Focus Storia (Maggio 2015)

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Sped. in A.P. - D.L. 353/03 art.1, comma 1, DCB Verona

StoriaSCOPRIRE IL PASSATO, CAPIRE IL PRESENTE

n°103

PASTA, PIZZA & Co.CIBI E RICETTE DIVENTATI

SIMBOLI DEL MADE IN ITALY PER CASO

MAGNA GRECIAQUANDO GLI ELLENICI SEMINAVANO CIVILTÀ (E QUALCHE GUERRA)

NOVECENTODAL CONFLITTO DEL 1898 A CASTRO, LE MANI DEGLI

STATI UNITI SU CUBA

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■ AMISTAD

■ CIBI ITALIANI ■ CICERUACCHIO

■ ENCLAVE ■ M

AGNA GRECIA ■ OGGETTI SM

ARRITI ■ SCEM

I DI GUERRA ■ SPEER

■ USA-CUBA

L’architetto di Hitler Albert Speer, il ministro del

Reich che scampò alla forca

VITA QUOTIDIANA, PROTAGONISTI E CONQUISTE, DA PAVIA A BENEVENTO

Confini impazziti

Isole condivise, microstati e altre

stranezze

LONGOBARDILONGOBARDILONGOBARDI

L’AVVENTURA DELL’AMISTAD

Gli schiavi che si ribellarono e conquistarono

New York

DA NORD A SUD I PRIMI RE D’ITALIA

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16 - 17 MAGGIO 201557a Fiera del Collezionismo Militare

ORARIO 10.00 - 18.00

1915 - 1918Vittorio

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Liutprando e Alboino, la regina Teodolinda,

Rosmunda che beve nel teschio del padre e, per i

più attenti, la morte di Ermengarda che giace, “sparsa, le trecce morbide sull’affannoso petto”, come canta Alessandro Manzoni nell’Adelchi. I Longobardi, per moltissimi di noi, sono questo: una reminiscenza scolastica, inserita nella cronologia tra gli Ostrogoti e i Franchi. Eppure questi germanici, varcate le Alpi nel 568, sono stati il vero anello di congiunzione tra l’Impero romano e l’Italia dei secoli successivi. E non soltanto perché da barbari guerrieri si sono trasformati in raffinati cultori delle arti, del diritto e della teologia. Ma anche perché, come vi raccon-tiamo in questo numero di Focus Storia, hanno (quasi) unificato la Penisola e, con la loro resistenza a Sud, contribuito fortemente ad alcuni caratteri specifici del Mezzo-giorno... visto che hanno regnato più a lungo in Irpinia che a Pavia.

16 PERSONAGGIL’architetto del diavoloAlbert Speer, l’urbanista di Hitler.

22 ALIMENTAZIONERicettario made in ItalyStorie curiose dei più noti piatti italiani.

26 NOVECENTOLe mani su CubaGli alti e bassi dei rapporti fra Stati Uniti e l’isola caraibica.

76 OTTOCENTOLe catene spezzateGli schiavi ribelli dell’Amistad.

84 STORIE D’ITALIAL’oste che fece un ’48Ciceruacchio, il capopopolo che difese la Repubblica romana.

88 CURIOSITÀ10 tesori inaspettatiAcquistati nei mercatini per pochi soldi, si sono rivelati antiche rarità.

90 MEDICINANon chiamateli scemi di guerraI soldati della Prima guerra mondiale con la mente devastata.

96 GRANDI TEMIIl bello dei migrantiLe meraviglie e le eredità della Magna Grecia.

NAZIONI Confini pazziLe incredibili vicende dietro a microstati e isole in condivisione.

IN PIÙ...

Jacopo Loredan direttore

Fibula d’oro longobarda del VII secolo.

L’Italia dei Longobardi34

I barbari di OdinoLitigiosi, guerrieri implacabili, convertiti al cristianesimo ma fedeli alle

tradizioni pagane. I Longobardi erano tutto questo, ma non solo.

42Una regina quasi santa

Teodolinda ebbe due mariti, un figlio sfortunato e un eccezionale fiuto diplomatico. E fece della sua reggia di Monza un centro di potere.

50L’Italia longobarda

L’avanzata a partire dall’anno 568, le rapide conquiste, l’espansione al Sud. E i luoghi che, dal Friuli al Meridione, conservano oggi i loro tesori.

54Liutprando il Grande

Tentò di realizzare il sogno di unificare la Penisola. Non ci riuscì, ma sotto il suo scettro il suo popolo divenne una nazione.

60Gli altri protagonisti

Da Alboino il conquistatore a Rotari il legislatore, dall’ultimo re, Desiderio, allo storico Paolo Diacono, i Longobardi che hanno fatto la Storia.

62Benvenuti al Sud

Nel 774 Carlo Magno pose fine al regno longobardo al Nord. Ma i ducati del Sud sopravvissero e la “questione meridionale” iniziò proprio allora.

In copertina: un reenactor in tenuta da guerriero longobardo. FOTO C. BALOSSINI/ASSOCIAZIONE CULTURALE LA FARA - UDINE

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DEA/

SCAL

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maggio 2015

4 LA PAGINA DEI LETTORI

6 NOVITÀ & SCOPERTE

8 TRAPASSATI ALLA STORIA

9 AGENDA

10 MICROSTORIA

12 CURIOSARIO

13 SCIENZA & SCIENZIATI

70 PITTORACCONTI

72 DOMANDE & RISPOSTE

74 UNA FOTO, UN FATTO

110 FLASHBACK

rubriche

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Storiafocusstoria.it

CI TROVI ANCHE SU:

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StoriaScoprire il paSSato, capire il preSente

APRILE 2015� 4,90 in Italia

esploratori ■ axum

■ guerre di vandea

■ profumi nella storia

■ shostakovich ■ radar

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eretici d’italiafurono i nonni dei

protestanti. Ma finirono MalissiMo

regina di sabai Misteri dell’iMpero di axuM che custodì l’arca

dell’alleanza

stalin in musicail coMpositore

shostakovich: dal palco al rischio gulag

n° 102

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esplorazioni

rivoluzione?no grazie

1792: la rivolta in Vandea che poteva cambiare la Francia

Un radar per vincereHitler lo snobbò.

E Churchill ne fece l’arma finale

I segreti del profumo

Curiosità e aneddoti in 4000 anni di

fragranze

complotti, denaro, avventura...

le età d’oro delle

da erodoto a colombo a gagarin, perché siamo andati verso l’ignoto

Cristoforo Colombo da Savona...A pagina 48 del numero 102 di Focus Storia si affronta il problema del luogo di nascita e dell’origine di Cristoforo Colombo che, come scritto, rimane ufficialmente genovese. La nostra associazione ritiene invece che il celebre navi-gatore non fosse figlio del lanaiolo Domenico di Genova-Quinto. L’ipotesi più probabile è che fosse nato a Savona nel 1436. Bisogna precisare che genovese, all’epoca, si riferiva ai cittadini della Repub-blica di Genova e non indicava, come oggi, un luogo di nascita o di residenza. Tutti coloro che oggi chiamiamo liguri, erano cittadini genovesi. Non ne facciamo una questione di campanilismo, ma di identità stessa del personaggio. Il motivo principale, ma non il solo, per il quale riteniamo che la famiglia Colombo di Genova-Quinto non fosse quella dello scopritore dell’America è che, in Spagna, a partire dal 1497, sono presenti due parenti di Cristofo-ro, Giovanni Antonio e Andrea Colombo, che non si trovano nei documenti dell’Archivio di Stato di Genova riguardanti i Colombo di Quinto. Di Andrea, nipote di Cri-stoforo, non c’è traccia, e, quanto a Giovanni Antonio, viene iden-tificato con un Giovanni. Ma né il nome, né il grado di parentela, né

la professione corrispondono a quelli dei documenti spagnoli. Personalmente ritengo che lo Scopritore appartenesse alla famiglia dei Colombo di Cuccaro, nel Monferrato, e che fosse nato a Savona nel 1436. La data di nascita si desume dalla testimonianza di Andrés Bernál-dez, che ospitò Colombo nella sua casa nel 1496, e corrisponde a quanto ci dice di sé l’Ammiraglio, che parla di un lungo periodo di navigazione continuativa in mare, 23 anni e anche più, il che è in-conciliabile con la data di nascita ufficiale, il 1451. Il luogo di nascita si desume inve-ce da due importanti documenti: il Memorial o Registro Breve della corte di Spagna dove, nel 1491, Colombo è detto genovese e nativo di Savona, e dal documen-to De Uhagon, dove, nel 1535, i testimoni convocati a favore di un nipote di Cristoforo affermano che l’Ammiraglio era genovese e nativo di Savona.

Filippo De Nobili, presidente dell’Associazione Culturale

Cristoforo Colombo, Savona

...o Cristoforo Colombo da Cogoleto?Recenti e approfonditi studi hanno portato alla luce importanti docu-menti che attestano chiaramente che Colombo era nato in Cogoleto

La lapide misteriosa: qualcuno ci può aiutare?

(Ge) e non a Genova. Esiste una sostanziale differenza tra i due personaggi: quello di Genova, nato nel 1451, è un tessitore di panni, mentre Cristoforo di Cogoleto, na-to presumibilmente nel 1436, è un esperto uomo di mare che inizia a navigare in giovane età [...]. Anche la Repubblica di Genova attesta che lo scopritore era di Cogoleto. Tali documenti sono custoditi presso l’Archivio di Stato di Genova, la Biblioteca Apostolica Vaticana, l’Archivio de Indias di Siviglia e altri archivi nazionali ed esteri. Per quanto concerne l’argo-mento relativo alla “prescoperta” e la carta del turco Piri Rais, preciso che sulla stessa il nome di Co-lombo è così indicato: Kolon-bo, il quale è definito “infedele genovese” e non infedele “di Genova” come riportato nell’articolo [...], ossia cit-tadino della Repubblica di Genova. Esistono altri documenti che fanno pensare a una possibile “presco-perta”. Tra questi le Capitulaciones de Santa Fé [...] del 17 aprile 1492. Ebbene, nel preambolo si legge chiaramente: ha “descubierto”, ossia ha scoperto [...]. Per approfondire l’argomento se-gnalo il sito www.cristoforocolom-bostoria.it e il volume a carattere scientifico edito dal Comune di Cogoleto (2009) Svelati i segreti di Cristoforo Colombo. Dalla nascita dell’Ammiraglio alla causa ereditaria

intrapresa da Bernardo Colombo di Cogoleto.

Antonio Calcagno, Cogoleto (Genova)

Altri dettagli sulla fuga di MussoliniHo letto l’articolo riguardante la cosiddetta “fuga” di Mussolini [...]. Io ne conosco una versione diffe-rente, che mi è stata riferita da un mio parente, il quale l’ha ascoltata da suo padre, che è stato uno dei protagonisti di una vicenda che, secondo me, contribuirà a fare nuova luce su un episodio sul quale si è molto ricamato, spesso a sproposito. Nell’aprile del 1945 era chiaro che la guerra era ormai perduta e che si doveva pensare a cosa fare una volta che gli Alleati avessero mes-so piede nella Pianura padana. Tra i gerarchi le opinioni erano molto discordanti [...]. Alla fine prevalse la tesi di raggiungere il ridotto e lì dare luogo all’ultima resistenza repubblicana. Si poneva ora un altro problema: a chi affidare la scorta del convoglio di Mussolini fino in Valtellina? Per questo motivo venne convocata a Milano una persona di provata fede fascista e che godeva della stima del duce: era Stefano Motta, federale di Mantova e comandan-te della XIII Brigata Nera “Marcello Turchetti” [...]. Dopo un incontro personale con Mussolini, Motta fu

Buonasera! Vorrei porre alla Vostra attenzione la lapide ritrovata nella nostra chiesa parrocchiale di Vibonati (Sa-lerno), paesino ubicato nel basso Cilento. Vi riporto le incisioni che, nella foto e sulla pietra stessa, non sono chiara-mente leggibili:La frase “perimetrica” dice

“spectatum admissi risu tenea-tis amici?”;all’interno, è riportata la scritta “vigilo noli me tangere”;nella parte bassa si legge “A.P.M. DE PACCHA F.F.A.”; la data è 1143 o 1743 (la seconda cifra non si legge bene).

Antonio Scognamiglio

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LA PAGINA DEI LETTORIInviateci opinioni, idee, proposte, critiche. Pubblicheremo le più interessanti oltre a una selezione dei commenti alla nostra pagina Facebook. (www.facebook.com/FocusStoria). Scrivete a Focus Storia, via Battistotti Sassi 11/a, 20133 Milano o all’e-mail [email protected]

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ricevuto da Pavolini nel suo stu-dio, che gli riferì i seguenti ordini: avrebbe dovuto radunare tutti gli effettivi della propria brigata e, passando per la parte orientale del Lago di Garda, riunirsi con il convoglio del duce all’altezza di Dongo e da lì scortarlo verso il ridotto Valtellinese. Il comandante Motta tornò quindi a Mantova dove radunò i suoi uomini: si trattava di all’incirca 2mila militi perfettamente armati e muniti di autocarri militari, mo-tociclette e persino 2 autoblindo AB41 e un carro M11/39. La colonna si mise in marcia il 25 aprile da Mantova lungo il Lago di Garda. Giunti a metà del lago si trovarono la strada sbarrata da un presidio di 300 partigiani comunisti che impedivano il pas-saggio dei militi; allora il coman-dante Motta radunò i suoi ufficiali e pose due alternative: procedere con un rastrellamento delle colli-ne, che avrebbe impiegato alme-no tre giorni che non potevano permettersi di sprecare, oppure accordarsi con il comandante partigiano [...] nascondendogli il vero motivo della missione. Venne così raggiunto un accordo: i militi avrebbero potuto attraversare il posto di blocco ma con le armi in spalla e scariche, mentre una jeep partigiana con una bandiera bianca li avrebbe scortati [...]. Poiché i fascisti avevano fretta si fidarono ma, una volta superato il blocco, furono vigliaccamente attaccati alle spalle; siccome la situazione rischiava di risolversi in un massacro il comandante Motta dette ordine di disperdersi e, assieme ad alcuni fedelissimi, raggiunse la Svizzera dove restò per diversi mesi finché non venne proclamata l’amnistia per i fascisti e poté tornare a casa dalla propria famiglia. [...]

Enrico Cuthbert

Sloveni perseguitati (e dimenticati)Nel numero 101 ho notato che avete omesso una verità riguar-dante gli orrori del fascismo. Fino a ora non ho notato alcun numero

I NOSTRI ERRORIFocus Storia n° 101, pag. 54: Code-vigo è in provincia di Padova, non in quella di Treviso; pag. 18: Cipro fu veneziana dal 1489 al 1571 (e non fino al 1489).

ste anche la Venezia Giulia e non solo quello che ormai viene chia-mato solo Friuli o, con condiscen-denza, “Friuliveneziagiulia” (“uffa, ma cosa vogliono questi?!?”). La Venezia Giulia è geografica-mente e storicamente ben distinta dal Friuli con il quale convive forzatamente nell’ambito della regione, ma non ne condivide lingua, cultura e tradizioni. C’è, però, un’inesattezza piuttosto grave. Capisco i problemi di sin-tesi, ma il periodo dal 1° maggio 1945 al 12 giugno, quando final-mente i titini lasciarono Trieste,

della rivista che parlasse della per-secuzione fascista della minoranza slovena a Trieste e in altri territori posseduti dall’Italia dopo la Gran-de guerra. Comprando il numero 101 e vedendo il titolo principale sulla copertina speravo in un para-grafo che parlasse dei torti fatti alla minoranza slovena. [...] Spero che la mia proposta possa essere presa in considerazione [...].

Andrea Pelikan

Titini a TriesteFinalmente, su Focus Storia n° 101, a pag. 55, vedo che sapete che esi-

non può e non deve essere dimenticato.

Livio Cadelli

Entrambe le lettere prece-denti toccano il delicato te-

ma dell’immediato Dopoguerra nei territori dell’attuale Friuli-Ve-nezia Giulia. Ce ne siamo occu-pati, in passato, ma mai in modo sistematico. Cercheremo di farlo.

Nel regno di MuratA pagina 24 del numero 101 scrivete: ”Murat stava tentando di recuperare da solo il regno perduto nel 1808”. [...] In realtà, Murat diventò re di Napoli proprio nel 1808, succedendo a Giuseppe Bonaparte divenuto re di Spagna. Regnò fino alla battaglia di Tolen-tino nel 1815. In sèguito alla perdi-ta del regno, tentò la fallimentare riconquista.Quando la notizia della sua fine giunse a Sant’Elena, Napoleone, che aveva il dente avvelenato contro il cognato, che, per salvarsi il trono, non aveva aderito ai 100 giorni, commentò nel “Memo-riale”: “Che imbecille ! Ha perso un regno con 80.000 uomini e lo voleva riprendere con 80!”.

Renato Reggiani, Bologna

Tra gli oltre 700mila soldati cattu-rati dai tedeschi dopo l’armistizio firmato da Badoglio nel 1943 vi era anche mio padre Giovanni Silvio Pascarella, classe 1917, originario di Santa Maria a Vico (Ce). Ho già avuto modo di scri-vere alla vostra redazione della cattura di mio padre in occasione dello speciale sull’otto settembre (Focus Storia numero 65 marzo 2012). In quell’occasione però non ho riportato la sua testimo-nianza sulla sua vita da prigioniero nel campo di lavoro di Dortmund in Germania. Anche lui, così come riporta-te nell’articolo “Nelle mani di Hitler” su Focus Storia n° 101, dopo la cattura nell’isola di Karpathos fece un lungo viaggio, pri-ma via mare e poi in treno lungo i Balcani per arrivare in Germania. Durante il trasferimento rimediò una frustata da un tedesco di cui in tarda età portava ancora il se-gno sul corpo. Arrivato al campo fu impiegato come operaio in una miniera. A seguito di un inci-dente con un carrello fu portato in infermeria e da lì, grazie alle simpatie di un ufficiale tedesco che amava le canzoni napole-tane (mio padre suonava la chi-

tarra e cantava), fu poi destinato ad altri lavori. La vita nel campo non era facile: mio padre raccon-tava che il cibo era insufficiente e il lavoro tanto, non mi ha mai nemmeno parlato di una paga ricevuta per il suo lavoro. Ciò che mi colpiva nei suoi racconti era il convivere dei momenti di paura e di disperazione con la voglia di lottare per sopravvivere. Un gior-no la fame lo spinse a mangiare un pezzo di pane sul quale era stato messo del veleno per i topi

dopo averne grattato la superficie. Nel 1945 fu

liberato dagli ameri-cani dopo un vio-

lentissimo bom-bardamento di cui ricordava i tremendi boati, le urla, i morti e il

terrore [...].Nel giugno 2013

mio padre ha ricevu-to la medaglia d’Onore

ai cittadini italiani deportati e internati nei lager nazisti. La medaglia, che viene consegnata a chi è stato “schiavo di Hitler” (Leg-ge 296/2006), nel suo rovescio raffigura un filo spinato spezzato [...] con all’interno inciso il nome dell’insignito. Un filo spinato per non dimenticare. Mai! Allego copia di una foto (sopra) di mio padre risalente alla Seconda guer-ra mondiale.

Giovanni Aquino Pascarella, Santa Maria a Vico (Caserta)

Storia di un Imi

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Oltre 100 kg di monete per un’imposta sul trasferimento

di proprietà: è quanto sborsato da un gruppo di anonimi cittadini nell’antica Tebe (Egitto) agli inizi del I secolo a.C. L’inedita iscrizione, incisa in lingua greca su un coccio, è stata recentemente decifrata da Brice Jones, della Concordia University di Montréal (Canada). Il frammento attesta che il 22 luglio del 98 a.C. (sotto il regno di Tolo-meo X), un individuo il cui nome è illeggibile e alcuni suoi compagni saldarono una tassa pari a 90 ta-

Quanto costa l’imposta? 100 chili di monete

Che tasse d’Egitto!Statua di Tolomeo X (I secolo a.C.): sotto il suo regno fu pagata l’esorbitante tassa riportata nell’iscrizione del 98 a.C. (sotto).

Quel che restaPannello di istruzioni

in giapponese e (a destra) una valvola della Musashi negli

scatti subacquei del ritrovamento.

È la tomba di CervantesSono con tutta probabilità di Miguel de Cervantes (1547-1616), “padre” di Don Chisciotte, le ossa sepolte in una cripta a Madrid. Si attende la conferma del Dna.

2Un brezel d’annataNella Baviera Orientale gli archeologi hanno trovato prodotti da forno buttati via nel Settecento: ci sono dei croissant, ma anche il più antico brezel di cui si abbia notizia.

1 Nazisti nella giunglaUn nascondiglio per nazisti in fuga nella giungla: è l’ipotesi di un team di archeologi di Buenos Aires su alcuni edifici (con monete del Reich) scoperti tra Paraguay e Brasile.

3

Affondata in battaglia nel 1944, la Musashi è stata trovata negli abissi dal co-fondatore di Microsoft.

Dopo il regista James Cameron (autore del ritrovamento del Ti-

tanic) e Jeff Bezos, patron di Amazon, che ha recupe-rato in mare i motori dell’A-pollo 11, tocca a un’altra ce-lebrità americana fare parla-re di sé con una sensazionale scoperta subacquea. Si tratta di Paul Allen, il co-fondatore della Microsoft, che dopo ot-to anni di ricerche ha localiz-

zato nel mare delle Filippine il relitto della nave giappo-nese Musashi, la più grande nave da battaglia del mondo, affondata dagli americani il 24 ottobre 1944.

In crociera. Utilizzando il proprio yacht personale co-me base operativa, Paul Al-len e il suo team hanno tro-vato la Musashi nel mare di Sibuyan, usando un ro-bot acquatico. La Musashi,

La corazzata sommersa

lenti, somma corrisposta con ben 13.500 monete. Passaggi di mano. La cifra, equivalente a 540mila dracme, era enorme: basti pensare che un operaio generico, all’epoca, ne per-cepiva 18mila all’anno. L’iscrizione, conservata nella McGill Library and Archives di Montréal con altri testi ancora inediti e in corso di studio, fu venduta negli anni Trenta del ’900 dall’antiquario Erik von Scher-ling, che a sua volta l’acquistò dallo spregiudicato cacciatore di antichi-tà Maurice Nahman. (s. z.)

DE A

GOST

INI/S

CALA

RARE BOOKS AND SPECIAL COLLECTIONS, MCGILL UNIVERSITY LIBRARY AND ARCHIVES

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novità e scoperte

Page 7: Focus Storia (Maggio 2015)

Fine ingloriosaL’àncora della

Musashi fotografata sul fondale. Sotto,

la corazzata sotto il fuoco che l’avrebbe

affondata (24 ottobre 1944) e la visita alla

nave dell’imperatore Hirohito nel 1943.

La birra della bisnonnaIn Finlandia sono state esaminate 4 bottiglie di birra trovate su un relitto affondato nel Baltico negli Anni ’40 dell’800: contengono batteri sopravvissuti per 170 anni.

5Fino al colloVenticinque tonnellate di escrementi di piccioni da pulire: erano all’interno di una torre medioevale di Rye, in Inghilterra. Stavano minacciando la stabilità dell’edificio.

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La corazzata sommersa Ben prima delle intercettazioni telefoniche, i reali inglesi erano

già finiti sotto il mirino dei curiosi. Nel suo diario la regina Vittoria (nella foto, ritratta all’età di 17 anni, nel 1836) esprimeva l’orrore per la sensazione di sentirsi osservata da invadenti giornalisti durante un picnic a Glencoe (Scozia), dove la famiglia reale trascorreva le vacan­ze. In mancanza di teleobiettivi, agli antenati dei paparazzi toccava usare il canocchiale: la sovrana aveva sorpreso un reporter mentre ne puntava uno su di lei. Raggiun­to da un domestico che chiedeva spiegazioni per il suo comporta­mento irrispettoso, il giornalista aveva risposto di avere lo stesso diritto della monarca di sostare là. Al che il servitore gli aveva ingiun­to di andarsene subito.Preziosa privacy. Questo e altri aneddoti della vita della famiglia reale compaiono nel libro More Leaves From The Journal Of A Life In The Highlands, from 1862 to 1882, tratto dai diari della regina Vittoria ed esposto nella mostra intitolata “Gold”, in corso al Palace of Holy­roodhouse di Edimburgo, dove se ne trova persino una traduzione in persiano miniata in oro. (g. l.)

Vittoria paparazzata

che aveva anche una gemel-la (la Yamato), fu costruita in gran segreto a Nagasaki e va-rata nel 1942. Era lunga 263 metri, alta quasi 40 e con una portata a pieno carico di 74mi-la tonnellate.

Quando fu colpita, circa la metà dei 2.399 uomini dell’e-quipaggio morì nell’affonda-mento. Allen, esploratore per passione, intende ora lavorare d’intesa con il governo giap-ponese per assicurare che il si-to del ritrovamento sia trattato con rispetto e in accordo con le tradizioni giapponesi. •

F.-Xavier Bernard

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TRAPASSATI ALLA STORIA

Il pavimento sul quale Ge-sù ha mosso i primi pas-si: uno studioso è certo di

averlo individuato a Nazareth in quella che fu la casa dove Gesù avrebbe trascorso la sua infanzia. Gli archeologi hanno ritrovato già nei decenni pas-sati i resti di un piccolo villag-gio agricolo del I secolo. Ora il britannico Ken Dark, dell’Uni-versità di Reading, è sicuro di avervi rintracciato la dimora della famiglia di Giuseppe. Il ricercatore ha analizzato nei dettagli la topografia del villag-

A Nazareth gli archeologi avrebbero scovato l’edificio dove visse l’infanzia.

È la casa di Gesù?

gio confrontandola con una se-rie di testi antichi, come il De locis sanctis di Adamnano di Iona (VII secolo).

Rintracciato. Nelle fonti si di-ce che l’abitazione era tra due tombe, presso una sorgente, e sotto una chiesa. E in effetti tracce di un edificio sono state trovate in mezzo a due tombe tra i resti di una chiesa bizan-tina costruita presso una sor-gente. Sarebbero rimasti intat-ti solamente la soglia d’ingres-so e la pavimentazione. •

Aldo Bacci

Mega-scavi nella metropoli

Gli amanti della cucina del Sol Levante conoscono bene la pratica boccetta di salsa di soia dal tappo rosso, della Kikkoman. Kenji Ekuan, morto all’età di 85 anni, la disegnò nel 1961 pensando alla scomo-da bottiglia da mezzo litro della madre.Monaco pentito. Diventato disegnatore dopo un’esperienza da monaco buddista, ha realizzato il design della moto Yamaha VMAX e di due treni, il superveloce Komachi e il Narita Express. Nel 2014 ha ricevuto il premio italiano Compasso d’Oro.

