fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini · “Patria”, prestigioso mensile...

17
l’antifascista fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini Periodico degli antifascisti di ieri e di oggi • anno LXII - n° 3-4 Marzo - Aprile 2015 Poste Italiane s.p.a. - spedizione in abbonamento D.L. 353/2003 (conv.in. L. 46 del 27.02.2004) - Art.1, comma 2, DCB - Roma MATTARELLA Presidente di svolta di G. Galli a pagina 7 RICORDO La Polemica di M. Franzinelli a pagina 6 FASCISMI I volti truci in Europa di A. Colombo a pagina 27 LEGA NORD Le contraddizioni di S. Ferrari a pagina 9 25 APRILE: 70 ANNI FA TANTI ANTIFASCISTI DIEDERO LA VITA PER SCACCIARE I TIRANNI L’ITALIA CONQUISTA LIBERTÁ E DEMOCRAZIA segue a pagina 16 e 17 150 MILA IN PIAZZA DUOMO – MATTARELLA INCONTRA LE ASSOCIAZIONI PARTIGIANE AL PICCOLO TEATRO C ome ogni anno, il Comitato antifascista (di cui fa parte anche l’Anppia), assieme alle Associazioni della Resistenza, ha preparato la grande manifestazione che si è svolta il 25 Aprile nelle vie del centro di Milano per ricordare il giorno della caduta del nazifascismo e della Liberazione dell’Italia. Quest’anno, però, l’impegno è stato maggiore perché ricorre il 70esimo anniversario dell’evento e quindi l’iniziativa doveva essere di grande impatto coinvolgendo ancora di più le giovani generazioni. E in effetti in piazza Duomo eravamo davvero in tanti a onorare i nostri caduti e a riaffermare i principi e i valori della Resistenza. Tanti quanti da anni non si vedevano sul sagrato della piazza: almeno 150 mila persone tra giovani, giovanissimi, anziani, donne e bambini. Merito certamente del Comitato antifascista, dei sinda- cati, dei partiti democratici, delle Associazioni partigiane, ma soprattutto merito dei milanesi che hanno voluto essere presenti a questa grande manifestazione. Il corteo si era diretto verso il sagrato del Duomo alle 14: un lunghissimo serpen- tone che ha raggiunto e riempito la piazza mentre la coda era ancora lontana dal palco allestito dal Comune. Dopo gli interventi dei vari rappresentanti delle Associazioni e dei sindacati, la manifestazione si è spostata nella vicina Loggia dei Mercanti per rendere omaggio ai Combattenti caduti per la libertà. In mattinata, il Capo dello Stato Sergio Mattarella, che non aveva potuto inaugurare la Casa della Memoria il giorno prima, ha ricevuto al Piccolo Teatro le Associazioni della Resistenza nonché le autorità politiche, civili e militari, rivolgendo un apprezzato discorso alla cittadinanza. ADDIO A TRE GRANDI ANTIFASCISTI Editoriale La crisi continua a mordere: un’altra voce dell’antifascismo scompare, almeno nella sua versione cartacea. Si tratta di “Patria”, prestigioso mensile dell’Anpi. Ogni volta che nasce un nuovo giornale, nel nostro ambiente si brinda, ogni qual- volta una pubblicazione chiude, è peggio di un lutto. Le ragioni sono molteplici, prima fra tutte la libertà di stampa tutelata dalla Costituzione. Mi viene in mente un pensiero di Sandro Pertini che diceva: ”Io combatto la tua idea che è contraria alla mia, ma sono pronto a battermi a prezzo della mia vita perché la tua idea tu la possa esprimere sempre liberamente”. Un giornale che muore significa un impoverimento della circolazione delle idee. Senza “Patria” si vive lo stesso, ma si prova un gran senso di tristezza, così come quando fummo costretti a chiudere “Lettera ai compagni”, la rivista fondata da Parri. Le idee hanno le gambe e devono correre, i giornali sono i mezzi per veicolarle: ogni volta che viene a mancarne uno, le idee rallentano la loro corsa. Ora siamo rimasti solo noi de “l’Antifascista”, speriamo di resistere. (g.m.) Nel giro di poco tempo l’Anppia è stata colpita da tre gravi lutti: ci hanno la- sciati tre grandi, valorosi antifasci- sti: Garibaldo Benifei di Livorno; Goffredo Vignozzi di Empoli e Claudio Ciancia di Roma. Tutti e tre indomabili oppositori del regime, tutti perseguitati politici e tutti presidenti onorari della nostra Associazione. Nelle pagine interne ampi servizi illustrano le figure di questi nostri coraggiosi compagni. Piazza Duomo a Milano il 25 aprile scorso. 150.000 persone ricordano il settantesimo della Liberazione

Transcript of fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini · “Patria”, prestigioso mensile...

l’antifascistafondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini

Periodico degli antifascisti di ieri e di oggi • anno LXII - n° 3-4 Marzo - Aprile 2015

Poste Italiane s.p.a. - spedizione in abbonamento D.L. 353/2003 (conv.in. L. 46 del 27.02.2004) - Art.1, comma 2, DCB - Roma

MATTARELLAPresidente di svolta

di G. Gallia pagina 7

RICORDOLa Polemica

di M. Franzinellia pagina 6

FASCISMII volti truci in Europa

di A. Colomboa pagina 27

LEGA NORDLe contraddizioni

di S. Ferraria pagina 9

25 APRILE: 70 AnnI fA tAntI AntIfAscIstI dIEdERo LA vItA PER scAccIARE I tIRAnnI

L’ITALIA CONQUISTA LIBERTÁ E DEMOCRAZIA

segue a pagina 16 e 17

150 mila in piazza Duomo – mattarella incontra le associazioni partigiane al piccolo teatro

Come ogni anno, il Comitato antifascista (di cui fa parte anche l’Anppia), assieme alle Associazioni della Resistenza, ha preparato la grande manifestazione che si è svolta il 25 Aprile nelle vie del centro di Milano per ricordare il giorno della caduta del nazifascismo e della Liberazione dell’Italia. Quest’anno, però, l’impegno è stato maggiore

perché ricorre il 70esimo anniversario dell’evento e quindi l’iniziativa doveva essere di grande impatto coinvolgendo ancora di più le giovani generazioni. E in effetti in piazza Duomo eravamo davvero in tanti a onorare i nostri caduti e a riaffermare i principi e i valori della Resistenza. Tanti quanti da anni non si vedevano sul sagrato della piazza: almeno 150 mila persone tra giovani, giovanissimi, anziani, donne e bambini. Merito certamente del Comitato antifascista, dei sinda-cati, dei partiti democratici, delle Associazioni partigiane, ma soprattutto merito dei milanesi che hanno voluto essere presenti a questa grande manifestazione. Il corteo si era diretto verso il sagrato del Duomo alle 14: un lunghissimo serpen-tone che ha raggiunto e riempito la piazza mentre la coda era ancora lontana dal palco allestito dal Comune. Dopo gli interventi dei vari rappresentanti delle Associazioni e dei sindacati, la manifestazione si è spostata nella vicina Loggia dei Mercanti per rendere omaggio ai Combattenti caduti per la libertà. In mattinata, il Capo dello Stato Sergio Mattarella, che non aveva potuto inaugurare la Casa della Memoria il giorno prima, ha ricevuto al Piccolo Teatro le Associazioni della Resistenza nonché le autorità politiche, civili e militari, rivolgendo un apprezzato discorso alla cittadinanza.

ADDIO A TRE GRANDI

ANTIFASCISTI

EditorialeLa crisi continua a mordere: un’altra voce dell’antifascismo

scompare, almeno nella sua versione cartacea. Si tratta di

“Patria”, prestigioso mensile dell’Anpi. Ogni volta che nasce

un nuovo giornale, nel nostro ambiente si brinda, ogni qual-

volta una pubblicazione chiude, è peggio di un lutto. Le ragioni

sono molteplici, prima fra tutte la libertà di stampa tutelata

dalla Costituzione. Mi viene in mente un pensiero di Sandro

Pertini che diceva: ”Io combatto la tua idea che è contraria

alla mia, ma sono pronto a battermi a prezzo della mia vita

perché la tua idea tu la possa esprimere sempre liberamente”.

Un giornale che muore significa un impoverimento della

circolazione delle idee. Senza “Patria” si vive lo stesso, ma si

prova un gran senso di tristezza, così come quando fummo

costretti a chiudere “Lettera ai compagni”, la rivista fondata

da Parri. Le idee hanno le gambe e devono correre, i giornali

sono i mezzi per veicolarle: ogni volta che viene a mancarne

uno, le idee rallentano la loro corsa. Ora siamo rimasti solo noi

de “l’Antifascista”, speriamo di resistere. (g.m.)

Nel giro di poco tempo l’Anppia è stata colpita da tre gravi lutti: ci hanno la-sciati tre grandi, valorosi antifasci-sti: Garibaldo Benifei di Livorno; Goffredo Vignozzi di Empoli e Claudio Ciancia di Roma.

Tutti e tre indomabili oppositori del regime, tutti perseguitati politici e tutti presidenti onorari della nostra Associazione. Nelle pagine interne ampi servizi illustrano le figure di questi nostri coraggiosi compagni.

Piazza Duomo a Milano il 25 aprile scorso. 150.000 persone ricordano il settantesimo della Liberazione

32 25 Aprile 25 Aprile

25 APRILE 1945, FINE DI UN INCUBOdi Carlo TOGNOLI (sindaco di Milano dal 1976 al 1986)

I miei ricordi personali

Io stesso, ragazzino di 6 anni, ricordo

due episodi.

Il primo risale probabilmente a uno o

due giorni prima del 25 aprile, quando

un contingente tedesco - che aveva sede

in una costruzione in piazza Ferravilla

(angolo viale Romagna) – organizzò la

propria ritirata distruggendo parte delle

munizioni che non potevano essere tra-

sportate.

Fu una notte di esplosioni continue che

sentii molto bene perché abitavo, con mia

madre, a poche centinaia di metri da quel

luogo, in viale Romagna 12.

Il secondo episodio riguarda la mia

abitazione. Due capi partigiani, penso

fosse il 27 aprile, chiesero a mia madre di

poter utilizzare le finestre di una stanza

del nostro appartamento (che nel retro

dava verso piazza Guardi) per tentare di

snidare alcuni cecchini fascisti irriduci-

bili, che si erano appostati in un luogo ben

visibile da casa mia.

Ebbero tra l’altro ospitalità anche per

la notte successiva. Fecero il loro dovere

con molta ‘riservatezza’, se così posso

dire, perché si rinchiusero nella stanza da

cui potevano sparare, senza creare alcun

problema a noi. Quando se ne andarono mi

lasciarono un bel po’ di bossoli con i quali

ho a lungo giocato.

Questo per dire che la guerra era finita,

ma ci vollero diversi giorni perché Milano

e una parte d’Italia che avevano subito

l’occupazione nazista e la Repubblica

Sociale sino al 1945, potessero entrare in

un periodo di pace.

La nomina del Sindaco e del Prefetto

Dopo la Liberazione vennero nominati

dal CLNAI il sindaco e il prefetto indicati

dal Comitato di Liberazione, dopo la defi-

nitiva sconfitta dei nazifascisti.

Sindaco venne proposto Antonio

Greppi, avvocato, socialista, antifascista

da sempre.

Prefetto fu Riccardo Lombardi un inge-

gnere economista del Partito d’Azione, che

aveva come vice Vittorio Craxi, avvocato,

socialista, nel cui studio a Milano si riuni-

vano clandestinamente, durante il periodo

bellico, diversi esponenti socialisti della

resistenza tra cui Lelio Basso.

Bettino Craxi ricordava di avere incro-

ciato, da ragazzo, nello studio del padre,

molti di questi antifascisti che poi diven-

nero importanti politici della Repubblica.

La fine della guerra ebbe uno strascico ancora un po’

cruento, sia perché alcuni irriducibili fascisti, armati,

tentarono una assurda reazione nelle giornate dal 25 a

fine aprile, sia perché dall’altra parte ci furono vendette,

con giustizia sommaria. Purtroppo, per qualche mese,

ci furono ‘regolamenti di conti’ in alcune zone del nord

Italia, di cui approfittarono anche delinquenti comuni.

Greppi, sindaco voluto dai partigiani, con il suo spi-

rito socialista evangelico, lanciò un appello affinché si

ponesse fine a questa giustizia ‘individuale’, ingiusti-

ficata e antidemocratica che rischiava di allontanare

il popolo dalla Resistenza. Il sindaco aveva perso un

figlio in un agguato fascista, ma si batté fermamente

affinché i responsabili di quella uccisione fossero pro-

cessati legalmente.

Anche il governo nazionale, del quale facevano parte

i partiti antifascisti, operò in questa direzione (e fu

attivo Palmiro Togliatti) per evitare che la ‘coda’ della

guerra civile si protraesse al di là del ‘cessate il fuoco’

e al di fuori delle istituzioni che dovevano essere rico-

struite a partire dall’amministrazione della giustizia.

La pace si impose, a Milano, come in tutto il Paese,

che si trovavano però di fronte ai problemi drammatici

della povertà e della ricostruzione.

La Giunta comunale di Milano, che comprendeva

i rappresentanti di tutti i partiti del Comitato di

Liberazione, divenne il punto di partenza per la rico-

struzione della Città e in un certo senso del Paese.

Milano e il suo sindaco furono di esempio per l’at-

tenzione verso i più poveri e per la rapidità con cui

impostarono la rinascita materiale e morale di una

città distrutta.

In un precedente intervento dedicato alla ricostru-

zione del capoluogo lombardo avevo sottolineato i pas-

saggi che portarono gradualmente alla normalità, senza

trascurare anche la cultura (malgrado il momento diffi-

cile) di cui la riapertura della Scala nel 1946 è il simbolo.

Anche la ripresa economica partì da Milano

Pirelli, Snia Viscosa, Montecatini (favorite in

parte dalla ridotta concorrenza tedesca e dal basso

costo della mano d’opera) contribuirono al rilancio.

La Caproni (con la Isotta Fraschini) e la Filotecnica

Salmoiraghi furono invece tra le vittime della ricon-

versione post bellica. Con maggiore lentezza si ripre-

sero la Edison e la Falck per ragioni conseguenti anche

alla carenza di materie prime.

Le piccole e medie imprese (circa il 42% degli occu-

pati nella provincia di Milano) si avvalsero della loro capacità di adattamento alle nuove condizioni del dopoguerra (e anch’esse del

basso costo della mano d’opera) e furono, con le aziende medio grandi produttrici di beni strumentali, il traino del ‘miracolo econo-

mico’ che si sarebbe diffuso, sino alla fine degli anni ’50 in quasi tutto il Paese.

Come si può intuire tutto questo non avvenne senza conflitti sociali e contrapposizioni politiche, sia a livello locale che a livello

nazionale. A Milano, successivamente alla scissione del Partito Socialista (PSIUP) che si divise nel gennaio del 1947 in PSI e PSDI - la

giunta, sotto la guida di Greppi, rimase in piedi e fu luogo di incontro e di compromesso tra forze politiche che avevano linee diver-

genti. La politica del ‘welfare municipale’ continuò. In quel periodo PCI e PSI uscirono dal governo, ma nella giunta ambrosiana non

ci fu analoga conseguenza. Dopo le elezioni del 1948, quando si registrò lo scontro tra il Fronte democratico popolare (PCI e PSI) e la

DC (alleata a PSDI, PRI e PLI) ci furono momenti di tensione nella giunta milanese che ancora riuscì a resistere nella sua intelaiatura

ciellenistica sino al 1949. Poi anche qui si formarono le alleanze simili a quelle del quadro nazionale, vale a dire il centrismo guidato da

Alcide De Gasperi e dalla DC e il frontismo guidato dal PCI. Bisogna però sottolineare che conflitti sociali e contrapposizioni politiche

- molto dure e ideologiche – non arrestarono la ripresa di Milano e dell’Italia.

Con l’approvazione della Costituzione, e malgrado i ritardi nella sua applicazione, l’Italia, uscita devastata dalla seconda guerra

mondiale, aveva ritrovato la pace e la convivenza (sia pure travagliata dalla guerra fredda) della democrazia.

Questo manifesto su “Il bestiale fascismo è vinto” apparve sui

muri di Milano pochi giorni dopo la Liberazione, a fine aprile

del 1945. É opera del pittore Augusto Colombo (1902-1969), il

quale era stato al comando di una Brigata Matteotti nel Comasco.

Durante il secondo conflitto e negli anni immediatamente suc-

cessivi, Colombo ha lasciato alcuni incisivi disegni sul dramma

della guerra e le successive vicende politiche, come testimoniano

i manifesti “Il bestiale fascismo è vinto!” (1945), “Liberateci dal

nodo sabaudo!” (1946), “Un’altra guerra? No” (1947). Dal 1933, fino

all’anno della morte, ha diretto una sua scuola d’arte dal 1932 al

1939 ha collaborato alla rivista “Perseo”, e nel 1945 ha fondato la

rivista “Valori” e promosso il movimento “Le arti e la libertà”,

insieme a Arrigo Minerbi, Anselmo Bucci, Aldo Palatini.

IL VERO VOLTO DEL FASCISMO

Sul palco del primo marzo da destra il Presidente dell'ANPPIA di Milano Gino Morrone,al fianco di Susanna Camusso e del sindaco di Milano Giuliano Pisapia

Settant’anni fa la liberazione di

Milano dai nazi-fascisti divenne la

data della fine della guerra in Italia.

In Europa si dovette attendere sino all’8

maggio, dopo la resa tedesca (e quella

giapponese).

La giornata della Liberazione, che si aprì

con la dichiarazione di insurrezione per

anticipare l’arrivo degli alleati che erano

ormai al Po, ebbe degli sviluppi graduali.

Al mattino venne proclamata l’insurre-

zione, dall’istituto dei ‘Salesiani’ di via

Copernico, dove si riuniva clandestina-

mente il CLNAI (Comitato di Liberazione

Nazionale Alta Italia) del quale facevano

parte, tra gli altri, Sandro Pertini, Luigi

Longo, Leo Valiani, Ferruccio Parri,

Emilio Sereni, Achille Marazza, Alfredo

Pizzoni (un banchiere liberale che aveva

sostenuto il movimento partigiano) e

Rodolfo Morandi. Pizzoni, che era presidente del Comitato, venne sostituito da Morandi alla vigilia del 25 aprile (anche perché era un

‘senza partito’) ma la sua opera era stata molto importante.

Data la situazione, con la presenza di tedeschi e repubblichini armati, nella città la notizia della insurrezione si diffuse solo nelle ore

successive. Fino al 26 aprile la maggioranza dei cittadini ancora non sapeva di quanto stava accadendo, che voleva dire ‘liberazione’

e fine della guerra. Mussolini nel pomeriggio del 25 aprile era ancora a Milano, tra la Prefettura e l’Arcivescovado, dove il Cardinale

Schuster aveva convocato il ‘duce’ e i rappresentanti della Resistenza nel tentativo di evitare uno scontro cruento.

Il capo di quel che rimaneva del regime fascista, dopo l’incontro voluto dall’Arcivescovo con i componenti del CLNAI, - nel quale gli

venne comunicato che per la fine delle ostilità era necessaria una resa senza condizioni – si allontanò promettendo di ritornare, ma

organizzò invece la sua fuga, nella speranza di raggiungere la neutrale Svizzera. Nelle fabbriche gli operai, informati dai gruppi par-

tigiani, si andavano attrezzando per difenderle. La Guardia di Finanza occupò la Prefettura, in nome del CLNAI, la sera del 26 aprile.

Così accadde in molti centri nevralgici della città, sedi dei giornali, EIAR (la RAI di allora), caserme di cui prese possesso il CLNAI.

Era arrivata finalmente la fine della guerra, ma non c’era ancora la pace.

Nella città si susseguivano sparatorie, tra repubblichini e partigiani, che durarono sino a fine aprile. Le truppe alleate entrarono a

Milano il 30 aprile, dopo che quasi tutte le città del nord erano state liberate dai partigiani e dalle forze armate italiane.

