l’antifascista - ANPPIA · commercio e di cooperazione nella guerra al narcotraffico. Forse in...

17
1 l’antifascista fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini Periodico degli antifascisti di ieri e di oggi • anno LXIV - n° 1-2 Gennaio-Febbraio 2017 Poste Italiane s.p.a. - spedizione in abbonamento D.L. 353/2003 (conv.in. L. 46 del 27.02.2004) - Art.1, comma 2, DCB - Roma CRISI PD a pagina 10 LEO E LUCIA a pagina 14 IOLE MANCINI a pagina 16 CIMIOTTA a pagina 26 PRIMO PROVVISORIO E DISASTROSO BILANCIO DELL’AMMINISTRAZIONE GUIDATA DA "THE DONALD" TRUMP, GIÙ LA MASCHERA: È DI ESTREMA DESTRA, PERICOLOSO, INAFFIDABILE di Alberto DI MARIA A poco più di trenta giorni dall’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca è difficile non essere d’accordo con Federico Rampini che su “Repubblica” - parafrasando il titolo di un grande classico della saggi- stica contemporanea, I dieci giorni che sconvolsero il mondo di John Reed – ha definito il mese appena trascorso «i trenta giorni che sconvolsero l’America». La nuova amministrazione non ha voluto dare l’impressione di perdere tempo e ha cercato di iniziare a mantenere le promesse fatte in campagna elettorale. È impressionante il numero di provvedimenti presi giorno dopo giorno, che hanno avuto l’effetto di catalizzare, oggi più che mai, gli occhi di tutto il mondo sugli Stati Uniti. continua a pagina 2 L'EDITORIALE Partiti immobili e litigiosi non aiutano a uscire dalla crisi Per tutto il 2016 istituzioni e parti- ti si sono immobilizzati in vista del “giudizio di dio” del 4 dicembre. Il giudizio c’è stato e la clamorosa vittoria del “no” ci ha dato un qua- dro della società italiana e dei suoi giovani del tutto diverso degli stere- otipi che avevano imperversato per anni. Ma, dopo lo stupore iniziale, costituito il governo Gentiloni ca- ratterizzato come provvisorio, isti- tuzioni e partiti sono rimasti ancora immobili per altri due mesi e mezzo, fino al 19 febbraio quando l’assem- blea del Pd ha indetto il congresso, evento centrale sino alle elezioni amministrative, che ci porteranno alle soglie dell’estate. Il tema politico centrale è che Renzi conta su una rivincita per la quale aveva puntato a tempi rapidi, addirittura con elezioni politiche a primavera. continua in ultima pagina Le palme in piazza Duomo a Milano a qualcuno non sono piaciute al punto che vi ha appiccato il fuoco, ma in genere i milanesi e i turisti hanno apprezzato e guardato con simpatia quella macchia di verde che punteggia un angolo del sagra- to. Dice lo sponsor: “Siamo rimasti stupiti delle polemiche. Noi volevamo fare qualcosa di utile per la città creando nel tempo molti posti di lavoro. Milano è un luogo incredibile per investire”. Al di là degli spot, che a noi non interessano, pensiamo che nelle città cementificate un po’ di verde in giro non può far male a nessuno. Anzi. Le palme di Milano MICHELLE a pagina 6 LE PEN a pagina 8 di Giorgio GALLI

Transcript of l’antifascista - ANPPIA · commercio e di cooperazione nella guerra al narcotraffico. Forse in...

Page 1: l’antifascista - ANPPIA · commercio e di cooperazione nella guerra al narcotraffico. Forse in molti non sanno che nei punti più sensibili del confine esistono già strutture che

1

l’antifascistafondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini

Periodico degli antifascisti di ieri e di oggi • anno LXIV - n° 1-2 Gennaio-Febbraio 2017

Poste Italiane s.p.a. - spedizione in abbonamento D.L. 353/2003 (conv.in. L. 46 del 27.02.2004) - Art.1, comma 2, DCB - Roma

CRISI PDa pagina 10

LEO E LUCIAa pagina 14

IOLE MANCINIa pagina 16

CIMIOTTAa pagina 26

Primo Provvisorio e disastroso bilancio dell’amministrazione guidata da "the donald"

TRUMP, GIÙ LA MASCHERA: È DI ESTREMA DESTRA, PERICOLOSO, INAFFIDABILE

di Alberto DI MARIA

A poco più di trenta giorni dall’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca è difficile non essere d’accordo con Federico Rampini che su “Repubblica” - parafrasando il titolo di un grande classico della saggi-

stica contemporanea, I dieci giorni che sconvolsero il mondo di John Reed – ha definito il mese appena trascorso «i trenta giorni che sconvolsero l’America». La nuova amministrazione non ha voluto dare l’impressione di perdere tempo e ha cercato di iniziare a mantenere le promesse fatte in campagna elettorale. È impressionante il numero di provvedimenti presi giorno dopo giorno, che hanno avuto l’effetto di catalizzare, oggi più che mai, gli occhi di tutto il mondo sugli Stati Uniti. continua a pagina 2

L'EDITORIALE

Partiti immobili e litigiosi non aiutano a uscire dalla crisi

Per tutto il 2016 istituzioni e parti-

ti si sono immobilizzati in vista del

“giudizio di dio” del 4 dicembre.

Il giudizio c’è stato e la clamorosa

vittoria del “no” ci ha dato un qua-

dro della società italiana e dei suoi

giovani del tutto diverso degli stere-

otipi che avevano imperversato per

anni. Ma, dopo lo stupore iniziale,

costituito il governo Gentiloni ca-

ratterizzato come provvisorio, isti-

tuzioni e partiti sono rimasti ancora

immobili per altri due mesi e mezzo,

fino al 19 febbraio quando l’assem-

blea del Pd ha indetto il congresso,

evento centrale sino alle elezioni

amministrative, che ci porteranno

alle soglie dell’estate.

Il tema politico centrale è che

Renzi conta su una rivincita per la

quale aveva puntato a tempi rapidi,

addirittura con elezioni politiche a

primavera.

continua in ultima pagina

Le palme in piazza Duomo a Milano a qualcuno non sono

piaciute al punto che vi ha appiccato il fuoco, ma in genere i

milanesi e i turisti hanno apprezzato e guardato con simpatia

quella macchia di verde che punteggia un angolo del sagra-

to. Dice lo sponsor: “Siamo rimasti stupiti delle polemiche.

Noi volevamo fare qualcosa di utile per la città creando nel

tempo molti posti di lavoro. Milano è un luogo incredibile

per investire”. Al di là degli spot, che a noi non interessano,

pensiamo che nelle città cementificate un po’ di verde in giro

non può far male a nessuno. Anzi.

Le palme di Milano MICHELLE a pagina 6

LE PENa pagina 8

di Giorgio GALLI

Page 2: l’antifascista - ANPPIA · commercio e di cooperazione nella guerra al narcotraffico. Forse in molti non sanno che nei punti più sensibili del confine esistono già strutture che

32 L'America di Trump L'America di Trump

Procediamo con ordine.Il 20 gennaio, per l’Inauguration

Day, mentre a New York si teneva una «marcia delle donne» contro Trump - manifestazione nata sui social network e partecipata da persone di tutte le età e di ogni etnia - la nuova amministrazione ha preso i suoi primissimi provvedimenti appor-tando significative modifiche sul sito internet ufficiale della Casa Bianca: è sparita la pagina dedicata ai cambia-menti climatici, quella sul tema dei diritti LGBT - al posto della quale è apparsa una pagina dove si promette un significativo incremento delle forze di polizia - e la versione in lingua spagnola del portale stesso.

Il 21 gennaio Trump si è dedicato all’Obamacare, ovvero la riforma del sistema di assicurazioni sanitarie varata dall’ex presidente democratico al fine di risolvere il problema dei milioni di cittadini poco abbienti che rinunciano alle cure mediche, assi-curando loro una copertura sanitaria tramite sussidi federali. All'epoca della sua approvazione contro la riforma si sono mobilitate assicurazioni, ospe-dali privati, l’industria farmaceutica e parte della classe medica con il soste-gno dei media conservatori. Trump ha firmato un decreto esecutivo che ridurrà il peso economico dell'inizia-tiva di Obama.

Il 23 gennaio Trump ha firmato un decreto, chiamato “Mexico City Policy”, che vieta la conces-sione di finanziamenti pubblici alle organizzazioni non governative inter-nazionali che praticano o informano sull’interruzione di gravidanza all’e-stero, diffondono la contraccezione, la prevenzione della trasmissione dell’HIV e le cure a madri e bambini in Africa, Asia, Medio Oriente e America Latina. Per Trump si tratta di un provvedimento volto a conso-lidare il consenso di una consistente fetta dell’elettorato repubblicano, quella molto religiosa e antiaborti-sta. Che a Trump non interessi altro che l'effetto in termini di consenso di una decisione simile, lo dimostra il fatto che in passato ha dichiarato anche di essere favorevole all’aborto. Durante la campagna elettorale poi, ha cambiato posizione più volte sull’argomento rilasciando dichiara-zioni contraddittorie: prima ha detto che l’aborto andrebbe reso illegale e

che le donne che scelgono di interrompere una gravidanza andrebbero punite, poi ha ritrattato dicendo che solo i medici che praticano l’interruzione di gravi-danza dovrebbero essere puniti.

Il 24 gennaio è stato il giorno del rilancio dei progetti di due oleodotti conte-stati con estrema forza dalle associazioni ambientaliste di tutto il mondo: il Keystone XL, che dovrebbe attraversare l’intera nazione americana partendo dal Canada, per arrivare nel sud degli USA; e il Dakota Access Pipeline, fortemente contrastato dai gruppi di nativi americani, che da tempo si oppongono alla sua costruzione, perché attraverserebbe un territorio da loro considerato sacro e costituirebbe una minaccia per l'acqua potabile del fiume Missouri. Quest’ul-timo progetto, sotto l'amministrazione Obama, è stato bocciato e i membri della tribù dei Sioux della riserva Standing Rock, situata a poche centinaia di metri dal luogo indicato per la costruzione dell'oleodotto, hanno definito «storica» la decisione, esprimendo la loro «gratitudine eterna». Dopo il rilancio del progetto, i Sioux hanno occupato un campo sul territorio interessato, ma il 23 febbraio sono stati sgomberati con forza dalla pubblica sicurezza. Trump sostiene che l'industria petrolifera rappresenti ancora innumerevoli opportunità lavorative e già in campagna elettorale ha annunciato il rilancio dello sfruttamento dei giaci-menti di petrolio e gas, nonostante i rischi ambientali che comporta.

Ha anche definito una bufala il cambiamento climatico, sostenendo che «il concetto di riscaldamento globale è stato creato dalla Cina per rendere meno competitiva l’industria statunitense». In merito a queste dichiarazioni Jeffrey Sachs, economista e direttore dell'Earth Institute alla Columbia University, ha dichiarato che «il negazionismo del presidente USA sul riscaldamento globale è privo di qualsiasi fondamento. Non si basa su nessuna ricerca, su nessun dato. Le parole di Trump non sono fondate sulla scienza ma sugli interessi delle compa-gnie petrolifere. E ora il pianeta è in pericolo».

Il 25 gennaio è stato il giorno del via libera alla costruzione del famigerato muro al confine con il Messico, un progetto promesso in campagna elettorale che secondo Trump fungerebbe da deterrente contro «l’immigrazione illegale, il traffico di droga e di persone e gli atti di terrorismo». Il presidente USA ha dichiarato più volte che il muro - il cui costo è stato stimato in 20 miliardi di dollari - sarà pagato dal Messico, a cui verrebbe imposto un dazio del 20% sulle esportazioni in territorio statunitense. Tuttavia la tassa al 20%, secondo il New York Times, avrebbe un impatto enorme sull’economia americana, sui suoi consumatori e sui suoi lavoratori, aumentando nettamente il prezzo dei beni. Una mossa di questo tipo potrebbe anche spingere il Messico a rispondere con misure simili, innescando per "effetto domino" una guerra commerciale che fini-rebbe con il coinvolgere altri paesi. Per questo motivo Paul Krugman, premio Nobel per l’economia, ha commentato la vicenda affermando: «l’incidente della tassa messicana è veramente incredibile, perché mostra disfunzionalità, igno-ranza e incompetenza su diversi livelli». Il Messico poi non ha preso bene l'idea

del muro. Il presidente Enrique Peña Nieto ha cancel-lato un previsto viaggio ufficiale a Washington. Trump e Peña Nieto avrebbero dovuto parlare di immigrazione, di commercio e di cooperazione nella guerra al narcotraffico.

Forse in molti non sanno che nei punti più sensibili del confine esistono già strutture che fanno da barriera: recin-zioni e barriere che impediscono il passaggio dei veicoli. Parte del “muro” c'è già e fu una idea dell'amministrazione democratica guidata da Bill Clinton. Il governo americano spende ogni anno miliardi di dollari per spese aggiuntive come sensori, telecamere a visione notturna, radar, elicot-teri, droni e spese legali per perseguire quelli che vengono beccati a oltrepassare irregolarmente il confine. Dunque, quando Trump parla di «costruire il muro» in realtà mira ad aumentare le misure di sicurezza alla frontiera per renderla sempre più impenetrabile. Obama nel 2011 disse che i repubblicani «non saranno mai soddisfatti e in futuro vorranno una recinzione più alta, magari un fossato, e magari dei coccodrilli dentro al fossato». I democratici invece hanno cambiato idea rispetto agli anni di Clin-ton e oggi ritengono sia necessaria una profonda riforma dell’immigrazione per provare a gestire il flusso di persone, principalmente regolarizzando gli illegali. È un dato che la maggior parte dei migranti irregolari dal Messico entra negli Stati Uniti legalmente e si trattiene più a lungo di quanto consentito dal visto turistico. Si tratta di lavoratori stagionali che restano negli USA per paura di non potervi rientrare a causa di norme che da un giorno all'altro potreb-bero divenire sempre più restrittive. Se Trump volesse usare strumenti repressivi efficaci potrebbe imporre ai datori di lavoro di rispettare la norma che prevede la veri-fica dello status dei propri dipendenti, ma non lo fa perché questo metterebbe a rischio il bacino di manodopera a buon mercato a cui le imprese statunitensi possono attingere liberamente.

Il 27 gennaio Trump ha firmato l'ordine esecutivo chia-mato “Proteggere la nazione dall'ingresso dei terroristi musulmani negli Stati Uniti”. L'ordine ha sospeso per 120 giorni l'intero sistema di ammissione dei rifugiati nel paese; limitato per almeno 90 giorni l’ingresso di cittadini e

migranti provenienti da sette paesi musulmani: Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen; sospeso a tempo inde-terminato il programma di accoglienza dei profughi siriani. Uno dei punti più controversi dell'ordine esecutivo di Trump è quello che riguarda la religione. Secondo il prov-vedimento tra i richiedenti asilo sarà data priorità a coloro che fuggono da una persecuzione religiosa, a patto che il richiedente appartenga a una minoranza religiosa nel paese di origine. Tale disposizione consentirebbe alla Casa Bianca di dare priorità ai cristiani del Medio Oriente, rispetto ai musulmani. Da molti è stata letta come una discrimina-zione religiosa, di fatto incostituzionale. La conseguenza più vistosa e immediata è stato il caos e la confusione nei porti e negli aeroporti del paese, dove immigrati titolari di un visto valido sono stati bloccati, così come molti studenti regolarmente iscritti alle università statunitensi, e magari temporaneamente all’estero nei loro paesi di origine. L’or-dine esecutivo ha poi creato problemi alle compagnie aeree. «Non è ancora chiaro chi può entrare e chi no» ha dichia-rato il portavoce di KLM. Mentre centinaia di migliaia di persone sono a rischio di essere espulse dagli Stati Uniti o separate dalle loro famiglie, università, ospedali e aziende di tecnologia temono per medici, studenti, ricercatori, ingegneri e altri lavoratori. Sono quasi 200 i dipendenti di Google, per esempio, interessati dal divieto. La decisione di Trump è stata dunque criticata anche da alcuni importanti CEO delle più grandi aziende tecnologiche statunitensi, Google, Apple, Twitter, Starbucks. In sostanza tutti i leader miliardari dell'economia digitale, hanno alzato la voce, forse perché il provvedimento colpisce i loro interessi economici immediati? Non a caso Trump ha parzialmente corretto il tiro escludendo dalla sospensione chi ha una Green Card (cioè un permesso di lavoro negli USA). Diversi giudici federali poi, negli stati di New York, Massachusetts, Virginia, Washington e altri hanno bloccato temporanea-mente le espulsioni.

Un dato: tra il 1975 e il 2015 gli attentatori che hanno causato più vittime sul suolo americano provenivano da quattro paesi, in particolare Arabia Saudita (da cui prove-nivano gli assassini dell’11 settembre), Emirati Arabi, Egitto

segue dalla prima pagina

Manifestazione contro Donald Trump

Page 3: l’antifascista - ANPPIA · commercio e di cooperazione nella guerra al narcotraffico. Forse in molti non sanno che nei punti più sensibili del confine esistono già strutture che

54 L'America di Trump L'America di Trump

e Libano, non colpiti dal decreto e nei quali gli USA intrattengono importanti relazioni economiche. Anche la Turchia, paese fortemente instabile, è stata esclusa dal decreto, e non sorprende visti gli interessi personali che il presi-dente USA vi coltiva. Come ha scritto la giornalista sudanese Nesrine Malik sul “Guardian”, «quello di Trump non è un vero e proprio divieto contro i musul-mani, è un divieto contro i musulmani che può permettersi di fare arrabbiare. Un divieto che getta i musulmani in pasto alle folle latranti che hanno votato per Trump, ma solo i musulmani più vulnerabili». Ma nel complesso una decisione del genere creerà sentimenti negativi nei musulmani di tutto il mondo e diven-terà senza dubbio una leva su cui si appoggerà l'Isis per fare reclutamento.

Sempre sul tema del terrorismo, per non correre il rischio di sorprendere, "The Donald" ha ribadito quanto affermato in campagna elettorale ovvero di essere favorevole all’utilizzo della tortura come metodo per ottenere informazioni dai prigionieri. «La tortura funziona». Compreso il waterboarding, la simulazione di annegamento, praticata dalla CIA contro i sospettati di terrorismo durante la presidenza di George W. Bush e vietata durante la presidenza di Obama. Nel corso di un’intervista ad ABC News, Trump ha poi ventilato l'ipotesi di intro-durre metodi «anche molto peggiori del waterboarding» come contromisura per fermare il gruppo terrorista.

Riguardo l'Iran, Trump ha anche dichiarato di non escludere azioni militari contro il regime degli ayatollah e ha messo ufficialmente in guardia Teheran per via di alcuni test missilistici. Trump inoltre si è più volte detto contrario all'ac-cordo sul nucleare raggiunto da Obama con Teheran, definendolo «il peggiore possibile», e favorevole a imporre nuove sanzioni all'Iran per il presunto ruolo svolto nello sviluppo di missili e nel terrorismo.

Questo il quadro sui primi provvedimenti presi dall’amministrazione Trump.Sebbene dal giorno dell’insediamento non passi un giorno senza che via sia

una manifestazione di protesta, i commentatori sono divisi tra chi crede che la maggioranza degli americani stia con Trump e chi no. Le piazze piene delle principali città statunitensi infatti non sono rappresentative di tutto un paese fatto di campagne e periferie che continuano a sostenerlo perché sta facendo esattamente quello per cui lo hanno votato. Un’America che corrisponde a un identikit preciso e che non può risultarci sconosciuto se leggiamo il profilo che ne ha trac-ciato Dante Barontini su contropiano.org: «è l'America di Abu Ghraib, delle extraordinary rendition, della tortura e dell'aggressione imperialista a qualsiasi paese nel mondo non accet-tasse immediatamente il predominio

statunitense. È l'America della poli-zia che ammazza i neri per strada. È l'America che pretenderebbe di mandare i propri soldati in qualsiasi paese del mondo, ma senza accettare nessuno che provenga da laggiù».

