione non

avrebbe la possibilità finanziaria per sostenere le spese per una sede auto-

noma. Le quote versate dai soci vengono girate al nazionale e nelle nostre

casse rimangono gli euro che qualche socio dona in più; per intenderci le

spese viaggio per il congresso sono sostenute personalmente dai due rappre-

sentanti intervenuti. Comunque l’ANPPIA ha sostenuto fattivamente alcu-

ne iniziative organizzate in prima persona come l’importante concerto del

gruppo musicale FLEXUS tenutosi al Teatro Camploy della città. A gennaio

è stato pubblicato con il patrocinio ANPPIA una mia ricerca sui deportati

della Valpolicella nei campi di concentramento tedeschi (“Domani partiamo

per non so dove”). In questo 2015 sono state fatte due conferenze ANPPIA:

Simonetta Carolini e Fabio Ecca sono venuti a presentare il prestigioso vo-

lume ANTIFASCISTI ALLA SBARRA e il socio Silvio Pozzani ha ricordato

la figura di Giorgio Braccialarghe e l’antifascismo italiano in terra di Spagna.

Sono stati svolti una ventina di incontri da parte delle tre sigle e due viaggi

della memoria: il primo nei territori dell’ex Jugoslavia e il secondo sui luoghi

della prima guerra mondiale (Gorizia, Trieste, Carso, Caporetto). Ritengo

che anche nel 2016 l’ANPPIA di Verona proseguirà su questi indirizzi. Con

l’occasione desidero esprimere un ringraziamento a Gino Morrone, direttore

de l’antifascista, per aver dato notevole spessore alla rivista e per riservare

uno spazio alle nostre iniziative. Per quanto riguarda i rinnovi societari che

sono stati prospettati, accolgo con grande favore la proposta di eleggere pre-

sidente Mario Tempesta e segretario generale Serena Colonna. Un rinnova-

mento nella continuità con la prospettiva di un ringiovanimento dei quadri

collaborativi dell’associazione. A tutti loro va il mio grazie e ai nuovi respon-

sabili dell’Associazione, a Mario Tempesta e Serena Colonna il più sincero

augurio di buon lavoro. A tutti i delegati al Congresso delle Federazioni

sparse per l’Italia un caro saluto.

DONATELLA DI MARTINO Federazione ANPPIA LIVORNO

Dall’ultimo congresso i nostri progetti si sono rivolti soprattutto agli

studenti degli Ist. Superiori perché è proprio durante questo periodo

che i ragazzi sono sottoposti a continue e potenti sollecitazioni di ogni

tipo ed è anche il momento in cui si acquisiscono e si sviluppano quel-

le capacità critiche che permetteranno agli adolescenti di compren-

dere meglio le problematiche attuali senza subire alcuna manipola-

zione esterna e diventare attori consapevoli della nostra società: non

abbiamo tralasciato la memoria del passato ma l’abbiamo collegata al

presente. I lavori prodotti dagli studenti (brevi filmati) hanno eviden-

ziato una personale creatività ed una partecipazione e comprensione

dei contenuti veramente buone e questo è stato il nostro “ritorno”.

L’ANPPIA infatti non deve essere solo memoria celebrativa del passato

ma anche una sentinella acciocchè le trasformazioni del presente non

distorcano o annullino addirittura le conquiste e i valori del passato,

quindi con particolare preoccupazione guardiamo alle trasformazioni

che potrà avere la nostra costituzione. Importante per noi è stata la

collaborazione con la nuova amministrazione comunale del M5S che

ha appoggiato le nostre iniziative.

Page 17: fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini · una requisizione al re di Jugoslavia per conto del servizio informazioni militari fascista. Ne prese 60 tonnellate, ne restituì

Allarme

l’antifascistaMensile dell’ANPPIAAssociazione Nazionale Perseguitati

Politici Italiani Antifascisti

Direttore Responsabile:

Luigi Francesco Morrone

In Redazione:

Maurizio Galli

SEDE:Corsia Agonale, 10 – 00186 Roma

Tel 06 6869415 Fax 06 68806431

www.anppia.it

[email protected]

HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO:

Boris Bellone, Nicola Corda,

Alberto Di Maria, Saverio Ferrari,

Mimmo Franzinelli, Giorgio Galli,

Maurizio Galli, Giorgio Giannini,

Martina Parodi, Filippo Senatore,

Giovanni Taurasi, Mario Tempesta

Carlo Tognoli, Elisabetta Villaggio

TIPOGRAFIAGRAFFIETTI Stampati snc,

Montefiascone (VT)