54 25 Aprile 25 Aprile

LA GRANDE EREDITÀ DELLA RESISTENZA

di Irene BARICHELLO

Mi chiamo Irene Barichello, ho 33 anni e sono un’inse-gnante, non sono una parti-

giana, ma sono un’antifascista, e l’anti-fascismo non ha età, perché poggia sui valori e i principi intramontabili che strutturano la nostra Costituzione.

«Aldo dice 26x1», è questa la parola d’ordine che 70 anni fa il CLNAI concordò per dare il via alle insurre-zioni nelle grandi città del Nord.

E a Milano, il 25 aprile 1945, la Libe-razione fu anche riappropriazione di uno spazio urbano: riconquistato l’Ho-tel Regina di via S. Margherita, sede della polizia nazista; riconquistati i locali di via Rovello in cui operavano i torturatori della famigerata legione Muti; libere anche le fabbriche, motore dell’insurrezione e della Resi-stenza stessa fin dal marzo ’43.

Libera Piazza Duomo: è bello vederci qui, tantissimi, e sapere che chi vuole può starsene a casa; anche per questo il 25 aprile è festa per tutti: “per chi c’è, per chi non c’è, e per chi ci è contro”, per dirla con Arrigo Boldrini, “Bulow”.

La democrazia è meravigliosa e difficile proprio perché prevede il dissenso, la minoranza, la critica. È comodo ma pericoloso sperare nelle scorciatoie antidemocratiche che, in Italia e in Europa, ci vengono propo-ste e ottengono consensi: le destre nazionaliste e xenofobe, con un copione sempre identico, di fronte alle crisi anziché cercare soluzioni auten-tiche e stabili, additano colpevoli e capri espiatori. Ma come si fa a non lasciarsi incantare? Come ci si forma all’antifascismo, come si insegna?

Occorre una premessa che sgombri il campo dalle critiche qualunquiste che tacciano i termini “fascismo-anti-fascismo” di anacronismo. Il fascismo non è solo il lugubre Ventennio della nostra Storia; fascismo è qualsiasi idea politica che ruoti attorno alla violenza e della violenza faccia una prassi poli-tica per giungere al dominio sull’altro.

Ne consegue, quindi, che antifa-scismo e Resistenza non sono parole buone solo per il periodo ’43 e il ‘45 in Italia, ma hanno vita più lunga, perché

la resistenza deve guardare di volta in volta alle più progredite forme di annichilimento e mortificazione […] dell’uomo […]. La resistenza, come dice il sociologo Mantegazza, è sempre «in progress».

Resistere contro chi, ieri oggi e sempre, minaccia le libertà individuali, nega la giustizia sociale e discrimina i cittadini è ancora una lotta, un lavoro lungo che richiede impegno e forze enormi, certo, ma – avrebbe detto qualcuno – è una prova che può riem-pire degnamente una vita.

Questo lavoro parte anche dalla scuola. Nella scuola italiana c’è l’ora “Cittadinanza e Costituzione”: tra gli obiettivi ci sono la costruzione del senso di legalità e responsabi-lità, la conoscenza della Costituzione e dei suoi principi, in particolare i diritti inviolabili dell’uomo: la libertà e la pari dignità sociale. Anche l’in-segnamento storico della Resistenza è efficace a formare una cittadinanza consapevole nelle nuove genera-zioni; questo insegnamento risponde a due obiettivi: il primo è la ricostru-zione storica, attraverso l’uso critico delle fonti, degli avvenimenti di quei 20 mesi; il secondo è l’educazione all’uso della memoria (di cui ormai si fa uso e abuso pubblico), conside-rando le memorie diverse e divise che ancora incidono sul nostro presente, per giungere poi a un giudizio storico su contesti e motivazioni di quelle memorie contrastanti.

La Resistenza, pertanto, può dive-nire un banco di prova per esercitare l’uso critico della ragione e confron-tarsi con valori forti.

Ma per fare questo occorrono due cose: una seria e rigorosa forma-zione degli insegnanti, sui quali lo Stato deve decidersi ad investire (e intendo proprio denari e che siano spesi bene: il progresso di un Paese si misura anche dal suo bilancio!); e una società in grado di apprezzare adeguatamente il ruolo fondamentale della scuola e dei suoi lavoratori, cui va attribuita – socialmente ed econo-micamente – quella autorevolezza di cui il mestiere di insegnante gode nei Paesi più civilizzati. Nonostante

la politica investa poco e male nella scuola, grazie alla buona volontà di molti insegnanti (troppi, ricordiamolo, vergognosamente costretti alla preca-rietà), la miglior parte della nostra società cresce fra i banchi di aule troppo spesso sgangherate: si vaccina al razzismo con la conoscenza dell’al-tro, al fascismo con il sapere.

La scuola insegna così a essere onesti piccoli cittadini, orgogliosi di una Costituzione nata dalla Resistenza che, lungi dall’essere fino in fondo applicata, occorre sempre più salva-guardare dai tentativi di sabotaggio.

Ma la scuola non può farcela da sola a immaginare e rifondare una società migliore su questi principi, se poi nella nostra Repubblica si lascia che movi-menti neofascisti (ammessi e tollerati anche nelle liste studentesche di moltissimi istituti) impediscano, per esempio, agli alunni italiani di etnia Rom di recarsi alle loro scuole, se già all’indomani della Liberazione si è consentita la presenza, anche in parla-mento, di partiti ispirati al fascismo, se in moltissime delle nostre istituzioni hanno conservato a lungo i loro posti di potere uomini collusi con la ditta-tura fascista, se il Governo concede onorificenze agli ufficiali della RSI! E poi non dimentichiamo l’art. 54: anche la corruzione, l’abuso d’ufficio, il falso in atti pubblici sono tradimenti della Costituzione!

La scuola cosa può fare da sola? Occorre che tutta la società dia corpo alle conoscenze che la scuola trasmette, che ne sia modello non smentita! Il punto è che insegnare a resistere non è soltanto far appren-dere bene la Storia, insegnare a resistere significa esplorare i mecca-nismi profondi dell’indignazione che scuotono lo stomaco degli esseri umani degni di questo nome. Ecco ciò per cui saremo sempre a corto di manuali: come si insegna lo sdegno? Come si educa ad essere sensibili, umani? Non ci sono libri per questo. Serve di più, attorno alla scuola: serve, se non una buona società, almeno l’idea, il desiderio di essa; occorre che gli adulti per primi si sbarazzino della loro cinica rassegnazione ad un

presente da razziare il più in fretta possibile per restituire a se stessi e soprattutto ai più giovani un’occa-sione di futuro.

Anzi, e parlo ora proprio ai ragazzi di questa piazza, vi dirò di più: non siete voi che avete bisogno di imparare a resistere e a indignarvi: non voi, non i partigiani ultraottantenni ancora tra noi. Chi deve imparare a resi-stere è forse la generazione del boom, che ha dato per conquistate una volta per sempre libertà pagate col sangue, che ha scoperto insieme all’appaga-mento che dà il benessere anche la paura di perderlo. E la paura cancella l’arte dello sdegno: la paura di perdere potere, denaro, lavoro rischia di far accettare qualsiasi compromesso, porta a vedere nell’altro una minac-cia (e il più becero populismo cavalca queste fobie!).

I giovani no, la giovinezza non cono-sce paura, perché è incosciente, audace, generosa e fiduciosa di sé e dell’altro.

La Resistenza fu giovane e inco-sciente: non bastò a fermarla nemmeno la paura delle torture (parola che non avremmo più voluto sentir nominare in questo Paese!), dei plotoni d’esecuzione sulla sua schiena.

I più grandi insegnanti sanno che talvolta può mancar loro una rispo-sta o la pazienza, ma di una cosa non debbono mai mancare: della fidu-cia totale nei loro studenti. Concetto Marchesi, rettore dell’Università di Padova (M.O. Valor Militare), fu un formidabile maestro: nel novembre ’43 si appellò ai giovani italiani perché liberassero e ricostruissero il loro popolo e il loro Paese. Quale enorme responsabilità, quale vitale compito quest’uomo ha con fiducia affidato

ai suoi studenti e ai giovani italiani? Nemmeno per un istante egli ha dubi-tato delle loro capacità.

Credo che molti giovani, oggi, vorrebbero sentire nei propri confronti la stessa fiducia, vorreb-bero venisse loro affidato con la stessa generosità il proprio avvenire. Imma-ginatevelo allora il vostro avvenire, anzi leggetelo: c’è un futuro intero nella nostra Costituzione che aspetta il vostro fiato e le vostre gambe per farsi presente. E il cuore di quella Carta è la persona e la dignità che mai le può essere sottratta. Abbiate ancora fiducia nelle persone: in voi, negli altri; credete che le cose miglioreranno, che voi le migliorerete vivendo onesta-mente: solo buoni cittadini fanno buone istituzioni. Impegnatevi: c’è tra voi certamente qualcuno che saprà ridare dignità anche alla politica, riportandola al suo compito più alto: immaginare società più libere e giuste.

E questo Paese ha disperatamente bisogno di politica buona e sana.

Una politica che, da quando ci si è dati una Costituzione intrinsecamente anti-fascista, dovrebbe (uso il condizionale) essere tutta, naturalmente, antifasci-sta! Né, d’altra parte, è pensabile che i valori resistenziali siano esclusivi di questo o quel partito: guai a cedere alla tentazione di credere l’antifascismo presupposto solo di pochissimi “puri”: è la maniera migliore per rendere faziosi dei principi che invece dovrebbero costituire le premesse democratiche e non negoziabili del confronto politico in un Paese civile.

Anzi: il tratto vittorioso di quella lotta fu proprio l’avere unito ogni anima antifascista nella battaglia contro il nazifascismo, anche quella di chi agì

non in nome di un ideale politico.Allora per la prima volta migliaia di

giovani – come nemmeno nel Risorgi-mento – hanno unito sforzi e intenti per far nascere un’Italia libera di deci-dere di sé attraverso il faticoso lavoro della discussione democratica.

La sfida che tocca non solo agli inse-gnanti, ma a tutti noi che viviamo in questo complicato e straordinario patto di cittadinanza che si chiama democrazia è difficile, perché si capi-scono meglio le cose che si provano rispetto a quelle che si immaginano e perché la democrazia, per fortuna, lascia spazio alla parola di tutti, anche di chi non la pensa come noi. Gian Maria Volonté, nei panni del parti-giano Otello Pighin-“Renato”, si chiede «se dopo, 20 o 30 o 70 anni dopo che la guerra sarà finita ci sarà di nuovo un periodo in cui la gente si lascerà anestetizzare da un po’ di pace e di abbondanza, se per questo si sarà pronti a lasciar perdere tutto un’altra volta, la libertà un’altra volta… allora c’è solo la lotta».

È perché non ci fosse più bisogno di lotte che i Resistenti ci lasciarono, fissata nero su bianco, questa Costi-tuzione; la società in cui viviamo oggi è quella che ieri, a prezzo del sangue, seppero sognare i partigiani.

Attualizzare quel passato signi-fica scegliere ancora, di nuovo, quanto di buono, onesto e giusto esso seppe manifestare; l’eredità morale e storica di un Paese, specie quando alle spalle ci sono memorie diverse e non condi-vise, non viene calata dall’alto, ma deve essere scelta consapevolmente.

Per questo 70 anni dopo, io vi dico e vi chiedo di scegliere ancora l’eredità della Resistenza antifascista.

76 AttualitàLa Polemica

Gli inquietanti retroscena della "Giornata del Ricordo"di Mimmo FRANZINELLI

Il 10 febbraio 2015, Giornata del Ricordo, solennità civile nazionale introdotta dalla legge n. 92/2004 per commemorare le vittime delle foibe e dell’esodo

giuliano-dalmata, si è caratterizzato per l’inquietante riva-lutazione di un miliziano della Repubblica sociale italiana caduto in combattimento con partigiani jugoslavi.

Non si è trattato di un soprassalto estemporaneo, bensì del riaffiorare, nella storia contemporanea del nostro Paese, della vergognosa tendenza manifestatasi negli anni Cinquanta, quando – nel contesto della guerra fredda – si processavano i partigiani e si decoravano i fascisti distintisi sul confine orientale.

Un caso macroscopico riguarda il seviziatore e plurio-micida Gaetano Collotti, capo dell’Ispettorato speciale di Pubblica sicurezza della Venezia Giulia, da lui gestito secondo le direttive di SS e Gestapo, in un’attività colla-borazionistica dai tratti spietati e che si avvalse di circa 180 poliziotti. La sede della «Banda Collotti», a Trie-ste, in via Bellosguardo 8, era denominata Villa Triste a causa delle torture che vi si praticavano. I prigio-nieri, depredati di tutto, non avevano alcun diritto. Catturato il 28 aprile 1945 in provincia di Treviso dai partigiani, Collotti è stato fucilato con alcuni suoi collaboratori. Nel 1955 otterrà una medaglia di bronzo alla memoria, per le sue operazioni antislave...

Di medaglia d’oro per l’attività compiuta contro i partigiani di Tito viene insignito nel marzo 1957 Tommaso David, sedicente comandante dei servizi segreti della Repubblica sociale, fondatore del Corpo volontari anticomunisti della Dalmazia. Millan-tatore e mitomane, David gioca una parte rilevante nell’accreditare il carteg-gio Churchill-Mussolini, clamorosa bufala ideata per togliere dalle spalle del duce la responsabilità di una disastrosa guerra. Qualche giornalista, mistificando, ha spiegato la decorazione come il baratto per la consegna delle (inesistenti) lettere dello statista britannico...

Ebbene, sulla falsariga di quei vergognosi riconosci-menti a Collotti, David e altri loro camerati, attraverso la Giornata del Ricordo si forniscono pubblici riconosci-menti a personaggi quali l’ex prefetto di Zara, il tenente colonnello Vincenzo Sorrentino, fucilato il 15 maggio 1947 in Jugoslavia quale criminale di guerra, per il ruolo

da lui svolto nel Tribunale speciale della Dalmazia, che mandò a morte partigiani e civili sospettati di aiuto ai «ribelli». Il 10 febbraio 2007 la Presidenza della Repub-blica ha incluso anche Sorrentino tra i caduti nelle foibe da decorare alla memoria, con medaglia consegnata ai loro familiari al Quirinale.

Nello scorso febbraio si è rivalutata la figura di Paride Mori, capitano dell’8° Battaglione d’assalto «Benito Musso-lini», caduto il 18 febbraio 1944 in provincia di Gorizia, in combattimento con partigiani slavi. L’onorificenza è stata ritirata dai suoi familiari, nella cerimonia per le vittime delle foibe, con la motivazione di «aver difeso i confini della Patria». Eppure, la legge istitutiva della Giornata del Ricordo esclude possano beneficiare della decorazione «coloro che sono stati soppressi nei modi e nelle zone di cui ai commi 1 e 2, mentre facevano volontariamente parte di formazioni non al servizio dell’Italia». E la Repubblica sociale, non era certo al servizio della Patria.

La polemica che ne è seguita – con la dura repri-menda del presidente dell’Anpi, Carlo Smura-glia – ha segnato la presa di distanza della presi-dente della Camera, Laura Boldrini, che ha negato di aver «dato alcun premio alla memoria del repubbli-chino Paride Mori, né ha in alcun modo concorso ad individuare il suo nome tra quelli meritevoli di onori-ficenza: l’individuazione dei soggetti cui attribuire le medaglie spetta infatti a una Commissione istitu-ita presso la Presidenza del Consiglio, che le ha conse-gnate durante uno specifico incontro che la Camera ha ospitato a margine della cerimonia per la Giornata del Ricordo». La patata bollente è così passata nelle mani del sottosegretario alla Presidenza del Consi-glio, Graziano Del Rio, che ha preannunciato di voler riconvocare la Commis-

sione sul conferimento delle onorificenze, per annullare quella inopportuna decisione (non risulta però che tale impegno sia stato mantenuto).

Evidentemente c’è, negli apparati statali, chi non vuole o non sa distinguere tra patriottismo e fascismo. É inac-cettabile che la Repubblica italiana rivaluti personaggi organicamente e convintamente inseriti negli apparati repressivi fascisti. E questo è opportuno ricordarlo anche ogni 10 febbraio.

mattarella: sarÀ il presiDente Della sVolta ?

Scelto rapidamente da una larga maggioranza di grandi elettori, subito gradito dalla pubblica

opinione, un fratello ucciso dalla mafia, un passato politico senza ombre, il presidente Sergio Mattarella è una boccata d’ossigeno per un sistema politico come quello italiano, che comunque permane gravido delle stesse difficoltà fronteggiate dal suo predecessore. Inoltre, se Napolitano aveva giurato fedeltà a una costitu-zione della quale si preannunciava il mutamento, il suo successore è il primo presidente che dal Quirinale deve accompagnare un cambiamento in corso. Infine, dopo aver dato il suo nome a una legge elettorale poi modi-ficata due volte, Mattarella dovrà firmare come presidente la terza modifica, molto simile, a detta di diversi giuristi, alla seconda, giudi-cata incostituzionale sotto vari aspetti da una Corte suprema, della quale lo stesso Mattarella era autore-vole componente e quindi coautore del giudizio.

Avevo previsto, sul “Corriere della sera”, al momento del risultato delle elezioni del 2013, che esso avrebbe modificato l’ordinamento scaturito da quelle del 1946, con la conseguente costituzione del 1948, e quindi non mi stupisco di questi problemi attuali (nuove leggi costituzionali ed elet-torali), ma li collego a un contesto sociale per il quale al mio precedente scritto sul settennato di Napolitano era stato dato il titolo “Perché l’Italia torni un Paese normale va scalzata dal potere la ‘razza’ parassita”.

Scrivevo: “La maggiore anomalia italiana è la presa del potere da parte di una ‘razza parassita’ evoluzione dagli anni Settanta della ‘razza padrona’ del libro di quegli anni di Scalfari e Turani. Il ritorno alla normalità e il toglierle il potere per restituirlo ai ceti produttivi non mi pare possa avvenire senza un minimo di trauma, nonostante la buona volontà e l’impegno di Napolitano”.

Ho raccontato come sia avvenuta questa presa del potere da parte di ceti finan-ziario-speculativi e burocratici-parassitari nel libro appena uscito “Il golpe invisibile” (Kaos edizioni). Il racconto giunge fino all’inchiesta “Mafia-capitale” (dicembre 2014), quando il Presidente era ancora giudice costituzionale. Appena giunto al Quirinale il nuovo presidente, la vicenda Lupi-Incalza conferma quanto quel potere sia invasivo. I quotidiani del 18 marzo hanno riportato la perento-ria dichiarazione del cardinale Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Cei (Conferenza episcopale italiana): “Il malaffare è un regime”. A Genova la vicenda della Banca Carige è esemplare delle modalità di agire della “razza parassita” e il cardinale da quelle antenne della chiesa che sono le parrocchie apprende quanto queste modalità abbiano portato all’impoverimento dei ceti popolari di uno dei maggiori centri produttivi del Paese.

Cambiare un regime senza un minimo di trauma è molto difficile. Il presidente Napolitano ha tentato di farlo e vi è chi ritiene che si sia ritirato avvertendo di non avere più le forze sufficienti per proseguire nel tentativo. Vi è chi si spinge sino al paragone col ritiro di Benedetto XVI, logorato dalla Curia. A chi mi chiede che cosa significhi, in termini politologici, “un minimo di trauma”, rimando al momento nel quale il Presidente Mattarella dovrà firmare i provvedimenti che sostituiscono all’ordinamento nato dalla Resi-stenza un ordinamento nato quando si possono modificare una cinquantina di articoli della Costituzione in un clima di involuzione e di rassegnazione. E, studioso delle junghiane coincidenze significative, noto che il 18 marzo, giorno della denuncia del regime da parte del cardinal Bagnasco, fu nel 1848 la prima delle Cinque Giornate di Milano.

di Giorgio GALLI

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella all'uscita del Piccolo Teatro di Milano dove il 25 aprile ha incontrato i rappresentanti delle associazione antifasciste e partigiane rivolgendo un saluto al Paese.