Ma che si tratti di un’America «popolare», come qualcuno ha detto, è «un clamoroso fraintendimento», scrive la docente italiana negli USA Valentina Fulginiti in una interessante testimonianza su GIAP, il blog del collettivo di scrittori Wu Ming: «una delle più grandi menzogne di queste elezioni è che “la classe operaia” si sia schierata per Trump. C’è un elemento di verità in questa affermazione, ma la questione è molto più complessa di così. Quella che ha spinto alla vitto-ria prima la Brexit e oggi Trump è un feticcio di working class: depurata di ogni diversità, non inclusiva ma esclu-siva, fondata non su un comune ideale di solidarietà ma sulla comune appar-tenenza razziale; una comunità che rimpiange i tempi in cui si dormiva senza il chiavistello alla porta, ma che sogna muri, cancelli e divieti d’in-gresso. È, soprattutto, un’immagine prevalentemente maschile, virile, di una classe che si vorrebbe operaia o artigiana (nessuna solidarietà per chi lavora nel settore dei servizi, magari ai ranghi più bassi). È una classe che rimpiange i tempi in cui studiare non serviva o comunque non era richie-sto, e che infatti, indipendentemente dal titolo di studi posseduto, si fa forte di un certo anti-intellettualismo (nessuna solidarietà per i neolaureati indebitati fino al collo, visti come dei mocciosi viziati, o per i professori a contratto pagati 2000 dollari a corso, il cui lavoro non viene considerato “serio”). Se non interamente maschile,

è comunque una classe rigidamente “eterosessuale”, i maschi nelle fabbri-che o al fronte e le donne al loro posto, in pochi ruoli codificati e rassicuranti. È, infine, un’immagine di un bianco uniforme e monocromatico».

L'elettore tipo di Trump, per fare un'estrema sintesi, è dunque un bianco con più di 40 anni, di reddito medio, con famiglia, che vive in città medie e piccole quando non addirit-tura in centri rurali. Uno, insomma, che guarda il presidente in TV e non si precipita a marciare per le strade di Washington in suo sostegno.

Tuttavia un recente sondaggio della Gallup - società che ha monitorato il grado di approvazione dei presi-denti statunitensi dal 1945 - indica che Trump, già pochi giorni dopo l’inse-diamento, ha un livello di gradimento al di sotto del 50%, traguardo nega-tivo che per alcuni suoi predecessori era giunto solo dopo tre anni di presi-denza.

Ma un altro sondaggio Reuters/Ipsos, condotto il 30 e 31 gennaio, mostra come il 49 per cento degli americani adulti sostenga «deci-samente o complessivamente» le politiche migratorie del neopresidente e in particolare il “muslim ban”. La situazione è in divenire.

Allo stato della cose è comun-que certa la disunità del fronte anti Trump. Jason Read, su commonware.org, l’ha definita «eterogenea, per non dire altro» perché «comprende membri di Black Lives Matter, anar-chici, quelli che sono stati nuovamente chiamati socialisti, così come gli elet-tori di Clinton e coloro che sono già nostalgici della comparsa di un’A-merica più gentile e dolce sotto la presidenza Obama». Una massa di persone che si è riversata nelle strade, ma che dovrà lavorare ancora molto per trovare un discorso comune, soprattutto contro il cuore della poli-tica di Trump che mira a una riforma dell’economia che guarda a Reagan e Thatcher in materia di deregolamen-tazione economica e liberismo.

Il 23 gennaio Trump ha ricevuto dodici grandi imprenditori statuni-tensi. Fedele alle promesse fatte in campagna elettorale, li ha rassicurati sulla sua volontà di tagliare «netta-mente» le imposte sulle imprese e di cancellare «almeno il 75%» delle regolamentazioni in vigore. Questo significa che l’imposta sulle imprese

potrebbe essere presto portata a quel 15% di cui Trump aveva parlato prima di essere eletto, che i regola-menti bancari introdotti dopo la crisi del 2008 potrebbero essere cancellati e che le misure di protezione dell’am-biente potrebbero essere dimenticate perché «questa roba rende impossibile costruire», ha dichiarato ai suoi ospiti l’imprenditore immobiliare Trump. Allo stesso tempo, Trump vuole impe-dire alle grandi industrie americane di delocalizzare la produzione e offrire loro la possibilità di operare negli Stati Uniti a condizioni favorevoli quanto lo sono in Cina e Messico, natural-mente, a scapito degli stipendi e dei diritti dei lavoratori. Come ha scritto Bernard Guetta su "France Inter", «il presidente Trump, in buona sostanza, vuole realizzare il sogno dell’ammini-stratore delegato Trump».

Queste politiche economiche non trovano tuttavia molto spazio sui giornali anche a causa del clamore suscitato da tutte le altre iniziative intraprese nell’ultimo mese. Trump infatti mostra di conoscere bene il meccanismo mediatico e cerca di spostare l’attenzione anche attraverso provocazioni che sembrano mirate ad hoc per favorire la polemica con la stampa. Non è un caso se il giorno dopo l'insediamento ha dichiarato di avere «una guerra in corso con i mezzi d’informazione», aggiungendo che i giornalisti «sono tra gli esseri umani più disonesti della Terra». Il suo brac-cio destro Steve Bannon – ex capo di un sito di news di estrema destra – ha detto che i media «dovrebbero tenere la bocca chiusa». Intanto mentre scri-viamo continuano a giungere notizie.

L’ex vice ammiraglio Robert

Harward, indicato dal presidente per la poltrona di consigliere della sicu-rezza nazionale dopo le dimissioni di Michael Flynn – coinvolto in un caso di rapporti ambigui con la Russia, paese fortemente sospettato di inge-renza nella campagna elettorale statunitense – ha rifiutato l’incarico definendolo un «sandwich ripieno di merda».

Il 18 febbraio in Florida, durante un comizio, Trump ha parlato di un attentato che sarebbe avvenuto «nella tranquilla, pacifica Svezia» il giorno precedente. Solo che in Svezia non è successo niente. Fra le spie-gazioni più accreditate, quella del “Guardian”, Trump avrebbe confuso la parola “Sweden” con “Sehwan”, città del Pakistan in cui, proprio il 17, un attacco kamikaze ha fatto più di ottanta morti. Il presidente in persona ha poi twittato che la sua dichiara-zione su quanto avvenuto in Svezia «si riferiva a una storia trasmessa da Fox News sugli immigrati e la Svezia». Dopo la gaffe di Trump, il Ministero degli Esteri svedese ha chiesto spiega-zioni al Dipartimento di Stato Usa per cercare di capire a quale attacco terro-ristico si riferisse Trump. «Svezia? Attentato? Ma cosa ha fumato?» ha twittato l'ex premier svedese Carl Bildt, che poi ha retwittato il post di un utente che scriveva «Breaking news, la polizia svedese ha diffuso la foto dell'uomo ricercato per l'atten-tato» corredando il post con una foto di un “muppet”.

Infine è del 24 febbraio la noti-zia che Trump vuole rilanciare il programma nucleare degli USA.

Per quanto ancora dovremo mangiare questo sandwich?

Il Presidente del Messico Enrique Peña Nieto

Sostenitori di Trump manifestano in suo supporto Donald Trump

Page 4: l’antifascista - ANPPIA · commercio e di cooperazione nella guerra al narcotraffico. Forse in molti non sanno che nei punti più sensibili del confine esistono già strutture che

76 PersonaggiPersonaggi

Lo stile e il carisma di Michelle Obamadi Elisabetta VILLAGGIO

Nata a Chicago il 17 gennaio del 1964, Michelle LaVaughn Robinson Obama è stata la moglie del quaran-taquattresimo presidente degli Stati Uniti e la prima first lady afroame-ricana. Suo padre, Fraser Robinson, in quel freddo gennaio del 1964, era appena stato assunto al dipartimento dell’acqua cittadino. Era un ventot-tenne atletico e di bell’aspetto e aveva l’incarico di pulire, lavare per terra, svuotare i bidoni della spazzatura, insomma era un tuttofare delle puli-zie. Per quel lavoro guadagnava meno di 500 dollari al mese ma quel sala-rio gli fece molto comodo perché solo tre giorni dopo essere stato assunto sua moglie, Marian, metteva al mondo la loro secondogenita, Michelle. Sei mesi dopo la sua nascita, il presidente Lyndon Johnson firmava il divieto di discriminazione nei luoghi pubblici e questo diede modo alla famiglia Robinson di trasferirsi in un quartiere dove abitavano solo bianchi, quartiere che a poco poco si svuotò diventando un quartiere nero al 100%.

Michelle è una studentessa modello e nell’81 lascia Chicago per studiare Giurisprudenza a Princeton e ad Harvard. Torna a casa una volta laure-ata e inizia a lavorare nello studio legale Sidley Austin. È proprio mentre lavora qui che incontra Barack Obama che sposa nel 1992 e dal quale ha due figlie, Malia e Sasha. Michelle lavora e ha grandi soddisfazioni ma è comun-que una moglie affettuosa e una

madre presente. Quando il marito decide di candidarsi alla Casa Bianca è al suo fianco e da subito, pur non essendo assolutamente una presenzia-lista, fa notare il suo stile semplice ma preciso. Il suo sorriso aperto conqui-sta la stampa e i cittadini che iniziano ad apprezzare quella donna diretta e diversa da qualsiasi precedente first lady. Così con garbo e costanza Michelle impone il suo stile nono-stante inizialmente sia stata anche aspramente criticata.

Ora dopo otto anni a Washington ha traslocato ma ha lasciato un segno alla Casa Bianca: si è rivelata una donna intelligente, attenta, carismatica e affettuosa. In tanti già la vorrebbero e vedrebbero come prossimo presidente. Lei, che al momento non ha lasciato nessuna dichiarazione a proposito, forse vorrebbe semplicemente tornare al suo lavoro che ama.

Emozionata, vestita di rosso, i capelli drittissimi, Michelle ha salu-tato per l’ultima volta in veste ufficiale di first lady una platea altrettanto emozionata e le sue ultime parole sono state per i giovani: “Voglio che sappiate che siete importanti. Dunque, non abbiate paura. Mi sentite, giovani? Siate concentrati, determinati, pieni di speranza. Rendetevi forti con una buona istruzione, esprimetela e usatela per costruire un Paese degno di promesse illimitate. Sappiate che sono con voi, faccio il tifo per voi e lavorerò per sostenervi per il resto

della mia vita”. I suoi discorsi appassionati e ammi-

rati da tutti, hanno infervorato le platee e in molti già la vedrebbero come quarantaseiesimo presidente degli Stati Uniti, tanto che la nuova first lady Melania ha copiato l’intero discorso per l’insediamento di Trump da quello che Michelle aveva tenuto quando era stato eletto Obama per la prima volta.

Determinata, bella, preparata, elegante, diretta, sincera, adorata dal marito, dalle figlie e dallo staff, Michelle è un concentrato della donna moderna che fa carriera, che è impe-gnata, che si batte per quello in cui crede ma che rimane prima di tutto una madre e una moglie innamorata. Ha sdoganato i colori accesi e le tinte forti nell’abbigliamento, ha parlato del problema dell’obesità nei giovani, non hai mai perso grinta e, quando Hillary Clinton era in difficoltà nella campa-gna elettorale per la corsa alla Casa Bianca, è intervenuta lei ad infuocare gli animi così come, quando la popola-rità di Barack era ai minimi storici, in pubblico appariva lei con il suo sorriso rassicurante e sincero.

“Ha cambiato per sempre il ruolo della First Lady. Dopo un decennio vissuto sotto il microscopio dell’o-pinione pubblica, Michelle Obama è riuscita a fare ciò che a nessun altra First Lady era riuscito: vivere sotto i riflettori senza sacrificare privacy e autenticità. Potrebbe aver cambiato la

storia nel modo più potente: "facendo esempio” ha scritto sul New York Time Magazine Gloria Steinem poco dopo l’addio alla Casa Bianca.

Lo scorso ottobre, durante un evento elettorale in soste-gno di Hillary Clinton, alla New Hampshire University, Michelle ha tenuto un discorso contro Donald Trump dove ha demolito tutte le sue giustificazioni per i suoi compor-tamenti sessisti nei confronti delle donne. Il discorso è stato definito da Mark Lander, corrispondente del New York Times: “Il più importante tenuto da una First Lady da quello di Hillary Clinton all’Assemblea Generale dell’ONU nel 1995”.

È una donna che dimostra empatia con chi la avvicina, con la gente, con il mondo intero e tutto quello che fa lo fa con modestia e informalità.

“Ha fatto sentire molte di noi più a nostro agio raccon-tando gli ostacoli che ha dovuto superare come donna e come afroamericana” dice Alicia Garza co-fondatrice del movimento Black lives matters.

È rimasto controverso il suo discorso tenuto nel febbraio del 2008 a Milwaukee, in Wisconsin, quando affermò di sentirsi fiera di essere americana per la prima volta in vita sua e disse: “Per la prima volta nella mia vita adulta, io sono fiera del mio paese perché sento che la speranza sta final-mente ritornando”. Discorso che le provocò diverse critiche e Laura Bush arrivò in suo sostegno dicendo che il discorso era stato travisato dai giornalisti.

Sul suo profilo di Instagram, seguito da quasi sei milioni di persone, si definisce una ragazza del sud, una moglie, una madre e un’amante di cani e sempre pronta ad abbrac-ciare. Infatti la sua forza probabilmente sta proprio in questo: essere empatica, avvolgente, presente. Michelle è una persona tattile alla quale piace avere un contatto fisico diretto con le persone. È rimasta storica la sua foto quando, rompendo le regole protocollari, abbraccia affet-tuosamente la regina Elisabetta che le sorride altrettanto affettuosamente, cosa insolita per sua maestà, così come sono tantissime le occasioni dove si è messa a disposizione della gente, del popolo, delle donne. È lei che per prima ha lanciato un appello a Boko Haram quando nell’aprile del 2014 aveva rapito quasi 300 bambine e ragazze in Nigeria: “ridateci le nostre ragazze”. È lei che si batte per i diritti

di tutti, è lei in prima fila sempre con il sorriso stampato in faccia, è lei che con la sua bella falcata ha percorso chilo-metri per costruire un mondo migliore dove tutti possano avere la giusta dignità, le stesse opportunità e gli stessi diritti. Rimarranno epici anche i suoi sguardi rivolti a Trump e sua moglie il giorno dell’insediamento alla Casa Bianca in particolare quando Melania le ha dato in regalo una bella scatola di Tiffany il cui contenuto rimane un mistero.

Amante della musica di ogni genere, i suoi autori preferiti sono Stevie Wonder, Beyoncè e Sting oltre al jazz, Michelle guarda alla salute, infatti, ha fatto una vera e propria campagna contro l’obesità costruendo anche un orto nei giardini della Casa Bianca. Orto che Trump ha fatto sman-tellare appena insediato.

Sicuramente alla Casa Bianca mancherà una figura così importante e rassicurante come quella che ha saputo costruire lei in questi anni davanti al mondo intero. Michelle ha messo il cuore in tutto ciò che ha fatto e la sua grande passionalità di madre, moglie e donna non lascerà indifferente il mondo intero e il suo paese, o almeno quella parte che ha visto in lei una possibilità di rivincita.

Michelle ha lasciato il segno e in molti, sia all’interno del partito democratico che tra la gente comune, vedrebbero proprio lei come la prima donna presidente degli Stati Uniti. Nella realtà pare invece che non ne abbia nessuna voglia. I giochi di potere, il continuo essere al centro dell’attenzione pubblica, l’enorme responsabilità della posizione e l’ostilità di certi ambienti fanno pensare che a Michelle non inte-ressi diventare un domani un commander in chief, e fonti vicine a lei dicono che abbia solo voglia di tornare al suo lavoro e a una vita normale, o per lo meno il più normale possibile.

Lascia comunque un marchio profondo questa donna così carismatica, espansiva e intelligente che ha dato una svolta anche al ruolo di First Lady.

Nel suo ultimo discorso da presidente, il 10 gennaio scorso, pronunciato a Chicago, dove tutto era cominciato, Obama, parlando di sua moglie ha detto: “Michelle – e qui si è dovuto interrompere per gli applausi pieni di affetto e calore – Michelle LaVaughn Robinson ragazza del South Side (di Chicago ndr), negli ultimi venticinque anni non solo

sei mia moglie e la madre delle mie figlie ma la mia migliore amica. Ti sei caricata un ruolo che non avevi chiesto. Lo hai fatto tuo, con grazia, grinta, stile e umanità”. A questo punto del discorso Obama, visibilmente commosso, si è inter-rotto per asciugarsi una lacrima e gli applausi sono stati ancora più fragorosi.

Michelle è riuscita a creare un legame molto forte tra se stessa e i cittadini ed è, ovviamente, un simbolo molto importante per le donne e in particolare per le donne afro-americane che hanno visto in questa ragazza dalle umili origini la possibilità di riuscire a cambiare il proprio destino e quello della nazione nella quale vivono.

Michelle Obama

Michelle Obama con il marito L'ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama

Page 5: l’antifascista - ANPPIA · commercio e di cooperazione nella guerra al narcotraffico. Forse in molti non sanno che nei punti più sensibili del confine esistono già strutture che

98 EsteriEsteri

le Prossime elezioni Presidenziali in Francia: le scelte di marine le Pen

FRONT NATIONAL "MODERATO"? RESTANO L'ANTISEMITISMO E LE SIMPATIE NEONAZISTEdoPo la breXit la FreXit?

di Saverio FERRARI

il prossimo 23 aprile si terrà il primo turno delle elezioni presidenziali francesi; il 7 maggio, il secondo. seguiranno l’11 e il 18 giugno le tornate elettorali per il rinnovo del Parlamento. date che potrebbero segnare gli stessi destini dell’unione europea. viviamo in tempi di repentini sconvolgimenti, la vittoria di donald trump negli stati uniti insegna, e l’elezione di marine le Pen con una forte affermazione del Front national non sembrerebbe così impossibile. secondo tutti i sondaggi, ad oggi, sarebbe il primo partito di Francia con il 24% e il suo candidato alla presidenza si attesterebbe tra il 27 e il 28%. una delle decisioni annunciate, in caso di affermazione della leader del Fn, riguarderebbe l’indizione di un referendum sulla permanenza della Francia nella ue. dopo la brexit potremmo avere la Frexit.

un Po’ di storia

Il Front national si costituì nel 1972 prendendo a modello il Movimento sociale italiano (adottò addirittura in suo onore lo stesso simbolo: una fiamma con i tre colori della bandiera francese al posto di quella italiana). Nacque, molti lo hanno dimenticato, sulle ceneri del gruppo filonazista di Ordre nouveau.

Punto di raccolta di tutte le anime più estreme della destra francese, dai tradizionalisti agli integralisti cattolici, dai nostalgici agli antisemiti, il Fn si è sempre caratterizzato per il suo forte nazionalismo. Sfruttando il malcontento indotto dalle profonde trasformazioni della società transalpina, ha costruito le sue fortune elettorali accusando l’immigrazione di tutti i mali, dall’aumento della disoccupazione e della precarietà lavorativa alla crescita della criminalità. Sua la parola d’ordine “Prima i francesi” per l’accesso al lavoro e ai servizi. Da qui anche la difesa dell’identità e dell’indipendenza in campo internazionale, con il rifiuto dell’Unione europea e della Nato.