Chi ha più di 40 anni ricorda di sicuro il successone televisivo Uccelli di rovo. La miniserie si basava su un bestseller (1974) da 30 milioni di copie ven-dute. L’autrice, Colleen McCullough, è morta a 77 anni nella remota isola di Norfolk, nel Pacifico. Scienziata. Dapprima medico a Sydney e nel Regno Unito, fu poi ricercatrice di neuroscienze e docente di neurologia negli Stati Uniti. Tornata in Australia si dedicò alla narrativa, prima quella romantica, poi storica e “gialla”.

Grazie a lui, morto a 86 anni, le massaie italiane hanno risparmiato un sacco di fatiche. Nel 1946, infatti, inventò insieme al padre Eden e ai fratelli la prima lavatrice italiana.“Il signor Candy”. Scomparso il padre nel 1970, fu amministratore delegato e portò l’azienda di Brugherio (Mb) a operare con marchi internazio-nali come Candy e Hoover. Cavaliere del lavoro nel ’73, nel ’98 la regina Elisabetta lo fece Honorary Commander of the British Empire.

Personaggi sconosciuti che sono stati, in vita, protagonisti.

KENJI EKUANDisegnatore

COLLEEN MCCULLOUGH Scrittrice

PEPPINO FUMAGALLIImprenditore

A cura di Giuliana Lomazzi

Cristo a Nazareth in un’opera del XIV secolo. A sinistra, la presunta casa della sua famiglia.

Per una curiosa coincidenza, due cantieri edili aperti a Londra e

a Parigi sono all’origine di nuove scoperte archeologiche legate agli ospedali delle due capitali euro-pee. A Parigi, i lavori di ampliamen-to di un supermercato costruito sulle rovine dell’Ospedale della Tri-nità, fondato nel 1202 e demolito

nel 1817, hanno portato alla luce i resti di circa 200 scheletri, sepolti in una serie di fosse comuni. Decimati. A Londra, dagli scavi per una nuova linea ferroviaria sono emersi circa 3mila scheletri. Apparterrebbero a vittime della peste che colpì la città inglese tra il 1665 e il 1666 e che falcidiò un

quinto dell’intera popolazione (circa 80mila persone). I corpi erano stati sepolti in una fossa co-mune al Bedlam, il primo cimitero municipale al di fuori delle mura cittadine. Ospitava chi non poteva permettersi una tomba in chiesa o chi era stato discriminato per moti-vi religiosi o politici. (f.-x. b.)

Al lavoro nel cantiere parigino.

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novità e scoperte

Page 9: Focus Storia (Maggio 2015)

Dai Visconti agli Sforza

M ilano al centro dell’Europa. Que-sto è il sottotitolo e

il fulcro della prima mostra di Expo 2015, Arte lombarda dai Visconti agli Sforza, che riper-corre il ruolo storico di Milano e della Lombardia dal primo Trecento al primo Cinquecen-to, quando la città si affermò come una delle più importan-ti del continente.

Espansione. L’evoluzione manifatturiera e commercia-le e la progressiva espansione territoriale del ducato lombar-do ebbero forti benefici sullo sviluppo culturale della città. Tanto che la corte attrasse ar-tisti, scienziati e letterati. E fu sotto i governi dei Visconti e degli Sforza che sorsero im-portanti monumenti come il

Castello Sforzesco, il Duomo e Santa Maria delle Grazie.

Mecenati. In esposizione, a Palazzo Reale, si trovano più di 250 opere, frutto di un periodo che, gra-zie al mecenatismo dei duchi, raggiun-se vertici altissimi in tutti i campi: dal-la miniatura all’o-reficeria, dall’arte vetraria alla pittu-ra, dalla scultura all’architettura. La selezione di dipin-ti, documenti sto-rici, codici minia-ti, monete e gio-ielli illustra l’an-tica vocazione internazionale di Milano. •

MOSTRA URBINO

Studiolo rinatoDopo quasi 400 anni, i 28 dipinti di personaggi illustri (qui, Dante)sono stati ricollocati nello Studio-lo di Federico di Montefeltro.

Fino al 4/7. Palazzo Ducale. Info e prenotazioni: 06 32810, www.mostrastudiolourbino.it

EVENTO MILANO

Tutti a MilitaliaNell’ambito della più importante Fiera del Collezionismo Militare, Focus Storia Wars sarà presente con uno stand e i suoi esperti.

16-17/5. Novegro. Info: www.parcoesposizioninovegro.it/le-fiere-a-z/militalia.html

MOSTRA MILANO

A cura di Irene Merli

Fino al 28 giugno. Palazzo Reale. Info e prenotazioni: 02 0202, www.comune.milano.it/palazzoreale

FOTOGRAFIA

I cani-eroi della Grande guerraUna raccolta di fotografie e cartoline sul ruolo dei cani nella Grande guerra, come compagni dei soldati e come “lavoratori”.

Fino al 26/6. Bishopsgate Institute, www.bishopsgate.org.uk

LONDRA

SAGRE

La Sagra del pellegrinoSbandieratori e musici si sfidano nel Torneo del Pellegrino a colpi di evoluzioni ginniche.

26-27/4. Info: 0546 680808, www.prolocofaenza.it

FAENZA

Fermaglio con dromedario, di un maestro parigino (1400 circa).

Gloria a Dio Una pagina del Libro d’ore, fortemente voluto da Gian

Galeazzo Visconti.

agenda

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Page 10: Focus Storia (Maggio 2015)

A cura di Aldo Carioli, Marta Erba, Giuliana Rotondi e Daniele Venturoli

L’illustrazione qui sopra apparve su L’asino, rivista satirica italiana (di orientamento socialista) nata nel 1892. Malcostume politico e uso disinvolto della repressione fornivano abbondante materiale ai vignettisti del tempo. Ma niente eguagliò lo scandalo della Banca Romana, scoppiato proprio nel dicembre 1892.Corruzione. Nella vignetta si vede Giolitti che tenta di aggiustare i conti della Banca Romana attingendo ai fondi della cassa pensioni. I fatti risalivano al 1889, ma i risultati della commissione d’inchiesta furono presentati al parlamento sol-tanto pochi giorni prima del Natale 1892. La Banca Romana era uno dei sei istituti di credito italiani

autorizzati a emettere cartamoneta (la Banca d’Italia nascerà nel 1893, proprio a seguito di quei fatti). E dal 1889 nascondeva con carte false e coperture eccellenti (funzionari, politici, giornalisti) un “fondo nero” di banconote illegali pari a oltre 90 milioni di euro di oggi. Banconote fatte stampare in Inghilterra e usate per finanziare amici degli amici, coprire finanziamenti occulti e garantire simpatie influenti alla banca. Giolitti, che tentò di insabbiare il tutto, come denuncia la vignetta, fu costretto a dimettersi nell’autunno del 1893. Ber-nardo Tanlongo, governatore della Banca Romana e prototipo dei bancarottieri italiani, fu assolto nel 1894 con una sentenza altrettanto scandalosa.

IL MITOPANDORA era, secondo un mito narrato da Esiodo, la prima donna, creata da Efesto per ordine di Zeus, che voleva vendicarsi dopo che Prometeo aveva donato il fuoco agli uomini. Il vaso. Andata in sposa a Epimeteo (il fratello di Prometeo), Pandora recò con sé un contenitore (in alcune versioni del mito, un vaso) che aveva l’ordine di tenere chiuso. Ma, divorata dalla curiosità, decise di sol-levarne il coperchio (sopra, in un’illustrazione di fine ’800). Tutti i mali (vecchiaia, gelosia, malattie, pazzia, vizi) si diffusero tra gli uomini e il mondo si trasformò in un luogo desolato. Finché Pandora non decise di fare uscire anche la speranza, l’ultima rimasta nel vaso, permettendo agli uomini di tornare a vivere. Oggi l’espressione “aprire il vaso di Pandora” allude all’improv-visa scoperta di problemi a lungo nascosti, e alle conse-guenze che ne derivano.

PAROLE DIMENTICATE

Dal latino tardo pipio (“piccione”) indica un piccione giovane. In senso figurato è una persona ingenua, che si lascia facilmente raggirare; al plurale indica scherzosamente i testicoli.

P I P P I O N E

LA VIGNETTA

BASTA FURBETTI

FOTO

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microstoria

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Page 11: Focus Storia (Maggio 2015)

T O P T E N

Alcatraz (San Francisco, California)L’isola della baia di San Francisco è stata

la sede di un carcere di massima sicurezza. Tra gli “ospiti”, nel 1934, Al Capone.

6

Santo Stefano (Isole Ponziane)Costruito nel 1795 secondo i principi

del “panopticon”, sorge nel Tirreno; tra i detenuti, Sandro Pertini (nel 1930).

7

Carcere di Turi (Bari) Vi furono imprigionati diversi antifasci-

sti. Tra questi Antonio Gramsci, che qui scrisse i Quaderni del carcere.

Robben Island (Sudafrica) L’isola “delle foche” nel XX secolo

divenne prigione per detenuti politici. Vi fu rinchiuso Nelson Mandela.

Spielberg (Brno, Repubblica Ceca) Nella ex fortezza asburgica sono stati im-

prigionati vari patrioti italiani, tra cui Silvio Pellico, che vi scrisse Le mie prigioni.

Bastiglia (Parigi, Francia) Fortezza nel XIV secolo, divenne carcere

dal XVII. La sua “presa”, il 14 luglio 1789, innescò la Rivoluzione francese.

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3

2

1

I Piombi (Venezia) Prigione ricavata nel sottotetto (il tetto

era in piombo) del Palazzo Ducale: ospitò Giacomo Casanova che riuscì a evaderne.

8

Reading Gaol (Inghilterra)È il carcere inglese dove fu rinchiuso,

per circa due anni, il poeta e scrittore irlan-dese Oscar Wilde.

5

Mamertino (Roma)Risale all’VIII-VII secolo a.C. e vi furono

incarcerati Vercingetorige, re dei Galli, e Giugurta, re della Numidia (Nord Africa).

9

Isola del Diavolo (Guyana Francese)Ospitava un carcere, noto in Francia

come bagne de Cayenne. Vi fu rinchiuso, nel 1895, il capitano Alfred Dreyfus.

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LE PRIGIONI PIÙ FAMOSE

Il prezzo in dollari (pari oggi a 120 milioni di euro) al quale la Russia vendette l’Alaska agli Usa, nel 1867. 7,2MILIONI

IL NUMERO

È stato il giovanissimo Francesco Buttani di Visano (Brescia), di soli 10 anni, il lettore più veloce nell’indovi-nare l’oggetto misterioso del numero scorso: si trattava di una bilancia usata per pesare le uova, derivata della più nota bilancia pesalettere.

L’OGGETTO MISTERIOSOÈ di ferro ma ha un manico di legno. È lungo 36 centimetri, largo 19 e pesa circa 1 chilogrammo. Il manico è fissato a un’asta a vite che regolava l’apertura di una morsa. Per cosa si usava?Aspettiamo le vostre risposte, indicando anche la località, a: Focus Storia, via Battistotti Sassi, 11/a - 20133 Milano oppure a [email protected]

D.VI

TTIM

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VOCABOLARIO: CIPRIA

Il diffuso cosmetico usato per rendere vellutata la pelle e fissare il truc-co era chiamato, in origine, “polvere di Cipro”. Questo

perché l’isola del Mediterraneo era considerata l’isola di Venere, dea della bellezza, e la cipria

veniva utilizzata fin dall’antichità come cosmetico. Inoltre, la cipria dà alla pelle il colore del rame, in latino cuprum, termine da cui a sua volta deriva il nome di Cipro, isola sulla quale si estraeva il rame.

CHI L’HA DETTO?

La frase è attribuita a Mao Tse-tung (foto), dal 1949 presidente della Repubblica popolare cinese, noto per il ricorso alla repressione e ai lavori forzati a “scopo riedu-cativo”. Lo stesso slogan fu ripreso dall’organizzazione terroristica delle Brigate Rosse, che il 3 marzo 1972 fotografò l’ingegnere Idalgo Macchiarini, dirigente della Sit-Siemens, con un cartello al collo che diceva: “Mordi e fuggi. Niente resterà impunito. Colpiscine uno per educarne cento. Tutto il potere al popolo armato!”.

AFP/

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“Colpirne 1 per educarne 100” GETT

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Page 12: Focus Storia (Maggio 2015)

George Bryan Brummell (1778-1840) è considerato anco-ra oggi il primo dandy della Storia. In effetti il bell’ingle-se fu così carismatico e affascinante da imporsi e farsi ri-

cordare come un maestro di stile. Figlio di un impiegato inglese, frequentò Oxford e, favorito anche dalla protezione del principe

di Galles (il futuro Giorgio IV), si impose in città come ar-bitro dell’eleganza londinese. A contraddistin-

guerlo, una raffinata sobrietà nel vestire e un atteggiamento freddo e sprezzante.

British style. Il dandy fece subito scalpo-re, tanto più in un’epoca in cui dominava-no ancora i colori più sgargianti, si usava-no parrucche incipriate e l’igiene era cosa da donnette. Ma in cosa consisteva esatta-mente il suo trend? In quello che chiamia-mo “stile british”. Ovvero in armadi dove dominavano abiti blu, pantaloni lunghi a tubo e giacchette da frac. Bryan Brummell era poi maniaco dell’igiene. Si dice cambias-se una camicia al giorno e soprattutto non indossasse parrucche, come si usava allora.

Il tutto condito con un’attitudine all’arte e alla cultura e con pose sofisticate. Non a caso c’è chi ha visto in lui l’Ottocento che si affermava e seppelliva definitivamente le cor-ti del Settecento.

Ci fu un tempo in cui l’a-nestesia non esisteva. Per

ridurre la sofferenza fisica, si ricorreva ai metodi più sva-riati. In Mesopotamia,  per esempio, si narcotizzava il pa-ziente comprimendo le caroti-di per fargli perdere coscien-za. Tra gli antichi Egizi si usa-va la neve per ridurre la circo-lazione sanguigna e diminuire la sensibilità epidermica. Non si disdegnava però nemmeno la cosiddetta “pietra di Men-fi”, una pietra sbriciolata da mettere sulla ferita con effet-ti, si diceva, miracolosi.

Progressi. Se nel mondo ro-mano alla mandragola erano attribuite proprietà sedative, con il passare dei secoli si dif-fuse l’anestesia attraverso la somministrazione di hashish, oppio o alcool. Per l’aneste-sia vera e propria si dovette aspettare l’epoca dei lumi: è nell’ultimo decennio del ’700 che grazie alle sperimentazio-ni sul protossido d’azoto ci si avvicinò all’anestesia moder-na. Finché nel 1842 Crawford Williamson Long iniziò a usa-re con successo l’etere negli interventi chirurgici.

Siamo abituati a immagi-nare i filosofi del passato

chiusi nel loro mondo e as-sorti in ragionamenti concet-tuali e complessi. Difficilmen-te li pensiamo in balia degli effetti della cannabis, come sballoni un po’ freak. Eppu-re, nel 1932, i due tedeschi Ernst Bloch e Walter Benja-min, pensatori rigorosissi-mi e sistematici, si offriro-no volontari per esperimenti sull’hashish, con esiti in par-te divertenti: il primo credet-te di essere Rasputin, consi-gliere privato dello zar Nico-

la II di Russia. Benjamin im-maginò invece di partecipare a un colloquio tra Petrarca e Dante, mettendosi a parlare in italiano. 

Lo studio. In realtà il loro obiettivo non era sballare, ov-viamente. Volevano piuttosto condurre un’indagine cono-scitiva complessa sull’impat-to che le droghe avevano sul-la psiche. Walter Benjamin, in particolare, trascrisse poi sot-to forma di flussi di coscienza i verbali degli esperimenti fat-ti, successivamente pubblica-ti in volume.

Prima dell’anestesia

Il dandy che inventòlo “stile british”

A cura di Giuliana Rotondi

Fumate filosofiche

V. S

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curiosariocuriosario

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Page 13: Focus Storia (Maggio 2015)

RapidoThomas Harvey seziona il cervello di Einstein, il 18 aprile 1955, giorno della morte dello scienziato (nel tondo).

Anche la scienza ha le sue macabre reliquie. Nei musei scientifici di

tutto il mondo si trovano re-perti come il cervello del ma-tematico Carl Friedrich Gauss, lo scheletro del medico Cesare Lombroso, il dito medio della mano destra di Galileo Galilei. Alcuni hanno volontariamen-te donato il proprio corpo alla scienza, altri invece sono finiti loro malgrado sotto i riflettori. È questa la strana sorte tocca-ta al cervello di uno dei più po-polari scienziati di tutti i tem-pi, Albert Einstein.

Da secoli la scienza cerca di svelare il segreto della geniali-tà, alla ricerca di una partico-lare conformazione anatomica del cervello che possa essere ritenuta responsabile dell’ec-cezionale intelligenza di poe-ti, artisti e scienziati: una cor-teccia cerebrale più spessa, un corpo calloso più pronunciato, un lobo parietale anomalo. In molti sperano che i cervelli in formalina, pesati, misurati, dis-sezionati, scansionati, possa-no rivelare indizi sulla geniali-tà dei loro proprietari.

Contro la sua volontà. Esa-minare il cervello di Einstein era un’occasione da non per-dere: che cosa l’aveva reso un genio? Premio No-bel per la fisica e padre della teo-ria della relatività, Einstein lasciò la Germania nazista nel 1933 per tra-sferirsi negli Sta-ti Uniti. Convinto pacifista, di-ventò molto popolare. Per evi-

tare un morboso pellegrinaggio alla sua tomba, Einstein aveva disposto che i suoi resti venis-sero cremati e le sue ceneri di-

sperse in un luo-go segreto. Le cose, però, sa-rebbero andate diversamente.

Il 18 aprile 1955, all’età di 76 anni, Einstein

morì al Princeton Hospital, in New Jersey, per un aneurisma

aortico. Thomas Harvey, il pa-tologo in servizio quella notte, eseguì l’autopsia sul cadavere, rimuovendone il cervello sen-za un’autorizzazione ufficiale. Trapelata la notizia, il figlio di Einstein, Hans Albert, non po-té far altro che prenderne at-to. Chiese tuttavia che il cer-vello del padre venisse utiliz-zato esclusivamene per finali-tà scientifiche.

Licenziato dall’ospedale per essersi rifiutato di restituire il

maltolto, Har-vey vide stron-cata la propria carriera. Giallo. La vi-

cenda presenta an-cora oggi aspetti po-

co chiari. Difficile dire che cosa lo avesse spinto, dato che la sua versione dei fatti è cam-biata nel tempo. Potrebbe ave-re agito su richiesta del suo vecchio insegnante, il medi-co Harry Zimmerman, o esser-si ispirato allo studio condotto dal neurologo Oskar Vogt sul cervello di Lenin, oppure ave-re semplicemente colto l’occa-sione di stringere letteralmente “tra le mani” il cervello di uno dei più grandi geni dell’umani-tà. Quel che è certo è che nei mesi successivi Harvey scat-tò alcune fotografie dell’ecce-zionale reperto e preparò nu-merosi vetrini con fettine del-la materia cerebrale di Einstein (alcuni visibili oggi al Mütter Museum di Filadelfia). Il resto, sezionato in centinaia di pezzi, finì in barattoli di vetro.

Cervello in fuga. Il patologo non si separò facilmente dai resti dello scienziato. Solo ver-so la fine degli Anni ’90, dopo un incredibile viaggio in mac-china per gli Stati Uniti insie-me al reporter Micha el Paterni-ti, che ha raccontato quest’av-ventura nel libro Driving Mr. Albert, il cervello tornò nell’o-spedale dove tutto era iniziato. Negli anni sono stati pubblica-ti molti studi su quel cervello, ma la chiave della genialità di Einstein resta un mistero. •

Elena Canadelli

Nonostante tanti studi, il cervello di Einstein non pare “speciale”

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Il cervello più ricercato di tutti i tempi

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Page 14: Focus Storia (Maggio 2015)

’area Fermana è da sempre un territorio ricco di storia, cultura e bellezze paesaggistiche. Già nel Medioevo i Longobardi la posero a capo di un ducato in seguito trasformato dai Franchi

nella vasta Marca fermana. Basta ammirare il territorio per immergersi nella storia, av-venturarsi nelle vie e nei vicoli dei borghi per rivivere il Medioevo, rileggerne la storia nei suoi aspetti più accattivanti e meno noti, scoprire castelli, chiese romaniche di alto contenuto artistico con pitture murali del Duecento e Trecento raffiguranti immagini della religione cristiana. Alcune tradizioni collegate a fatti storici sono state recuperate e valorizzate in manifestazioni fortemente evocative, tra queste un particolare rilievo il “Palio dell’Assunta” che si tiene a Fermo, “I giorni di Azzolino”, che si svolge a Grottazzo-lina e “Torneo cavalleresco Castel Clementi-no” a Servigliano. Le rievocazioni si svolgono tutte in Agosto e si riferiscono a fatti storici del periodo medievale, dei secoli XII e XIII, diventando importanti occasioni per valoriz-zare il ricco patrimonio artistico-culturale, collegandosi ad una serie di itinerari turistici che si snodano nei Comuni dell’area rurale

(i Castelli della Marca Fermana medievale) e dell’entroterra della Provincia di Fermo.

Un’altra tematica storico-culturale che carat-terizza i Comuni dell’area rurale fermana, è legata ai Piceni, in alcuni di essi ci sono in-fatti tracce degli insediamenti di questa civil-tà, uno dei popoli più importanti dell’epoca pre-romana. Il progetto di promozione e va-lorizzazione turistica “Fermo medievale ed i suoi castelli” - cofinanziato dal GAL Fermano Leader nell’ambito del PSR Marche 2007-2013 - è focalizzato sui seguenti Comuni:

Fermo La Cavalcata dell’Assunta è considerato il Palio più antico d’Italia e si tiene ogni anno il 15 di Agosto. È del  1182  il primo documento che parla dell’obbligo di offrire un Palio da parte dei Castelli, in un periodo storico in cui Fermo era la città principale di un vasto territorio, la Marca Fermana, che si esten-deva sulle odierne province di Macerata, Fermo e Ascoli Piceno. Originariamente la Cavalcata era una solenne processione

religiosa che dalla chiesa di S. Lucia saliva in cattedrale, in seguito vi partecipano ma-gistrati, notabili, corporazioni e delegazioni dei numerosi castelli soggetti alla città. La città di Fermo conserva attualmente impor-tanti vestigia di epoca medievale. Il castello di Fermo sorgeva dove attualmente troviamo la spianata del Girfalco. Fu abbattuto alla fine del Quattrocento dalla furia popolare che lo identificava quale strumento di potere de-gli Sforza. Oggi sono visitabili le chiese (la Cattedrale, Sant’Agostino, Oratorio di Santa Monica, San Zenone, San Pietro) e gli edifici pubblici (il Palazzo dei Priori nella Piazza del Popolo, la Torre Matteucci) di epoca medio-evale. La frazione di Torre di Palme, di an-tiche origini picene, nel periodo medioevale

fu anch’essa un Castello di Fermo.  Un Meravi-glioso borgo medievale, conosciuto anche come “La terrazza dell’Adriati-co” per la sua posizione panoramica a picco sul mare.

Grottazzolina Borgo di origini picene e antico

Castello fermano, nel 1217 papa Onorio III concesse la marca ad Azzo VII (Azzolino) d’Este, signore di Ferrara. La manifestazione “I giorni di Azzolino” rievoca la figura sto-rica di Azzo VII e si tiene nel mese di Ago-sto di ogni anno. Il potente signore estense nell´anno 1225, contro la volontà di Rinaldo, Vescovo di Fermo, conquistò i tre castelli della Marca tra cui lo strategico fortilizio di Grottazzolina. La vicenda culminò col batte-simo della città, l´antica Cripta Canonicorum, diventando GruptaeAczolini.

Belmonte Piceno Antico borgo di ori-gini picene e romane, fu possedimento dei potenti monaci Farfensi fino al 1263, quando il Castello venne assoggettato a Fermo. Si ri-conosce ancora oggi la struttura medievale del borgo, al di fuori del quale si trova la chie-sa romanica di Santa Maria in Muris.

Monte Giberto Di epoca picena e roma-na, il borgo fin dal 1356 disponeva di una cin-ta muraria con quattro torrioni, due dei quali ancora esistenti. E’ ancora presente l’antica struttura urbana che si snoda secondo una caratteristica pianta compatta che fa conver-gere l’abitato sulla piazza principale.

Monsampietro e Morico Due antichi insediamenti di epoca picena, la fondazio-ne e l’attribuzione dei nomi Monsampietro Morico e Sant’Elpidio Morico risalirebbe al 1061 quando Malugero Melo, figlio del conte delle Puglie Dragone Normanno, dedicò i ca-stelli ai figli. Nel 1316 Sant’Elpidio Morico e nel 1317 Monsampietro Morico fecero atto di sottomissione alla città di Fermo. Nella frazione di Sant’Elpidio Morico è con-servato il magnifico polittico di Vitto-re Crivelli (1496).

Ponzano di Fermo Importante centro di epoca Farfense, i monaci vi avevano costruito un vasto insedia-mento rurale di cui rimane la pieve romanica di Santa Maria Mater Domi-ni (S. Marco). La chiesa di Santa Maria Mater Domini oggi è l’ambientazione principale del Festival di musica da camera “Armonie della sera” che si tiene nei mesi di Luglio e Agosto. Ponzano nel 1214 era un Castello di Fermo di una certa importanza, in quell’anno il marchese Aldo-vrandino, figlio di Azzo d’Este, confermava a Fermo i privilegi del conio, del monte e dei mercati. Nel 1570 Ponzano riacquista l’auto-

nomia e la manifestazione storica “1570, da Castello a Comune autonomo” rievoca tale accadimento, ogni anno nel mese di Luglio vengono proposti il corteggio storico ed il “Pa-lio delle botti” dove gareggiano le tre contrade del paese.

Servigliano Prende nome da Publio Ser-vilio Rullo, tribuno, il quale possedeva qui terreni intorno al 29 a. C. Durante il Medioevo

gli abitanti di Servigliano si trasferrono nella parte alta rispetto agli antichi stanzia-menti romani, La zona bassa rimase disabitata diventan-do un latifondo fino all’età longobarda quando venne inglobata dai monaci all’Ab-bazia di Farfa. Il Torneo Ca-valleresco di Castel Clemen-tino e la Giostra dell’anello sono sicuramente gli eventi

di grande importanza. Il Torneo si caratterizza per la contesa del Palio, a rendere dura e selettiva la competizione sono le quattro tornate, massacranti (per il binomio cavaliere-destriero), assicurando però un no-tevole spettacolo.

