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1 l’antifascista fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini Periodico degli antifascisti di ieri e di oggi • anno LXIV - n° 11-12 Novembre - Dicembre 2017 Poste Italiane s.p.a. - spedizione in abbonamento D.L. 353/2003 (conv.in. L. 46 del 27.02.2004) - Art.1, comma 2, DCB - Roma Costituenti a pagina 8 Ostia a pagina 10 Guerra Oggi a pagina 15 P.zza Fontana a pagina 20 Elezioni a pagina 2 anpi a pagina 6 ANTIFASCISMO: MANIFESTAZIONE UNITARIA A COMO PROMOSSA DA PD E ASSOCIAZIONI DELLA MEMORIA IRRUZIONI E PREPOTENZE: ALT AGLI SQUADRISTI NAZIFASCISTI Cancellata la scritta Bella Ciao all’Anppia dell’Ortica L o scorso 28 novembre, durante l’assemblea plenaria della rete “Como Senza Frontiere”, un gruppo di fascisti ha fatto irruzione ed ha obbligato la platea all’ascolto della lettura di un volantino con lo slogan «Basta invasione» rife- rito all’immigrazione. L’azione è stata compiuta dalla sedicente “associazione culturale Veneto fronte skinead”». Lo stupore di chi ha partecipato alla riunione si è poi tradotto in una reazione composta delle persone aggredite che non hanno reagito alla provocazione. Al termine della lettura gli skinheads, un gruppo di Vicenza (affiliato al fronte veneto), si sono allontanati. Dopo l’irruzione hanno anche imbrattato alcuni manifesti con le indicazioni delle attività culturali e degli eventi dell’Arci. Intanto, la Questura di Como ha fatto sapere di essere riuscita a identificare quattro dei partecipanti al blitz del gruppo neofascista all’assemblea di Csf accusati di «violenza privata». L'editoriale Tra anomalie e il vecchio che avanza di Giorgio GALLI Una conferma del funzionamento anomalo del nostro sistema politico è che da mesi è iniziata una campa- gna elettorale prima ancora che si sia fissata la data delle elezioni. Una seconda conferma dell’anomalia è questa: mesi fa Gian Paolo Pansa (che questa rivista, date le sue origi- ni, potrebbe criticare per i suoi libri ritenuti denigrativi dei partigiani e della Resistenza), in una trasmissio- ne di “Otto e mezzo” predisse che l’I- Fratelli d’Italia ora è il nostro inno ufficiale Neanche 48 ore dopo la dolorosa mancata qualificazione della nazionale italiana di calcio ai mondiali che si terranno in Russia la prossima estate, a 170 anni dalla sua creazione e a più di 70 anni da quando fu scelto come inno naziona- le, il “Canto degli italiani”- scritto da Mameli e musicato da Novaro - è, finalmente, l’inno ufficiale della Repubblica. Il Senato ha infatti approvato il ddl per l’istituzionalizzazione dell’inno noto come “Fratelli d’Italia”. Dal 1946 è stato suo- nato durante le parate militari e nelle occasioni ufficiali, ur- lato a squarciagola negli stadi e imparato dai ragazzi nelle scuole. Ma senza ufficialità. Si è atteso per anni un interven- to legislativo. Che finalmente è arrivato, con buona pace di chi, nel passato, ha proposto di sostituirlo con “‘O Sole mio”. (al.di.) segue a pagina 2 segue in ultima pagina Le associazioni antifasciste manifestano compatte a Como

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l’antifascistafondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini

Periodico degli antifascisti di ieri e di oggi • anno LXIV - n° 11-12 Novembre - Dicembre 2017

Poste Italiane s.p.a. - spedizione in abbonamento D.L. 353/2003 (conv.in. L. 46 del 27.02.2004) - Art.1, comma 2, DCB - Roma

Costituentia pagina 8

Ostiaa pagina 10

Guerra Oggia pagina 15

P.zza Fontanaa pagina 20

Elezionia pagina 2

anpia pagina 6

ANTIFASCISMO: MANIFeSTAzIONe uNITArIA A COMO prOMOSSA dA pd e ASSOCIAzIONI dellA MeMOrIA

IRRUZIONI E PREPOTENZE: ALT AGLI SQUADRISTI NAZIFASCISTICancellata la scritta Bella Ciao all’Anppia dell’Ortica

Lo scorso 28 novembre, durante l’assemblea plenaria della rete “Como Senza Frontiere”, un gruppo di fascisti ha fatto irruzione ed ha obbligato la platea all’ascolto della lettura di un volantino con lo slogan «Basta invasione» rife-rito all’immigrazione. L’azione è stata compiuta dalla sedicente “associazione culturale Veneto fronte skinead”».

Lo stupore di chi ha partecipato alla riunione si è poi tradotto in una reazione composta delle persone aggredite che non hanno reagito alla provocazione. Al termine della lettura gli skinheads, un gruppo di Vicenza (affiliato al fronte veneto), si sono allontanati. Dopo l’irruzione hanno anche imbrattato alcuni manifesti con le indicazioni delle attività culturali e degli eventi dell’Arci. Intanto, la Questura di Como ha fatto sapere di essere riuscita a identificare quattro dei partecipanti al blitz del gruppo neofascista all’assemblea di Csf accusati di «violenza privata».

L'editorialeTra anomalie e il vecchio che avanzadi Giorgio GALLI

Una conferma del funzionamento

anomalo del nostro sistema politico

è che da mesi è iniziata una campa-

gna elettorale prima ancora che si

sia fissata la data delle elezioni. Una

seconda conferma dell’anomalia è

questa: mesi fa Gian Paolo Pansa

(che questa rivista, date le sue origi-

ni, potrebbe criticare per i suoi libri

ritenuti denigrativi dei partigiani e

della Resistenza), in una trasmissio-

ne di “Otto e mezzo” predisse che l’I-

Fratelli d’Italia ora è il nostro inno ufficiale

Neanche 48 ore dopo la dolorosa mancata qualificazione

della nazionale italiana di calcio ai mondiali che si terranno

in Russia la prossima estate, a 170 anni dalla sua creazione

e a più di 70 anni da quando fu scelto come inno naziona-

le, il “Canto degli italiani”- scritto da Mameli e musicato da

Novaro - è, finalmente, l’inno ufficiale della Repubblica. Il

Senato ha infatti approvato il ddl per l’istituzionalizzazione

dell’inno noto come “Fratelli d’Italia”. Dal 1946 è stato suo-

nato durante le parate militari e nelle occasioni ufficiali, ur-

lato a squarciagola negli stadi e imparato dai ragazzi nelle

scuole. Ma senza ufficialità. Si è atteso per anni un interven-

to legislativo. Che finalmente è arrivato, con buona pace di

chi, nel passato, ha proposto di sostituirlo con “‘O Sole mio”.

(al.di.)

segue a pagina 2

segue in ultima pagina

Le associazioni antifasciste manifestano compatte a Como

32 Verso le elezioni Verso le elezioni

segue dalla prima pagina

pArTITI e COAlIzIONI dIvISI Su TuTTO e CON uNA legge eleTTOrAle Che OBBlIgA A rAggIuNgere uN quOruM Che SOlO l’ASTeNSIONISMO rAggIuNgerà

VOTO: TUTTI IN CORSA LITIGIOSAMENTESi va a votare: pronti? Via! La diciassettesima legislatura

è terminata e, partiti e coalizioni (o quello che ne resta), preparano la corsa per la raccolta dei consensi con una nuova legge elettorale. Per alcuni riserverà delle sorprese mentre per altri è tutto già scritto fotografando un “tripo-larismo” che renderà la formazione di un governo molto complicata. L’affannosa ricerca di alleanze per avere una maggioranza in condizioni di governare ha caratterizzato gli ultimi mesi, condizionando in parte anche l’attività legi-slativa delle ultime settimane come le nuove norme sulla cittadinanza sfumate a pochi metri dal traguardo. Appa-rentemente sono quattro i blocchi ai nastri di partenza ma come si vedrà più avanti, le alleanze di centrodestra, Movi-mento 5 Stelle, centrosinistra e sinistra, presentano molte più divergenze di quanto non si ostinino a negare. E questo vale anche per temi centrali e molto rilevanti come l’im-migrazione, il rapporto con l’Europa e l’euro, le politiche sociali e del lavoro. Posizioni a volte in evidente contra-sto nella stessa alleanza, tanto che i partiti si accingono a condurre campagne elettorali separate. Scordiamoci i palchi ed eventi con i leader abbracciati, così non sarà e se qualche volta succederà, saranno solo “di facciata” a uso delle telecamere. Del resto la legge elettorale Rosatell-lum è a carattere prevalentemente proporzionale e spinge i partiti a cercare di convincere più il proprio elettorato di riferimento che a trovare una condivisione con gli alleati. È dunque probabile che pure le scelte di coalizione nei collegi uninominali saranno il risultato più di una spartizione di territori che decise da candidature con il profilo condiviso. Stesso discorso vale per le leadership nazionali che, oltre a essere incerte, in ogni caso difficilmente coincideranno con la nomina alla presidenza del Consiglio dei ministri e la stessa “candidatura a premier” rappresenta una sorta di

inganno per gli elettori. Del resto, la Costituzione è chiara: il presidente del Consiglio lo nomina il Capo dello Stato dopo un’attenta valutazione delle maggioranze possibili su base parlamentare.

Il Centrodestra secondo l’opinione della maggioranza dei sondaggisti è la coalizione più avanti rispetto alle altre. I partiti maggiori Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia non hanno deciso chi guiderà il cartello, rimandando la deci-sione al giorno dopo le elezioni. Secondo Matteo Salvini, sarà leader il capo del partito che prenderà un voto più degli altri. Giorgia Meloni invece crede ancora nelle primarie che però né Forza Italia né i leghisti vogliono fare. Berlusconi continua a essere l’unica personalità in grado di tenerli uniti ma le vicissitudini giudiziarie non gli consentono allo stato di essere candidabile al Parlamento, né di andare a Palazzo Chigi. Sul fronte dei programmi le distanze tra loro sono difficilmente colmabili, con la Lega e la destra di FdI che conducono una campagna durissima contro l’im-migrazione e chiedono una chiusura netta delle frontiere. Una posizione che l’elettorato più moderato che fa riferi-mento a Forza Italia non condivide. Anche per l’Euro e le relazioni con Bruxelles gli azzurri non sono disponibili a posizioni estremiste esprimendo, del resto, con Antonio-Tajani la guida del Parlamento di Strasburgo. È pertanto molto probabile che le schermaglie tra Salvini e Berlusconi continuino per tutta la campagna elettorale. A rinfor-zare la coalizione c’è anche la galassia centrista, che nella prima parte della legislatura ha sostenuto i governi Renzi e Gentiloni e che ora, in contrasto con quel pezzo di Alle-anza Popolare guidata da Alfano, torna alla casa madre del centrodestra.

Nel Centrosinistra, reduce dalla scissione del Pd con il neonato partito Liberi e Uguali, altre liste andranno

a sostegno del blocco del Partito democratico. Sarà la formazione “Insieme” a fare da spalla con i Verdi, i Socialisti e la componente civica che inizialmente aveva fatto parte di Campo Progressista di Giuliano Pisa-pia. A completare l’alleanza con il Pd ci saranno probabilmente alcuni esponenti di spicco della sinistra libe-rale e il gruppo di radicali che fa capo a Emma Bonino. Coalizione ridotta, dunque, nonostante gli sforzi di Piero Fassino che si era incaricato di ritro-vare l’unità sulla scorta dell’Ulivo che fu, riuscita solo in parte. Il segretario Dem spera così di recuperare terreno, puntando a un risul-tato che si avvicini almeno al 30 per cento dei consensi. Senza questi numeri, difficilmente riuscirebbe a mantenere le redini del partito che, in occasione delle ultime sconfitte, hanno rischiato di sfuggirgli in più occasioni. Sul fronte della premiership lo statuto del Pd indica che il candi-dato naturale sarà il segretario. Tuttavia, l’uscente Paolo Gentiloni, secondo i rumors del Transatlantico, avrebbe più possibilità di tornare a Palazzo Chigi, specialmente nel caso di un governo di larghe intese.

A sinistra del Pd si colloca la formazione di “Liberi e Uguali” guidata dal presidente del Senato Pietro Grasso e che riunisce gli ex compagni Bersani, D’Alema e Speranza con Sinistra Italiana di Nicola Fratoianni che in questi anni è sempre stata all’opposizione. Con Grasso ci sarà anche la presidente della Camera Laura Boldrini e per completare la squadra del movimento “Possibile” di Pippo Civati. Alter-nativi a Renzi e con l’obiettivo di recuperare i consensi perduti e gli astenuti della sinistra delusa da questa legi-slatura, puntano alla “doppia cifra” del dieci per cento. L’elettorato storico, lo zoccolo duro degli ex Ds è però diviso, con una parte che rimprovera a Bersani la scissione.

Rancori personali e voglie di rivalsa hanno impedito per questo motivo un’unità di tutta la coalizione, che per molti, Romano Prodi su tutti, sarebbe stato l’unico argine per contrastare la destra e i populismi.

Allergico a ogni alleanza, il Movimento 5 Stelle che corre da solo con l’ambizione (supportata finora dai sondaggi) di diventare il primo partito. Ma il rifiuto di qualsiasi accordo con gli apparati della “vecchia politica” come la defini-scono i Pentastellati, renderà al candidato premier Luigi Di Maio la vita difficile. Salvo sorprese, per Grillo e il suo Movimento, i numeri per formare una maggioranza di governo sono molto lontani. Secondo le simulazioni fatte all’indomani dell’approvazione della legge elettorale, i voti necessari per arrivare a Palazzo Chigi, sia da soli sia in coalizione, si attestano tra il 38 e il 40 per cento. Diventare primo partito, secondo il loro convincimento, gli darebbe automaticamente il diritto all’incarico di governo per cercare una maggioranza in Parlamento. Finora la prassi della democrazia parlamentare ha sempre stabilito che i voti per una fiducia in aula devono essere trovati prima e difficilmente il Presidente Sergio Mattarella potrà affidar-gli un incarico al buio.

talia in dissesto sarebbe finita gover-

nata dai carabinieri; ebbene, si deve

dare atto a Pansa della sua capacità

profetica, visto che Berlusconi, ap-

punto in campagna elettorale, ha

proposto come presidente del consi-

glio il generale dell’Arma Leonardo

Gallitelli. Poi, criticato da Salvini,

lo ha declassato a semplice membro

del governo. Ma il dibattito è stato

caratterizzato sul generale, dopo

che poco prima era stato dominato

dall’affermazione del superantiber-

lusconiano Scalfari di preferire il

populismo di Berlusconi a quello di

Di Maio. Queste estemporanee usci-

te di parole in libertà animano una

campagna elettorale senza data di

elezioni in un’Italia che ha ben altri

problemi.

In un mondo egemonizzato da

circa cinquecento multinazionali in

competizione, l’Italia è svantaggia-

ta dal disporne solo di un paio; ho

già ricordato qui che lo ha scritto

Romano Prodi (nel libro “Il piano

inclinato”), ma i media citano Prodi

non per aver evidenziato le difficol-

tà della nostra economia, ma per i

saggi e comunque inutili tentativi di

mettere insieme i cocci del centro-

sinistra (ora ci sono anche i Liberi

e Eguali di Pietro Grasso), per far-

ne un protagonista, insieme appun-

to al redivivo Berlusconi, al quale

Renzi augura una sentenza europea

a lui favorevole che umilierebbe le

istituzioni italiane, nella campagna

elettorale senza data delle elezioni

che ci fa respirare, coi due candida-

ti premier di un quarto di secolo fa,

la salubre aria del 1994. Che Renzi,

per candidarsi come coprotagonista

contro Berlusconi in uno dei discuti-

bili collegi, da egli stesso criticati, di

una intricatissima legge elettorale, si

auguri che l’Europa umili l’Italia di

cui si propone come premier, espri-

me bene il groviglio di anomalie del

nostro sistema politico.

Come detto, i problemi sono ben

altri. Oltre a un’economia ancora

stagnante (al di là dei giochetti sul

Pil, mentre l’Ue accusa il governo di

truccare le cifre), va ricordato che

un suo rilancio potrebbe ottenersi

da un grande progetto per mettere

in sicurezza il Bel Paese, devastato

da ceti speculativi e parassitari, che

per decenni ne hanno penalizzato

i settori positivi e di eccellenza di-

storcendo le nostre risorse in disse-

sti idrogeologici che hanno accom-

pagnato quelli bancari, devastando e

cementificando il territorio, tanto da

determinare il periodico alternarsi

di incendi boschivi e di alluvioni.

Invertire questo indirizzo e porre

rimedio alle devastazioni, imponen-

do all’Europa questa nostra priorità,

procurerebbe a tutti i livelli, dagli

urbanisti ai badilanti, quei posti di

lavoro di non breve durata e costrut-

tivi che invano si cerca di ottenere

coi bonus a pioggia per conquistare

elettori che invece ne rifiutano la

logica con una sfiducia ancora evi-

denziata con l’astensione di oltre la

metà degli aventi diritto al voto nel-

le ultime elezioni nella Sicilia degli

“impresentabili” e nella Ostia della

guerriglia dei clan.

In un Paese nel quale, lo confer-

ma l’Istituto di statistica, sono milio-

ni e sono in costante aumento i citta-

dini che non hanno soldi per curarsi,

Berlusconi, che già dieci anni fa an-

nunciava di aver sconfitto definitiva-

mente il cancro, fa oggi la promessa

elettorale di aver sconfitto anche la

morte, perché finanzia ricerche che

consentiranno di vivere fino a cen-

toventicinque anni. E i suoi compe-

titori replicano a queste mirabolanti

affermazioni ammirando l’energia

dell’uomo di Arcore, che a ottantuno

anni è convinto di averne quaranta.

Davanti a una simile campagna elet-

torale, il solo giudizio possibile è la

fiducia in ciò che resta dell’elettora-

to italiano (la metà degli aventi dirit-

to al voto), che ha già dimostrato la

sua saggezza nel 1946 facendo vin-

cere la repubblica, nel 1974 facendo

vincere il divorzio, nel 1981 facen-

do vincere l’aborto tutelato, l’anno

scorso facendo fallire il tentativo di

cancellare la Costituzione nata dal-

la Resistenza: questa saggezza potrà

esprimersi nel 2018, come ho già

scritto, ricordando le promesse del

2017 e votando di conseguenza.

di Giorgio Galli

L'editoriale

Renzi, Grillo, Salvini, Berlusconi. E' partita la campagna elettorale

54 Palestina Mafia

Gerusalemme: il solitoTrump riaccende l’intifada

Il 6 dicembre scorso Donald Trump ha annunciato ufficial-mente di volere spostare l’amba-

sciata statunitense in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme e di riconoscere ufficialmente la “città santa” come capitale dello stato ebraico. La deci-sione, nei paesi arabi, è stata accolta da manifestazioni popolari e scontri violenti. Il clima si fa sempre più teso nell’area medio-orientale. Trump ha spiegato come la sua decisione incen-diaria sia la constatazione di una realtà consolidata. Qualcosa che gli Stati Uniti avrebbero dovuto fare da tempo. «Riconosciamo l’ovvio: Geru-salemme è la capitale di Israele». Era il 1995 quando il Congresso approvò la legge che sanciva il trasferimento dell’ambasciata da Tel Aviv a Gerusa-lemme. Fu l’allora premier israeliano laburista Yitzhak Rabin (che di lì a poco sarebbe stato assassinato da un fanatico sionista) a spiegare al presidente statunitense Bill Clinton che la cosa avrebbe pregiudicato i negoziati israelo-palestinesi, oltre ad avere effetti disastrosi nella regione. La città di Gerusalemme, infatti, ha uno status particolare per il signifi-cato religioso e simbolico che essa riveste sia per gli arabi che per gli ebrei (oltre che per i cristiani). In essa dovrebbe vigere un regime speciale internazionale e dovrebbe essere soggetta all’amministrazione delle Nazioni Unite.