Nelle presidenziali del 2002, con il 16,86% dei voti il suo presidente Jean-Marie Le Pen, scavalcando il candidato dei socialisti, arrivò al ballottag-gio con Chirac. Con il passaggio, nel gennaio 2011, della leadership del Fronte da Jean-Marie Le Pen alla figlia Marine, i toni si sono fatti apparentemente più moderati. L’iniziativa del Fn da anni si concentra soprattutto nelle zone urbane e nei grandi agglomerati, un tempo terreno delle sinistre, presso le classi medie e il proletariato, attaccando i politicanti, la mondializzazione e gli immigrati, accaparratori di lavoro e responsabili dell’insicurezza e del degrado. Una linea che è stata premiata nelle presidenziali del 2012 dove il Front national, candi-dando Marine Le Pen, ha raggiunto il 17,9%. Il miglior risultato della sua storia.

lo “sFondamento a sinistra”

Tra i 144 impegni di governo presentati lo scorso 5 febbraio a Lione, davanti a tremila militanti, al grido «On est chez nous» (Padroni a casa nostra), in buona parte riecheg-gianti gli stessi punti programmatici del 2012, Marine Le Pen punta aper-tamente a raccogliere il consenso negli strati popolari più colpiti dalla crisi. Si promettono salari minimi a 1.500 euro, l’aumento delle pensioni minime, il diritto al pensiona-mento dopo quarant’anni di lavoro o sessant’anni di età, il ribasso delle tariffe di gas, elettricità e per i carbu-ranti, la difesa del commercio al dettaglio contro la grande distribu-zione, politiche protezioniste contro le delocalizzazioni, una nuova tassa del 3% sulle importazioni, infine la sovranità monetaria con il ritorno al franco. Le 35 ore verrebbero mante-nute e si ritirerebbe la assai contestata

nuova legge sul lavoro (la cosiddetta “loi El Khomri” ispiratasi al Jobs act renziano), causa di massicce e prolun-gate mobilitazioni sindacali. Un programma sociale di “sfondamento a sinistra”, individuando il nemico nella globalizzazione che opera dal basso «con l’immigrazione massiccia» e dall’alto «con la finanziarizzazione dell’economia». «La priorità deve essere nazionale», ha scandito Marine Le Pen, con l’idea di introdurla anche in Costituzione. Da qui, la propo-sta di limitare a diecimila gli ingressi legali degli stranieri, l’impossibi-lità di permessi di soggiorno per chi entra illegalmente, nessuna assistenza o sussidio per loro, con l’abolizione, infine dello Jus soli, esistente da secoli in Francia. Tra gli obiettivi anche l’uscita dalla Nato (le spese per la Difesa passerebbero così dal 2 al 3% del Pil) come dall’area Schengen, con il ripristino delle frontiere. Sul fronte della “sicurezza” si prevederebbe inol-tre di assumere altri 15mila poliziotti, di introdurre «la presunzione di legit-tima difesa» per le forze dell’ordine, e avviare la creazione di nuovi 40mila posti in prigione. Riguardo al sistema elettorale si introdurrebbe una quota di proporzionale (30%) per eleggere l’Assemblée National, affiancata da una diminuzione consistente di depu-tati (da 577 a 300) e senatori (da 348 a 200). Sempre dal punto di vista isti-tuzionale largo spazio verrebbe dato al ricorso ai referendum di iniziativa

popolare, verso forme di democra-zia plebiscitaria da sempre assai care al Front national. Il primo riguarde-rebbe proprio l’uscita della Francia dall’Unione europea. Un’ultima anno-tazione: recentemente qualcuno ha parlato di un Fronte nazionale più “moderato” e “istituzionale” alla ricerca del consenso degli indecisi. Ben lontano dai tempi in cui Jean-Marie Le Pen parlava delle camere a gas naziste come di «un dettaglio della storia». Sarà, ma solo qualche

settimana fa la figlia ha minacciato di togliere la cittadinanza agli ebrei francesi che hanno anche passaporto israeliano. Per lei, che solo quattro anni fa partecipava a Vienna al Gran Ballo dei nostalgici del Terzo Reich, tra neonazisti e antisemiti di ogni specie, la maschera odierna non riesce a coprire proprio tutto.

Marine Le Pen arringa la platea durante un comizio

Francois Fillon, candidato della destra moderata francese

Manifestazione del Front National a Parigi

Page 6: l’antifascista - ANPPIA · commercio e di cooperazione nella guerra al narcotraffico. Forse in molti non sanno che nei punti più sensibili del confine esistono già strutture che

1110 Interni Interni

Non è una novità. La sinistra ci ha abituato a questi balletti circensi: scontri personali tra big, accuse al veleno, rotture clamorose e irreversibili subito

rientrate, scissioni senza futuro, sgambetti, atti sleali e chi più ne ha ne metta.

Alla fine, un partito appena ricostruito e apparentemente sano al punto da diventare la prima formazione politica italiana, oscillante tra il 35 e il 40 per cento dei consensi, perde colpi (com’era naturale che fosse) e anche il primato. Non sono valsi a nulla gli inviti degli uomini di buona volontà e di buon senso, l’accorato e motivato appello di Walter Veltroni, a non fasciarsi, ad abbandonare i rancori personali, a cercare di stare insieme per il bene di tutti: del

Pd, del Paese, degli antifascisti sinceri. Oggi il quadro è a tinte fosche: la sinistra così frantumata

dà l’idea di essere velleitaria e di navigare in acque peri-gliose a rischio estinzione, la maggioranza sta un po’ meglio ma si trova di fronte una destra, anch’essa divisa, però in grado di pilotare la risalita, con un soggetto – i 5 Stelle – che sta a guardare gli sviluppi consapevole di convogliare la protesta anti-sistema verso obiettivi finali inquietanti perché, nonostante le sue carenze, riesce ad aumentare i consensi al punto di essere il movimento guida della batta-glia elettorale.

Dice Renzi: “la scissione è stata scritta e ideata da Massimo D’Alema”. Bersani replica: “La scissione è opera di Renzi”. E se anche così fosse così, possibile che nessuno è capace di intestarsi gli errori politici commessi, l’incapa-cità di abbandonare gli odi e di pensare ai cittadini onesti che guardano disorientati a questo triste spettacolo? Si dice che la prova del nove saranno le primarie.

Ma chi ci crede più? Emiliano è un candidato che ha già cambiato idea, Orlando difficilmente conquisterà la maggioranza e Renzi, dopo la sonora sconfitta del referen-dum sulle riforme da lui fatte, è un’incognita ancora più grossa.

C’è poi il problema, non da poco, della legge elettorale che potrà favorire alleanze innaturali capaci di buttare il Paese nel baratro; un’alleanza anti Europa e anti euro che nessun democratico sincero si sentirebbe di avallare. Come finirà? Quando questo numero dell’Antifascista vedrà la luce, forse i giochi saranno fatti. Renzi tiene la barra dritta: ”Io non accetto ricatti, non possono chiedermi di rinunciare all’ide-ale e al sogno che ho nel cuore”, gli altri danno vita a nuovi soggetti.

Allora finirà male? Non sarebbe la prima volta, ma attac-chiamoci alla frase di un uomo che ha vissuto e si è nutrito di politica per tutta una vita, Giulio Andreotti: ”Siamo in Italia e, si sa, in Italia tutto si aggiusta”. Speriamo. (g.m.)

CRISI PD TRA SCISSIONI, VELENI E RISSE TRA BIG FRANE A SINISTRA, COMINCIA IL TERREMOTO

di Nicola CORDA

La corsa a sinistra è cominciata. Come finirà è ancora tutto da scrivere. Con l’esordio nazio-

nale al teatro Brancaccio a Roma, del Campo Progressista, Giuliano Pisapia ha l’ambizione di rifondare il centrosi-nistra e sarà con molta probabilità, uno dei leader che animeranno il dibattito dei prossimi mesi. L’altro in pista sarà colui che uscirà vincitore dal congresso del Pd che fino a poche settimane fa aveva già in Matteo Renzi il vincitore predestinato. E però, con le due candidature di Andrea Orlando e Michele Emiliano, ora il Partito democratico diventa più contendibile e il posizionamento delle correnti sarà determinante per il risultato delle primarie. La scissione di un pezzo importante degli ex Ds capitanati da Pierluigi Bersani ha rimescolato qualche carta e ora, come dice qualcuno che è rimasto, “la corsa si fa più interessante”. Con Bersani sono andati via pezzi grossi come D’Alema, Vasco Errani ed Enrico Rossi, insieme a un gruppo che fa capo ai quarantenni guidati da Roberto Speranza. La nuova formazione dei “Democratici e Progressisti” ha già costituito i gruppi alla Camera e al Senato insieme ad altri 17 parlamen-tari (compreso il capogruppo Arturo Scotto) usciti da Sinistra Italiana proprio in concomitanza con il congresso di Rimini che ha eletto segretario Nicola Fratoianni. Per ora

gli eredi di Vendola restano fuori da questo gioco di riposizionamenti, rivendicano una scelta di autonomia di forte radicalità a sinistra e puntano su un’alternativa che difficilmente potrà incontrare una sponda di governo.

Il referendum del 4 dicembre e la pesante sconfitta subita dal Pd, ha così rimescolato tutte le carte a cominciare dal prepotente ritorno di un sistema elettorale proporzionale, che difficil-mente potrà cambiare nei pochi mesi che separano dal ritorno alle urne. Uno scossone che ha liberato i lacci di un Pd tenuto assieme dalla formula maggioritaria e che ora ha scatenato il “liberi tutti”. Un vento proporzionale che favorisce più le frammentazioni piuttosto che le scelte unitarie. Una fase politica che, tuttavia, costrin-gerà ad alleanze future, se non si vorrà pagare l’alto prezzo dell’ingovernabi-lità o quello di un’altra legislatura di larghe intese.

Con il suo “Campo progressi-sta”, Pisapia vorrebbe evitare questi pericoli e tentare la carta di una federazione delle forze in campo, riportando alla luce l’idea originaria dell’Ulivo di Romano Prodi. Decli-nandolo nella forma più attuale, innestando le reti civiche e di associa-zioni, le esperienze locali dei sindaci arancioni vorrebbe qualcosa che parta sopratutto dal basso, più in sintonia e legata ai bisogni dei cittadini. Una “rinascita ulivista” che sembra non

dispiacere al Professore bolognese, il quale non ha rinnovato la tessera del Pd e ha dichiarato in più occasioni di avere stima per Pisapia. “Se ci sono tutte queste iniziative vuol dire che del centrosinistra c’è ancora bisogno”, ha replicato recentemente ai giornali-sti che gli chiedevano un giudizio.

Timore o opportunità sono i senti-menti che in questa fase dominata dall’incertezza vengono registrati nella maggioranza ancora renziana del Pd. Per alcuni di un “nuovo Ulivo” non c’è alcun bisogno perché il partito è stata la sua naturale evoluzione. Per coloro che invece lo vedono parzial-mente snaturato, il movimento può diventare un prezioso alleato in tempi di proporzionale. In un panorama in cui le altre due forze come il Movi-mento di Beppe Grillo e le destre di Salvini e Meloni, potrebbero ricac-ciare il centrosinistra all’opposizione, una seria riflessione sui danni che farebbe la competizione in casa andrebbe fatta. “Campo Progressi-sta” è ancora un cantiere aperto e si propone di restare tale. Il paletto già messo in chiaro da Giuliano Pisapia ancora prima di lanciare la sua crea-tura è “nessuna stampella a Renzi” ma il futuro è un fronte largo dove un Pd in discontinuità con il passato è preso in considerazione. L’obiettivo di ricostruire un'area uscita a pezzi dal referendum e da tre anni di governo forzato con Alfano, è nobile, ma è pur vero che far parlare le tante sinistre, da quelle radicali a quelle più rifor-miste, non è mai stato facile. La storia non si ripete, insegna: ne sa qualcosa lo stesso Prodi che si è trovato obbli-gato a interrompere il lavoro nel bel mezzo dei suoi governi. Molto dunque dipenderà dall’esito della partita più importante di questa primavera, il congresso del Partito democratico dove il segretario dimissionario si gioca un bel pezzo del suo futuro poli-tico. Un congresso che, come previsto dallo statuto, consentirà di votare alle primarie del 30 aprile anche ai non iscritti. Le porte aperte a tutti nel 2013 hanno consentito a Renzi il trampo-lino di lancio anche per Palazzo Chigi. Gli elettori di centrosinistra lo hanno visto all’opera e ora giudicheranno.

Renzi, Emiliano e Orlando si sfidano alle primarie del PD

Massimo D'Alema guida i fuoriusciti dal PD Giuliano Pisapia prova a riunire la sinistra radicale italiana

Page 7: l’antifascista - ANPPIA · commercio e di cooperazione nella guerra al narcotraffico. Forse in molti non sanno che nei punti più sensibili del confine esistono già strutture che

1312 Legge Elettorale Taxi

la sentenza della corte e le motivazioni

La Consulta mette al centro i partiti e le maggioranze omogenee

di Augusto CERRI

I contenuti essenziali della sentenza della Corte in tema di legge elettorale (n. 35 del 2017) erano già stati resi noti al momento della pronuncia. La lettura della motivazione consente, peraltro, di coglierne alcune ispirazioni indubbiamente interessanti.

La Corte consolida, con scrupolosa aderenza ai precedenti e senza fughe in avanti, la via di una azione di accertamento nella garanzia dei diritti di eletto-rato attivo; censura la valorizzazione assolutamente unilaterale della esigenza di governabilità a scapito della rappresentatività, attuata attribuendo, in sede di ballottaggio, un cospicuo premio di maggioranza alla lista che può aver ripor-tato, in una prima fase, anche un quoziente esiguo; valorizza il valore di aderenza al territorio (segnalato dall’art. 56 Cost.), ma in termini che non eccedano un ragionevole bilanciamento con le concorrenti esigenze costituzionali di rappre-sentanza unitaria (artt. 48, 67 Cost.); riscopre e valorizza il ruolo dei partiti nella dinamica di una democrazia, che può giustificare la previsione di un capo lista, ma non l’assoluto annullamento dei margini di scelta dell’elettore.

Un “ruolo forte” della Corte in materia elettorale, sotteso ad un controllo di proporzionalità, pur rispettoso delle scelte possibili del legislatore, quale si è affermato, ad es., anche in Germania, può essere condiviso, trattandosi di mate-ria che palesemente va oltre la pura disponibilità della maggioranza.

La riscoperta del ruolo dei partiti nella dinamica di una democrazia è felice ma sollecita i partiti a riscoprire, a loro volta, la loro origine di strumento interme-dio fra democrazia rappresentativa e diretta, oltre la pur apprezzabile scelta del leader attraverso le primarie.

Il consolidamento dell’azione popolare in tema di leggi elettorali offre scarse speranze di sopravvivenza alle non poche irragionevolezze, anche per pura mancanza di coordinamento, presenti nel sistema elettorale politico comples-sivo, specie quando possono tradursi in un concreto intralcio al corretto funzionamento delle istituzioni.

È sperabile che la lezione venga intesa dalla classe politica.

il sistema elettorale politico dopo le decisioni della corte

All’esito di due sentenze della Corte costituzionale (sentenza n. 1 del 2014 e quella pronunciata il 25 gennaio 2017, ancora non pubblicata e nume-rata) i sistemi elettorali della Camera (L. n. 52 del 2015) e del Senato (L. n. 570 del 2005) sono stati emendati da alcune norme incostituzionali in essi in origine presenti, in modo tale da essere, ciascuno, suscettibile di imme-diata applicazione.

L’esito pratico di queste due sentenze ci consegna due sistemi elettorali (di tipo proporzionale) abbastanza simili ed entrambi immediatamente appli-cabili. Con le seguenti differenze: (1) alla Camera (e non al Senato) è possi-bile (ma improbabile) un premio di maggioranza, ove al primo turno una lista consegua più del 40% dei suffragi; (2) al Senato si può votare su liste o coalizioni di liste (ciascuna con simbolo proprio), alla Camera solo su liste; (3) le soglie di sbarramento

sono diverse (3% alla Camera; 8% al Senato, che si riduce al 3%, in ipotesi di lista coalizzata, purché la coali-zione consegua almeno il 20%); (4) preferenza unica per il Senato, prefe-renza eventualmente duplice per la Camera, nel rispetto dell’eguaglianza di genere, e salva la elezione preferen-ziale dei capilista, salvo sorteggio ove un capo lista venga eletto in diversi collegi).

I sistemi che derivano dalle sentenze della Corte non sono necessaria-mente i migliori, dato che le sentenze operano sulla base delle leggi esistenti e delle censure ad esse proposte e non sono necessariamente esenti, a loro volta, da vizi di costituzionalità, dato che operano nei limiti di dette censure e non pregiudicano, dunque, diverse ed ulteriori censure sollevate in altre sedi (giudiziarie). La medesima differente disciplina delle elezioni della Camere e del Senato potrebbe comportare gravi inconvenienti pratici (per le diverse maggioranze che si venissero a formare) ed, ove priva di una effettiva ragion d’essere, potrebbe essere motivo di successive questioni di costituzionalità.

NORMA ANTI-TASSISTA? PROTESTA FASCISTAsaluti romani e simboli celtici tra i manifestanti scesi in piazza contro la norma “pro-uber”. la sindaca raggi al loro fianco cavalca pericolosamente una contestazione populista e lobbista nelle sue modalità.

Se andate a New York, Londra, Parigi, Madrid, in una qualsiasi capitale europea o americana, potete scegliere. Salire su un taxi o chiamare Uber, la piatta-

forma web che gestisce servizi di trasporto personale attra-verso conducenti terzi che prestano la loro auto e il loro servizio a un costo molto spesso minore di quello dei taxi. È una scelta, dettata dal mercato, un mercato che attraverso la rete e i servizi che si creano su di essa, è in continua evoluzione e propone queste forme nuove di offerta. Se nel resto del mondo queste situazioni sono velocemente regola-mentate, o almeno ci si prova, in Italia le lobby e le corpora-zioni dei vari settori si inal-berano per fermare quello che ormai non si può fermare, senza peraltro proporre soluzioni o compromessi alternativi. Il risultato è che quando questo governo all’interno del decreto milleproroghe, forse con un po’ di pressa-pochismo, ha provato a dare regole al settore, i tassisti, hanno visto questo tenta-tivo come un attacco alla loro professione, al loro spazio lavorativo.

I tassisti, soprattutto a Roma, hanno spesso con le loro proteste, legittime o meno, paralizzato la città, radicalizzando subito la loro lotta senza paura. Protetti troppo spesso da gruppi politici legati alla destra estrema anche extra parlamentare. Un legame che non trova nessuna radice storica particolare, non si capisce come uno che faccia il tassista sia assimilabile per mestiere a quel mondo, e soprattutto non rendendo giustizia a chi tra di loro, in verità la maggioranza, scende in piazza solo per difendere quelli che considerano i loro diritti, senza nessuna connotazione politica. Ma per forza di cose il gruppo legato ai fascisti romani è il più rumoroso e arro-gante, e martedì 21 febbraio ci sono stati dei momenti di agitazione quando alcuni manifestanti hanno cantato l’inno d’Italia facendo il saluto romano e altri hanno lanciato degli oggetti contro la sede del PD: la polizia ha fatto delle cariche di alleggerimento. Ci sono stati quattro feriti, fra cui tre leggeri e uno grave (un venditore ambulante di 60 anni). Sempre davanti alla sede del PD, uno dei manife-stanti ha anche aggredito un produttore del programma di Rai3 Gazebo. Alla manifestazione ha partecipato anche la sindaca di Roma Virginia Raggi, che ha detto di stare “con i tassisti”.

La Raggi sembra voler cavalcare questa protesta, in maniera rischiosa. Avvicinarsi a questi gruppi è una

tentazione che troppe volte sta accompagnando il Movi-mento 5 stelle a Roma. Dalle accuse a Di Battista per l’origine politica del padre, fascista convinto e non pentito, alla vicinanza delle proteste populiste e vicine alla destra dei “forconi” e di alcune piccole lobby come quelle degli ambulanti, da sempre “comandate” dai Tredicine, famiglia sempre presente nelle liste della destra a Roma. Il Movi-mento nato come un'aggregazione democratica (uno vale uno, le varie consultazioni on line, etc.) a Roma fin dalla scelta del candidato sindaco ad arrivare al ballottaggio non ha rifiutato senza se e senza ma il corteggiamento di questo

mondo, che vede nella confusione pseudo-ordinata del M5s un terreno fertile per prosperare. Proprio questo è il rischio, che la poca esperienza politica, anche se in buona-fede, potrebbe scatenare una reazione chimica: l’emergere in superficie di questo sottobosco variegato che così riusci-rebbe a trovare un incubatore in cui promuovere le proprie politiche.

Insieme a questo la Raggi sembra aver ceduto anche alla lobby del tifo, più che a quella dei costruttori, visto che Parnasi che deve costruire lo stadio della Roma è inviso a Caltagirone e soci, trovando un accordo per la costruzione appunto del nuovo stadio della Roma a Tor di Valle. Tifo or-ganizzato romanista molto vicino alla destra e molti di loro erano in piazza al fianco dei tassisti e degli ambulanti. Una situazione che a Roma ha peculiarità eccezionali. Ma alla fine non si è capito cosa ha deciso il governo e cosa hanno ottenuto i tassisti. Soprattutto non si è capito cosa hanno guadagnato o perso i cittadini. Un’altra volta ancora forse le vere vittime di questo sistema politico che non riesce a ge-stire le situazioni di crisi e blocca lo sviluppo e il progresso economico, civile e tecnologico di questo paese. (m.g.)