La Fermo medievale e i suoi castelli Per rivivere la storia nei suoi aspetti più accattivanti e meno noti in un contesto unico.

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Panoramica aerea di Fermo

SEGUIC I SU:

Rievocazioni storiche della tradizione Fermana

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Belmonte Piceno Grottazzolina Ponzano di Fermo Monsampietro Morico Monte Giberto Servigliano

Il palio di Servigliano

Il battesimo di Grottazzolina

FOCUS STORIAPROMO

fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale: l’europa investe nelle zone ruraliProgetto cofinanziato nell’ambito del Piano di Sviluppo Locale del Gal Fermano Leader - sottomisura 4.1.3.7 Promozione territoriale e certificazione d’area

Unione Europea / Regione Marcheprogramma di sviluppo rurale 2007-2013 unione europea

ministero politiche agricolealimentari e forestali

Page 15: Focus Storia (Maggio 2015)

’area Fermana è da sempre un territorio ricco di storia, cultura e bellezze paesaggistiche. Già nel Medioevo i Longobardi la posero a capo di un ducato in seguito trasformato dai Franchi

nella vasta Marca fermana. Basta ammirare il territorio per immergersi nella storia, av-venturarsi nelle vie e nei vicoli dei borghi per rivivere il Medioevo, rileggerne la storia nei suoi aspetti più accattivanti e meno noti, scoprire castelli, chiese romaniche di alto contenuto artistico con pitture murali del Duecento e Trecento raffiguranti immagini della religione cristiana. Alcune tradizioni collegate a fatti storici sono state recuperate e valorizzate in manifestazioni fortemente evocative, tra queste un particolare rilievo il “Palio dell’Assunta” che si tiene a Fermo, “I giorni di Azzolino”, che si svolge a Grottazzo-lina e “Torneo cavalleresco Castel Clementi-no” a Servigliano. Le rievocazioni si svolgono tutte in Agosto e si riferiscono a fatti storici del periodo medievale, dei secoli XII e XIII, diventando importanti occasioni per valoriz-zare il ricco patrimonio artistico-culturale, collegandosi ad una serie di itinerari turistici che si snodano nei Comuni dell’area rurale

(i Castelli della Marca Fermana medievale) e dell’entroterra della Provincia di Fermo.

Un’altra tematica storico-culturale che carat-terizza i Comuni dell’area rurale fermana, è legata ai Piceni, in alcuni di essi ci sono in-fatti tracce degli insediamenti di questa civil-tà, uno dei popoli più importanti dell’epoca pre-romana. Il progetto di promozione e va-lorizzazione turistica “Fermo medievale ed i suoi castelli” - cofinanziato dal GAL Fermano Leader nell’ambito del PSR Marche 2007-2013 - è focalizzato sui seguenti Comuni:

Fermo La Cavalcata dell’Assunta è considerato il Palio più antico d’Italia e si tiene ogni anno il 15 di Agosto. È del  1182  il primo documento che parla dell’obbligo di offrire un Palio da parte dei Castelli, in un periodo storico in cui Fermo era la città principale di un vasto territorio, la Marca Fermana, che si esten-deva sulle odierne province di Macerata, Fermo e Ascoli Piceno. Originariamente la Cavalcata era una solenne processione

religiosa che dalla chiesa di S. Lucia saliva in cattedrale, in seguito vi partecipano ma-gistrati, notabili, corporazioni e delegazioni dei numerosi castelli soggetti alla città. La città di Fermo conserva attualmente impor-tanti vestigia di epoca medievale. Il castello di Fermo sorgeva dove attualmente troviamo la spianata del Girfalco. Fu abbattuto alla fine del Quattrocento dalla furia popolare che lo identificava quale strumento di potere de-gli Sforza. Oggi sono visitabili le chiese (la Cattedrale, Sant’Agostino, Oratorio di Santa Monica, San Zenone, San Pietro) e gli edifici pubblici (il Palazzo dei Priori nella Piazza del Popolo, la Torre Matteucci) di epoca medio-evale. La frazione di Torre di Palme, di an-tiche origini picene, nel periodo medioevale

fu anch’essa un Castello di Fermo.  Un Meravi-glioso borgo medievale, conosciuto anche come “La terrazza dell’Adriati-co” per la sua posizione panoramica a picco sul mare.

Grottazzolina Borgo di origini picene e antico

Castello fermano, nel 1217 papa Onorio III concesse la marca ad Azzo VII (Azzolino) d’Este, signore di Ferrara. La manifestazione “I giorni di Azzolino” rievoca la figura sto-rica di Azzo VII e si tiene nel mese di Ago-sto di ogni anno. Il potente signore estense nell´anno 1225, contro la volontà di Rinaldo, Vescovo di Fermo, conquistò i tre castelli della Marca tra cui lo strategico fortilizio di Grottazzolina. La vicenda culminò col batte-simo della città, l´antica Cripta Canonicorum, diventando GruptaeAczolini.

Belmonte Piceno Antico borgo di ori-gini picene e romane, fu possedimento dei potenti monaci Farfensi fino al 1263, quando il Castello venne assoggettato a Fermo. Si ri-conosce ancora oggi la struttura medievale del borgo, al di fuori del quale si trova la chie-sa romanica di Santa Maria in Muris.

Monte Giberto Di epoca picena e roma-na, il borgo fin dal 1356 disponeva di una cin-ta muraria con quattro torrioni, due dei quali ancora esistenti. E’ ancora presente l’antica struttura urbana che si snoda secondo una caratteristica pianta compatta che fa conver-gere l’abitato sulla piazza principale.

Monsampietro e Morico Due antichi insediamenti di epoca picena, la fondazio-ne e l’attribuzione dei nomi Monsampietro Morico e Sant’Elpidio Morico risalirebbe al 1061 quando Malugero Melo, figlio del conte delle Puglie Dragone Normanno, dedicò i ca-stelli ai figli. Nel 1316 Sant’Elpidio Morico e nel 1317 Monsampietro Morico fecero atto di sottomissione alla città di Fermo. Nella frazione di Sant’Elpidio Morico è con-servato il magnifico polittico di Vitto-re Crivelli (1496).

Ponzano di Fermo Importante centro di epoca Farfense, i monaci vi avevano costruito un vasto insedia-mento rurale di cui rimane la pieve romanica di Santa Maria Mater Domi-ni (S. Marco). La chiesa di Santa Maria Mater Domini oggi è l’ambientazione principale del Festival di musica da camera “Armonie della sera” che si tiene nei mesi di Luglio e Agosto. Ponzano nel 1214 era un Castello di Fermo di una certa importanza, in quell’anno il marchese Aldo-vrandino, figlio di Azzo d’Este, confermava a Fermo i privilegi del conio, del monte e dei mercati. Nel 1570 Ponzano riacquista l’auto-

nomia e la manifestazione storica “1570, da Castello a Comune autonomo” rievoca tale accadimento, ogni anno nel mese di Luglio vengono proposti il corteggio storico ed il “Pa-lio delle botti” dove gareggiano le tre contrade del paese.

Servigliano Prende nome da Publio Ser-vilio Rullo, tribuno, il quale possedeva qui terreni intorno al 29 a. C. Durante il Medioevo

gli abitanti di Servigliano si trasferrono nella parte alta rispetto agli antichi stanzia-menti romani, La zona bassa rimase disabitata diventan-do un latifondo fino all’età longobarda quando venne inglobata dai monaci all’Ab-bazia di Farfa. Il Torneo Ca-valleresco di Castel Clemen-tino e la Giostra dell’anello sono sicuramente gli eventi

di grande importanza. Il Torneo si caratterizza per la contesa del Palio, a rendere dura e selettiva la competizione sono le quattro tornate, massacranti (per il binomio cavaliere-destriero), assicurando però un no-tevole spettacolo.

La Fermo medievale e i suoi castelli Per rivivere la storia nei suoi aspetti più accattivanti e meno noti in un contesto unico.

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Panoramica aerea di Fermo

SEGUIC I SU:

Rievocazioni storiche della tradizione Fermana

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Belmonte Piceno Grottazzolina Ponzano di Fermo Monsampietro Morico Monte Giberto Servigliano

Il palio di Servigliano

Il battesimo di Grottazzolina

FOCUS STORIAPROMO

fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale: l’europa investe nelle zone ruraliProgetto cofinanziato nell’ambito del Piano di Sviluppo Locale del Gal Fermano Leader - sottomisura 4.1.3.7 Promozione territoriale e certificazione d’area

Unione Europea / Regione Marcheprogramma di sviluppo rurale 2007-2013 unione europea

ministero politiche agricolealimentari e forestali

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L’architetto del

Progettò la Nuova Berlino, poi divenne responsabile della produzione bellica durante la guerra. E fu un fedelissimo di Hitler

Scenografie monumentali Un Reichsparteitag (raduno nazionale del partito nazista) a Norimberga nel 1937. L’architetto Albert Speer (1905-1981, a destra) fu l’artefice delle imponenti scenografie di quelle manifestazioni propagandistiche.

DIAVOLO

PERSONAGGI

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Progettò la Nuova Berlino, poi divenne responsabile della produzione bellica durante la guerra. E fu un fedelissimo di Hitler

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“Nei limiti in cui Hitler mi ha impartito degli ordini e io li ho eseguiti me ne sento responsabile, però

preciso anche di non aver eseguito tutti i suoi ordini”. È il 19 giugno 1946, sia-mo a Norimberga, nel tribunale alle-stito per giudicare i crimini nazisti. Al-la sbarra un uomo che nei giorni pre-cedenti aveva uno sguardo smarrito e il volto segnato dai tic nervosi: è Al-bert Speer, l’architetto del Terzo Reich.

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Speer infatti era stupito di essere tra gli imputati. Era convinto che i “tecnici” come lui non potessero essere ritenuti respon-sabili come gerarchi e politici nazisti. Lui non si era mai occupato di politica e con Hitler aveva condiviso solo grandi sogni: il primo, da architetto, era quello di una Ber-lino caput mundi (o Welthauptstadt, alla tedesca); l’altro, dal 1942, anno in cui fu nominato ministro degli Armamenti, era quello di vincere la guerra. Non si realiz-zarono né l’uno né l’altro e alla fine tutto si trasformò in un incubo.

ArchistAr Ante litterAm. Il giovane Speer era molto ambizioso e, una volta uscito dall’università, era, come affermò lui stesso, disposto a vendere l’anima al diavolo per diventare quella che oggi si di-rebbe un’archistar. La sua occasione arri-vò nel dicembre del 1930, a 25 anni, quan-do alcuni studenti lo convinsero a parte-cipare al comizio di un nuovo politico: Adolph Hitler, capo del partito nazionalso-cialista, che stava facendo proseliti nell’u-niversità. Albert aveva trovato il diavolo a cui vendere la propria anima.

Speer, schivo e introverso, proveniva da una famiglia borghese e liberale di Mannheim. Non amava la politica, ma nemmeno la odiava; semplicemente non voleva averci a che fare. Eppure, quel po-meriggio d’inverno, come racconta nelle sue Memorie del Terzo Reich (1971), lo se-gnò. Era diventato un’altra persona, capa-ce di provare vera ammirazione per Hitler, freddo ma appassionatamente votato alla causa della Germania. Si iscrisse al parti-to, e fu la sua fortuna professionale.

Iniziò con lavoretti in case e ville di esponenti del partito e quando Hitler pre-se il potere, nel gennaio del 1933, Speer era già suo fedele collaboratore. Arrivò fi-nalmente un incarico importante: Joseph Goebbels, ministro della Propaganda, gli affidò il rifacimento del palazzo del suo dicastero. Da quel momento la scalata fu inarrestabile e nel 1934 Speer divenne l’ar-chitetto ufficiale del partito.

Speer e Hitler passavano molto tempo a discutere di progetti che anche Hitler stes-

Hitler non di rado “fuggiva” dalla Cancelleria per recarsi nell’ufficio di Speer per parlare di nuovi progetti architettonici. Lo chiamava anche di notte

Riunione sul ValloNel 1943, Hitler e Speer parlano del Vallo Atlantico, che prevedeva una serie di fortificazioni lungo le coste dell’Europa Nord-occidentale.

1937-40 SPEER, SOPRINTENDENTE

ALL’URBANISTICA, PROGETTA GLI EDIFICI DELLA “NUOVA

BERLINO”, DI CUI POCHI REALIZZATI

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so disegnava, vagheggiando una nuova Germania, splendida e monumentale, si-mile all’antica Roma. E proprio come per Roma, le sue rovine avrebbero “parlato” ai posteri della grandiosità del Terzo Reich.

Ambizioni monumentAli. Hitler in archi-tettura aspirava al maestoso e al mai vi-sto: voleva lo stadio più grande del mon-do a Norimberga, il grattacielo più alto ad Amburgo, il più vasto stabilimento balne-are in Pomerania. Questa tendenza al mo-numentale si manifestava soprattutto in quella che avrebbe dovuto essere la Nuo-va Berlino, dove si progettò di abbattere 50mila edifici per fare spazio a enormi e sfarzosi palazzi del potere e della cultura (v. riquadro a destra).

“Ero alla ricerca di un architetto cui po-ter un giorno confidare i miei progetti edi-lizi”, disse Hitler a Speer. “Lo volevo gio-vane perché come lei sa questi progetti so-no proiettati nel futuro. Io ho bisogno che anche dopo la mia morte possa continua-re a percorrere questa strada con l’autorità che io gli avrò conferito. E l’ho visto in lei”.

Così, nel 1937, lo nominò soprintenden-te all’urbanistica e volle il suo ufficio vici-no alla Cancelleria, per poterlo raggiunge-re con discrezione ogni volta che lo desi-derava. Di giorno, ma anche di notte. Non di rado dopo la mezzanotte, Speer riceve-va una telefonata da casa Hitler: di solito era un aiutante che gli chiedeva se aves-se qualche nuovo progetto di cui parla-

Hitler non di rado “fuggiva” dalla Cancelleria per recarsi nell’ufficio di Speer per parlare di nuovi progetti architettonici. Lo chiamava anche di notte

POSE PLASTICHE Hitler osserva un plastico insieme a Speer, nel 1936. Il Führer voleva ricostruire le principali città tedesche.

GRANDI OPERE Nel 1937, Hilter con Fritz Todt, all’epoca ispettore alle strade;

a destra (indicato dalla freccia), il suo collaboratore Speer.

IL SOGNO DI UNA CAPITALE TUTTA NUOVA

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Ideare una nuova Ger-mania era per Hitler

uno dei “passatempi” a cui si dedicava con mag-gior piacere. Tra il 1937 e il 1940, con Speer lavorò molto sul progetto di una nuo-va Berlino, vero fiore all’occhiello del Terzo Reich. La capitale doveva essere attraversata da una lunga via, la “Strada Grande”. Sui suoi 5 km si sarebbero dovuti af-facciare i più importanti palazzi di rappresentaza del Reich e del partito. E poi aziende commerciali, musei, enti pubblici e alberghi di lusso.

Luoghi di cultura. Uno spazio era poi destinato all’intrattenimento e alla cultura. A metà della via erano previsti infatti il Palazzo dell’opera e tea-tri, uno per la prosa, uno per l’operetta e uno per il varietà. Un gigantesco cinematografo in grado di ospitare circa 6mila spettatori. All’inizio e alla fine della grande strada dovevano sorgere due maestosi edifici: una cupola, disegnata dallo

stesso Hitler, di 220 me-tri di altezza e 250 metri di diametro ispirata alla Basilica di San Pietro di Roma. Nella Volkshalle (Sala del popolo, sotto) si sarebbero potute radu-nare fino a 180mila per-sone. All’estremità op-posta, un Arco di Trionfo che avrebbe ridicolizzato quello di Parigi (50 m): alto 120 metri, avrebbe avuto incisi i nomi dei ca-duti tedeschi nella Prima guerra mondiale. Vicino alla cupola era previsto un monumentale Palaz-zo del Führer, concepito su modello di Palazzo Pitti a Firenze.

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Albert Speer al processo di Norimberga scampò alla pena capitale: fu condannato a 20 anni di carcere

re, poiché il Führer aveva bisogno di di-strarsi. Ma poi arrivò la guerra e con lei l’inaspettata (quanto sospetta) morte, nel 1942, di Fritz Todt, ministro degli Arma-menti, per il quale Speer aveva lavorato e di cui diventò, per ordine di Hitler stesso, il successore. Inizialmente perplesso vista la propria inesperienza di guerra, Speer si convinse in fretta: “Ricordo ancora qua-le sensazione di grandezza mi venisse dal fatto di poter disporre, con una firma, di miliardi e dirigere centinaia di migliaia di persone che lavoravano nei cantieri”.

Corsa agli armamenti. Speer, abban-donati riga e compasso, si buttò sul nuo-vo incarico. Tanto da prendere, nel 1943, il pieno controllo dell’apparato produt-tivo bellico tedesco. Godeva (cosa rara) della stima di Hitler e di un certo presti-gio nell’opinione pubblica per la sua ca-

pacità di amministratore. Per-fino un pezzo da novanta co-me Goebbels aveva mostrato per quell’uomo, un po’ incolo-re dal punto di vista dell’ideo-logia, una certa ammirazione, tanto da considerarlo un “au-tentico nazionalsocialista”.

La strategia di Speer come ministro era proteggere, delo-

calizzandole, le industrie che producevano pezzi indispensabili per i mezzi da guer-ra. Per esempio i cuscinetti a sfera. Era-no prodotti in maggioranza nel territorio di Scheinfurt. Il bombardamento del 1943 su quella zona provocò la riduzione della produzione del 40%. La strategia degli Al-leati era quella di bombardare le città te-desche per demoralizzare la popolazione concentrandosi poco sugli obiettivi sensi-bili, come le fabbriche di armamenti. Que-sto, sommato allo sfruttamento del lavoro coatto di deportati e prigionieri (dopo l’8 settembre 1943 tra questi anche molti sol-dati italiani internati), portò a una gran-dissima produzione di armamenti. Troppi. Nell’estate del 1944 la situazione era para-dossale. La Germania al tracollo in guerra toccò il suo apice nella produzione bellica suscitando un senso di euforia prima della

Un architetto agli armamentiSpeer negli Anni ’40 parla in uno stabilimento di produzione bellica. Abile simulatore, oltre che stretto collaboratore di Hitler, riuscì a conquistarsi la fiducia di molti dirigenti del settore.

1942 PER VOLERE DI HITLER

SPEER DIVENTA MINISTRO DEGLI

ARMAMENTI

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Albert Speer al processo di Norimberga scampò alla pena capitale: fu condannato a 20 anni di carcere

fine: erano stati prodotti equipaggiamenti per 270 divisioni e la Wehrmacht ne con-tava a malapena 150.

Fu allora che iniziarono gli screzi: Speer non era d’accordo sulla strategia bellica e chiese (inascoltato) di bombardare le in-dustrie nemiche, in particolare quelle so-vietiche. Gli alti comandi invece si concen-trarono sulla battaglia aerea, che nei piani di Hitler avrebbe dovuto servirsi di mez-zi e armi nuovi. Speer, anni dopo, affermò che quella nei cieli fu “la più grande bat-taglia perduta” dai tedeschi nel conflitto.

Fine dell’idillio. Con il crollo sul fronte occidentale, nell’agosto del 1944 Hitler di-chiarò: “Se il popolo tedesco dovesse usci-re sconfitto dalla lotta questo vorrebbe di-re che non avrà saputo superare la prova impostagli dalla Storia, e quindi non po-trebbe che essere votato alla fine”. La ca-rica distruttiva del nazismo stava per ri-volgersi contro il popolo tedesco e Speer avrebbe dovuto esserne l’esecutore mate-riale: doveva smantellare gli stabilimenti per la produzione di energia. Ma era solo l’inizio, il Führer ordinò la distruzione di

industrie, magazzini di provviste, centrali telefoniche, documenti anagrafici, bancari e catastali, monumenti e fattorie. Il nemi-co avrebbe dovuto trovare solo il “deser-to”. Speer disattese i suoi ordini fingendo di credere che il Reich, non ancora scon-fitto, avrebbe ripreso in mano le sorti del-la guerra. I due però erano ormai ai ferri corti. Secondo quanto Speer ha affermato a Norimberga, pensò perfino di uccidere il

Führer (ma non ci sono prove) im-mettendo gas nell’impianto di ae-razione del bunker di Berlino. Era il 1945 e, con il nemico alle por-te, l’ex architetto decise di pensa-re solo alla sopravvivenza. Man-dò la moglie e i sei figli da un ami-

co nello Schlewig-Holstein, lui li avrebbe poi raggiunti. Non prima di aver incontra-to per l’ultima volta Hitler nel bunker, po-co prima che si suicidasse.

Nel maggio ’45 Speer fu arrestato dagli Alleati e processato un anno dopo. Con-dannato a 20 anni di carcere poiché aveva ammesso le sue responsabilità e perché, a suo dire, non sapeva ciò che avveniva nei lager. Scarcerato nel ’66 fu travolto dalle polemiche: la sua difesa a Norimberga e le sue Memorie per molti storici minimizza-no il ruolo che ebbe nei crimini nazisti. •

Federica Ceccherini

IL PROCESSO A Norimberga nel 1946,

nonostante il parere contrario dell’avvocato, decise di assumersi

la responsabilità dei fatti.

FUORI DAL CARCERE Speer nel 1971, nella casa di Heidelberg dove visse dopo

aver scontato 20 anni nel carcere di Spandau (Berlino).

LA CATTURADa sinistra, Speer, l’ammiraglio

Karl Dönitz e il generale Alfred Jodl nel 1945, arrestati dagli Alleati.

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Come sono nati il pesto, gli spaghetti, la polenta, lo zampone, il tiramisù e la pizza? Le sorprese dei piatti che ci hanno resi famosi sulle tavole del mondo

Simbolo nazionale

Il mercato italiano, dipinto da Jean

Mieg (1791-1862), con gli immancabili

spaghetti.

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Come sono nati il pesto, gli spaghetti, la polenta, lo zampone, il tiramisù e la pizza? Le sorprese dei piatti che ci hanno resi famosi sulle tavole del mondo

Dal caffè all’espressoIl caffè entrò in Europa passando per Ve-nezia. Il primo a notare la “nera bevan-da”, nel 1573, fu Costantino Garzoni, già ambasciatore della Serenissima a Costan-tinopoli. Ma sino a fine Ottocento il caf-fè si beveva “alla turca”, cioè in infusio-ne. Proprio in Italia si inventarono inve-ce le varie macchine a percolazione: per prima la napoletana, verso metà XIX se-colo, poi i grandi apparecchi da bar e in-fine, nel 1933, la Moka Express Bialetti.

In realtà, già nel 1910 fu brevettata la Victoria Arduino, primo successo globale nella storia delle macchine da caffè. Nac-que pensando alle caldaie delle locomoti-ve a vapore: Pier Teresio Arduino, il suo ideatore, era stato infatti arruolato nel ge-nio ferrovieri. Alfonso Bialetti concepì in-vece la sua Moka guardando la moglie fa-re il bucato. Al tempo si usava una spe-cie di pentolone, con all’interno un tubo da cui l’acqua, quando bolliva, fuoriusci-va per poi scendere spargendosi sui pan-ni. Infine Alfonso Gaggia, a Milano, nel 1948 mise a punto la prima macchina per l’espresso-crema, come lo beviamo anco-ra oggi al bar.

Cotoletta alla milanese. Anzi noLa prima citazione della Wiener Schnit-zel è del 1831, la prima della cotoletta al-la milanese è del 1855: questo valga a smentire le fandonie che si raccontano

Non si sa chi per primo abbia mescolato pane casereccio

raffermo, formaggio, uova e brodo, ma la tradizione lega questo piatto a Francesco I. Nella Battaglia di Pavia (1525), il re di Francia guidava l’esercito contro le armate dell’imperatore Carlo V. Stremato, il re fu cattura-to nei pressi del muro del parco visconteo e portato lì vicino alla

cascina Repentita. I contadini assecondarono la sua richiesta di mangiare qualcosa di caldo mettendo insieme ciò che avevano in casa: brodo di borra-gine, pane raffermo, formaggio e uova. La zuppa piacque al re tanto che, ritornato in Francia dopo un anno di prigionia, die-de ordine ai suoi cuochi di pre-parargli la “soupe à la pavoise”.

Piatto toscano, nella sua ver-sione originale era a base di

rigaglie di pollo cotte nel brodo insieme a uova sbattute e succo di limone. Ne era ghiottissima Caterina de’ Medici, dal 1533 regina di Francia: una volta mangiò tanto cibreo da rischiare di morire per indigestione. Ma più che l’origine del piatto in questo caso è interessante citare

l’etimologia del nome. Sembra infatti che derivi dall’antico francese civet (intingolo) a sua volta derivato da cive (cipolla), ingrediente oggi scomparso dalla ricetta. Oppure dal latino gigeria, che indicava gli intestini del pollo. La parola è passata poi a indicare, in senso figurato, un discorso sconclusionato. O, in ambito culinario, un guazzetto.

ZUPPA ALLA PAVESE CIBREO

sulle origini di queste due ricette molto simili, ma forse nemmeno parenti.

La favola del feldmaresciallo Radetzky che magnifica a Vienna la cotoletta de-gustata a Milano è una “bufala” ripor-tata nel 1963 da un giornalista siciliano di origine e milanese di adozione, Felice Cunsolo. La storiella sarà poi immortala-ta nel 1969 dalla Guida gastronomica d’I-talia del Touring Club (autore: Cunsolo). In realtà la cotoletta milanese nacque a Parigi, dove in un ricettario del 1746 ri-troviamo una cotoletta impanata e cotta sulla griglia. La ricetta fu tradotta in ita-liano una ventina d’anni dopo e giunse a Milano passando per Torino. Nel 1855 lo chef Giuseppe Sorbiatti le diede l’asset-to definitivo: “Costoline di vitello fritte al-la milanese”.

Mozzarelle da buongustai“Mozzarelle fresche romanesche” scri-ve Bartolomeo Scappi nella sua Opera (1570). Fu allora che il formaggio a pasta filata di latte bufalino entrò ufficialmen-te nella gastronomia italiana. Scappi ci-ta anche la “neve di latte”, probabilmen-te il fior di latte, formaggio a pasta filata di latte vaccino. A chiamare “mozzarel-la” anche quest’ultimo formaggio furono gli industriali del Nord, nel 1942, con un colpo di mano ai danni di quelli del Sud.