Il premier israeliano attuale, il conservatore Benjamin Netanyahu, ha definito «storica» la dichiarazione di Trump e ha assicurato che non ci saranno comun-que modifiche allo status quo per quanto riguarda i luoghi santi gerosolimitani di ogni fede. «La decisione di Trump è un passo importante verso la pace, perché non ci può essere alcuna pace che non includa Gerusalemme come capitale di Israele». Israele che, fino ad oggi, in spregio al diritto internazionale, rifiuta di definire il limite dei propri confini, probabilmente per lasciare aperta la possi-bilità di ulteriori annessioni di territorio palestinese. Di tutt’altro tenore la reazione dell’organizzazione palestinese Hamas che, annunciando una nuova “intifada”, ha dichiarato come la decisione di Trump schiuda «le porte dell’in-ferno». «Il riconoscimento di Gerusalemme quale capitale di Israele è una

dichiarazione di guerra nei nostri confronti».

In realtà anche Trump ha rinviato di sei mesi il trasferimento dell’amba-sciata, e passeranno, con tutta probabilità, ancora diversi anni prima che essa apra gli uffici a Geru-salemme. Tuttavia le motivazioni della scelta e del suo clamoroso annuncio sono più che attuali, anche perché legate all’inchiesta sulla ingerenza russa nelle elezioni USA a favore del tycoon newyorkese. Trump, sempre sotto scacco di un possibile impeachment, sta cercando di compattare

la sua base e vuole fare capire che intende mantenere le promesse fatte in campagna elettorale, tra le quali c’era, appunto, il riconoscimento di Gerusalemme capitale d’Israele. Si tratta di una questione fondamen-tale per alcuni importanti finanziatori sionisti della sua campagna eletto-rale. Il problema è che questa scelta di Donald Trump – che ignora il diritto internazionale, diritti e sentimenti dei palestinesi, l’opinione pubblica mondiale e quella della maggioranza dei cristiani, musulmani ed ebrei di tutto il mondo che vorrebbero la pace a Gerusalemme – rende, definitiva-mente, poco credibili gli Stati Uniti come mediatori del conflitto isra-elo-palestinese. Per non parlare delle Nazioni Unite che ancora una volta si dimostrano del tutto inadeguate a dirimere le controversie geopolitiche. A Trump, evidentemente, non inte-ressa la pace ma, piuttosto, sistemare i suoi guai interni e consolidare l’asse con l’alleato israeliano, sacrificando i diritti dei palestinesi, per lui del tutto insignificanti. Secondo l’inviato de “il Manifesto” a Gerusalemme, Michele Giorgio, nei confronti degli altri alle-ati dell’area, i sauditi e gli altri stati sunniti, «la forzatura su Gerusalemme a vantaggio di Israele sarà bilanciata con una garanzia che il “nemico” sciita iraniano sarà presto ridimen-sionato, in un modo o nell’altro». Sarà contro Teheran la prossima guerra degli USA? (al.di.)

Totò Riina è morto, ma non la mafia

Totò Riina è morto venerdì 17 novembre alle 3 e 37 del mattino, presso il reparto

per detenuti della clinica universitaria di Parma, dove era ospitato da quasi due

anni per il progressivo peggioramento delle sue condizioni di salute. Negli ulti-

mi anni soffriva di gravi problemi cardiaci, renali e di Parkinson. Nelle scorse settima-

ne era stato operato due volte e dopo l’ultimo intervento era entrato in coma. Il giorno

prima di morire, Totò “u’ curtu” aveva compiuto 87 anni, 24 dei quali passati in carcere

dove stava scontando una pena cumulativa di 26 ergastoli. Tra le varie condanne quella

per le stragi di Capaci e di via d’Amelio, entrambe avvenute nel 1992, nelle quali moriro-

no i magistrati Giovanni Falcone (e la moglie, anche lei magistrato, Francesca Morvillo)

e Paolo Borsellino e le loro rispettive scorte.

Nato a Corleone il 16 novembre del 1930, Riina, a soli tredici anni, perse il padre e

il fratello a causa dell’esplosione di un residuato bellico dal quale stavano cercando di

estrarre la polvere da sparo. Totò, inizialmente dedito a furti di grano e bestiame, si beccò

la prima condanna a soli diciannove anni per aver ucciso in una rissa un suo coetaneo.

Dopo essere stato scarcerato diventa uno degli uomini di fiducia del mafioso Luciano

Liggio. In quegli anni, a Corleone, a capo della cosca locale era il dottor Michele Navarra.

Sia pure godendo di forti agganci politici, Navarra fu avversato dai “viddani” - Liggio,

Riina e Bernardo Provenzano - criminali dai modi rozzi e senza scrupoli che, nell’agosto

del 1958, fecero fuori il medico e presero il controllo della mafia corleonese. Arrestato

una seconda volta nel dicembre del 1963, Riina scontò alcuni anni di prigione al carcere

dell’Ucciardone. Al processo contro la mafia corleonese tenutosi a Bari nel 1969 fu assolto

per insufficienza di prove e scarcerato. Tornato a Palermo venne nuovamente arrestato,

per ordine del Tribunale di Palermo che ne dispose il soggiorno obbligato nella provincia

di Bologna. Riina si dava alla macchia, iniziando la sua lunga latitanza. Una latitanza

condivisa con la moglie, Ninetta Bagarella, e i quattro figli nati nel corso degli anni:

Maria Concetta (1974), Giovanni (1976), Salvatore Giuseppe (1977) e Lucia (1980). Tutti

partoriti in una clinica di Palermo e registrati all’anagrafe. Come avviene per le famiglie

normali. Ninetta Bagarella è la sorella del boss Leoluca Bagarella. Maestra alla scuola

elementare, lei e Riina furono uniti in matrimonio nel 1966 da padre Agostino Coppola,

ambiguo mediatore di sequestri di persona e poi condannato per associazione mafiosa. Il

rito si svolse in un appartamento al quinto piano di un condominio di largo San Lorenzo,

a Palermo, nello stesso quartiere dove, negli scorsi giorni di dicembre 2017, si arrestano

ancora i mafiosi parassiti dediti alle estorsioni. Negli anni Settanta Riina era uno spietato

sicario, partecipò come esecutore materiale all’omicidio del procuratore Pietro Scaglione,

e prese parte a diversi sequestri di persona. All’inizio degli anni Ottanta, dichiarò guerra

alle più importanti famiglie mafiose palermitane per prendere il potere e il controllo

del mercato dell’eroina proveniente dall’America. Grazie a una strategia militare fondata

sulla violenza totale e sull'inganno sistematico degli altri mafiosi, Riina e i corleonesi

fecero fuori tutti i capi delle famiglie che gli resistevano e presero il controllo della

“cupola” che amministrava i rapporti tra le varie cosche attive sul territorio provinciale

palermitano. La guerra di mafia durò tre anni e lasciò sulle strade circa mille morti. In

quegli anni Riina fu brutale e spietato non solo contro i nemici interni, ma anche contro

politici, magistrati e membri delle forze dell’ordine che intralciavano la sua ascesa

criminale. Tra i mafiosi sconfitti cominciarono allora ad emergere diversi collaboratori

di giustizia, il più noto dei quali era Tommaso Buscetta, l’uomo che rivelò a Giovanni

Falcone la struttura e i segreti di Cosa Nostra. Grazie a Buscetta, e a nuove leggi antimafia

introdotte nel codice penale, Falcone e Borsellino istruirono il Maxiprocesso che portò

alla condanna all’ergastolo di molti capi mafiosi. Fu allora che Riina e i corleonesi,

sconfitti sul piano giudiziario, si fecero terroristi con le stragi e le tentate stragi del 1992

e del 1993: Capaci, via D’Amelio, via dei Georgofili a Firenze, via Palestro a Milano, San

Giovanni in Laterano e San Giorgio in Velabro a Roma, e il fallito attentato contro il

giornalista Maurizio Costanzo. «Un atto di disperazione» ha spiegato lo storico John

Dickie intervistato da Vice, «Cosa Nostra aveva poche alternative». Il 15 gennaio del 1993

Riina fu catturato a Palermo, vicino alla casa dove viveva in latitanza. L’arresto fu favorito

dalle dichiarazioni dell’ex autista che decise di collaborare con la giustizia. Quando il

volto del capo dei capi apparve per la prima volta in televisione, il giorno dell'arresto,

rimasero tutti sorpresi. Come ha scritto Lirio Abbate su “L’Espresso” «nessuno poteva

immaginare che un personaggio così

goffo, piccolo, dagli occhi spiritati, potesse

essere il mafioso feroce che le cronache

giudiziarie avevano dipinto». La notizia

della scomparsa di Riina ha suscitato

svariate reazioni. Maria Falcone, sorella

di Giovanni, ha detto: «Non gioisco per la

sua morte, ma non posso perdonarlo». La

figlia più piccola del boss, Maria Concetta,

ha pubblicato su Facebook l’immagine di

una donna che porta il dito alla bocca per

invitare al silenzio. Sempre su Facebook,

numerosi utenti hanno reso omaggio al

boss di Cosa Nostra. «Zio Totò sempre nel

mio cuore». «Un grande uomo d’onore e

come lui oggi non esistono più». «Grande

uomo! Tanta ammirazione, l’unico in

grado di gestire veramente l’Italia per

anni». «Uomo coerente. Di questi tempi è

raro». «Totò fino alla fine è rimasto muto.

Riposa in pace uomo d’onore». «Unico

vero vanto della Sicilia». Ora che Riina

è morto, gli osservatori più esperti sono

sostanzialmente divisi tra chi sostiene

che la “cupola” è pronta a riunirsi per

eleggere un nuovo capo, verosimilmente

il boss latitante Matteo Messina Denaro, e

chi sostiene che Cosa Nostra non ha alcun

bisogno di stabilire nuove leadership. Il

procuratore nazionale antimafia uscente,

Franco Roberti, ha messo in guardia dai

possibili «riflessi che la sua scomparsa

avrà su Cosa Nostra». Secondo lo storico

ed esperto di mafia Salvatore Lupo,

intervistato da "Il Manifesto", la morte

di Riina «non influisce per nulla sulla

situazione attuale. Riina era in carcere da

24 anni, detenuto al 41 bis. Era un uomo

del passato». Per Lupo tuttavia, con la

morte di Riina, non vivremo neanche «nel

regno del bene e probabilmente ci saranno

nuove mafie». Né esclude possano esserci

dei conflitti: «ma non per la successione

di Riina, piuttosto per il predominio sugli

affari». (al.di.)Il Presidente USA, Trump

Funerale nella Striscia di Gaza

Totò Riina in aula durante il processo

76 L'IntervistaL'Intervista

Carla Nespolo, prima donna presidente dell’Anpidi Elisabetta VILLAGGIO

Eletta all'unanimità, lo scorso 3 novembre, Carla Nespolo è la prima donna Presidente nazionale dell’ANPI e la prima non partigiana. Di famiglia

antifascista, è stata la prima parlamentare comunista piemontese. Da sempre impegnata in politica, nel 1970 diventa consigliere provinciale ad Alessandria fino a diven-tare Senatatrice della Repubblica per due legislature dall’83 al ’92, Carla è stata insegnante di storia e filosofia al liceo e anche nelle scuole ha sempre svolto un lavoro attento alla sensibilizzazione dei ragazzi alla memoria e alla cono-scenza del nostro passato. La incontriamo nella sede dell’ANPI di Roma e ci accoglie con il suo sorriso sincero e trascinante

È emozionata per questo suo incarico?

Sono contenta, so che è un incarico molto impegnativo ma non sono emozionata. Cercherò di fare del mio meglio e vediamo se la fiducia che mi è stata data è ben riposta. Sono abbastanza ottimista perché la nostra è una realtà colle-giale, c’è il presidente ma c’è una rete molto forte, coesa e fraterna di antifascisti che collaborano.

lei è la prima donna e la prima non partigiana a ricoprire questo ruolo.

Appartengo a quella generazione che è venuta subito dopo i partigiani, sono del ’43, sono figlia di partigiani. Mio zio materno era un comandante partigiano di rilievo della sesta zona, una divisione che combatteva tra il Piemonte e la Liguria. La mia famiglia d’origine materna non era comu-nista ma anarchica. La nonna era una donna meravigliosa di fine ‘800 laureata farmacista. Il bisnonno, stampava un giornale che si chiamava Gli scamiciati e il titolo già dice molto: era un giornale di anarchici. Mio padre era di una famiglia contadina di Alessandria, gente semplice, era tra quelle persone che sembrava non partecipassero alla poli-tica, ma era parte di quella società civile che ha aiutato i partigiani e ha fatto sì che loro vincessero e sopportas-sero tutti quei mesi di guerra. Mio zio lasciava sempre aperta la porta del fienile in modo che i partigiani potes-sero dormirci o nascondersi. Le donne preparavano quel

poco che avevano da mangiare, gli davano i vestiti dei loro uomini. Proprio per questo sono utili gli istituti storici perché noi abbiamo bisogno di mantenere questa memoria in un momento in cui le fila dei partigiani si assottigliano sempre di più per ovvie questioni anagrafiche.

perché oggi ha senso parlare di partigiani?

Ha senso perché altrimenti non si capisce l’oggi. La Resi-stenza italiana, ma anche europea, ha creato una frattura profonda col mondo che c’era prima, il fascismo e il nazi-smo, ha dato un’altra visione del mondo: democratica e di libertà. Dobbiamo ricordare che nessuno ce l’ha rega-lata e quella democrazia è stata conquistata dal popolo, dal popolo in armi, i partigiani, e da tutta la società civile che li ha sostenuti. Non bisogna creare dei miti ma avere la consa-pevolezza che stiamo parlando di questo. Quando vedo ragazzi che fanno il saluto fascista, penso che dobbiamo insegnargli la loro storia. Oggi c’è una rinuncia di ruolo della scuola, perché se si continuano a ridurre le ore di storia, è chiaro che non si arriva ad approfondire certi temi. Ma è colpa anche della famiglia e delle istituzioni perché non basta mettere una corona o un gagliardetto. Sì è impor-tante, ma si deve parlare con i ragazzi.

Come vede la scuola oggi?

È a macchia di leopardo, si regge sul lavoro degli inse-gnanti che a volte fanno un lavoro eroico. Tanti professori portano gli alunni a vedere una mostra o una conferenza ma lo fanno fuori orario. C’è bisogno di rimettere l’at-tenzione sulla storia e sull’educazione alla cittadinanza. Quanti ragazzi sanno che l’idea d’Europa è nata a Vento-tene con persone come Spinelli?

Abbiamo visto cosa è successo in uno stadio dove sono state attaccate le immagini di Anna Frank con la maglietta della squadra avversaria. Come mai oggi ci sono dei ragazzi di vent’anni che non sanno chi è Anna Frank?

Se si continua a tagliare sulla cultura, sulla scuola, sulle risorse degli insegnanti, arriviamo a questo. Quella sera,

quando è uscita quella notizia, ho visto una bella trasmissione, dove un’at-trice leggeva delle pagine del diario di Anna Frank. Ma se invece di fare tutte quelle stupidate che fanno in televisione all’ora di punta, quando la famiglia è riunita, ogni sera leggessero una pagina del diario fino a che non è finito, sicuramente sarebbe meglio. La non conoscenza è un rischio per la democrazia.

ultimamente si è parlato molto di scandali sessuali. Senza entrare nel merito lei pensa che il fatto che le donne inizino ad avere posizioni di rilievo possa cambiare questo tipo di situazione?

Quando sono entrata in parlamento una delle prime leggi che abbiamo fatto è quella sulla violenza sessuale perché nel 1976, nonostante fossero passati 30 anni dalla Costitu-zione, c’era ancora il codice Rocco e la violenza sessuale era un reato contro la pubblica morale e non contro la persona. Io dico che il cammino delle donne è per molti aspetti il cammino della democrazia in questo paese. Che le donne denuncino, è ovvio che fanno bene se c’è un comporta-mento di un certo tipo. Ho il terrore della pruderie, cioè che sia un’indignazione finta. Quante sono le violenze dome-stiche che non conosciamo? Anche lì è un problema di educazione. Poi io sono dell’idea che le donne si ribellino sempre di più. Le donne nella Resistenza hanno dimostrato la loro capacità e non avevano neanche il voto. A me sembra impensabile non votare, io ho sempre votato ma mia madre quel diritto non lo aveva. Ne abbiamo fatto di cammino e con noi ha camminato la democrazia. È passato in sordina l’anniversario della Costituente, dove c’erano queste ventuno donne su oltre cinquecento eletti che però hanno saputo dire delle cose che poi sono rimaste nella Costitu-zione. Che le donne denuncino ma poi combattiamo l’idea della violenza, scuotiamo l’indifferenza e parliamo con i giovani.

lei vede i giovani indifferenti alla politica?

Per quello che conosco io dei giovani, noi come ANPI andiamo nelle scuole, penso che se intendiamo la politica come gioco dei partiti allora sono molto distanti. Inoltre appartengono a una generazione che non riesce a trovare lavoro e, quindi, o si ribellano a questo mondo che sentono lontano e respingente, oppure dicono: non me ne frega niente. Però sull’ambiente ci sono, per gli animali, per la pace. Questa società è talmente degradata e il fascismo e il populismo cercano di incanalare i giovani verso un qualun-quismo mentre noi dobbiamo spingerli verso un più alto livello di democrazia. La democrazia non ce l’hanno rega-lata i partigiani una volta per tutte: la devi conquistare, conservare e migliorare.

È preoccupata per questi ultimi rigurgiti di fascismo non solo in Italia ma in europa?

Certo che lo sono e penso che sia proprio il razzismo la culla del fascismo perché cominci a dire: io sono meglio di te, non ti voglio perché sei diverso etc. Come ANPI organiz-ziamo iniziative in giro con i giovani e per fortuna vengono in tanti. Il fascismo oggi ha rialzato la testa ma l’Italia è un paese fortemente antifascista.

A 60 ANNI dAllA MOrTe del MAeSTrO

Toscanini, ricordo di un grande antifascista

Anno 1930. Il Podestà di Bologna

Liparini incontra Toscanini a

Salsomaggiore e gli chiede di dirigere un

concerto a Bologna per il festival fasci-

sta presieduto dal conte Costanzo Ciano

e dal gerarca Arpinati. Il maestro decli-

na l’invito scusandosi di non essere in

buona salute. Nel frattempo un gruppo

di amici ha organizzato nella stessa città

un concerto del maestro in memoria del

compositore Giuseppe Martucci. Con

l’inganno il Podestà posticipa la comme-

morazione e anticipa la celebrazione al

teatro comunale. Toscanini ignaro della

trappola arriva a Bologna il 14 maggio

del 1931 con la moglie e la figlia Wanda.

Squadracce fasciste sono in agguato fuo-

ri e dentro il teatro. Toscanini si rifiuta di

dirigere “Giovinezza” e viene insultato.

Assediato dai fascisti viene colpito al collo e alle spalle con

grida minacciose “Morte a Toscanini”. L’assedio delle squa-

dracce continua fino all’albergo. Per sottrarlo al linciaggio

Ottorino Respighi inventa un sotterfugio. Toscanini rientrato

a Milano nella casa di via Durini, scrive una lettera di fuoco

a Mussolini denunciando l’accaduto. Il 10 giugno con la sua

famiglia Toscanini parte in esilio negli Stati Uniti. Toscanini

giura di tornare in Italia quando il duce sarà morto e così

accadrà all’indomani della Liberazione dal nazifascismo.

Al presidente Roosevelt nel 1943 Toscanini indirizza la se-

guente lettera: “Le assicuro, caro presidente, che persevero

nella causa della libertà la cosa più bella cui aspira l’umani-

tà”. Toscanini tornato a Milano dona un milione di lire per

riedificare in pochi mesi Scala e l’inaugura l'11 maggio 1946

con un concerto straordinario. Le recite proseguono sino al 14

maggio, gli stessi giorni della commemorazione di Martucci

e dell’aggressione bolognese di 15 anni prima. Date volute da

maestro per non dimenticare la libertà perduta e riconqui-

stata. Nel teatro del Piermarini quel giorno risuonano le note

del Mosè di Rossini e del Nabucco di Verdi che sottolineano il

dramma dell’olocausto appena consumato.