Il fascista Paride Mori

98 AttualitàAttualità

apologia Di reato, razzismo, simboli nostalgici: facciamo rispettare le nostre leggi

Rafforziamo l'antifascismo partendo dalla Costituzione

di Roberto CENATI

Estremamente preoccupante è il ruolo che sta svolgendo la Lega. La svolta di questo partito è consistita, in primo luogo, nel recupero pieno di tutti i temi di impianto razzista che avevano caratterizzato il partito al tempo

del congresso di Assago. In quell’occasione, era il 2002, si assunsero ufficial-mente da parte di Umberto Bossi tutti i tratti tipici di una formazione di estrema destra, dal rifiuto della “società multirazziale” alla “difesa della cristianità minacciata dall’invasione extracomunitaria”. “La Padania”, in quel contesto, quasi diveniva “una cittadella assediata”, un “ridotto” entro cui arroccarsi. In compenso ai migranti si addebitava la responsabilità di ogni male, dalla crescita della criminalità al dilagare delle droghe, fino al diffondersi di malattie vecchie e nuove. Nel riprendere da parte di Matteo Salvini queste ossessioni razziste si è però provveduto a cambiare i destinatari del messaggio, non più circoscritti ai soli “padani” ma comprendenti l’insieme degli italiani.Una svolta di tipo “nazionalista” con la quale la Lega si è presentata alla tornata elettorale europea. Per la prima volta nella sua storia la Lega ha così tenuto e organizzato in una campagna elettorale iniziative nelle regioni del centro-sud. Anche il taglio degli slogan è mutato per indicare il nuovo corso: “Basta tasse, basta immigrati, no Euro, prima gli Italiani”. Ciò ha significato la traduzione in pratica delle posizioni del Fronte nazionale francese di Marine Le Pen con il quale il partito di Salvini ha stretto un’alleanza in occasione del voto. Da qui il superamento del secessionismo che ha fortemente impattato nel mondo dell’e-strema destra che, incapace di presentare proprie liste, è rifluito in larga parte in quelle della Lega. È stato il caso di Casa Pound, che ha sostenuto apertamente nel centro Italia la candidatura di Mario Borghezio, poi eletto con poco più di cinquemila prefe-renze. Mentre registriamo il preoccupante rifiorire di rigurgiti neofascisti, anti-semiti e il ripresentarsi di parole d'ordine xenofobe e razziste, alimentate dalla Lega, abbiamo assistito al gravissimo atto compiuto dal governo che ha concesso

una onorificenza al repubblichino Mori che cadde in uno scontro con i partigiani di Tito il 18 febbraio del 1944. Così, chi combatteva come Mori, al fianco dei nazisti, ha potuto rice-vere un riconoscimento nell'anno del Settantesimo anniversario della Libe-razione. Quanto accaduto è di una gravità senza precedenti e rientra nel tentativo, in corso da anni, di aperta rivalutazione del ruolo dei fascisti e della Repubblica di Salò.

In questo preoccupante contesto riteniamo indispensabile rilanciare i principi, i valori di libertà e antifa-scismo contenuti nella Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza, che contiene precisi riferimenti e divieti di ritorno al passato attra-verso l’apologia del fascismo e i suoi squallidi simboli. Bisogna, ora che si sta mettendo mano alla riforma della nostra Carta, avere leggi che impediscano, in quanto reati, mani-festazioni apertamente contrarie ai valori della democrazia così fatico-samente conquistata con la lotta di Liberazione. L'onorevole Aldo Moro, in un suo bellissimo intervento all'As-semblea Costituente del 13 marzo 1947, così rispondeva all'onorevole Lucifero che in sede di sottocommis-sione aveva espresso il desiderio che la nuova Costituzione italiana fosse una “costituzione non antifascista, ma afascista”: “Non possiamo fare una costituzione afascista – osser-vava Aldo Moro - cioè non possiamo prescindere da quello che è stato nel nostro Paese un movimento storico (il fascismo) di importanza grandis-sima, il quale nella sua negatività ha travolto per anni le coscienze e le istituzioni. Non possiamo dimenti-care quello che è stato, perchè questa Costituzione oggi emerge da quella Resistenza, da quella lotta, da quella negazione, per le quali ci siamo trovati insieme sul fronte della Resistenza e ora ci troviamo insieme per questo impegno di affermazione dei valori supremi della dignità umana e della vita sociale”.

LE CONTRADDIZIONI DELLA LEGATRA PASSATO E PRESENTEdi Saverio FERRARI

Bisognerà attendere il voto delle regionali, previste per fine maggio, per verifica-

re in Veneto lo spazio politico ed elettorale della neonata lista di Flavio Tosi. La

scissione consumatasi viene certamente da lontano. A farla maturare sono anche

stati gli storici contrasti interni alla Lega, da sempre a trazione lombarda con i veneti

in posizione subordinata, indipendentemente dai consensi elettorali, sempre in questa

regione al di sopra della media nazionale. In Veneto la Lega ha raccolto più del 15% alle

ultime europee, ma arrivò addirittura a superare il 35% nelle regionali del 2010. Sarebbe,

comunque, sbagliato ridurre il tutto unicamente a insofferenze regionalistiche o a meri

contrasti di vertice. Sempre più evidente è stato, infatti, il manifestarsi, in particolare nel

corso dell’ultimo anno, di due linee. Da un lato quella incarnata da Matteo Salvini, forte-

mente sbilanciata a destra, aperta all’alleanza con formazioni neofasciste (non solo Casa

Pound), proiettata verso una nuova identità di tipo lepenista, ma soprattutto autorefe-

renziale, tesa cioè a scardinare il vecchio assetto del centro-destra con la Lega dichiara-

tamente proiettata ad assumerne la leadership. In questo quadro va vista anche l’assun-

zione, di fatto, nella propria orbita dei Fratelli d’Italia. Dall’altro il tentativo di Flavio

Tosi, volto alla ricostruzione delle alleanze di un tempo. Due prospettive diverse che si

confronteranno in una regione ora in forte sofferenza economica e sociale, dove secondo

i dati ufficiali, dal 2007, il Pil è calato dell’8%, la domanda interna del 9%, e la perdita dei

posti di lavoro è cresciuta di 138mila unità.

tre momenti

La Lega è a oggi il più vecchio partito della cosiddetta “seconda Repubblica”. Più di

venticinque anni di vita. Nella sua storia ha attraversato diverse fasi. Dopo i primi passi

da movimento etnocentrico, abbandonò alla fine degli anni Ottanta le ipotesi iniziali

per virare verso il federalismo socioeconomico. «I piccoli grandi popoli del Nord non

sono abbastanza forti per vincere l’assedio romanocentrico», tuonò Umberto Bossi nel

dicembre 1989 al primo congresso della Lega lombarda al Jolly Hotel di Segrate. Non

fu un passaggio semplice. Rischiò addirittura di finire in minoranza. «Capivamo che

per affermare le nostre idee», disse, «avremmo dovuto sottolineare che il federalismo

è l’unica strada percorribile per modernizzare il sottosviluppato capitalismo italiano,

oligopolistico, arretrato, corrotto dalla mentalità assistenziale e dalla sudditanza nei

confronti di uno Stato affarista, affarone e sprecone». Nacque così nel 1991 la Lega nord,

una federazione che accorpava la Lega lombarda, la Liga veneta, Piemont autonomista,

l’Union ligure e altri movimenti. I dialetti passarono in secondo piano, valutati come

possibili elementi di divisione politica. Si rinunciò anche a rivendicare le regioni a statuto

speciale tipo Val d’Aosta o Alto Adige. Un secondo passaggio si ebbe al quarto congresso,

nel marzo 2002, ad Assago. Nel corso di un’assise, dove si celebrò con enfasi il culto del

capo, anche attraverso il ricorso a iconografie che ritraevano Umberto Bossi alla stregua

di un antico cavaliere teutonico (uno dei fondali posti dietro il palco), la Lega fece sue le

analisi e molti degli stereotipi tipici delle destre radicali, dall’«opposizione alla società

multirazziale» all’assunzione del cosiddetto «differenzialismo etnico» (la teoria razzista

di Alain De Benoist), fino alla «difesa della cristianità», minacciata dall’invasione

extracomunitaria, foriera di tutte le piaghe, dall’aumento della criminalità al diffondersi

delle droghe. Si attaccò anche, in una fanta-ricostruzione di tipo complottista, il

Risorgimento italiano, frutto, secondo Bossi, di una cospirazione massonica. Il 2 aprile

2004, l’Osservatorio europeo per il razzismo e la xenofobia, pubblicò un rapporto

includendo la Lega nello stesso gruppo ideologico delle forze di estrema destra. Un terzo

momento importante della sua storia lo stiamo vivendo ora.

alcune contraDDizioni

Ma la Lega, è bene non scordarlo, è stata anche partito di governo, ai livelli locali

come a quelli nazionali. Un vorace partito di governo. In questa veste, tralasciando gli

scandali relativi all’uso privatistico da parte dei suoi dirigenti delle entrate derivanti dal

finanziamento pubblico, ha partecipato a scalate bancarie e nelle fondazioni, entrando

in più consigli di amministrazione e in posti di comando di enti pubblici, aeroporti,

autostrade e Asl. Ha difeso formalmente i piccoli produttori, ma come principale alleato

del ministro Tremonti (al tempo dei governi Berlusconi), ha condotto una sfrenata

politica neoliberista a favore dei grandi

gruppi industriali. Nella gestione delle

amministrazioni locali, con un esercito

di consiglieri e sindaci, ha dato vita a

una nuova classe dirigente locale spesso

coinvolta in scandali di non poco conto, in

combutta con immobiliaristi vari. Quando

ha pensato di fondare una propria banca,

la Credieuronord, tramite azionariato

popolare, l’ha portata rapidamente al

fallimento grazie a operazioni scriteriate,

con tanto di condanna giudiziaria per i suoi

amministratori costretti a risarcire milioni

di euro. Ha più volte gridato nelle piazze

“Padroni a casa nostra!”, ma a Vicenza si

è schierata per l’ampliamento della base

Nato, con relativa cementificazione del

territorio, contro le proteste di gran parte

della popolazione, così dicasi in val di

Susa per la vicenda della Tav. Questa è

dunque la Lega, un contenitore stracolmo

di contraddizioni.

DomanDe in attesa Di risposte

L’avvenire stesso della Lega appare

comunque carico di incognite. Il tentativo

di dotarsi di un impianto nazionale, con

una presenza nel Centro-Sud, dovrà

necessariamente fare i conti, da un lato

con pattuglie di riciclati della politica,

alla ricerca di posti e riconoscimenti

(ex missini, di An e del vecchio Pdl), e

dall’altro con l’esistenza di strutture

ancora molto fragili appena abbozzate

per questo scopo.La personalizzazione

dell’operazione, attraverso il logo “Noi

con Salvini”, pensato come traino,

potrebbe non essere sufficiente, anche se

secondo alcuni recenti sondaggi la Lega

potrebbe vedere crescere i propri consensi

fino al 10% nel Centro Italia, arrivando

al 6% nelle Isole. Dati consistenti. Ma

la Nuova Lega si sta anche evolvendo

verso una dimensione prevalentemente

mediatica, da classico partito leggero. Ha

recentemente chiuso il quotidiano «La

Padania» e licenziato settanta dipendenti.

L’esito della raccolta delle firme, nella

primavera-estate scorsa, per lanciare

la propria campagna referendaria, ha

confermato, mancando il quorum per

ben quattro dei cinque quesiti proposti

(tutti al di sotto delle 500mila firme

necessarie), la trasformazione in corso.

Tante, in conclusione, le domande sul suo

futuro ancora in attesa di una risposta.

Manifestazione della Lega Nordin Piazza Duomo a Milano

1110 Memoria Memoria

Quelle cinque partigiane eroine della Resistenzadi Silvia AONZO

Per il 70° anno della Liberazione Palazzo Isimbardi ha ospitato, il 14 marzo, una iniziativa incentrata sulla figura di cinque donne che hanno combattuto

contro il Regime contribuendo, ognuna a suo modo, a cambiare la storia del nostro Paese.

Si fa presto a dire donne. Ma quelle che sono state le pro-tagoniste della nostra resistenza, sono donne speciali.

Sono donne come la mai dimenticata Nilde Iotti, poi di-venuta presidente della Camera, già pasionaria della re-sistenza e compagna nella lotta antifascista e nella vita di Palmiro Togliatti.

Ma anche vere e proprie combattenti come Simone Segouin, che come molti ricordano riuscì a catturare 25 nazi-sti nella zona di Chartres e ne uccise molti altri, prima del suo ventesimo compleanno. Ad aprire la rappresentazione, la sto-ria di ONORINA BRAMBILLA PESCE, deportata e meglio conosciuta col nome di battaglia di SANDRA, che i gappisti usavano per non essere facilmente identificati.

Nel '44 Sandra aveva solo 23 anni e, con l’unico aiuto delle Suore della Carità, entrata a far parte dei Gruppi di azione Patriottica, gira Milano in biciletta, sotto il sole e la pioggia, imbottita dei messaggi dei deportati delle prigioni naziste, che presto sarebbero diventati i suoi compagni di agonia.

Come si diventava adulti presto in tempo di guerra! La nostra eroina fu presto catturata (il 12 settembre 1944)

a causa di una soffiata di una spia. Portata a Monza, presso la “Casa del Balilla” (l’attuale Binario 7), fu anche tortu-rata dallo zelante sergente Wernig delle SS, e quindi, dopo due mesi trascorsi in cella d’isolamento, venne deportata nel campo di concentramento di Bolzano.

Naturalmente dopo la liberazione, sposatasi fe-licemente col suo comandante “Visone” (Giovanni

Pesce, Medaglia d’oro della Resistenza ed eroe nazio-nale) divenne colonna portante del nuovo PCI e punto di riferimento della Camera del Lavoro di Milano. L'accompagnamento musicale apre poi e cuce assieme le altre storie, come quella di FERNANDA WITTGENS, la prima donna Direttrice della Pinacoteca di Brera dal 1941 al 1944. Solo dieci anni prima, Fernanda insegnava storia dell’arte nei licei milanesi, quindi entrò a Brera come ispettrice, collabo-rando con Ettore Modigliani.

Tutti se la ricordano perché durante gli anni della guerra (e i bombardamenti di Milano), mise in salvo le

opere della Pinacoteca trasferendole al Poldi Pezzoli. C’è poi la storia di SUOR ENRICHETTA ALFIERI, la "Mamma di San Vittore" (così ricor-data per la sua attività nel carcere di Milano) poi dichiarata Beata, che du-rante la sua attività fu arrestata nel settembre del '44 con l'accusa di spio-naggio. Negli anni della guerra, infatti, anche il volto di San Vittore era cam-biato: ai criminali comuni si sono so-stituiti i detenuti politici, gli Ebrei, e i sacerdoti e i religiosi impegnati a colla-borare con la Resistenza.

I Tedeschi guidano il carcere come un campo di concentramento: diventa il luogo degli interrogatori, delle tor-ture fisiche e morali, delle condanne e delle partenze per i campi di stermi-nio. Mentre Suor Enrichetta svolge la sua missione umanitaria, viene accu-sata di spionaggio antifascista e subi-sce undici giorni di detenzione, da cui riesce ad uscire grazie all’intervento del Cardinal Schuster e di un amico personale di Mussolini, scongiurando il pericolo della temuta deportazione in Germania, e venendo (solamente) condannata al confino. E che dire poi della famosissima ELENA RASERA, nome di battaglia OLGA, che ha compiuto 101 anni lo scorso 14 gennaio? Olga entra a 21 anni alla Olap, importante complesso industriale che produce strumenti di precisione per la telefonia e la radiofonia, che sono utili ai te-deschi (radiogoniometri) che spesso uscivano dalla fabbrica regolarmente sabotati. Fu Elena a organizzare lo sciopero del marzo 1944 alla Olap al quale aderirono circa 500 donne. Nel corso dello sciopero, dopo aver tolto la corrente, furono prima le donne a uscire proteggendo gli uomini che erano più esposti agli arresti ed alle rappresaglie.

E infine ANNUNZIATA CESANI, nome di battaglia “CEDA”, partigiana che ci ha lasciato il 24 maggio del 2013. Nel 1946 la Presidenza del Consiglio dei Ministri le riconosce la qualifica di “Partigiano combattente col grado di sottotenente”. Trasferitasi a Sesto San Giovanni, ha gestito con grande responsabilità e trasparenza impegnative cariche pubbliche presso l’o-

spedale locale. Ha ricoperto, inoltre, importanti

cariche direttive in seno all’Anpi mi-lanese, fino a divenirne presidente. E come non ringraziare la splen-dida voce narrante di Ida Spalla e il presidente provinciale dell’ANPI di Milano Roberto Cenati che ha presentato la manifestazione. Il commiato dagli amici intervenuti è soltanto temporaneo in vista dei pros-simi appuntamenti per la celebra-zione del settantesimo anniversario della Liberazione e prima fra tutte la Mostra in vista dell'Expo sulla storia dell'alimentazione e sulla Resistenza a cura di Anna Steiner, di Debora Migliucci e di Roberta Cairoli che è ospitata al Museo del Risorgimento (Palazzo Moriggia, Via Borgonuovo, 23) dal 22 aprile al 28 giugno 2015. Il profilo di queste donne, il loro at-taccamento alla cultura e il loro impe-gno politico e sociale ne valorizzano la statura: il ricordo delle loro vite non può che essere l'indicazione per co-struire quel futuro in cui tutte hanno creduto e per il quale hanno così so-lertemente lavorato.

Annarita Cesani

Elena Rasera

Onorina Brambilla Pesce

Suor Enrichetta Alfieri

1312 Memoria

un film, il rumore Del silenzio, racconta pagine tristissime Di ingiustizie e Deportazioni

LA STORIA DI NONNA VERA E QUELLA IDEOLOGIA DEL MALEl’incontro a milano con liliana segre – la donna, oggi novantenne, fa testimonianza nelle scuole argentine e italiane

di Elisabetta VILLAGGIO

Il rumore del silenzio, di Marco Bechis, è un docu-film che va a ritroso nel percorso della memoria e racconta l'incredi-bile viaggio intrapreso da Vera Vigevani Jarach sulle orme del nonno Ettore Felice Camerino, morto nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau e della figlia Franca, una delle 30.000 vittime della dittatura argentina.

Vera è una dolcissima e soprattutto sveglissima signora di quasi novant'anni che ha deciso di non tenere più solo per sé le sue durissime esperienze. Fa parte delle Madri di Plaza de Mayo e, instancabilmente, va in giro per le scuole, sia in Italia che in Argentina, per raccontare la sua storia che ora condivide anche attraverso il film del regista italo-cileno. Vera è ita-liana, di Milano, è ebrea e vede il nonno deportato dalla stazione di Milano. Partirà con i micidiali treni per essere inter-nato in un campo di concentramento, dove morirà. Lei nel '39 si trasferisce con la famiglia in Argentina, dove comincia una nuova vita lontano dagli echi della guerra e della morte che hanno straziato l'Europa per sei lunghi anni. Lì si sposa e ha una figlia. Quando Franca ha solo 18 anni, in pieno regime dittatoriale militare di Videla, Massera e Agosti, viene seque-strata, torturata e infine uccisa con i maledetti voli della morte: è caricata su un aereo e poi lanciata giù nel Rio della Plata, al largo di Buenos Aires. Vera e suo marito la aspettano invano ma attendono anche che i carcerieri della figlia vengano ad arrestarli colpevoli solo di aver messo al mondo una ragazza che si era ribellata a un regime autoritario e fascista. In attesa dei militari, per molte notti di seguito, il marito di Vera va a dormire vestito. Fortunatamente nessuno viene a prenderli.

Dopo molti anni Vera decide di parlare, di raccontare la sua storia perché possa essere di monito ad altri a non ripetere quegli stupidi errori, quegli orrendi delitti in nome di nulla se non terrore, ingiustizia e sopraffazione.