Un impulso fondamentale alla produ-zione di mozzarella lo diedero i Borbo-

ne, che verso la metà del Settecento co-struirono la Reale industria della Pagliara delle bufale di Carditello, primo caseificio nella storia di questo formaggio. Soltan-to negli anni Trenta del ’900, con l’arri-vo della ferrovia e dei carri refrigerati, di-venne possibile per la mozzarella lascia-re i luoghi d’origine e affacciarsi sul mer-cato nazionale.

Parmigiano... piacentinoCi fu un tempo in cui il grana di quali-tà era detto piacentino e non parmigia-no reggiano, come si chiama oggi. Lo sapevano i veneziani, che omaggiava-no il sultano ottomano con forme di “ca-cio piacentino”, e lo sapeva l’imperatore Carlo V che nel 1527 volle vedere di per-sona la confezione della forma che i pia-centini intendevano regalargli. Il “pia-centino” era ben conosciuto. Lo cita Boc-caccio, quando descrive la contrada di Berlinzone (ovvero il “paese di Cucca-gna”), dove “eravi una montagna tut-ta di formaggio parmigiano grattugiato”. E durante il rovinoso incendio di Lon-dra, nel 1666, tal Samuel Pepys, segreta-rio dell’Ammiragliato, scavò una buca in giardino per salvare dalle fiamme le sue forme di grana.

La svolta arrivò nell’Ottocento, quan-do sia Piacenza sia Lodi abbandonaro-no quasi del tutto la produzione di for-maggio grana per dedicarsi ai più reddi-

made in Italy

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tizi formaggi freschi (e a Lodi si inventa il mascarpone). Così il primato venne la-sciato a Parma, Reggio e Modena.

Pesto, il rinfresco dei marinaiDopo mesi e mesi di mare, mangiando puzzolenti alimenti mal conservati e gal-lette dure come il legno imbevute nell’ac-qua putrida o nel vino andato in aceto, consumare un po’ di erbe verdi e pro-fumate doveva essere una specie di mi-raggio. È probabile che l’origine del pe-sto sia da cercare proprio nel desiderio dei marinai genovesi, e in generale ligu-ri, di mettere finalmente in bocca qual-cosa di fresco e gradevole. Qualcosa che poteva essere coltivato nei vasi collocati sui balconi degli stretti caruggi (i vicoli di Genova): il basilico.

La prima ricetta conosciuta risale al

1863, ma l’uso del mortaio per “pestare” ingredienti (da cui il nome pesto) è ben più antico, almeno rinascimentale. Le ci-tazioni più antiche mostrano una prepa-razione non codificata come oggi: po-tevano essere usate noci anziché pino-li, maggiorana o prezzemolo al posto del basilico, addirittura formaggio olandese invece del pecorino.

La pizza di EneaL’origine della pizza è antichissima e... greca. In principio serviva da piatto: lo spiega Virgilio, che nell’Eneide descrive i Troiani così affamati da mangiarsi le sto-viglie, ovvero le focacce su cui erano ap-poggiati gli alimenti. In Italia la portaro-no i Greci: a Napoli, capitale della Magna Grecia, e nella versione non lievitata – la piadina – a Ravenna, capitale dell’esar-

L’invenzione di questa ricetta è attribuita al cuoco di Na-

poleone, Dunand figlio, dopo la vittoriosa Battaglia di Marengo (1800). I carri con le provviste erano lontani ma il Còrso aveva fame. Sarebbe così nato un piat-to povero, realizzato con quello che si riusciva a trovare nelle campagne devastate, usando salnitro e polvere da sparo per

salare il pollo. Giovanni Vialardi, cuciniere di Casa Savoia, intorno alla metà dell’800 pubblicò poi una delle prime ricette del pollo “alla Marengo”. Da allora nacque un profluvio di versioni. E se oggi si chiede il pollo alla Ma-rengo, in genere arriva in tavola la rielaborazione del celebre Escoffier, con gamberi, funghi e pomodori.

La storia di una battaglia, o meglio di un assedio, è legata

anche alle origini di un prodotto che oggi vanta il prestigioso marchio Igp: lo Zampone Mode-na. Potrebbe infatti essere nato nel 1511, in occasione dell’asse-dio di papa Giulio II a Mirandola (Mo). Quando l’assedio era solo una minaccia, nell’inverno tra il 1510 e il 1511, i cittadini della

località avrebbero portato in cit-tà, feudo della famiglia Pico, un gran numero di maiali. Il cuoco dei Pico pensò poi di conservar-ne la carne, macinata e speziata, all’interno delle zampe stesse dei suini e in un budello ricavato dagli intestini. Sarebbero così nati due degli insaccati più fa-mosi di quell’area: lo zampone e il cotechino.

Il mais fu usato a lungo come mangime: furono le carestie a spingere i contadini a usarlo per la polenta. E la passata la inventò un piemontese

cato bizantino.A Napoli la pizza si trasformò in cibo di

strada. Si mangiava condita con lardo, su-gna (strutto) o pesciolini. Il pomodoro è un’aggiunta ottocentesca, epoca in cui pe-rò si metteva sopra (e non sotto, come og-gi) alla mozzarella. Quando la regina Mar-gherita di Savoia si recò in visita a Napo-li, nel giugno 1889, Raffaele Esposito fu chiamato nella reggia di Capodimonte do-ve preparò tre pizze. Quando gli chiesero come si chiamasse quella che era piaciuta di più alla sovrana, rispose senza esitare: “margherita”. La pizza pomodoro, moz-zarella e basilico esisteva già, ma Esposito ebbe la prontezza di battezzarla.

La “torta di mais”: la polentaQuando il mais giunse dall’America, gli europei non sapevano che cosa farsene:

Da sinistra, manifesto di un parmigiano reggiano (1930), venditrice ambulante di caffè (1850) e venditori di polenta nel XVII secolo.

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II biancomangiare è una ricetta di origine orientale. Può essere

dolce o salato, l’importante è che gli ingredienti non ne ro-vinino il candore garantito dai due ingredienti principali, latte e mandorle, cui si aggiungono lardo, zucchero, pollo e altro. Questo piatto può essere stato portato in Italia dagli Arabi, quando conquistarono la Sicilia,

ma può anche essere arrivato dalla Francia: nei ricettari più antichi è indicato con termini francesi come blanche mangieri, balmagier o bramagère. Da noi si è diffuso intorno all’XI secolo, e sarebbe stato servito durante il grandioso banchetto organiz-zato da Matilde di Canossa per celebrare la riconciliazione tra papa Gregorio VII ed Enrico IV.

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Napolistreet foodUn pizzaiolo napoletano in una stampa italiana del 1820 circa. La pizza si mangiava per strada.

lo trattarono come una curiosità da raffi-gurare in festoni dipinti a motivi di frutta e ortaggi. Fu Giovanni da Udine a dipinge-re le prime immagini europee di pannoc-chie nel 1517, nella Villa Farnesina di Ro-ma. A metà Cinquecento, è vero, si colti-vava mais nel Polesine, e presto la coltura si diffuse nelle pianure ricche d’acqua del-la pedemontana veneta, friulana e in parte lombarda. Ma per parecchi decenni il mais rimase un mangime per animali.

Quanto alla polenta, ottenuta però con farina di farro o altri cereali bolliti nell’ac-qua, era conosciuta già dai Romani: la chiamavano puls. Nel Medioevo si passò a farine di ogni tipo. Lo testimonia la “po-lenta bigia”, di grano saraceno, citata da Alessandro Manzoni nei Promessi sposi. Ci vorranno fame e carestie per convincere gli esseri umani a nutrirsi di quel cibo per le bestie: nel 1634 i contadini del bellune-se furono tra i primi a riempirsi la pancia con polenta di mais. Il che, alla lunga, re-se endemica la pellagra, una malattia cau-sata da carenze vitaminiche legate appun-to alla cottura della farina di mais.

La lunga attesa della passataTra i nuovi alimenti arrivati da Oltreocea-no dopo il 1492, il pomodoro fu l’ultimo a entrare nelle abitudini alimentari. Non so-migliava a nulla di esistente e non sazia-va, come facevano polenta di mais e pa-tate. Così, la prima citazione della salsa di pomodoro è del 1690; e per trovarla abbi-nata alla pasta si dovette aspettare il 1839.

Dopo l’Unità d’Italia, ai pomodori col-tivati nell’ex Regno delle Due Sicilie si aprirono i mercati settentrionali. A Parma qualcuno ebbe una brillante idea: prepa-rare concentrato e conserva di pomodoro su scala industriale. Il perché è presto det-to. Prima dell’avvento della refrigerazio-ne, il maiale si lavorava soltanto d’inver-

no. Gli operai dei prosciuttifici e dei salu-mifici d’estate restavano disoccupati. Met-terli a lavorare sui pomodori, che proprio d’estate maturano, sembrava la quadra-tura del cerchio. La prima azienda di tra-sformazione aprì nel 1874 a Felino (Par-ma), località oggi nota per il salame. E fu un piemontese, Francesco Cirio, a metter-si a inscatolare pelati.

Spaghetti: italiani o cinesi?È uno dei dubbi amletici della gastrono-mia nostrana: gli spaghetti sono cinesi o italiani? La risposta non è semplice. Su chi sia stato il primo a produrre vermicel-li non dovrebbero esserci dubbi: nel 2005 un archeologo ha rinvenuto in Cina, a Lajia, sul Fiume Giallo, una ciotola al cui interno c’erano alcuni fili di pasta ancora ben conservati, risalenti al 4000 a.C. Lun-ghi, gialli e di farina di miglio, quei primi spaghetti si sono subito dissolti, lascian-do appen ail tempo di scattare una foto.

Non si sa se quei vermicelli abbiano poi viaggiato lungo la Via della Seta giungen-do in Italia, o se siano stati inventati au-tonomamente dalle nostre parti. La paro-la greca itrion (pasta cotta in acqua) com-pare nel Talmud nel VI secolo. La ritro-viamo, arabizzata in itriyya, nel Libro di Ruggero del geografo al-Idrisi (1154). E a Trabia (Palermo), si produceva lo stesso tipo di pasta: oggi in siciliano tria indica i capelli d’angelo. Da lì gli spaghetti partiro-no alla conquista dell’Italia intera.

Tiramisù, l’ultimo arrivatoL’ultimo nato tra i portabandiera della cucina italiana ha bruciato le tappe: de-buttò nel 1970 ma il tiramisù oggi è, con pasta e pizza, uno dei cibi italiani più co-nosciuti nel mondo. In Giappone è ad-dirittura al primo posto: sono tutti paz-zi per il “tilàmizu”, come più o meno lo

pronunciano a Tokyo e dintorni. Il pa-dre è (quasi) certo: Roberto Linguanot-to, detto Loli, al tempo cuoco del risto-rante Alle Beccherie di Treviso. Loli im-provvisa un dolce per “tirar su” la nuo-ra della proprietaria dalla debolezza post partum. Aggiunge mascarpone al classico uovo sbattu-to (che “tirava su” anche ai tempi di Casanova), colloca il tutto su savo-iardi imbevuti nel caf-fè (variazione della zup-pa inglese, che vuole l’al-chermes) e il gioco è fat-to. Ma questa paternità è contestata: i discendenti dei titola-ri del ristorante Roma di Tolmezzo (in provincia di Udine), ora chiuso, ri-vendicano il primato e per questo hanno avviato un’azione legale. •

Alessandro Marzo Magno

(ha collaborato Daniele Venturoli)

BIANCOMANGIARE

S+APERNE DI PIÙ

Il genio del gusto, Alessandro Marzo Magno (Garzanti). Come il mangiare italiano ha conquistato il mondo.

Page 26: Focus Storia (Maggio 2015)

LE MANI SU

I rapporti fra gli Stati Uniti e l’isola caraibica hanno conosciuto alti e bassi. A cominciare dalla fine

dell’Ottocento, con la guerra ispano-americana

Le relazioni fra Stati Uniti e Cuba, torna-te di attualità dopo la distensione avvia-ta dal presidente Barack Obama, hanno radici lontane. Più che centenarie. Era

il 1898 quando gli Usa intervennero a Cuba, li-berando l’isola occupata dagli spagnoli. Passato alla Storia come Guerra ispano-americana, quel conflitto segnò il debutto dell’ingerenza armata statunitense, ma fu l’ultimo atto di un braccio di ferro che durava da decenni, fra gli indipenden-tisti cubani e la Corona spagnola.

Contro Madrid. Tre anni prima, nel 1895, nell’allora colonia spagnola gli indipendentisti avevano alzato il livello della rivolta, nella spe-ranza di porre fine al regime imposto da Madrid. O almeno di provocare un intervento degli ame-ricani a tutela dei loro investimenti nell’isola. La Spagna non rimase a guardare. Inviò il genera-le Valeriano Weyler, noto come “il macellaio” per i suoi brutali metodi repressivi. Terrà fede al suo soprannome costringendo buona parte del-la popolazione in campi di concentramento, do-ve i cubani moriranno a migliaia.

La stampa statunitense raccontò con dovizia di particolari, anche falsi, gli orrori che si consu-mavano al largo della Florida. Lo scopo era cre-are un’opinione pubblica favorevole a un “inter-vento umanitario”. La guerra mediatica, una del-le prime documentate, riuscì nel suo in-tento. Le voci sulle violenze furono sfruttate dal “giornalismo giallo”, chiamato così dal nome di Yellow Kid, personaggio dei fumetti che quei giornali si contendevano. Erano quotidiani che attraverso sensazionalismo, immagini, titoli

a caratteri cubitali, fumetti e un prezzo sempre più basso si erano imposti come i più venduti.

reMeMber the Maine. Non furono però i gior-nali a far entrare in guerra gli Stati Uniti. Preoc-cupato per la situazione, il governo americano nel gennaio del 1898 aveva deciso di inviare a Cuba la corazzata Maine. Avrebbe dovuto esse-re una missione di pace, con il compito di rac-cogliere informazioni e di mettere in salvo i cit-tadini americani. La notizia dell’imminente ar-rivo di una nave da battaglia rese ancora più te-si i già difficili rapporti tra Stati Uniti e Spagna.

Il 15 febbraio, mentre si trovava nelle acque della baia dell’Avana, la nave esplose provo-cando la morte di 266 americani. Per la stampa fu facile addossare la responsabilità a una mina spagnola, nonostante la mancanza di prove. La vicenda non sarà mai del tutto chiarita: le ipo-tesi, oggi, vanno dalla deflagrazione accidentale fino all’autosabotaggio con lo scopo di giustifi-care l’intervento. Comunque fosse andata, “Re-member the Maine! To Hell with Spain!” (“Ri-cordate il Maine! All’inferno la Spagna”) diven-tò il grido di battaglia degli interventisti.

In realtà, il nuovo presidente repubblicano William McKinley, eletto nel 1896, era contra-rio alla guerra. Proprio come il suo predeces-sore democratico, Grover Cleveland. E contra-

ri erano anche i suoi più importanti so-stenitori, gli affaristi di Wall Street,

per i quali il conflitto rischiava di danneggiare l’economia america-na in ripresa dopo i recenti anni di crisi. McKinley finì per cedere al Congresso e a repubblicani co-

me il giovane Theodore Roosevelt,

CUBA

1898Gli Stati Uniti, dopo

l’affondamento del Maine, entrano in guerra contro

la Spagna.

NOVECENTO

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Page 27: Focus Storia (Maggio 2015)

Casus belli A destra, il Maine affondato.

Sotto, la carica americana nella battaglia di San Juan

(1° luglio 1898), vittoria che trasformò Cuba in

protettorato statunitense.

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La “guerra gialla” dei giornali americani

suo successore alla Casa Bianca e al tempo vi-ce ministro della Marina. Come accadrà anche in seguito sulle questioni cubane, il presiden-te veniva attaccato dagli interventisti per la sua “debolezza” e “mancanza di carattere”. Gli in-terventisti avevano le idee chiare: la tradiziona-le politica isolazionista americana andava ab-bandonata e gli Stati Uniti dovevano avere un ruolo ben maggiore sullo scacchiere. La guerra per Cuba era solo un tassello di una politica più ampia. E infatti, appena scoppiato il conflitto, la flotta americana nel Pacifico attaccherà un’altra colonia spagnola: le Filippine.

Fase due. Ma perché proprio Cuba finì nelle mire degli interventisti? Intanto per eliminare la presenza di una potenza europea a poche mi-glia dalla costa (che decenni dopo, con Castro, diventerà una potenza comunista nel “cortile di casa”). Poi per la volontà di tutelare i propri in-teressi nei Caraibi, che si intrecciavano con l’e-spansionismo statunitense in generale. Come ha ricostruito la storica Alessandra Lorini nel suo L’impero della libertà e l’isola strategica (Liguo-ri), una volta raggiunta con i propri confini la

In contemporanea gli Stati Uniti sfidarono la Spagna nelle Filippine. Con Cuba, diventeranno teste di ponte strategiche per la nuova potenza Usa

Prima il New York World di Joseph Pulitzer, poi

anche il New York Journal (a sinistra, il numero in cui si insinua che il Maine fosse stato affondato da una mina spagnola) di William Randolph Hearst: pur di far lievi-tare le tirature, inven-tavano di sana pianta le notizie da Cuba.

Il ruolo del “giornalismo giallo” (yellow journalism) nella campagna interven-tista fu tale che presto si diffuse l’espressione “guerra gialla”. Il World e il Journal so-prattutto, con articoli e immagini sensazionali vendute ai giornali delle altre città americane, tra-sformarono l’insurrezione

cubana in un dramma nazionale. Forzature. La situazione a Cuba era presentata dai “giornali gialli” nei termini di un’oppressio-ne feudale, imposta da una potenza cattolica e dispotica con un bagno di sangue che non rispar-miava donne e bambini. Le autorità spagnole rea-

costa del Pacifico gli Stati Uniti non potevano più contare sulla valvola di sfogo che per decen-ni era stata offerta dalla frontiera verso l’Ovest, ormai del tutto colonizzato. Per non pochi po-litici, intellettuali e uomini d’affari, si era chiu-sa la prima fase della storia americana, ed era giunto il momento, per continuare a prosperare, di aprire la seconda. Una visione che promette-va materie prime e nuovi mercati per lo straor-dinario sviluppo dell’industria nazionale.

Inoltre, dato che secondo le teorie al tempo influenti le grandi potenze mondiali sarebbe-ro state le maggiori potenze navali, sia Cuba, e a maggior ragione le Filippine, offrivano l’occa-sione per costruire nel mondo una serie di basi dove le navi americane avrebbero potuto rifor-nirsi del carbone che le alimentava.

una piccola guerra. Così, verso la fine di aprile del 1898, il casus belli del Maine, il bloc-co navale americano del porto dell’Avana e il rifiuto spagnolo di concedere a Cuba l’indipen-denza segnarono l’inizio delle ostilità. Nati da una guerra contro una potenza coloniale, gli Stati Uniti cercarono di prendere le distanze dal

Sul campo Sopra a sinistra, un soldato americano durante il conflitto a Cuba legge una lettera da casa. Qui sopra, ribelli cubani in trincea attendono le truppe spagnole (1898).

1934Fulgencio Batista prende il controllo del Paese, con

l’aiuto Usa. Nel 1952 imporrà la dittatura.

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Una volta attuato il conteni-mento della flotta spagnola,

ai primi di giugno del 1898 seicento marines sbarcarono a Cuba. Qualche giorno dopo furono raggiunti da 17mila militari, tra i quali il 9° e il 10° Cavalleria e il 25° Fanteria, tutti composti da soldati di colore. Arrivò anche un reparto d’assal-to messo insieme da Theodore Roosevelt, che per l’occasione si era dimesso da vice ministro della Marina. Era il First United States Voluntary Cavalry, reg-

Versioni ipoteticheL’ipotesi, lanciata dal giornale statunitense The World, secondo la quale il Maine fu affondato da una bomba o da un siluro spagnolo. A oggi, non vi è certezza sulle cause dell’esplosione.

girono con la censura e le espulsioni, costrin-gendo spesso i gior-nalisti a lavorare dalla Florida e a basarsi su notizie incontrollate che arrivavano dai ribelli isolani. Esemplare. Nel dicem-bre del 1896 Hearst inviò sull’isola Frederic Remington, uno dei

più celebri disegnatori americani dell’epoca, per ritrarre gli abusi degli spagnoli. Ma quan-do l’artista riferì che si trattava soltanto di esagerazioni e che non si prospettava nessuna guerra, il giovane edito-re gli avrebbe risposto: “Tu fai i disegni, che alla guerra ci penso io”.

gimento di volontari a cavallo meglio noto come Rough Riders (“Rudi cavalieri”). Lo compone-vano giovani dell’alta società della parte orientale del Paese e uomini cresciuti nella dura vita delle terre dell’Ovest. Appiedati. Nonostante il loro spirito guerriero si rivelarono disorganizzati e inesperti. Circa la metà non arrivò in tempo in Florida per l’imbarco sulle navi e solo in pochi riuscirono a im-barcare i cavalli. Il quarantenne colonnello Roosevelt guidò

personalmente l’assalto alla collina nella decisiva battaglia di San Juan e divenne un eroe nazionale. Poi si scoprì che ad arrivare in cima per primi erano stati i reparti di colore, ma i giornalisti avevano preferito riportare i nomi altisonanti dei “Rudi cavalieri”. Tra l’altro, nella carica dei Rough Riders alla col-lina di San Juan solo Roosevelt era in sella al suo destriero. Gli altri “cavalieri” invece arrivarono correndo, visto che i loro cavalli erano rimasti in Florida.

Lo sbarco dei “Rudi cavalieri”

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contemporaneo imperialismo europeo. Anche per questo nel mese di maggio il Congresso ap-provò l’emendamento Teller, in cui si promette-va di non voler annettere Cuba, ma di renderla uno Stato libero e indipendente.

Sulla carta, dal punto di vista militare, la flot-ta spagnola era favorita. Aveva maggiore espe-rienza ed era più grande. Ma si sarebbe rivela-ta troppo vecchia e in pessime condizioni, tan-to da essere resa in breve inoffensiva. Dopo lo sbarco sull’isola, gli americani ebbero presto la meglio nelle due decisive battaglie di El Caney e San Juan Hill. Il 12 agosto gli spagnoli firma-rono l’armistizio: Cuba diventava indipendente, mentre agli Stati Uniti spettava il controllo sulle isole spagnole di Guam e Porto Rico, occupate con un attacco a sorpresa sul finire della guerra. Le Filippine, che si erano arrese dopo la firma dell’armistizio cubano, furono acquistate per la modica cifra di 20 milioni di dollari.

Protettorato. La possibilità che gli Stati Uniti si ritrovassero a possedere nuovi territori solle-vava proteste da parte di chi, in America, aveva ancora a cuore la tradizione anticoloniale. Come lo scrittore Mark Twain, o il filosofo William Ja-mes. Comunque, dopo un paio di governi d’oc-cupazione, per tener fede all’emendamento Tel-ler gli americani lasciarono Cuba. Era il 1902.

C’era però da tutelare i propri interessi nell’i-sola. Con la scusa che Cuba poteva essere con-quistata da un’altra grande potenza, introdus-sero nella costituzione del nuovo Stato caraibi-co il diritto degli Stati Uniti di “intervenire per la difesa dell’indipendenza cubana e la conserva-zione di un governo atto a proteggere la vita, la proprietà e la libertà individuale”. In pratica, si sanciva la dipendenza politica ed economica di Cuba, oltre alla concessione agli americani del-la base navale di Guantánamo, sede della fami-gerata prigione.

Per decenni l’isola caraibica fu il “cortile di casa” per gli Usa. Vi prosperavano le attività commerciali gestite dalla criminalità organizzata

L’affaire Cisneros

Evangelina Cisneros (nella foto) era la gio-

vane e bellissima figlia di un ufficiale cubano che aveva preso parte all’insurrezione del 1895 e che gli spagnoli avevano deportato all’Isola dei Pini, 60 km a sud di Cuba. Condotta lì, Evangelina si trovò a respingere le avances del locale gover-natore. Tuttavia, accettò il piano del padre: sfruttare l’infatuazione del gover-natore per intrappolarlo e liberare i prigionieri. Ma il piano fallì e lei fu trasfe-rita all’Avana con l’accusa di avere attentato alla vita del governatore. Liberata. Qui entrò in gioco il Journal di Hearst, che dalle sue pagine lanciò una campagna per la liberazione della Cisneros, mobilitando eminenti donne america-ne e inviando Karl Decker, uno dei suoi reporter, per farla fuggire. Arrivato segretamente sull’isola, Decker, probabilmente grazie all’aiuto dei diplo-matici statunitensi sul posto, riuscì a liberarla e a portarla via nave a New York travestita da ragaz-zo. Hearst, dopo aver dato spazio all’affaire Cisneros per mesi, all’arrivo di Evangelina organizzò una gigantesca festa al Ma-dison Square Garden. In seguito la donna fu ospite alla Casa Bianca e, in quell’occasione, il Journal la raffigurò in un grande disegno in prima pagina mentre stringeva la mano al presidente McKinley.

1959I guerriglieri di Fidel Castro

costringono il dittatore Batista a fuggire e

prendono il potere.

Page 31: Focus Storia (Maggio 2015)

Per decenni l’isola caraibica fu il “cortile di casa” per gli Usa. Vi prosperavano le attività commerciali gestite dalla criminalità organizzata

La pratica bellica si era chiusa in fretta. Ma il risultato fu il contrario di quello che gli isolani si aspettavano. Iniziata come “ispano-cubana”, la guerra diventò “ispano-americana”, relegan-do del tutto sullo sfondo il movimento Cuba Li-bre (v. riquadro in basso). Non solo. Se gli Stati Uniti avevano subìto pochissime perdite, i cuba-ni, tra il 1895 e il 1898, avevano contato 300mi-la morti, in prevalenza civili. Gli americani evi-tarono di riconoscere il contributo dell’esercito locale composto in prevalenza da neri e, d’ac-cordo con gli spagnoli, impedirono ai capi mili-tari cubani di partecipare alla cerimonia di resa della Spagna nella città di Santiago.

Onda lunga. Ridotta a protettorato statuniten-se, Cuba vide una crescita esponenziale degli investimenti americani nell’industria della can-na da zucchero. L’instabilità politica e le prote-ste per la riduzione della sovranità nazionale condurranno a ripetuti interventi militari ame-ricani (giustificati dalla costituzione cubana) e a una pluridecennale ingerenza.