Carla Nespolo, nuovo Presidente dell'ANPI Nazionale

Arturo Toscanini dirige a New York

98 AntifascismoAntifascismo

Ecco le 21 donne della Costituente italiana

Il 10 marzo 1946 ebbero luogo, in Italia, le prime elezioni ammini-strative con partecipazione

femminile.Il 2 giugno 1946 ci fu il referendum

per scegliere tra Monarchia e Repub-blica a suffragio universale cioè le donne votarono per la prima volta in vita loro. Il 25 giugno 1946, nel Palazzo di Montecitorio, l’Assemblea Costituente si riunì in prima seduta e furono elette 21 donne su un totale di 556 deputati: 9 della Democrazia Cristiana, 9 del Partito Comunista, 2 del Partito Socialista e una dell’Uomo Qualunque. L’Assemblea Costituente fu l’organo legislativo preposto alla stesura di una Costituzione per la nuova Repubblica che diede vita alla Costituzione della Repubblica italiana. Le sedute si svolsero tra il 25 giugno ’46 e il 31 gennaio ’48 e votarono anche la fiducia ai governi di quel periodo.

Come disse Marisa Rodano, parla-mentare antifascista eletta nel PCI, in una recente intervista al nostro giornale: “Costituimmo un Comitato pro voto che raccolse firme su una petizione e si rivolse al Governo per rivendicare che le donne venissero iscritte subito nelle liste degli elettori. C’erano, infatti, alcune forze politiche, in particolare i liberali, che avrebbero voluto rimandare la decisione sul voto alle donne all’Assemblea Costituente. Ottenemmo un decreto che iscriveva le donne tra gli elettori. Le donne nel

1946 votarono nella stessa percentuale degli uomini, oltre l’80%. Se non aves-simo eletto 21 donne nella Costituente non avremmo avuto nella Costituzione quei principi che hanno consentito, negli anni successivi, di eliminare la legislazione fascista, che discriminava le donne, e che hanno posto le basi per creare condizioni di parità”.

Il 1946 era ancora un tempo storico dove la donna era una figura priva di

diritti ma piena di doveri, una donna che comunque era al centro ed era determinante nel quotidiano. Queste ventuno donne, provenienti dalle esperienze politiche, sociali ed econo-miche più diverse, richiamano a quello spirito e a quei motivi morali che sono alla base per ricostruire il nuovo in un tempo difficile e tante propo-ste di legge e dibattiti senza queste donne non sarebbero stati fatti così come molti temi sono stati affrontati proprio grazie a un mondo femminile in difficoltà. A Roma, alla Casa della

Memoria e della Storia, è stata dedi-cata una mostra per rendere omaggio a queste ventuno donne mostrando la parte pubblica ma anche quella privata. Racconta la storica Beatrice Pisa: “Le donne vengono poco citate nei libri di storia e se lo vengono è per elogi noiosi ma non si indaga sull’ef-fetto reale della lotta antifascista, il voto e la Costituente che son fasi

epocali e cruciali e ancora oggi gli storici non ne tengono conto. L’eredità della Resistenza è importantissima, perché fino ad allora la politica non era in contatto con la realtà. A partire dalla Resistenza le donne fanno poli-tica non solo nei piani alti ma nei pianerottoli, con le donne normali, con i problemi di tutti i giorni. Teresa Mattei, la più giovane tra loro, ha 25 anni, 26 la Iotti che dichiara: “La poli-tica ha e deve avere un grande valore morale perché è fatta per risolvere i problemi delle persone. La conquista del voto è l’occasione per creare una nuova condizione di vita per le donne. Non vogliamo che le donne si masco-linizzino ma vogliamo espandere le loro forze nella costituzione demo-cratica del Paese, l’orgoglio di aver partecipato alla resistenza”. Livia Capasso, dell’associazione toponoma-stica femminile, insiste nel dire che: “Vogliamo la memoria anche nelle

intestazioni stradali perché queste donne rappresentano dei modelli di valore. Infatti nella toponoma-stica di Roma ci sono ben settemila strade o piazze intitolate a uomini e solo seicento a donne tra le quali sante, regine e vergini quindi poche che hanno veramente lavorato per migliorare la condizione femminile. Al momento del voto sia De Gasperi che Togliatti non pensavano che le donne sarebbero andate a votare in massa, mentre ci vanno pratica-mente nella stessa proporzione degli uomini, e questa cosa stupisce e dà loro un ruolo fondamentale anche se la loro presenza però non viene valo-rizzata. Le donne hanno combattuto per il voto ma il loro impatto è ancora visto in maniera riduttiva. Il fatto che le donne abbiano avuto accesso al voto ha portato in primo piano i due grandi partiti che le hanno candidate:

la DC e il PCI. Il partito comunista ne candida 68, la democrazia cristiana 29, i socialisti 16 e l’Uomo Qualun-que 7. Il PCI è quello che punta di più sulle donne ma anche quelle della DC faranno carriera politica e avranno un ruolo di rilievo, come Tina Anselmi in primis. L’incuria dei partiti laici verso le donne si rivelerà un errore e qualcuno ha detto che la ragione del loro sgretolarsi e della loro perdita di potere è proprio dovuta alla poca presenza femminile nelle loro fila. I grandi partiti invece si rendono conto dell’evolversi e dei cambiamenti della società di massa e si rivolgono alle donne che portano alla ribalta della politica anche il privato e la fami-glia. La presenza delle donne assume un ruolo sempre più importante e sono al centro nelle discussioni sul nuovo diritto di famiglia del ‘75 che per legge stabilisce la parità giuridica dei coniugi, e nel ‘74 con la conferma della legge sul divorzio. Sono gli anni in cui il nostro Paese cambia faccia

grazie alla partecipazione femminile alla politica in modo attivo e in parti-colare alle ventuno costituenti che avevano cominciato un lungo lavoro non ancora finito.

Nadia Spano, attivista tra le file dell’ANPPIA, scrisse: “È un orgoglio delle donne la conquista del voto e un’occasione per mutare le condizioni della loro vita”. Invece la senatrice Merlin affermò: “Io conosco la storia e nel 1789 furono proclamati i diritti dell’uomo e del cittadino ma in realtà il cittadino è considerato solo l’uomo con i calzoni. Anche nella rivoluzione francese le donne sono state ghigliot-tinate perché non si omologavano”.

Tra le ventuno costituenti sicura-mente la più nota fu Nilde Iotti, prima donna a ricoprire la carica di Presi-dente della Camera dal ’79 al ‘92, che rappresenta il più lungo mandato isti-tuzionale relativo a qualsiasi carica nazionale ricoperto da qualsivoglia politico dall'istituzione della Repub-blica, che dichiarò in un’intervista il 9

marzo del ’47: “… Il cammino percorso in meno di un anno è stato molto e difficile: ma le nostre donne hanno bruciato le tappe. Esse continuano la loro opera, ad esse va l’elogio e la fiducia delle donne italiane, di tutti gli italiani che sperano e credono nella rinascita democratica del nostro Paese”.

Ma è il caso di ricordare tutti i nomi di quelle donne che hanno posto le basi per una migliore democrazia in Italia: Adele Bei, Bianca Bianchi, Laura Bianchini, Elisabetta Conci, Maria De Unterrichter Jervolino, Filo-mena Delli Castelli, Maria Federici, Nadia Gallico Spano, Angela Gotelli, Angela M. Guidi Cingolani, Leonilde Iotti, Teresa Mattei, Angelina Livia Merlin, Angiola Minella, Rita Monta-gnana Togliatti, Maria Nicotra Fiorini, Teresa Noce Longo, Ottavia Penna Buscemi, Elettra Pollastrini, M. Maddalena Rossi e Vittoria Tito-manlio. (e.v.)

Adele Bei

Nilde Iotti

Tina Anselmi

Nadia Gallico

Marisa Rodano

1110 Mafia e Fascismo Mafia e Fascismo

Il CASO dOpO le vIOleNze AI gIOrNAlISTI, quAlCOSA SI MuOve Nell’INFerNO del lITOrAle rOMANO

Liberare Ostia dai fascisti e dalla mafiadi Alberto DI MARIA

Domenica 19 novembre si è tenuto il ballottaggio tra Giuliana Di Pillo del Movi-

mento 5 Stelle e Monica Picca di Fratelli d’Italia per la carica di presi-dente del X Municipio di Roma, che comprende la frazione di Ostia. Nessuna delle due candidate aveva ottenuto la maggioranza dei voti per essere eletta al primo turno. La tornata elettorale è stata vinta dalla esponente grillina, insegnante di sostegno, che ha battuto con ampio margine (59,6% contro 40,4%) la candidata di FdI sulla quale conver-geva tutto il centrodestra unito.

Al primo turno la Di Pillo aveva ottenuto il 30,21% dei voti, rispetto al 26,68% ottenuto dalla Picca. Tra gli altri candidati, il 13,61% dei voti erano andati ad Athos De Luca del PD; Luca Marsella, del movimento fascista CasaPound, aveva ottenuto il 9,08%; quinto, con l'8,61%, era arrivato il sacerdote (autosospesosi a divinis) Francesco De Donno - da molti anni impegnato nel volontariato, nell’acco-glienza dei migranti e nell’attivismo locale antimafioso – candidato con la lista Laboratorio Civico X, sostenuta da MDP e Sinistra Italiana.

Quello di CasaPound è un risultato senza precedenti, tuttavia mitigato da un dato di affluenza veramente basso (solo il 36,10% degli aventi diritto si è recato ai seggi). In termini numerici i fascisti hanno preso poco più di 6mila voti. Un dato comunque preoccupante perché frutto di una situazione che potrebbe degenerare ulteriormente.

NuOvA OSTIA TeNuTA IN SCACCO dAI FASCIO-MAFIOSI

Il Municipio X di Roma conta 230 mila abitanti e, se fosse una città, sarebbe la quattordicesima d’Italia. Nel 2015 Andrea Tassone, presidente PD del Municipio X, fu coinvolto nell’inchiesta Mafia Capitale per aver fatto favori a Salvatore Buzzi, il socio di Massimo Carminati. Il municipio venne sciolto dal governo per infiltra-zioni mafiose e commissariato. L’area comprende quartieri residenziali come Infernetto, Malafede, Dragona e Dragoncello; aree turistiche come il Lido di Ostia, la “spiaggia di Roma”;

e aree disagiate, come Nuova Ostia che risente di gravissimi problemi economici e sociali. Quest’ultima fu, all’inizio degli anni ottanta, scena-rio del film “Amore tossico”, nel quale il regista Claudio Caligari raccontava il flagello dell’eroina nel quartiere. L’idroscalo fu il luogo dove trovò la morte Pier Paolo Pasolini. Più recente-mente Nuova Ostia è stata uno sfondo della serie TV crime “Suburra”.

A Nuova Ostia la disoccupazione si sovrappone alla disperazione, nel più totale deserto di alternative culturali che aggrava un già basso livello d’istruzione. La popolazione, in particolare i giovani, vive senza prospettive e in preda a un profondo malessere. In questo contesto degra-dato, fatto di grandi palazzi di edilizia popolare e infrastrutture fatiscenti, si sono sviluppati e prosperano gruppi di criminalità organizzata molto violenti. Se un tempo comandavano gli eredi della “Banda della Magliana”, succes-sivamente hanno preso il potere la famiglia Triassi, seguiti dai Fasciani, questi ultimi duramente colpiti da una serie di arresti nel 2013. Infine si sono imposti come gruppo malavi-toso di una certa rilevanza gli Spada, una famiglia di origine Sinti arrivata sul litorale, dall’Abruzzo, negli anni Cinquanta.

Secondo i magistrati, la famiglia Spada ha consolidato il controllo sull’area attraverso estorsioni, usura, spaccio e intimidazioni. Ma il

principale dei loro affari sarebbe la gestione delle case popolari. Negli atti d’indagine a loro riguardo, si legge di scontri con altre famiglie crimi-nali per il controllo di queste case, durante i quali gli Spada non esitano a gambizzare membri di famiglie rivali, a «schiaffeggiare di giorno sulla pubblica via le vittime, per condurle in luoghi dove le avrebbero brutal-mente picchiate»; e, più in generale, di numerosi e quotidiani soprusi contro chiunque provi ad opporsi loro. Diversi appartenenti al clan sono ripe-tutamente finiti in carcere e davanti al tribunale. Nel giugno del 2016, Carmine Spada detto “Romoletto” è stato condannato in primo grado a dieci anni di reclusione per estorsione ai danni di un tabaccaio. All’inizio del febbraio 2017, Armando Spada e altri imputati – tra i quali Ferdinando Colloca, che nel 2013 è stato candi-dato alla regione Lazio per CasaPound – sono stati condannati a cinque anni e otto mesi nell’ambito di un processo relativo alla mala gestione degli appalti pubblici e delle concessioni degli stabilimenti balneari sul lito-rale. In generale, nei provvedimenti contro gli Spada, i magistrati hanno riconosciuto l’aggravante del metodo mafioso.

Ma il legame tra CasaPound e gli Spada non è solo criminale (come quello tra Colloca e Armando Spada), ma anche politico, e nel corso dell’ul-timo anno si è sviluppato sempre di

più, in vista delle elezioni. CasaPound ha organizzato la distri-

buzione di pacchi di cibo alle famiglie più povere di Nuova Ostia, una delle attività che la famiglia Spada, per accrescere il suo consenso su un terri-torio povero e abbandonato, porta avanti da anni per aiutare le famiglie in difficoltà. Nel quartiere gli Spada sono considerati, da molti, dei benefat-tori e le loro palestre sono gratuite per i giovani. A Nuova Ostia CasaPound ha raggiunto più del 20% dei voti. Secondo diversi giornali, il giorno della votazione, i seggi di Nuova Ostia erano presidiati da attivisti di Casa-Pound e membri del clan Spada. Durante la campagna elettorale ci sono state accuse (respinte dal partito) di violenze agli avversari politici.

Da anni diversi attivisti e studenti del X Municipio denunciano un certo clima di violenza, ignorato dalle istitu-zioni. Sul litorale romano la violenza dei fascio-mafiosi non è una novità. Gli attivisti di infoaut.org hanno compilato e pubblicato sul loro sito una lunga lista di aggressioni subite. Quelli di CasaPound si muovono sempre in gruppo e prendono di mira i giovani dei collettivi scolastici di sini-stra o i volontari delle associazioni che si occupano di senza fissa dimora o migranti. Anche il candidato presi-dente di CasaPound, Luca Marsella, questa estate, è stato condannato a due mesi con pena sospesa per aver minac-ciato di morte, nel 2011, alcuni ragazzi di un liceo.

Mertedì 7 novembre, due giorni dopo il primo turno elettorale, due giornalisti della trasmissione RAI “Nemo”, Daniele Piervincenzi ed Edoardo Anselmi, sono stati aggrediti

da Roberto Spada fratello di Romo-letto. Il video di una testata con la quale il pugile e gestore di una pale-stra spacca il naso di Piervincenzi, ha fatto il giro dei social network e ha monopolizzato per l’intera giornata l’attenzione dell’opinione pubblica italiana. L’inviato di Nemo si trovava a Nuova Ostia per preparare un servizio sul voto della domenica precedente. Fuori dalla palestra, prima di essere aggredito, aveva rivolto al pugile alcune domande sui legami tra la sua famiglia e CasaPound. Era stato lo stesso Spada, con un post su Facebook, a dichiarare apertamente il suo appog-gio a Luca Marsella. Pochi giorni dopo l'aggressione, Spada è stato arrestato per ordine della Direzione distrettuale antimafia. Durante l’interrogatorio col gip, secondo le cronache, Spada ha raccontato di aver reagito violen-temente a causa dell’insistenza del giornalista. Frattanto la palestra è stata sequestrata per alcune viola-zioni. Adesso “Robertino”, fino ad oggi incensurato, si trova nel carcere di Regina Coeli con l’accusa di violenza privata aggravata dal metodo mafioso.

Dopo l’aggressione i leader di CasaPound hanno negato qualsiasi legame con Spada e hanno preso le distanze dall’aggressione, ma i media hanno smentito i fascisti documen-tando come l’amicizia tra Robertino, Marsella e altri esponenti locali di CasaPound (come Carlotta Chiara-luce, la compagna di Marsella) vada avanti da tempo.

L’8 dicembre 2015, la “Femus boxe”, la palestra di Roberto Spada, ha orga-nizzato insieme a CasaPound una festa in piazza Gasparri (nel cuore di Nuova Ostia) intitolata “Giovinezza

in piazza”. In un'altra circostanza pubblica, il 6 gennaio 2016, per le celebrazioni della Befana, Spada e Marsella sono stati ritratti insieme in una fotografia. Anche da Facebook emergerebbe una certa confidenza tra Marsella, Chiaraluce e Spada. Sempre su Facebook, in passato, Spada si era fatto notare, prima come soste-nitore del Movimento 5 Stelle, poi quando lanciò provocatoriamente la sua candidatura alla presidenza del X Municipio. Pochi giorni prima della consultazione elettorale, invece, l’en-dorsement a CasaPound.

In un’intervista al “Corriere della Sera”, Marsella ha affermato che i voti da lui ottenuti non sono arrivati grazie alla vicinanza con Roberto Spada e che le ipotesi in tal senso sono «stru-mentalizzazioni per distruggere il nostro lavoro». Su Twitter, Simone Di Stefano, segretario nazionale del movimento fascista, ha scritto che Spada «non è un esponente di Casa-Pound. Con lui non condividiamo nulla, se non una sua presenza ad una festa per bambini in piazza 18 mesi fa. Non rispondiamo certo delle sua azioni e la violenza è sempre depre-cabile». Sono affermazioni nelle quali non è difficile vedere l’affanno di chi, dopo un felice ciclo di dibattiti accattivanti con i volti più “fighetti” del panorama giornalistico televi-sivo italiano, che hanno contribuito a ripulire l’immagine del movimento fascista, si trova a dover gestire “mediaticamente” un brutale pestag-gio ai danni di un giornalista.

TOCCA AllO STATO rISOlvere Il prOBleMA

«Ostia si è svegliata mafiosa solo dopo la testata sul naso che Roberto Spada ha dato ad un gior-nalista. Questa storia mi fa sorridere amaramente perché era già tutto annunciato». È amaro il commento che il magistrato Alfonso Sabella ha rilasciato a “Left”. Nel 2015 Sabella fu nominato, dall’allora sindaco Igna-zio Marino, assessore alla legalità del comune di Roma. Quando nel 2015 venne presa la decisione di sciogliere l’amministrazione PD che governava Ostia, perché coinvolta nell’inchie-sta Mafia Capitale, Marino assegnò al magistrato la delega alla legalità, anche per quanto riguarda Ostia. Tra le prime azioni concrete Sabella fece chiudere una delle palestre gestite

Scritta sui muri di Ostia

Manifestazione antifascista ad Ostia

1312 Mafia e Fascismo Calcio e Fascismo

dalla famiglia Spada: occupavano uno spazio di proprietà del comune di cui detenevano le chiavi. Ma la presenza della mafia ad Ostia era già stata denunciata nel lontano 1992. Era agosto e Ostia era commissariata per uno scan-dalo di tangenti. Marco Pannella fu chiamato a reggere il governo locale per un centinaio di giorni. La sua battaglia si concentrò sulla lotta all’abusivismo e l’illegalità edilizia nel quartiere Infernetto. Pannella vide la mafia e la denun-ciò. «Sul territorio dell’Infernetto, ed a partire da esso» - si legge in un suo comunicato stampa del 27 ottobre di quell’anno - «stiamo snidando situazioni letteralmente mafiose tentando di tornare ad un minimo di rispetto della legge e della ragionevolezza, dell’onestà intellettuale e della responsabilità sociale e solidale». «Sul litorale romano» - dichiarò in quegli stessi giorni a Radio Radicale - «c’è una organizzazione malavitosa che ha il controllo del territorio, anche grazie al comportamento omissivo della magistra-tura che non ha saputo adoperare l’arma della sanzione».