L'aula della Consulta

I tassisti manifestano sotto il parlamento a Roma

Page 8: l’antifascista - ANPPIA · commercio e di cooperazione nella guerra al narcotraffico. Forse in molti non sanno che nei punti più sensibili del confine esistono già strutture che

1514 Storie Storie

Leo e Lucia, una storia tutta italiana tra fascismo, razzismo e deportazione

venerdì 20 gennaio 2017 è stato presentato a Palazzo isimbardi questo libro di livio zerbinati.

hanno partecipato, oltre all’autore, beatrice uguccione, vice presidente del consiglio comunale di milano, alberto mattioli, organizzatore dell’incontro, massimo castoldi, andrea Jarach, giuliano Pisapia e carlo tognoli.

di Carlo TOGNOLI (già sindaco di Milano 1976-1986)

È la storia di persone normalissime travolte tragica-mente dalle vicende della guerra, del fascismo e del razzismo.

La particolarità del racconto sta nel fatto che una di queste persone, Lucia, è di famiglia ebrea (convertita con il matrimonio) mentre Leo, un avvocato giunto a Milano dal Polesine, è un professionista bene inserito nel capoluogo ambrosiano, all’apparenza non antifascista.

Tuttavia entrambi vengono arrestati nel 1944 e avviati verso la morte.

L’autore, in una visita al cimitero di Badia Polesine, entra in una cappella di famiglia nella quale - oltre ad un sarco-fago ed un busto dedicato a Illuminato Giro e alle tombe dei suoi congiunti - vede in una parete una iscrizione nella quale si fa riferimento a Leo Giro, avvocato, nato a Badia nel 1886 e morto a Flossenbürg il 17 febbraio 1945.

Come scrive Luigi Ganapini nella prefazione, parte da lì la ricerca per “dare un volto e riempire di contenuti l’as-senza che emerge dalle parole incise sulla pietra”.

Leo e Lucia si erano conosciuti a Milano, negli anni ’30. L’avvocato, ormai milanese, era stato testimone delle nozze di Lucia De Benedetti, figlia di un medico dell’Ufficio d’Igiene del Comune di Milano, con Lamberto Malatesta, figlio di Giuseppe Malatesta col quale Leo aveva da tempo rapporti professionali.

Il quadro in cui si svolge la vicenda vede Leo Giro arri-vare, nel 1911, in una Milano che - superata la crisi di fine secolo (Bava Beccaris) - era in grande sviluppo industriale e commerciale. Nel 1914 i socialisti guidati da Emilio Caldara e da Filippo Turati conquistavano il Comune. Nello stesso anno scoppiava la prima guerra mondiale nella quale l’Italia entrò nel 1915. Mussolini ancora socialista, ma interventista dopo essere stato neutralista, fondava il “Popolo d’Italia”. Luigi Albertini era direttore del “Corriere della Sera” di cui Eugenio Balzan era direttore amministra-tivo. Il dopoguerra, com’è noto, fu turbolento in tutta Italia.

La vittoria dei socialisti e dei popolari nelle elezioni del 1919 non portò a risultati concreti. Nel 1921 le nuove elezioni consentirono ai fascisti (che non avevano ottenuto neppure un seggio nel ’19) di disporre di un manipolo di poco più di trenta deputati per trattare con la destra liberale, accom-pagnando l’azione politica con le violenze intimidatorie nei confronti dei socialisti.

Nel 1922 (3 agosto) le squadre fasciste occuparono Palazzo Marino (sindaco era Filippetti) così come fecero in altri comuni d’Italia. Nell’ottobre del 1922, con la marcia su Roma, Mussolini divenne capo del governo dando inizio all’era fascista. Nel 1924 veniva assassinato Matteotti, oppositore intransigente del regime che si stava formando.

Nel 1931 veniva condannato dal Tribunale speciale

Riccardo Bauer, esponente del gruppo clandestino mila-nese di Giustizia e Libertà.

Leo Giro nel capoluogo lombardo entrò in contatto, come avvocato d’affari, con Giuseppe Malatesta, chimico e imprenditore e quindi con i suoi figli uno dei quali, Lamberto, era anch’esso chimico.

Lamberto Malatesta incontrò Lucia De Benedetti all’Uni-versità e la sposò nel 1936.

Come si può intuire si trattava di famiglie agiate, con attività professionali qualificate. Nel 1938 giunsero, quasi inaspettate, le leggi razziali. L’antisemitismo in Italia, da corrente culturale e politica minoritaria, diventava politica ufficiale dello Stato. Il padre di Lucia, Israele Augusto De Benedetti, veniva licenziato dal primo gennaio 1939, dal suo incarico di Capo Sezione dell’Ufficio d’Igiene del Comune di Milano.

La guerra rendeva la vita sempre più difficile. Dall’ot-tobre 1942 i bombardamenti angloamericani colpivano i centri industriali italiani, e Milano fu tra i primi obiettivi.

I Malatesta e i De Benedetti lasciarono Milano, Lamberto e Lucia trovarono casa a Varese. Leo Giro invece rimase in città.

Dopo il 25 luglio fu il caos e con l’armistizio dell’8 settembre iniziò l’occupazione tedesca della città. Sotto la Repubblica sociale italiana si intensificò la caccia ad ebrei e antifascisti.

I genitori di Lucia si nascosero e lei stessa cercò di non farsi notare.

Lamberto scendeva da Varese a Milano per insegnare all’Università e, a volte, con Lucia, era ospite, di Leo Giro a Milano. È in una di queste occasioni che le SS tedesche fecero irruzione a casa di Leo arrestandolo assieme a Lucia. Condotti a San Vittore, dopo dieci giorni venivano trasfe-riti al campo di concentramento di Bolzano/Gries. L’evento fu traumatizzante sia per Lamberto, che ricorse invano ad ogni mezzo per far liberare Lucia, sia per i familiari di Leo – la madre e la sorella che erano tornate a Badia Polesine prima della guerra. Una lettera a firma della madre veniva inviata a Mussolini, senza risultato. Leo e Lucia venivano deportati nei lager in Germania da cui non faranno ritorno.

Zerbinati è spinto a scavare nel passato di queste persone da ‘un incontenibile dovere morale e una passione civile’. Il lavoro negli archivi è stato accurato e molto ampio e completato da contatti e colloqui con amici, parenti, cono-scenti, per contrastare l’oblio che stava cancellando quelle figure.

A Badia Polesine, paese natale dell’avvocato trasferitosi a Milano, l’autore indaga su possibili connessioni, durante l’occupazione tedesca, che possano riguardare Leo Giro, ma non trova nulla. Non ci sono più parenti e quindi la

ricerca riprende a Milano dove Giro e le famiglie Malatesta e De Benedetti hanno avuto stretti rapporti. Rico-struisce il passato di quelle famiglie per capire le ragioni di quella dram-matica conclusione. Tuttavia mentre per Lucia è tragica, ma chiara, la motivazione razzista ed antisemita che la condanna, per Leo Giro è diffi-cile dare una spiegazione della sua fine. La citata lettera della madre a Mussolini punta a dimostrare, e se ne comprende la ragione materna, che Leo era un buon cittadino e i suoi rapporti col regime fascista non presentavano ombre nemmeno sotto la Repubblica Sociale.

E allora perché mandarlo, dopo San Vittore, in campo di concentra-mento? Per avere ospitato una ebrea? Questa potrebbe essere una interpre-tazione, che però è contraddetta da altri documenti, quale il rapporto del viceprefetto di Milano, trovato nell’ar-chivio di stato, dove sembrerebbe quasi scontata la liberazione di Leo Giro.

Il destino è invece segnato, malgrado gli interventi di altri parenti. Dopo il carcere c’è il trasfe-rimento al campo di Bolzano-Gries, luogo di transito e di smistamento.

Anche Lucia è costretta allo stesso percorso, che si concluse a Ravensbrück, come testimonia una sua compagna di sventura (Nina Neufeld) sopravvissuta e rientrata a Milano: Lucia De Benedetti fu “…deportata perché considerata di razza ebraica… gravemente ammalata di tifo… morì il 20 marzo 1945, come risulta dal registro dove segnavo clan-destinamente i nomi e la data di morte delle deportate… la signora era bionda, di statura media, piuttosto giovane…essa dichiarò di avere lasciato in Italia una figlia in tenera età…”

L’avvocato Leo Giro morì a Flos-senbürg nel febbraio del 1945. Le comunicazioni tra provincia e pode-steria, dopo una serie di inutili rimpalli, si concludevano il 12 marzo 1945, rimandando ogni verifica al comando nazista di Verona.

La vicenda dell’avvocato solleva quesiti che possono avere colori poli-tici. E se la vittima delle SS fosse stato un protagonista clandestino della Resistenza? I nazisti potevano avere interesse a occultarne l’arresto, per intrappolare altri eventuali complici.

Oppure è stato vittima di un destino

crudele per avere ospitato un’ebrea, magari su denuncia di qualche sciacallo?Nelle sue conclusioni Zerbinati non scioglie tutti i nodi, ma ricorda che nel

1946 venne inaugurata nel palazzo di Giustizia una stele con i nomi degli avvo-cati caduti nella guerra di Liberazione. Tra questi, Leo Giro.

Il padre di Lucia, Israele Augusto De Benedetti fu richiamato in servizio (1° maggio 1945) dalla giunta Greppi.

La ricerca condotta in modo scientifico su queste vicende apparentemente minori della nostra storia restituisce un profilo a coloro che erano stati dimen-ticati.

Il racconto, drammatico e coinvolgente, ci riporta al clima infame che c’era in quel periodo, nel quale milioni di persone vennero uccise senza altro motivo che non fosse il pregiudizio razziale e l’odio verso la convivenza civile.

Il libro, nel quale si trovano molti riferimenti sulle vicende storiche di Milano, comprese quelle dell’antifascismo clandestino durante il ventennio, va letto con attenzione perché aiuta a ricordare ed è avvincente nei passaggi dai documenti, ai colloqui, ai luoghi, che creano attesa nello sviluppo del racconto.

Page 9: l’antifascista - ANPPIA · commercio e di cooperazione nella guerra al narcotraffico. Forse in molti non sanno che nei punti più sensibili del confine esistono già strutture che

1716 L'Intervista L'Intervista

LA VITA DI IOLE, 97 ANNI, EROICA STAFFETTA PARTIGIANAdi Elisabetta VILLAGGIO

Classe 1920, il 19 febbraio ha com-

piuto novantasette anni, Iole Mancini

è una ragazza piena di vitalità, ener-

gia ed allegria. È stata una staffetta

partigiana a Roma. La incontro a casa

sua, dove vive da sola, e mi mostra,

dalla finestra, una svastica che è stata

disegnata su un muro di un cortile di

fronte. “Sono già quattro giorni che

è lì, domani mi attiverò per farla to-

gliere, mi fa troppo male vederla” dice

con un velo di tristezza. Iole è una ra-

gazza come tutte le altre quando un’e-

state conosce quello che diventerà suo

marito, Ernesto Borghesi, di tre anni

più grande. “Ci siamo conosciuti ad

Anzio durante le vacanze, era agosto

del ‘37. È stato subito un grande amore,

siamo stati fidanzati per sette anni.

C’era la guerra, nessuna certezza e

così abbiamo pensato che sposandoci

avremmo potuto stare insieme. Ci

siamo sposati il 5 marzo 1944 e dopo

un mese e tre giorni fu arrestato. C’era

stata un’azione di guerra che andò in

fumo ma loro erano armati. Li sor-

presero e li arrestarono, a quei tempi

bastava poco per essere fucilati.” rac-

conta. L’arresto di Ernesto Borghesi

avvenne in seguito al fallito attentato

a Vittorio Mussolini.

Fortunatamente nella stessa zona

ci fu anche una rapina e così Ernesto

e suoi compagni furono fatti passare

per una banda di ladruncoli da un

commissario sicuramente antifasci-

sta, come sottolinea Iole. “Sono stati

interrogati per una settimana e poi

arrestati e portati a Regina Coeli e lì

sono cominciate le torture. Il tenente

Pietro Koch interrogava e torturava.

Mio marito ha subito tutto questo

per un mese e mezzo e non ha mai

parlato”. Ernesto Borghesi con uno

stratagemma era riuscito a uscire dal

carcere con un falso permesso pro-

curatogli dal padre. Iole, la mattina

dopo la scarcerazione del marito, va

comunque in prigione a portargli la

biancheria pulita in modo da non cre-

are sospetti. “Dopo ventiquattro ore

i tedeschi arrestano un compagno, lo

torturano, lui non resiste e fa i nomi

dei compagni dei GAP tra i quali

Ernesto.” Il marito è nascosto in un

soppalco sopra l’ufficio del padre di

Iole in centro. Rimane lì per quaran-

totto ore ma nel frattempo i tedeschi

vanno a casa di Iole e dei genitori di

Ernesto per cercarlo e non trovandolo

li arrestano tutti e li portano nel car-

cere di via Tasso.

“Quando i tedeschi sono arrivati di

notte, io ero a letto, e, pur sapendo

il pericolo che correvo, ho insistito

perché mi lasciassero vestire e li ho

fatti uscire dalla stanza. Quando ho

cominciato a scendere le scale, ho

avuto una sensazione che le auguro

di non sentire mai in vita sua. Sentivo

le ginocchia come se ballassero,

una sensazione terribile. Pensavo di

svenire. Giù mi hanno fatto salire su

una camionetta, dove c’era un soldato

armato con accanto un interprete. Poi

hanno cominciato a bussare a tutti

i portoni, nessuno ha aperto. Tutto

questo è durato più di venti minuti e il

tedesco e l’interprete che mi sedevano

di fronte, mi fissavano pensando: que-

sta si tradisce. Io ero in trance e sono

rimasta impassibile, poi siamo partiti

e mi hanno portato in via Tasso, in un

palazzo borghese che era stato tra-

sformato in carcere, e lì torturavano

tutti gli antifascisti”.

lei ha subito torture?

Torture di botte no ma è stato peggio

perché ricordo le minacce e le grida”.

Iole durante gli interrogatori rimane

ferma nelle sue affermazioni, anzi

si rivolta contro l’ufficiale tedesco:

“Siete voi che dovete dirmi dov’è mio

marito perché questa mattina quando

ho portato la biancheria in carcere voi

l’avete accettata quindi lui era lì. Io mi

scagliavo contro questo ufficiale che

mi interrogò durante quella notte lun-

ghissima alla fine della quale ero stre-

mata”. Iole urla con forza, con la forza

che la giovinezza e la determinazione

le danno. L’ufficiale nazista contro il

quale si scaglia con impeto è Priebke.

Iole è arrestata alla fine di maggio del

’44 e, con gli altri detenuti, è liberata il

4 giugno grazie all’arrivo degli alleati.

“Sono stata dentro una settimana,

da fine maggio al 4 giugno quando

sono entrati gli americani e ci hanno

salvato. La sera prima che arrivassero,

sentivamo odore di carta bruciata,

hanno quasi distrutto gli archivi.

Quella sera c’era anche un gran movi-

mento per le scale, salivano e scende-

vano. Con me c’era mia suocera, mio

suocero era al piano di sotto. Quella

sera i tedeschi hanno fatto scendere

un gruppo di prigionieri, i più impor-

tanti nella lotta di liberazione. Poi

hanno fatto scendere anche me con

un altro gruppo. I primi erano su un

camion che è partito. Il nostro era

guasto così ci hanno fatto scendere e

riportati nelle celle. La mattina dopo

sono entrati gli americani”.

e suo marito?

Era nascosto dal padre di un

suo carissimo amico, il profes-

sore Mendicini, nella sua clinica a

Centocelle.

Quando vi siete rivisti?

Il 5 giugno.

e una volta finita la guerra?

“Dopo la guerra abbiamo ricomin-

ciato con molta fatica perché quello

che avevano subito era stato terribile,

ci aveva sconvolto”.

Lei è tata una staffetta partigiana.

“Dall’8 settembre è cominciata una

ribellione spontanea perché i tedeschi

e i fascisti avevano ristretto tutto, la

sera non potevi uscire, c’era una fame

nera ,Roma città aperta era circondata

dall’armata tedesca che non avrebbe

dovuto esserci ma c’era. Noi eravamo

prigionieri, tutti in città si muovevano

come dei fantasmi, è stato molto pe-

sante”.

e quali erano i suoi incarichi?

“Portavo manifesti e armi, facevo da

corriere tra un gruppo e l’altro”.

dove nascondeva le armi?

“Andavo sempre a piedi con la borsa

della spesa. Mettevo le armi dentro e

le coprivo con un po’ di verdura”.

c’è mai stato un momento in cui ha avuto veramente paura?

“Solo la notte quando mi hanno ar-

restata”.

Dopo la guerra Ernesto studia e la-

vora ma presto lascia gli studi perché

è molto impegnato politicamente. Non

hanno figli, perché non arrivano, ma

non se ne fanno un cruccio. Iole co-

mincia a lavorare per le sartorie di alta

moda come Valentino, Laura Biagiotti

e le sorelle Fontana. Confeziona abiti

di alta sartoria e conosce Gary Cooper,

dal quale rimane incantata (il famoso

attore aveva accompagnato la moglie a

provare un vestito).

lei e suo marito sono rimasti insieme fino alla morte di lui quando non aveva ancora cinquant’anni.

“Si è ammalato in seguito alle tor-

ture subite quando era stato incarce-

rato a Regina Coeli, e poi non ce l’ha

fatta”, ricorda con malinconia. “Koch

e altri torturavano i prigionieri con

ferocia: gli saltavano sopra con gli

scarponi chiodati. Ad assistere a que-

ste scene spesso c’era la sua amante,

Maria Denis, un’attrice molto carina

e brava che però stava con i fascisti e

assisteva alle torture. Un paio di anni

dopo l’ho incontrata, l’ho fermata e

le ho detto quello che pensavo di lei.

Con la coda tre le gambe è scappata.

Finita la guerra Pietro Koch fu arre-

stato, condannato e fucilato a Forte

Bravetta”.

Qualche anno dopo la morte del

marito, conosce il pittore bulgaro Ilia

Peikov e lì rinasce, come afferma lei

stessa. Vive un’altra storia importante

fino a quando nell’88 lui muore.

lei ha vissuto un pezzo di storia d’italia. come vede la situazione oggi?

“C’è uno sfacelo terribile. Per risa-

nare l’Italia, con tutte le sfaccettature

che ci sono, si devono mettere d’ac-

cordo tutti. Dopo la guerra, l’Italia si

è ricompattata, tutti si erano uniti per

liberarsi dal fascismo: democristiani,

liberali, comunisti, socialisti, tutti.

Se oggi non fanno questa unione per

ricostruire non se ne esce”.

Anche sulla situazione dell’immi-

grazione è molto scettica e dice che

non siamo preparati a questo flusso

di migranti paragonabile a un’apo-

calisse. E alle ragazze di oggi dice

di rimboccarsi le maniche. Parla con

nostalgia di Carla Capponi che oltre

che compagna di lotte è stata una sua

grande amica. Ha una grande pas-

sione per la Presidente della Camera

Boldrini che ha conosciuto nell’aprile

del 2016 quando è stata insignita di

una Medaglia al Valore. “C’è stata

subito empatia tra noi e poi mi sembra

una donna molto fattiva” dice.

le ha fatto piacere ricevere la medaglia?

“Sì, ma ci hanno messo un po’ troppi

anni”.

La saluto con un abbraccio e mi di-

spiace quasi di andare via perché ho

trascorso due ore veramente piacevoli

in compagnia di questa simpatica

signora che ancora oggi ha energie da

vendere.

Iole Mancini incontra la Presidentessa della Camera Laura Boldrini

Page 10: l’antifascista - ANPPIA · commercio e di cooperazione nella guerra al narcotraffico. Forse in molti non sanno che nei punti più sensibili del confine esistono già strutture che

1918 Memoria Memoria

Presentato Per il giorno della memoria l’emozionante documentario maestro

Un film racconta la musica degli spartiti trovati nei lager

Può la musica cambiare il mondo? Forse no ma forse sì. lo fa sicuramente per Francesco lotoro ma lo fa soprattutto per gli internati nei campi di concentramento dal 1933 al 1953 cioè alla morte di stalin. Francesco lotoro è un enfant prodige, figlio di un sarto di barletta con la passione del pianoforte che studia con passione e dedizione fino ad essere ammesso nella prestigiosa accademia di Franz liszt di budapest. lì inizia a studiare i grandi musicisti dell’europa centrale quando un giorno si accorge che le biografie di molti di loro si interrompono bruscamente nel 1944. nel 1990, a Praga, Francesco si imbatte casualmente in uno spartito scritto in un lager. Per lui è un colpo di fulmine e, da allora, dedica la sua vita al recupero degli spartiti composti nei campi di concentramento della seconda guerra mondiale.