Il malcontento intanto cresceva: esplose nel 1933 con la “rivoluzione dei sergenti”, guidata da Fulgencio Batista. Dal golpe, appoggiato dal-la sinistra, uscì un nuovo presidente: Ramón Grau San Martín, che però prese misure contro gli interessi americani. Tanto bastò. Nel genna-io del 1934 un “controgolpe” mise di nuovo in sella Batista, che manterrà il controllo del Pae-se fino al decennio successivo. Nel 1952 Batista, temendo di perdere le elezioni, sempre con l’ap-poggio di Washington instaurò la dittatura e fe-ce di Cuba la capitale del gioco d’azzardo e del-la prostituzione gestita dalla mafia americana.

Fu a questo stato di cose che, negli Anni ’50, si ribellarono i barbudos guidati da Fidel Ca-stro ed Ernesto “Che” Guevara. Il nuovo gover-

no, nato nel 1959, si avvicinerà al comunismo sovietico dopo l’ennesimo intervento america-no nel “cortile di casa”: la fallimentare invasio-ne della Baia dei Porci dell’aprile del 1961, auto-rizzata dal presidente Kennedy. Come nel 1898, Cuba tornò a giocare il ruolo di pretesto in una sfida tra potenze: in risposta all’installazione in Turchia di missili a testata nucleare puntati su Mosca, l’Unione Sovietica rispose installan-do missili a Cuba e aprendo una crisi che portò il mondo a un passo dal conflitto. Finirà con lo smantellamento dei missili da entrambe le par-ti e la promessa americana di non aggredire Cu-ba. Subito dopo il fallimento della Baia dei Por-ci, Kennedy aveva decretato l’embargo totale che sarebbe durato fino alla storica riapertura dei rapporti diplomatici voluta dal presidente Obama nel dicembre scorso. •

Gian Domenico Iachini

Da secoli spagnola, Cuba nella prima metà dell’Ottocento

rimaneva ancora fedele a Madrid, mentre le altre colonie nel Nuovo Mondo diventavano indipendenti una dopo l’altra. Era in genere stata l’élite creola bianca a voler rimanere legata alla Spagna, in primo luogo per il timore di una possibile rivo-luzione nera sul modello di quanto accaduto nella vicina Haiti. Non in vendita. Verso la metà del secolo, gli Usa tentarono più volte di acquistare l’isola dalla Spagna. Ma gli spagnoli preferirono tener-sela, sia per la posizione strategica, sia per la sua importante produ-zione di zucchero. Sull’isola erano

però cresciuti i sostenitori di vario tipo dell’annessione agli Stati Uniti. Alcuni speravano che così si preser-vasse il sistema schiavista, mentre altri erano a favore di un modello repubblicano e non credevano possibile una riforma del governo coloniale spagnolo. Rivolta. Nel 1868 ebbe inizio la pri-ma (fallita) guerra per l’indipenden-za, del movimento Cuba Libre. Durò dieci anni e vide membri dell’élite locale uniti a schiavi liberati e neri liberi contro gli spagnoli. La re-staurazione dell’autorità spagnola pose tuttavia le basi per la seconda, iniziata nel 1895 e finita con l’inter-vento statunitense.

Il movimento Cuba Libre

Ex isola-casinòNella pagina a fianco, la popolazione dell’Avana festeggia i castristi vincitori della rivoluzione cubana (1959). Qui sopra, a sinistra, Fulgencio Batista e (a destra) alcune ragazze in uno dei night club dell’isola, nel 1950.

1961Il presidente Kennedy

autorizza lo sbarco di marine alla Baia dei Porci.

È un fallimento.

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NEL REGNO DEI LONGOBARDI

Barbarismi Il re dei Longobardi Alboino chiede a Rosmunda di bere

in una coppa ricavata dal cranio del padre, in

un dipinto di Rubens.

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La civiltà, le credenze, i protagonisti del popolo “dalle lunghe barbe” che nel 568 invase l’Italia. E che segnò per sempre i destini della Penisola.

CHI ERANO E COME VIVEVANO

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TEODOLINDA: UNA REGINA SUPERSTAR

pag. 42

AVANZATA INARRESTABILE

pag. 50■

LE LORO TRACCE OGGI

pag. 52

LE CONQUISTE DI RE LIUTPRANDO

pag. 54■

IL “CHI È CHI” DEI LONGOBARDI

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I SIGNORI DEL MERIDIONE

pag. 62■

NORD E SUD: UNA LORO EREDITÀ?

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Page 34: Focus Storia (Maggio 2015)

Il tuono degli zoccoli era il loro tamburo di guerra. Quando i contadini e i pastori della Pianura padana li videro emergere dalla fit-ta bruma che avvolgeva la brughiera, cre-

dettero che un esercito infernale stesse marcian-do sulla terra: quei cavalieri indossavano mo-struose maschere a testa di cane. Era l’anno 569 e dal Nord-est stavano dilagando i Longobardi, i futuri padroni, per due secoli, della Penisola. Chi erano veramente? Per uno storico romano che li aveva conosciuti cinque secoli prima, era-no “più feroci della ferocia germanica”. Per uno dei nostri giorni, il medievista Massimo Mon-tanari, «erano innanzitutto un popolo in armi».

ArmAti fino Ai denti. Di armi non ne manca-vano certo, al seguito di quei guerrie-

ri. Ma il loro capo, re Alboino, non si portava dietro solo un

carico di lance e spade. Con lui c’erano anche le masserizie di centomila persone tra donne, vecchi e bambini. Era il popolo dei Winnili, che nel corso dei secoli precedenti era migrato dalla Scandinavia attraverso le terre germaniche fino a giungere in Pannonia (l’attuale Ungheria). Da qui erano calati in Italia per fare razzia.

Durante la loro secolare migrazione i Winnili avevano cambiato nome: adesso erano i Longo-bardi, ossia i guerrieri “dalle lunghe barbe” (dal germanico langbaerte). Un cambio di nome che era un atto di devozione verso Odino, il poten-te dio della guerra degli uomini del Nord, det-to appunto “Lungabarba”. Per questo i Longo-bardi tenevano più che a ogni altra cosa a barba e capelli. Le capigliature degli uomini venivano tagliate una sola volta, a mezzo tonsura rituale, nella cerimonia di passaggio dall’infanzia all’e-

Litigiosi, guerrieri implacabili, cristiani ma fedeli alle usanze germaniche: gli uomini “dalle lunghe barbe” furono tutto questo. Ma non solo

I BARBARI DI ODINOPR

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Tesori germanici Sotto, la “lamina di Agilulfo”, frontale

di un elmo, in bronzo dorato: raffigura il trionfo del re longobardo. In senso

orario nella pagina: un corno da cerimonia, una collana longobarda e

un pettine appartenuto a Teodolinda.

tà adulta. Dopodiché non vedevano più un rasoio per tutta la vita. Tranne che sulla nuca, dove i capelli erano tenuti cortissimi. Davanti si pettinavano ai lati del volto, divisi da una scriminatura cen-trale, fino a sembrare tutt’uno con la barba fluente. Fluente e intoccabile: chi tirava la bar-ba a un guerriero rischiava, per le leggi longo-barde, pene pesantissime.

I pIù barbarI. Con quell’aspetto, non c’è da stupirsi che fossero considerati poco più che sel-vaggi dai padroni di casa, gente che aveva me-moria dei fasti della corte imperiale di Milano o di quella ostrogoto-bizantina di Ravenna. Una “perfida e puzzolentissima stirpe, che non vie-ne neppure enumerata tra i popoli, e dalla quale è certo che abbia avuto origine la razza dei leb-brosi”, scrisse nel 770 papa Stefano III, senza

Litigiosi, guerrieri implacabili, cristiani ma fedeli alle usanze germaniche: gli uomini “dalle lunghe barbe” furono tutto questo. Ma non solo

I BARBARI DI ODINO

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I guerrieri tenevano molto alla loro barba, lasciata crescere dopo la tonsura che segnava il passaggio all’età adulta

nascondere il suo odio. Del resto, il papato era parte in causa (e faceva il tifo per i Franchi, che non erano precisamente dandy).

I guerrieri, gli arimanni, erano l’avanguar-dia dei “più barbari fra i barbari”. Spada lunga a doppio taglio al fianco, lama corta e ricurva a un solo taglio (la temutissima scramasax) per il combattimento a cavallo e un coltello erano il corredo-base dell’arimanno. Per non parlare del-la micidiale lancia in legno con cuspidi e puntali metallici. Ciliegina sulla torta: i guerrieri longo-bardi ingerivano o aspiravano sostanze stupefa-centi prima della battaglia, che combattevano in uno stato di esaltazione, indossando le masche-re a forma di testa di cane di cui sopra.

Armi letali, istinto predatorio e terrore dei sot-tomessi spianarono la strada agli invasori nel Nord Italia. Fu l’inizio di un’occupazione bru-tale e disordinata, lasciata all’iniziativa delle singole fare (le famiglie nobili). «I Longobar-di portarono in Italia un tipo di dominazione ben diversa da quella dei Goti, che godeva del-la legittimazione bizantina», spiega il medievi-sta Alessandro Barbero. «La loro sovranità di-pendeva unicamente dalla forza delle armi ed era ispirata alle usanze ancora fortemente “bar-bariche” che li caratterizzavano. Le popolazio-ni sottomesse erano considerate alla stregua di schiavi e non possedevano quindi alcun diritto». Quando una tribù occupava una grande fattoria di origine romana, uccideva o metteva in fuga i proprietari. Idem quando si trattava di prendere città e roccaforti in posizioni strategiche, per as-sicurarsi il controllo del territorio.

AutostimA. I conquistati, dunque, contavano zero. I Longobardi, in compenso, avevano di sé una stima sconfinata. Erano tutti uomini liberi, con pari dignità e pari pretese. Il che, alla lunga, portò all’anarchia. Il re era un capo militare su-premo, ma non un’autorità politica riconosciu-ta. Era un vero duce, letteralmente: infatti “du-ca” deriva dal latino dux. E loro, i duchi, ovve-ro i condottieri delle fare che diedero vita ai du-cati, non si facevano certo scrupoli se c’era da eliminare i sovrani che pretendevano di coman-dare sul popolo longobardo.

Accadde proprio con Alboino, nel 572, e con il suo successore, Clefi. D’altra parte, anche quel-

LOMBARDIADeriva da Longobardia

(o Langobardia), nome che indicava i terri-tori longobardi. Nel Nord Italia sono inoltre molti

i toponimi derivati da fara, che indicava

un insediamento militare o rurale longobardo.

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A metà strada Rilievo da una scena di processione del VII secolo: i Longobardi aderirono al cristianesimo, ma i culti pagani rimasero vivi a lungo.

Page 37: Focus Storia (Maggio 2015)

I Longobardi non conoscevano le tecniche per costruire edi­

fici in pietra e muratura. Perciò nei centri urbani si installaro­no negli edifici già esistenti, concentrandosi in quartieri in modo da rimanere separati dal resto della popolazione. Nelle campagne utilizzarono ville romane abbandonate o in rovi­na, oppure costruirono le loro tipiche “case lunghe” in legno:

70 metri di lunghezza in cui vi­vevano assieme i membri della fara e le loro famiglie. Attorno a questo edificio sorgevano le case dei servi e i laboratori mentre una palizzata circonda­va e proteggeva il complesso. Monastero. Uno dei pochi esempi di insediamento lon­gobardo giunti fino a noi è il monastero fortificato di Torba, presso Varese, oggi Patrimonio

Unesco e tutelato dal Fai. Nato come presidio con torre di av­vistamento in epoca romana, Torba fu occupata dai Longo­bardi nel VI secolo per la sua posizione strategica. Alla torre vennero affiancate le abitazioni della guarnigione e dei servi e il complesso venne circondato da mura. Nell’VIII secolo, termi­nato il periodo delle invasioni da nord, Torba si trasformò in

monastero femminile bene­dettino e la torre di guardia fu trasformata in oratorio (ai piani alti) e in sepolcreto e cripta (ai piani bassi). Vi fu anche costrui­ta una chiesa. All’interno della torre sono stati ritrovati alcuni rari affreschi altomedioevali dai quali ci osservano alcune monache dagli inconfondibili nomi longobardi: la badessa si chiamava Aliberga.

Capanne, ville occupate e una fortezza-monastero

LA CASA LUNGACostruita prevalentemente in legno e con un tetto in pa-glia, raggiungeva i 70 metri e ospitava la fara con il capo militare e i suoi famigliari.

RIALZATII villaggi erano costruiti su piccole alture, naturali o arti-ficiali, dette “motte”.

RICICLATORIIn qualche caso i Longobardi riuti-lizzarono ville ro-mane occupate.

PALIZZATEIl villaggio era pro-tetto da una palizza-ta in legno, raramen-te in muratura.

G. A

LBER

TINI

CAPANNEAttorno alla casa lunga sorgevano i laboratori e le ca-panne per i servi.

I Longobardi non costruirono città: ogni fara (la cellula base della loro società) si insediava in un villaggio fortificato. Oppure si occupavano ville e centri urbani abbandonati dai Romani.

SULLA “MOTTA” LONGOBARDA

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1

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lo del re era un potere della crudeltà. Basti un esempio fra i tanti. All’inizio dell’VIII secolo re Ariperto II, insidiato dal ribelle Ansprando, non riuscendo a catturare il rivale decise di rivalersi sui suoi cari. Fece cavare gli occhi al figlio mag-giore di Ansprando e mozzare naso e orecchie alla moglie e alla figlia.

La Legge deL più forte. Questa tendenza con-genita alla prevaricazione e alla violenza non fa-voriva certo la coesione dei Longobardi. Né fu d’aiuto la mancanza di leggi scritte. Erano gran-di guerrieri, gli ex Winnili, ma analfabeti. Si affi-davano alle consuetudini, tramandate oralmen-te dagli “uomini-memoria”, gli anziani e i bar-di delle tribù. Erano leggi dure, basate più sulla vendetta (la faida) che sulla giustizia. A preva-

Artigianato locale

Sopra, cucchiai in osso rinvenuti in

Veneto. Sotto, brocca longobarda a forma

di animale.

SCAL

A (2

)

Secondo l’Editto di Rotari per entrare in possesso di un’eredità bisognava recitare i nomi di sette generazioni di antenati

38

Page 39: Focus Storia (Maggio 2015)

5

4

“Masterchef” alla longobarda

STAMBERGA (DI LUSSO)

Stamberga, oggi, è uno squallido tugurio. Per i Longobardi era invece

una residenza di pregio: un palazzetto in pietra

(stain,”pietra”, e berg, “edi-ficio”) che spiccava tra le

case in legno e frasche. Ma a chi era abituato ai palazzi

romani quelle abitazioni dovevano sembrare vere...

stamberghe.

lere era sempre il più forte, grazie a un giudizio affidato all’ordalia – una prova di coraggio o un duello – e non a un processo. E le poche nor-me che non prevedevano spargimenti di sangue dovevano apparire quantomeno bizzarre a chi era abituato al diritto romano. Quando re Rota-ri mise per iscritto alcune delle leggi longobar-de (nel 643), il suo editto stabilì, per esempio, che un uomo libero per dimostrare il diritto di entrare in possesso di una eredità doveva saper recitare i nomi dei propri antenati risalendo in-dietro di sette generazioni: circa duecento anni.

Donne merce Di scambio. Se non essere lon-gobardo era una iattura, essere longobarda non era esattamente come vincere la lotteria. Le donne longobarde, è vero, erano più libere di

quelle di tanti popoli. Ma erano del tutto sotto-poste all’autorità del capofamiglia (padre, ma-rito o fratello), che ne disponeva come merce di scambio per sancire alleanze e costruire pa-trimoni attraverso il mundio. Nessuna conces-sione al romanticismo: il mundio era né più né meno il prezzo di mercato della donna e dove-va essere pagato dallo sposo alla famiglia del-la moglie in caso di matrimonio, per ottenere il “diritto di protezione” sulla sua compagna.

Le donne non trattavano mai in prima perso-na e le longobarde potevano possedere soltan-to la meta, cioè la dote e il morgengab, il “do-no del mattino” che lo sposo faceva alla moglie per averla trovata illibata. Con un quadretto fa-migliare così, si capisce perché Teodolinda (re-

G. A

LBER

TINI

Della vita quotidiana longo-barda conosciamo alcune

abitudini alimentari. Per esem-pio siamo in grado, grazie agli scavi archeologici, di ricostruire l’interno di una casa lunga. In questo disegno, in particolare, si vede la zona del focolare, ov-vero la parte della casa dove si cucinava e si viveva.

1 Il pavimento era in semplice terra battuta. La casa lunga era costituita da un unico ambiente (a volte con un “soppalco”), senza suddivisioni particolari a seconda della funzione. Sulle pareti a volte si mettevano pelli.

2 Protetto da pietre, il foco-lare era poggiato sulla terra nuda. Nel tetto di paglia c’era l’apertura per il fumo.

3 Per le carni si usavano lunghe cotture in pentola, an-tenate dei nostri lessi, brasati, bolliti, stracotti e stufati.

4 Alle donne, oltre che tessere e lavorare le pelli, toccava la preparazione dei pasti.

5 Per cucinare si usavano col-telli e cucchiai in osso e legno.

6 Gli ingredienti della cucina longobarda erano semplici: prodotti della terra e maiale. La carne di maiale veniva con-servata sotto sale, importato dalle saline di Comacchio.

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senza esclusione di colpi – una sorta di Palio di Siena – partendo dall’albero e lungo un circuito stabilito. L’obbiettivo era appropriarsi prima de-gli avversari della bestia appesa, strapparne dei pezzi e mangiarseli, facendo nel frattempo dei voti. Era un rituale per garantirsi la benevolenza delle divinità dei boschi. Barbaro e pagano è an-che l’episodio più famoso degli annali longobar-di: l’umiliazione subita da Rosmunda, costretta dal marito, il solito Alboino, a bere in una coppa ricavata nel cranio del padre, re dei Gepidi, uc-ciso da Alboino stesso in battaglia. «Tagliare la testa al nemico e bere dal suo cranio», spiega la storica Gabriella Piccinni, «era in realtà un atto di “omaggio” verso il vinto, del quale si “beve-vano” la forza, il coraggio e le virtù».

Alla fine, però, come accadde a tanti “popo-li in armi”, la civiltà che avevano sottomesso fi-nì per soggiogare i Longobardi. Ne nacque un mondo nuovo. Persino un’arte nuova, che uni-va la tradizione romana al gusto germanico per l’oro e le pietre preziose, la scultura all’orefi-ceria. Nel 713 gli ex Winnili erano cambiati al punto che re Liutprando poteva definirsi “cri-stiano re dei Longobardi, anzi della felicissima e cattolica e diletta da Dio gente longobarda”. Odino, nel grido di battaglia, fu spodestato da San Michele. Che era pur sempre un arcangelo guerriero, impegnato a combattere il male con una spada fiammeggiante che non aveva nulla da invidiare alla scramasax. •

Roberto Roveda

Non conosciamo molto della lingua dei Longobardi, che scomparve

rapidamente dopo il loro insediamen-to in Italia. Questo perché, a differen-za dell’idioma dei Goti, il longobardo non venne mai messo per iscritto. Di fatto, si mescolò al latino parlato, an-tenato dell’italiano, nel VI-VII secolo. E infatti sono molte le parole di ori-gine longobarda che usiamo ancora, tutti i giorni. Eccone alcune.

La “nuvola” delle parole longobarde

gina longobarda, ma di stirpe bàvara) passò alla Storia come eccezionale (v. articolo a pag. 42).

Pagani dentro. Questi tipi poco raccomanda-bili, formalmente erano cristiani, anche se aria-ni e quindi eretici per la Chiesa cattolica. Il che non impedì al longobardo medio, almeno nei primi tempi, di restare pagano dentro. Conti-nuava a essere devoto a Odino, magari di na-scosto, e considerava sacri le fonti, gli alberi e animali come la vipera. Secondo papa Grego-rio Magno (590-604), adoravano il diavolo dan-zando in suo onore e portando in giro una testa di capro. Esagerazioni faziose. Eppure gli anti-chi culti pagani diffusi tra i Longobardi soprav-vissero davvero a lungo prima della definitiva

cristianizzazione. Ancora nel VII secolo, a Beneven-to, presso un albero di noce con-siderato sacro, venivano appe-

se le spoglie di una pecora o di un altro animale. I cavalieri si lan-

ciavano in una folle corsa a cavallo

BRID

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L’eredità dei Longobardi è intorno a noi: nei nomi di persone e località, nelle tradizioni e persino in cucina

I guerrieri longobardi non si separavano mai

dalle loro armi: spade, lance, pugnali, elmi, scudi e speroni venivano sepolti assieme a loro.In particolare, un grande significato simbolico era attribuito alla lancia, l’ar-ma preferita di Odino e, quindi, simbolo dell’au-torità regia: durante il rituale di nomina del re veniva consegnata al so-vrano come insegna del suo comando. Lancia e cavallo. Inol-tre la lancia era l’arma prediletta dai cavalieri. I Longobardi, in seguito al lungo contatto con i popoli nomadi che erano giunti in Europa dall’Asia (Unni, Avari), avevano in-fatti imparato (e preferi-to) combattere a cavallo invece che appiedati.

Sepolti con le armi

Al galoppo A sinistra, placca in bronzo dorato raffigurante un cavaliere. Decorava uno scudo da parata rinvenuto a Stabio (oggi in Svizzera, nel Canton Ticino).

STRALE

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RUSSARE MANIGOLDO

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palco pancaricco

spanna

federa

sguattero

banca bara CRUSCAGNOCCOfodera

NOCCA

TONFOSTINCO

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Page 42: Focus Storia (Maggio 2015)

UNA REGINAQUASI SANTA

Teodolinda, regina dei Longobardi dal 589, ebbe due mariti, un erede sfortunato e un eccezionale fiuto diplomatico

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Page 43: Focus Storia (Maggio 2015)

Gioie “barbare” La croce di re Agilulfo (secondo

marito di Teodolinda). A sinistra, l’incontro fra Teodolinda e

Autari (il primo consorte), dal ciclo di affreschi del 1444, della

bottega Zavattari, nel Duomo di Monza. Gli affreschi (45 storie e 800 personaggi) sono di nuovo visibili, dopo 6 anni di restauro.

Appena Teodolinda fece il suo ingresso nel grande salone, Autari ammutolì, ammirato. Il re dei Longobardi rima-se senza fiato di fronte alla sua futu-

ra sposa: l’incarnato chiaro, il viso perfetto in-corniciato dai capelli biondi tenuti da spille d’ar-gento e coperti da un velo ricamato d’oro, po-chissimi gioielli sulla semplice veste lunga fino ai piedi. Poi si scosse, ricordando che era venu-to alla corte di Garibaldo I di Baviera sotto men-tite spoglie, fingendosi un ambasciatore longo-bardo, per vedere chi gli era toccata in moglie.

“Vostra figlia è davvero bella e merita di esse-re la nostra regina”, disse rivolgendosi al duca dei Bàvari. “Ora, se non avete nulla in contra-rio, vorremmo ricevere dalle sue mani una taz-za di vino, come ella dovrà fare spesso in avveni-re con noi”. Garibaldo guardò la figlia, facendo-

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Page 44: Focus Storia (Maggio 2015)

le un leggero cenno col capo. Quando Teodolin-da porse la coppa ad Autari, lui restituendogliela le sfiorò la mano con un dito, che poi si passò sulla fronte, sul naso e sulla bocca. Lei diventò rossa, ma non osò alzare lo sguardo sull’ospite.

Lusinghe e verità. Quella giovane bàvara, ar-rossita di fronte a tanta passione, era molto di più di una bambola timida, destinata solo a scaldare il trono accanto al marito. Intelligen-te e tollerante in un’epoca violenta dominata da uomini e guerre, Teodolinda si convinse che l’u-nico modo per dar vita a un regno forte e uni-to fosse appianare le divergenze e convivere pa-cificamente con gli altri abitanti della Penisola.

“Ricolma di tutte le virtù, soave nell’eloquio, acuta di ingegno, abbondante nel donare, giusta nel giudicare, clemente nel parlare”. E giù un’al-tra dozzina di eccezionali complimenti: così la descrisse il re dei Visigoti Sisebuto, in una let-tera scritta dopo il 616 d.C. Ma chi fu davvero questa sovrana, una delle donne più famose del-la storia longobarda e non solo?

VITA DA REGINA NELLA CAPPELLA RESTAURATAIl ciclo di affreschi nel Duomo di Monza è tornato a splendere. Con la vita di Teodolinda, come l’hanno dipinta nel ’400.

«Teodolinda fu regina in un momento crucia-le della storia della parte d’Italia divenuta lon-gobarda», spiega Germana Gandino, docente di Storia medioevale, all’Università del Piemonte Orientale. «Gli invasori, che erano alcune decine di migliaia, avevano rischiato di dissolversi nel decennio di anarchia ducale, fra il 572 e il 584. Quando Autari divenne re, e poi con il secondo marito Agilulfo, l’integrazione subì un’accelera-zione, almeno a livello di élite: i Longobardi di-vennero permeabili a stili di vita, modelli, idee e ideali romani».

In questa trasformazione ci fu anche lo zampi-no della regina bàvara. E pensare che per Autari era stata un ripiego: nel gioco delle alleanze, il re longobardo avrebbe preferito sposare una sorel-la del re dei Franchi, per siglare una tregua con i potenti nemici. Ma all’ultimo si era beccato un due di picche: così, in cerca di un alleato e di una sposa che sancisse l’accordo, nel 588 si rivolse al duca dei Bàvari, che gli promise la sua seconda figlia, Teodolinda, all’epoca diciottenne.

1 Gli INVIATI DI AUTARI chiedono in sposa la sorella del re dei Franchi, che prima accetta ma poi cambia idea.

2 AUTARI manda allora gli inviati in Baviera, chiedendo in sposa TEODOLINDA, della dinastia dei Letingi, nata forse a Ratisbona nel 570 circa.

3 PRIMO INCONTRO tra Autari (recatosi in incognito in Baviera) e Teodolinda, che gli offre la bevanda di benvenuto ma non lo riconosce.

4 I FRANCHI attaccano i Longobardi e invadono il territorio dei Bavari, sconfiggendoli.

5 TEODOLINDA RIPARA in Italia nel 589, per sfuggire ai Franchi.

6 INCONTRO di Teodolinda e Autari, a Verona.

7 MATRIMONIO fra Autari e Teodolinda, che viene celebrato a Verona il 15 MAGGIO 589.

Agilulfo era ariano e Teodolinda aderiva allo scisma dei Tre Capitoli, ma i figli furono cattolici

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VITA DA REGINA NELLA CAPPELLA RESTAURATAIl ciclo di affreschi nel Duomo di Monza è tornato a splendere. Con la vita di Teodolinda, come l’hanno dipinta nel ’400.