Intanto la situazione ad Ostia continua a restare tesa. Nella notte tra giovedì 16 e venerdì 17 novembre qualcuno ha dato fuoco al portone della sede del PD di Ostia. Proprio giovedì si era svolta in città una manifestazione contro la mafia e per la libertà di stampa, organizzata dal sindacato dei giornalisti FNSI e dall’associazione Libera in risposta all’aggressione subita da Piervincenzi e Anselmi. Alla mani-festazione hanno partecipato alcune centinaia di persone e il corteo ha attraversato anche il quartiere di Nuova Ostia, suscitando reazioni ambigue da una parte della cittadi-nanza. Giovedì 23 novembre sera alle 22 due uomini armati sono entrati in una pizzeria della città e hanno sparato al

proprietario, membro della famiglia Fasciani, e a uno dei cuochi. Nella notte tra sabato 25 e domenica 26 novembre sono stati sparati cinque colpi di pistola contro la porta di casa di Silvano Spada, cugino di Roberto. La mattina del 1° dicembre è stato trovato un cadavere sulla spiaggia del lito-rale, ma al momento in cui scriviamo non è chiaro se questa morte sia riconducibile alle dinamiche malavitose del terri-torio.

In tutto questo non ci siamo fatti mancare l’uscita trash di Alessandra Mussolini che per risolvere i problemi di Ostia ha dichiarato di avere la ricetta giusta: «In due o tre mesi mio nonno risolverebbe tutto». Magari con l’aiuto di Totò Riina. Come se di fascisti e mafiosi in giro, ad Ostia, non ce ne fossero già abbastanza. Tornando seri, il 28 novembre è scattato il piano Minniti che ha previsto una vasta operazione di polizia per eseguire controlli e perqui-sizioni in tutto il municipio: sono state battute a tappeto le zone dove vive e opera il clan Spada. Nel corso dell’o-perazione sono state trovate e sequestrate armi e droga, fermate anche alcune persone. Era ora che Minniti se la prendesse con i criminali e non con le vittime del canale di Sicilia. Speriamo non si tratti, come spesso avviene, di un interventi una tantum. Ma non basta agire militarmente. Lo Stato deve cancellare il degrado, terreno fertile nel quale prospera il crimine, portare istruzione e cultura, e creare le condizioni per lo sviluppo. Lo Stato deve rispettare il patto sociale, sempre più tradito, con la maggioranza silenziosa e mortificata delle persone oneste e per bene.

pArlANO due gIOvANI lAzIAlI Che hANNO pArTeCIpATO AllA rIpugNANTe INIzIATIvA

I manifestini con Anna Frank? Uno scherzo goliardico

Lo scorso 22 ottobre durante la partita di calcio di serie A, Lazio-Cagliari, alcuni tifosi laziali attac-cano, all’interno dello stadio, dei manifestini con la

foto di Anna Frank vestita con la maglietta romanista. La Curva nord, dove normalmente siede la tifoseria laziale, era chiusa per cori razzisti e gli ultrà erano stati ammessi nel settore opposto, la curva Sud che è territorio romanista. È stata l’occasione per tappezzare le vetrate degli spalti di foto e manifesti antisemiti, tra cui il celebre fotomontaggio di Anna Frank con la maglia della Roma che era già emerso in Rete e non solo nel 2013. Questi episodi, che sembrano marginali, in realtà evocano un sottobosco pericoloso di antidemocrazia. Per cercare di capire cosa succede nella testa di chi fa cose del genere abbiamo incontrato due ragazzi che erano presenti in maniera attiva quel 22 ottobre allo stadio Olimpico di Roma. La vicenda ha avuti risvolti anche a livello nazionale e i tg hanno aperto con la notizia - dice lui – e non era mai successo con nessuna squadra - aggiunge lei. Sono molto guardinghi all’inizio del nostro incontro i due ragazzi, Claudia 19 anni di sinistra, e Mattia 21 anni di destra, entrambi laziali sfegatati, come si dice in gergo. Non scriviamo i cognomi perché preferiscono rima-nere nell’anonimato, non si sa mai. Svegli, carini e preparati ma anche sorpresi di trovarsi coinvolti in una vicenda che ha assunto toni enormi mentre era solo un atto goliardico

dicono entrambi. Man mano che parliamo iniziano a fidarsi e si espongono un po’ di più e raccontano.

vi siete resi conto di cosa avete fatto?

Claudia: In realtà solo quando è intervenuta la comunità ebraica con la presidentessa che ha rilasciato un sacco di interviste.

Mattia: Nell’ambito del calcio per me resta uno sfottò, ci sono stati tanti episodi simili, in questo caso è vero che si è toccato un personaggio simbolo, che fa parte della Shoah e non è toccabile.

Sapevate chi era Anna Frank?

Claudia: Avevo letto il libro alle elementari, e non scegli di leggere un libro del genere quando sei piccolo. Comun-que dalla foto non l’avrei riconosciuta.

Mattia: Io ho studiato recentemente per un esame universitario Storia moderna e quindi mi è ricapitata tutta la storia già sentita e risentita 3 o 4 mila volte. Non mi è capitato di leggere il libro ma sapevo chi fosse per cultura mia personale. Cosa è successo in quel periodo mi inte-ressa perché quelli erano campi di sterminio e non di lavoro quindi uno si va a informare e non sapere chi fosse, non è possibile però la storia è stata ingigantita e trovo esage-rato che il Presidente della Repubblica esca fuori dalla sua

stanzetta per dire che questo è antisemitismo puro e non mi va bene.

Claudia: Secondo me l’antisemitismo si vede da tante altre cose, non allo stadio.

voi siete laziali sfegatati. da quando?

Claudia: Io da piccola, ero presente allo scudetto del 2000, non avevo neanche 2 anni ed ero sulle spalle di mio padre.

Mattia: il primo abbonamento l’ho fatto a 12 anni.

Fate parte di un gruppo?

Mattia: Fare parte di un gruppo è esagerato. Gli irridu-cibili sono chiusi, ci sono iscrizioni e a me non interessa entrarci, noi siamo tifosi ma non irriducibili, conosciamo varie persone e sentiamo cose e storie che i media non riportano. Il tifoso è sempre additato come un cattivo.

Claudia: Comunque la curva è piena di brave persone.

Mi raccontate cosa è successo quel giorno? Chi vi ha dato e detto di mettere quei manifestini con Anna Frank?

Claudia: Io ero presente allo stadio e c’erano ragazzi che non facevano neanche parte degli irriducibili ma quel giorno avevano aperto la curva sud che è la curva dei romanisti, a livello goliardico volevamo fargli sapere che eravamo stati là nel loro posto.

Ma questa decisione dei manifesti era partita dall’alto?

Mattia: Gli adesivi sono partiti da un gruppetto di persone che credo siano state condannate. Le persone che hanno agito lo hanno fatto solo come un atto goliardico anche se è stato visto come un gesto antisemita. Fuori dallo stadio ci sono scritte su Gabriele Paparelli. Quel fatto che risale a 30 anni fa è rimasto impunito. Durante un derby nel primo tempo dalla Sud partì un razzo uccidendolo e da quel momento sono apparse scritte terribili e nessuno ne ha mai parlato, la moglie non usciva più di casa per non leggere le scritte che trovava sui muri.

I ragazzi mi fanno vedere sul telefonino le scritte, che non voglio riportare e sono decisamente oscene, cattive e inammissibili. Qui si va oltre lo sfottò, il cinismo, qui diventa tutto troppo pesante dove la pesantezza apre la strada a un bullismo e una cattiveria dettate dall’ignoranza, dalla mancanza di tatto.

Mattia: Certe scritte non hanno mai avuto risvolti mediatici come questo e quando si parla di Lazio di pensa ai fascisti.

È vero quello che si pensa?

Mattia: I tifosi laziali, è vero, nascono come supporter legati alla destra. La curva sud si riconosce con l’estrema destra negli ultimi anni. Io ho una mia idea politica precisa più tendente alla destra, ma non quella xenofoba, quella legata a valori come la famiglia, la patria.

Claudia: Io sono all’estremo opposto.

la mia domanda è: perché secondo voi alcuni laziali hanno usato quell’immagine come un insulto?

Mattia: Il problema nasce dal fatto che i laziali sono riconosciuti come dei fascisti. Se prendi di mira in modo sbagliato può risultare assurdo a chi non vive lo stadio e dal momento che prendi di mira un personaggio di quel tipo

allora si viene a creare questo...Claudia (interrompendolo ndr): Ah, allora è vero che i

laziali sono tutti così.Mattia (interrompendola a sua volta): Nel corso degli anni

sono stati attaccati migliaia di adesivi diversi. Quel giorno si è voluto prendere di mira.

quindi secondo voi attaccare quegli adesivi era in realtà come mettere qualunque altra cosa?

Mattia: Dipende. È stato sicuramente uno sbaglio di pochi e soprattutto un errore vantarsene sui social, però in Germania era stata fatta una maglia praticamente uguale.

Claudia: Queste cose non sono nate con la Lazio, sono antecedenti.

Mattia: Questo attacco contro la società laziale poi si è dimostrato un attacco al presidente Lotito, mi è sembrato il modo per tagliargli le gambe.

Ma lotito se ne uscito con una frase pesante registrata in treno.

Mattia: Le frasi che decorrono in ambiente privato non devono essere riportate siamo in un paese democratico ma nel momento in cui si vede un braccio teso si rischia un’in-criminazione.

Ci sono delle leggi precise a riguardo.

Mattia: Il braccio teso nasce negli antichi romani come saluto all’imperatore e mi sembra assurdo che se io alzo la mano tesa mi può succedere qualcosa e se invece alzo il pugno chiuso va bene.

Ti ricordo che in Italia non siamo stati sotto un regime comunista ma invece siamo stati sotto la dittatura fascista. ritorniamo alla questione stadio. vi hanno dato gli adesivi e poi?

Mattia: Io penso che nessuno di noi era intenzionato a colpire quella ragazza, Anna Frank.

Claudia: Non ti poni il problema. Mi dicono di appendere una cosa e non mi chiedo cosa sto facendo.

Mattia: Secondo me la cosa sbagliata era esterna allo stadio perché da un po’ di tempo a questa parte la parola ebreo è considerata un insulto.

e perché?

Claudia: Gli ebrei erano una minoranza e non hanno saputo difendersi.

Mattia: Sono stati deportati, hanno subito. L’aggettivo ebreo è usato soprattutto dai giovani per screditare.

e voi lo sentite dire a scuola?

Entrambi: Spesso.

perché?

Claudia: C’è ignoranza alla base.

quindi secondo voi tutta la questione parte da un’ignoranza di base?

Entrambi: Sì, sicuramente. Claudia: Io penso che nessuno che ha attaccato gli

adesivi sapeva tutta la storia di Anna Frank, un simbolo di… - Claudia tentenna e poi dice - della comunità ebraica, e non voleva insultare né la storia né quello che è successo.

1514 Calcio e Fascismo

LA GUERRA NELL’EPOCA DELLA GLOBALIZZAZIONE

di Aldo GIANNULI

Quando si parla di guerra siamo abi-

tuati a pensare a scontri fra eserciti

regolari, battaglie in campo aperto,

bombardamenti eccetera, mentre

consideriamo altre forme di conflitto

come di contorno o come metafore.

Ad esempio, la guerra economica è

percepita non come una vera e propria

guerra, ma come un conflitto anche

molto aspro, ma che non comporta

di per sé l’uso di violenza armata e,

quindi, è guerra solo come traslato

stilistico.

In effetti, le cose sono state in que-

sto modo sino al Novecento, dopo è

iniziata una “rivoluzione militare”

che ha partorito un concetto ben

diverso di guerra come interazione

strategica fra le più diverse forme di

pressione.

Le prime manifestazioni di que-

sta tendenza si ebbero nella prima

guerra mondiale (risolta non tanto

da battaglie campali quanto dal col-

lasso interno di contendenti come la

Russia prima e la Germania dopo) e si

sviluppò ulteriormente nella seconda

guerra mondiale (guerriglie parti-

giane, ruolo crescente dell’intelli-

gence, assedio economico ecc.). Ma la

svolta vera e propria venne negli Anni

sessanta con la categoria della “guerra

rivoluzionaria” elaborata in partico-

lare dallo stato maggiore francese. Il

suo più qualificato esponente teorico,

il gen. Beaufre produsse un nuovo

concetto di strategia, intesa come

convergenza dei più diversi mezzi di

lotta, violenti e non violenti, armati e

non armati, coperti e manifesti, tradi-

zionali e non ortodossi. Per la verità,

questo tipo di guerra era attribuito al

blocco orientale che avrebbe scate-

nato l’attacco contro l’Occidente nelle

forme più diverse (dalle agitazioni

sindacali alle campagne scandalisti-

che, dalla penetrazione dei partiti

comunisti all’appoggio alle guerriglie

ecc.) destinate a sfociare nella spal-

lata militare che sarebbe giunta solo

all’ultimo momento, quando le capa-

cità di resistenza dei paesi occidentali

fosse stata debitamente logorata. In

realtà, questa teorizzazione fondeva

elementi veri dell’azione sovietica

(ad esempio l’appoggio anche in armi

alle guerriglie del terzo mondo) ed

in parte immaginari (come l’idea che

i Pc fossero solo obbedienti tenta-

coli del Cremlino, idea poi smentita

dall’evoluzione storica dei Pc euro-

pei). Comunque questa teorizzazione

finì per rovesciarsi nella prassi dei

servizi occidentali quale risposta

all’immaginata offensiva sovietica.

Nel tempo, questa concezione della

strategia ha avuto ulteriori evoluzioni

ed, in particolare, il contributo più

importante è venuto dalla Cina con il

libro “guerra senza limiti” di due uf-

ficiali superiori Liang Qiao, Xiangsui

Wang (ma non giureremmo che si

tratti di nomi autentici e non di nomi

di copertura). Questo libro è stato il

prodotto della situazione dei primi

anni novanta, quando la supremazia

militare americana appariva definitiva

e non raggiungibile neppure in tempi

lunghi. Di qui l’idea di una guerra

“asimmetrica”, che rispondesse su

piani diversi da quello strettamente

militare facendo abbondante uso di

forme diverse di conflitto ed in primo

luogo quello economico-sociale, che

prevede forme aperte (campagne

stampa, manovre finanziarie e sul

cambio monetario, controllo delle reti

distributive, guerre tariffarie e doga-

nali, misure protezionistiche mirate,

dumping, boicottaggio, embargo) e

forme coperte (boicottaggio coperto,

accordi internazionali discrimina-

tori, disinformazione, dumping dis-

simulato, contrabbando, spionaggio

industriale e finanziario, clonazione

e falsificazione di merci, violazione

Mattia: Oggi anche la parola gay si usa come insulto.

Tornando indietro a quel giorno allo stadio, lo rifareste?

Claudia: Se avessi saputo che sarebbe successo tutto questo ovviamente no.

vi siete sentiti manovrati in quella occasione?

Mattia: Nooo.

Claudia: Nessuno ci imposto di fare qualcosa.

però vi hanno chiesto di attaccare qualcosa della quale non sapevate molto.

Claudia: Come non lo sapevano neanche loro probabil-mente.

Chi l’ha fatto sapeva no?

Claudia: Secondo me no.

Neanche i capi sapevano? quelli che fisicamente hanno fatto il fotomontaggio e portato i manifesti?

Claudia: Alla base c’è ignoranza.

Tra un po’ di anni se avrete un figlio cosa gli racconterete?

Claudia: Di pensare bene e sempre con la sua testa. La maggior parte dei tifosi della Lazio vanno verso destra ma questo non vuol dire che tutti lo siano. Mio padre è di sini-stra e non mi ha imposto niente.

Mattia: Se non conosci quella realtà non puoi capire, gli ambienti caldi, la goliardia, comunque è stato un gesto sbagliato.

Anna Frank è stata deportata con la famiglia ad Auschwitz ed è morta a Bergen-Belsen tra febbraio e marzo del 1945 di tifo. Il suo libro pubblicato nel ’47, è stato tradotto in oltre 60 lingue e ha venduto più di 30 milioni di copie. Dal Diario è stata realizzata un’opera teatrale, una cinematografica e anche un film di animazione. Nel 2009 l’UNESCO ha inserito il Diario di Anna Frank nell’Elenco delle Memorie del mondo.

«... È un gran miracolo che io non abbia rinunciato a tutte le mie speranze perché esse sembrano assurde e inattuabili. Le conservo ancora, nonostante tutto, perché continuo a credere nell'intima bontà dell'uomo che può sempre emer-gere... »

(Dal Diario di Anna Frank)

L'adesivo su Anna Frank dei tifosi della Lazio

In rosso le “zone di guerra” nel mondo

L'adesivo su Anna Frank dei tifosi della Lazio

Saggio

1716

di brevetti, manovre finanziarie e di

borsa coperte, etero direzione di flussi

migrativi clandestini, sabotaggio, fal-

sificazione di moneta).

Ovviamente coperte sono forme di

lotta più cruente come attentati ad

impianti industriali a reti di trasporti

e telecomunicazioni, guerra batte-

riologica con finalità economiche (ad

es. contro il patrimonio zootecnico),

rapimenti ed attentati mirati contro

finanzieri, imprenditori, tecnici di

particolari competenze, pirateria

marittima, aerea o informatica, bom-

bardamento informatico.

Parallele sono le forme di conflitto

politico coperto (manipolazione di

campagne elettorali e risultati per

via web, campagne scandalistiche,

alimentare campagne stampa in paesi

terzi, finanziamento a movimenti di

opposizione anche terroristici, cor-

ruzione, disinformazione sia verso

l’avversario che verso terzi) che pos-

sono evolvere anche verso forme più

violente (appoggio alla criminalità

organizzata dell’avversario, attentati

indiscriminati, rapimenti, guerra

batteriologica, rapimenti di esponenti

politici, magistrati e giornalisti, pira-

teria aerea, bombardamento informa-

tico, procurati disastri ferroviari, ae-

ronautici, inondazioni sino ad ispirare

un colpo di stato militare).

La cyber war, in questo senso, ha

dischiuso orizzonti sin qui insperati

tanto in direzione economico-finan-

ziaria, quanto in quella politica.

Accanto a queste due principali

forme di conflitto occorre conside-

rarne altre parzialmente intrecciate

come il conflitto cognitivo, o quello

del cosiddetto soft power. Per quanto

riguarda il piano militare assistiamo

ad una forte graduazione delle forme

di lotta che in parte riprendono e svi-

luppano forme classiche come l’uso

di forme di guerra non ortodossa (ap-

poggio a guerriglie e terrorismi), in

parte sviluppano nuove forme come la

“guerra catalitica” cioè tesa a svilup-

pare uno scontro fra un determinato

paese ed un terzo, simulando attacchi

come provenienti da esso.

Come si vede, in ciascuna delle

dimensioni considerate (economica,

politica, cognitiva e militare) si ma-

nifestano tanto forme aperte quanto

coperte, che sono quelle più proprie

dell’attuale fase storica e se ne com-

prende facilmente il motivo: l’uso di

forme di aggressione cruenta si confi-

gura di per sé come un atto di guerra

al quale l’aggredito potrà rispondere

in modo più o meno flessibile ma sarà

difficilmente evitabile il confronto

militare, ma anche una aggressione

economica o un attacco cyber po-

trebbero indurre l’avversario ad una

risposta di eguale intensità, anche al

limite dello scontro militare.

Dunque, ci sono forme di lotta

aperte ed incruente, che collochiamo

senza problemi nello stato di pace e

quelle cruente che iscriviamo altret-

tanto tranquillamente nello stato di

guerra. I problemi sorgono con le due

fasi intermedie di conflitto coperto. La

fase incruenta mostra delle forti ten-

sioni che, se venissero allo scoperto,

spingerebbero verso un confronto di

tipo militare che, però, l’azione diplo-

matica potrebbe evitare. In ogni caso,

ci sembra che questa fase si ponga

a cavallo fra stato di pace e stato di

guerra, in particolare nelle sue forme

più radicali (falsificazione di moneta,

sabotaggio di reti e stabilimenti di

interesse economico, o, addirittura, di

insediamenti militari) che rientrano

nello stato di guerra.