Grazie all’incontro con Alexandre Valenti, documentarista argentino trapiantato in Francia, nasce il docu-mentario Maestro, presentato per il Giorno della Memoria che racconta una storia che ha dello straordinario.

Attraverso la musica e grazie ad essa molto musicisti internati riuscirono a sopravvivere o dare un significato alla propria vita. È sottile e intenso nello stesso tempo il documentario, molto bello e delicato pur trattando temi drammatici affrontati con leggerezza, quella leggerezza che la musica, anche la più drammatica, riesce a trasmet-tere.

“Puoi togliere tutto a un uomo. Puoi anche gasarlo, ma non puoi toglier-gli la libertà di fare musica”, racconta Francesco con emozione. Il film, una coproduzione italo-francese, presen-tato a Roma, alla Casa del Cinema, è uscito come evento il 23 gennaio mentre la prima internazionale è stata il 24 gennaio, a Parigi, nella sede dell’UNESCO. Maestro è stato un lungo lavoro di ricerca, dove sono stati raccolti e trascritti oltre quattromila spartiti con un lavoro complicatissimo e certosino. Sono pochissimi, infatti, gli internati ancora vivi e una signora tedesca ma trapiantata a Parigi, dove Francesco l’ha incontrata, è morta durante la realizzazione del filmato.

“Dove c’era la morte si è creata la vita perché questa musica rappre-senta la vita e la voce di quelli che sono stati uccisi nei campi, di quelli che sono spariti. Fare musica era un atto di resistenza, una libertà di fronte al nazismo, ai campi, alla prigionia coatta. Questa musica è un testamento e se questa musica non è suonata, rimane ancora prigioniera e oggi per me essere qui è una grande soddisfa-zione perché è l’inizio di un nuovo viaggio”, racconta il regista.

Francesco ha l’intuizione di quello che può avere tra le mani tra l’88 e

l’89 e comincia a lavorare su musici-sti ebrei, ma presto si rende conto che gli internati venivano dalle più diverse religioni o etnie. C’erano cristiani, rom, quaccheri. C’erano anche campi francesi in Algeria e in ognuno di questi campi sono scritte bellis-sime opere che subiscono un oblio di settant’anni.

c’erano anche italiani tra i musicisti che hai scoperto?

Moltissimi, sia tra quelli ebrei ma anche quelli nei campi in Cirenaica, a Ferramonti, il campo di smistamento in Calabria. C’erano i prigionieri di guerra italiani.

cosa bisogna ancora fare per liberare questa musica e farla conoscere?

Ora abbiamo ottomila partiture e le devo trasferire sul computer ma non è facile perché alcuni dischi sono incrinati o rovinati. C’è tantissimo materiale, forse ho lavorato solo alla metà e forse il lavoro potrà essere completato tra dieci anni. Quando è stato realizzato il film, avevo quat-tromila spartiti e dopo due anni se ne sono aggiunti altrettanti, ora si è creata una Onlus per sponsorizzare i miei viaggi. Molte persone intervi-state sparivano e con loro spariva la memoria e la loro musica.

Quello che si può fare oggi è liberare

le musiche, farle ascoltare, non serve

solo catalogarle. Organizzare i concerti è

molto importante.

ma come riuscivano a suonare nei campi di concentramento?

L’uomo sublima spesso i suoi sentimenti facendo musica. I musi-cisti stessi nei campi si adattavano a comporre musica secondo gli stru-menti che avevano. Poteva capitare che magari la moglie del comandante del campo amasse la musica e in quel

caso i musicisti avevano più libertà di azione e più strumenti musicali con i quali esprimersi.

Questa è una storia straordinaria che senza la caparbietà e la dedizione di Francesco sarebbe rimasta nell’o-blio e si sarebbero perse per sempre queste musiche bellissime frutto di angoscia, di violenza, di privazioni e morte ma anche di volontà, di rivin-cita, di ricerca di libertà, di rifiuto della sopraffazione. Maestro è un road movie sulla memoria.

Sempre in occasione delle giornate per la Memoria, è andato in scena, al teatro dell’Angelo di Roma, lo spettacolo di Giuseppe Argirò, Viag-gio, che attraversa il dolore umano raccontando i campi di sterminio. L’autore immagina una compagnia di attori ebrei che prova le Baccanti di Euripide e gli attori diventano prota-gonisti di un viaggio senza ritorno verso Auschwitz. Uno spettacolo travolgente e intenso che porta lo spet-tatore nei meandri del dolore e della disperazione. Lo spettacolo riper-corre lo sconforto del tragitto, sino alla destinazione infernale dei lager. Le voci di Primo Levi e alcune rifles-sioni di Pasolini sulla Shoah insieme ai testi originali di Giuseppe Argirò danno vita a una partitura polifonica in cui prevale l’aspetto corale tipico della scrittura tragica senza catarsi.

“Raccontare quanto è accaduto nei campi di sterminio è un imperativo morale. Dopo la Shoah infatti nessuna forma di tragedia è più possibile, poiché la realtà supera ogni forma di rappresentazione. La scientificità della soluzione finale e il genocidio avve-nuto con metodicità e rigore va al di là di qualsiasi considerazione etica e annulla il concetto stesso di bene e di male”, racconta Argirò. (e.v.)

una storia di guerra a lieto Fine doPo 72 anni a schio dove il 7 luglio del ’45 un assalto al carcere Provocò 54 vittime

Il partigiano le uccise il padre podestà oggi la figlia lo abbraccia: basta odio

Ci piace ricordare questa storia di Schio

(Vicenza) raccontata su “Repubblica” da

Stefano Ferrio. Dopo 72 anni difficili è stato

firmato l’atto di riconciliazione davanti al

vescovo di Vicenza Beniamino Pizziol,

tra un partigiano ormai ultranovantenne

e la figlia del podestà da lui assassinato.

Protagonisti della dichiarazione di pace

sono l’operaio in pensione Valentino

Bertoloso, nome di battaglia “Teppa”

classe ’23 e Anna Vescovi, psicoterapeuta

vent’anni più giovane di lui. Di comune

accordo hanno voluto che fosse la Chiesa,

intesa come ente morale, a sancire la

riconciliazione.

Ecco la storia. “Teppa”, 94 anni, era fra

chi comandava i partigiani che, nella notte

fra il 6 e il 7 luglio 1945, due mesi dopo la

fine della seconda guerra mondiale, fecero

irruzione nel carcere di Schio, nell’Alto

Vicentino, per compiere l’eccidio in cui morirono 54 persone,

uomini e donne tra i 18 e i 74 anni: fascisti, ma anche detenuti

comuni. Arrestato e processato con altri quattro, per questa strage

in tempo di pace, fu condannato a morte, pena poi commutata

in ergastolo, ed estinta dopo dieci anni di detenzione. Anna –

scrive Repubblica - è figlia di una delle vittime, Giulio Vescovi,

allora 35enne podestà di Schio, dopo essere stato pluridecorato

capitano della divisione corazzata Ariete. Hanno scritto e firmato

un messaggio di poche righe, in cui Teppa si presenta come

uno degli esecutori materiali di un eccidio “che oggi possiamo

considerare inutile e doloroso”, mentre spetta ad Anna rivelare

che “è il momento di pacificare tragiche contraddizioni della

Storia di 70 anni orsono”.

Alla vigilia di questo passo storico - scrive il giornalista di

Repubblica - eccoli insieme a casa di Valentino. Sul tavolo le

lettere che hanno iniziato a scambiarsi la scorsa estate. Frutto di

un percorso sofferto, sono le tappe di una pace fortemente voluta

da entrambi, per porre fine alla guerra iniziata a Schio il giorno

dopo il massacro e protrattasi per settant’anni di veleni, ingiurie,

illazioni. Da una parte, chi difende le ragioni dei partigiani.

Dall’altra, i parenti delle vittime dell’eccidio e i loro sostenitori.

A poco è servito, finora, il “Patto di Concordia” firmato in

Comune nel 2005. Discordia regnava ancora l’estate scorsa,

quando giunse notizia della Medaglia della Liberazione assegnata

a Teppa dal Ministero della Difesa per i meriti acquisiti durante la

Resistenza. Un riconoscimento caldeggiato dall’ANPI, contestato

dal sindaco di centrodestra di Schio, Walter Orsi, e infine revocato

dal Ministero. Con un nuovo, fatale innesco di reciproche accuse.

“ A quel punto – spiega Anna, che bambina fece in tempo a vedere

il papà ferito a morte – ho sentito risuonare in me le parole del

Salmo: misericordia e verità s’incontreranno, giustizia e pace si

baceranno. Allora ho detto basta, e ho scritto a Teppa”. “Quando

ho aperto la busta e ho letto quel “Caro Valentino” – ricorda

Teppa – ho sentito sparire il macigno che avevo portato nel cuore

di Jean MORNERO

Il Partigiano “Teppa” abbraccia la figlia del fascista che uccise settant'anni fa

per tanto tempo. E ho subito voluto risponderle”.

Scrive Anna: “Lei ed io siamo gli ultimi testimoni di quel

mare di dolore che si è riversato su di noi nel luglio ’45, e che

in altri tempi e luoghi continua a riversarsi. È mia convinzione

che il destino ci abbia legati, io e lei, ineluttabilmente, affinché

cogliamo la possibilità di trasmettere un autentico messaggio

di conciliazione”. Risponde Valentino: “La ringrazio, date le

circostanze dolorose che gravano in modo diverso sulle nostre

spalle, di avere avuto la forza e il coraggio di rivolgersi a chi,

pizzicati entrambi negli ingranaggi mostruosi della guerra, Le ha

tolto il padre”

Teppa aggiunge qualcosa a voce: “Vescovi, quella notte, fu

l’unico a tentare una mediazione.

Ma in quel momento della Storia noi e lui non potevamo

comunicare. Erano successe troppo cose, è difficile immaginare

quanta rabbia ci spinse in quel carcere …”.

“E non c’erano mandanti, c’eravamo solo noi”, precisa,

smentendo le voci di una vendetta pilotata in quel dopoguerra da

resa dei conti. La rabbia riaffiora dal racconto della “sua” guerra:

“prima la ritirata di Russia, dov’ero andato carabiniere: 800

chilometri nella neve, inciampando sui corpi dei compagni. Poi il

ritorno a casa per fare la guerra in montagna. Altro sangue, altri

amici morti. Questo ero io, nel luglio ‘45”. Nel 2017, è un vecchio

comunista, che confessa di avere smarrito la fede cristiana

dell’infanzia, quando era il primogenito di 11 figli di una famiglia

operaia. Ma s’illumina quando Anna gli assicura che “non so

come, ma in questa storia c’è un Altrove che ci guida entrambi”.

Mentre i due chiacchierano di ricette a base di verza, come

amici di lunga data, risuonano le parole. di Danilo Andriollo,

presidente dell’Anpi su questa riconciliazione: “Anna e Valentino

sono Speranza in carne e ossa che, arrivando da un passato così

crudele, indicano un futuro di pace”.

Page 11: l’antifascista - ANPPIA · commercio e di cooperazione nella guerra al narcotraffico. Forse in molti non sanno che nei punti più sensibili del confine esistono già strutture che

2120 Il Ricordo Il Ricordo

naziFascismo e dePortazioni

Valletti, mediano del Milan, a Mauthausen riuscì a salvarsi perché giocava bene al calciodi Roberto CENATI

Ho incontrato nella sede dell'ANPI Manuela Valletti che mi ha raccontato, con

profonda commozione, la vicenda incredibile di suo padre, lavoratore dell'Alfa Romeo e giocatore del Milan che, nel marzo del 1944 a seguito dello sciopero generale, finì a Mauthausen, ma riuscì a salvarsi grazie ad una partita di calcio giocata con le SS. Valletti tornò a casa nell'agosto del 1945 dopo 18 mesi di campo di concen-tramento durissimo. Quella partita fu provvidenziale per lui e per altre persone che riuscì a salvare. Manuela ha voluto raccogliere gli scritti che batteva a macchina per le conferenze tenute ogni anno da suo padre nelle scuole, i suoi appunti, le sue foto. Al termine degli incontri con i ragazzi – racconta Manuela – suo padre veniva tempestato di domande e ciò lo riem-piva di soddisfazione e gli confermava che quei ragazzi non avrebbero dimenticato.

“Cari ragazzi – scrive Valletti nel suo libro di memorie - sono qui con voi perché voglio parlarvi degli orrori del nazismo, ma lo farò usando parole semplici e chiare in modo che voi possiate comprendere fino in fondo

di tutto: quando si vede la morte in faccia, ogni giorno per 18 mesi, una vita normale è la sola cosa che si desi-dera”.

“La sera del 2 marzo 1944 - ricorda Ferdinando - suonarono il campa-nello di casa mia. Io scesi ad aprire il cancello in ciabatte e mi trovai davanti tre ceffi della Muti. Mi dissero che avrei dovuto seguirli per fornire solo qualche informazione.”

Ferdinando fu condotto al commis-sariato di via Copernico, dove ritrovò altri lavoratori dell'Alfa che avevano partecipato allo sciopero generale e, successivamente, a San Vittore. Il 4 marzo, all'alba, fu portato con altre cento persone al binario 21 della Stazione Centrale da dove partì un convoglio per ignota destinazione. La più grande preoccupazione di Ferdinando fu quella di avvertire la famiglia. Così riuscì, in ogni stazione, a far cadere dei bigliettini dalle fessure del carro bestiame in cui era rinchiuso con altri suoi compagni. Qualcuno di quei bigliettini fu ritrovato e giunse miracolosamente alla moglie. Dopo il trasferimento nel lager di Reichenau vicino a Innsbruck, Ferdinando viene tradotto a Mauthausen dove arriva il 13 marzo 1944. Il 7 maggio 1944 Ferdi-nando con un folto gruppo di 2000 deportati viene destinato a Gusen, un campo “per prigionieri difficilmente recuperabili” come diceva l'ordinanza ufficiale.

A Gusen i deportati lavoravano alla cava. Il lavoro consisteva nel trasporto di blocchi di pietra che dovevano essere caricati sui vagoni di un piccolo treno a scartamento ridotto. I depor-tati si muovevano sotto la pioggia e nel fango e alcuni di loro, quelli più debilitati, al termine del turno, erano in condizioni spaventose. È in quell'inferno che Ferdinando incon-tra il pittore Aldo Carpi, acclamato direttore, dopo la Liberazione, dell'Ac-cademia di Brera. Così Carpi scrive, nel suo libro: “Io ero un po' instupi-dito dalla malattia, e poi non potevo camminare; e c'era Ferdinando Valletti, un operaio, un bravo giovane qui di Milano che, ogni volta che correvo il pericolo di rimanere sotto lo scarico dei sassi, mi gridava: “Profes-sor, professor”, e correva a prendermi per un braccio e mi tirava lontano. Un'altra volta quel bravo ragazzo mi ha strappato dalle rotaie mentre stavo per finire sotto il treno.”

Una mattina di novembre del 1944 Valletti venne portato nell'ufficio dello stato maggiore e apprese che nel suo foglio di trasferimento a Gusen era stato segnalato come giocatore di calcio. Venne chiesto a Valletti se fosse vero e in quale squadra avesse giocato. Ferdinando valutò che forse era quella la strada per riuscire a tornare a casa. Così rispose che era un calciatore del Milan e che aveva giocato in prima squadra come mediano. Le due SS gli risposero che lo avrebbero provato sul campo. Se avesse mentito lo avrebbero ucciso.

Le SS ogni quindici giorni giocavano a football fra loro ed erano rimaste a corto di giocatori. Per questa ragione scelsero Valletti.

Ferdinando superò brillantemente il provino e divenne una riserva della squadra delle SS, anche se la cosa lo metteva profondamente in crisi. Il trattamento che gli fu riservato migliorò sensibilmente: gli venne dato un po' più di cibo e fu trasferito in un'altra baracca. Ferdinando giocò, una domenica, la partita della sua vita. “Mentre i miei amici morivano – scrive – io stavo giocando a pallone. Mi feci forza e pensai che mi battevo contro i nazisti e non per i nazisti. La partita durò un'ora circa e io giocai bene. Mi sembrava di volare, la mia mente era ritornata al mio Milan, all'Arena, al fragore del pubblico dopo una bella giocata. La mia passione per il calcio mi stava aiutando e nonostante le mie condizioni fisi-che (pesava solo 39 chili), feci dei bei passaggi e fornii alla squadra buone occasioni per segnare. Ce l'avevo fatta. Non dissi nulla ai compagni di

baracca, non sapevo come l'avrebbero presa. Pensai però che lavorando in cucina mi sarebbe stato facile portare loro gli avanzi. Lo feci quella sera, li infilai tra il piede e lo zoccolo e appena in baracca distribuii quello che avevo portato.”.

Fu grazie al suo passato di calcia-tore che Ferdinando si salvò. Tornò in Italia nell'agosto del 1945 su un camion militare americano. Quando giunse a Milano era quasi mezzanotte ma tutta la gente del quartiere situato a pochi passi dall'Alfa scese in strada per fargli festa. La moglie lo abbrac-ciò e lo condusse a vedere sua figlia che aveva appena 10 mesi e che non aveva avuto modo di conoscere il suo papà. Appena lo vide la piccola scop-piò a piangere. “L'emozione del mio primo incontro con mia figlia Manuela – scrive Ferdinando – fu fortissima. Dopo tanto orrore la presenza di quella bimba mi ripagava di tutto. In seguito ho raccontato a mia figlia quale meraviglioso dono fosse stata per me e ancora oggi guardo a lei come alla mia salvezza e con lei ho un rapporto straordinario, peraltro condiviso”.

Ferdinando ci ha lasciato il 23 luglio del 2007.

Sarebbe molto bello che una targa fosse dedicata a Ferdinando Valletti, centrocampista del Milan, nello stadio di San Siro, per far riflettere le decine di migliaia di spettatori che assistono ogni domenica alle partite, sulla trage-dia della deportazione e sulle atrocità del nazifascismo che non hanno risparmiato nessuno, colpendo anche chi praticava lo sport più popolare: il calcio.

quanto è accaduto a me e a milioni di persone innocenti. Vi racconterò della tragedia dei campi di sterminio partendo dalla mia vicenda perso-nale. Sono certo che in questo modo riuscirò a farvi partecipi anche delle mie emozioni, della mia soffe-renza e di una speranza che non mi ha mai abbandonato, quella di ritor-nare a casa.” Così inizia il tragico ed emozionante racconto che Ferdinando Valletti teneva ogni anno ai ragazzi delle scuole milanesi.

Nel 1938 Ferdinando viene assunto dall'Alfa Romeo in qualità di maestro d'arte presso la scuola aziendale e in quella fabbrica lavora per quasi quarant'anni. Entrato come impiegato termina la sua carriera come dirigente del settore logistico.

L'assunzione comporta però il suo trasferimento da Verona, sua città natale, a Milano.

Quando giunge a Milano Ferdi-nando porta con sé anche la grande passione che aveva per il calcio. A Verona giocava da mediano nel vivaio della Hellas e i dirigenti della squa-dra, sapendo del suo trasferimento, lo indirizzarono al Seregno. Contem-poraneamente Ferdinando si dava da

fare con la squadra dell'Alfa Romeo calcio che militava in serie C. Quasi subito accadde che il Milan (allora il suo nome era Milano) lo notasse: il Seregno, infatti, costituiva il vivaio del Milan. Le sue prime partite nel Milan, come riserva, sono della stagione 1942/1943. Purtroppo un grave inci-dente al ginocchio lo costringe a sospendere la sua attività agonistica in maglia rossonera. Nel 1942 Ferdi-nando conosce Lidia, la sua futura moglie. Si fidanzano quasi subito: la guerra non consentiva loro di fare progetti a lungo termine.

Ferdinando partecipa al grande sciopero generale del marzo 1944 contro la guerra e il regime nazifasci-sta. Protagonisti sono i lavoratori e le lavoratrici delle grandi fabbriche del Milanese: Alfa Romeo, Falck, Borletti, Breda, Marelli, Pirelli, oltre ai tran-vieri e ai tipografi del Corriere della Sera.