MatriMoni e funerali. Il matrimonio si cele-brò il 15 maggio 589, nei campi di Sardi, vici-no a Verona. Al fratello della regina, Gundoal-do, venne dato il titolo di duca d’Asti: sui va-lichi alpini della Val di Susa, con i Franchi al-le porte, Autari aveva infatti bisogno di gente fidata. Da quelle parti, oltre che sul cognato, poteva contare anche sul duca di Torino Agi-lulfo, parente acquisito, nonché, di lì a poco, suo successore.

Accadde tutto nel 590. Il 5 settembre Auta-ri morì avvelenato in una congiura di palazzo, a novembre Teodolinda si era già risposata con Agilulfo. Non era stata regina a lungo, ma se-condo Paolo Diacono, il monaco benedettino autore della Historia Langobardorum, quei me-si erano bastati ai sudditi per amarla al punto da farle scegliere da sola il nuovo marito. I due si incontrarono a Lomello (oggi in provincia di Pavia): “No, non baciarmi la mano, tu che do-vresti baciarmi la bocca”, pare l’abbia anticipa-to lei, rivelandogli il suo futuro.

Niente fermò il re Alboino nella sua

avanzata in Italia. Nien-te se non una donna: sua moglie Rosmunda. Il sovrano longobardo l’aveva sposata nel 567, dopo averne sconfitto il popolo, i Gepidi, e ucciso personalmente il padre, il re Cunimondo. La leggenda vuole che, durante una notte di baldoria alla corte di Verona, Alboino bevve il suo vino usando come coppa il teschio del re sconfitto, costringendo la moglie a fare altret-tanto. Era una pratica abbastanza comune tra i barbari, che in quel modo credevano

di assumere la forza del nemico ucciso. Ma Rosmunda non la prese bene e, col suo amante Elmichi, scudiero del re, nel 572 organizzò una congiura per assassi-nare Alboino. All’arrivo dei sicari, il sovrano si accorse che sua moglie gli aveva legato la spa-da al fodero: si difese con uno scranno, ma venne ucciso (a destra, l’assassinio in un dipinto dell’Ottocento). Ma El-michi e Rosmunda non poterono regnare sui Longobardi: costretti alla fuga, si fermarono alla corte bizantina di Ravenna, dove la loro love-story finì. Rosmun-

da, diventata amante del prefetto Longino, diede del vino avvelena-to a Elmichi, che capito l’inganno, la costrinse a bere dalla stessa coppa. E così morirono.

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La vendetta di Rosmunda

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8 Il 5 settembre 590 MUORE AUTARI, forse avvelenato.

9 AGILULFO, duca di Torino, riceve un messaggio: la regina lo ha scelto come sposo.

10 AGILULFO, secondo marito di Teodolinda, rinnega l’ARIANESIMO.

11 Nel NOVEMBRE del 590 Teodolinda sposa Agilulfo, che sposta la capitale a Milano.

12 In seguito a un sogno la regina parte da Milano in cerca del luogo in cui fondare la BASILICA di San Giovanni Battista.

13 Nel 595, posa della prima pietra del palazzo e della chiesa, a Monza.

14 MORTE DI AGILULFO, dopo 25 anni di regno, nel 616.

15 Il 22 GENNAIO 627 Teodolinda MUORE. Viene sepolta a Monza, accanto al marito.

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la pace, come è solita, con sollecitudine e larga-mente […] evitando lo spargimento di sangue da entrambe le parti. [...] vi preghiamo che presso il vostro eccellentissimo marito agiate affinché non rifiuti di allearsi con la repubblica cristiana”. De-stinataria dello scritto, datato 598, era natural-mente Teodolinda.

Eppure, per quanta sintonia corresse tra la re-gina e il pontefice sulla necessità di una pace stabile e duratura in tutta la Penisola, sul pia-no religioso il loro feeling si incrinava. La reli-gione, allora come oggi, era un importante fat-tore di coesione sociale e sarebbe stato un otti-mo collante per amalgamare la popolazione in un nuovo Stato, nato dall’unione delle tradizio-ni del popolo romano e di quello longobardo. Peccato che nel caso specifico la situazione fos-se piuttosto complicata.

La grande mediatrice. Regina di un popo-lo diviso tra ariani e pagani, ma insediato su

Il figlio Adaloaldo fu deposto nel 626 dai duchi ribelli, guidati dal duca di Torino Arioaldo, suo cognato

contro i Bizantini. Il nuovo sovrano si impo-se in pochi mesi: in puro stile longobardo non esitò a eliminare fisicamente i duchi che si era-no accordati con i Franchi e tentò di espandere i propri domini verso sud, a spese dei Bizantini.

Nel frattempo Teodolinda non rimase cer-to davanti al fuoco a ricamare: pur non poten-do fermare il conflitto, cercò di rendere quell’e-spansione meno cruenta possibile, determinan-do alcune scelte politiche del marito, mitigando la crudeltà di altre e stringendo un amichevole rapporto epistolare con il vescovo di Roma, pa-pa Gregorio Magno. Non sembra un caso che, l’anno prima di siglare la pace con i Franchi (594), Agilulfo abbia deciso, sotto le mura di Roma, di rinunciare all’assedio in cambio di 500 libbre d’oro. È una lettera del pontefice a svelar-ci chi, in quel frangente, ricoprì il difficile e fati-coso ruolo di mediatore: “Abbiamo saputo che la vostra eccellenza si è sacrificata per ottenere

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Page 47: Focus Storia (Maggio 2015)

Oggi si trova sull’altare centrale della Cappella

di Teodolinda, nel Duomo di Monza: è la famosa Corona ferrea, un diadema composto da sei placche d’oro, rivestite di pietre preziose e smalti. Nell’im-maginario popolare è associata alla regina Teo-dolinda, ma in realtà non ha alcun legame storico con la regina. Ostrogota. Secondo studi moderni potrebbe trat-tarsi di un’insegna reale ostrogota. Gli Ostrogoti avevano fondato nel V-VI secolo il loro regno roma-no-barbarico a Ravenna, con Teodorico (incoronato nel 493). La presenza della corona nel tesoro del Duo-mo risalirebbe all’inizio del X secolo. Per il suo grande valore simbolico nei secoli suc-cessivi fu usata per incoro-nare i re d’Italia: il cerchio di metallo (secondo analisi moderne, argento), inse-rito al suo interno, per la tradizione sarebbe stato ricavato da uno dei chiodi usati nella crocifissione di Gesù. Furono i Visconti, signori di Milano nel XV secolo, ad alimentare la leggenda secondo cui la corona sarebbe apparte-nuta ai re longobardi: il loro scopo era legittimare, grazie al possesso della corona, la pretesa di domi-nare sull’Italia.

una terra di cattolici, Teodolinda era sì cri-stiana, ma aderente allo scisma dei Tre Ca-pitoli. La divisione, che impiegò un secolo e mezzo a risolversi, era nata nel 553 du-rante il secondo Concilio di Costantinopo-li, quando un gruppo di vescovi rifiutò la condanna per eresia decisa dall’imperato-re Giustiniano nei confronti di tre teologi. «Teo dolinda dovette agire in questo am-bito complesso. E la regina fece poi bat-tezzare come cattolico il figlio. Non deve stupire che nella stessa famiglia regia vi fossero diverse osservanze: ciò permet-teva di dialogare con diversi interlocutori», afferma Gandino.

I “tricapitolini” non si sentivano sottomessi né al vescovo di Roma né al patriarca di Costanti-nopoli. Erano perciò la giusta via di mezzo per non mostrarsi né dalla parte dei “nemici cattoli-ci” né dalla parte della nobiltà longobarda, aria-na come Agilulfo. Così, se il re aveva fatto di Mi-lano la capitale politica dello Stato longobardo, Teodolinda scelse Monza come residenza estiva e “capitale spirituale” del regno, facendovi co-struire, tra il 595 e il 600, una basilica dedicata a san Giovanni Battista.

Secondo il cronista del XIV secolo Bonincon-tro Morigia, quel luogo le era stato indicato dal-lo Spirito Santo, che sotto forma di colomba le apparve mentre riposava sulle rive del Lambro. “Modo”, cioè “qui”, le avrebbe detto; “Etiam”, cioè “sì” avrebbe risposto lei. Da quelle due parole, narra la leggenda, sarebbe nato il pri-mo nome della città di Monza: Modoetia. E in quel punto Teodolinda ordinò di erigere la basi-lica, che affidò alla Chiesa tricapitolina di Aquileia e che arricchì di reliquie e tesori. Sempre qui, poi, fece battezza-re suo figlio Adaloaldo, nel 603.

Simbolo di fede e potere La Corona ferrea fu usata per incoronare re e imperatori, da Carlo Magno al Barbarossa, da Carlo V a Napoleone e Ferdinando I d’Austria. Portata a Vienna nel 1859, fu restituita all’Italia nel 1866.

Diplomatica e devotaA sinistra, le seconde nozze della regina con Agilulfo. A destra, reliquiario con i presunti denti di san Giovanni, dono di Teodolinda a quello che oggi è il Duomo di Monza.

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L’unica macchia. L’anno dopo Agilulfo associò al trono il principino, di due anni appena: l’in-coronazione si svolse a Milano, secondo il ceri-moniale degli imperatori bizantini. Era un mo-do neanche troppo velato per annunciare ai sud-diti che la monarchia longobarda, sulla falsariga di quella romana, era diventata ereditaria (tradi-zionalmente, i re longobardi erano invece scelti dall’assemblea dei duchi) e che i futuri sovrani sarebbero stati di fede cattolica.

L’unità religiosa appariva sempre più vicina, mano a mano che i rapporti con i Bizantini mi-glioravano e che di conseguenza lo scisma trica-pitolino perdeva valore politico. Tanto che, nel 612, i sovrani concessero il territorio di Bobbio (presso Piacenza) a un futuro santo cattolico, il monaco missionario irlandese Colombano, per-ché vi fondasse un monastero. Risalirebbe pro-prio a questo periodo pervaso di un’aura di san-tità l’unica macchia di sangue sul curriculum

Page 48: Focus Storia (Maggio 2015)

di Teodolinda: la mor-te del fratello Gundoal-do, di fede tricapitolina, fu colpito da una frec-cia vagante. Secondo alcuni storici fu assas-sinato su commissio-ne dei sovrani, timorosi che potesse contestare la successione al trono del loro figlio Adaloal-do. Senza prove certe rimangono solo illazio-ni: fatto sta che nel 616,

alla morte di Agilulfo, nessuno mosse un dito contro il nuovo re, ancora minorenne. Anche perché fu Teodolinda a prendere la reggenza.

Reggente. A ben vedere la libertà d’azione di Teodolinda non fu troppo diversa da quel-la di altre regine. «Nell’Alto Medioevo le don-ne di alto livello sociale erano attori politi-camente attivi: le corti del VI-VII secolo era-no coperte da una rete di parentele in cui le donne funzionavano come elemento di rac-cordo tra diverse realtà e servivano come ga-

ranzia di non belligeranza. Anche per questo troviamo soprattutto regine che agiscono in proprio, a volte determinano indirizzi politi-ci e soprattutto religiosi», precisa la docente. Fedele alla sua politica di pacificazione, la re-gina intensificò l’appoggio alla Chiesa cattoli-ca e si impegnò nella ricerca di un accordo de-finitivo con i Bizantini. Ma così facendo si tro-vò contro i duchi.

“Adaloaldo, la mente sconvolta, impazzì, e, dopo avere regnato con la madre dieci anni, fu cacciato dal trono”, narra Paolo Diacono. In real tà furono i ribelli guidati dal cognato aria-no del re, il duca di Torino Arioaldo, a deporre il ragazzo con un colpo di Stato. La regina morì pochi mesi dopo, il 22 gennaio del 627. Fu se-polta nella navata sinistra della sua basilica, ac-canto al marito. Il popolo di Monza la venerò come santa e su di lei fiorirono leggende. Ma, sette secoli dopo, spuntò anche un racconto vagamente piccante, scritto da Boccaccio per il Decamerone. Chissà se Teodolinda, leggendolo, sarebbe arrossita come quella volta in cui Auta-ri le sfiorò la mano. •

Maria Leonarda Leone

Altre nobildonne dell’Alto Medioevo agirono in proprio, influenzando la politica. Ma ben poche con la sua abilità

La scelta di Monza Evangelario di Teodolinda in oro, smalti e pietre preziose. Come altri oggetti devozionali della regina si trova nel tesoro del Duomo di Monza. Sotto, sempre dal Ciclo di Teodolinda, la ricerca del luogo dove far sorgere la futura Basilica di San Giovanni Battista a Monza, sulla quale fu poi eretto il duomo attuale.

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Page 49: Focus Storia (Maggio 2015)

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CARTINA: F. SPELTA

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Page 52: Focus Storia (Maggio 2015)

La maggior parte delle tracce longobarde in Italia è andata perduta nel corso dei secoli. Ma molto di quello che resta è protetto dall’Unesco, in luoghi considerati Patrimonio dell’umanità.

I Romani la chiamavano Ticinum, i Longobardi la ribattezzarono Papìa. Quando (dopo tre anni di assedio) fu conquistata da Al­

boino nel 572, il re insediò la sua corte nel palazzo fatto costrui­re dal re ostrogoto Teodorico. Per due secoli la città fu capitale e fulcro dei domini longobardi: qui re Rotari fece redigere il suo editto e qui vennero realizzati grandi edifici, oggi perduti. Della chiesa di Sant’Eusebio, simbolo della conversione al cattolicesi­mo, resta solo la cripta mentre San Pietro in Ciel d’Oro (foto), del VII secolo ma rifatta nel XII, ospita la tomba di re Liutprando.

Per alcuni storici il ducato longobardo di Tuscia, con capitale Lucca, si può considerare l’antenato altomedioevale della To­

scana: i suoi confini, infatti, coincidevano in gran parte con quel­li dell’attuale regione. La sua capitale era Lucca, all’epoca molto più importante di Firenze, difesa com’era da solide mura romane (nella foto, i resti). La città controllava i porti del Tirreno e la stra­da che univa Roma con la Gallia. Il che impediva i contatti diretti tra i due grandi nemici dei Longobardi: il papa e i Franchi. A Luc­ca aveva infine sede una delle maggiori zecche longobarde.

PAVIA

LUCCA

La capitale strategica sul Ticino

Una minaccia per il papa

I l primo ducato longobardo nacque in Friuli. Civitas Fori Iulii, “Città del Friuli”, alias Cividale. Più piccola della vicina Aquileia,

era meglio fortificata e perciò fu scelta come capitale. Cividale si arricchì di importanti edifici. Il Complesso del patriarca Callisto, dell’VIII secolo, divenne il cuore religioso della città. Compren­deva la basilica, il battistero di San Giovanni Battista e il Palazzo patriarcale. Ne restano il Fonte battesimale del patriarca Callisto e l’Altare del duca Rachis. E il Tempietto di Cividale, o Oratorio di Santa Maria in Valle (foto), tra le eredità meglio conservate.

I duchi di Spoleto furono spesso in contrasto sia con i re longo­bardi di Pavia, sia con i Bizantini che controllavano Ravenna

e l’Esarcato. La Spoleto longobarda arrivò a controllare buona parte delle odierne regioni di Marche e Abruzzo. I signori spo­letani, inoltre, volevano che la loro città rivaleggiasse con Pavia in quanto a splendore architettonico. Per questa ragione re­staurarono la basilica paleocristiana di San Salvatore (nella foto, un particolare), chiesa che ancora oggi conserva buona parte dell’impianto voluto dai duchi longobardi nell’VIII secolo.

Il baluardo dell’Est

La spina nel fianco dei Bizantini

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Page 53: Focus Storia (Maggio 2015)

Colombano era un mona-co irlandese con la mis-

sione di convertire il popolo longobardo, diviso fra paga-ni e ariani, al cattolicesimo. Ci riuscì con re Agilulfo, che sancì la sua conversione donando a Colombano una chiesa in rovina presso Bob-bio (Piacenza), trasformata dal monaco in monastero. L’Abbazia di San Colombano divenne così un centro della cultura e della religione. La

biblioteca del monastero conservava centinaia di codici ed era una delle maggiori della cristianità. L’abbazia esiste ancora (nella foto, un rilievo posteriore) anche se non rimane quasi nulla dell’edificio originario. San Colombano, però, riposa ancora qui.

Benevento fu la capitale del ducato longobardo

più meridionale e longevo. I duchi di Benevento, infatti, mantennero i loro domini fi-no alla conquista normanna nell’XI secolo. Dopo la cadu-ta del Nord in mano franca (774), Benevento divenne una “seconda Pavia”. Il duca Arechi II (758-784), assunto il titolo di principe, accolse i profughi longobardi setten-trionali. E fece costruire la

magnifica chiesa di Santa Sofia, con pianta a stella, considerata un santuario perché conservava reliquie sacre per i Longobardi. Santa Sofia esiste ancora, come pure parti delle mura, che resero la città inespugnabile, e il torrione della fortezza (foto).

Il monastero dei Longobardi

La “seconda Pavia”

Le vicende di Monza in epoca longobarda sono strettamente legate a Teodolinda. Con il marito Agilulfo la regina spostò

temporaneamente la capitale da Pavia a Milano. Monza divenne la residenza estiva, con un palazzo e una basilica dedicata a san Giovanni Battista. Il palazzo e i suoi affreschi vennero distrutti dopo il Mille, mentre la basilica fu incorporata nel Duomo. Tra i capolavori di oreficeria longobarda nel tesoro del Duomo vi è la celebre “chioccia di Teodolinda”, allegoria della Chiesa (foto).

Una delle prime città oc-cupate dai Longobardi fu

Brixia. L’importanza della città è testimoniata dal fatto che “bresciani” sono alcuni dei sovrani più importanti della storia dei Longobardi: Rotari, suo figlio Rodoaldo e Desi-derio, l’ultimo re prima della conquista franca. Oggi Brescia ospita una delle maggiori testimonianze architettoniche dell’epoca longobarda, la Basilica di San

Salvatore, che fa parte del complesso monumentale di Santa Giulia. La basilica venne fondata nel 753 da Desiderio e da sua moglie Ansa come chiesa del vicino monastero femminile di San Salvatore, oggi distrutto. È considerata uno dei maggiori esempi di architettura religiosa altome-dioevale, un luogo unico dove si fondono arte longobarda, classica e bizantina (nella foto, uno dei reperti della basilica).

Alcuni piccoli centri con-servano importanti te-

stimonianze longobarde. A Castelseprio, presso Varese, ci sono i resti della grande fortezza e della chiesetta di Santa Maria Foris Porta, con affreschi dell’VIII-IX secolo, e i ruderi della Basilica di San Giovanni Evangelista. A Campello sul Clitunno (Perugia) è sopravvissuta la piccola chiesa di San Salva-tore, a forma di tempietto

greco (foto). Nel Gargano (Puglia) si trova infine il santuario di San Michele Arcangelo, cui erano devotissimi i Longobardi. Del santuario originario restano solo le cripte che conducono alla grotta dove, per la tradizione, sarebbe apparso l’arcangelo.

La città di Teodolinda

La culla dei sovrani

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Page 54: Focus Storia (Maggio 2015)

Atto di fede La traslazione del corpo di sant’Agostino dalla Sardegna a Pavia in una scultura trecentesca presso la basilica di San Pietro in Ciel d’Oro a Pavia. Le reliquie erano state acquistate nel 722 da re Liutprando dai Saraceni per portarle nella capitale del suo regno come dimostrazione di fede.

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Page 55: Focus Storia (Maggio 2015)

Fu il re che aspirava a unificare l’Italia. Non ci riuscì, ma sotto il suo scettro i Longobardi

divennero una nazione

Il (quasi) re d’Italia Liutprando, re dei

Longobardi dal 712 al 744, in una stampa

ottocentesca. Con lui il regno longobardo

riuscì quasi a unificare la

Penisola.

“F u uomo di molta saggezza, accorto nel consiglio, di gran-de pietà e amante della pace, fortissimo in guerra, clemente

verso i colpevoli, casto virtuoso, instancabi-le nel pregare, largo nelle elemosine, igna-ro sì di lettere ma degno di essere parago-nato ai filosofi, padre della nazione, accre-scitore di leggi”. Lo storico Paolo Diacono dell’ultimo grande re longobardo, Liut-prando, tesse lodi sperticate nella sua Hi-storia Langobardorum. Fu il re più longe-vo dei Longobardi con i suoi 31 anni sul trono, dal 712 al 744, e con lui il regno rag-giunse il suo apogeo.

Un periodo di pace (con svariate ecce-zioni) e di crescita culturale e artistica che passò alla Storia come “rinascenza liut-prandea”: vennero recuperate forme e stili dell’arte romana, rivisitate “alla longobar-

da”. Ma soprattutto quel sovrano tentò di unificare sotto il suo scettro l’intera Peni-sola. Anche se non ci riuscì, fu quello che più si avvicinò a essere re di tutta l’Italia.

Collante. La sua “molta saggezza” Liut-prando la usò soprattutto per dare coesio-ne al regno, obiettivo a cui si dedicò non appena salito sul trono. Quando iniziò an-che la sua carriera di “accrescitore di leg-

gi”: nel primo anno emanò sei norme giu-ridiche a integrazione dell’Editto di Rotari. Ma era solo l’inizio: tra il 717 e il 735 fu-rono promulgate altre 147 leggi. Uno sfor-zo legislativo che lo mette appena dietro a Rotari e che fu cruciale nel favorire l’unità del popolo longobardo (v. riquadro nell’ul-tima pagina dell’articolo).

Ma una nazione non si costruisce a ta-volino e Paolo Diacono ci ricorda che pur “di grande pietà e amante della pace”, era “fortissimo in guerra”. Sì, perché Liutpran-do, che in politica interna mirava a un re-gno pacificato, in più occasioni agì dura-mente contro chi turbava questa tranquil-lità. Sempre con l’obiettivo di conquistare l’Italia intera. «Era già stata questa l’ambi-zione di re come Agilulfo e Rotari», spiega Lidia Capo, docente di Storia medioeva-le alla Sapienza di Roma. «Dopo 70 anni e

LIUTPRANDOIL GRANDE

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Nel 728 il re longobardo donò “ai santi Pietro e Paolo” (e quindi al papa) il castello di Sutri. Per la tradizione, primo nucleo dello Stato della Chiesa

Preziosi armamenti Dalle necropoli longobarde di Nocera Umbra e di Castel Trosino (Ascoli Piceno) sono emersi corredi funerari appartenuti a guerrieri longobardi: si tratta di oggetti di alto artigianato. Eccone alcuni.1. Impugnatura e fodero lavorata di un pugnale del VII secolo. 2. Punta di una lancia, con fascette di un elmo. 3. Dettaglio di uno scudo del VI secolo con scene di battaglia. 4. La notevole qualità artistica della spada (VI secolo), la cui impugnatura è decorata da lamine d’oro, rivela l’appartenenza del suo proprietario all’alta aristocrazia. Secondo gli archeologi è il frutto dei contatti con i cavalieri nomadi delle steppe.

Immagini vietate L’imperatore bizantino Leone III Isaurico che nel 726 vietò le immagini religiose scatenando la reazione del papa di Roma. I Longobardi ne approfittarono per mettersi in mezzo.

con maggior consapevolezza, fu ripresa da Liutprando, in un quadro politico che però non la permetteva più». A mettersi di tra-verso c’erano, da una parte, le sempre più aggressive ambizioni politiche del papa e, dall’altra, i residui bizantini nella Penisola.

Destini incrociati. Con i Bizantini, fu una partenza soft: fino al 725 circa, infat-ti, Liutprando mantenne con loro la pace. «All’inizio del suo regno obbligò il duca di Spoleto, Faroaldo II, che si era impadroni-to, autonomamente, del porto bizantino di Classe (Ravenna) a restituirlo all’impero: in questo caso erano prevalse ragioni in-

terne – tenere a freno il duca – in un qua-dro esterno che vedeva l’esistenza di una pace ufficiale tra il regno longobardo e Bi-sanzio (dal 680) e rapporti non partico-larmente problematici tra l’impero e l’Ita-lia bizantina», spiega Lidia Capo. Ma a un certo punto qualcosa si guastò. Per “col-pa” di un papa.

Il primo dei tre i pontefici che si avvi-cendarono durante il regno di Liutprando, Gregorio II, si mise a capo di un movimen-to antiimperiale dopo che l’imperatore bi-zantino Leone III aveva vietato, nel 726, il culto delle immagini di Dio e dei santi

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IL GUERRIERO LONGOBARDO COMBATTEVA COSÌ

I guerrieri ve-nivano sepolti con il loro cor-redo: tanto più ricco quanto più alto era il loro rango.

Ci si protegge-va con lo scu-do circolare di legno, rivestito di cuoio e metallo.

L’elmo a lamel-le è costituito da fascette di ferro sovrap-poste e tenute insieme da fili di cuoio.

La lancia in legno con cu-spidi e puntali metallici era l’arma più usata.

(iconoclastia). Divenne, questo, il pretesto dottrinario per smarcarsi da un potere lon-tano e malvisto (nonché distratto, a orien-te, per contenere i Persiani). Della disputa approfittò Liutprando, che si dichiarò di-fensore dei “devoti delle immagini”. Sac-cheggiò l’Esarcato di Ravenna, conquistò terre e città bizantine in Emilia. Si spinse fino alla fortificazione di Sutri, avamposto a nord del ducato bizantino di Roma (oggi in provincia di Viterbo), cruciale per la di-fesa della città, la assediò e la conquistò. Solo dopo 5 mesi, nel 728, Sutri fu lascia-ta dai Longobardi, ma non restituita ai Bi-zantini: Liutprando la donò agli apostoli Pietro e Paolo, cioè alla Chiesa. Un mos-sa che ha fatto la Storia, visto che da quel nucleo nascerà lo Stato della Chiesa.

ConvinCente. Ecco come erano andate le cose. Dopo aver piegato i potentissimi (e troppo indipendenti) duchi di Spoleto e Benevento, che tra l’altro si erano alle-ati con il papa, Liutprando si era accampato alle fal-de di Monte Mario. Grego-rio II, che preferiva subire l’autorità di un imperatore eretico ma lontano, piutto-sto che quella di un ener-gico re troppo vicino, approfittò del suo ascendente religioso: si recò al campo di Liutprando e semplicemente gli parlò. Il re (“casto virtuoso, instancabile nel prega-re, largo nelle elemosine”, ricordiamolo) si commosse e depose la spada.