Ovviamente le forme coperte

cruente non possono essere conside-

rate ancora stato di pace. Poniamoci

qualche domanda: l’attentato dell’11

settembre va considerato come un atto

di guerra? È evidente che una strage

indiscriminata, procurare disastri o

inondazioni, ecc. sono atti che vanno

al di là dello stato di pace. Ma neppure

possiamo, per questo stesso, parlare di

stato di guerra vero e proprio perché

si pone un problema: atto di guerra

da parte di chi? La guerra vera e pro-

pria sottintende lo scontro fra due

soggetti che esercitino la sovranità su

un territorio, ma, se l’attacco viene da

una organizzazione terroristica che,

per definizione, non ha un territorio

su cui esercitare sovranità, si può

parlare di guerra? Nel caso dell’11

settembre la reazione è stata quella di

una guerra aperta, perché si è identi-

ficato l’Afghanistan come territorio

di uno stato sovrano responsabile

dell’attentato, e questo per il rifiuto

di consegnare Osama Bin Ladin agli

americani. Ma, in altri casi, questo

rapporto è meno evidente e spesso

assai ambiguo (si pensi ai rapporti fra

Sauditi, Quatarioti e la galassia jiha-

dista). Peggio ancora quando si parla

di forme di criminalità organizzata

(ad esempio la pirateria) o di attacchi

cyber riconducibili ad anonimi hacker

di cui si può subdorare l’appartenenza

ad un qualche servizio segreto statale,

ma si cui non c’è prova.

È possibile che la parte colpita,

una volta identificato l’aggressore,

possa reagire con una dichiarazione

di guerra, come anche è possibile

che scelga di portare la questione

all’attenzione della comunità in-

ternazionale. Ma, nel complesso,

l’ipotesi più probabile è che risponda

con altre forme di guerra coperta.

In questo caso saremmo di fronte a

qualcosa che va al di là della pace,

ma non comporta ancora lo stato di

guerra, quantomeno sotto un profilo

giuridico. Ma anche sotto il profilo

sostanziale si tratterebbe di una sorta

di “guerra imperfetta”. Lo stato di

guerra coperta, peraltro, obblighe-

rebbe alla dissimulazione i due con-

tendenti e non solo per i colpi inferti,

ma anche per quelli ricevuti. Infatti,

se uno dei due rendesse pubblica la re-

sponsabilità dell’altro, ad esempio, in

un disastro ferroviario, una strage o

una inondazione, da un lato potrebbe

difficilmente evitare di giungere alle

estreme conseguenze (anche per le

pressioni della propria opinione pub-

blica), dall’altro si esporrebbe ad ana-

loghe accuse da parte dell’avversario.

Dopo di che la gestione del conflitto

diventerebbe assai problematica ed i

margini di azione della stessa comu-

nità internazionale sarebbero assai

angusti. Dunque, tutto fa pensare

che una simile denuncia verrebbe

solo quando uno dei due contendenti

avesse deciso di andare allo scontro

aperto. Ma prima di questo stadio

finale, saremmo in una classica situa-

zione da “guerra fredda”, nella quale

il conflitto procede consensualmente

in forme coperte. E questo implica

la dissimulazione - almeno parziale

- delle responsabilità avversarie.

D’altro canto, in una situazione del

genere occorrerebbe anche valutare

attentamente l’ipotesi di una “guerra

catalitica” per l’inserirsi coperto di un

terzo contendente. Se questa ipotesi,

negli anni sessanta, venne ritenuta re-

siduale, oggi, in considerazione della

forte pluralità di attori sulla scena in-

ternazionale e della più ampia gamma

di forme di guerra coperta, non appare

più così facilmente accantonabile.

Tutto questo ci porta ad identifi-

care uno stadio intermedio fra stato

di pace e stato di guerra da definire

meglio. In questa sede non ci poniamo

il problema da un punto di vista giuri-

dico, quanto da un punto di vista so-

stanziale e di analisi politico-militare.

Negli anni cinquanta-ottanta (du-

rante la prima “Guerra Fredda) que-

sta situazione sarebbe stata definita

“guerra a bassa intensità”, in quanto

in essa non sarebbero entrati in ballo

né gli armamenti convenzionali né,

tanto meno, quelli nucleari. Ed in una

certa misura, questa gradazione cor-

rispondeva alla realtà: il grado di di-

struttività di simili interventi non era

lontanamente paragonabile a quello

di una guerra anche solo conven-

zionale. Oggi questa classificazione

lascia meno convinti, soprattutto

Kim Jong-un, presidente della Corea del Nord

Saggio Saggio

1918 Ius Soli

per l’accresciuta gravità delle forme

di guerra coperta (si pensi all’11 set-

tembre, ma anche alle conseguenze

delegittimanti di un brutale inter-

vento cyber che stravolga i risultati

elettorali o provochi una grande crisi

finanziaria). Certamente dal punto di

vista economico i danni di forme di

guerra coperta come quelle satellitare,

informatica, batteriologica ecc. non

sembrano molto lontani da quelli di

una guerra convenzionale. Ma anche

dal punto di vista del prezzo di sangue

la comparazione non sembra più così

impari. Ad esempio, l’ipotesi di guerre

batteriologiche quasi subito venne ac-

cantonata dalle due superpotenze per

l’incontrollabilità di attacchi di que-

sto genere che potrebbero facilmente

rivoltarsi contro lo stesso aggressore.

Ma oggi la ricerca ha permesso di

ottenere virus dall’azione molto più

selettiva e, chi fosse preventivamente

in grado di disporre dell’antidoto,

potrebbe anche sperare di ripararsi

da una eventuale pandemia. Peraltro,

se difficilmente una grande potenza

potrebbe indursi a far ricorso ad

una simile arma, assai meno sicuro

è che non vi ricorra qualche potenza

minore (in fondo, a proposito delle

armi batteriologiche, si è parlato di

“atomica dei poveri”). D’altra parte,

anche le armi chimiche oggi presen-

tano una pericolosità maggiore del

passato e l’attacco con il sarin alla

metropolitana di Tokio ne è stata una

avvisaglia.

D’altra parte, il grado di distruttività

di una guerra coperta è proporzionale

anche al numero di attacchi che esso

comporta: un attacco con gas nervino

o un attentato ferroviario di per sè

comportano molte meno vittime di

una battaglia campale di carri o di un

bombardamento aereo strategico, ma

una fitta serie di attentati del genere

potrebbe anche superare questi nu-

meri.

La Guerra Fredda implicò molte

forme di guerra coperta, ma essa non

ebbe un carattere massiccio e sistema-

tico, nulla esclude oggi la possibilità di

un uso molto più esteso e coordinato

di azioni del genere.

Peraltro, un attacco sistematico alle

reti informatiche di un paese potrebbe

sortire effetti difficilmente calcolabili

sia sul piano delle distruzioni mate-

riali che delle vittime. E si pensi agli

effetti di un attacco che blocchi una o

più centrali elettriche.

Soprattutto, esiste ormai la possi-

bilità (anche se non una particolare

probabilità) di un attacco nucleare

coperto con minibombe. Si potrebbe

parlare ancora, in questo caso, di

“bassa intensità”?

Infine, non è da accantonare del

tutto l’ipotesi di un massiccio ricorso

a forme di guerra coperta come prepa-

razione di un attacco convenzionale

che costituirebbe solo la “spallata

finale” del conflitto. In questo caso,

non avrebbe senso parlare di guerra

solo per la fase finale.

Dunque, la definizione di “guerra

a bassa intensità” non appare più cal-

zante rispetto alla situazione attuale:

nell’era della globalizzazione non esi-

ste più una distinzione netta fra pace e

guerra e dobbiamo pensare in termini

di uno stadio intermedio che può ra-

pidamente progredire o regredire in

una direzione o nell’altra.

La cittadinanza agli stranieri deve partire dalla culturadi Filippo SENATORE

Da alcuni anni il “politichese” ha assunto una terminologia oscura che va dall’inglese macchero-nico (jobs act) al latino curiale, usato non sempre

in modo preciso dal mondo accademico e dell’informa-zione. Lo ius soli, promosso dall’ex ministro Cécile Kyenge (governo Letta) è uno di questi, oscuro e generico nel significato. Letteralmente significa “diritto del suolo”. Buio ancora pesto nel cuore dei semplici. Il rimando del termine ha un altro significato: la cittadinanza che spetta a chi nasce nel territorio di uno Stato. Un automatismo per i figli dei cittadini indigeni che si vorrebbe trasmettere ai figli degli stranieri radicatisi nel territorio. Da alcuni mesi un disegno di legge sul tema divide il mondo politico e la società civile. Troppo lassista dicono a destra. Troppo rigido dicono a sinistra. E sembra assai difficile che a riani-marlo basti lo sciopero della fame, a giorni alterni, di Graziano Delrio ministro della Repubblica assieme a un gruppo di parlamentari e comuni cittadini raccolti attorno all’appello dei Radi-cali e di Luigi Manconi. Nemmeno la crisi econo-mica e le ondate di sbarchi hanno dissuaso il senti-mento di solidarietà. Il nostro Paese si è dimostrato capace di aprire le braccia ai più deboli, condividendo ciò che aveva. Sei anni fa, il 71 per cento dell’opinione pubblica era favorevole alla citta-dinanza. Gli ultimi sondaggi danno questa quota poco sopra il 40 per cento: un crollo senza precedenti. In mezzo ci sono stati gli attentati in Europa che, da Charlie Hebdo in poi, hanno assunto cadenza quasi mensile, mietendo centi-naia di vite innocenti nelle nostre strade e insinuando in ciascuno di noi il timore dell’altro, specie quando questi proviene da una cultura diversa e spesso ostile come è stata a lungo nella storia d’Italia la cultura islamica. Perfetta-mente comprensibile, dunque, il rovesciamento del senti-mento collettivo. L’assassino di Marsiglia che grida «Allah u Akbar» spiega meglio di tutti l’oscuro brocardo latino. Sostiene Ernesto Galli della Loggia: “Se è demagogica l’im-magine agitata dalla Destra di un’Italia a rischio d’inva-sione dall’Africa, è pure demagogica e falsa l’idea divulgata da certa Sinistra e da certo cattolicesimo, che approvare la legge sarebbe dettato da un elementare dovere di umanità. Fino a prova contraria, infatti, coloro che oggi si trovano in Italia, tanto più se con un regolare permesso di soggiorno (ed è a questa condizione che fa sempre riferimento anche il progetto di legge) non si trovano certo in una condizione di reietti, di non persone prive di diritti. Non sono condannati a un’esistenza immersa nell’illegalità”. In verità l’attuale legislazione prevede un percorso di cittadinanza per i minori stranieri fino alla maggiore età. Il disegno di legge ha il pregio di puntare sulla cultura di una nazione che è fatta non solo della conoscenza dell’italiano ma soprattutto

del sistema democratico e dell’educazione civica. Anche i ragazzi italiani alla fine della scuola dell’obbigo dovrebbero conoscere un briciolo di storia patria compresa la Resi-stenza partigiana, la lotta di liberazione e la costituzione repubblicana. Sarebbe meglio una riforma scolastica che riguardi tutti i giovani, italiani e stranieri, che approfon-disca temi essenziali negli ultimi anni molto trascurati.Il disegno di legge arenatosi non darebbe affatto la cittadi-nanza automatica a chi nasce qui in Italia e sarebbero comunque previsti vari paletti come l’obbligo per i genitori dei bambini che chiedono la cittadinanza di avere in tasca il permesso di soggiorno di lungo periodo o il requisito che il minore abbia completato un ciclo scolastico e così via. Sarebbe opportuno aggiungere nella norma in esame «l’ac-certamento preliminare circa la conoscenza né della nostra

lingua, né dei costumi, né delle regole, né di niente della società italiana». In vari Paesi africani dopo l’in-dipendenza, è stata abolita la cittadinanza automatica del luogo diu nascita privi-legiando l’origine etnica dei genitori. Tra i Paesi dove il neonato nel territorio patrio diventava automaticamente un cittadino c’erano allora «gli Stati Uniti, il Canada, tutti i Paesi dell’Oceania, la maggior parte dei Paesi dell’America Latina, le

colonie inglesi e portoghesi in Africa e Asia e, in Europa, Regno Unito, Irlanda e Portogallo». Da allora però solo gli Usa hanno conservato tale principio. Gli altri, di fronte alle paure per le ondate migratorie che rischiavano di scatenare reazioni razziste destinate a nuocere agli stessi immigrati, hanno cambiato via via le regole. Meglio il sistema misto. Il diritto alla cittadinanza, con regole sagge e certe, dovrebbe essere concesso a chi si sente italiano. Sembra un paradosso che la destra italiana e Antonio Di Pietro abbiano promosso e ottenuto dal parlamento quasi all’unanimità, la modifica costituzionale che prevede l’elezione di 18 parlamentari votati all’estero con costi non sempre sostenibili. Chi vota? Figli e nipoti di italiani emigrati nel mondo che non conosce la lingua, la cultura e la storia patria. Hanno ottenuto la cittadinanza italiana senza la necessità di rinunciare a quella del paese dove sono nati e senza obbligo di risiedere in Italia. Chi nominano? Uno per tutti Antonio Razzi che non conoscere la lingua italiana pur essendo nato in provincia di Chieti. Le sue frasi sgrammaticate e incom-prensibli sono state oggetto della satira di Maurizio Crozza. Ora da segretario della commissione Esteri del Senato, svolge propaganda a favore della Corea del Nord tra l’indif-ferenza del mondo politico che lo ritiene un originale , evangelicamente, uno che non sa cosa fa… a tempo perso.

Azione di guerra in Afghanistan

Saggio

2120 L'Anniversario L'Anniversario

Strage fascista di Piazza Fontana, una ferita ancora aperta

Come ogni anno a Milano è stata ricordata la spaventosa strage neofascista di piazza Fontana che ha seminato morte e distruzione

nella nostra città, con la quale ha avuto inizio la strategia della tensione, sconfitta anche grazie alla straordinaria mobilitazione che a

partire da Milano nel giorno dei funerali delle vittime di piazza Fontana, le forze democratiche seppero promuovere. Roberto Cenati,

presidente dell’Anpi milanese ha scritto: “Il nostro pensiero non può non andare alle diciassette vittime innocenti della strage di

piazza Fontana, a quei semplici lavoratori e commercianti la cui vita, le cui speranze sono state inesorabilmente spezzate e al dolore

inconsolabile dei familiari, alle loro sofferenze e delusioni patite in questi lunghissimi anni.

E il nostro commosso ricordo non può non estendersi alla diciottesima vittima di piazza Fontana, Giuseppe Pinelli, che, come osser-

vò il 9 maggio 2009 il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, "fu vittima due volte, prima di pesantissimi infondati sospetti

e poi di una improvvisa assurda e tragica fine”.

CHE COSA ACCADDE VERAMENTE A MILANO IL 12 DICEMBRE DEL 1969?A dISTANzA dI TANTI ANNI ANCOrA SeNzA rISpOSTA AlCuNI INTerrOgATIvI: quANTe FurONO le BOMBe prONTe Ad eSplOdere? perChÉ FIN dAllA MATTINA SI erA SpArSA lA NOTIzIA dellA STrAge?

di Saverio FERRARI

La strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, 17 morti e 87 feriti, continua a trascinare con sé, a tanti anni di distanza, domande e interro-gativi. Che cosa accadde veramente quel giorno a Milano?

quATTrO e NON due le BOMBe?

La mattina del 13 dicembre sulla prima pagina del quotidiano della Democrazia cristiana, «Il Popolo», comparve la clamorosa notizia del ritrovamento verso la mezzanotte del giorno prima, «in via Monti», di un «altro ordigno», poi «disinnescato e reso inoffensivo» dagli artificieri. Notizia rimasta senza alcun seguito. «l’Unità», a sua volta, il 18 dicembre, a pochissimi giorni dalla morte di Giuseppe Pinelli, precipitato dal quarto piano della questura, pubblicò in edizione nazionale il resoconto di una conferenza stampa tenuta dagli anarchici del Circolo Ponte della Ghisolfa, con la denuncia del ritrovamento di altre due bombe inesplose, taciute dalla polizia, nella sera stessa del 12 dicembre, una in una caserma militare e l'altra in un grande magaz-zino. La questura smentì immediatamente. Su questa vicenda il quotidiano comunista ritornò mesi dopo, il 26 febbraio, scrivendo di «due ordigni» rinvenuti «presso il negozio di abbigliamento della FIMAR in corso Vittorio Emanuele» e la «caserma di via La Marmora», denunciando il giorno successivo con un altro pezzo in prima pagina come ai vigili urbani, autori del rinvenimento, e «ai loro dirigenti», fosse stato «imposto il silenzio».

Quali proporzioni avrebbe dovuto assumere la strage di Milano? Di chi furono le eventuali responsabilità nell’occultamento degli ordigni ritrovati? Domande che meriterebbero una risposta, pur a distanza di tanti anni. Domande non inutili per sapere chi decise di manipolare la verità. Si spiegherebbe final-mente in questo modo anche il motivo dell’acquisto da parte di Franco Freda, riconosciuto come uno dei corresponsabili della strage, di quattro borse a Padova, solo una delle quali fu rinvenuta intatta con dentro la bomba inesplosa alla Banca commerciale di piazza della Scala.

uNA STrAge ATTeSA dA Ore

Anche un'altra concatenazione di fatti, antecedente la strage, non è mai stata sufficientemente indagata. Nel memoriale di Aldo Moro redatto nei cinquantacinque giorni della sua prigionia ad opera delle Brigate rosse, tra il 16 marzo ed il 9 maggio 1978, rinvenuto nell’ottobre del 1990 in via Monte Nevoso a Milano, leggiamo testualmente: «Ma i fatti di Piazza Fontana furono certo di gran lunga più importanti. Io ne fui informato, attonito, a Parigi dove ero insieme con i miei collaboratori in occasione di una seduta importante dell’assem-blea del Consiglio d’Europa che per ragioni di turno dovevo presiedere [...]. Proprio sul finire della seduta mattu-tina ci venne tra le mani il terribile

comunicato d’agenzia, il quale ci dette la sensazione che qualcosa di inau-dita gravità stesse maturando nel nostro paese. Le telefonate, intrec-ciatesi fra Parigi e Roma, nelle ore successive non potettero darci nessun chiarimento [...]. Io cercai di sapere qualche cosa, rivolgendomi subito al Presidente Picella, allora segreta-rio Generale della Presidenza della Repubblica, uomo molto posato, centro di molte informazioni (ovvia-mente ad altissimo livello) ma non con canali propri. I suoi erano i canali dello Stato. Alla mia domanda sulla qualifica politica dei fatti, la risposta fu che si trattava di gente apparte-nente al mondo anarchico».

Un ricordo singolare. Come è noto, la strage di Piazza Fontana avvenne solo alcune ore più tardi, alle 16.37. L’ANSA diramò la notizia alle 17.05 e solo nel dispaccio delle 18.30 parlò di una bomba. Si potrà certamente pensare ad un cattivo ricordo anche per le difficili condizioni di prigionia in cui versava Moro. Ma Moro non fu il solo a ricordare male. Anche Alberto Cecchi, già parlamentare del Pci, nella sua Storia della P2 incorse in un iden-tico infortunio: «In Italia l’inizio del secondo tripudio (quello delle armi e del terrorismo) è contrassegnato da una data e da un’ora: il 12 dicem-bre 1969, intorno alle 11 del mattino. È la strage di Piazza Fontana». Forse a monte di tutto c'è una spiegazione molto semplice: già 5 o 6 ore prima in ambienti politici e militari si era

diffusa la notizia dell’imminenza di un fatto di eccezionale gravità. L’allarme era già diffuso. Da qui l’anticipazione in alcuni protagonisti politici dell’epoca del ricordo della strage. Andrebbe, sotto questo profilo, ancora una volta ricor-dato l’interrogatorio reso il 7 settembre 2000 dal senatore a vita Paolo Emilio Taviani, più volte ministro e figura tra le più prestigiose della Dc. Interrogatorio rilasciato nell’ambito delle nuove indagini sulla strage di Piazza Fontana. Uno dei documenti in assoluto più illuminanti proprio sulle ore antecedenti i fatti. «La sera del 12 dicembre 1969», disse, «il dottor Fusco defunto negli anni ’80, stava per partire da Fiumicino per Milano, era un agente di tutto rispetto del SID [...]. Doveva partire per Milano recando l’ordine di impedire attentati terro-ristici. A Fiumicino seppe dalla radio che una bomba era tragicamente scoppiata e rientrò a Roma. Da Padova a Milano si mosse, per depistare le colpe verso la sinistra, un ufficiale del SID, il Ten. Col. Del Gaudio». Una ricostruzione ribadita dalla stessa figlia del Dottor Fusco, Anna, solo pochi mesi dopo, il 13 marzo 2001. «Posso dirvi», ribadì riferendosi al padre, «che il non aver impedito la strage di Piazza Fontana fu il cruccio della sua vita». In questa ultima deposizione la signora Fusco aggiunse anche un particolare su cui mai si è forse riflettuto suffi-cientemente. «Mio padre», sostenne, «era un ‘rautiano di ferro’ e ho sempre avuto l’impressione che abbia appreso l’episodio del 12 dicembre non dai servizi ma dalle sue conoscenze di destra». La verità, anche in questa versione, continua a dirci dell’intreccio fra neofascisti ed apparati statali.