Marco Bechis, regista e autore scampato agli orrori della dittatura argentina, espulso nel ’77, per approdare a Milano dove ha sempre vissuto da allora, racconta la vita e le tristi storie di una donna tanto normale quanto straordinaria attra-verso un viaggio nella memoria che parte proprio dall'Argentina, lungo il Mar de la Plata dove c’è un luogo che ricorda le vittime, per lo più giovani ragazzi che si opponevano al regime militare, che venivano lanciati da piccoli aerei per essere inghiottiti dalle acque marroni dell'oceano Atlantico. Trentamila furono i dispersi, tutte persone sparite nel nulla senza che i familiari potessero averne notizie o per lo meno potessero salutarli per l'ultima volta con un funerale. Vera e Marco poi si recano nei campi di concentramento in Polonia, ripercorrono e ricordano quei viaggi terribili di ebrei e non solo, de-portati in treni merci chiusi e bui senza neanche poter bere per giorni. Viaggi disumani verso mete terrificanti dove la maggior parte di loro non farà ritorno. Il viaggio di Vera e di Marco finisce alla stazione sotterranea di Milano, quella adi-bita a merci e animali dove uomini, donne, vecchi e bambini venivano caricati per un viaggio senza ritorno. E lì incontra Liliana Segre che era partita ancora bambina con suo padre proprio da quei binari. La signora Segre rammenta il contatto con la mano di suo padre, quella stretta sicura e rassicurante che sarà costretta a lasciare per sempre una volta arrivati ai campi di sterminio dove lei riuscirà a sopravvivere mentre il padre troverà la morte.

Il rumore del silenzio non è il solito film o documentario sugli orrori delle dittature ma vuol andare oltre per far sì, attra-verso il ricordo e la memoria, che certi orrori non si ripetano, che la storia sia d’insegnamento e che, come sostiene Liliana Segre nel film, sia evidente che i nazisti e Hitler non erano solo un manipolo di folli criminali ma dietro tutto ciò c'era un'i-deologia del male ben precisa.

Vera che, con il suo sorriso dolcissimo continua ad andare in giro per le scuole con la sua testimonianza, dice: “È impor-tante la memoria, ma è importante anche volgere lo sguardo avanti in modo che, ogni giorno, quando la dignità umana viene calpestata si accenda una lampadina di allerta. Ogni volta che c’è una discriminazione ci dobbiamo impegnare in prima persona”.

Vera mai più cosa?Indifferenza di fronte a domini che fanno cose tremende.

Ci vuole la volontà e soprattutto l’impegno di tutti.

Vera alla sua età ha deciso di raccontare la sua storia. Quale è stato il click che le ha fatto dire: questa storia era solo mia e ora la condivido?

Direi che questo è scattato quando mio marito e io ab-biamo capito che non c’era più speranza per Franca. Il film mi ha fatto fare un cambio di tempi. Prima partivo dalla storia più recente, la storia di mia figlia e della dittatura mi-litare in Argentina. Partivo da quella tragedia. Un giorno sono andata con mio cugino nel luogo della Memoria alla stazione di Milano e vedendo quei vagoni ho capito che tutto cominciò da lì. Quando racconto devo cominciare dalla storia di mio nonno e devo raccontare che il fascismo e il nazismo sono i responsabili e, come dice giustamente

Liliana Segre, non è stata solo l’idea di un pazzo ma a tavo-lino hanno fatto i piani così in Germania come in Argentina.

Marco che similitudini trovi tra la storia di Vera e quello che tu hai vissuto?

C’è qualcosa che mi ha fatto molto pensare ultimamente: il rapporto tra atti terroristici e ideologia. Quando l’ideo-logia viene prima del rispetto per la vita umana. Questo è successo in America latina, sotto il regime fascista o comu-nista. Rapportando la questione con fatti attuali penso che ci sia qualcosa che dovremmo riconoscere dentro di noi, perché, e voglio provocare, mi chiedo che differenza ci sia tra la freddezza con la quale le Brigate Rosse hanno am-mazzato un giornalista e quelli di Charlie Hebdo? Quando l’ideologia comanda sul rispetto della vita è finita.

Non bisogna dimenticare. Il mio progetto ha a che ve-dere con il Mediterraneo. Finita la guerra arrivarono dei

sopravvissuti dei lager a Tradate con il sogno di raggiun-gere la terra promessa che allora era la Palestina.

Si fermarono lì per prepararsi. Finalmente partirono con dei barconi e ci furono dei naufragi proprio come quelli che succedono oggi a Lampedusa, dove le persone partono per migliorare la propria vita, per cercare una terra promessa, per sfuggire dalle dittature. Allora suc-cesse agli ebrei che fecero viaggi da Odissea per arrivare nella terra promessa e questo ci porta al tema iniziale che è quello dei diritti umani, del rispetto per le persone.

Quindi dobbiamo accoglierli bene, dobbiamo vigilare affinchè ci sia un’eguaglianza. Oggi, soprattutto con la crisi economica, non vogliamo più i migranti che sono qui. Bisogna stare molto attenti affinché non si ripe-tano forme di genocidio, di odio razziale o culturale. Mai più silenzio e mai più indifferenza. Bisogna par-lare di rispetto.

Memoria

COLORNI, IL PARTIGIANO CHE ANTICIPÒ L’EUROPAdi Franco ABRUZZO

Il partigiano Eugenio Colorni, antifascista, caporedattore dell’Avanti clandestino, che nel 1944 previde in larga misura l’Europa del futuro, con Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi diede vita dal confino

di Ventotene ad un manifesto illuminante e preveggente. Il documentato libro di Antonio Tedesco “Il partigiano Colorni e il grande sogno europeo” ha il merito di accendere potenti riflettori sulla figura di un antifascista, filosofo, ebreo e socialista che ebbe la sfortuna di essere ucciso nella capitale, a piazza Bologna dalla banda Koch, domenica 28 maggio 1944 alle ore 9,30.

I principi dell’Europa si possono riassumere nei seguenti punti: "eser-cito unico federale, unità monetaria, abolizione delle barriere doganali e delle limitazioni all’emigrazione Tra gli Stati appartenenti alla federa-zione, rappresentanza diretta dei cittadini ai consessi federali, politica estera unica". Chi scrive non è un politico contemporaneo. Chi scrive è il partigiano Eugenio Colorni, caporedattore dell'Avanti clandestino, che nel 1944 previde in larga misura l'Europa del futuro. Sembrava un visionario, Pietro Nenni lo stimava, ma non si spinse così avanti nell'eu-ropeismo. Eppure Colorni, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi diedero vita dal confino di Ventotene ad un manifesto illuminante e preveggente.

Ancora un anno di vita e Colorni avrebbe visto vincere le sue idee anti-fasciste “Colorni - spiega Tedesco – corse sempre grandi rischi. Lui era il vero capo del centro socialista interno. Nenni, Faravelli e gli altri erano in esilio. Lui spese la sua intelligenza, il suo dinamismo per creare una rete di antifascisti tra Milano, Trieste e Roma. Sorvegliato e spiato dall'Ovra, fu tradito da Alberto Capanni, repubblicano di Trieste. Al "pericoloso sovversivo" i tribu-nali imposero il domicilio coatto, prima a Ventotene, poi in Basilicata, ma il fascismo non riuscì a spezzare la sua tempra. A Ventotene nacque il manifesto. Dalla Basilicata fuggì nel maggio 1943 per unirsi alla Resistenza.

A Roma dopo la sua morte, Nenni scrisse: "La sua perdita è per noi irreparabile ed è dolorosa per la cultura italiana ed europea". Sandro Pertini affermò: “Se c'è una medaglia d'oro alla Resistenza guadagnata duramente è la sua”. Il quotidiano “la Stampa”, il 17 ottobre 1938, in occasione del suo arresto, scrisse: “Aveva una certa aria di superiorità, tipica dei giudei intellettuali, insomma un'aria non troppo trasparente. La qualifica di professore del Colorni Eugenio dimostra quanto fosse indispensabile la misura, adottata in maniera rigorosa e assoluta, di espellere totalmente gli insegnanti ebrei dalla scuola italiana”.

Questo l'ultimo scritto di Colorni, poche ore prima di morire in ospedale per le ferite riportate: “Vincere la morte mediante il fare, non dare né ricevere, ma fare. E per fare intendo creare qualcosa che stia da sé, e che sia però allo stesso tempo un prolungamento di me, che mi appartenga, in cui mi riconosca, ma che resista oltre me.”

Eugenio Colorni

Vera Vigevani Jarach

1514

di Jean MORNERO

Un libro ricorda, con docu-menti e cifre, il ruolo svolto dai vigili del fuoco milanesi

nella lotta di Liberazione nazionale: tra l’altro, i “pompieri” svolsero anche una meritoria opera di soccorso alla popolazione durante i bombarda-menti della seconda Guerra mondiale, tanto da guadagnarsi la Medaglia d'Argento al valore civile. Facendo un ampio salto e trasferendoci ai nostri tempi, non si può dimenticare il sacri-ficio dei 3 Vigili del Fuoco della caserma di via Benedetto Marcello a Milano: Carlo La Catena, Sergio Pasotto, Stefano Picerno, vittime insieme al vigile urbano Alessandro Ferrari e al cittadino marocchino Driss Moustafir dell’attentato mafioso del 27 luglio di 1993 che ogni anno Milano ricorda.

biografie dei pompieri milanesi

I1 volume, frutto di una appassio-nata e meticolosa ricerca compiuta da Giuseppe Mascherpa, è corredato da una notevole mole di materiale foto-grafico e documetaristico che rende ancora più preziosa questa ricerca. Accurata, in particolare, è la rico-struzione delle singole biografie dei Vigili del Fuoco che hanno parteci-pato alla Resistenza, che sono stati deportati nei lager nazisti, o che hanno, a rischio della propria incolu-mità personale, favorito la fuga degli ebrei milanesi all’estero. La cronaca si intreccia pertanto con la grande storia attraverso il racconto di chi ne è stato protagonista. Il merito della ricerca è quello di avere messo dove-rosamente in evidenza e sottratti all'oblio, il contributo e i1 sacrificio dei numerosi pompieri milanesi, come Pericle Todescato.

Il cappellano Don Lazzaroni è elemento attivo per la corrente umani-taria che si delinea in seno al 52° Corpo, quando a Milano, dopo 18 settembre 1943, cominciano ad afflu-ire i primi prigionieri alleati fuggiti dai campi di prigionia del Lodigiano. La casa parrocchiale in via Luini 2 e l’abitazione del cappellano alla Bicocca sono sicuro rifugio per le persone braccate dai nazifascisti. Al loro sostentamento pensa sempre il Corpo.

i pompieri milanesi e i bombardamenti

Con l'entrata in guerra il Corpo dei Vigili del Fuoco viene mobilitato. I primi due bombardamenti sull'area milanese giungono a soli cinque giorni dall'entrata in guerra dell'Italia, nelle notti tra il 15 e il 17 giugno 1940.

Il più consistente bombardamento, dopo il 10 giugno 1940, di settanta aerei inglesi su Milano, avvenne il 24 otto-bre 1942, di giorno. Milano è in fiamme. Una bomba colpisce anche il deposito di vino della ditta Da Rios in piazzale Bacone. I cittadini, ricoverati in un rifugio adiacente, muoiono affogati nel vino. Seguiranno i terribili bombarda-menti su Milano dell'agosto del 1943. La statistica degli interventi effettuati dai pompieri a Milano per tutta la durata bellica è impressionante: 8.900 spegni-menti di incendi, oltre ai salvataggi di persone, alle demolizioni di stabili peri-colanti, alla predisposizione di servizi vari, come l’uso delle autolettighe.

pompieri milanesi sul san martino

Vengono alla luce le figure dei pompieri milanesi che hanno parte-cipato alla battaglia del Monte San Martino, svoltasi dal 13 al 15 novembre del 1943, nel territorio della provincia di Varese, in prossimità con il confine svizzero, ricordata come l’episodio che diede inizio alla lotta partigiana nel Nord Italia e come uno dei primi e significativi esempi di opposizione all’occupazione nazifascista. Sergio Caminata (caduto nei giorni della battaglia), Amedeo Limonta, Aldo Dal Cin, Guglielmo Fagnani, Gianfranco Mariconti, Aldo Tommasi sono alcuni dei nomi dei Vigili del Fuoco che si unirono alla formazione del tenente colonnello Croce.

in Val d'ossola

Altrettanta evidenza viene data al contributo dei Vigili del Fuoco mila-nesi in Val d'Osso1a, militanti nella formazione del capitano Beltrami.

Un ricordo particolare alla figura del gappista Elio Sammarchi, Medaglia d'argento della Resistenza. Durante le esequie del federale Aldo Resega, Sammarchi e Sergio Bassi aprono il fuoco sul corteo funebre provocando scompiglio tra le camicie nere. Resega fu ucciso a Chesio il 9 maggio del 1944.

silvano martinini

Silvano Martinini, altra grande figura dell’antifascismo, fu catturato, tortu-rato e ucciso, con altri due partigiani dai paracadutisti repubblichini del battaglione Nembo acquartierato a San Maurizio Canavese, in un edificio sco-lastico, divenuto luogo di detenzione dei partigiani.

internati militari italiani Molti Vigili del Fuoco arruolati

nell'esercito finirono dopo l'8 settem-bre 1943 nei lager tedeschi come Internati Militari Italiani insieme ai nostri 650.000 soldati che preferirono restate nei campi di concentramento nazisti, piuttosto che cedere alle lusinghe della Repubblica di Salò: periodicamente esponenti della Rsi si recavano nei lager promettendo ai nostri soldati il ritorno in Patria, a condizione che aderissero alla RSI.

episodi

Dopo il bombardamento della sede della questura in piazza San Fedele, anche lo scantinato dell'uf-ficio politico dove erano custoditi lo schedario e il materiale sequestrato ai soggetti segnalati come sovversivi, viene distrutto. I pompieri, accorsi sul luogo, fanno di tutto per rendere irrecuperabile questa pericolosa documentazione. Nel libro viene ricor-dato anche il sabotaggio organizzato dai Pompieri milanesi nel 1944 alla Franco Tosi di Legnano per impedire il trasferimento dei grandi macchinari in Germania.

moschettini

A Milano una delle basi operative dell'ORI (Organizzazione Resistenza Italiana) una sorta di servizio segreto italiano, ha sede nel Politecnico. Fran-cesco Moschettini si attiva nel servizio informazioni, alle dirette dipendenze di Ferruccio Parri e diventa valido collaboratore di Enzo Boeri (responsa-bile del servizio radio).

Si occupa del contatto diretto con gli

Alleati tramite un servizio di radiotrasmittenti, di cui una installata nel Politec-nico, nell'aula di Fisica, messa a disposizione dall'ing. Setti, assistente dell'ateneo e ufficiale volontario del Corpo. Il 21 settembre 1944 Moschettini, per una dela-zione, è arrestato e consegnato alle SS. Muore a Mauthausen il primo marzo 1945.

resistenza come impegno di ogni giorno

A questa riflessione, a questo vero e proprio esame di coscienza ci invitava Piero Calamandrei nel discorso tenuto a Milano, al Teatro Lirico il 28 febbraio 1954, quando osservava che la ricerca del significato della Resistenza voleva dire “indagare dentro di noi per verificare cosa è rimasto di vivo della Resi-stenza nelle nostre coscienze; che cosa ci sentiamo ancora capaci di trasmettere di quel tempo a coloro che verranno dopo di noi, se veramente, da quel che di nuovo accadde allora nel mondo, qualcosa si è rinnovato dentro di noi o attorno a noi, oppure, se chiuso quel periodo tutto è ritornato e ritornerà come prima e rimarrà il rammarico avvilente di non essere stati degni di quel monito”. E concludeva queste sue considerazioni sottolineando che fare la celebrazione del passato vuol dire guardare dentro di noi, interrogarci e compiere il nostro esame di coscienza. Rispetto a questo interrogativo mai, finora, ci siamo ritrovati con animo così turbato come oggi. Siamo di fronte, nel nostro Paese, attraversato dal preoccupante rifiorire di movimenti antisemiti, xenofobi e neofascisti, ad una caduta senza precedenti dell’etica pubblica, a un’implosione di tutti i valori, a un allentamento delle tensioni politiche e morali, al manifestarsi quasi quotidiano di fenomeni di corruzione, sino alla scoperta di infiltrazioni della criminalità organizzata nella stessa amministrazione pubblica. Occorre una vera e propria rivolta morale, alla quale ci chiamano i Combattenti per la Libertà, una vera e propria rigenerazione e rinascita etica della società. Bisogna rilanciare la cultura della legalità repubblicana, il richiamo alla Costituzione nata dalla Resistenza e ai valori dell’antifascismo”.

Eroi nascosti Eroi nascosti

IL RUOLO DEI POMPIERI NELLA LOTTA AL FASCISMO

Pompieri milanesi durante la Resistenza

1716 L'ultimo saluto L'ultimo saluto

L'ANPPIA NAZIONALE SALUTA TRE GRANDI ANTIFASCISTI SCOMPARSI IN QUESTI MESI: GARIBALDO BENIFEI, CLAUDIO CIANCA, GOFFREDO VIGNOZZI

Garibaldo Benifei ci ha lasciato

Garibaldo Benifei ci ha lasciato.

Il più anziano degli antifascisti ita-

liani, perseguitato politico, comu-

nista. Si chiamava come suo padre,

morto 3 mesi prima che lui nascesse,

e suo padre si chiamava così perché

era nato nel 1863: “La famiglia era

repubblicana: essere repubblicani

nel 1863 vuol dire essere quelli che

oggi vogliono cambiare la società”.

Aveva 103 anni ed era di Livorno.

Non ha visto il suo 70esimo 25 aprile

perché ha lasciato tutti il giorno

prima. Ha lasciato tutti compresa

Osmana Benetti, sua moglie, anche

lei antifascista e partigiana. Insieme

hanno continuato a girare le scuole

per parlare ai ragazzi, raccontare le

loro storie, dire cosa vuol dire essere antifascisti, fino all'ultimo giorno. Garibaldo

è lo stemma dell’antifascismo livornese. Alla festa per i suoi cent’anni, raccontò

di uno dei suoi tanti arresti mentre rientrava a casa: “Guarda, dissi ai miei amici,

questi vi aspettano me. Difatti uno si avvicinò e mi disse: oh Benifei bisogna che

tu venga ’on noi. E dove? Dice, ai domeni’ani. Ah sì? Allora ’spettate che mi cambio

perché c’avevo i vestiti della festa e in carcere c’erano le cimici. Allora vado su, mi

cambio. Ci si incammina per andare al carcere. Per la strada uno mi dice: dé, ma

tutta questa strada a piedi. Loro c’avevano le biciclette. Io dissi: dé, io ‘un ce l’ho la

bicicletta. Dice: ti si monta sulla canna. E così… sono stato il primo cittadino che va

in carcere sulla canna della bicicletta”. Ricordava che Costanzo Ciano presidente

della Camera dei fasci e consuocero del Duce, era morto dopo una cacciuccata in

Borgo Cappuccini. Ciano, che i livornesi avevano ribattezzato Ganascia non solo

perché mangiava a tavola, ma perché mangiava anche al tavolo, quello degli affari.

Garibaldo era di Campiglia, e lì viveva con sua madre Maria, ultimo di 12 fratelli.

Aveva 9 anni quando le squadracce gli incendiarono casa, in via Cavour. L’anno

dopo le camicie nere fanno irruzione per cercare Antonio e Rito che però erano già

scappati a Livorno. I fascisti spaccarono tutto. Mamma Maria, con Garibaldo, le

tre sorelle e Eros provarono a riordinare le stanze: “Non passò tutta la mattina che

venne un messo comunale con un biglietto da chi era entrato al posto del sindaco

(defenestrato, ndr) che diceva che la famiglia Benifei non era gradita e non rispon-

deva della nostra incolumità”.Avrebbero dovuto lasciare Campiglia entro 4 ore.