Lo storico tedesco Ferdinand Gregoro-vius (1821-1891), celebre per i suoi studi sulla Roma medioevale, descrivendo l’epi-sodio lo paragonò a quel-lo che 300 anni prima ave-va coinvolto papa Leone Magno. Quello che con il suo carisma aveva fermato il re degli Unni Attila a un passo dalla calata su Ro-ma. Anche Liutprando, ammaliato e scos-so nel profondo, girò i tacchi. “L’avvenire del papato, dominatore del mondo fu de-ciso durante l’incontro tra il papa Gregorio II e il re longobardo Liutprando alle falde di Monte Mario”, arriva ad affermare Gre-gorovius. Per altri, quello di Sutri fu solo un episodio dell’altalenante rapporto tra i vertici del regno longobardo e la Chiesa di Roma. Un episodio chiave, però, perché fu l’inizio del potere temporale dei papi.

nuove amiCizie. Il papa numero due con cui ebbe a che fare Liutprando fu Gregorio III, che nella partita fece entrare un nuo-

La lama corta (scramasax) veniva usata per il com-battimento a cavallo.

Legata al fian-co si portava una lunga spa-da (spatha) in ferro a doppio taglio.

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Ispirazione classicaFigure di sante scolpite presso l’Oratorio di Santa Maria in Valle, a Cividale del Friuli (Ud). Il tempietto, esempio dell’arte longobarda dell’VIII secolo, mostra l’influenza dell’arte classica.

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Uno dei motivi per cui Liutprando non riuscì a realizzare il suo sogno di unificare l’Italia fu l’eccessiva sudditanza nei confronti del vescovo di Romavo giocatore, i Franchi. Si rivolse infatti a Carlo Martello, “maggiordomo di palaz-zo” del regno franco di Austrasia e Neu-stria, chiedendo esplicitamente aiuto mili-tare contro quel re che era diventato trop-po potente. Ma con scarsi risultati.

«Liutprando non solo non fu mai in guerra con i Franchi, ma anzi fu in rapporti ottimi con i Pipinidi in ascesa», spiega Capo. «Aiutò Car-lo Martello contro gli Arabi che at-taccavano la Provenza e “adottò”’ Pipino il Breve tagliandogli i capel-li [il rito di iniziazione longobar-do, ndr]. Da parte sua Carlo non diede seguito alle richieste di aiu-to contro Liutprando rivoltegli dal papa e considerò il re longobardo con molto rispetto. Si può dire che l’ideologia del potere dei Pipinidi è stata influenzata dalla cultura po-litica longobarda, che raggiunse le sue espressioni più complesse e ar-moniose proprio con Liutprando».

Scambi di caStelli. Anche per Zaccaria, il terzo pontefice, nel 741, il problema più urgente era il rapporto con Liutprando: per pri-ma cosa rivoleva indietro i quattro castelli conquistati dai Longobardi

durante il papato del suo predecessore. Per convincerlo, anche Zaccaria fece visita al re nel suo accampamento, dove fu ricevuto con i massimi onori. La predica commos-se – di nuovo – il pio sovrano che non solo restituì le quattro fortificazioni ma conclu-se una pace ventennale con i Bizantini del

ducato romano (743). Il pontefice ne uscì vincitore. «Va detto che Liutprando proba-bilmente non arrivò mai a considerare il papa un nemico politico e d’altronde ha trovato con Zaccaria quello più disponibi-le a considerare i Longobardi degli interlo-cutori “civili”», precisa l’esperta.

PaSSo indietro. Liutprando alla fine dovette rinunciare a quell’uni-tà del suolo italico a cui aveva pun-tato da principio. Con il papato pa-gò una certa sottomissione dovuta a una fede autentica. «Ma è possi-bile che Liutprando fosse arrivato alla conclusione che il quadro po-litico era, per il momento, blocca-to (questa almeno l’idea che se ne fece Paolo Diacono), e che quindi era meglio fermarsi e conservare rapporti civili anche con l’impero bizantino», conclude Lidia Capo. Una cosa però il re longobardo l’a-veva ottenuta. I suoi sudditi erano cambiati: non erano più solo guer-rieri ma proprietari fondiari e con-tadini, artigiani e mercanti. Quasi tutti cattolici. E Liutprando era di-ventato padre di una nazione lon-gobarda sempre più italiana. •

Anita Rubini

Liutprando fu il più attivo legislatore dopo Rotari: a lui

va il merito di aver eliminato dal diritto longobardo arbitrii e asprezze, guidato – come di-ceva – da “volontà e ispirazione di Dio”. Proprio della progres-siva cristianizzazione sua e del suo popolo rimane traccia nel corpus di leggi, in primo luo-

go in una nuova concezione dell’uomo: furono inasprite le pene per l’omicidio e limitato il diritto di faida. Ma non solo. E giustizia per tutti. L’obietti-vo del sovrano fu la difesa dei più poveri e deboli: grazie a nuove disposizioni, i minoren-ni furono tutelati per esempio dalla perdita dei beni in caso

di successione; fu regola-mentata inoltre la possibilità di ereditare da parte delle donne, equiparando le quote di patrimonio che spettavano alle figlie nubili e a quelle spo-sate. «L’opera di Liutprando fu attenta sia a mantenere il controllo regio sulla legge, in modo che fosse un elemento

di giustizia e di coesione po-litica e sociale, sia a prestare attenzione ai problemi, alle esigenze e anche alle soluzioni presenti nella società», spiega la storica Lidia Capo. «Si tratta di una legislazione di grandis-simo valore morale, politico, sociale e anche tecnicamente giuridico».

Un trono per tre I tre papi che si succedettero al soglio pontificio tra il 715 e il 744, anni di reggenza di Liutprando: la Chiesa divenne sempre più una forza politica.

Capolavoro Fonte battesimale del patriarca Callisto (730-740), capolavoro della “rinascenza liutprandea”.

Il legislatore degli ultimi

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GLI ALTRI PROTAGONISTIDal conquistatore all’ultimo sovrano, dallo storico al vescovo, il “chi è chi” dei Longobardi.

ROTARI

Il legislatore (606-652)

Sul trono longobardo dal 636, ampliò i confini del

regno verso Veneto e Liguria. Allo stesso tempo, per erodere i domini bizantini, favorì le mire di espansione dei duchi longobardi di Benevento.Leggi barbariche. Ma Rotari è passato alla Storia per ben altro. Nel 643 promulgò l’edit-to che porta il suo nome, una raccolta di leggi in cui per la prima volta furono messe per iscritto le consuetudini del suo popolo. L’Editto di Rotari raccoglie le norme che rego-lavano la vita dei Longobardi, nuove disposizioni per elimi-nare le vendette, proteggere la proprietà privata e sviluppa-re l’agricoltura. Le tradizionali leggi germaniche di diritto pri-vato e penale risultano in par-te adattate allo stanziamento dei Longobardi in Italia.

La raccolta è scritta in latino, anche se con molti termini germanici. Altra prova che l’in-contro e l’integrazione tra Lon-gobardi e Romani erano giunti a una fase decisiva. Parlando delle leggi, infine, l’Editto di Rotari ci ha fornito molti det-tagli e curiosità sui valori, sugli usi e sulle tradizioni di questo popolo barbaro. (i. m.)

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DESIDERIO

L’ultimo sovrano (?-dopo il 774)

Per Dante meritava di essere ricordato soltanto perché

offrì il pretesto per l’intervento decisivo di Carlo Magno in difesa del papato. Intervento che ne fece l’ultimo re longo-bardo e spianò la strada all’im-pero carolingio. Per gli storici, nella giungla di alleanze tra pontefici, Bizantini e la riotto-sa aristocrazia longobarda, il suo nome è piuttosto sinoni-mo dell’estremo tentativo di tenere in vita il regno. Scomunicato. Nato a Brescia ma cresciuto politicamente facendo il duca di Tuscia (Italia Centrale), Desiderio le provò proprio tutte per cercare di spezzare il patto mortale (per i Longobardi) tra papato e Fran-chi. Incluso un matrimonio tra una propria figlia (anonima nei documenti, ma passata alla Storia come Ermengarda)

e Carlo Magno. Ma proprio quelle nozze gli costarono il trono. Nel 773-74 il genero di Desiderio ripudiò Ermengarda e calò in Italia col suo esercito in difesa di papa Adriano I, che intanto aveva scomunicato Desiderio. Caduta Pavia, il re deposto fu rinchiuso in mo-nastero, forse a Liegi (Belgio), dove morì. (a. c.)

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ADELCHI

Lo sconfitto (?-788 circa)

Se non fosse per la trage-dia alla quale Alessandro

Manzoni, nel 1822, diede il suo nome, di lui ben pochi saprebbero. Governò a fianco del padre Desiderio, l’ultimo re dei Longobardi, e fu forse fidanzato di una sorella di Car-lo Magno, Gisela. Il che, come nel caso dell’augusto genitore, non servì a evitare lo scontro ormai aperto con i Franchi. Dai Bizantini. All’inizio il principe Adelchi fu schierato a Ivrea, dove però i nemici calati dalla Valle d’Aosta lo costrinse-ro a battere in ritirata. Riparò allora a Verona, poi (ironia del-la Storia) alla corte di Costan-tinopoli, da dove si dice che ricevette il titolo di patrizio. Da qui tentò di riprendersi il re-gno degli avi, o almeno la sua parte meridionale, sbarcando in Calabria verso il 787.

Come finì? Chi dipinge Adelchi come un indomito custode dell’orgoglio longobardo lo immagina caduto in battaglia, e per mano del nipote Gri-moaldo III. Secondo quanto racconta il cronachista franco Eginardo terminò invece i suoi giorni a Costantinopoli, ospite dei Bizantini, gli antichi nemici dei Longobardi. (a. c.)

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ALBOINO

Il conquistatore (530-572)“Bevi Rosmunda, dal teschio

di tuo padre!”. Chi non ri-corda di aver letto questa frase a scuola? Nella realtà Alboino aveva sconfitto Cunimondo, re dei Gepidi e padre di Rosmun-da, aveva fatto prigioniera la giovane e l’aveva costretta al matrimonio. Ma non è certo che la fanciulla fosse stata costretta a bere dalla coppa tratta dal cranio di Cunimon-do, come narra la leggenda: la parola “kopf” ai tempi signifi-cava sia coppa che testa. In ogni caso Alboino ebbe il merito di condurre il suo popolo dalla Pannonia, nel 568, alla conquista di grandi città del Nord Italia: Cividale, Aquileia, Vicenza, Verona e l’ex capitale imperiale Milano. Per prendere Pavia, nel 571, la sola che gli si oppose, dovette assediarla per tre anni.

Crudelissimo. Alboino era spietato. Si racconta che quan-do il re riuscì a entrare a Pavia, voleva passarne a fil di spada la popolazione e radere al suo-lo la città. Ma gli furono inviate 12 fanciulle, con pani a forma di colomba, simbolo di pace. Preso per la gola, o sedotto dalle giovani, Alboino decise di risparmiare Pavia. (i. m.)

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GLI ALTRI PROTAGONISTI

ASTOLFO

L’espansionista (?-756)

Figlio di Pemmone, duca del Friuli, diventò re dei

Longobardi nel 749 dopo aver costretto il fratello Rachis ad abdicare. La sua colpa? Era troppo filo-romano. Astolfo, invece, fin dal suo primo anno di regno si definì rex gentis Langobardorum, riorganizzò profondamente l’esercito, rendendo ogni uomo libero passibile di leva, e tentò di espandere il regno verso zone dell’Italia centrale soggette all’Impero bizantino. Nella sua marcia di conquista, Astolfo riuscì a prendere Ra-venna e arrivò a fare scorrerie persino nelle terre pontificie.Arrivano i Franchi. Ma papa Stefano II non restò a guarda-re. Preoccupato dalle minacce longobarde, chiese aiuto al re dei Franchi, Pipino il Breve, che non si fece pregare e scese

in armi in Italia nel 754 e nel 756, proprio per ridimensiona-re le ambizioni dell’impudente Astolfo. Ed ebbe la meglio: Astolfo, dopo la sconfitta alle chiuse di San Michele (nella piemontese Val di Susa), fu costretto a rinunciare ai suoi piani. Morì in un incidente di caccia a Pavia, per una brutta caduta da cavallo. (i. m.)

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GRIMOALDO

L’astuto (?-671)

Nato da Gisulfo II, duca del Friuli, nel 647 ebbe

il primo titolo importante: duca di Benevento. Ma quando si scatenò la lotta per la successione alla corona, dopo la morte del re Ariperto, in puro stile shakespeariano, prima ap-poggiò l’ariano Godeperto contro il fratello Pertarito, poi ne sposò la sorella, Teodora, e infine si sbaraz-zò del sovrano che aveva sostenuto per aprirsi la strada verso il trono. Trucchi e minacce. Scelto come re dai Longobardi, nel 663 dissuase l’imperatore bizantino Costante II dal ri-prendersi le terre del ducato di Benevento: bastarono poche scaramucce per giungere a una vittoria. Ma dovette stipu-lare un’alleanza con gli Avari,

nemici storici, per bloccare le pretese di indipendenza di Lupo del Friuli, duca reggente. E quando gli Avari cercarono di muovere guerra anche con-tro il suo popolo, Grimoaldo con un espediente riuscì a far credere di essere al comando di un esercito più numeroso di quanto davvero fosse, in-ducendoli ad abbandonare le loro posizioni in Friuli. (i. m.)

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LIUTPRANDO

Il grande vescovo (920-972)

Visse 150 anni dopo che De-siderio era stato sconfitto

da Carlo Magno, quando il re-gno dei guerrieri dalle lunghe barbe non c’era più. La sua storia dimostra però che quel popolo era integrato nel siste-ma di potere europeo, al quale continuò a dare un notevole contributo culturale e artistico.Diplomatico. Nato a Pavia da una importante famiglia di funzionari, Liutprando fu vescovo di Cremona e diplo-matico al servizio del re d’Italia Berengario prima e di Ottone I del Sacro romano impero, poi. Per conto dell’imperatore an-dò in missione diplomatica a Costantinopoli, dove lo sprez-zante sovrano bizantino Ni-ceforo II Foca gli rispose: “Voi non siete Romani, siete Longo-bardi!”. Pensava di offenderlo. In realtà era Liutprando a

guardare dall’alto in basso i Bizantini, ai ferri corti con il Sacro romano impero per il controllo del Sud. Almeno se si dà retta ai resoconti ai limiti del razzismo che scrisse lo stesso Liutprando. L’orgoglio germanico spinse il vescovo di Cremona a definire Niceforo “un pigmeo con la testa grossa” e una “faccia da porco”. (a. c.)

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PAOLO DIACONO

Lo storico (?-799)

È grazie a lui se conosciamo le vicende dei Longobardi.

Paolo Diacono (dal suo grado nell’ordine ecclesiastico) nella sua Historia Langobardorum li ha infatti raccontati dalle origi-ni alla morte del re Liutprando nel 744. L’opera, che già nel Medioevo aveva avuto un certo successo, fu redatta da Diacono negli ultimi anni della sua vita.Grammatico. Friulano di nascita (nacque a Cividale tra il 720 e il 724 da una famiglia nobile), fu in rapporto diretto con la corte dei duchi friu-lani e poi educato in quella regia di Pavia, forse proprio ai tempi di Liutprando. Qui Paolo frequentò una scuola di grammatica e ricevette anche un’infarinatura giuridica. Ma a un certo punto abban-donò ogni gloria mondana e si

fece monaco a Montecassino, non si sa se per gli eventi che travolsero il regno longobardo (come l’abdicazione di Rachis del 749) o per una crisi mistica. Fu poi per 5 anni maestro di grammatica alla Corte di Carlo Magno ad Aquisgrana, dove il re stava radunando gli uomini più colti per avviare una rina-scita culturale e sociale. (a. r.)

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BENVENUTIMolte località del Meridione conservano tracce dei Longobardi. Nei luoghi di culto, nelle architetture e nelle tradizioni popolari

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Page 63: Focus Storia (Maggio 2015)

Molte località del Meridione conservano tracce dei Longobardi. Nei luoghi di culto, nelle architetture e nelle tradizioni popolari

Nella foto grande, affreschi della grotta di San Michele a Faicchio (Bn). Sotto, il santuario a San Michele Arcangelo nel Gargano (Puglia).

I leghisti “prima maniera”, quelli che si da-vano appuntamento a Pontida per chiede-re la secessione, hanno sempre trascura-to questo dato storico: un tempo il nostro

Meridione fu abitato da popolazioni germani-che. Erano gli anni in cui la cultura longobar-da arrivò a lambire le coste del Mediterraneo e Benevento era considerata geminum (gemella) di Pavia, capitale dell’intero regno longobardo.

Non solo: omettono che ci fu un momento di svolta, quando il Nord capitolò nelle mani dei Franchi, mentre il Sud si distinse per “celoduri-smo” riuscendo a mantenere più a lungo la pro-pria indipendenza. Basta riavvolgere il film del-la Storia e fermarsi al VI secolo. Quando gli uo-mini dalla lunga barba, i Longobardi appunto, colonizzarono parte della nostra Penisola, dan-do vita a due “macroregioni” suddivise in duca-ti, quelle della Longobardia Maior e della Lon-gobardia Minor. A dividerli, il cosiddetto corri-doio bizantino che passava per Orvieto, Chiusi e Perugia. Ancora oggi molte località meridionali portano traccia di quella presenza plurisecolare: nelle architetture, nei luoghi di culto, nei nomi dei paesi e in alcune tradizioni popolari. E c’è chi sostiene che fu quella divisione (e il prima-to di longevità dei Longobardi del Sud) a porre le basi della “questione meridionale” (v. inter-vista in fondo a questo articolo).

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Tempio nazionale Capitello nella chiesa di Santa Sofia (Benevento): divenne il tempio nazionale dei Longobardi che, dopo l’invasione dei Franchi, si rifugiarono qui.

Patrimonio mondiale L’interno della

chiesa di San Salvatore a Spoleto

(oggi Patrimonio Unesco): già basilica

paleocristiana, fu ricostruita

nell’VIII secolo.

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ArrivAno i nefAndissimi. Di certo quando que-sto popolo guerriero, “nefandissimo” secondo la definizione di un papa di allora, attraversò le terre meridionali bizantine con carri, mogli e fi-gli, trovò città impoverite da decenni di razzie e malgoverno. Ma a loro sembrò di aver trova-to l’America. Non solo perché non ebbero diffi-coltà a insediarsi con le loro fare, ma anche perché molti di loro avevano già cono-sciuto quei territori: ci avevano combattu-to, in precedenza, a fianco dei Bizantini e conservavano ricordi di verdi pascoli con meleti che “davano frutti ben due volte”.

Dal loro punto di vista fu quindi una pacchia. Confiscaro-no territori apparte-nenti alla Chiesa, co-stringendo molti mo-naci a fuggire e a cer-care rifugio in Sicilia. E distrussero i lo-ro monasteri, tra cui quello di Montecas-sino. Saccheggiarono poi interi villaggi, oc-cupando i campi.

«Parliamo di popolazioni barbare, diverse da quelle che avevano occupato fino a quel mo-mento quei territori», spiega Giuseppe Roma, docente di Archeologia cristiana e medioevale all’Università della Calabria. «I Longobardi non conoscevano la cultura romana, erano assai più arretrati anche tecnologicamente: portavano con loro stoviglie fatte a mano, non conosceva-no torni e fornaci. Oltre ad avere usi e costumi selvaggi. Ci misero almeno un secolo ad acquisi-re le competenze tecnologiche e linguistiche che erano state degli antichi Romani».

Autonomie locAli. Gli anni esatti in cui si in-sediarono al Sud sono ancora oggetto di discus-sione. «Mentre gli studi cronologicamente più datati hanno supposto che i primi duchi, Faro-aldo di Spoleto e Zottone di Benevento, abbia-no conquistato l’Italia Centrale e Meridionale in quanto “ufficiali” di re Alboino, le indagini più

recenti hanno creduto di poter affermare che questi duces erano i comandanti di gruppi mi-litari longobardi al servizio dei Bizantini», scri-ve nel suo saggio Storia dei Longobardi (Einau-di) lo studioso tedesco Jörg Jarnut. In ogni ca-so, siamo nel 575 circa.

Nell’arco di un secolo assimilarono però mol-tissime tradizioni, romane e locali. A partire da quelle re-ligiose – nel 658 si convertirono al cat-tolicesimo – unen-dole a culti ariani e pagani.

San Michele diven-ne la star dei Lon-gobardi. Nell’angelo che difendeva, spa-da in pugno, la fede in Dio contro le orde di Satana, i neocon-vertiti riconobbero le virtù di Odino, dio nordico della guer-ra e protettore degli eroi e dei guerrieri. Tanto bastava per ve-nerarlo e dedicargli luoghi di culto che in alcuni casi anco-ra oggi è possibile vi-sitare. Uno su tutti: il

santuario di San Michele Arcangelo nel Garga-no, epicentro del culto micaelico.

Edificarono però anche nuovi monasteri, co-me quello di Farfa nella Sabina (nel Ducato di Spoleto), una delle massime espressioni dello stile longobardo del Sud, o come l’Abbazia di San Vincenzo al Volturno (Isernia). Gli ex deva-statori sponsorizzarono la nascita di nuove scrit-ture per i monaci amanuensi, come quella be-neventana, e nuove forme di canto e notazione musicale (v. riquadro a destra).

montecAssino cAput mundi. Tutto il Sud lon-gobardo si trasformò da periferia dell’impero (bizantino) a epicentro di un fiorire di cittadel-le fortificate e conventi. Lo stesso monastero di Montecassino fu riaperto e ricostruito. «Per mol-ti fondatori di monasteri devono essere stati de-cisivi i motivi religiosi. Poiché tuttavia la mag-gior parte di questi monasteri vennero fondati

Epicentro del culto di San Michele fu il santuario del Gargano. Da qui si diffuse in tutto il regno e l’arcangelo divenne il santo patrono dell’intero popolo longobardo

I Longobardi del Sud, con il fervore dei convertiti,

influirono anche sulla musica religiosa. Mentre al Nord dominava il canto ambrosiano, nei monasteri e nei centri liturgici del Sud longobardo, a partire da Montecassino, si dif-fuse il cosiddetto canto beneventano (sopra, in un manoscritto). Nella chiesa di Santa Sofia, fondata dal duca di Benevento Arechi II intorno al 760, ci sono testimonianze che confer-mano la diffusione di un rito beneventano, comprensivo di canto e liturgia. Per oltre un secolo questo soprav-visse a fianco del canto gregoriano – dal nome del papa benedettino Gregorio Magno – nato nell’VIII se-colo dall’incontro del canto romano antico con il canto gallicano, nel contesto della rinascita carolingia. Surclassati. Come mai allo-ra del canto beneventano a un certo punto si perse traccia, mentre dilagò a macchia d’olio quello gre-goriano? Un momento deci-sivo fu l’anno 1058, quando il papa Stefano IX, già abate di Montecassino, tornò nell’abbazia e vi proibì il canto beneventano e ma-brosiano. Successivamente, crescendo e affermandosi sempre più la fama e l’in-fluenza di Montecassino, la tradizione “alternativa” beneventana fu marginaliz-zata: oggi rimane solo una gloriosa memoria dell’an-tica cultura longobarda nel Meridione d’Italia.

Cantare alla beneventana

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della chiesa di Santa Sofia a

Benevento.

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Page 66: Focus Storia (Maggio 2015)

Malgrado l’ostilità dei carolingi, Benevento arrivò a imporre tributi alla città di Napoli e conquistò Amalfi

intorno agli anni 754-56, e in alcuni casi intere famiglie si ritirarono nelle nuove fondazioni, è lecito supporre che anche ragioni politiche, l’in-stabilità e le minacce cui era sottoposto il regno avessero contribuito in maniera determinante a questa scelta di ritirarsi nel chiostro», spiega an-cora Jörg Jarnut.

Dilettissimi. Questo entusiasmo religioso, qualunque ne fossero le motivazioni, non di-spiacque al papato, che nell’arco di poco più di un secolo cambiò la sua opinione sui Longo-bardi, promuovendoli da nefandissimi a dilet-tissimi. Si spiega così la missiva inviata dal ca-po della Chiesa al duca di Benevento Arechi II (734-787), futuro principe di Salerno. Le parole questa volta erano garbate: “de filio nostro con-fidimus”, gli scrisse. «In gioco c’erano interessi economici», precisa Giuseppe Roma. «Il ponte-fice chiedeva al duca una mediazione, affinché agevolasse il trasporto di legname verso Roma per l’edificazione delle basiliche di San Pietro e Paolo». Ovviamente, quel popolo guerriero era anche il miglior rimedio all’avanzata bizantina. E un potenziale alleato nelle lotte interne.

Per oltre quattro secoli la cultura longobarda al Sud poté quindi prosperare. Spuntarono co-me funghi nomi inequivocabili che rimandava-no a termini germanici come galdi (“boschi”). E si riciclarono tradizioni pagane legate al culto dei boschi sacri, che soprattutto nell’aristocra-zia longobarda convivevano con i culti cristia-ni. Di questo sincretismo resta più di una trac-cia, come spiega Giuseppe Roma. «Ad Alessan-dria del Carretto (Cosenza) si celebra ancora la festa della pite (abete), di tradizione longobar-da: durante l’ultima domenica di aprile un gros-so abete viene tagliato nelle montagne del Mas-siccio del Pollino e trascinato fino al paese. Il giorno che precede la festa del patrono, sant’A-lessandro, l’albero viene privato della corteccia e levigato. Il mattino del 3 maggio gli si aggiun-ge la cima adornata con prodotti locali, lo si sol-leva e si crea un albero della cuccagna alto circa 16 metri. Per vincere i premi il concorrente deve scalare l’albero e prenderseli».

suD-NorD 1-0. Quando, per soccorrere papa Adriano I, i Franchi di Carlo Magno occuparono la Longobardia Maior correva l’anno 774. Fu al-lora che gli abitanti del Ducato di Benevento, co-mandati da Arechi II, dimostrarono la loro supe-riorità sui “fratelli” del Nord: respinsero più vol-te i tentativi di invasione dell’esercito franco sia con le armi, sia con accordi temporanei di non belligeranza. Non solo: accolsero l’élite longo-

barda settentrionale, rimasta senza regno. Sol-tanto trecento anni dopo, nell’XI secolo, il Me-ridione longobardo fu travolto dal ciclone nor-manno. Si concludeva così l’epopea degli “uomi-ni dalla lunga barba”. Un’epopea segnata dalla prima divisione Nord-Sud nel nostro Paese. •

Giuliana Rotondi

Frammenti superstiti

Frammento delle mura longobarde a Benevento

con un bassorilievo che raffigura un uomo con

un paniere. In basso, Arechi II ritratto in un

codice longobardo.