La Banca dopo l'esplosione della bomba

2322

vINCe lA deSTrA, MuSuMeCI È Il preSIdeNTe – lA deBACle dellA SINISTrA e del pd

Sicilia nelle mani di un “fascista per bene”

Nello Musumeci, storico esponente del

MSI in Sicilia, è il nuovo governatore della

regione Sicilia e prende il posto di Rosario

Crocetta. Nelle elezioni precedenti, era il

2012, Crocetta aveva sconfitto Musumeci,

ma non si è ricandidato per un secondo

mandato. Musumeci ha affermato che il

suo primo compito da presidente sarà «re-

cuperare oltre il 50% di siciliani che ha de-

ciso di non votare». Quelle del 5 novembre

sono state, infatti, le elezioni regionali alle

quali hanno votato meno persone nella

storia della Sicilia. L’affluenza è stata del

46,76%. I risultati definitivi delle elezioni

vedono Musumeci, candidato sostenuto

dall’intera coalizione di centrodestra (da

Silvio Berlusconi, Matteo Salvini e Giorgia

Meloni), ottenere il 39,8% dei voti, mentre

le liste a lui collegate il 42%. Il centrode-

stra dunque controlla la maggioranza nel

Parlamento regionale con 36 deputati su

70 totali. Il Movimento 5 Stelle è stato il

singolo partito più votato, con il 26,6%, il

suo candidato, Giancarlo Cancelleri, ha

ottenuto il 34,6%. Il candidato di PD e

Alternativa Popolare (per chi non lo sa-

pesse, il “partitino” di Angelino Alfano),

Fabrizio Micari, ha ottenuto il 18,6%, le

liste che lo sostengono il 25 per cento. Gli

alfaniani tuttavia non sono riusciti a supe-

rare lo sbarramento del 5% e non sono en-

trati nel più antico parlamento d’Europa.

Il candidato della sinistra, Giuseppe Fava

(figlio del giornalista Pippo, ucciso dalla

mafia), ha ottenuto il 6,1% per cento dei

voti, la sua lista il 5,2%. Tutti i candidati

a governare l’isola sono stati accomunati

dalla preoccupazione quasi ossessiva di

marcare la differenza rispetto alla giunta

uscente guidata da Rosario Crocetta che,

come ha scritto sul suo blog il filosofo pa-

lermitano Augusto Cavadi, «ha dimostrato

che in nome dell’antimafia si può vincere,

ma non certo amministrare. E i cittadini,

giustamente, vogliono governi che sap-

piano coniugare i valori etici con gli inte-

ressi economici, senza correre il rischio di

rimpiangere predecessori che, disinvolti

moralmente, avevano una certa abilità

tecnica (se non altro per motivi cliente-

lari)». A dire il vero, fatto quasi unico nella

storia dei candidati di centro e di destra

in Sicilia, anche Musumeci ha fondato la

sua campagna elettorale sul rifiuto della

mafia. È opinione diffusa, anche a sinistra,

che il neogovernatore sia, da questo punto

di vista, al di sopra di ogni sospetto. Come

ha scritto Francesco Merlo su “Il Venerdì

di Repubblica”:

«Musumeci è il

“nero Sicilia”, l’an-

timafia di destra,

l’ex presidente

della Provincia mi-

nacciato dai clan ai

quali negava gli

appalti, il fascista

per bene». Il suo

slogan elettorale, è

stato tratto dall’au-

spicio che Paolo

Borsellino, pochi giorni prima di morire,

fece alla vedova di Vito Schifani, agente

della scorta di Giovanni Falcone, quando

le disse di non abbandonare l’isola perché

«vedrai che un giorno la Sicilia diven-

terà bellissima». Musumeci si è dunque

imposto, trasversalmente, come persona

seria e credibile. Come ha scritto Lirio

Abbate su "L'Espresso": «Nello Musumeci

viene presentato come figura credibile

perché, pur avendo ricoperto a lungo in-

carichi nella pubblica amministrazione

e godendo di una rete di potere consoli-

data negli enti pubblici catanesi, non è

mai stato colpito da alcun procedimento

penale. Caratteristica che viene venduta

come valore aggiunto: dovrebbe essere

il minimo per qualunque candidato, solo

che in Sicilia non è la normalità». Eppure

erano numerosi gli “impresentabili” che

lo hanno appoggiato in campagna eletto-

rale, dato messo in luce dai commissari

dell’antimafia che hanno analizzato tutte

le liste che hanno sostenuto i candidati

alla presidenza. Musumeci aveva invitato

gli elettori a non votare gli impresentabili.

Forse non avrebbe dovuto candidarli. Nel

frattempo - mentre il M5S si lecca le ferite

di una sconfitta che, fino a qualche tempo

fa, sembrava impossibile - tra il PD e la

sinistra volano gli stracci. Davide Faraone,

importante dirigente democratico sici-

liano, ha addossato la responsabilità della

sconfitta al presidente del Senato Piero

Grasso, una figura che, a suo dire, avrebbe

potuto unire in coalizione il centro si-

nistra. «Micari ha avuto il coraggio di

candidarsi, quel coraggio che il presidente

Grasso non ha avuto. Abbiamo atteso per

due mesi il suo sì». Non potevamo aspet-

tarci un’analisi differente da colui che si

è definito «il più renziano tra i renziani»,

anche perché onestà intellettuale avrebbe

voluto che Faraone ammettesse che la

sconfitta siciliana è frutto di un’azione di

Francia: sulle tracce della Grande GuerrauN vIAggIO dellA MeMOrIA per rICOrdAre l’ANNIverSArIO del prIMO CONFlITTO MONdIAle

L’ANPPIA di Verona in collaborazione con l’ANPI, l’ANED e l’I-

stituto veronese per la storia della Resistenza e dell’età contempo-

ranea ha organizzato un viaggio in Francia sui luoghi della prima

guerra mondiale, toccando anche Vichy, capitale dell’omonima

repubblica collaborazionista dei nazisti, e giungendo infine a

Ginevra dove hanno sede importanti istituzioni umanitarie. Il no-

stro Viaggio della memoria ha visto la partecipazione di quaranta

soci delle Associazioni ed è stato effettuato in pullman partendo

da Verona. Durante il viaggio sono state illustrate dallo storico

Carlo Saletti, nostro socio e profondo studioso di quel periodo, le

varie tappe che portarono allo scoppio della guerra e ai fronti in

cui venne combattuta; si è anche analizzato il contesto sociale,

culturale e antropologico entro il quale maturò questa tragica

esperienza del Novecento. Nel tragitto del primo giorno, che

aveva come meta Strasburgo, ci siamo fermati a visitare il Vieil-

Armand, uno sperone roccioso che domina il sud della pianura

d’Alsazia. Soprannominato in questo modo dai soldati - in seguito

lo chiameranno anche ‘mangiatore di uomini’ e ‘montagna della

morte’ - questo sito si trova in una posizione strategica a quasi

mille metri d’altezza e la sua conquista costò la vita a parecchie

migliaia di soldati che se lo contesero per lungo tempo. Il Museo

Memoriale, nella cui cripta sono state raccolte le spoglie di dodi-

cimila militi ignoti, venne costruito in onore dei soldati francesi

che si immolarono per evitare che i tedeschi penetrassero nella

pianura alsaziana. Il secondo giorno, dopo aver visitato il centro

storico di Strasburgo che racchiude la cattedrale in stile gotico

di Notre-Dame e l’antico quartiere di Petite France, ci siamo

diretti nei pressi della città di Mutzig per visitare il forte noto

con il nome di Feste Kaiser Guglielmo II. Venne costruito dalla

Germania sul finire del 19° secolo quando l’invenzione di esplo-

sivi di alto potenziale resero superate le precedenti fortificazioni

in muratura. La fortezza è ben conservata anche perché non subì

mai le offese della guerra e testimonia la mirabile arte tecnologica

con cui i tedeschi la eressero; un gruppo franco-tedesco è attivo

in questi anni nell’opera di conservazione e restauro di questo

importante manufatto. Buona parte del terzo giorno è stata dedi-

cata alla visita di Verdun dove per più anni si contrapposero l’e-

sercito franco-britannico e quello tedesco. L’offensiva germanica

intendeva attirare il nemico in questo settore per poi infliggergli

il maggior numero di perdite con l’impiego violento e continuo

dell’artiglieria. Su dei vagoncini abbiamo visitato la Cittadella

sotterranea di Verdun apprezzando la ricostruzione che è stata

fatta con oggetti e filmati della vita quotidiana dei soldati durante

la guerra. L’ultima parte del percorso sotterraneo è dedicata alla

cerimonia con cui il 10 novembre 1920 venne designata la bara del

Milite Ignoto che riposa sotto l’Arco di Trionfo a Parigi. Ci siamo

quindi trasferiti al Memoriale di Verdun, il celebre monumento

riaperto nel 2016 dopo due anni di restauri e ammodernamenti.

Foto, oggetti, testimonianze evocano l’esperienza di tanti uomini

che combatterono e morirono in questa grande battaglia.

Siamo giunti poi a Reims dove abbiamo visitato la celebre cat-

tedrale di Notre-Dame de Reims, uno dei più importanti esempi

di arte gotica in Europa, dotata di una stupenda facciata ricca

di numerose statue e di un grande rosone. Nella chiesa furono

incoronati molti sovrani di Francia e la più celebre fu l’incoro-

nazione di Carlo VII nel 1429 avvenuta su impulso e in presenza

di Giovanna d’Arco. Durante la prima guerra mondiale la catte-

drale subì numerosi danni per i bombardamenti tedeschi cui pose

rimedio l’opera di restauro finanziata in gran parte dalla famiglia

Rockfeller. L’8 luglio 1962 il presidente francese de Gaulle e il

cancelliere tedesco Adenauer suggellarono nella cattedrale la

riconciliazione tra i due paesi dopo la fine della seconda guerra

mondiale. Il giorno appresso abbiamo visitato il Museo della

Grande Guerra a Meaux che propone una visione nuova dello

studio del conflitto attraverso una scenografia innovativa che il-

lustra i grandi mutamenti e sconvolgimenti della società francese

causati dal conflitto. Il Museo utilizza le tecniche più moderne

per coinvolgere e stimolare il visitatore facendogli toccare e ma-

nipolare vari oggetti. Nel percorso museale si possono ammirare

aerei, carri armati e altri mezzi impiegati; si può inoltre fruire

della ricostruzione del campo di battaglia, di proiezioni di fil-

mati e diffusioni sonore. Nel quinto giorno abbiamo raggiunto la

cittadina di Compiègne celebre perché, in un vagone ferroviario

allestito in un bosco, l’11 novembre 1918 venne firmato l’armisti-

zio tra l’Impero tedesco e le potenze alleate. Le dure condizioni

imposte ai tedeschi - saranno confermate nel successivo Trattato

di Versailles - miravano a impedire che la Germania potesse ri-

sorgere con tutto il suo potenziale industriale ed economico. Un

secondo armistizio venne siglato nel vagone di Compiègne (si

tratta però di una copia in quanto l’originale andò distrutto nella

seconda guerra mondiale) contenuto in un edificio dotato anche

di un piccolo e interessante museo. Fu il cancelliere tedesco Hitler

a volere che l’atto di resa francese venisse siglato il 22 giugno 1940

proprio nello stesso luogo divenuto un simbolo dell’umiliazione

e del disonore tedesco. La Francia rappresentata dal Maresciallo

Pétain, il protagonista della vittoria a Verdun, accettava che il suo

territorio fosse diviso in due parti: il Nord occupato dalle armate

del Reich mentre la parte centro meridionale veniva affidata a

un nuovo governo francese collaborazionista dei tedeschi. Come

è noto il generale Charles de Gaulle da Londra lanciò l’appello a

tutti i francesi di non subire l’onta di questa resa ignominiosa e di

continuare la lotta fino alla liberazione. A Compiègne abbiamo

visitato il ben strutturato Museo che ricorda la persecuzione

degli ebrei durante l’occupazione tedesca e ai piedi del monu-

mento eretto a ricordo delle vittime innocenti abbiamo deposto

una corona d’alloro delle nostre associazioni. L’arrivo a Vichy ci

ha permesso di meglio comprendere questa pagina della storia

di Francia in quanto nella località termale si insediò il nuovo

governo collaborazionista francese con presidente il Maresciallo

Petain e capo del governo Pierre Laval. L’anziano eroe di Verdun

divenne la figura carismatica del regime; convinto che la vitto-

ria della Germania fosse definitiva si impegnò in una politica di

collaborazione con gli occupanti distinguendosi anche nella per-

secuzione antisemita. L’ultimo giorno è stato dedicato alla visita

di Ginevra detta anche Città della pace in quanto ospita la sede

europea dell’ONU, la sede principale della Croce Rossa e di altre

153 organizzazioni non governative. Dopo aver visitato i luoghi

storici della città ci siamo soffermati nella piazza antistante il

Palazzo delle Nazioni dove si trova il grande monumento della

Broken Chair opera dell’artista Daniel Berset. La sedia gigante

con una gamba rotta, simbolo delle vittime delle mine antiuomo,

vuole ricordare le persone che ancor oggi restano mutilate nel

loro corpo e deve essere vista come un monito agli Stati perché

pongano fine alle guerre. (r.b.)

governo, quello a guida PD degli ultimi 5

anni, che in nessun modo si è interessata

alla "questione meridionale". Come ha

scritto qualche tempo fa il direttore de

"Linkiesta", Francesco Cancellato, «met-

tere mano alla Sicilia è un programma di

governo ed è un programma che merita

di essere portato avanti. Perché risolvere

i problemi della Sicilia, sradicarne i vizi,

metterne in discussione alcuni endemici

privilegi, vuol dire iniziare a cambiare l’I-

talia dal posto che più di tutti ha bisogno

di essere cambiato. Vuol dire mostrare al

resto del Paese che niente è impossibile».

La Sicilia ha seri problemi di democrazia

e di sviluppo economico: un apparato bu-

rocratico che esiste solo come strumento

clientelare; un tasso di disoccupazione

oltre il 22%, il doppio di quello italiano,

il triplo rispetto alla media europea; un-

dicimila giovani emigrati; una economia

agonizzante; povertà in aumento; una rete

ferroviaria inesistente; chilometri e chilo-

metri di strade e infrastrutture in dissesto

o inadeguate; i tempi d’attesa delle presta-

zioni sanitarie sono biblici; le strutture

scolastiche sono fatiscenti; i fondi desti-

nati alla cultura sono stati dimezzati.

Insomma la grande occasione mancata

del governo PD è stata quella di partire

dalla Sicilia per sistemare l’Italia. Ecco

perché, mentre i leader nazionali degli al-

tri schieramenti sono stati nelle principali

città siciliane per tirare la volata ai propri

candidati, Renzi, forse consapevole delle

scarse possibilità di vittoria, ha definito

«una questione locale» le elezioni regio-

nali siciliane e ha disertato la campagna

elettorale. Ammettere una valenza na-

zionale di una sconfitta certa nella quarta

regione italiana per numero di abitanti

(quasi un decimo della popolazione ita-

liana) sarebbe stato come ammettere un

clamoroso fallimento politico. (al.di.)

MemoriaElezioni

2524 Memoria

pArlA Il FIglIO rOBerTO

AURELIO PECCEI EROE PARTIGIANO DIFENSORE DELL’AMBIENTE.di Filippo SENATORE

Nato a Torino il 4 luglio 1908.

Antifascista, partecipò al grup-

po clandestino di Giustizia e

Libertà negli anni Trenta e fu partigia-

no durante la Resistenza. Catturato dai

repubblichini nel 1944 fu sottoposto a

sevizie e tortura. Peccei fu un dirigente

industriale di talento. Fondò stabilimenti

in tutto il mondo. Con il chimico scozze-

se Alexander King fondò nel 1968 il Club

di Roma, un’associazione non governati-

va. Con il suo gruppo commissionò al

MIT, uno studio che si tradusse nel 1972

nel rapporto dal titolo I Limiti dello svilup-

po tradotto in 30 lingue.

professor peccei mi parli delle radici torinesi della sua famiglia.

Mio padre Aurelio ha tratto la sua

forza etica dagli insegnamenti del nonno

Roberto antifascista socialista e libero

pensatore. Studiò alla facoltà torinese di

Economia e Commercio. Venne notato

dalla Fiat per il suo talento che decise

di assumerlo. Il giorno della laurea si ri-

fiutò di indossare la divisa fascista. Nel

frattempo papà aveva ottenuto una borsa

di studio alla Sorbona di Parigi. Sei mesi

- egli racconta - «tra corsi e incontri con

gli esiliati politici di molti Paesi », che gli

permetterà di «ammirare i grandi spiriti

liberi francesi e studiarne le idee univer-

sali – conclude - che hanno influenzato il

mio pensiero sino ad oggi ». Egli per i suoi

meriti di studioso ricevette in premio un

viaggio nell’Unione Sovietica.

I generali dell’areonautica lordi e galanti alla fine degli anni venti erano stati inviati dal governo italiano in Cina, da poco diventata repubblica. l’insediamento del console galeazzo Ciano a Shangai gettò le basi per stringere rapporti diplomatici e costruire alcuni stabilimenti industriali militari.

La Fiat in quel periodo inviò mio padre

per una missione in Cina dove visse dal

1935 al ’38. Mio padre capo della Fiat

di Nanchino creò una fabbrica di aerei

Fiat C.R.32 per il governo di Chiang Kai

Shek. La fabbrica verrà bombardata dai

Giapponesi quando invasero la Cina nel

1938.

Aurelio peccei rientrò in Fiat a Torino poco prima che scoppiasse la guerra?

Sì. Mio padre riprese in città i contatti

antifascisti.Nel 1942 aderì al Partito d’a-

zione e dopo entrò da partigiano nelle

"Brigate Giustizia e Libertà". Durante la

clandestinità, si recò sovente in Svizzera

per tenere i contatti con gli Alleati so-

prattutto con Allen Dulles capo di servizi

americani. In uno di questi spostamenti

fu catturato dai nazifascisti. Subì sevizie

e tortura dalla squadra politica fascista di

Scaloreti a Torino ma non tradì i compa-

gni.

Come sfuggì alla condanna a morte?

I nazisti sapevano del suo ruolo di

primo piano e lo tennero in ostaggio per 11

mesi. Scarcerato pochi giorni prima della

liberazione nel 1945 ci fu la momentanea

epurazione in Fiat di Vittorio Valletta.

Suo padre con il Comitato di liberazione fece parte del gruppo dirigente Fiat fino al ritorno di valletta.

Mio padre, di fatto in quel periodo da

dirigente Fiat, era a capo del Comitato

di gestione ma quando rientrò Valletta

volle ritornare nei ranghi e riassumere

il suo ruolo in Fiat prima della Guerra.

Mio padre chiese a Valletta nel 1949 di

inviarlo in Argentina per costruire nuovi

insediamenti industriali. Nacquero due

stabilimenti uno per la produzione di

trattori e l’altro di macchinari ferroviari.

In seguito arrivarono gli stabilimenti per

le automobili. Mio padre allargò gli affari

in Brasile e Cile con la costruzione di ul-

teriori insediamenti industriali grazie a

preziosi collaboratori come il fratello Elio.

Suo padre diventò una sorta di plenipotenziario della Fiat in Sudamerica?