Non è solo lo spirito dei fratelli che lo porta sulla strada che diventerà la sua vita.

Sono le sue orecchie a funzionare bene, le sue orecchie di garzone di bar. Prima

lavora al “Bizzi” di via Solferino, nel quartiere San Marco, luogo di ritrovo di an-

tifascisti, poi al “Bristol” di piazza Cavour nello stesso palazzo della federazione

livornese del Partito nazionale fascista. Nel 1931 entra nel Partito Comunista

clandestino e il fratello Eros, tornato da Parigi dov’era espatriato, gli chiede di

portare materiale di propaganda ai compagni: volantini, manifesti, copie dell’U-

nità. La clandestinità, il silenzio. Il silenzio anche come arma, come strumento

di ribellione. Quando nel 1933 muore il compagno Mario Camici (ammalato dopo

un periodo in carcere) Garibaldo insieme ai dirigenti della federazione giovanile

del Pci organizza i funerali che diventano un imponente corteo contro il regime, a

quell’epoca arrivato al massimo della forza. Ci sono anche molti non comunisti. La

polizia fascista capisce che non è aria e decide di non intervenire. Ma dopo qualche

settimana Garibaldo viene arrestato. Sarà la prima volta e non l’ultima. Lo accu-

sano di tentata riorganizzazione del partito, propaganda ed apologia sovversiva e

stampa clandestina di manifesti sovversivi. Questura, botte come se non ci fosse

speranza di un domani, tribunale speciale, Regina Coeli, carcere dei Domenicani.

Qui conosce Sandro Pertini, ma non

vedrà più la madre che nel frattempo è

morta. L’Ovra non gli staccherà più gli

occhi di dosso. Nel 1937, entusiasta per

le vittorie dei repubblicani durante la

guerra civile in Spagna, tenta di imbar-

carsi su un motoscafo a Calambrone

(da dov’erano partiti alcuni dei Mille

una settantina d’anni prima) per

attraversare il Mediterraneo: non lo

arrestano solo per un caso. Nel 1939,

insieme ad altri dirigenti comunisti,

fa stampare 10mila volantini contro la

guerra che di lì a poco sarebbe diven-

tata realtà con l’invasione della Polonia

da parte della Germania hitleriana.

Il regime fascista va subito a cercare

lui, Garibaldo, che si occupava del

materiale di propaganda. Questura,

tribunale speciale, questa volta la pena

è di 7 anni. Lo mandano nel carcere di

Castelfranco Emilia da dove uscirà solo

un mese dopo la caduta di Mussolini, il

26 agosto 1943.

Benifei torna a Livorno e quasi

non la riconosce, è massacrata dai

bombardamenti alleati, deserta,

ma non ancora liberata (bisognerà

aspettare il 19 luglio 1944). Entra

nel Cln, è una specie di ufficiale di

collegamento tra le province della

costa. È lo stesso settore di Osmana.

Si conoscono dentro al Pci. Una

volta vanno insieme, in bici, fino a

Gabbro, una frazione in collina, con

salite non da poco. Sarà, il loro, il

primo matrimonio civile di Livorno

nel Dopoguerra, il celebrante è

il sindaco comunista e storico

Furio Diaz, le fedi sono in acciaio

realizzate dagli operai del cantiere

navale. Per tutta la vita Garibaldo e

Osmana si completeranno a vicenda.

Si regalarono una nuova vita, un

nuovo mondo, e lo regalarono ai loro

bisnipoti. “La democrazia non è per

sempre – avvertì Garibaldo mentre

gli davano la Livornina, la massima

onorificenza della città – È una

conquista che va rinnovata, di giorno

in giorno. Io sto dedicando questa

parte della mia vita a incontrare i

giovani nelle scuole di ogni ordine,

a parlare di ciò che abbiamo passato.

Perché ricordatevelo: non siamo al

riparo da tutti i rischi“.

Addio a Claudio Cianca, antifascista e perseguitato politicose ne Va a 102 anni l'ex Vice presiDente Dell'anppia nazionale. figura Di spicco Dell'antifascismo italiano. la sua Vita un esempio per le gioVani generazioni.

“È morto un leone, al quale eravamo

teneramente affezionati, per il suo stretto

legame con l’ANPPIA, e anche per quello

che ha fatto per i lavoratori del mondo

edile, per la sua strenua lotta contro i

palazzinari romani e le loro prepotenze, in

un momento in cui ci voleva del coraggio

per andare contro i loro poteri forti. Claudio

venne arrestato da giovanissimo, per aver

fatto esplodere una bomba dimostrativa a

San Pietro, un atto per risvegliare il sopito

antifascismo di molti. Per questo pagò con

un decennio di carcere politico, e uscito nel

1943, diventò partigiano e lottò contro le

truppe naziste e i collaboratori fascisti. Era

di carattere deciso, ma un uomo mite,

assolutamente fedele ai suoi ideali di libertà

e giustizia, nel partito, nel sindacato,

dentro la nostra associazione. Faceva

parte del Comitato di Presidenza Onoraria

dell’ANPPIA, e già Vice Presidente della

nostra associazione. Ci mancherà, ma il

nostro impegno per ricordarlo e ricordare

tutti gli antifascisti come lui sarà ancora più

determinato. Addio Claudio.”

Guido Albertelli,

Presidente dell’ANPPIA Nazionale

È morto poco prima di compiere

102 anni Claudio Cianca, storico

protagonista della Resistenza, una vita

intensissima, un tutt’uno con il suo

impegno di militante e uomo politico.

Era nato a Roma il 4 settembre del 1913.

Attivo antifascista, con il padre Renato,

vittima di numerose aggressioni, e con

Leonardo Bucciglioni, la domenica del

25 giugno 1933 aveva fatto esplodere

una bomba ad orologeria, progettata

perché non arrecasse danni, nel

pronao della basilica di San Pietro in

Roma. Il gesto era rivolto contro la

politica del Vaticano, accusato dalla

“Concentrazione antifascista” di

favorire il regime fascista ed avrebbe

dovuto dimostrare alle migliaia di

pellegrini convenuti a Roma per l’Anno

Santo, come il regime fosse odiato e

attivamente combattuto in Italia dai

movimenti d’opposizione popolare.

Per quel gesto Claudio Cianca insieme

agli altri due fu arrestato, processato

e condannato a 17 anni di reclusione.

Ne scontò dieci, liberato alla caduta

del fascismo, partecipò alla Guerra di liberazione dirigendo nel Lazio formazioni

partigiane, prima quelle del movimento di “Giustizia e Libertà” e poi in quelle

garibaldine. Nel corso della lotta armata aderì al Partito comunista che poi, nel 1953,

lo candidò alla Camera dei deputati, della quale fece parte per più legislature, fino

al 1972. Ma fu a lungo anche consigliere comunale in Campidoglio con Giuseppe Di

Vittorio e Oreste Lizzadri.

È stato membro della presidenza dell’Anppia, l’Associazione Nazionale Perseguitati

Politici Italiani Antifascisti. E a Roma il suo nome è legato anche all’impegno nella

Cgil alla guida degli edili (dal ’45) e della prima Camera del lavoro (dal ’49) per

poi diventare segretario generale della Fillea (dal ’66 al ’69). In un libro curato da

Giuseppe Sircana e in un dvd pubblicati, sul finire del 2009, dalla Ediesse col titolo

“Il mio viaggio fortunoso”, Claudio Cianca, quasi centenario, ripercorse con grande

lucidità le esperienze di anni molto, molto difficili.

Ci lascia uno degli ultimi perseguitati politici: Goffredo Vignozzi, antifascista di Vinci

l'anppia nazionale comunica con Dolore la sua scomparsa

L’ANPPIA Nazionale dà con dolore la notizia della scomparsa di un suo grande

socio, Goffredo Vignozzi, di Vinci(FI), attivo nella Federazione dell’ANPPIA

di Empoli. Goffredo è stato uno degli ultimi perseguitati politici ancora in

vita, un esempio per tutti noi. Attivo dal 1934, viene arrestato nel giugno

1937 per appartenenza ad una vasta organizzazione sovversiva che agiva tra

Empoli e Firenze. Condannato a 4 anni, di cui 2 anni condonati, il 7.6.1938.

Recluso a Gaeta perché è militare. Liberato nel giugno 1939 e richiamato alle armi,

viene vigilato fino al 1943, partecipa poi alla Resistenza con un ruolo attivo. Rimane

nell’ANPPIA fino ad oggi, uno degli ultimi testimoni di quel periodo triste quale

è stato il ventennio fascista. Nei

prossimi numeri pubblicheremo un

intervista fatta a Goffredo, tratta

da un video registrato dall'ANPPIA

Nazionale tre anni fa.

l'anppia nazionale saluta il suo presiDente onorario, morto a 103 anni nella sua liVorno

Garibaldo Benifei

Claudio Cianca parla ad un comizio nel primo dopo guerra

1918 Attualità

PIZZONI, IL BANCHIERE PARTIGIANOdi Filippo SENATORE

Grazie al vivace circuito di idee promulgato dall’infa-ticabile amico e maestro Gianni Iudica, abbiamo scoperto il talento di un grande musicista, il mila-

nese Mario Delli Ponti (scomparso nel 2010). Il pianista che ha avuto al suo attivo una brillante carriera internazio-nale, ha lasciato un segno nella musica della seconda parte del secolo scorso. In un libretto in cui si commemora la sua vita compare un suo scritto con un omaggio all’amico Alfredo Pizzoni, uno dei capi della Resistenza italiana da molti dimenticato per il suo carattere schivo e per essersi tenuto fuori dalla politica nel Dopoguerra. Molti partigiani furono dimenticati per l’ottusità di una storiografia mili-tante e non obiettiva che ha sminuito la partecipazione al movimento di liberazione di una parte importante che aveva subito il carcere duro e l’esilio (azionisti, liberal-socialisti, mazziniani, repubblicani e anarchici).

Pizzoni non era iscritto a nessuno dei partiti del CLNAI

e, proprio per questo, fu ritenuto la persona più idonea a mantenere l'equilibrio interno del Comitato, di cui, dal settembre 1943 e per tutto il periodo della lotta clandestina, fu il Presidente.

Era nato a Cremona il 20 febbraio 1894. Figlio di un generale, Alfredo Pizzoni aveva combattuto durante la prima guerra mondiale guadagnandosi una Medaglia d'Argento. Si era poi laureato in legge ed aveva iniziato a lavorare in banca, divenendo un esperto di finanza molto apprezzato. Nel Secondo conflitto mondiale indossò di nuovo la divisa, col grado di Maggiore dei bersaglieri e decorato con una Medaglia di bronzo al valor mili-tare. Ancor prima dell'armistizio, Pizzoni s'impegnò per riportare la democrazia nel Paese. Fu, infatti, dopo il 25 luglio 1943, tra coloro che parteciparono a Milano alle riunioni di quel "Comitato delle opposizioni" che sarebbe

Personaggi

LA CASA DI HITLER, UN PROBLEMA PER L’AUSTRIA

Il mostro del ventesimo secolo morì suicida nel suo Bunker, nella Berlino presa dai reparti scelti del maresciallo Zhukov - scrive Andrea Tarquini su “Repubblica”- ma il suo ricordo continua a pesare sul mondo come un

passato che non passa. Soprattutto in una tranquilla cittadina austriaca, Braunau am Inn, dove il fondatore del nazismo, l’austriaco più famoso del mondo, ossia Adolf Hitler, nacque il 20 aprile 1889. L’edificio giallo nel tipico stile neoclassico alpino, indirizzo Salzburger Vorstadt civico 15, è da decenni di proprietà di una caparbia signora, tale Gerlinde P. (cognome taciuto per la difesa delle sfera privata) che rifiuta ogni collaborazione con le autorità. E allora il governo austriaco adesso ha detto basta: non ci fidiamo della signora, e non vogliamo correre il minimo rischio che quella palazzina diventi luogo di pellegrinaggio di neonazisti da tutto il mondo. Quindi Gerlinde P. si è vista recapitare dall’effi-ciente posta federale della repubblica alpina un ultimatum: o vende la casa al governo, a un prezzo propostole e tenuto segreto, oppure le sarà espropriata.

“Noi vogliamo e dobbiamo evitare a ogni costo che quella casa venga utilizzata in modo discutibile, non lecito, nostalgico”, ha detto Karl-Heinz Grundbock, portavoce del ministero dell’Interno federale. Già nel 1972, in realtà, lo Stato austriaco è intervenuto nel controllo dell’edificio: paga a Frau Gerlinde circa 5000 euro mensili, in cambio dell’impegno stabilito da una legge, a lasciar utiliz-zare la palazzina solo da associazioni educative, di assistenza sociale o della efficiente ma pletorica burocrazia pubblica.

Per qualche anno, fanno sapere i governanti di Vienna, si era sperato di aver trovato una soluzione per “la casa più imbarazzante del mondo”. Poveri citta-dini di Braunau, il pianeta intero conosce la loro città natale solo perché quel giorno lontano del 1889 Klara, moglie del doganiere Alois Hitler, dette i natali al piccolo Adolf. Inutile spiegare a visitatori o a conoscenti d’ogni paese che gli

Alfredo Pizzoni

diventato in seguito CLN di Milano e poi Comitato di Liberazione Nazionale dell'Alta Italia.

Alfredo Pizzoni (che si chiamò, di volta in volta, con il nome di battaglia di "Alfredo", "Biancardi", "Melino", "Paolo Felici" e da ultimo "Pietro Longhi"), ebbe un ruolo di primo piano grazie alla sua padronanza della lingua inglese, all’esperienza professionale e alle sue conoscenze internazionali. Così egli concluse importanti operazioni con gli Alleati. Il 9 dicembre 1944, a Caserta, stipulò un accordo che portò alle casse della Resistenza centinaia di milioni di vecchie lire. Pizzoni ottenne dagli angloameri-cani con i “Protocolli di Roma”, il riconoscimento ufficiale del Comitato di Liberazione come unico centro coordina-tore dell'attività resistenziale. L’accordo rafforzò la lotta contro i nazifascisti. Avversato ingiustamente dai comuni-sti, a ridosso dell'insurrezione d'aprile (1945), approfittando della sua assenza per una sua missione al Sud, fu sostituito

a presiedere il CLNAI da Rodolfo Morandi. Dopo la Liberazione, Pizzoni continuò fino al giugno

1945 la sua attività all'interno del CLNAI, presiedendone la Commissione finanziaria. Partecipò quindi alla Costituente e poi, tornato all'attività bancaria, assunse la presidenza del Credito Italiano. Di Pizzoni morto a Milano il 3 gennaio 1958, il maestro Mario Delli Carri estrae un profilo mirabile di uomo probo ingiustamente criticato per aver raggiunto risultati diplomatici eccellenti che aumentarono il prestigio internazionale del Comitato italiano di Liberazione, presie-duto da Ferruccio Parri.

Il banchiere partigiano andrebbe ricordato da tutti gli italiani come testa pensante ed eroe della Resistenza. Noi onoriamo questo cittadino milanese, grazie alla puntigliosa lezione del maestro Delli Carri. A 70 anni dalla Liberazione innalziamo il suo ricordo imperituro sull’altare della Patria.

Hitler vissero là pochissimo, e presto traslocarono altrove.

Centri sociali, uso umanitario? Nulla da fare, perché Frau Gerlinde non ha mai accettato di collabo-rare. Ha violato anche la legge, quella del ’72 appunto, che la impegnava a restauri per salvare la casa del degrado, per cui un’associazione di assistenza ai disabili ha dovuto traslo-care: troppa muffa e umidità. E non è finita: Gerlinde, che parla solo per bocca del suo legale, ha vietato alle autorità di porre sul frontale della casa una lapide della Memoria, che ricor-dasse gli orrori inflitti al mondo da quel neonato del 1889, scrive Tarquini. Povero governo austriaco, la lapide è stata messa in strada poco lontano. “Per la pace, la libertà e la democrazia, mai più fascismo, milioni di morti ci ammoniscono”, dice l’iscrizione.

Alla fine, il governo di Grosse Koalition (cancelliere socialista, vice democristiano) ne ha avuto abba-stanza. La minaccia di esproprio è stata recapita. Sta per ricorrere il settantesimo anniversario della disfatta del “Reich millenario” e della fine della seconda guerra mondiale, meglio non sottovalutare il rischio di pellegrinaggi o adunate di nostal-gici. Meglio anche evitare gaffes come quella dell’allora (2012) borgoma-stro democristiano (Oevp) Johannes Waidbacher, secondo cui “non servono altri memoriali, la nostra città non ha colpa della guerra”. Molti come il politologo Andreas Maislinger, sugge-riscono di fare della casa un “luogo della Responsabilità per la memoria”.

La città vi ospiterebbe volentieri una scuola popolare, o un’organizza-zione umanitaria. Ma in Austria non esistono leggi sull’uso di problema-tisches Kulturgut, cioè di luoghi o edifici dal ruolo storico pesante e negativo.

Chi sa allora che fine farà la casa natale di quel che Karol Wojtyla chiamò “Il Male assoluto”? Noi speriamo che venga trovata una solu-zione intelligente e non speculativa, ma se proprio dev’essere un'ingom-brante presenza per l’Austria, meglio disfarsene destinando l’area a verde pubblico. (j.m.)

La casa natale di Hitler a Braunau Am Inn, in Austria

2120 Memoria Memoria

COSÌ LIBERAMMO MILANO:DECISIVA LA GUARDIA DI FINANZA

Un ruolo importantissimo è stato svolto dalla Guardia di Finanza nella Resistenza e

nella Liberazione di Milano.L'azione cospirativa nelle file della

Legione della Guardia di Finanza di Milano ha le sue premesse nell'opera che, spontaneamente, svolgono i mili-tari del Corpo sin dai primi giorni dopo l'armistizio in aiuto dei soldati italiani sbandati, dei militari alleati evasi dai campi di prigionia, dei patrioti e dei perseguitati politici, che affluiscono ai valichi di frontiera per riparare in Svizzera.

“Il 13 giugno 1944 – scrive il colon-nello Alfredo Malgeri nel libro L'occupazione di Milano e la Libe-razione – come da intese intercorse viene a trovarmi nel mio ufficio Ruggero Brambilla (nome di battaglia “Nello”), capo del gruppo di patrioti col quale operano il sottobrigadiere Enzo Passariello e il finanziere Rada-mes Zerbini. Egli si presenta come fiduciario del Comitato di Liberazione Nazionale per la Lombardia e mi

domanda se intendo dare il mio aiuto al movimento clandestino. È un po' emozionato, ma sa dominarsi; sorride mentre parla. Lo ascolto con simpatia e gli chiedo in che modo potrò aiutare il movimento.

“Vogliamo soltanto” egli dice “che ci faciliti il trasporto di plichi e di materiali importanti da una località all'altra”.

Mi chiarisce che questi trasporti potranno essere effettuati da militari del Corpo già agganciati con lui, ma è necessario, per non esporre troppo i militari stessi, creare servizi fittizi o disporre, a seconda dei casi, trasferi-menti, in base alle indicazioni che mi verranno date di volta in volta.

Aderisco alla richiesta. Alfonso Galasi, (nome di battaglia

“Nino”), comandante della 3ª Gap II distaccamento e i suoi uomini danno continuità alle trattative da mesi avviate da Ruggero Brambilla, Gigi Campegi (sarà fucilato il 2 febbraio 1945 con altri 4 gappisti al Campo Giuriati) ed Enzo Passariello con il

colonnello Alfredo Malgeri, coman-dante della Guardia di Finanza di Milano.

Con l'approssimarsi della data dell'insurrezione “Alfonso Galasi – ricorda il colonnello Malgeri – prende contatto con me, per chiarire la nostra posizione e prendere eventuali accordi per l'azione insurrezionale. Ci riuniamo in una casa di piazzale Lago-sta, indicata dallo stesso “Nino”. Il colloquio - al quale partecipa anche lo stesso Passariello - si svolge in un'at-mosfera di reciproca fiducia. Espongo il mio punto di vista; chiarisco meglio quali siano i sentimenti della quasi totalità dei militari della mia Legione; espongo sommariamente i nostri piani insurrezionali.