Lo sciopero di Ferdinando dura però solo un giorno, perché un delatore lo segnala ai fascisti. “Ho sempre saputo il suo nome – scrive Ferdinando nel suo libro di memorie – ma non ho mai pensato di vendicarmi. Essere ritor-nato a casa da Gusen mi ha ripagato

Page 12: l’antifascista - ANPPIA · commercio e di cooperazione nella guerra al narcotraffico. Forse in molti non sanno che nei punti più sensibili del confine esistono già strutture che

2322 Cronaca Cronaca

italia centrale senza Pace sotto il tiro di terremoti, scosse, smottamenti, slavine

LA VALANGA ASSASSINA DEL RESORT DI RIGOPIANOdi Filippo SENATORE

Le scosse telluriche iniziate la notte del 24 agosto scorso con l’epicentro disastroso nella zona di Amatrice, Accumuli, Norcia e Ussita, hanno provocato crolli di interi borghi e molti morti.

Durante questi mesi si sono veri-ficati sciami di assestamento in una vasta zona del Centro Italia. Le preci-pitazioni nevose dello scorso gennaio hanno reso più fragile il territorio dell’Appennino Centrale.

La slavina sull’albergo di Rigopiano in località Farindola del 18 gennaio è un fatto inevitabile di un disastro ambientale. Una baita isolata dalla neve per mancato uso continuo della pulizia delle strade è un fatto inconce-pibile. L’ accumulo della massa nevosa richiede mezzi più costosi non repe-ribili. Tuttavia la turbina spazzaneve nei pressi di Rigopiano viene ignorata dai soccorsi e non utilizzata.

Il disastro viene preceduto da scosse telluriche che hanno mosso una massa immensa di neve pari a quattromila tir che è precipitata travolgendo l’albergo posto in un canalone che accelera l’effetto distruttivo. Quell’albergo di lusso, vanto e serbatoio occupazionale per i cittadini di Farindola, è stato costruito su un versante montano conosciuto per essere "soggetto a slavine". Collegato da una viabilità provinciale che, d'inverno, rimane più chiusa che aperta. Luogo moni-torato da anni, oggetto di un rapporto della guida alpina Pasquale Iannetti che nel 1999, dopo un sopralluogo, scrive: "In merito alla possibilità di caduta di masse nevose, slavine o valanghe nell'area di Rigopiano, non vi è dubbio che sia il piazzale antistante il rifugio Acerbo, sia la strada provin-ciale che porta a Vado di Sole, possano essere interessate da caduta di masse nevose o valanghe". Il rifugio che si trova a poche decine di metri dall’albergo è stato solo sfiorato dalle tonnellate di neve venute giù il 18 gennaio ma l’al-bergo purtroppo non è stato risparmiato. Le richieste dei soccorsi delle vittime sono state tempestive. La telefonata al 113 di Quintino Marcella alle 18.20 di mercoledì, dirot-tata al Centro di coordinamento dei soccorsi attivato quella mattina presso la Prefettura, è ricevuta da una funziona-ria pubblica che risponde così alla richiesta di intervento: "Questa storia gira da stamattina. I vigili del fuoco hanno fatto le verifiche a Rigopiano, è crollata la stalla di Marti-nelli". Come se si trattasse di una bufala e di un procurato allarme! La burocrazia ci mette del suo ma nei Paesi avan-zati i burocrati inetti vengono licenziati. Il sistema di protezione civile una volta partito è stato lento e poco coor-dinato: sulla strada dei soccorsi coperta di neve si è creato un paradossale ingorgo. Il blocco di accesso aveva bisogno di un sollecito intervento aereo.

Ore preziose trascorrono senza potere intervenire. I vigili del Fuoco hanno estratto vive 11 persone dalle mace-rie e dal ghiaccio ma il bilancio finale è di 29 morti.

Sul caso Rigopiano pende anche l'indagine della magi-stratura a carico di ignoti per disastro colposo e omicidio plurimo colposo, L'inchiesta - ha spiegato il procuratore aggiunto di Pescara, Cristina Tedeschini. "riguarda tutte le circostanze relative alla realizzazione di un albergo lì, al suo esercizio, al tema della viabilità rispetto a quella strut-tura”. Indagini in cui, se dovesse emergere che era stata ordinata l'evacuazione della struttura e questo ordine non è stato dato da chi avrebbe dovuto, si potrebbe parlare di responsabilità penale. Poi ci sono altre responsabilità poli-tiche. Le competenze delle Province svuotate dalle recenti riforme istituzionali fanno fatica ed essere redistribuite ad altri enti pubblici. Il depotenziamento della Protezione civile ha gettato nel caos il governo del territorio. L’unica eccezione è il Trentino Alto Adige; con le due Province a statuto speciale, previene calamità o riduce il danno con la manutenzione certosina che tiene puliti boschi, sentieri e strade montane per favorire i mezzi di soccorso e le vie di fuga.

Nella disgrazia di Rigopiano un intervento tempestivo in elicottero poteva salvare alcunE delle 29 vittime. Non si capisce la tirchieria delle autorità che hanno impedito il volo. Per molto meno ministri e capi di Stato si muovono a spese della cittadinanza evitando tempi lunghi di percor-renza su strada. Allora decidiamo una volta per tutte quali sono le priorità di questo Paese. La vita o la comodità di lor signori?

Parla uno dei Primi soccorritori, il maresciallo della gdF gagliardi

Il nostro lavoro? Salvare vite umane senza temere i pericoli”

Mercoledì 18 gennaio, alle 16.49, una massa di neve fresca si stacca e inizia a correre giù formando una valanga che travolge, spostandolo di una decina di metri, l’hotel di Rigopiano, in Abruzzo. La strada è

interrotta, già dalla mattina gli ospiti avrebbero voluto lasciare il posto; infatti avevano messo in fila le macchine che però avevano davanti un muro di neve. Avevano chiamato i soccorsi ma sappiamo come sono andate le cose. I primi ad andare, in quella notte maledetta, in direzione dell’hotel sono il maresciallo Lorenzo Gagliardi della Guardia di Finanza di Roccaraso e la sua squadra. Sono in tutto 12 uomini che, legati a distanza di 20 metri l’uno dall’altro in modo da non morire tutti in caso di un’altra valanga, partono nella notte fonda sotto una tempesta di neve. Non sanno cosa possono trovare. Partono in sci e percorrono dieci chilometri in mezzo a sentieri di neve fresca. Arrivano all’hotel alle quattro del mattino.

Sento per telefono il Maresciallo Gagliardi, una persona estremamente gentile e disponibile, che subito sminuisce quello che ha fatto e dovuto affrontare in quella notte difficilissima dicendo che si è limitato a fare il suo lavoro.

maresciallo gagliardi questa è una tragedia che si poteva prevenire?

Sicuramente si poteva prevenire.

ci sono stati errori da parte di chi?

Io non posso dire qual è la mia opinione. Ci sta lavorando la magistratura, c’è un’inchiesta, se dico qualcosa è personale e non può essere scritto.

Quando siete arrivati in piena notte cosa avete visto?

Abbiamo visto che era quasi tutto crollato, non c’era quasi più nulla. Dopo aver sentito che non c’era nessuno che chiamava, nessuna richiesta di aiuto, siamo andati nel parcheggio dove c’era la macchina con il cuoco e il manutentore della struttura. Arrivando sapevamo che c’erano due persone vive, coloro che hanno dato l’allarme. Abbiamo cominciato dalle parti che erano relativamente agibili, come la palestra. Con loro siamo entrati, e ci sono stati d’aiuto perché hanno fatto un elenco delle persone che erano all’interno e ci siamo subito resi conto di com’era la situazione. Il cuoco aveva la moglie e i due figli, lo abbiamo portato con una barella fuori e poi è stato portato in elicottero in ospedale, era infreddolito, aveva un principio di ipotermia, andava portato in una struttura adatta. L’altro, Falsetta, è rimasto con noi e ci ha dato indicazioni di massima, lui ci diceva: qua potrebbe esserci la hall qui dovrebbe esserci la cucina. Era

tutto crollato e ricoperto da 3 metri di neve. Abbiamo delle sonde e nei posti dove si riusciva a entrare siamo andati subito, con la sonda abbiamo trovato due persone che erano all’esterno della struttura ed erano morte tutte e due, una è stata trovata la mattina e l’altra all’ora di pranzo. Gli altri erano tutti all’interno del resort crollato e non era facile raggiungerli. Falsetta, che cono-sceva bene il posto, ci ha aiutato molto e i suoi suggerimenti sono stati deter-minanti.

che tipo di emozione si prova quando in una situazione del genere si riesce a trovare una persona viva?

Quando un soccorritore trova una persona viva, beh, è la cosa più bella che possa capitare. Quando vedi che ci sono anche bambini che escono vivi è una gioia, è la felicità, poi io sono un padre di famiglia.

Per quante ore di seguito senza interruzione avete lavorato?

Noi avevamo già lavorato dalla mattina perché, qui a Roccaraso, c’era già un’emergenza neve, poi ci hanno chiamato la sera per un'altra valanga, a Campo Tosto dove c’è stato anche un morto. Mentre andavamo ci hanno dirottati a Rigopiano. Abbiamo lavorato tutta la notte e il giorno successivo, insomma circa 40 ore di seguito.

i vigili del fuoco sono arrivati la mattina?

La mattina, e hanno fatto il lavoro sulle macerie. Noi con il soccorso alpino, anche il loro lavoro è stato determinante, abbiamo fatto la parte di lavoro sulla neve.

come si riesce a resistere a tutto questo? con la forza di volontà e la forza che viene dal cuore?

Cerchi sempre di andare avanti, avevamo capito qual era il lavoro da fare ma poi per tagliare i solai sono stati determinanti i vigili del fuoco perché sotto le macerie ci sono andati loro.

I resti dell'albergo a Rigopiano dopo la valanga

Vigili del fuoco all'opera a Rigopiano durante i soccorsi

Page 13: l’antifascista - ANPPIA · commercio e di cooperazione nella guerra al narcotraffico. Forse in molti non sanno che nei punti più sensibili del confine esistono già strutture che

2524 Il Giorno della Memoria Memoria

Giorno della Memoria. Medaglie agli internati

Venerdì 27 gennaio 2017 si è svolta in Prefettura una ceri-

monia nel corso della quale sono state consegnate nove me-

daglie alla memoria a nove Internati militari italiani depor-

tati nei lager nazisti.

Alla cerimonia sono intervenuti il Viceprefetto, Raffaele

Besso, Presidente della Comunità Ebraica di Milano,

Giuliano Banfi, Vicepresidente dell'Aned, Roberto Cenati,

Presidente ANPI Provinciale di Milano, Gino Morrone, pre-

sidente della Federazione milanese dell’Anppia. Cenati nel

suo intervento ha detto:

“Nelle importanti iniziative per il Giorno della Memoria, si

ricordano la Shoah, le famigerate leggi antisemite del 1938,

la deportazione politica, operaia e quella dei 650.000 milita-

ri italiani catturati dai tedeschi dopo l'8 settembre 1943 che

preferirono la prigionia al ritorno in Patria subordinato alla

loro adesione alla Repubblica di Salò. In questa importante

ricorrenza va sempre tenuto presente il

messaggio di coloro che non sono ritor-

nati dalla deportazione: quello di non

negare lo sterminio dove è stato pratica-

to, di non banalizzare e non confondere

tutto con la sola violenza o la natura mal-

vagia dell'uomo, perché la violenza ave-

va un nome ben preciso, nazifascismo,

di non dimenticare l'organizzazione del

lager caratterizzata da un trattamento

che programmaticamente annientava

con il lavoro e programmaticamente

sopprimeva con il gas gli inabili."

Musiche dai lager: un concerto alla Scala

Per la prima volta dalla istituzione del Giorno della Memoria è stato eseguito a Milano, per iniziativa dell'ANPI Scala e dell'ANPI Provinciale, al Ridotto dei Palchi Tosca-nini del Teatro alla Scala un concerto per il Giorno della Memoria, “Il Quartetto per la fine dei tempi” con musiche di Olivier Messiaen.

Il “Quartetto per la fine dei Tempi” venne composto e presentato, in circostanze davvero eccezionali, nel campo di prigionia tedesco Stalag VIIIA a Goerlitz, in Sassonia dove era stato deportato il musicista Messiaen. Scritto negli ultimi mesi del 1940, venne eseguito il 15 gennaio 1941, in una gelida serata invernale con neve, di fronte a cinquemila prigionieri di guerra provenienti dalla Francia, dal Belgio, dalla Polonia e da altri paesi. Da quando è stato composto, il “Quar-tetto per la fine dei tempi” rappresenta la capacità di resistenza dell'uomo all'atrocità della prigionia, grazie alla gioia della musica.

Gli ufficiali tedeschi responsabili del campo, venendo a conoscenza della professione di Messiaen e del suo desi-derio di scrivere musica, gli avevano procurato matite e carta da musica. Dopo che Messiaen aveva iniziato a comporre brani per gli strumentisti a disposizione venne portato nel campo

di concentramento anche un pianoforte che l'autore suonò personalmente.

Il concerto eseguito al Teatro alla Scala giovedì 26 gennaio 2017 ha riscosso un grande successo ed è stato molto apprezzato.

È nostro intendimento riproporre ogni anno, nella ricorrenza del Giorno della Memoria, un significativo appuntamento musicale al Teatro alla Scala di Milano.

RICORDANDO GIUSEPPE CAVALLERAdi Maurizio ORRÙ

Cagliari ha ospitato un convegno sulla figura di Giuseppe Cavallera (Villar San Costanzo, 2 gennaio 1873, Roma 15 agosto 1952), sindacalista e politico socialista. Egli, piemontese di nascita, operò soprattutto da un punto di vista politico-sindacale in Sardegna, esattamente a Carlo-forte, dove organizzò la Lega dei Battellieri e portò le idee del socialismo. Cavallera in seguito fu un attivo e fervente socialista e organizzatore sindacale tra i mina-tori del Sulcis-Iglesiente e del Guspinese. In questo bacino minerario, in seguito ebbe un ruolo importante e determi-nante nell’organizzare le Leghe dei minatori. Arrestato nel 1900 per gli scioperi verificatisi a Carloforte tra il 1897 e il 1899 venne condannato a dal Tribunale di Cagliari a sette mesi di carcere per incitamento all’odio di classe. Dopo aver scontato la pena detentiva, veniva nominato segreta-rio della Federazione Regionale dei Minatori, ovvero una organizzazione sindacale creata ad Iglesias nel 1904. Nel 1906 veniva eletto sindaco di Carloforte, nel 1913 depu-tato del Regno d’Italia per due legislature e, nel 1948 dopo

la proclamazione della Repubblica, senatore nel collegio di Iglesias. Nei primi anni del secolo scorso, Giuseppe Caval-lera, è stato una autentica stella polare nell’organizzazione socialista e sindacale della Sardegna. Molti gli episodi che l’hanno visto protagonista della causa proletaria. Il Dottor Cavallera è ricordato come un fervente appassionato studioso di problemi sanitari ed educativi per l’infanzia Moriva a Roma nel 1952.

I relatori del dibattito sono stati: il Prof. Pietro Maurandi (Università di Cagliari) e il Prof. Franco Boi (segretario regionale UAPS). Il dibattito è stato coordinato da Carmelo Farci, segretario della Camera di Lavoro di Cagliari. Il pubblico numeroso e qualificato ha accolto con favore e piacere le riflessioni e le argomentazioni di quel periodo storico, ricco di fermenti sindacali e politici che hanno visto come protagonista Giuseppe Cavallera, piemontese di nascita ma sardo di adozione. La serata è stata organizzata dalla CGIL e dal CID (Centro di iniziativa democratica).

Sulle barricate della libertà: ricordato a Parma Guido Picelli

Si sono svolte a Parma, organizzate dall’AICVAS, dall’ANP-

PIA, dall’ANPI dalla CGIL e dal Centro Studi Movimenti

e con il patrocinio della Camera dei Deputati, della regio-

ne Emilia-Romagna, del Comune e della Provincia di Parma e di IREN,

le celebrazioni per l’80° anniversario della morte di Guido Picelli.

Picelli, decorato al valor militare nella Grande Guerra come milite della

Croce Rossa, al termine del conflitto fu eletto segretario della parmense Lega

mutilati, invalidi, vedove e reduci di guerra della CGdL, antimilitarista ven-

ne incarcerato per aver bloccato un treno di militari destinato in Albania.

Candidato nelle liste dello PSI venne eletto deputato nella XXVI legislatu-

ra del regno d’Italia. Nell’agosto del 1922, alla testa degli Arditi del Popolo,

sconfisse le squadre fasciste comandate da Italo Balbo durante le giornate

dell’agosto 1922. Rieletto deputato, nella XXVII legislatura, quale indipen-

dente nelle liste del partito comunista espone la bandiera rossa sul penno-

ne di Montecitorio. Decaduto dalla carica e confinato per un quinquennio,

alla liberazione riparerà a Milano con l’occupazione fittizia di libraio nel-

la libreria di Walter Toscanini, in attesa di espatriare clandestinamente. Da

Parigi raggiungerà Mosca ove sarà operaio in una fabbrica di cuscinetti, pri-

ma di riuscire a raggiungere la Spagna repubblicana. In Spagna si arruola

nelle Brigate Internazionali dapprima al comando del battaglione Picelli poi

come vicecomandante della Brigata Garibaldi, nomina ottenuta sul campo

dopo la battaglia di Mirabueno, due giorni dopo partecipa al combattimen-

to di El Matoral e attaccando lo sperone del San Cristobal cadrà combatten-

do il 5 gennaio 1937. Ed è in questo ottantesimo anniversario che le manife-

stazioni hanno avuto un prologo nella Sala del Consiglio Comunale di Parma

con l’incontro delle autorità con le delegazioni di Barcellona, Guadalajara,

Madrid e Mirabueno cui ha portato il saluto Massimo Meliconi vicepresi-

dente ANPPIA. Nella serata le celebrazioni sono proseguite con un conve-

gno di studi sugli antifascisti di Spagna con l’intervento di Marco Severo

e Pedro Garcia Bilbao e Carlos Vallejo Calderon e sono terminate nel suo

Oltretorrente dinanzi al monumento con cui la città ha voluto ricordarlo con

l’orazione ufficiale di Carlo Ghezzi segretario nazionale della Fondazione Di

Vittorio.

di Roberto SPOCCI

Internati italiani trentini

Guido Picelli

Page 14: l’antifascista - ANPPIA · commercio e di cooperazione nella guerra al narcotraffico. Forse in molti non sanno che nei punti più sensibili del confine esistono già strutture che

2726 Il Ricordo Il Ricordo

coordinatore dei circoli di “giustizia e libertà", era vicePresidente della FiaP e grande amico dell’anPPia

Addio a Vittorio Cimiotta, antifascista, saggista e cultore dell'onestà

di Filippo SENATORE

Circa 23 anni fa ho conosciuto Vittorio Cimiotta e ho subito compreso dal suo carattere eretico un’affinità elettiva che lo faceva rassomigliare a Gavroche, uno dei personaggi di Hugo che noi eleggemmo in gioventù

nostro eroe delle barricate parigine. Pur di carattere riservato e timido quando veniva il momento delle battaglie civili sorgeva l’eroe con la coccarda mazzi-niana che si batteva come un leone per i principi sacrosanti della democrazia. Vittorio Cimiotta era orgoglioso della sua sicilianità, di Marsala luogo immagi-nifico del Risorgimento dove era nato nel 1930. In quella città, da ragazzo, perse i genitori dopo un bombardamento angloamericano. Di famiglia antifascista, sfollato con i familiari superstiti a Roma, studiò in un collegio romano vivendo l’epopea delle giornate romane della Liberazione. Il cruccio fu di non aver partecipato direttamente, data la sua giovane età, alla battaglia dei Gap e delle brigate di Giustizia e Libertà. Nel Dopoguerra suo luogo di educazione civile è stato il salotto di Ernesto e Ada Rossi dove egli affinò cultura e sapere avendo come riferimenti il mondo intellettuale liberal-socialista e repubblicano. In casa Rossi era assidua Elena Croce, figlia del filosofo Benedetto.