Dopo nove anni di permanenza in

Argentina venne offerto a mio padre di

dirigere la Italconsult, pur mantenendo

la guida della Fiat in Argentina. La

Italconsult, una riunione di imprese tra

i più famosi marchi italiani, non solo nel

campo automobilistico, quali la Innocenti,

la Montecatini e la stessa Fiat, aveva l'o-

biettivo di fornire consulenza economica

e ingegneristica italiana ai paesi in via

di sviluppo. Sotto di lui la società lavorò

principalmente come un'organizzazione

no-profit. Di ritorno dall’Italia nel 1958

perciò egli si trasferì con la famiglia in

Usa.

lei intanto bruciando le tappe si iscriveva all’università a 16 anni.

Suo padre che veniva dal mondo dell’industria stava maturando una sorta di conversione ambientalista?

Furono riflessioni nate negli anni '60

soprattutto a causa della sua lunga attività

industriale in molte parti del Mondo. Mio

padre, che in quell’epoca era diventato

anche amministratore delegato della

Olivetti, in una conferenza tenuta il 27

settembre 1965 al Collegio militare argen-

tino di Buenos Aires, parlò sia della diffi-

coltà di risolvere gli enormi problemi del

sottosviluppo, sia dei rapidi cambiamenti

nel mondo creati dalla rivoluzione infor-

matica. In conclusione egli notò che, allo

scisma esistente fra i Paesi sviluppati e

quelli in via di sviluppo, si sommava il pe-

ricolo di un ulteriore divario tecnologico

e psicologico fra gli Stati Uniti e l’Europa,

divario che bisognava a tutti i costi evi-

tare. Questo discorso, tradotto in inglese

dall’originale spagnolo, nel 1967 fu ripor-

tato nella documentazione per un conve-

gno delle Nazioni Unite, e fu letto dall’ac-

cademico sovietico Jermen Gvishiani.

Lo studioso, genero dell’allora premier

dell’Unione Sovietica, Alexej Kossighin,

affascinato dalle riflessioni di Peccei,

ma non conoscendo l’autore, mandò il

discorso al suo collega americano Carroll

Wilson, professore al MIT (Massachusetts

Institute of Technology), chiedendogli di

scoprire chi fosse Peccei, per poi potersi

mettere in contatto con lui. Wilson decise

di contattare a tale scopo il suo collega

Alexander King (1909-2007 ndr), l’allora

direttore generale per la scienza all’Ocse

(Organisation for Economic Cooperation

and Development) a Parigi. Quest’ultimo

chiamò al telefono mio padre. Dopo gli

incontri successivi scaturì la scintilla che

doveva dare origine, nell’aprile del 1968,

al Club di Roma. Si aggregò al gruppo

negli anni '70 Elisabeth Mann (figlia del

Nobel e scrittore tedesco Thomas, moglie

di Giuseppe Antonio Borgese in esilio

negli Stati Uniti durante il Ventennio).

Gvishiani, grande ammiratore e poi

amico di Peccei fu il primo membro russo

del Club di Roma.

I primi contatti fra King e Peccei ebbero

luogo nella primavera del 1967. I due si

trovarono immediatamente in sintonia,

accorgendosi di condividere le preoccupa-

zioni per l’andamento del mondo. Sebbene

fossero molto diversi l’uno dall’altro, le

loro idee combaciavano perfettamente.

Peccei era un uomo d’azione, e da bravo

industriale era capace di decisioni tempe-

stive. King era uno scienzato, e quindi più

riflessivo. Quello che li legava era un forte

desiderio di agire per far fronte alle sfide

e alle minacce che vedevano incombere

sull’umanità. Dopo pochi incontri, i due

decisero che sarebbe stato utile organiz-

zare una riunione per proporre le loro idee

a eminenti scienziati, economisti e socio-

logi europei di ampie vedute.

Come primo passo mio padre e King

decisero di chiedere a Erich Jantsch (1929-

1980 ndr) di preparare un documento

di base sulla problematica mondiale.

Jantsch, astronomo di formazione, era un

esperto di metodi di previsione e valuta-

zione della tecnologia. Scriveva mio padre:

«Nessuno sembrava percepire in tutta la

sua profondità il dramma dell’uomo mo-

derno; nessun gruppo o iniziativa pareva

in grado di abbracciarne totalmente le di-

mensioni. Eppure una visione complessiva

dei problemi che attanagliano il mondo

era e resta indispensabile».

Ottenuti dei finanziamenti dalla

Fondazione Agnelli, Peccei e King pote-

rono finalmente invitare a Roma, il 6 e 7

aprile 1968, presso l’Accademia dei Lincei,

una trentina di persone di primo piano per

discutere il loro progetto. Ricorda King:

«Eravamo d’accordo di essere stati un po’

ingenui; sapevamo troppo poco di politica

internazionale; la nostra presentazione

era stata troppo sfavillante e tecnica. Però

eravamo più che mai convinti della neces-

sità di esporre in maniera indipendente, a

livello internazionale, i problemi globali

da noi percepiti».

Con questo proposito nacque il Club di

Roma. Lo scopo era di capire le problema-

tiche mondiali. Veniva stabilito il progetto

di esaminare i problemi che riguardano il

mondo; doveva crearsi una convergenza

di tutti i Paesi più avanzati sulla fattibi-

lità di pianificare razionalmente il futuro

del nostro pianeta. Analisi dei fatti e un

orizzonte a lungo termine. Un progetto

fuori dal mondo delle strategie politi-

che degli Stati, ma inteso a influenzare

il mondo politico mondiale. Mio padre

enfatizzò l’importanza di sviluppare una

nuova scienza per programmare il futuro.

Questa scienza - egli disse riflettendo le

idee di Jantsch - deve essere basata sulla

premessa che l’uomo e la natura costitu-

iscono un macrosistema integrato. Con

molti sottosistemi di questo complesso

in pericolo a causa della sfrenata espan-

sione tecnologica del mondo d’oggi, per

far fronte ai problemi interconnessi del

macrosistema uomo-natura e prevenire il

suo collasso, bisogna iniziare in parallelo

un processo di pianificazione globale che

aiuterà a trovare un futuro migliore per

il mondo.

peccei propose già allora la formazione di un gruppo di studio

Nella riunione del Club a Berna nel

1970 fu invitato tra gli altri Jay Forrester

il quale delineò un suggestivo piano di la-

voro di modelli di previsione. L’esecutore

del progetto fu Dennis Meadows, un suo

promettente allievo. Meadows e i suoi

giovani collaboratori decisero di appro-

fondire i dati necessari per descrivere gli

elementi principali della problematica

mondiale, descrivendo il mondo sulla base

di cinque variabili: popolazione, disponi-

bilità di alimenti, produzione industriale,

risorse non rinnovabili e inquinamento.

peccei seguì il progetto di Meadows con molta attenzione. la sua preoccupazione principale era che il progetto non si dileguasse nel tempo o diventasse un esercizio accademico?

Nel suo libro la Qualità umana mio

padre così ricorda lo scopo del progetto

illustrato a Meadows: «Era necessario

disporre di una versione divulgativa delle

conclusioni del progetto il più presto

possibile, anche prima che i saggi tecnici

fossero in ordine perfetto». Questa fu la

spinta che portò alla stesura de “I Limiti

dello sviluppo” (1972 ndr), il primo rap-

porto al Club di Roma scritto da Donella

H. Meadows, Dennis L. Meadows, Jorgen

Randers e William Behrens III, un anno

prima della pubblicazione dello studio. Il

rapporto presentava le principali conclu-

sioni del progetto del Club di Roma al MIT

in un piccolo volume di facile lettura, di

duecento di pagine, che rispondeva per-

fettamente alle esigenze del Club di Roma.

Con grande gioia di papà il libro ebbe un

enorme successo e scatenò dibattiti appas-

sionati che coinvolsero in tutto il mondo

migliaia di studiosi e cittadini comuni. Le

questioni fondamentali divennero così di

pubblico dominio.

Le conclusioni del rapporto mettevano

in discussione il mito dello sviluppo senza

fine, sostenendo che i ritmi della crescita,

demografica ed economica, e dello sfrut-

tamento delle risorse ambientali, se inva-

riati, entro 100 anni, avrebbero condotto il

pianeta al collasso del sistema produttivo

e al disastro ecologico globale.

Tra i pochi capi di Stato che approvarono

e promossero il rapporto del Club di Roma

c’era il presidente degli Stati Uniti, Jimmy

Carter, ma il suo successore Donald Reagan

ribaltò le conclusioni de I Limiti dello

Sviluppo, come gran parte del mondo eco-

nomico e finanziario mondiale maggiori-

tario anche dei Paesi comunisti. Pregiudizi

ancora legati al vecchio mito della crescita

infinita dell’economia. Negli ultimi 40 anni

si sono sviluppati movimenti ambientalisti,

associazioni e partiti con programmi di svi-

luppo sostenibile.

un successo editoriale che non ebbe seguito nella strategia globale delle grandi potenze?

Mio padre, morto il 13 marzo 1984, ha

dedicato gli ultimi 15 anni della sua vita

alla divulgazione e agli approfondimenti

in materia ambientale. Oggi il Club di

Roma, che fino a oggi non ha mai cessato

di lavorare, con progetti scientifici ed eco-

nomici, sta organizzando le celebrazioni

del cinquantenario della sua fondazione

che avverranno nel prossimo ottobre del

2018.

Che bilancio si può fare della situazione ambientale di oggi? Molte previsioni si sono avverate?

In questi anni è cresciuta la nostra

consapevolezza di un comune destino

all'interno della biosfera e dei rischi

rappresentati dalle attività umane per la

sua conservazione. Non si è però ancora

prodotto un vero cambiamento culturale

nella massa della popolazione e la maggior

parte degli Stati non considera ancora la

questione dell'ambiente e dello sviluppo

sostenibile una vera priorità di governo.

*Roberto Peccei (1942), figlio di Aurelio,

fisico e astronomo. Ricercatore e docente ha

insegnato in varie università americane e

nel mondo ricoprendo ruoli di primo piano.

Attualmente è professore emerito alla Ucla

di Los Angeles ed è vice presidente del Club

di Roma.

2726 Memoria Memoria

I COSATTINI UNA FAMIGLIA ANTIFASCISTA DI UDINE

di Jean MORNERO

«I Cosattini? Mai sentiti nominare. Questo il tipico commento di studiosi e amici quando raccontavo loro l’ar-gomento del mio nuovo libro». Inizia così la biografia di una famiglia di Udine narrata da Sandro Gerbi, che al racconto storico unisce l’affettuosa partecipazione di chi sfoglia un album di persone care. A cominciare dal maggior protago-nista, Giovanni, nato nel 1878, che fu deputato socialista nel primo dopoguerra, amico di Giacomo Matteotti, sindaco di Udine dopo la Liberazione, membro dell’Assemblea costi-tuente e senatore della Repubblica dal 1948 al 1953, un anno prima della morte. Il padre Gerolamo, figlio di un magistrato friulano dell’impero asburgico, era stato un modesto magistrato del regno d’Italia, e con magro stipen-dio e cinque figli peregrinò per varie sedi prima di tornare a Udine come vicepresidente del tribunale. Della sua giovi-nezza Giovanni conservò «un ricordo penoso» per le «condizioni di penuria, di indigenza in cui la mia famiglia era allora costretta a vivere», come disse al Senato nel 1951 sollecitando migliori stipendi per i giudici. Il 4 aprile 1904, un giornale locale descrisse i funerali di Gerolamo, svolti per volontà dell’e-stinto «prima dell’alba, senza preti, senza fiori, senza ceri, senza discorsi» ma fra il «compianto unanime», col fere-tro seguito dalla famiglia, gli amici e una rappresentanza del segretariato dell’ente per l’emigrazione e del circolo socialista. Erano, queste, le organizza-zioni udinesi delle quali era animatore Giovanni, divenuto avvocato, giornali-sta e studioso dell’emigrazione friulana, che era stato l’argomento della sua tesi di laurea.

Fin da giovane, Giovanni si dedicò con passione alla tutela degli emigranti. Socialista, aderì alla corrente riformista di Filippo Turati. Fu schedato come sovversivo di «carattere piuttosto violento», e tuttavia descritto come «ben educato, istruito, intelligente e colto», con «un contegno corretto e rispettoso» verso le autorità, pur essendo «l’anima del Partito socialista di Udine e uno dei capi più influenti». Nel 1905 fu degradato da sottotenente, grado conseguito durante il servizio militare, a soldato semplice per avere scritto un articolo di protesta, in seguito alla morte di un soldato schiacciato da un cavallo, in cui denunciava «le “bramose canne” del militarismo» che «non si trovarono mai sazie». Dal padre, Giovanni aveva ereditato un’intran-sigente laicità risorgimentale, che animò la sua militanza politica fino agli ultimi anni. Nel 1952, al Senato, come espo-nente del Partito socialdemocratico, votò contro un disegno di legge sul concorso dello Stato nella costruzione di nuove chiese, denunciando la minaccia che rappresentava per «la concezione laica dello Stato» la trasformazione del senti-mento religioso, rispettato dai socialisti come «anelito del foro interno della coscienza di ciascuno», in uno «stru-mento di propaganda politica, avvilendolo ad espediente di

lotta a favore di un partito nei confronti di altri partiti»: in tal modo, disse Cosattini, si mutavano «le raccolte mistiche nelle chiese in comizio», mentre sarebbe stato «interesse supremo della nostra stessa civiltà che la Chiesa eviti ogni ingerenza nella vita politica del Paese». Nonostante il suo laicismo, nel 1912 Giovanni sposò con matrimonio religioso Lorenzina Cuoghi, cattolica devota, e accettò l’educazione cattolica per i suoi cinque figli, due maschi e tre femmine, nati fra il 1913 e il 1918. Poi il Caso e Cupido vollero che, negli anni Trenta, le figlie sposassero in chiesa giovani di famiglie ebraiche antifasciste. Come antifascista era il loro genitore. Eletto deputato del Partito socialista nel 1919, rieletto nel 1921, Giovanni protestò più volte contro la violenza fascista. Nel 1924 fu eletto ancora deputato nelle liste del Partito socialista unitario, sorto nell’ottobre 1922

con Giacomo Matteotti segretario. Fu a Giovanni che Matteotti, dopo aver pronunciato alla Camera il 30 maggio 1924 un duro discorso contro il governo Mussolini, disse: «Ora preparatevi a fare la mia commemorazione», rice-vendo in risposta dal deputato udinese il consiglio: «Tienti riguardato; siamo in mano a una banda di delinquenti». Nei due anni successivi, mentre il fascismo gettava le fondamenta del regime tota-litario, Giovanni fu minacciato di morte dai fascisti. Il 1° novembre 1926 a Udine, la sua famiglia assistette all’incendio della loro casa da parte degli squadri-sti. Negli anni del regime, Giovanni rimase a Udine, dove continuò la profes-sione di avvocato, vivendo come altri antifascisti «isolati e chiusi nel nostro guscio», come li descrisse un antifasci-

sta torinese. Nell’antifascismo crebbero i figli di Giovanni, protagonisti della seconda parte del libro di Gerbi. Mili-tanti antifascisti furono i due maschi: Luigi, il primogenito, giurista e docente universitario, amico di Norberto Bobbio e di Piero Calamandrei, aderì al liberalsocialismo all’ini-zio degli anni Quaranta; Alberto, avvocato, nel 1942 aderì al Partito d’azione e divenne partigiano. Luigi, catturato dalle SS nel febbraio del 1943, fu deportato in Germania, dove morì nell’aprile 1945. Alberto combatté nella Resistenza, fu segretario particolare di Ferruccio Parri presidente del Consiglio dal giugno al novembre del 1945, ma nella nuova Italia repubblicana lasciò la politica e preferì l’impegno civile, accanto alla professione forense nello studio paterno. In uno degli ultimi interventi al Senato, il 28 gennaio 1953, Giovanni Cosattini deplorò l’acquisto di regali, finan-ziato dal comune di Udine, per le nozze della figlia del prefetto. Richiamandosi «a quella severità del costume che dobbiamo pretendere proprio da chi ha l’onore di rappre-sentare lo Stato in una provincia», il senatore sollecitò il governo a indagare, perché «in nessun caso può ammettersi che i denari dei contribuenti possano essere destinati a fare questi presenti di natura feudale».

Una ‘gaffe’ di Mussolini

Il duCe e Il CAMpANIle FANTASMA del duOMO

di Carlo TOGNOLI

Singolare la vicenda del (mai realizzato) campanile del Duomo, progetto avallato da Mussolini del 1938.

Già Luca Beltrami aveva ipotizzato, a fine ‘800, la costruzione di una torre campanaria.

Il Piano Regolatore del 1934 prevedeva la realizza-zione della Piazza Diaz, in luogo di un vecchio quartiere degradato (il ‘Bottonuto’) e il completamento della parte meridionale di Piazza Duomo.

Il ‘dibattito’ sugli orientamenti urbanistici e architetto-nici per questa centralissima parte di Milano si può dire che fosse iniziato ai tempi del Mengoni, che aveva previsto la sistemazione di tutta Piazza Duomo, solo parzialmente rispettata. Uno dei problemi da risolvere era quello della ‘manica lunga’ di Palazzo Reale, cioè l’ala occidentale dell’edificio che il Piermarini rielaborò nel ‘700, dandogli una veste neoclassica e aprendo la piazzetta in luogo di un cortile interno dell’antico Palazzo ducale.

Comunque nel 1934, per il ‘campanile’, venne indetto un concorso, che portò alla presentazione di cinquanta progetti, tra i quali ne furono premiati tre, mai eseguiti, ispirati dalla realizzazione di una ‘torre littoria’ (più o meno nell’area dell’attuale ‘arengario’).

Abbandonati questi progetti, il Podestà di allora e la Commissione per il Piano Regolatore tracciarono le linee direttive per la nuova sistemazione, che prevedevano un passaggio da Piazza Duomo, in asse con l’imbocco della Galleria, verso la prevista Piazza Diaz.

Fu scelto (1937) il progetto Portaluppi-Muzio-Magi-stretti-Griffini (che è quello poi attuato) con l’’arengario’ e l’abbattimento della ‘manica lunga’ del Palazzo Reale (dove oggi c’è la scalinata che porta alla ‘sala delle Cariatidi’).

Mentre i progettisti lavoravano per passare alla fase esecutiva, un comunicato stampa del 19 ottobre 1938 rendeva noto che Benito Mussolini aveva ricevuto l’ar-chitetto progettista ed aveva approvato il suo progetto di campanile del Duomo.

Il giorno dopo ‘Il Popolo d’Italia’ titolava, su tre colonne: “La decisione del Duce sul progetto Viganò – Il Campanile del Duomo sarà pronto nel 1942 – Alto 164 metri, in marmo

di Candoglia, occuperà migliaia di operai”.La notizia prese tutti alla sprovvista ma, considerato da

dove proveniva, molti cominciarono a valutarla concreta-mente.

Naturalmente non se ne fece nulla, e Mussolini stesso, dimenticando il campanile, ritornò al progetto dell’’arenga-rio’, raccomandandone la sollecita realizzazione.

Scoppiò la guerra e la piazza Diaz fu realizzata per tre quarti, e completata (grattacielo della Terrazza Martini) dopo la guerra.

Del campanile del Duomo nessuno parlò più e nemmeno delle migliaia di operai che dovevano trovarvi lavoro.

Lo skyline di Milano

2928 Memoria Delibera Antifascista

26 ANNI IN CARCERE DA INNOCENTE: LUIGI PODDA PARTIGIANO E ANTIFASCISTA SARDOdi Maurizio ORRÙ

Da sempre le associazioni resi-

stenziali ed antifasciste italia-

ne rappresentano una preziosa

memoria storica militante. Esse stanno

ridefinendo i concetti di memoria, verità

storica e valore della Resistenza, la qua-

le è stato un momento doloroso ma esal-

tante di partecipazione popolare. Non

bisogna dimenticare il passato attraverso

le mistificazioni e i rigurgiti di mussoli-

niana memoria. La Resistenza si è mani-

festata in varie forme e momenti, diven-

tando un “fenomeno popolare” o meglio

la pagina più bella della nostra Storia con-

temporanea e del nostro Paese. Anche la

Sardegna ha dato un mirabile contributo

contro il nemico nazi-fascista, attraverso

l’apporto di molti partigiani isolani, mol-

ti di questi pastori della Barbagia nuorese,

che si sono distinti per coraggio ed abne-

gazione in molteplici episodi della lotta di Liberazione. Molti i volumi di questo gene-

re. Tra gli altri è significativo il volume edito dall’ANPI di Nuoro dal significativo tito-

lo “Pitzinnos, Pastores, Partigianos eravamo insieme sbandati” (curato da P. Cicalò, P.