Alfonso Galasi ne prende atto con soddisfazione, riconoscendo l'impor-tanza dei compiti che ci siamo assunti. Anche nei riguardi dei nostri senti-menti politici intendo chiarire la nostra posizione.

Faccio presente che noi siamo a contatto con patrioti appartenenti a tutti i partiti, facendo astrazione dal loro colore politico; ad essi affratel-lati, intendiamo collaborare e lottare per liberare il Paese dalla oppres-sione nazifascista; fare un fronte unico da buoni italiani, nell'interesse della Patria martoriata e dell'umanità oppressa. Non uomini di parte quindi siamo, nel significato corrente della parola, ma soltanto italiani.

“Nino” è pienamente d'accordo anche su questo mio punto di vista. Ci siamo incontrati da amici; ci sepa-riamo ora, considerandoci fratelli, uniti non soltanto dalla stessa speranza e dagli stessi pericoli, ma anche dallo stesso pensiero.

Intanto il piano insurrezionale per la Guardia di Finanza di Milano viene da me consegnato a Liberti, il quale dopo qualche tempo mi comunica che esso ha avuto l'approvazione del Comando Generale del Corpo Volon-tari della Libertà.”

Scriveva Leo Valiani nella prefa-zione del citato libro del colonnello Alfredo Malgeri: “A Milano la Guar-dia di Finanza collabora già con il CLNAI e segnatamente col Presi-dente di questo organismo il patriota

Alfredo Pizzoni. A Milano la Liberazione sarebbe stata affi-data in primo luogo alla Guardia di Finanza. Malgeri, che la comandava, disponeva solo di 400 uomini, armati di moschetti. In campo aperto non avrebbe potuto affrontare le migliaia di tedeschi e di fascisti modernamente armati che tenevano il campo a Milano.

Ma eravamo convinti che la sorpresa di veder capeg-giata l'insurrezione dall'azione imprevista, coraggiosa, risoluta della Guardia di Finanza avrebbe demoralizzato i fascisti e indotto i tedeschi a tenersi sulla difensiva". E fu Leo Valiani a scrivere, nella serata del 25 aprile 1945, l'or-dine di insurrezione, affidato per la sua esecuzione alla Guardia di Finanza. “Lo mandai – osserva Valiani – al colonnello Malgeri tramite Augusto De Laurentiis, che qualche settimana prima era stato catturato dai fasci-sti, ma aveva resistito agli interrogatori e il mattino del 25 aprile era riuscito ad evadere dalla prigione e a raggiun-gerci immediatamente. Egidio Liberti era nella caserma della Guardia di Finanza (caserma “5 Giornate” con sede in via Melchiorre Gioia) nell'ufficio di Malgeri. Insieme elabo-rarono il piano insurrezionale operativo e lo eseguirono brillantemente all'alba. La sorpresa per i fascisti e i tede-schi fu totale. Il mattino presto del 26 aprile, la Prefettura, e tutti gli uffici pubblici di Milano erano presidiati dalla Guardia di Finanza, che li consegnò al CLNAI e alle nuove autorità democratiche da esso designate".

Il colonnello Alfredo Malgeri, ricorda la memorabile giornata del 26 aprile 1945, con queste parole: “Al prin-cipio di Corso di Porta Nuova siamo attaccati da elementi della X Flottiglia Mas con nutrite raffiche di mitragliatori. Rispondiamo energicamente al fuoco; poi proseguiamo la marcia. Dopo altri scontri, alcuni dei quali particolarmente violenti, sempre risoltisi con esito favorevole, il IV batta-glione, a mia disposizione, raggiunta piazza Tricolore, si dispone per l'attacco della Prefettura.

Questa, all'intimazione del tenente de Laurentiis, si arrende. La occupo pertanto immediatamente, cattu-rando gli agenti di PS che la custodiscono e alcuni militari

tedeschi che sono subito disarmati.Alle 6 circa faccio occupare da elementi del reggimento

resisi disponibili il Palazzo della Provincia, il Municipio, il Comando regionale repubblicano. In seguito agli ordini del Comando Piazza viene occupata la stazione dell'Eiar.

Verso le 8 dò l'annunzio alla città dell'avvenuta libera-zione, facendo suonare per tre minuti le sirene del posto centrale di avvistamento aerei.” 5)

“Due fatti voglio ancora ricordare”, scrive Leo Valiani. “Nella notte dal 25 al 26 aprile i giornali antifascisti, soppressi dalla dittatura fascista venti anni prima, usci-rono liberamente, nelle tipografie di piazza Cavour e via Solferino, protetti dalla Guardia di Finanza. Tornava la libertà di stampa. A partire dallo stesso 26 aprile, la Guardia di Finanza cooperò efficacemente, per il rista-bilimento dell'ordine, e per la rinascita dell'economia, col Prefetto della Liberazione e con la Commissione Economica del CLNAI, presieduta, sin dal periodo della clandestinità da Cesare Merzagora. L'Italia riprendeva a lavorare, alacremente, nella nuova legalità democra-tica". Riccardo Lombardi, primo prefetto della Milano liberata, in una sua lettera datata 14 aprile 1982, ha così scritto: “Mantengo vivissimo ricordo di quella giornata del 1945, quando insieme al Corpo della Guardia di Finanza compatto, concludemmo con l'occupazione dei centri di potere pubblico una lunga vicenda di collaborazione svol-tasi nell'arco di venti mesi di resistenza armata.

Ricordo in particolare l'opera esemplare per corag-gio, saggezza e determinazione dell'allora comandante Colonnello Alfredo Malgeri al quale la stretta collabora-zione mi legò con vincoli di autentica amicizia. Ritengo di poter affermare che la Guardia di Finanza milanese fu in tutta Italia l'unico Corpo che collettivamente partecipò fin dal primo giorno alla Resistenza.” Nel 1984, alla festa del Corpo, il Presidente della Repubblica Sandro Pertini decorò la bandiera della Guardia di Finanza con la Medaglia d'Oro al Valor Militare, per la partecipazione alla Resistenza e alla Guerra di Liberazione.

2322 Personaggi Cultura

a 22 anni Dalla morte

RICORDO DI GIORGIO BRACCIALARGHEdi Silvio POZZANI

Vent'anni fa circa, l'8 luglio 1993 a Roma, moriva Giorgio Braccialarghe

Nato a Pallanza nel 1911, era figlio di Comunardo Braccialarghe,

dal quale aveva tratto e fatta propria, nel suo spirito, la tradizione

garibaldina e libertaria. Giorgio, seguendo l'esempio paterno, era

entrato giovanissimo nel movimento anarchico e aveva percorso le

vie dell'esilio in Sudamerica, dove si era andato segnalando come

giornalista e pubblicista. Là aveva avuto occasione di stringere

amicizia con il celebre filosofo spagnolo Josè Ortega y Gasset e

soprattutto con il grande poeta Federico Garcia Lorca, di cui con-

servava un ricordo commosso. Nel 1936, allo scoppio della Guerra

Civile in Spagna, sentì il dovere di accorrere a difendere il legit-

timo Governo della giovane Repubblica iberica dall'“alzamiento”

del Generale Franco e dall'aggressione nazifascista, prima

a Barcellona, poi a Madrid. Qui si arruolò nel Battaglione

Garibaldi, che si era andato formando fra i volontari italiani an-

tifascisti, riallacciandosi così alla tradizione dei combattenti per

la libertà del Risorgimento, “Oggi in Spagna, domani in Italia”,

come Carlo Rosselli aveva indicato, da Radio Barcellona, in un

celebre messaggio e come lo stesso Giorgio Braccialarghe non

mancava di sottolineare, rievocando la sua esperienza bellica ibe-

rica nelle pagine del suo Diario spagnolo. In Spagna, ad Albacete,

deposito delle Brigate Internazionali, Braccialarghe conobbe

il Comandante del Battaglione Garibaldi, Randolfo Pacciardi.

L'incontro ebbe un'importanza fondamentale per le vicende suc-

cessive della sua vita. Pacciardi, infatti, riconobbe subito in lui la

tempra del combattente e il talento del comandante, affidandogli

la guida degli Arditi del Battaglione che, trasformatosi poi in

Brigata Internazionale, lo vide suo Capo Ufficio Operazioni: “Era

un fratello maggiore per tutti noi”, così Braccialarghe ricordava

Pacciardi, “Non si interes-

sava mai delle varie ideolo-

gie, ma giudicava a seconda

dei nostri comportamenti: io

ero già formato come carat-

tere, ma non direi come pre-

parazione politica, che affi-

nai in Spagna, consentendo a

Pacciardi di conquistarmi al

Partito Repubblicano”.

Un'esperienza, quella

spagnola, di capitale im-

portanza, seppur rischio-

sissima, nell'esistenza di

Braccialarghe: fra i garibaldini, rivisse, contro la minaccia

nazifascista, la tradizione dei volontari in camicia rossa per la

libertà, come, proprio Pacciardi, aveva ribadito, parlando da

Radio Madrid: “Noi abbiamo restituito Garibaldi all'Italia, noi le

abbiamo rievocate e riformate le Legioni Italiane che ieri a Cuba,

in Grecia, in Polonia, a Digione, nelle Argonne, oggi a Madrid,

domani chissà? - forse a Milano, forse a Roma - furono, sono e

saranno pronte a combattere e a morire dovunque si sospira, si

cospira, si lotta per la libertà.” Braccialarghe ebbe un ruolo di

assoluto rilievo nella vittoria repubblicana di Guadalajara (marzo

1937), in cui le forze italo–franchiste furono ricacciate indietro

e in cui, ancora una volta, come nei fatti d'arme precedenti,

esemplare fu la condotta dei combattenti italiani del “Garibaldi”,

posti direttamente e drammaticamente a confronto con altri

italiani: quelli delle formazioni militari fasciste, sconfitte e fatte

prigioniere.

I contrasti con la dirigenza comunista delle Brigate

Internazionali posero fine all'esperienza spagnola di

Braccialarghe, come a quella di Pacciardi, con il ritiro di entrambi

dai ranghi del “Garibaldi” e il loro passaggio in Francia.

Qui, Braccialarghe conobbe le sofferenze che dovettero patire i

repubblicani sconfitti, radunati nel campo di concentramento del

Vernet, dopo la tragica “retirada” in massa dal territorio iberico,

che la penna di Arthur Koestler mirabilmente ricreò in Schiuma

della terra. Ritornato in Argentina, Braccialarghe predispose un

piano audacissimo (“pazzesco” secondo la sua ammissione), per

cercare di contrastare l'entrata in guerra dell'Italia fascista, in

alleanza con la Germania hitleriana: salpare da Marsiglia, con

un centinaio di compagni, pronti a tutto, sbarcare nella notte in

una piccola spiaggia alla periferia di Nervi e tagliare le vie di co-

municazione ferroviarie e stradali, puntando su Genova; “Non mi

facevo illusioni circa il successo dell'operazione”, scriveva, “Non

era lo sviluppo dell'operazione che mi sembrava importante:

fidavo sulle ripercussioni destate dal nostro sacrificio”; e aggiun-

geva: “Pensarono le autorità francesi a far fallire il progetto, arre-

standomi". Dalle carceri di Francia, a quelle del Regime, in Italia;

quindi, al confino, nell'isola di Ventotene, dove, nel 1941, sotto-

scrisse quel Manifesto “per un'Europa libera e unita” che Ernesto

Rossi, Altiero Spinelli, Eugenio Colorni avevano redatto e che è il

vero e proprio atto di nascita del moderno federalismo europeo,

noto appunto con il nome di Manifesto di Ventotene. Dal con-

fino - da lui descritto nelle pagine dell'autobiografico Nelle spire

di Urlavento – lo fece uscire

la caduta di Mussolini (“È

caduto Mussolini!” Sentirò

risuonare questo grido fino

all'ultimo giorno della mia

vita. Lo porto con me, come

se si fosse scolpito nella mia

anima. Trascorrono gli anni,

ma esso rimane così nitido,

preciso che mi pare che il

tempo non abbia potuto af-

fievolirlo e l'aria ne continui

a vibrare”), che gli consentì

di riprendere il suo “posto

di combattimento”, prima nella Capitale, nelle Brigate Mazzini,

durante l'occupazione nazista, poi, nella zona di Pistoia, paraca-

dutato dagli Alleati, per una missione di collegamento delle unità

partigiane operanti sulle Alpi Apuane.

Alla fine del conflitto, l'impegno per l'affermazione della

Repubblica lo trovò ancora in prima linea, ma non la vita politica

e le conseguenti possibilità che questa poteva forse offrire.

Preferì la carriera diplomatica e fu ambasciatore e console in

Brasile e Argentina, fino al suo collocamento a riposo.

Il tempo non ha cancellato nella nostra mente la cara imma-

gine, né annullato il ricordo della sua figura e dell'onore della sua

preziosa amicizia.

nuoVa eDizione a cura Dell'anppia Di "aula iV", sui processati Dal tribunale speciale

ANTIFASCISTI ALLA SBARRAuna raccolta ponderosa che rappresenta un utile strumento di studio e di approfondimento per storici e appassionati

Dopo più di cinquant’anni dalla prima edizione di Aula IV, l’ANPPIA nazionale è orgo-

gliosa di presentare una nuova pubbli-cazione sul Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, il tribunale politico voluto da Mussolini e attivo dal 1927 al 1943. Il lavoro non poteva che partire dalla stessa Aula IV, ancora oggi rite-nuto giustamente uno strumento fondamentale per tutti coloro che vogliano studiare quello che da molti è considerato il principale “braccio giudiziario” della repressione mussoliniana.

Quel che però oggi l’ANPPIA propone non è solamente una nuova edizione di questo prezioso strumento di ricerca, del quale comunque non si può fare ancora a meno tanto che ne è stata digitalizzata l’ultima edizione, ormai risalente al 1976, che è ripre-sentata con gli stessi contenuti in un Cd-Rom allegato. Antifascisti alla sbarra riprende dunque questo libro e lo implementa, con nuovi contenuti e strumenti. Grazie alla collaborazione del presidente dell’ANPPIA di Cata-nia Claudio Longhitano viene spiegata la natura storica e giuridica del Tribu-nale Speciale, ne viene illustrata la storia e la sua evoluzione. Seguono poi trenta profili biografici di protagonisti della lotta antifascista, che non hanno però conosciuto in passato molti studi, e soprattutto oltre 5.400 schedine biografiche, una per ogni processato dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, che rappresentano il vero punto di forza dell’opera per la loro capacità di riassumere in poche parole l’intensa vita politica di questi attivi autori, per lo più quasi sconosciuti, della lotta antifascista.

È quindi con una certa emozione che l’ANPPIA pubblica Antifasci-sti alla sbarra, edito da Palombi editori: questi due tomi, più il Cd-Rom allegato, sono attesi da tempo ma permettono finalmente di offrire a tutti gli studiosi, agli appassionati di storia e anche a coloro che per la prima volta si interessano del Tribu-nale Speciale uno strumento unico. A differenza di Aula IV, che focaliz-zava maggiormente l’attenzione sui

processi, Antifascisti alla sbarra pone al proprio centro le donne e gli uomini che si sono opposti alla dittatura mussoliniana. In particolare, se i trenta profili biografici permettono di approfondire, con documenti e numerose notizie, l’ope-rato di persone che hanno dedicato i migliori anni della loro vita alla causa della libertà, le schedine biografiche offrono interessanti informazioni su tutti coloro che sono stati giudicati dal Tribunale Speciale. In entrambi i casi, comunque, il libro vuole offrire nuovi e intriganti spunti di riflessione per nuove ricerche sull’antifascismo e sui protagonisti che l’hanno animato. In particolare, le sche-dine biografiche che rappresentano il primo, vero tentativo di ricostruire la vita politica di molti tra i protagonisti della lotta antifascista: leggendo ciascun profilo viene ad esempio confermata pienamente la tesi che ipotizza il forte legame tra la lotta antifascista civile consumata tra il 1919 e il 1943, la Resistenza armata realizzata tra il 1943 e il 1945 e la nascita della Repubblica, con l’ele-zione dell’Assemblea costituente e la lotta per i diritti e le libertà tanto agognate. Questi tre periodi fondamentali per la storia contemporanea italiana ed europea trovano nel contributo di coloro che furono perseguitati durante il fascismo e gli altri regimi dittatoriali un filo rosso comune. Non solo molti tra i persegui-tati politici antifascisti rivestirono importanti cariche nella lotta resistenziale e nell’Italia repubblicana ma soprattutto essi hanno rappresentato, per l’espe-rienza del carcere, del confino, dell’esilio o di altre forme di persecuzione, una nuova generazione di italiani che hanno contribuito a creare la Costituzione e la democrazia. Antifascisti alla sbarra dimostra quindi come la lotta antifascista realizzata tra il 1919 e il 1943 è stata la condizione fondamentale di partenza per tutte le altre lotte, armate e non, e per il conseguimento dei valori sanciti dalla nostra Repubblica.

Antifascisti alla sbarra rappresenta quindi di un valido strumento di ricerca che non vuole sostituire ma affiancare le altre pubblicazioni che la nostra Asso-ciazione e altri enti hanno pubblicato in passato (l’elenco sarebbe troppo lungo: ci limitiamo a ricordare i volumi curati dall’Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito che raccoglie tutte le decisioni emesse dal Tribunale Speciale dalla sua nascita al 1943 e i tre volumi de L’Italia dissidente e antifascista, in cui invece sono presenti le ordinanze e le sentenze istruttorie del Tribunale Speciale). L’ANPPIA è dunque particolarmente felice di offrire in questo momento storico, in cui la lotta antifascista non deve né può cedere il passo alle nuove forme di fascismo del XXI secolo, uno strumento che riteniamo indispensabile per lo studio del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato e dei protagonisti che hanno dedicato i migliori anni della loro giovinezza alla lotta antifascista. (m.g.)

Foto segnaletica di Giorgio Braccialarghe (dal CPC)

2524 Arte Memoria

di Martina PARODI

N el campo avevo un quaderno. Non più di 20 righe. Avevo troppa paura, il fatto stesso di scrivere era sospetto. Non erano appunti, era la

voglia di tenere appunti, tanto sapevo che non avrei potuto conservare nulla. Se non avere memoria.

Così Levi evidenziava la sua condizione nel campo di Auschwitz…. Un vagone, di quelli usati per i deportati nei campi di concentramento e di sterminio, troneggiava soli-tario davanti a Palazzo Madama a Torino, simbolo e insieme monito della mostra che la capitale sabauda ha dedicato a Primo Levi (dal 22 gennaio al 6 aprile). Qual-che spirito ottuso ha protestato, in nome di superiori quanto risibili esigenze estetiche, ma quel reperto ferrovia-rio, semplice e insieme terribile, è invece il modo migliore per introdurre alla vita e all’opera dello scrittore piemon-tese. Non a caso infatti la mostra si intitolava I mondi di Primo Levi. Una strenua chiarezza, quella chiarezza che Levi inseguì lungo tutto il corso della vita: raccontare ciò che era successo, senza infingimenti e senza retoriche, mettere anche il proprio cuore a nudo, confrontarsi con l’insensatezza del vivere, ma anche con l’abisso profondo in cui l’essere umano è in grado di sprofondare. Non fu mai un uomo appagato, Levi, come del resto la sua tragica morte per suicidio ha dimostrato, però fu sempre un uomo coerente, chiamato a testimoniare ciò che aveva visto e che aveva sopportato. Curata da Fabio Levi e Peppino Ortoleva, l’esposizione è un viaggio nei “mondi” di questo italiano anomalo nella sua volontà di capire, raccontare, non giusti-ficare e insieme non dimenticare: c’è il resoconto duro e pacato del campo di sterminio e poi del ritorno alla vita; c’è lo spazio all’invenzione fantascientifica di universi futuri e paralleli; è presente il rendiconto divertente e insieme

il giornalista partigiano Decorato

ENZO GALLETTI, LA TORTURA DELLA CASSETTAdi Gabriele MORONI

Camicia nera della prima ora,

ufficiale del Battaglione

Azzurro della Repubblica

sociale, il capitano Giovanni

Folchi viene condannato a morte per col-

laborazionismo dalla Corte d'Assise stra-

ordinaria e fucilato il giorno dopo, il 7

febbraio 1946. Chiede una sigaretta men-

tre viene fatto sedere con le spalle rivolte

al plotone di esecuzione. Vorrebbe vede-

re in faccia i quattordici ragazzi ex parti-

giani che lo compongono. Gli viene nega-

to. Fa il saluto militare all'ufficiale che

deve certificare la sua morte. Alle 7.25

tutto è compiuto. Il plotone rende gli ono-

ri militari al fucilato.