Per Cimiotta, orfano di guerra, Ada fu una madre gentile e sollecita. Per ragioni di lavoro egli si spostò in molte città dell’Umbria e della Toscana ma non perse di vista la politica, nobile mestiere di ideali senza tornaconto personale e senza guadagni personali di cariche pubbliche. Fu una sorte di tribuno porta-tore di idee nobili, cultore di uomini illustri da Cattaneo a Guido Calogero, da Carlo e Nello Rosselli ad Altiero Spinelli. Si iscrisse al partito di Ugo La Malfa e in gioventù seguì le battaglie politiche di emancipazione per la parità tra generi e quelle referendarie sul divorzio

Una trentina di anni fa a Roma egli rimise in piedi il Circolo Giustizia e Libertà dove organizzò convegni memorabili con i maggiori intellettuali e pensatori liberali e socialisti. Negli anni a venire da coordinatore dei Circoli ha creato una rete di persone e pensiero nelle maggiori città italiane. Membro del comitato dei garanti della rivista “Il Ponte” di Firenze fondata da Piero Calamandrei, ha scritto diversi saggi di politica e di storia del nostro Paese. Afferma Cimiotta: “Siamo i calvinisti della politica, i fanatici dell’onestà, gli eretici di una società bigotta. Perseguiamo la filosofia del dubbio, la ricchezza della diversità… rispon-diamo solo alla nostra coscienza”. Vittorio Cimiotta nel suo libro “La rivoluzione etica” edito da Mursia ha ricostruito i passaggi storici dello scorso secolo. Secondo il prefatore Nicola Tranfaglia “il movimento di Giustizia e Libertà, guidato con mano salda da Carlo Rosselli, esprimeva, con chiarezza incisiva, le sue critiche all’esperimento comunista, riconoscendo gli aspetti storici della rivoluzione bolscevica ma, mettendo in luce nello stesso tempo, quelli negativi maturati negli anni post-rivoluzionari e sfociati in una dittatura che era giunta a costruire un sistema contrario alla democrazia e alla libertà”. Incredibile secondo l’autore il plagio collettivo nei confronti di milioni di persone soggio-gate dalla manipolazione della propaganda e l’informazione di regime sottesa alla trasformazione della psicologia di massa.

Cimiotta non ha tralasciato verità scomode nascoste dalla storiografia uffi-ciale sui crimini di guerra mussoliniani per non far passare il fascismo come un regime meno crudele del nazismo. Dopo lo scioglimento del Partito di Azione dal ‘48 un gruppo di uomini e donne dal comune sentire hanno continuato la lotta nella società civile e nelle istituzione democratiche affermando battaglie di civiltà per l’applicazione della Carta da taluno ritenuta una trappola e da altri criticata. Cimiotta descrive l’impegno civile con la passione di chi è stato dentro il processo di rinnovamento e vuole continuarlo trasmettendo il testimone ai giovani. A questi ultimi soprattutto si chiede di leggere il libro che trasmette elementi positivi e poetici come un inno alla vita. Una democrazia nuova che

ci liberi dal monopolio dell'informa-zione e dal conflitto d’interessi. Solo la conoscenza dei fatti può suscitare la passione per il rinnovamento del nostro Paese.

Vittorio Cimiotta, vicepresidente della Fiap, l’associazione partigiana fondata da Ferruccio Parri e poi consolidata da Aldo Aniasi, nel 1996 ha costituito insieme ad Alessandro Galante Garrone, Ettore Gallo, Paolo Sylos Labini, Vito Laterza, Antonio Giolitti e Aldo Visalberghi il “Comi-tato per la trasparenza delle cause di ineleggibilità parlamentare e dei conflitti di interessi”. Una battaglia lunga e senza tregua condotta senza mezzi con poche voci eretiche, culmi-nata nel 2013 con l’estromissione dal Senato della Repubblica di Silvio Berlusconi.

Vittorio Cimiotta, che ci ha lasciato lo scorso gennaio, rimane nel cuore di tutti gli amici da Italo Pattarini a Mario Artali, da Gino Morrone a Gior-gio Galli. Soprattutto dei familiari e della adorata figlia Bianca.

Vittorio Cimiotta, testimone degli ideali del Risorgimento repubblicano, di Mazzini e Garibaldi, di Giustizia e Libertà e del Partito d'Azione

È mancato ai vivi il caro Vittorio Cimiotta, vice Presidente nazionale della Federazione Italiana Associazioni Partigiane-FIAP.

Nato a Marsala si era legato alla gioventù siciliana e agli ideali risorgimentali del filone mazziniano e garibaldino, rinnovandoli e

rinvigorendoli attraverso le esperienze, i valori e i principi ideali dei movimenti del Novecento, come Giustizia e Libertà e il Partito

d’Azione, trasferendosi poi a Roma. Ha militato nel Circolo storico romano di Giustizia e Libertà ed è stato fondatore e coordinatore

della Federazione italiana dei circoli di Giustizia e Libertà. Legato a personalità come Paolo Sylos Labini, Aldo Visalberghi, Ettore

Gallo, Paolo Barile, Giorgio Garosci, Giorgio Parri, Guido Albertelli, è stato protagonista e animatore della battaglia promossa a partire

dal 1994 da un comitato composto, oltre che da lui, da Roberto Borrello, Giuseppe Bozzi, Paolo Flores d’Arcais, Alessandro Galante

Garrone, Ettore Gallo, Antonio Giolitti, Paolo Sylos Labini, Vito Laterza, Enzo Marzo, Alessandro Pizzorusso, Aldo Visalberghi, e

sostenuto da una campagna stampa del settimanale “l’Espresso”, per l’inelegggibilità di Berlusconi monopolista televisivo e concessio-

nario pubblico, mediante organizzazione di ricorsi rivolti alla Giunta delle elezioni della Camera che vennero o respinti con la risibile

motivazione che l’articolo 10 comma 1 della legge del 1957 dichiara in effetti che non sono eleggibili “coloro che in proprio o in qualità di

rappresentanti legali di società o di imprese private risultino vincolati con lo Stato per contratti di opere o di somministrazioni, oppure

per concessioni o autorizzazioni amministrative di notevole entità economica”, ma che “l’inciso ‘in proprio’ doveva intendersi ‘in nome

proprio’, e quindi non applicabile all’on. Berlusconi, atteso che questi non era titolare di concessioni televisive in nome proprio”. Palese

interpretazione da azzeccagarbugli, poiché come scrisse il presidente emerito della Corte Costituzionale Ettore Gallo “ciò che conta

è la concreta effettiva presenza dell’interesse privato e personale nei rapporti con lo Stato”. La battaglia venne ripresa nel 2013 con un

pubblico appello a cui aderirono oltre 200mila cittadini, di cui egli fu primo firmatario , con Andrea Camilleri, Paolo Flores d’Arcais,

Dario Fo, Margherita Hack, Franca Rame, Barbara Spinelli. Nel 2013, Vittorio Cimiotta ha dato alle stampe con Mursia un importante

saggio che sintetizza nel titolo tutta la sua storia, anche interiore, La rivoluzione etica .- Da Giustizia e Libertà al Partito d’Azione.

Un vero e proprio manuale di storia azionista con una introduzione di Nicola Tranfaglia e una preziosa appendice che riporta un vasto

repertorio biografico dei principali esponenti di quei filoni del liberalismo, del liberalsocialismo, del socialismo-liberale, dell'azioni-

smo che continuano a costituire, nel solco delle tradizioni migliori del liberalismo progressista, del repubblicanesimo, e del socialismo

democratico ed europeista una scuola di pensiero politico, ma anche una palestra di etica pubblica finora non superata dalle esperienze

di altri filoni dell'idealismo politico novecentesco, i nostri maggiori. Oltre a personaggi di primo piano come Piero Gobetti, i fratelli

Nello e Carlo Rosselli, Emilio e Joyce Lussu, Duccio Galimberti, Ferruccio Parri, Vittorio Foa, Riccardo Lombardi, Ugo La Malfa,

Ernesto Rossi anche grandi figure di intellettuali come Norberto Bobbio, Franco Venturi, Aldo Visalberghi, Bruno Zevi, Aldo Capitini,

Guido Calogero e altri ancora come Luigi Salvatorelli e Michele Cifarelli in strettissimo rapporto con l'Ami, per non parlare di Ernesto

Rossi e Gaetano Salvemini e Altiero Spinelli e donne straordinarie come Ada Rossi, Ada Prospero vedova Gobetti. Il collegamento

con la contemporaneità in questo libro si ricava dall’aspra critica nei confronti di chi violi il senso del bene comune, il rispetto delle

di Antonio CAPUTO

con vittorio ho Perso un grande dirigente ma soPrattutto un carissimo amico

DI Mario ARTALI -Presidente FIAP

In queste stesse pagine Antonio Caputo e Filippo Senatore ricordano Vittorio

Cimiotta, da sempre impegnato nella difficile impresa di impedire che l’oblio copra

una delle fasi più drammatiche nella storia del Paese, quella della lunga lotta anti-

fascista, che inizia nello stesso momento in cui nasce e poi si afferma la dittatura e

che l’accompagna per lunghissimi venti anni. Ed ancora oggi molti fanno fatica a

comprendere l’enorme valore di quella lotta, senza di cui non sarebbe stata possibile

la libertà nelle forme che solo all’Italia furono concesse dai vincitori, senza il lungo

“protettorato” riservato, in forme diverse, alla Germania ed al Giappone. Vittorio

sapeva bene cosa tutto ciò significasse e lo ha scritto in un libro “la rivoluzione etica”

dedicato a quel mondo plurale e ricco di intuizioni profonde su quel che sarebbe ve-

nuto – ed in particolare a ciò che si sarebbe dovuto fare il giorno in cui sarebbe stata

conquistata la vittoria. E’ d’altra parte il mondo – ed i nomi li trovate nei “pezzi” di

Antonio e di Filippo- che coglie più lucidamente quello che avverrà dopo. E’ ìl mondo

che pensa e lavora per l’Europa unita mentre ancora ci si spara addosso, il mondo che

nelle forme più diverse coglie la illusorietà della ideologia come “terra promessa”,

come sistema chiuso e necessariamente autoritario di una mitica società di uguali.E’

un mondo che nello stesso tempo sa bene cosa allora era necessario: “oggi in Spagna

domani in Italia” come dice Carlo Rosselli a Radio Barcellona, e non a caso viene

assassinato.Ecco, queste sono le cose che Vittorio ha portato nella quotidiana atti-

vità nella Fiap, la federazione partigiana fondata su quei valori. Non credo di dover

aggiungere altro per sottolineare quanto ci mancherà.

leggi dello Stato e soprattutto della Carta

Costituzionale. Da ultimo, stava poco

bene e aveva diradato le sue uscite pubbli-

che, egli aveva espresso agli amici la sua

contrarietà alla riforma costituzionale

bocciata dal referendum popolare del 4 di-

cembre. L'emozione è profonda, “trattan-

dosi di una rara personalità, che spiccava

e si distingueva nel quadro dei mille tradi-

menti ideali e dei guicciardiniani italiani”,

come ricorda in un suo toccante ricordo

Nicola Terracciano. A Vittorio mi legano

infiniti ricordi, come la grande manife-

stazione torinese, al Cinema Eliseo del 29

aprile 2001, con Bobbio, Galante Garrone,

Sylos Labini, Pizzorusso, Claudio Pavone,

ove in un sala stracolma si lanciò, alla

vigilia delle elezioni del 2001, l’appello di

Bobbio, Sylos, Galante Garrone per battere

col voto la c.d. casa delle Libertà. O come le

esperienze nell’ambito della Federazione

dei circolo di Giustizia e Libertà, che ho

l’onore di coordinare, le tante manifesta-

zioni, i tanti convegni e le tante interlo-

cuzioni, tutte nell’idem sentire. Vittorio,

non Ti dimenticheremo. L’azionismo e GL

abbrunano le loro bandiere. Sit tibi terra

levis.

Vittorio Cimiotta

Page 15: l’antifascista - ANPPIA · commercio e di cooperazione nella guerra al narcotraffico. Forse in molti non sanno che nei punti più sensibili del confine esistono già strutture che

2928 IMI IMI

In Germania, un progetto sugli Internati militari italiani

memoria non semPre signiFica giustizia.

"Se si indennizzassero le vittime non varrebbe più la pena di fare le guerre”

Argyris Sfountouris” sopravvissuto alla strage di Distomo (Grecia)

Lo scorso 30 novembre a Berlino, nel quartiere orientale di Schoeneweide, è sta-

ta inaugurata dai ministri degli esteri di Germania e Italia la mostra permanen-

te “Tra più fuochi. La storia degli Internati Militari Italiani 1943-1945” collocata

in una delle casupole ristrutturate di un piccolo lager circondato da condomini. L'unico

rimasto dei circa mille presenti a Berlino nel corso della guerra. Nell “Italianerlager”,

sotto gli occhi degli abitanti, vennero “alloggiati” un migliaio di deportati, fra i quali cir-

ca 500 italiani.

La mostra, in più lingue, realizzata dalla fondazione “Topografia del Terrore” che ge-

stisce i principali luoghi della Memoria di Berlino (un milione di visitatori nel 2015) è un

passaggio importante per la storia pubblica degli IMI, almeno in Germania.

L’allestimento, costato 1.400.000 euro, è molto curato nello sviluppo e nella grafica e

valorizza reperti personali, documenti e foto provenienti dagli archivi tedeschi e dall’I-

talia. Propone materiali interattivi per la didattica e sequenze di videotestimonianze,

alcune realizzate dalla nostra associazione.

I testi sono brevi e concisi, ma lasciano fuori, soprattutto, la responsabilità delle imprese

tedesche, molte delle quali ancora oggi esistenti. La narrazione ripercorre le vicende di

700.000 militari italiani, traditi dal re, da

Badoglio e dalle alte cariche militari, de-

portati in condizioni bestiali, rinchiusi nei

lager della Wehrmacht e costretti al lavoro

forzato in tutti i settori dell’economia, in

particolare nell’industria bellica nazista.

Oltre 50.000 morti per fame, malattie,

bombardamenti, violenze e stragi fu il

prezzo della Resistenza civile degli Imi

che rifiutarono in massa l’arruolamento

nelle forze armate nazifasciste.

Una scelta e una tragedia a cui l’Italia

non ha ancora reso adeguata Memoria.

Nel pannello conclusivo molto oppor-

tunamente i curatori affrontano il tema

della responsabilità della Germania verso

gli IMI, pressochè gli ultimi, fra milioni di

schiavi al servizio dei nazisti, a non aver

beneficiato di riconoscimenti economici,

seppur simbolici, dallo Stato tedesco.

Gli storici riconoscono che il tema del

risarcimento è parte sostanziale della vi-

cenda degli IMI, che si trovano al centro

di un complesso caso storico-politico-eco-

nomico-giudiziario che si trascina dalla

fine della guerra e conduce al presente, ne

fa materia viva, anima la ricerca e la poli-

tica della Memoria e ancor più logora da

anni, per la sua parte, i rapporti bilaterali.

Giustizia per gli IMI non è stata fatta.

Questo dice la mostra di Berlino. Come

del resto non è stata fatta giustizia per le

vittime delle stragi di civili in Italia, né

tantomeno di quelle perpetrate ai danni di

militari in Italia, sul territorio del Reich,

nei Balcani e in Grecia. D'altronde lo Stato

tedesco non ha assecondato la giustizia

italiana nella consegna dei criminali di

guerra condannati dai nostri tribunali.

Nel corso della cerimonia inaugurale

i ministri degli esteri hanno completa-

mente eluso il tema della mancata giusti-

zia che agita i tribunali e le diplomazie.

Steinmeier ha rivendicato la decisione del

Bundestag di finanziare un “Fondo per il

futuro”, destinato alla riconciliazione e de-

dicato a progetti sulla Memoria. Gentiloni

non ha potuto che concordare con la ne-

cessità di una politica della Memoria che

avvicini i popoli e ha ringraziato più volte

la Germania per le iniziative.

Occorre dunque dire che abbiamo do-

vuto attendere finanziamenti tedeschi per

affrontare la storia degli IMI?

Non è qui possibile ricostruire in modo

dettagliato come i diritti di IMI e parenti

delle vittime civili di stragi siano state

triturati nel dopoguerra dalla rimozione

tedesca delle responsabilità, dagli ingra-

naggi della guerra fredda e dalle difficoltà

dell'Italia a fare i conti con la sua storia. Di

fatto queste vicende sono diventate merci

nell'ambito dei rapporti fra Stati.

Da una parte “l'armadio della vergogna”

ha sottratto e occultato fino al 1994, in

nome della real politik, crimini e crimi-

nali alla giustizia e alla storia; dall'altra

la questione più complessa degli IMI che

penarono anche dopo il rimpatrio. Accolti

spesso come appestati e con sospetto, iso-

lati e senza peso politico, si chiusero in se

stessi.

Esclusi dagli indennizzi per i danni di

guerra, ad eccezione dei pochi benefici

concessi a tutti i reduci. Esclusi dal vitali-

zio concesso ai deportati politici e razziali.

Esclusi nel 2001 dal risarcimento per il

lavoro forzato concesso dalla Fondazione

tedesca “Memoria, responsabilità , fu-

turo” in quanto considerati “prigionieri

di guerra”, uno status che i tedeschi mai

riconobbero loro.

E' un dato di fatto che i polacchi, che

si trovavano nella stessa condizione degli

italiani, prigionieri di guerra e poi passati

d'obbligo lavoratori civili, sono stati risar-

citi dalla Fondazione. Anche i russi sono

stati risarciti. Si è trattato in questo caso

(2015) di pochi viventi e di cifre risibili,

ma quanto meno c'è stato un riconosci-

mento politico.

A questo elenco di esclusioni dai risar-

cimenti c'è da aggiungere la sparizione

dei salari accantonati dalle ditte tedesche

dall'estate 1944, quando gli IMI vennero

trasformati d'ufficio in lavoratori civili.

Salari non pagati finiti in un fondo della

Deutsche Bank e misteriosamente svaniti

nel corso degli anni. (G. Hammermann,

“Le trattative per il risarcimento degli IMI

1945 – 2007” in : “Italia Contemporanea”

n. 249 /2007 pp. 542 - 557)

A fronte di questa situazione alcuni sin-

goli reduci avviarono negli anni '90 cause

contro la Germania nei tribunali italiani,

cause che la Cassazione ha ritenuto legit-

time.

Il fondo per di 4 milioni di euro desti-

nato alla Memoria con cui il Bundestag ha

finanziato la mostra di Berlino e i progetti

in Italia, gestito non a caso dai ministeri

degli esteri, è frutto degli accordi bilate-

rali di Trieste del 2008, destinati a met-

tere una pietra tombale sulla questione dei

risarcimenti.

Con questa somma la Germania in-

tendeva pagare il suo debito. L'Italia si

impegnava a sospendere l'esecutività

delle cause giudiziarie in corso, alcune delle quali già concluse con la condanna della

Germania. Nel 2010 lo Stato tedesco ricorse al Tribunale dell'Aja contro le condanne dei

tribunali italiani, ottenendo una sentenza che la metteva al riparo dalle sue responsabi-

lità.

La successiva decisione della Consulta nel 2013 che giudicò illegittima la decisione

del Tribunale internazionale, alla luce dei principi fondamentali sanciti dalla nostra

Costituzione, ha aperto di fatto una frattura giuridica di difficile ricomposizione. La que-

stione va al di là delle specifiche cause giudiziarie di IMI e vittime di stragi e concerne

i rapporti fra il nostro ordinamento e quelli di organi transnazionali sul delicatissimo

terreno del rapporto fra diritti individuali e immunità degli Stati.

I governi hanno bisogno di ricucire questa frattura e questo sarà il tema di un con-

vegno a numero chiuso a maggio nel centro culturale italo-tedesco di villa Vigoni di

Menaggio (Como), peraltro ancora sotto sequestro della magistratura greca in attesa del

risarcimento tedesco per la strage di 214 civili, fra cui donne e bambini, a Distomo nella

Grecia centrale, compiuto dalle Ss il 10 giugno del 1944.

E' legittimo chiedersi perchè i governi italiani non abbiano mai difeso con vigore le

giuste richieste delle vittime della deportazione, quanto quelle dei civili massacrati in

Italia. Nel clima politico del dopoguerra erano vittime scomode e richiamavano troppe

responsabilità, ma oggi?

L'atteggiamento dei governi ha favorito anche la rimozione di queste vicende dal co-

mune senso storico del Paese. Al di là della consegna di una medaglia d'onore ai deportati

in Germania (2006) concessa a chi ne fa richiesta, nulla si fa. Occorrerebbe innanzitutto

un maggiore coinvolgimento dell'ambito educativo e scolastico.