Dettori, S. Muravera e N. Piras, 2013), che racconta in modo chiaro ed incisivo i pitzinnos

ovvero i ragazzi di 19/20 anni; i pastores senza nessuna coscienza di militanza antifasci-

sta e partigiana; i partigianos ovvero una vita fatta di stenti e sacrifici. In questo conte-

sto storico e politico è significativa la testimonianza di Luigi Podda “Corvo” (Orgosolo

(Nuoro) 11/02/1924 – 16/02/2009) di professione pastore. Egli nel 1943 veniva chiamato

alle armi. Dall’isola partivano due battaglioni: il primo composto da 48 persone di Bitti

e 38 di Orgosolo. L’8 settembre del 1943 con l’armistizio, veniva sconvolta e destabiliz-

zata l’ organizzazione sociale e militare che si era creata in Italia. In quel frangente sto-

rico la parola d’ordine era “salvare la pelle” dai repubblichini e dai tedeschi. Da Perugia

Luigi Podda assieme ad un folto gruppo di militari raggiungeva, con incredibili difficol-

tà, Roma, in attesa di andare a Civitavecchia, per potersi imbarcare per la Sardegna. Ma

il sogno ben presto si infrangeva: da quel porto non partiva nessuna nave passeggeri, in

quanto tutti i mezzi erano stati requisiti. Sconforto e delusione tra la comunità sarda.

Luigi Podda, così ricorda: “(…) ma fummo presi dai tedeschi che in treno ci manda-

rono a Cremona e poi a Trieste, ma una cinquantina di sardi fuggimmo tutti verso la 19°

Brigata slovena del IX Corpus i cui capi decisero di includerci nel battaglione d’assalto

triestino . In questo battaglione combattemmo dal 20 gennaio 1944 alla liberazione nel

maggio dl 1945” (tratto da Pitzinnos Pastores…). In questo battaglione vi era una compo-

nente di soldati sardi (Corvo, Cavallo, Crudu, Barbarossa, etc). La zona delle operazioni

era la Slovenia, un territorio aspro e montuoso, molto simile alla Sardegna. La brigata

aveva compiti militari assai rischiosi, riconducibili alla sistemazioni di mine nelle strade

di passaggio dei nazi-fascisti. Numerose le azioni in cui erano protagonisti i membri del

battaglione d’assalto Triestino”.

Ricorda Corvo “(….) Sotto il comando di Riccardo Giacuzzo il 3 febbraio del 1944 abbiamo

fatto un’azione di guerra all’aeroporto di Ronchi che non dimenticherò mai. C’erano al-

cuni dei miei connazionali in quell’azione, Cangiargiu, Piras, Sanna , Corraini e Mesina.

Con noi portammo taniche di benzina e fiammiferi, ma nessuno sapeva cosa avremmo

dovuto fare a Ronchi, ma una volta vicino all’aeroporto, Giacuzzo ci diede ordini precisi

di attaccare e bruciare alcuni aerei Junkers pieni di bombe(…)” (tratto da Pitzinnos…).

Delle tante interviste rilasciate da “Corvo” soprattutto agli studenti, ricordiamo quella

apparsa sul volume “Storia e Memoria", Le scuole in Rete. Nuoro, 2003. Continua così

Podda “(…) Sono andato a Roma e mi sono presentato al comando militare dove sono stato

riconosciuto come facente parte del CORPO VOLONTARIO PER LA LIBERTÁ. E questo

risulta dal mio foglio matricolare. Dopo due anni lo Stato ci diede 32.000 lire. Io, con quei

soldi, aggiungendovi 10.000 lire, comprai

un carro, in quanto possedevo già dei buoi,

per fare la nuova attività di contadino

(…)”. Dopo la Liberazione, la vita di Luigi

Podda gli riservava negative vicissitudini,

riconducibili alla strage di “Sa Ferula”,

che avvenne nel settembre del 1950, in

cui vennero ammazzati tre carabinieri

di scorta ad un blindato, che portava gli

stipendi agli impiegati dell’ERLAS. Luigi

Podda veniva accusato del fatto criminoso

e condannato all’ergastolo, anche se po-

teva dimostrare la totale estraneità ai fatti

confermata da una quarantina di persone.

Egli trascorse in carcere 26 anni di de-

tenzione. Solamente la grazia comminata

dal Presidente della Repubblica, Giovanni

Leone, permise al sardo di tornare alla

vita normale. L’innocenza di Luigi Podda

veniva supportata da numerosi e quali-

ficati esponenti del mondo politico ri-

conducibili a Lussu, Parri, Longo, Arrigo

Boldrini (Presidente nazionale dell’Anpi)

e tanti altri. Anche la stampa sarda e

nazionale, attraverso L’Unione Sarda, La

Nuova Sardegna e L’Unità, supportava le

tesi difensiva del partigiano sardo. Luigi

Podda nella sua lunga detenzione scrisse

un libro “Dall’ergastolo” diventando un

best seller nazionale. Il libro ha avuto an-

che una trasposizione televisiva presso la

Rai. Afferma Luigi Podda “(…) Ho pagato il

periodo caldo del banditismo, volevano dei

capri espiatori e hanno preso anche me,

malgrado avessi 42 testimoni a mio favore.

Ma quella del partigiano è stata una scelta

giusta, bisognava combattere la dittatura,

le distruzioni che il fascismo aveva cau-

sato all’Italia”. Scrive “Il manifesto sardo”:

“(…) Luigi Podda ha dimostrato di essere

un vero combattente per la libertà, la pace

e la democrazia; è sempre stato cosciente

di aver contribuito a mettere i primi mat-

toni nella storia della Repubblica e di aver

ispirato, come tutti i partigiani, i padri

costituzionalisti a scrivere la Carta, quella

che ancora oggi sostiene il nostro ordina-

mento democratico(…)”. Orgosolo ricorda

Luigi Podda “Corvo” attraverso un mura-

les, uno dei tanti che abbelliscono il paese

barbaricino, con scene che appartengono

e rappresentano quella parte di storia na-

zionale individuata nella Liberazione dal

nazi-fascismo.

IL COMUNE DI SCICLI TRA I PRIMI IN ITALIA A VIETARE GLI SPAZI PUBBLICI ALLE ASSOCIAZIONI E MOVIMENTI NEOFASCISTI, XENOFOBI E RAZZISTI

Un esempio per tutte le amministrazioni locali democratiche e antifasciste in Italia. Il Comune di Scicli, dove l'ANPPIA ha una Sezione molto attiva coordinata dal nostro compagno Orazio Carpino, sempre disponibile e partecipe a iniziative legate alla memoria antifascista, nel mese di Novembre ha approvato questa delibera per vietare gli spazi pubblici del suo territorio ad associazioni che richiamano i disvalori del fascismo e del razzismo. Un esempio per tutte le amministrazioni italiane e un invito ai nostri iscritti di fare pressioni perchè anche nei loro comuni ci si muova in questa direzione.

Di seguito la delibera approvata:

Murales con il volto di Luigi Podda

3130 Noi Noi

VERONA

uN vIAggIO dellA MeMOrIA per rICOrdAre pAgINe TrAgIChe dellA NOSTrA STOrIA

SANT’ANNA DI STAZZEMA: Il massacro di donne e bambini

L’ANPPIA di Verona in collaborazione con l’ANPI, l’A-

NED e l’Istituto veronese per la storia della Resistenza e

dell’età contemporanea ha organizzato nei giorni dal 20 al

23 settembre 2017 un viaggio che ha toccato varie località

della provincia di Lucca, con meta principale Sant’Anna di

Stazzema tristemente celebre per il massacro commesso

dai soldati della 16° SS Panzergranadier Division avvenuto

il 12 agosto 1944. Il nostro Viaggio della memoria ha visto la

partecipazione di quaranta soci delle Associazioni ed è stato

effettuato in pullman partendo da Verona. Durante il tragitto

sono state illustrate le varie tappe del viaggio e abbiamo po-

tuto vedere alcuni documentari che trattano del massacro di

Sant’Anna di Stazzema; inoltre sono state lette alcune pagine

di libri importanti che hanno permesso una ricostruzione di

questo tragico evento. Si è così potuto approfondire il con-

testo storico in cui maturarono questi fatti che ancora oggi

lasciano allibiti per la ferocia con cui vennero compiuti da

esseri umani contro altri esseri umani.

Il primo giorno è stato dedicato alla visita di Lucca con le

sue bellezze storico-monumentali, celebre in particolare

per la sua cinta muraria giunta intatta ai nostri giorni e la

cui costruzione era iniziata

nel 1504 per terminare nel

1648. Nel pomeriggio ci sia-

mo recati presso la Certosa

di Farneta; essendo un luo-

go di clausura non abbiamo

potuto visitarla ma all’ester-

no abbiamo reso omaggio al

sacrificio di quella comunità

religiosa che il 2 settembre

1944 venne prelevata e de-

portata da una pattuglia di

SS. Dodici suoi membri, fra

cui il Padre Priore, vennero

uccisi brutalmente pochi

giorni dopo l’arresto. I mo-

naci certosini erano accusati, e ritenuti colpevoli dai tede-

schi, di aver dato asilo a perseguitati politici, a partigiani e

a ebrei.

Nel secondo giorno abbiamo visitato il piccolo museo della

Linea Gotica organizzato nei locali dell’ex stazione ferrovia-

ria di Borgo a Mozzano. Un gruppo di volontari che con tanta

passione lo cura ci ha assistito in questo passaggio e alla fine

ci hanno accompagnato a vedere le opere fortificate ancora

ben conservate, in quanto in questo punto la Linea Gotica è

rimasta intatta con le molte gallerie, i bunker e le piazzole

di tiro visitabili senza particolari problemi. Dopo una bre-

ve sosta al Ponte della Maddalena, detto Ponte del Diavolo,

un’opera architettonica particolare che attraversa il fiume

Serchio con tre arcate asimmetriche, abbiamo raggiunto la

bella cittadina di Barga non molto distante da Castelvecchio

Pascoli, il luogo dove il grande poeta Giovanni Pascoli tra-

scorse gli ultimi anni della sua esistenza. Barga è ricca di bei

monumenti come la chiesa di San Cristoforo, l’Arringo e il

palazzo del podestà, il Teatro dei Differenti.

Il mattino del 22 settembre abbiamo visitato un luogo di

grande fascino come la Tenuta di San Rossore di proprie-

tà dapprima del Re d’Italia, passata poi al Presidente della

Repubblica e infine ceduta durante il settennato di Oscar

Luigi Scalfaro alla Regione Toscana. Abbiamo percorso un

bel tratto a piedi immersi in questa meravigliosa natura in-

contaminata raggiungendo il mare. Nel pomeriggio dopo una

breve visita alla Basilica di San Pietro a Grado, un edificio

religioso in stile romanico-pisano, dove la tradizione vuole

che San Pietro sia sbarcato proveniente dall’Egeo diretto a

Roma, siamo arrivati sulle sponde del lago di Massaciuccoli e

a Torre del Lago si è visitata la sede del Museo Villa Puccini.

In questo luogo sono ben conservati importanti cimeli puc-

ciniani di ogni tipo: lettere, testimonianze, ritratti; nella cap-

pella di trova la tomba del grande maestro lucchese e in altre

stanze si possono vedere i fucili da caccia, i manoscritti e il

suo pianoforte.

L’ultimo giorno è stato quasi interamente dedicato alla

meta principale del nostro viaggio della memoria: Sant’Anna

di Stazzema. Arrivando in questi luoghi di poche case, con

una chiesa e il museo sem-

bra di essere immersi in

un’oasi di pace difficilmen-

te penetrabile. Si fa fatica a

immaginare che settantatre

anni fa avvennero uccisioni

di donne e bambini inermi.

Abbiamo sostato a lungo nel

museo ricavato dalla vec-

chia struttura delle scuo-

le elementari che ricorda

quel 12 agosto 1944 giorno

dell’eccidio. Simone Tonini

conservatore del museo ci

ha assistito nella visita e ci

ha aiutato a capire il tempo

e il modo di vivere degli abitanti di Sant’Anna in quel par-

ticolare periodo della guerra. All’uscita abbiamo letto com-

mossi l’epigrafe dettata da Piero Calamandrei in risposta al

maresciallo Kesselring, copia di quella affissa nel Municipio

di Cuneo; quindi sempre accompagnati da Simone Tonini ci

siamo inoltrati nel Parco Nazionale della Pace che si estende

nel territorio collinare circostante il paese e poi attraverso

un percorso con immagini della Via Crucis siamo giunti al

Monumento Ossario dove una lapide ricorda i nomi del-

le tante vittime innocenti. Nel prato antistante la Chiesa di

Sant’Anna di Stazzema, davanti al cippo posto in memoria

dei caduti, soprattutto donne e bambini, abbiamo deposto

una coroncina tricolore a nome delle associazioni e reso un

commosso omaggio alle vittime di questo immane massacro.

TORINO

Il prof. Costanzo Preve commemorato a Torino

Per iniziativa dell’Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti (ANPPIA), dell’Associazione Nazionale del

Libero Pensiero “Giordano Bruno” e dell’Associazione Piemonte-Grecia “Santorre di Santarosa” è stato commemorato a Torino, il 25

novembre, nella sede del “Polo del '900”, il pensiero forte di Costanzo Preve, il docente di storia – deceduto quattro anni addietro –

che sviluppò un’interpretazione del marxismo e del comunismo attraverso un’analisi filosofica.

Introdotto dal prof. Boris Bellone, il Convegno affollatissimo, si è svolto con la presidenza dell’avv. Bruno Segre e la partecipazione

dei prof. Stefano Sissa (docente di filosofia al liceo Bassi di Bologna), Luca Grecchi (docente di filosofia all’Università Bocconi di

Milano), Lorenzo Dorato (docente di economia all’Istituto Carlo Bo di Firenze), Emiliano Alessandroni (docente di filosofia all’Uni-

versità di Urbino). Il Convegno si è concluso con un interessante dibattito fra spettatori e relatori.

Da gennaio è pronta la tessera della nostra associazione per il 2018. Per le federazioni, le sezioni e i singoli che vogliono tesserarsi scri-vere ad [email protected]

TESSERA ANPPIA 2018

ABBONAMENTO A "L'ANTIFASCISTA" PER L'ANNO 2018

In questo numero troverete il bollettino postale prestampato per potervi abbonare a l'antifascista per l'anno 2018. Molti di voi non hanno più una Sezione o Federazione dell'ANPPIA vicino a casa per potersi iscrivere e abbo-nare al giornale, ma continuano comunque a ricevere la rivista, e noi faremo il possibile per continuare a stamparla e inviarla. Dopo 63 anni questo giornale fondato da Sandro Pertini e Umberto Terracini continua a resistere, e parola non fu più appropriata. È rimasta praticamente la sola rivista dell'antifascismo italiano a rimanere cartacea. L'abbonamento annuale è di 15 euro (per chi vuole comprende anche l'iscrizione all'ANPPIA).

Oltre 15 euro si è sottoscrittori

Per info chiamare al 06-6869415 o scrivere una mail a: [email protected]

La delegazione antifascista veronese, tra cui l'ANPPIA di Verona, a Sant'Anna di Stazzema

l’antifascistaMensile dell’ANPPIAAssociazione Nazionale Perseguitati

Politici Italiani Antifascisti

Direttore Responsabile:

Francesco Luigi Morrone

In Redazione:

Maurizio Galli

SEDE:Corsia Agonale, 10 – 00186 Roma

Tel 06 6869415 Fax 06 68806431

www.anppia.it

[email protected]

HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO:Robeto Bonente, Roberto Cenati,Nicola Corda,Alberto Di Maria,Saverio Ferrari,Giorgio Galli, Maurizio Galli, Aldo Giannuli, Jean Mornero, Gino Morrone, Murizio Orrù, Bruno Segre,Filippo Senatore, Elisabetta Villaggio

TIPOGRAFIAGraffietti Stampati srl

PROGETTO GRAFICOMarco Egizi www.3industries.org

Prezzo a copia: 2 euro

Abbonamento annuo: 15,00 euro

Sostenitore: da 20,00 euro

Ccp n. 36323004 intestato a l’antifascistaChiuso in redazione il: 23-12-2017

finito di stampare il: 30-12-2017

Registrazione al Tribunale di

Roma n. 3925 del 13.05.1954

Antifascismo

Questo episodio si somma ad altri come ad esempio la cancellazione della scritta sulla resistenza al quartiere Ortica di Milano con lo spregio di uno slogan inneggiante a Mussolini. Uno sfregio per il quartiere simbolo di Milano, l’Ortica, dove durante l’occupazione post 8 settembre gli operai delle fabbriche della zona furono mandati nei campi di concentramento. Un Carabiniere di una Caserma fiorentina in questi giorni è stato accusato di detenere una bandiera dell’Impero austroungarico con la croce celtica utilizzata da anni dai movimenti neonazisti europei. L’as-salto alla redazione di Repubblica e l’Espresso a Roma di un gruppo di neonazisti è l’ulteriore sintomo di una intimi-dazione che deve essere respinta. L’azione squadristica dei neofascisti fa seguito dopo all’inchiesta dell’Espresso sui finanziamenti inglesi e francesi occulti a Forza Nuova e

CasaPound. I neofascisti hanno rialzato la testa utilizzando il malessere sociale e la crisi economica. A Como le forze democratiche, i sindacati le autorità istituzionali hanno risposto con una iniziativa unitaria che ha visto la parte-cipazione di migliaia di cittadini che hanno manifestato pacificamente a difesa delle istituzioni democratiche.

IL MURALE DI "BELLA CIAO"

Un murale che al quartiere Ortica di Milano riportava la scritta `Bella ciao ,́ la notte scorsa è stato cancellato e sostituito dalle parole `Duce a noi .́ È quanto denuncia il segretario del Pd, Pietro Bussolati spiegando che si tratta di «un oltraggio vile e inaccettabile compiuto da vigliacchi fascisti nascosti nel buio da dove provengono», cioè dei «cugini di quelli che solo una settimana fa hanno compiuto un’irruzione squadrista a Como». «Dobbiamo prendere atto della deriva xenofoba e fascista a cui stiamo assistendo - aggiunge Bussolati -, ormai non si tratta più solo di minacce sporadiche. Noi non ci voltiamo dall’altra parte, ma continueremo ad opporci con forza a questi signori che vorrebbero ripor-tare in auge chi la storia ha sconfitto. Ortica, quartiere caro alla Resistenza, è più forte di loro. Per questo - conclude - è ancora più importante parteci-pare alla manifestazione di Como, sabato 9: per dire a questi fascisti che non riscriveranno la storia». «Io non voglio gridare all’allarme, però credo che il problema ci sia. Quello che mi aspetto, l’ho già detto, è che tutte le forze poli-tiche condannino ogni forma di richiamo ai disvalori fascisti», ha commentato l’imbrattamento il sindaco di Milano, Giuseppe Sala. «Mettiamoci d’accordo: o lo fanno tutti o Milano andrà avanti nell’antifascismo militante - ha aggiunto -. Abbiamo accolto una mozione che chiede a tutti coloro che vogliono avere patro-cini, contributi e spazi pubblici dal Comune di dichiarare il loro antifascismo e, se non basterà, noi faremo altro perché non è un allarme, ma è un momento deli-cato quindi io mi auguro che tutti facciano la loro parte. Se così non sarà - ha concluso - Milano farà anche più della sua parte perché una città medaglia d’oro alla Resistenza ha questo dovere».

segue dalla prima pagina

Il murales di “Bella Ciao” ridipinto all'Ortica

La surreale irruzione dei fascisti a Como