E' l'ultima sentenza capitale eseguita a

Milano. Una vicenda che parrebbe quasi

scontata, anche nel suo tragico epilogo,

calata com'è nel clima feroce, ribollente

e confuso del tempo. Con L'ultimo fuci-lato. Fascisti, partigiani, giudici e vol-tagabbana nell'Italia della Liberazione (Mursia, pagg. 204, euro 15) Luca Fazzo,

ricostruisce una vicenda emblematica

della tragedia della guerra civile. Lo fa

rileggendo gli atti del processo a Folchi,

accusato di essere rastrellatore e tortu-

ratore, ma anche consultando le carte

dell'Archivio di Stato e peregrinando per

una Milano, come l'Italia, troppo spesso

dimentica delle memorie, alla ricerca

delle ultime testimonianze dirette.

Come quella di Enzo Galletti. Enzo ha

lavorato per molti anni nella redazione

del Giorno. Affabile ma riservato, diven-

tava reticente quando parlava di sé. Solo

quella frase, "Non sono uno di quelli che

parlano", che ogni tanto sfuggiva dalle pa-

ratie della riservatezza, pareva alludere

a qualcosa nel suo passato, qualcosa di

terribile e insieme di grandioso. Insieme

con un'altra, che suonava criptica alle

orecchie dei più: "Questa Repubblica io

l'ho fondata, ma non mi ci riconosco più".

Il libro di Fazzo ci restituisce, dalla

voce del protagonista, il Galletti ragazzo

partigiano. Le prime piccole imprese

per le vie cittadine. Lo spettacolo or-

rendo dei quindici antifascisti trucidati

ed esposti a Piazzale Loreto. La cattura

e l'incontro con il capitano Folchi che

Galletti racconta come se fosse avvenuto

il giorno prima. "Questo Folchi era uno

grande e grosso, a suo modo non anti-

patico: parlavamo parecchio e c'era una

specie di curiosità reciproca a capire cosa

avesse in mente l'altro. Probabilmente

anch'io gli stavo simpatico ... Però a un

certo punto arrivarono le botte". E con

le botte le sevizie. "Il sistema classico

per torturarci era la cassetta: mi costrin-

gevano a sdraiarmi su una cassetta di

munizioni, a pancia in su, e mi tiravano

i piedi e le braccia verso terra". Galletti

resiste per settimane. "Io per non cedere

avevo escogitato un metodo tutto mio,

che nasceva da un libro che avevo letto

pochi mesi prima di essere arrestato, Il vagabondo delle stelle di Jack London.

Anche il protagonista del libro di London

viene torturato in carcere, ma mentre al

suo corpo se ne fanno di tutti i colori lui

riesce a distaccarsi con la mente e andare

a spasso con le stelle".

Il 24 aprile del '45, Galletti, pistola in

pugno, guida una fuga da San Vittore. E'

un comandante fatto sul campo. Un co-

mandante di diciassette anni. Ritroverà il

suo aguzzino nell'aula dell'Assise.

I vecchi del Giorno ci raccontavano

questa scena. Un giorno si presenta in

redazione un ufficiale. In mano ha una

busta e chiede del dottor Enzo Galletti.

Quando lo ha davanti porta la mano alla

visiera del berretto gli consegna la busta.

È la motivazione della medaglia d'argento

al valor militare. Una medaglia per il ra-

gazzo che neppure le torture erano riu-

scite a far parlare.

epico di un lavoratore “globale”. L’insieme permette l’emer-gere di una delle figure più originali della cultura italiana, e non solo, del Novecento. Chimico per professione e per passione, Levi divenne scrittore per dare testimonianza al mondo di un’esperienza estrema eppure nodo cruciale del secolo XX, quella del genocidio ebraico. Le affiancò però un’opera letteraria, caratterizzata da uno stile unico per limpidezza e rigore (“una strenua chiarezza”, appunto) in grado di mettere in scena una pluralità di vite e di spazi: tra storia e scienze, tra la dimensione dell’infinitamente piccolo e quella planetaria. É a questa volontà di non bruciarsi, come scrittore, nell’olocausto in cui aveva rischiato di scomparire come essere umano, che si devono libri come Il sistema periodico, racconto del suo amore per il proprio mestiere di chimico, o per il lavoro ben fatto, tema centrale di quel La chiave a stella, storia di un operaio talmente innamorato del suo lavoro da seguirlo all’altro capo del mondo, la Cina, pur di dare il suo contributo, professio-nale e morale, a quella fabbrica da cui, per delocalizzazione e successiva dismissione è stato comunque licenziato. E ancora: i racconti fantascientifici e fantatecnologici di I sommersi e i salvati, nei quali sono illuminati i “vizi di forma” della realtà contemporanea; l’attenzione alla pecu-liarità e agli aspetti da noi meno noti del mondo ebraico propria di un libro quale Se non ora, quando? Un corpus letterario, come si vede, ampio e composito, e che però ha come punto di partenza quell’unicum che è Se questo è un uomo, pubblicato quando non aveva ancora trent’anni, nel 1947, racconto della propria esperienza di deportazione ad Auschwitz. Testimonianza asciutta e implacabile nella sua dignità di chi rifiuta di perdere oltre la vita il rispetto di sé, né romanzo né puro documento, Se questo è un uomo

sta alla pari con Una giornata di Ivan Denisovic di Solgenitstin e I racconti della Kolyma di Salamov. Quindici anni dopo, con La tregua, Levi chiuderà in qualche modo il ciclo di quella tremenda esperienza: racconta il ritorno a casa, la risco-perta della “normalità” della vita, il rinascere alle esigenze del quotidiano senza dimenticare o, all’opposto, senza lasciarsi davvero uccidere da un’insostenibile memoria. La mostra racconta questa biografia esemplare con documenti, immagini, materiali video, senza nessuna concessione, puramente e semplicemente, secondo lo stile di Primo Levi: “Non si dovrebbe mai scrivere in modo oscuro”.

LA STRENUA CHIAREZZA DI PRIMO LEVI

Primo Levi in un momento di quiete sulle sue amate Alpi

Il “vagone della morte” esposto in piazza a Torino

2726 Cultura Cultura

Carmelo Floris. Combattente e antifascistadi Maurizio ORRÙ

L’ANPPIA della Sardegna ha intrapreso da tempo una bella iniziativa di politica culturale, ovvero la pubblicazione ogni anno di un libro sui fatti e

personaggi antifascisti dell’isola. Iniziativa meritoria e di straordinaria valenza storica. L’ultima pubblicazione, in ordine di tempo, è il volume dal titolo: Carmelo Floris, combattente e antifascista scritto da Carlo Dore, per le edizioni Anppia della Sardegna. L’autore, conosciuto dai lettori dell’Antifascista per alcune precedenti biogra-fie (Piero Gobetti, Vittore Bocchetta, Cesare Pintus), si è cimentato nel delineare la vicenda artistica e politica di Carmelo Floris, ovvero un Maestro dell’arte sarda. Carlo Dore, ha ripercorso la vita del Nostro, mettendo in risalto non solo il lato professionale artistico, ma dando vigore all’im-pegno antifascista di Floris. L’Autore ci ha fornito, senza sbava-ture celebrative, una puntuale ricostru-zione della personalità dell’uomo. Facciamo un passo indietro. Carmelo Floris, nasceva a Bono nel Goceano, il 22 luglio 1891 da Giuseppe e Maria Grazia Nonnis Tola. Ma a causa della prematura morte del padre, Carmelo tornava ad Olzai (NU), presso uno zio materno.

In questo luogo cono-sceva, tra gli altri, Giuseppe Biasi, noto pittore di rilevanza europea. Il Nostro interrompeva gli studi classici e iniziava gli studi all’Accademia di Belle Arti in Roma. Ma i sogni artistici di Carmelo Floris si interrompevano con gli eventi bellici che vedevano l’entrata in guerra dell’Ita-lia. Floris si arruolava nella mitica “Brigata Sassari”. A tale riguardo, scrive l’Autore: “(….) L’intervento in guerra segna una cesura molto importante nella storia della Sardegna. La guerra si rivela la prima vera occasione per l’integrazione dei sardi (…)”. Il coraggio e l’ardore permisero al Nostro di ottenere una medaglia d’argento al valore militare. Ma gli eventi bellici non impedirono a Carmelo Floris di continuare la propria attività artistica. Molte le mostre di pittura e di incisione alle quali Carmelo Floris partecipava

con crescente successo. Il Nostro rientrava in Sardegna e aderiva all’Unione dei Combattenti e al Partito Sardo d’Azione. Scrive Carlo Dore nel suo libro: “(…) Insomma Carmelo Floris non era solo un grande artista, ma anche un valoroso combattente, un sincero democratico ed un fervente antifascista.

Il che spiega la sua attiva collaborazione con Lussu e la disponibilità a impegnarsi attivamente per la diffusione del messaggio di Giustizia e Libertà. (…)”. Carmelo Floris, trovato in possesso di materiale propaganda di argo-mento antifascista, veniva arrestato alla frontiera. Il Floris

veniva condannato a cinque anni di confino alle isole Tremiti. Ma il sacro fuoco dell’arte, che Carmelo Floris colti-vava nel suo animo, gli permisero di disegnare e di incidere.

Nel frattempo, Floris otteneva l’amnistia nel 1942, in occasione dei festeggiamenti per il ventennale della marcia su Roma. Nel 1952 sposava Maria Porcu e due anni dopo realiz-zava con l’amico e collega G. Ciusa Roma-gna, la Via Crucis, nella splendida Cattedrale di Nuoro. Carmelo Floris moriva il 22 agosto 1960 nella “sua Olzai”. Nel 1999 la casa di Carmelo Floris veniva acquistata dal Comune di Olzai per creare un museo intito-lato al valoroso pittore ed incisore sardo.

Il volume, curato con attenzione e rigore, è corredato da una serie di fotografie di alcune delle tante incisioni di

Carmelo Floris. Il volume di Carlo Dore si presenta come un’opera articolata in sette capitoli: L’arresto alla fron-tiera; La Grande Guerra, La Brigata Sassari, Emilio Lussu; Carmelo Floris o “Carmelo de Olzai”; Olzai, il borgo che fa sognare; Francesco Dore e i suoi figli; Emilio Lussu e Carmelo Floris; le storie parallele di Floris e di Costantino Nivola. Significativa la prefazione di Bachisio Porru. Il libro di Carlo Dore, Presidente regionale dell’Anppia della Sarde-gna, è stimolante e ricco di suggestioni. Rappresenta un contributo intelligente e non banale della storia contempo-ranea della Sardegna.

I TANTI VOLTI TRUCI DEI FASCISMI EUROPEIun libro di fraquelli "altri duci" analizza il fenomeno maturato a cavallo tra le due guerre

Se dovessi suggerire una lettura, in parte legata alle vicende del 25 aprile, non avrei dubbi a indicare il massiccio volume di Marco Fraquelli, Altri duci. I fascismi europei tra le due

guerre (ed. Mursia, pp.627), che fin dalla prima pagina sostiene “il proliferare, nell’Europa tra le due guerre, di partiti e movimenti fascisti cosiddetti minori, naturalmente rispetto al fascismo mussoli-niano e al nazismo hitleriano”. E infatti, con riferimento al nostro Continente sono addirittura ventinove i fascismi che Fraquelli analizza, partendo dal “fascismo albanese”, per concludere con il “fascismo ungherese”, di cui è stato leader Ferenc Szàlasi con le sue “croci frecciate”.

Fra gli anni ’30 e ’40 anche in molti altri paesi – dal Belgio alla Ceco-slovacchia, dalla Finlandia alla Grecia, dall’Olanda al Portogallo, e persino all’Unione Sovietica (dove il partito comunista la faceva da padrone) – erano sorti movimenti fortemente autoritari che in Adolf Hitler vedevano il loro “duce e maestro”, a riprova della persua-siva immagine riguardante gli “altri duci”, adottata da Fraquelli per sottolineare le numerose situazioni politiche in atto nel continente europeo “tra le due guerre”. Quasi a voler condividere quanto scri-veva già alcuni decenni or sono lo storico Stanley G. Paine, quando, a proposito del fascismo, sosteneva che “nessun altro fenomeno della storia moderna ha prodotto così tante analisi interpretative e diverse tra loro”. Qualcuno considererà quasi una “sorpresa” che sia esistito anche un fascismo francese, che fortunatamente non è mai diven-tato un regime, nonostante che nel 1933 avesse messo a capo alla “Solidarité Française” attraverso l’opera di un ricco industriale come François Spoturno, e nello stesso anno avesse fatto nascere anche il “Mouvement Fasciste” di Marcel Bucard, il cosiddetto “piccolo duce francese”, poi condannato a morte e giustiziato nel marzo del ’46. Analogamente, è singolare che anche in terra elvetica ci sia stata una “Fédération Fasci-ste Suisse”, essa pure fondata nel ’33 dall’ex-colonnello Arthur Fonjallaz insieme a Nino Rezzonico, suo braccio destro. Si trattava di un’organizzazione fortemente antisemita e antimassonica, composta di poche decine di migliaia di individui, che venne sciolta nel 1940, con l’arresto e tre anni di reclusione per Fonjallaz. Sempre in Svizzera, nel ’28 era nato anche il “Kampfbund Neue und Nationale Front”, meglio noto come “Nationale Front”, di cui era stato inventore e leader Rulf Henne, lontano parente dello psicanalista Carl Jung. Per capire quanto fosse autoritaria la politica perseguita, è suffi-ciente il titolo dell’organo di partito, “Der Eiserne Besen”, vale a dire “Il manico di ferro”! E sarebbe facile continuare con tanti altri esempi, che ogni lettore vorrà conoscere. A noi basta qui precisare che Fraquelli è stato un allievo di Giorgio Galli, che ha scritto la prefazione a questo libro, dove giustamente mette in luce che si tratta di “una ricostruzione degli eventi quanto più vicina possibile alla realtà e intellettualmente stimolante”. Siamo perfettamente d’accordo.

di Arturo COLOMBO

Un ritratto eseguito da Carmelo Floris

Fascisti francesi sfilano nel 1932

2928 Arte e Antifascismo Noi

ARTE E RESISTENZA A MILANOalla riscoperta della fondazione treccani, dove hanno sede l’archivio della nota rivista “corrente” e il museo dell’artista – ernesto treccani - che ne fu il direttore.

Milano festeggia il settantesimo anniversario della Liberazione, e l’arrivo di EXPO 2015 sul tema “Nutrire il Pianeta”, con l’allestimento (a cura delle Associazioni Antifasciste) di un’esposizione a Palazzo Moriggia dedicata all’ali-mentazione negli anni del fascismo, dal 1935 al 1945.

Tale incontro tra passato e presente mette in risalto il ruolo della città mene-ghina durante gli anni del fascismo e, in parallelo, l’attività svolta dagli intellet-tuali e dagli artisti del tempo in contrapposizione alla cultura del regime.

Infatti, mentre il braccio armato dei partigiani organizzava le proprie forma-zioni in tutto il Nord Italia (dalla Liguria all’Emilia Romagna), Milano è stata la “testa” che ideologicamente ha preparato il terreno alla rivolta antifascista, cre-ando le basi per una coscienza europea antidittatoriale, dal cuore multidiscipli-nare ed eclettico.

Al centro di questa onda di rinnovamento, un personaggio si è posto protago-nista indiscusso: Ernesto Treccani, artista polivalente (pittore e scultore) diret-tore della nota rivista Corrente, avente appunto sede a Milano.

Al fine di creare una cultura libera dalle influenze del regime, alternativa e nuova, Corrente ha trattato politica, arte e religione aprendosi alle influenze europee, alla ricerca di innovazione, stilistica ed espressiva, dove le tematiche dell’attualità non potevano di certo passare in secondo piano.

L’artista, lo scrittore e l’intellettuale avevano il dovere di intervenire nella realtà, di modificarla ed di esprimerla secondo i propri ideali.

Si è così creato un connubio moderno tra letteratura, arte figurativa e vita reale, che traspare a tutto tondo nelle opere degli artisti che in quegli anni hanno col-laborato per Corrente (tra gli altri, Renato Guttuso, Renato Birolli, Aligi Sassu, e lo stesso Ernesto Treccani).

A testimoniare l’opera di quegli anni, e del fondatore di Corrente, resta ora a Milano la Fondazione Treccani, presso il “Palazzo delle Rondini” (che trae il nome dalle rondini in ceramica con cui l’artista, nel suo eclettismo, ha rivestito l’intera facciata) in Via Carlo Porta 5.

Chi visita la Fondazione, potrà seguire l’evoluzione del pensiero e dello stile di Treccani e tutto il suo percorso evolutivo.

Il pittore esordisce infatti aderendo alla corrente del realismo: i suoi princi-pali soggetti sono i contadini di Melissa (in provincia di Crotone, di cui è ori-ginario) ritratti come eroi, solide figure del passato che costituiscono i punti di riferimento per l’incorruttibilità del tempo (come lo “Zio Giovanni”, spesso ri-tratto nei quadri), contrapposti al grigiore del crescente inurbamento metropo-litano (con le sue fabbriche e grattacieli opprimenti).

Evolve dunque verso un espressio-nismo simbolico, pregno di allegorie e di significati richiamanti la realtà po-litica del presente (siamo già a cavallo tra gli anni ‘60/’70).

Così, come Pasolini ha fatto con “Mamma Roma” rievocando il Cristo morto del Mantegna, la pala di altare del Signorelli viene rievocata, con un tocco felliniano (erano quelli gli anni de “La strada” e “Otto e mezzo”) nella “Arlecchinata di Porta Volta”, dove sullo sfondo di una Milano bombar-data durante la guerra, le circensi si esibiscono nelle loro acrobazie ae-ree prendendo il posto dei ladroni sul crocifisso, mentre in primo piano la moderna Pietà depone un trape-zista morto. Oppure come nella tela “Un popolo di volti” (che l’artista rea-lizzò in ben sei anni), dove, in memo-ria della strage di Piazza Fontana, la città intera viene ritratta in mille volti alla Munch (tutti ritratti di amici, si scorge ancora lo zio Giovannni, Salvador Allende, e il volto stesso di Treccani in un cammeo) ad assistere sgomenti alla tragedia.

Ci sono poi, immancabili, le stampe tratte dagli acquerelli dedicati a “La luna e i falò” di Pavese, amico intimo dell’artista, dove il realismo pittorico, proprio come nel romanzo, sfuma verso richiami onirici, stemperati, di una realtà intatta perché lontana, che si può solo rievocare col ricordo.

Una realtà che, nel pensiero di Treccani, ha il suo riferimento e la sua salvezza nella terra, nella sag-gezza contadina, nei rituali sicuri del lavoro dei campi. E che viene così a in-contrare, inconsapevolmente, il tema dell’Expo 2015, e di alcune delle mo-stre allestite in sua occasione, come quella di Van Gogh a Palazzo Reale.

I contadini dalle mani rugose e da-gli zoccoli di legno, con occhi che ti scavano dentro. Gli occhi dei mangia-tori di patate.