PROGETTO GRAFICOMarco Egizi www.3industries.org

Prezzo a copia: 2 euro

Abbonamento annuo: 15,00 euro

Sostenitore: da 20,00 euro

Ccp n. 36323004 intestato a

l’antifascistaChiuso in redazione il: 5/2/2016

finito di stampare il: 12/2/2016

Registrazione al Tribunale di

Roma n. 3925 del 13.05.1954

segue dalla prima pagina

Questa domanda - a mio avviso -

deve essere rovesciata: vi sono in

Italia e in Europa organizzazioni fa-

sciste e/o parafasciste? La risposta è

nei meeting nazifascisti a carattere

nazionale e internazionale promossi

da gruppi appartenenti anche a cir-

cuiti sportivi. Alcuni movimenti non

fanno mistero della propria origine

e si autodefiniscono organizzazio-

ni dei 'fascisti del Terzo Millennio'.

Purtroppo la Storia continua a non

essere quella che noi vorremmo che

fosse e cioè Maestra di vita.

Nella memoria del passato, del-

le sofferenze patite, dei numerosi

caduti a causa di ideologie nefaste,

delle lotte e dei lutti che sono costa-

ti per sconfiggerle, pensavamo che

quegli inaccettabili disvalori non si

riproponessero. La realtà che stiamo

vivendo in Italia e in Europa invece

ci ripresenta pericolose nostalgie.

E ciò nonostante che le formazioni,

i raduni, le attività di queste orga-

nizzazioni siano in palese contra-

sto con il dettato costituzionale e le

leggi della Repubblica. Ma la nostra

Costituzione è ad un tempo vessillo

di libertà democratiche, baluardo

contro il Revisionismo, portatrice

di valori etico-morali. E i suoi fon-

datori, i suoi Padri sono simboli di

vite vissute con coraggio ispirato

all'etica. Ecco, noi vorremmo che

quei valori fossero di esempio an-

che oggi essendosi molto offuscati

ultimamente. Desidereremmo che i

valori etici della nostra Costituzione

repubblicana ispirassero i compor-

tamenti di tutti gli appartenenti alla

nostra Comunità. Ed il nostro perio-

dico continuare ad essere fonte di

conoscenza, di proposizione, di ri-

flessione. Con viva cordialità.

Mario TempestaPresidente ANPPIA Nazionale

TROPPA VIOLENZA TRA I RAGAZZI

Fermare il bullismo minorile

Una ragazzina di 12 anni, perseguitata dai

compagni di scuola evidentemente distur-

bati, ha tentato di togliersi la vita lancian-

dosi da una finestra. Per fortuna si salverà,

ma questo fenomeno del bullismo va in

qualche modo affrontato e frenato. Chia-

ra, questo il nome della ragazza aspirante

suicida per disperazione, aveva minacciato

di ribellarsi annunciando su whatsapp: “In

quella scuola non ci voglio tornare”. Nes-

suno l’ha ascoltata.

L’ex giudice minorile Melita Cavallo com-

menta: ”Questi ragazzi sono aguzzini fragi-

li, gli adulti imparino ad ascoltarli di più”.

Detta così, sembra che la colpevole sia

Chiara, ma l’ex giudice precisa: “Gli ado-

lescenti oggi mancano di empatia, genitori

e insegnanti devono aiutarli a riconoscere

il dolore”. I casi di bullismo a scuola sono

frequenti. La cronaca ne segnala a Vercelli,

a Torino, a Padova, a Roma.

Carolina Picchio, 16 anni, di Novara, aveva

subito una violenza sessuale di gruppo, gli

insulti sul web, l’umiliazione di un video

sui social network. Suo padre dice: "Mia

figlia è morta e per questo nessuno ha pa-

gato. Il processo non è ancora iniziato ma

io mi aspetto severità, con una sentenza

esemplare. Spero che quei giovani capisca-

no la gravità di ciò che hanno fatto, non si

può liquidare tutto come se si fosse trattato

di una ragazzata”.

Il fenomeno del bullismo minorile è un

problema che non va preso sottogamba.

Bastano i dati degli ultimi 12 mesi a far

scattare l’allarme: le vittime, femmine e

maschi, vengono prese di mira con percen-

tuali a due cifre, dati che confermano pla-

sticamente un quadro a dir poco inquietan-

te. È ora di fare di più per aiutare vittime e

carnefici. (g.m.)