Oggi la ricerca sconta i ritardi, le omissioni e la dispersione delle fonti e resta affidata

all'iniziativa di pochi ricercatori e delle associazioni dei reduci. Resta moltissimo da

fare in merito agli IMI: manca un quadro complessivo e articolato delle condizioni di

prigionia e di impiego soprattutto della truppa nelle fabbriche e nelle imprese tedesche,

così come molto poco sappiamo dei civili costretti al lavoro forzato. Indispensabile per la

ricerca la disponibilità degli archivi.

La mostra di Berlino e i progetti realizzati dal “Fondo per il Futuro” colmano un vuoto

che l'Italia in settant'anni non ha saputo colmare.

Siamo però convinti che l'atteggiamento della Repubblica Federale in merito ai man-

cati risarcimenti e alla non ottemperanza delle sentenze emesse dai tribunali italiani

pesi sulla riconciliazione storica e sulla Memoria condivisa, per la quale occorre uno

sforzo coerente e di ampio respiro.

In questo contesto è sorprendente e appare una beffa che i familiari e i ricercatori che

si rivolgono al Wast, l'archivio di Berlino che raccoglie le schede personali e dunque le

informazioni su 364.000 IMI imprigionati dalla Wehrmacht, debbano pagare per rice-

vere copia dei loro documenti.

di Walter MERAZZI

Paolo Boni “Entrata al lager di furstenberg-an-oder” Archivio Centro Studi Schiavi di Hitler

Page 16: l’antifascista - ANPPIA · commercio e di cooperazione nella guerra al narcotraffico. Forse in molti non sanno che nei punti più sensibili del confine esistono già strutture che

3130 Noi Noi

Ricordata la strage fascista di Torino

Nella ricorrenza del 94° anniversario della strage di inno-centi compiuta da squadracce fasciste a Torino il 18 – 19 dicembre 1922, testimoniata da una lapide nella piazza centrale di Porta Susa, l’ANPPIA ha organizzato una manife-stazione nella sede del Polo del ‘900.

Presentato dal prof. Boris Bellone, il presidente della Sezione torinese dell’ANPPIA, avv. Bruno Segre, ha rievo-cato il funesto evento legato alla memoria storica di Torino. Successivamente ha parlato la prof. Lidia Gualtiero, docente dell’Istituto Parri di Bologna, evocando la piazza “Tre Martiri” di Rimini ove furono impiccati nell’agosto 1944 tre giovanissimi partigiani. Claudia Pinelli, figlia del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli precipitato da una finestra della Questura di Milano, ove era trattenuto perché sospetta-tato complice della strage di piazza Fontana, nella Banca del Lavoro, ha raccontato quella tragica vicenda del dicembre 1969, che segnò l’inizio degli Anni di Piombo e appassionò l’opinione pubblica dell’intero Paese. Infine Alexis Tsou-klas, presidente dell’Associazione culturale Piemonte-Grecia “Santorre di Santarosa”, ha rievocato la storia tragica della piazza “Kostas Gheorgachis” di Genova intitolata all’omo-nimo studente, che si diede fuoco inneggiando alla libertà ed alla Grecia. È seguito il recital musicale di Marco Rovelli intitolato “Eravamo come voi – storie di ragazzi che scelsero di resistere” con Rocco Marchi. Un folto pubblico di studenti ha applaudito gli interventi di oratori e musicisti. Il 19 dicem-bre ha avuto luogo l’annuale cerimonia commemorativa dei martiri in piazza XVIII Dicembre. Vi hanno partecipato il presidente dell’ANPPIA, Bruno Segre, la rappresentante dei Sindacati CGIL, CISL, UIL e un assessore in rappresentanza della Sindaca Appendino.

intervento del 19 dicembre 2016 in piazza 18 dicembre dell’alunna matilde Fiorello dell’istituto “colombatto” di torino

"Quando mi sono messa a pensare a come creare quest'in-tervento ho iniziato a chiedermi perchè fosse così importante ricordare questo momento storico e se fosse utile.

Ho iniziato a riflettere sull'importanza della memoria e

La programmazione editoriale dell’ANPPIA Sardegna ha come

obiettivo la pubblicazione, almeno una volta l’anno, di un saggio

storico-politico sull’antifascismo sardo e nazionale. Quest’anno

“l’oggetto del contendere” sono stati gli emigrati antifascisti sardi

in Argentina. Nello specifico, il volume «Il caso della Lega sarda

d’Azione “Sardegna Avanti”» (Ed. Anppia Sardegna). Questo libro

scritto da Lorenzo Di Biase, conosciuto saggista e dirigente sardo

e nazionale dell’Anppia, è frutto di una lunga ricerca effettuata

presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma, le Prefetture di

Cagliari, Teramo, Genova, Imperia e Sassari. L’A. è riuscito a

presentare in modo chiaro, un libro di indubbia validità storica di

un frangente dell’emigrazione antifascista sarda in Argentina. Il

periodo temporale della ricerca si può delineare tra la fine degli

anni venti e gli inizi degli anni trenta del secolo scorso. Tra gli anni

trenta dell’Ottocento e la fine degli anni cinquanta del Novecento

furono circa 3.500.000 gli italiani che arrivavano fiduciosi nella

Terra del Plata. I nostri connazionali in

Argentina dovevano fronteggiare una

serie di controlli alla frontiera, che furono

sistematizzati in un decreto del 1923. A

questo si aggiungeva, da parte italiana, le

leggi fasciste del 1927. Ulteriori restrizioni

provenivano dalle autorità governative

argentine negli anni 1930, 1932 e nel 1938,

che introducevano l’obbligo tassativo per

gli emigrati di documentare attraverso

una selettiva certificazione l’esistenza di

un regolare contratto di lavoro. In questi

frangenti economici la continua crescita

dell’emigrazione italiana in Argentina,

era caratterizzata da una favorevole

congiuntura economica, dovuta

essenzialmente alla lavorazione della lana.

Nei primi anni venti del Novecento, questo

poderoso flusso migratorio verso l’estero

non era solo dettato dalla emigrazione economica, ma anche da

un emigrazione di stampo prettamente politico, condizionato dal

clima dittatoriale e repressivo del regime mussoliniano ai danni

dei democratici antifascisti. Il 1922 può essere considerato, a

torto o ragione, come il periodo di tempo, in cui si manifestava

l’attività antifascista in Argentina. I migranti antifascisti italiani

provenivano dalle file dei repubblicani, socialisti, anarchici e

comunisti. Importanti e significative furono le pubblicazioni

afferenti ad alcuni schieramenti politici democratici ed

antifascisti. Tra questi ricordiamo: “Il Lavoratore”, “L’Avvenire”,

“Il Culmine” “Giustizia” ed altri fogli di stampa quotidiana.

Inizialmente, da un punto di vista prettamente politico-

organizzativo, i Partiti politici in Argentina, dopo varie diatribe,

riuscivano a creare, nel 1927 un organismo unitario “L’Alleanza

italiana antifascista”. Negli anni venti, statisticamente, i

motivi che spingevano la stragrande maggioranza dei sardi ad

emigrare all’estero era riconducibile ad insormontabili problemi

economici, accompagnati da una feroce persecuzione politica

fascista. I primi insediamenti degli emigrati sardi, nella Terra del

Plata, avevano come base residenziale e lavorativa Buenos Ayres.

Essi si integravano pienamente nella realtà sociale e culturale

sud americana. Gli emigrati sardi per loro natura caratteriale,

facevano gruppo tra loro, attraverso leghe, circoli e fratellanze,

Gli antifascisti sardi in Argentina

di Maurizio ORRÙ

ovvero luoghi dove si alimentava e si insinuava prepotentemente

la cultura e la militanza antifascista. Naturalmente questa politica

culturale, non veniva tollerata dal regime fascista, che tentava con

tutti i mezzi di carpire le informazioni e le notizie attraverso la

subdola rete della delazione. L’uso corrente della lingua sarda era

il modo consueto per contrastare le eventuali spie del regime. La

comunicazione, attraverso la stampa, è sempre stata la migliore

“arma politica” per diffondere notizie, comunicati ed organizzare

eventi. Forti di questi presupposti, gli emigrati sardi in Argentina

(staticamente dal 1876 al 1925 furono circa 21000), diedero vita ad

una pubblicazione, o meglio ad un foglio di ispirazione antifascista

denominato “Sardegna Avanti”, che veniva stampato in duemila

copie e distribuito in Argentina, Uruguay e negli Usa. Il direttore

responsabile della testata era Francesco Anfossi. Questo giornale

aveva come fonte di ispirazione politica e culturale la “Lega sarda

d’Azione”, ovvero una associazione su base etnica che contava un

centinaio di soci. La Lega sarda nasceva

nel 1929 grazie alla fervente passione

politica del comunista Francesco Anfossi,

che ricopriva il ruolo di Segretario,

coadiuvato da un direttivo composto da

Sebastiano Catte e Antonio Brunetti di

Nuoro e da Giuseppe Onnis di Marrubiu.

Questo organismo politico di ispirazione

sarda, aveva un manifesto programmatico

nel quale venivano espressi alcuni

punti focali riconducibili alla lotta di

classe, alla sconfitta del fascismo e alla

prospettiva di una Sardegna indipendente

“e diretta nel suo avvenire da un Governo

rappresentante gli interessi della classe

lavoratrice”. L’A. studiando la carte

custodite presso l’Archivio Centrale dello

Stato di Roma e l’Archivio di Stato di Nuoro

ha voluto ulteriormente approfondire

ed analizzare la militanza politica di alcuni rappresentanti

della Lega Sarda d’Azione, per comprendere le loro vicende

personali e familiari. Tra tra questi ricordiamo: Francesco

Anfossi (La Maddalena), Paolo Addis (Calangianus), Sebastiano

Catte (Nuoro), Gavino Cossa (Nugheddu San Nicolò), Nicola

Dettori (Semestene), Leonardo Fara e Sebastiano Fara (Cuglieri),

Giuseppe Onnis (Marrubiu), Pietrino Sale (Mara), Francesco

Zichi (Orani). In conclusione, possiamo affermare, senza essere

smentiti, che la cospicua bibliografia già esistente sulla storia

dell’emigrazione italiana si arricchisce di questo pregevole

saggio di Lorenzo Di Biase con un contributo sicuramente

originale ed importante nella bibliografia sarda e nazionale. Un

libro che merita di essere conosciuto e ampiamente diffuso nelle

biblioteche locali e nazionali. Significativa è la prefazione di

Mario Tempesta, Presidente nazionale dell’ANPPIA nazionale,

che aiuta a comprendere ulteriormente quanto l’A. ha inteso

esprimere nel suo lavoro. Questo libro ha un impianto narrativo

ancorato alla Storia, attraverso questo, recuperiamo la vita, gli

sforzi, le passioni dei nostri corregionali di fede antifascista in

Argentina. Il libro, edito sotto gli auspici dell’Anppia nazionale,

ha ottenuto un contributo finanziario dell’Assessorato regionale

alla Cultura della Regione Sardegna.

sull'influenza che essa possa avere nel mio quotidiano. Sono arrivata alla conclusione che sì la memoria è impor-

tante, ma non come mera commemorazione, ma come strumento per potersi interfacciare con la realtà di oggi e trovare delle analogie che ti permettano di agire.

La memoria non deve essere solo ricordo di nomi e numeri, ma la possibilità di imparare su ciò che è stato. La memoria non deve essere chiusa in un cassetto e tirata fuori come solo sfoggio di cultura. La storia ci parla e ci indirizza su ciò che è stato e su ciò che potrebbe essere con il nostro impegno.

E cosa ho imparato e imparo dal 18 dicembre? Io lo vedo come un esempio di lotta, delle persone che

hanno deciso di non restare indifferenti al mondo che li circondava ma hanno deciso di agire per costruire una società nella quale per loro valesse la pena vivere, hanno lottato contro l'ingiustizia e per la libertà.

La libertà di espressione, la libertà di essere se stessi e di avere ideali diversi.

E io mi chiedo: in che cosa rivedo oggi il tema della lotta? Per che cosa vale la pena lottare oggi affinchè non ci sia quel tipo di violenza?

Non è facile trovare risposte a queste domande, ma mi viene in mente anche solo il tema dell'immigrazione e di tutte quelle persone che non hanno la possibilità di ricostru-irsi una vita dopo essere stati costretti a scappare da una situazione non facile nel loro paese.

Mi viene in mente il tema delle donne che ancora oggi sono costrette a scendere in piazza per far sentire la loro voce e per dire stop alla violenza.

Mi vengono in mente tutti i giovani che non sono in grado di costruirsi un futuro e che vedono nel mondo malavitoso l'unica via di scampo.

È di questo che mi parla il 18 dicembre, è di questo che voglio parlare: non una denuncia sociale, ma una denuncia all'indifferenza all'ingiustizia e alla violenza.

Perchè il futuro si costruisce a partire da noi, e le vittime che oggi ricordiamo ne sono un esempio che deve essere fatto nostro.

E io vi chiedo: per cosa lottate voi?"

Nel ricordare i genitori carlo porta e lea rodolfi di reggio emilia la figlia Vanna unitamente sottoscrive € Euro 100.00 Nel ventennale della morte, la moglie, i figli e i familiari ricordano: FRANCESCO COLONNA e sottoscrivono perl'Antifascista che egli diresse con grande impegno e passione per molti anni. Euro 100

DUSI NEDIAN In memoria del padre DUSI LUIGI e della madre POGAN ADA Euro 50IMBROCIANO GAETANO; PUCCIARELLI ROBERTO; DUGONO GIUSEPPINA Euro 50 D’ALEO FELICIA ENRICHETTA Euro 30MANCINI GASTONE; LUIGI CARRARA Euro 25 BASSANI FLORA; GUALA GIOVANNI; AUTELLI RITA Euro 20BEVILACQUA BRUNO; ALLOISIO MIRELLA; FIOLO GIORGIO Euro 20

SOTTOSCRIZIONI

Page 17: l’antifascista - ANPPIA · commercio e di cooperazione nella guerra al narcotraffico. Forse in molti non sanno che nei punti più sensibili del confine esistono già strutture che

l’antifascistaMensile dell’ANPPIAAssociazione Nazionale Perseguitati

Politici Italiani Antifascisti

Direttore Responsabile:

Francesco Luigi Morrone

In Redazione:

Maurizio Galli

SEDE:Corsia Agonale, 10 – 00186 Roma

Tel 06 6869415 Fax 06 68806431

www.anppia.it

[email protected]

HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO:Mario Artali, Antonio Caputo,Roberto Cenati, Augusto Cerri,Nicola Corda, Alberto Di Maria,Saverio Ferrari, Giorgio Galli,Maurizio Galli, Walter Merazzi,Jean Mornero, Maurizio Orrù,Filippo Senatore, Roberto Spocci,Carlo Tognoli, Elisabetta Villaggio

TIPOGRAFIAGraffietti Stampati srl

PROGETTO GRAFICOMarco Egizi www.3industries.org

Prezzo a copia: 2 euro

Abbonamento annuo: 15,00 euro

Sostenitore: da 20,00 euro

Ccp n. 36323004 intestato a l’antifascistaChiuso in redazione il: 09-03-2017

finito di stampare il: 15-03-2017

Registrazione al Tribunale di

Roma n. 3925 del 13.05.1954

Noi

Ha dovuto rinunciarvi, anche perché Napolitano, suo grande sostenitore fino al re-

ferendum, si era pronunciato per la normale durata della legislatura, come Prodi, il

cui prestigio, con l’annuncio del voto per il “sì” alla vigilia del 4 dicembre, non aveva

mutato il risultato. Renzi vuol dunque rimanere al centro della scena politica, per

non essere dimenticato come Monti e Letta, sperando ancora di votare in autunno;

rimane al centro come leader del Pd e condizionatore della sorte del governo, men-

tre, come si diceva nello scorso numero, decisioni cruciali rimangono in lista d’attesa,

in un’Italia dall’economia stagnante dove i ricalcoli dell’Istat sugli zero virgola del Pil

suonano ormai ridicoli. Ma nell’immobilismo delle istituzioni e dei partiti le multi-

nazionali sono invece attivissime e per esempio Vivendi minaccia Mediaset, mentre

Intesa San Paolo punta sulle Generali e sul ricco mercato assicurativo.

Questo rapporto tra potere politico passivo e potere economico attivo, mi riporta a

quanto scrivevo qui, quando mi si chiese un bilancio della presidenza di Napolitano

dopo la sua riconferma (aprile 2014), accettata, scrivevo, “nella convinzione di ope-

rare per una transizione senza traumi a un Paese normale”, mentre “la maggiore

anomalia italiana è la presa del potere da parte di una razza parassita, evoluzio-

ne della razza padrona di Scalfari, e il ritorno alla normalità è il toglierle il potere

per restituirlo ai ceti produttivi e non mi pare possa avvenire senza un minimo di

trauma, nonostante la buona volontà e l’impegno di Napolitano”. Sono trascorsi tre

anni, quelli del governo Renzi, e la diagnosi mi pare pienamente confermata. Renzi

definisce, sociologicamente e cautamente , “capitalismo di relazione”, quello che per

me, con linguaggio critico-politologico, è il potere della razza parassita, che lo stesso

Renzi non è stato in grado di affrontare, e che in Italia saccheggia risorse e gestisce

la stagnazione, un “capitalismo straccione”, direbbe Gramsci, nel mondo del capi-

talismo globale delle multinazionali. Focalizzare le attese sul congresso del Pd (con

rischio di scissione) e sulla sorte del governo Gentiloni servirà a poco, senza una

visione chiara della posizione dell’Italia nella globalizzazione in crisi.

Giorgio GALLI

segue dalla prima pagina

La Federazione di Torino dell’ANP-PIA ha espresso la propria solidarietà al prof. Lorenzo Varaldo, preside della scuola di Cercenasco e Vigone (Torino), in quanto respinse la visita che l’Arcivescovo di Torino, Cesare Nosiglia, voleva fare nell’Istituto il 4 novembre scorso. Il dirigente scola-stico, in una lettera al parroco (che avrebbe dovuto accompagnare il monsignore nella sua visita) ha spie-gato che la laicità della scuola deve essere tutelata da qualsiasi forma di ingerenza.

“Il ruolo che riveste, la sua carica, il tipo di visita, sono evidentemente le-gate alla religione cattolica. Se vuole solo salutare i ragazzi e gli operatori dovrebbe farlo negli spazi della par-rocchia – ha scritto il prof. Varaldo. Questa visita non si sarebbe inserita in un’attività scelta dalla scuola, dai do-centi e concertata con gli alunni, ma nell’ambito di una visita pastorale pro-grammata dalla diocesi di Torino con l’obiettivo di cercare dei consensi e per

portare avanti le idee della Chiesa…La scuola deve svolgere un’a-

zione che punti a preservare la sua indipendenza e la libertà d’insegna-mento. Laicità della scuola significa proteggerla da qualunque forma d’in-gerenza”.

Il prof. Varaldo ha tenuto conto che, se avesse concesso all’arcivescovo l’in-gresso, avrebbe dovuto parimenti concederlo a sacerdoti protestanti, musulmani, ebrei e magari ad attivisti del Libero Pensiero.

L’opportuna iniziativa laicista del preside è stata apprezzata dal pastore di Pinerolo, ex-moderatore della Tavola Valdese, Gianni Genre, dal presidente dell’Associazione Nazio-nale del Libero Pensiero “Giordano Bruno” e da vari giornali.

Successivamente, il 22 novem-bre u.s., nella sede modernissima del “Polo del ‘900” l’ANPPIA ha presen-tato il Libro “La scuola rovesciata” di Lorenzo Varaldo. Ne hanno discusso con l’Autore, l’avv. Bruno Segre, il

prof. Nicola Adduci (storico, ricerca-tore dell’ANPPIA), il prof. Giuseppe Bailone, la direttrice della collana “Libertà di Psicoanalisi”, Alessandra Guerra, il prof. Giorgio Primerano, docente nella scuola secondaria, la dott. Elisabetta Raineri, insegnate della scuola primaria. Il prof. Varaldo ha illustrato al foltissimo pubblico il contenuto dell’inchiesta oggetto del suo libro.

ANPPIA Torino: solidarietà al Professor Varaldo