Forse, quegli stessi occhi che dalla silente e sommessa vita contadina, passeranno all’azione del popolo nella rivolta partigiana…

centinaia di persone hanno dato l'addio a garibaldo benifei, figura simbolo dell'antifascismo. Dalla sede svs dov'era allestita la camera ardente e si è tenuta la commemorazione ufficiale il corteo funebre ha raggiunto a piedi l'ex teatro san marco dov'è nato il partito comunista

LIVORNO

Canti antifascisti e tanti giovani per l'addioa Garibaldo Benifei

Un ultimo abbraccio a Garibaldo Benifei, la figura-simbolo

dell’antifascismo livornese, la canzone passa di bocca in bocca e alla

fine è un coro. L'ANPPIA Nazionale è presente con il Presidente

Guido Albertelli. C'è tutta l'ANPPIA di Livorno, ci sono le altre

associazioni della memoria, i familiari, i parenti, gli amici, e tanti

livornesi, cittadini della sua Livorno. Tanti giovani tra di loro,

perchè Garibaldo tra i giovani è rimasto fino all'ultimo. Non è mai

invecchiato, è sempre rimasto al passo con i tempi.

Ci sono le istituzioni attuali, il sindaco Nogarin, ma anche quelle

della legislatura precedente così come l’ala dell’antifascismo più

radicale, ci sono gli anarchici e ci sono carabinieri e polizia, c’è

la comunità ebraica e ci sono gli anziani ex combattenti, ci sono

candidati alle regionali, c’è qualche Cinque Stelle, un bel po’ di

Rifondazione e di centri sociali più Buongiorno Livorno e dintorni

ma anche tanto Pd, che era il partito di Garibaldo (ma la prima

bandiera che s’intravede dietro la bara è quella tradizionale del Pci).

Una “confederazione di anime” la più sfaccettata possibile: fuori

di qui, neanche si parlerebbero, figuriamoci. Eppure la lezione di

Garibaldo e di quella generazione che ricostruì Livorno è anche

questa: la capacità di mettersi insieme

al di là dei recinti delle ideologie. Del

resto, negli anni di Diaz sindaco e con

gli americani sull’uscio di casa, Livorno

aveva in giunta non solo il Pci ma anche

un ragazzo di don Angeli e perfino un

anarchico (Ceccherini). Di più: qui, caso

unico in Italia, l’alleanza stile Cln regge

ben oltre lo scontro frontale del ’48.

I pugni chiusi salutano il feretro che,

percorre tutta la strada da via San

Giovanni fino all’ex teatro San Marco,

dove nel ’21 è nato il Partito Comunista. Poco prima, il carro funebre

era passato sul ponte dei Domenicani: a un passo dall’ex convento-

carcere, dove Benifei era stato al tempo del fascismo, condannato,

perseguitato per le sue idee. Dietro al carro c’è la “sua” Osmana,

compagna d’amore, di lotta e d’avventura: “Se ne va un gigante della

storia”, dice il sindaco Filippo Nogarin: “Per tutti noi è stato un faro

e ora la comunità è qui: a dire che l’antifascismo continua a essere

il riferimento”. Guido Albertelli, leader nazionale dell’Anppia,

l’associazione della quale Benifei era presidente nazionale onorario:

“Garibaldo è stato un esempio di vita. Caro sindaco, le chiedo di

impegnarsi per intitolargli una piazza o una strada”, cosa che, va

detto, fin dal primo momento Nogarin ha annunciato. L’ex teatro

San Marco è ora un asilo. Il corteo funebre si ferma: in mezzo a una

scenografia di gonfaloni (quelli delle istituzioni ma anche quelli

dell’associazionismo resistenziale come l’Anppia e l’Anpi) risuonano

le note di “Bandiera rossa”. Fanno il paio con la versione di “Bella

Ciao” che la banda SSV, magnifico mix di sonorità e di musicisti.

Un ultimo saluto come l'avrebbe voluto, tra la sua gente, nella sua

Livorno. Che la terra ti sia lieve Garibaldo.

Picchetto dell'ANPPIA ai funerali di Garibaldo Benifei. Il terzo da destra è il Presidente dell'ANPPIA Nazionale Guido Albertelli,

anche lui presente alle esequie dell'antifascista livornese.(Foto di Ciro Meggiolaro)

Il corteo dietro il feretro di Garibaldo. (Foto di Ciro Meggiolaro)

3130 Noi Noi

SOTTOSCRIZIONI

A trent'anni dalla morte la moglie MIRELLA e il figlio DONATELLO ricordano FRANCESCO ALUNNI PIERUCCI simbolo della lotta antifascista e il suo impegno a fianco del movimento dei lavoratori.Per "l'antifascista" : 200 Euro

In memoria del decimo anniversario della morte di MAURO CAPECCHI, commandante partigiano della provincia di Siena, avvenuta il 16 giugno 2002.La moglie ISOLINAFORTI e i figli.Per "l'antifascista": 50 Euro

In memoria della recente scomparsa dell'antifascista GOFFREDO VIGNOZZI, il nipote lo ricoda.Per "l'antifascista": 100 Euro

LIVORNO

8 marzo: “Livornina d’oro“ ad Osmana Benetti L’ onorificenza più alta della città Osmana Benetti, donna ed ex par-

tigiana, l’ha ricevuta nel giorno della Festa della Donna. La cerimo-

nia è stata ospitata nell’aula consigliare di Palazzo Civico.

Una premiazione dall’alto valore simbolico per rendere omaggio

all’impegno sociale, politico e civile di questa donna, così apparen-

temente fragile e minuta eppure così eccezionale.

Avvolta in un completo blu sul quale spiccava il giallo di un ramo-

scello di mimosa, circondata dall’affetto dei figli, dal calore dei ni-

poti, sempre vicina, fianco a fianco, al compagno di una vita di lotta,

Garibaldo Benifei, Osmana ha ricevuto dalle mani del sindaco Fi-

lippo Nogarin la più alta onorificenza labronica. La cerimonia che

ha visto la presenza di numerose associazioni, tra cui l’ ANPPIA di

Livorno che cinque mesi fa si era fatta promotrice della richiesta di

assegnazione della “Livornina” ad Osmana, è stata aperta dalle pa-

role commosse della presidente del consiglio comunale, Giovanna

Cepparello.

Cepparello ha sottolineato che Osmana Benetti durante la guerra ha

saputo incoraggiare le altre donne, ricordando loro di guardare in

prospettiva, verso il futuro, esortandole all’impegno per la ricostru-

zione del Paese, alla necessità di avere scuole, case, asili.

Il sindaco Filippo Nogarin ha esordito dicendo: “Accanto ad una

grande donna c’è un grande uomo, quella di Osmana è la vicenda di

una donna che ha deciso di dedicare la sua vita all’impegno civile,

all’aiuto per gli altri in un periodo buio del nostro Paese".

Parlando della partecipazione alla Resistenza antifascista il Sinda-

co ha indicato in Osmana “un esempio di vita e di coraggio”. Dopo

aver richiamato l’attenzione su quanto Osmana si sia battuta per

l’emancipazione femminile, il sindaco ne ha ripercorso la vita: da

giovanissima nella distribuzione dei volantini di propaganda antifa-

scista, poi nel ’43 fra le fondatrici dei Gruppi di Difesa delle Donne

su iniziativa del PCI, successivamente impegnata a Livorno per la

ricostruzione dei primi asili nido in diversi quartieri.

Osmana ha ringraziato tutti dicendo: ”Avete dimostrato di essere

vicino a me, a quel che è il mio pensiero ed è stata la mia volontà du-

rante gli anni della mia giovinezza; la Resistenza deve essere un im-

pegno quotidiano per tutti". Ha quindi esortato l’amministrazione

comunale a continuare a manifestare vicinanza a tutte quelle donne

livornesi che oggi si impegnano per migliorare sempre più la città

di Livorno affinchè divenga sempre più bella, aperta e che sappia

cogliere tutti i desideri e le aspirazioni della gente che l’ha creata.

VERONA

Lunedì 16 marzo 2015 alle ore 21,00 sono

saliti sul palco del Teatro Camploy di Vero-

na i Flexus con il loro concerto “This land is

your land – voci di terre, uomini, speranze

e libertà”.

Da oltre dieci anni i Flexus calcano la scena

musicale con il loro personale rock d’autore.

La band di Carpi ha all’attivo quattro album,

centinaia di concerti in Italia e all’estero e

frequenti collaborazioni con molte realtà

del teatro indipendente italiano.

Nel 2011 esce “Satelliti inversi”: un album

di brani originali in sospeso tra sonorità

acustiche che sfiorano tango e milonga, e

venature di rock passionale dal taglio pro-

fondamente autobiografico. Il disco è an-

ticipato dal videoclip di “O, rage!” seguito

dopoa pochi mesi da “Se otto ore”: brano

frutto della collaborazione con il Coro del-

le Mondine di Novi. Con il brano “Satelliti

inversi” sono finalisti a Musicultura 2013

e ospiti del Club Tenco. Vengono inoltre

inviati come opening act di Joan As Police

Woman e Modena City Ramblers e ospiti

del “Roxy bar” di Red Ronnie.

Nel 2010 vengono prodotti due album: “Il

conformista”, dedicato al repertorio di

Giorgio Gaber e il disco dal vivo “Flexus

e il Coro delle Mondine di Novi cantano

De André”, ambizioso progetto che li vede

protagonisti insieme alle mondine di una

lunga serie di concerti nel nord Italia.

In ambito teatrale collaborano con Otta-

via Piccolo, Roberta Biagiarelli, Paola Pi-

tagora, Ivana Monti, Stefano Cenci, Ales-

sia Canducci e gli scrittori Flavio Soriga e

Chiara Carminati.

Quest’anno i Flexus portano in tour il con-

certo “This land is your land”: dalle paro-

le di una canzone del 1940 del songwriter

americano Woody Guthrie nasce il titolo in

cui la band racconta il rapporto tra gli uo-

mini e le proprie terre. Un viaggio in musica

che affianca i nuovi brani della band a un se-

colo di canzoni di “terre e libertà”. Dal Mes-

sico a Cuba, dall’Irlanda al Sud Africa, dai

Balcani alla Spagna, fino a giungere all’Ita-

lia. Luoghi, lingue e tempi diversi che hanno

una sola voce: quella dell’uomo che canta la

sua terra, dell’emigrante costretto ad abban-

donare la sua casa, dell’oppresso che lotta

sotto l’occupazione. Resistenze sempre an-

tiche e sempre attuali che diventano canto

di lotta, di gioia, di speranza.

Alla formazione classica dei Flexus compo-

sta da Gianluca Magnani (voce e chitarre),

Daniele Brignone (basso) e Enrico Sartori

(batteria e percussioni), si affiancano il vir-

tuoso violino di Mario Sehtl (da Sarajevo),

la suggestiva voce di Elisa Meschiari e il po-

listrumentista Enrico Pasini al pianoforte,

tromba, flicorno e fisarmonica.

Il concerto parte dall’antica ballata “The

foggy dew” che racconta un episodio delle

lotte dell’indipendenza irlandese di inizio

secolo per arrivare alla “Shosholoza” che

Nelson Mandela cantava durante la sua

prigionia fino a toccare una “Cielito lindo”

completamente riarrangiata, simbolo dell’i-

dentificazione del popolo messicano e giun-

gere agli antichi ritmati canti degli scarica-

tori del porto di New York.

Ai brani tradizionali sono affiancate alcune

nuove produzioni originali dei Flexus che

creano ponti narrativi tra i brani del concer-

to, tratteggiando storie di singoli uomini e il

rapporto con la terra da cui provengono. Un

viaggio di musiche e parole lontane che rac-

contano fatti sempre più vicini, in un vortice

di ritmi, lingue, suggestioni e speranze che

vuole fondere pensiero e divertimento.

ABRUZZO

Da tempo propongo che sia assegnata al popolo abruzzese una

Medaglia d’Oro al valore civile per il suo eroico comportamento

durante i tremendi mesi della occupazione nazista. Ora che la mia

proposta è stata fatta propria e presentata al Ministero degli Interni

dal presidente della Fondazione Brigata Maiella Nicola Mattoscio,

mi sembra giusto chiedere ospitalità a “L’Antifascista” per spiegare

le tre ragioni su cui si basa la mia proposta.

La prima riguarda l’importanza, militare e strategica, della guerra

in Abruzzo. La maggioranza degli italiani ritiene che la guerra sia

semplicemente “passata” nella nostra regione. E invece l’Abruzzo

fu uno dei principali terreni della guerra in Italia: le truppe alleate

furono impegnate per otto mesi nel tentativo di sfondare la linea

Gustav, incontrando una resistenza dei tedeschi fortissima.

Si parla sempre, e giustamente, della battaglia di Montecassino, ma

quasi mai di quella di Ortona, caposaldo della Linea Gustav sull’A-

driatico, che durò settimane, provocò la morte di un numero im-

pressionate di civili (1.314, quasi l’intera popolazione) ed una vera

ecatombe tra i soldati delle due parti. Ne sono struggente testi-

monianza il cimitero militare inglese di Torino di Sangro e quello di

Ortona, dove riposano duemila soldati canadesi, che ebbero il ruolo

principale nella conquista della città.

In Abruzzo, come noto, ha avuto i natali la Brigata Maiella, Meda-

glia d’Oro della Resistenza, di cui mio padre Ettore Troilo (poi pre-

fetto “politico” di Milano) fu il fondatore e il comandante.

La seconda riguarda la sorte terribile dei paesi dell’alto chietino, rasi

al suolo all’80-90 per cento dai tedeschi per fare “terra bruciata”

dinanzi agli Alleati. E riguarda, soprattutto, le stragi di civili, che in

Abruzzo furono tra le più atroci: molte centinaia di abitanti, per lo

Una medaglia d’oro al popolo abruzzesepiù vecchi, donne e bambini, massacrati a Pietransieri, a Sant’Agata

di Gessopalena, a Onna, a Filetto, in tante altre sconosciute locali-

tà, affratellati nella morte ai giovani martiri delle insurrezioni di

Lanciano e de L’Aquila. E furono stragi – in particolare quella di

Pietransieri, per la prima volta non motivata nemmeno con una ra-

gione di rappresaglia - volute personalmente da Kesselring, che le

riteneva il metodo più efficace, e meno “costoso” per le truppe tede-

sche, per scoraggiare da un lato la nascita di formazioni partigiane,

dall’altro il sostegno della popolazione civile agli stessi partigiani ed

ai militari alleati.

Ed è questo il terzo tema di riflessione, quello di cui maggiormente

avverto l’urgenza morale. Forse nessuna popolazione, in Italia, si

prodigò come quella abruzzese nell’aiutare non solo i partigiani lo-

cali ma i tanti sconosciuti soldati italiani sbandati dopo l’8 settem-

bre e le migliaia di militari alleati fuggiti dagli affollatissimi campi

di prigionia tedeschi.

Italiani, inglesi, americani, canadesi, australiani, neozelandesi, sud

africani, indiani furono nascosti nelle case e nelle masserie, furono

nutriti (“si divisero il pane che non c’era”, come ha scritto il Presi-

dente Ciampi, che si trovò in Abruzzo in quei giorni difficili), furo-

no aiutati da organizzazioni spontanee a superare d’inverno i valichi

nevosi della Maiella per passare le linee e raggiungere l’esercito alle-

ato al di là del fiume Sangro.

C’è un’ultima Medaglia d’Oro per la Resistenza che dovrebbe anco-

ra essere assegnata, ed è quella al popolo abruzzese, protagonista

silenzioso e modesto di una vera epopea.

Carlo TROILO

L'AnPPIA dI vERonA hA oRgAnIzzAto IL concERto dEI fLEXUs: "thIs LAnd Is yoUR LAnd"

I Flexus

La Mostra

l’antifascistaMensile dell’ANPPIAAssociazione Nazionale Perseguitati

Politici Italiani Antifascisti

Direttore Responsabile:

Luigi Francesco Morrone

In Redazione:

Maurizio Galli

SEDE:Corsia Agonale, 10 – 00186 Roma

Tel 06 6869415 Fax 06 68806431

www.anppia.it

[email protected]

HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO:Franco Abruzzo, Guido Albertelli,

Silvia Aonzo, Irene Barichello,

Roberto Cenati, Arturo Colombo,

Saverio Ferrari, Mimmo Franzinelli,

Giorgio Galli, Maurizio Galli,

Jean Mornero, Gabriele Moroni,

Maurizio Orrù, Martina Parodi,

Silvio Pozzani, Filippo Senatore,

Carlo Tognoli, Carlo Troilo,

Elisabetta Villaggio

TIPOGRAFIA"GRAFFIETTI STAMPATI S.n.c.

S.S. Umbro Casentinese MONTEFIASCONE

PROGETTO GRAFICOMarco Egizi www.3industries.org

Prezzo a copia: 2 euro

Abbonamento annuo: 15,00 euro

Sostenitore: da 20,00 euro

Ccp n. 36323004 intestato

a l’antifascistaChiuso in redazione il: 28/05/2015

finito di stampare il: 5/06/2015

Registrazione al Tribunale di

Roma n. 3925 del 13.05.1954

una bellissima rassegna D'arte contemporanea promossa Dall'anppia Di liVorno

ARTISTI E IL 25 APRILE

Settant’anni esatti sono trascorsi da quel fatidico 25 aprile 1945 in

cui, come per un secondo Risorgimento, il nostro Paese fu liberato

da una ventennale dittatura e poté riprendere il suo cammino di ci-

viltà. Una data che è legittimo, anzi necessario, ricordare e celebrare.

Da una rapida ricerca in Rete non risultano essere molti i luo-

ghi in Italia in cui le celebrazioni includano una esposizio-

ne d’arte: cosa che ha voluto fare Livorno, in accordo con una

sua ben radicata e diffusa tradizione di sensibilità artistica.

Con questa esposizione gli artisti hanno inteso esprimere la loro par-

tecipazione all’evento, al di là di ogni retorica, presentando opere non

eseguite ad hoc, ma proposte come testimonianza del loro stesso essere

artisti, ciascuno con il proprio lavoro, i propri temi, il proprio linguaggio.

Gli artisti non temono il binomio arte-politica, essendo convinti che la (buona) politica sia

un metodo legittimo e importante di gestire la comunità dei cittadini, e che gli artisti non

siano personaggi super partes bensì cittadini essi stessi, coinvolti con i valori e i proble-

mi del vivere. Sono felici di proporre il proprio lavoro in un’occasione forte, in cui il senso

politico si sublima nel riferimento ad un evento che, effettivamente, ha rifondato l’Italia.

Per questo senso di partecipazione alla mostra è stato dato il titolo Artisti e il 25 aprile, in

cui la congiunzione introduce un’idea di libera accettazione e di complicità che un titolo più

“logico”, ad esempio "Artisti per il 25 aprile", avrebbe suggerito.

Città di fondazione medicea e terra di frontiera, Livorno si caratterizza fin dai primi albori

con solido senso plurietnico e leggi liberali che consentirono la pacifica convivenza a vari

gruppi di perseguitati politici e religiosi, con conseguenti riflessi politico-culturali in spirito

di libertà democratica.

La particolare connotazione geografica del nostro porto "porta", la molteplicità di

civiltà e culture, hanno costituito terreno fertile a quell'animo battagliero e indomito

che Giuseppe Garibaldi apprezzò fortemente nei nostri antenati. E anche il caro amico

Antonello Trombadori, a cui ogni anno inviavo un telegramma per la festa della Liberazione

dal nazifascismo, ricordava con commozione che la nostra città fu la sola in Toscana a

resistere per più giorni all'invasione austriaca nella storica battaglia di Porta San Marco.

Memore di queste nostre radici, ho voluto ricordare e rendere omaggio alla storica data

del 25 aprile con una rassegna culturale ad opera di artisti di livello internazionale,

sensibili nell'interpretare eventi ed umori tali da coinvolgere e stimolare le coscienze.

Spero che la libertà di espressione scaturita da queste opere e il modo di "con-figura-

zione visiva" propongano una riflessione sul senso dell'arte e la sua capacità nel rendere

visibile l'invisibile.

I quattro artisti che hannoesposto alla mostra promossadall'ANPPIA di Livorno

Una sala della mostra