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DESTINI SEPARATI

Nord e Sud? Altro che Unità d’Italia: la que-stione, secondo lo storico e accade-

mico dei Lincei Giuseppe Ga-lasso, è vecchia di almeno quindici secoli. A differen-ziare i due regni longobardi non fu, dice, la loro struttu-ra amministrativa – la stes-sa al Nord come nei ducati del Sud – ma i diversi desti-ni culturali, sociali e politici che ebbero quei territori.

Lei afferma che la divisione dell’Italia in due grandi regio-ni storiche risalirebbe addirittura all’arrivo dei Longobardi nel 568 d.C. Per quale motivo?

«Perché con l’invasione dei Longobar-di l’Italia fu divisa in due aree: quella del Regno longobardo e quella bizan-tina, diverse non solo sul piano politi-co. Poi (774) il Centro-nord fu conqui-stato da Carlo Magno e seguì l’evoluzio-ne delle istituzioni carolingie (e più tar-di del Sacro romano impero germanico). Nel Mezzogiorno ducati e principati lon-gobardi sopravvissero, ma subirono l’in-fluenza bizantina, mentre la Sicilia ven-ne occupata, nel IX secolo, dagli Arabi».

Quali differenze iniziarono a emer-gere nel Sud longobardo-bizantino?

«Dopo il Mille ci fu un forte slancio eco-nomico e sociale in tutta la Penisola; a li-vello politico ciò si tradusse nel Mezzo-giorno nella formazione del Regno di Sici-lia e al Centro-nord nell’esperienza comu-nale. Anche in relazione a questa diversità di partenza nei tre secoli successivi l’eco-nomia del Sud divenne sostanzialmen-

te agraria, mentre il Nord si sviluppò in senso più manifatturiero, mercantile e fi-nanziario. Ma le due realtà erano intima-mente connesse in un rapporto di comple-mentarità, governato da quello che tecni-camente si chiama regime dello “scambio ineguale”, e che portò a una dipendenza economica del Meridione dal Nord. Nel Trecento fu larghissima la penetrazione nel Sud di banchieri e mercanti toscani, sostituiti più tardi dai genovesi».

La crescente dipendenza dal capi-tale del Centro-nord vuol dire che il Mezzogiorno era rimasto in qualche modo inattivo?

«Tutt’altro. Nel rapporto di “scambio ineguale” uno degli attori è più debole dell’altro, perché in economia i beni pri-mari dell’agricoltura hanno una ragione di scambio (il rapporto in base al quale beni di diversi Paesi vengono scambiati, ndr) inferiore a quella dei beni manifattu-

rieri e dei servizi finanzia-ri. Tuttavia se anche il Mez-zogiorno non fosse matura-to, sviluppando una sua ro-

busta struttura agraria, non avrebbe potuto essere com-

plementare all’economia del Centro-nord. Si determinò così

un “sistema” italiano, mentre alla interrelazione economica si aggiun-

gevano altri tratti unitari, come quelli linguistici e culturali».

Insomma, una sorta di simbiosi…«Qualcosa di più, forse. Ma durante il

Seicento la Penisola perse il suo secola-re primato economico-finanziario in Eu-ropa: inglesi, francesi, fiamminghi, te-deschi subentrarono gradualmente all’I-talia, che passò nelle retrovie anche dal punto di vista della leadership culturale».

Questo come modificò i rapporti tra le diverse “latitudini” dello Stivale?

«Alla superiorità del Centro-nord verso il Mezzogiorno – superiorità “integrata” e complementare al Sud – subentrò la su-premazia di altri Paesi, nei confronti dei quali il Mezzogiorno non poteva svolge-re un ruolo da comprimario. Fu così che il “dualismo” italiano entrò in crisi, senza svanire del tutto: continuò a vivere sotto-traccia fino all’unità nazionale, con nuo-ve condizioni storiche che lo trasforma-rono nella “questione meridionale”». •

Adriano Monti Buzzetti Colella

Per lo storico e accademico dei Lincei Giuseppe Galasso, la lunga vicenda della “questione meridionale” iniziò proprio con la divisione delle due Longobardie.

Passaggio epocale Un animale fantastico

in una decorazione in stile altomedioevale,

da Aquileia (IX secolo). MO

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s a p e r n e d i p i ù

Storia dei Longobardi Jörg Jarnut (Piccola Biblioteca Einaudi)I Longobardi visti fin dalle loro prime migrazioni a nord, forse in Scandinavia, Germania settentrionale e nelle attuali Boemia e Ungheria. Quella del VI secolo, verso l’Italia, fu una migrazione definitiva, anch’essa descritta in questo testo classico, scritto dallo storico tedesco.

Storia dei Longobardi Paolo Diacono (Mondadori) Il popolo longobardo “visto” da uno di loro: scritta attorno al 789, la Historia di Paolo Diacono segue le vicende del popolo longobardo fino all’apogeo raggiunto durante il regno di Liutprando (il testo si conclude infatti alla morte del sovrano, nel 744).

Italia longobarda. Il regno, i Franchi, il papato Stefano Gasparri (Laterza) Storia dell’Italia longobarda con

alla ricostruzione che ne fece Paolo Diacono ma anche ai racconti pittorici degli affreschi del Duomo di Monza.

I Longobardi e la storia. Un percorso attraverso le fonti Francesco Lo Monaco, Francesco Mores (Viella)Dal più antico autore che ha raccontato i Longobardi (Procopio di Cesarea) fino a Paolo Diacono: sono stati loro i primi a costruire una storia longobarda. Il libro ci racconta come.

Longobardi. Dalle origini mitiche alla caduta del regno in Italia Nicola Bergamo (Libreria Editrice Goriziana)I Longobardi raccontati a 360 gradi fino al loro impatto sulla Penisola italiana dove, con il loro arrivo, si spense ogni velleità bizantina. Costantinopoli infatti non riuscì più a mantenere la provincia italica e furono evidenti le difficoltà di contenere l’espansione barbarica. Nacque così un regno romano-barbarico durato due secoli.

particolare attenzione all’VIII secolo, dove c’era più di una forza in gioco: tra il regno, l’espansione carolingia e le ambizioni politiche del papato.

I Longobardi G. P. Brogiolo, A. Chavarría Arnau (Silvana Editoriale) È il catalogo di una delle mostre più importanti dedicate negli ultimi anni al popolo longobardo. Fu organizzata a Palazzo Bricherasio (Torino) nel 2007. Il filo conduttore era quello del confronto culturale e della fusione tra i barbari e le popolazioni romane.

Teodolinda. Una regina per l’Europa Felice Bonalumi (Edizioni San Paolo)Un libro per scoprire la vita della sovrana longobarda, grazie

Da popolo barbarico a nuovi padroni dell’Italia: i Longobardi spiegati dagli storici attraverso le fonti e le opere d’arte.

I “LUNGHE BARBE”

Anche questo mese History HD, il canale di Sky dedica-

to alla Storia, affronta il tema in primo piano su questo numero di Focus Storia. Lo fa con tre documentari dedicati a tribù germaniche che, come i Longobardi, minacciarono lo scricchiolante Impero romano.

I VICHINGHII Berserker erano feroci guer-rieri scandinavi. Secondo alcuni studi, la loro ferocia sarebbe dovuta a un fungo allucinogeno, che questi uo-

mini mangiavano in piccole quantità prima di scendere in battaglia e scatenare razzie. Mercoledì 6 maggio, ore 6:00 e ore 18:00

I SOLDATI FANTASMASi presume che i cosiddetti “soldati fantasma” fossero col-legati a una coalizione di tribù germaniche responsabili di

una delle peggiori umiliazioni dell’esercito romano: la scon-fitta di Teutoburgo nel 9 d.C.Giovedì 7 maggio, ore 6:00 e ore 18:00

I VARIAGHI DI COSTANTINOPOLIArrivati dal Nord per difende-re come mercenari il grande Impero bizantino, i Varia-ghi erano abili e pericolosi guerrieri in grado di usare in maniera mortale asce, spade e archi. Venerdì 15 maggio, ore 6:00 e ore 18:00

La Storia raccontata in queste pagine rivive anche in tv

L’imperatore Germanico sul luogo della sconfitta romana di Teutoburgo.

Manoscritto longobardo beneventano dell’XI secolo. DE A

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Come studiavano i rampolli della buona società quattrocentesca? Con le lezioni private di un grande matematico.

Ora di geometria con Luca Pacioli

Un severo frate francescano e un giovane abbigliato con ele-ganza: sono i protagonisti di uno dei dipinti più enigmatici

del Rinascimento, del 1495, attribuito a Jacopo de’ Barbari e oggi al Museo di Capodimonte (Napoli). Il frate è il toscano Luca Pa-cioli (1445 ca.-1517), matematico e grande conoscitore della geo-metria euclidea. Pacioli era originario di Borgo San Sepolcro (oggi in provinca di Arezzo), come Piero della Francesca di cui fu allie-vo e amico. Aveva studiato a Venezia, alla celebre scuola di Rial-to, e insegnato in molte città, da Perugia a Zara, da Napoli a Ro-ma, entrando in contatto, tra gli altri, con l’architetto Leon Bat-tista Alberti e con Leonardo da Vinci, che disegnò 60 tavole per il trattato di Pacioli De divina proportione (stampato nel 1509).

Mistero. Assai più incerta è l’identità del secondo personaggio. Un’ipotesi vuole che sia Guidobaldo da Montefeltro (1472-1508), unico figlio maschio di Federico da Montefeltro e duca di Urbino dal 1482. Fu uomo d’armi, ma ricevette una raffinata educazio-ne umanistica che lo portò a conoscere alcuni tra i maggiori let-terati e scienziati del suo tempo.

Chiunque sia il giovane, gli oggetti disposti sul tavolo non la-sciano dubbi: stiamo assistendo a una lezione impartita a un al-lievo aristocratico, nella prima raffigurazione nota di un matema-tico nell’orgoglioso esercizio della propria scienza. •

Edoardo Monti

2 Il solido è riempito per metà d’acqua. Sulla sua superficie si riflettono il colore verde del ta-volo, una piccola figura di guer-riero e un paesaggio visto da una finestra: alcuni ritengono che si tratti della facciata del Pa-lazzo Ducale di Urbino.

3 Il grigio-cinerino era il colo-re originario dell’abito france-scano. Derivava dalla colorazio-ne naturale della lana grezza uti-lizzata per la tessitura del saio. Il nero e il marrone si affermarono dall’Ottocento.

1 Il solido di cristallo appeso è un rombicubottaedro, un polie-dro semiregolare composto da 18 facce quadrate e 8 a triangolo equilatero. La sua rappresenta-zione compare per la prima vol-ta nelle tavole del De divina pro-portione di Pacioli.

5 Come si deduce dalla scritta “EVCLIDES” sulla lavagna, Pacioli sta illustrando un teorema degli Elementi di Euclide (300 a.C.). Fi-no all’Ottocento era questo il te-sto di riferimento per lo studio della geometria.

4 Indossata sopra un elegan-te farsetto rosso, la sopraveste foderata di pelliccia rivela che la scena si svolge in inverno. Il vol-to sbarbato e la fluente capiglia-tura erano d’obbligo tra i giova-ni aristocratici dell’epoca.

6 La lavagna era usata per disegnare le figure, ma an-che per le operazioni. In un an-golo si scorge un’addizione (478+935+621=2034), sul cui si-gnificato ancora si confrontano storici e matematici.

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7 La penna (appoggiata nel calamaio portatile, agganciato all’astuccio che li conteneva en­trambi) era uno degli strumen­ti matematici dell’epoca. Gli altri (sparsi sul tavolo) erano la lava­gna, il gesso, la spugna per can­cellare, la squadra e il compasso.

9 Su questo cartiglio c’è l’i­scrizione “IACO.BAR.VIGEN/ NIS. P. 1495”. Potrebbe trattar­si della firma dell’autore del di­pinto, individuato in Jacopo de’ Barbari, pittore e incisore veneziano.

10 Sul libro chiuso, si legge l’i­scrizione “LI.R.LVC.BVR”: Liber re-verendi Lucae Burgensis. Si tratta della Summa de arithmetica, ge-ometria, proportioni et proportio-nalità, dedicata da Pacioli a Gui­dobaldo. La ricca rilegatura era tipica dei libri dei nobili.

8 La mano sinistra indica un passaggio del XIII libro degli Ele-menti di Euclide. L’edizione usa­ta da Pacioli, riprodotta nel di­pinto, era la prima disponibile a stampa: fu pubblicata a Venezia nel 1482 dall’editore e tipografo tedesco Erhard Ratdolt.

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Chi erano i “martinitt”?Domanda posta da Debora Russo.

Come si faceva a dimostrare di essere cittadino romano?Domanda posta da Paolo Mantenuto.

Furono così chiamati, a partire dal ’500, gli orfani milanesi ma-

schi accolti presso l’oratorio di san Martino (da cui il nome) per volere di Francesco II Sforza. I martinitt

Innanzitutto, dichiarandolo. La frase di rito era la seguente: “Civis

Romanus sum”. La pronunciò tra gli altri l’apostolo Paolo di Tarso (I secolo d.C.) il quale, prossimo a essere flagellato a Gerusalemme, ottenne di essere processato a Roma venendo infine condannato alla decapitazione (pena capitale considerata “benevola” e riservata proprio ai cittadini romani). Oltre a tale “autocertificazione orale”, a cui si tendeva peraltro a credere più facilmente se l’interpellato

sono diventati famosi soprattutto per il ruolo che hanno svolto nel 1848, durante le Cinque giornate di Milano. In quell’occasione fu-rono reclutati dagli insorti come

staffette. Agli orfani era affidato, nel corso degli scontri, il compi-to rischiosissimo di passare da una barricata all’altra per conse-gnare informazioni delle vedette e ordini del Consiglio di guerra.Pony express. Con la loro uni-forme, costituita da un cappello basso con visiera e da una giub-ba di panno, questi giovanissimi uomini svolsero egregiamente i loro compiti, al punto da essere nuovamente reclutati durante le successive battaglie per l’unità nazionale, in particolare nella Terza guerra d’indipendenza del 1866. Tra i noti imprenditori che, orfani in giovane età, hanno fre-quentato il collegio dei martinitt ci furono l’editore Angelo Rizzoli (fondatore di quella che oggi è la Rcs), Leonardo del Vecchio (fondatore di Luxottica) e Edoardo Bianchi (fondatore dell’omonima azienda produttri-ce di biciclette).

È stata quella di Mel-bourne, in Australia, del 1880 (sopra, in

un’incisione dell’epoca): eb-be 1,459 milioni di visitatori. Ottava fiera mondiale ricono-sciuta dall’Ufficio internazio-nale delle esposizioni e pri-ma nell’emisfero australe, era stata fortemente voluta dal-la Gran Bretagna. Si intende-va riprodurre il modello del-

Qual è stata l’expo meno visitata di sempre?Domanda posta da Aldo Galli.

parlava un buon latino e vestiva alla romana, esistevano documenti che attestavano la cittadinanza in modo ufficiale.Carte d’identità. Se in principio la cittadinanza era limitata a chi viveva nell’Urbe, con l’ingrandirsi dello Stato sorsero sistemi di con-trollo più sofisticati. Come prima cosa fu prevista una registrazione dei cittadini in apposite liste cen-sorie, e dal I secolo a.C. iniziarono ad apparire tavole bronzee (diplo-mi) in cui si attestava la cittadinan-

A cura di Marta Erba, Mattelo Liberti e Maria Lombardi

za ottenuta da soldati stranieri che avevano fatto carriera nell’esercito romano. I civili ricevevano invece una tabula di legno in cui era an-

notata la registrazione del loro no-me negli archivi. Era inoltre chiesto di comunicare prontamente la nascita di eventuali figli.

La decapitazione di san Paolo in un dipinto ottocentesco.

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Ottocento.

domande & risposte

Queste pagine sono aperte a soddisfare le curiosità dei lettori, purché i quesiti siano di interesse generale. Non si forniscono risposte private. Scrivete a Focus Storia, via Battistotti Sassi 11/a, 20133 Milano o all’e-mail [email protected]

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Page 73: Focus Storia (Maggio 2015)

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Perché la Festa dei lavoratori è il 1° maggio?Domanda posta da Luca Carbone.

La Festa dei lavoratori ha una lun-ga tradizione. Il Primo maggio

nasce infatti a Parigi il 20 luglio del lontano 1889. L’idea venne lanciata durante il congresso della Seconda Internazionale, che in quei giorni era riunito nella capitale francese. Durante i lavori venne indetta una grande manifestazione per chiede-re alle autorità pubbliche di ridurre

Nella tabella, le expo con il maggior numero di visitatori.

Qual è stata l’expo meno visitata di sempre?

la giornata lavorativa a otto ore. La scelta della data non fu certo casuale: si optò per il 1° maggio perché tre anni prima, nel 1886, un corteo operaio svoltosi a Chicago era stato represso nel sangue.Oltreconfine. L’iniziativa superò i confini nazionali e divenne il simbolo delle rivendicazioni degli operai che in quegli anni lottavano

per avere diritti e condizioni di lavoro migliori. Così, nonostante la risposta repressiva di molti gover-ni, il 1° maggio del 1890 registrò un’altissima adesione. Oggi quella data è festa nazionale in molti Paesi. Naturalmente Cuba, Russia, Cina, ma anche Messico, Brasile, Turchia e i Paesi dell’Ue. Non lo è, invece, negli Stati Uniti.

le grandi esposizioni europee in quella che era una colo-nia inglese. Come per le al-tre esposizioni internaziona-li, l’obiettivo era promuove-re il commercio e l’industria del Paese. Ma anche l’arte, la scienza e l’educazione.

Rivalità. Melbourne ini-ziò subito i preparativi e nel 1879 presentò un piano al Parlamento inglese. Incon-

trò però la rivalità di Sydney, l’altra grande città australia-na emergente e più antica tra le due, che volle organizza-re un’esposizione a tempo di record. Essendosi focalizza-ta soprattutto sull’agricoltura (e quindi non rispondendo ai criteri di universalità), la fie-ra di Sydney non ottenne il ri-conoscimento ufficiale. Mel-bourne, che invece aveva ot-

tenuto l’approvazione, decise di anticipare i tempi e inau-gurò la fiera nell’ottobre del 1880, in modo da dare la pos-sibilità a chi aveva preso par-te alla fiera di Sydney, termi-nata l’aprile dello stesso an-no, di spostarsi agevolmente. L’affluenza non fu comun-que altissima, soprattutto per la difficoltà nel raggiungere il continente. •

città anno visitatoriShanghai 2010 73 milioniOsaka 1970 64 milioniNew York 1964 52 milioniMontreal 1967 50 milioniChicago 1933 49 milioniNew York 1939 45 milioniSiviglia 1992 42 milioni

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Poster per il 1° maggio parigino

del 1898.

Page 74: Focus Storia (Maggio 2015)

BRUXELLES (BELGIO) 29 MAGGIO 1985

È il 1985: tre anni dopo aver vinto il Campiona-

to del mondo, l’Italia calcisti-ca è di nuovo a un passo da un traguardo prestigioso, la Coppa dei Campioni. La fina-le si gioca il 29 maggio tra Ju-ventus e Liverpool, l’appun-tamento è in Belgio, allo sta-dio Heysel. Prima del fischio d’inizio, però, la tragedia: su-gli spalti perdono la vita 39 spettatori (dei quali 32 italia-ni) e più di 600 rimangono ferite. Nonostante il caos e i morti, la partita viene fat-ta giocare. Vince la Juventus, con un rigore messo a segno da Michel Platini.

Calca assassina. Che cosa era accaduto? Le tifoserie or-ganizzate delle due squadre erano state posizionate nel-le curve opposte dello stadio, per evitare contatti. Ma in uno dei settori “neutri”, con-trassegnato con la lettera Z,

erano entrati anche sempli-ci spettatori e tifosi juventini, separati dagli inglesi da una rete metallica. Un’ora prima dell’inizio della sfida, gli ho-oligan del Liverpool, al grido di “Prendi la curva”, si spin-sero a ondate verso il settore Z, sfondando la rete divisoria. I tifosi impauriti arretrarono in direzione opposta e si am-massarono contro un muro di cemento armato. Molti rima-sero schiacciati finché il mu-ro finì per crollare, rivelando le pessime condizioni in cui versava l’Heysel.

La polizia belga, imprepara-ta, invece di consentire la fu-ga dei tifosi verso il campo di gioco li manganellò, tentan-do di contenerli e peggiorò la situazione. Dopo quella stra-ge, le squadre inglesi rimase-ro escluse dalle Coppe euro-pee fino al 1990. •

Anita Rubini

Nel 1985, prima di Juventus-Liverpool, finale della Coppa dei Campioni, sugli spalti è strage tra i tifosi (molti italiani).

Stadio Heysel, la partita maledetta

una foto un fatto

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Page 75: Focus Storia (Maggio 2015)

In trappola La polizia belga sugli spalti dello stadio

Heysel durante gli incidenti prima della finale di Coppa dei Campioni del 1985 tra Liverpool e Juventus. La calca e l’impreparazione degli

agenti costarono la vita a 39 persone.

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Page 76: Focus Storia (Maggio 2015)

Nel 1839 un ammutinamento sulla nave negriera La Amistad sfociò in uno storico processo

celebrato negli Stati Uniti, che denunciò la tratta atlantica. E rese più forte la causa abolizionista

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Page 77: Focus Storia (Maggio 2015)

Liberi tutti I sopravvissuti dell’Amistad in una

scena del film diretto nel 1997 da Steven Spielberg. Nel tondo

a sinistra, Joseph Cinqué, leader dell’ammutinamento.

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C’era sempre un branco di squali nella scia di una na-ve negriera: si dice fiutas-sero l’odore della schiavi-

tù. La traversata dall’Africa alle Ameri-che durava otto settimane, che i deportati passavano incatenati e nudi, ammassati a centinaia gli uni sugli altri in intercape-dini della stiva alte poco più di un metro (50 centimetri per i bambini). Le epide-mie facevano strage e i capitani gettava-no morti e moribondi in mare. Due seco-li fa, all’inizio dell’800, l’Inghilterra ave-

va dichiarato illegale il traffico di schiavi e dava ufficialmente la caccia ai vascel-li negrieri. Ma il sistema delle piantagio-ni, fondato sulla schiavitù, faceva anco-ra ottimi affari negli Stati Uniti del Sud, a Cuba e in Brasile. Così, la tratta conti-nuava a pieno regime clandestinamente. E i pescecani, non solo quelli nel mare, ne approfittavano.

Deportati. Nell’estate del 1839, 53 afri-cani finirono sulla nave negriera La Ami-stad: 49 uomini e 4 bambini. La loro era una storia come tante: provenivano da

una decina di popoli diversi dell’entroter-ra della Sierra Leone. Per la maggior par-te erano di etnia mende, stirpe di guer-rieri. Erano diventati schiavi chi per de-biti o adulterio, altri erano stati venduti dai parenti ai mercanti di uomini africa-ni, la maggior parte erano stati catturati in guerra o da razziatori di tribù nemiche.

I cacciatori di uomini li avevano fatti marciare per settimane fino alla costa, do-ve erano stati imbarcati con altre centina-ia sulla Teçora, una nave negriera brasilia-na diretta a Cuba. A L’Avana erano rima-

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sti internati una decina di giorni in mez-zo a capre e maiali, per poi essere venduti a due schiavisti spagnoli: José Ruiz e Pe-dro Montes, che la notte del 28 giugno 1839 li imbarcarono sulla goletta La Ami-stad per portarli a Puerto Principe (sem-pre a Cuba), dove sarebbero stati messi a tagliare canna da zucchero, come milioni di altri prima di loro. Oltre a Ruiz e Mon-tes, l’equipaggio era composto dal capita-no Ramón Ferrer, due marinai spagnoli e due schiavi mulatti: il cuoco Celestino e il mozzo Antonio.

Destinazione ignota. Il trasferimento avrebbe dovuto tre giorni. Ma la secon-da notte gli africani dell’Amistad si ripre-sero la libertà. Aiutandosi con un chiodo, Joseph Cinqué forzò un lucchetto e libe-rò lui e tre compagni: Faquorna, Moru e Kimbo. I ribelli scivolarono come om-bre sul ponte, issandosi dal boccaporto, e si armarono di bastoni. Uccisero subi-to Celestino, che si era divertito a far lo-ro credere che i bianchi erano cannibali e li avrebbero divorati tutti. Nel frattempo, altri uomini si erano liberati dalle catene e avevano impugnato machete da pianta-gione recuperati da una cassa nella stiva. I ribelli si gettarono sull’equipaggio, ma il capitano Ferrer ne uccise uno e ne ferì diversi altri. Non bastò a fermarli. Il capi-tano fu decapitato, Montes e Ruiz furono messi fuori combattimento e due marinai fuggirono su una canoa.

L’obiettivo dei ribelli era tornare in Afri-ca. Ma poiché nessuno di loro sapeva go-vernare una goletta dovettero affidarsi agli spagnoli. Esperti marinai, per sette settimane Ruiz e Montez ingannarono gli africani facendo rotta verso est di giorno, ma virando a nord-ovest di notte.

Il 26 agosto 1839 la Amistad arrivò a Long Island, Stato di New York. Dove la schiavitù era stata abolita nel 1827. Al-cuni bianchi spiegarono, a gesti, che era-no approdati in un Paese libero. Gli afri-cani non fecero però in tenpo a festeggia-re. La guardia costiera americana li aveva intercettati, per arrestarli tutti come pira-

Il primo a essere ucciso sull’Amistad fu il cuoco: aveva detto agli schiavi che sarebbero stati mangiati dai bianchi

I NUMERI E I FATTI DELLA TRATTA NEGRIERAMilioni di africani furono ridotti in schiavitù (da altri africani): fu l’inizio della tratta che fra XVI e XIX secolo deportò e uccise milioni di esseri umani. Usati come merce.

RIBELLIONI DA SOFFOCARE A volte i deportati organizzavano delle ribellioni che però venivano sempre represse con massacri. Una volta domata la ribellione, i negrieri avevano il diritto di gettare i responsabili in mare, incatenati.

ZUCCHERO AMAROGli schiavi finivano nelle piantagioni o nelle miniere. A metà del ’700, il 40% la-vorava per produrre canna da zucchero.

LA TRAVERSATADurava 8 settima-

ne e la mortalità (per epidemie) era circa del 20

per cento.

NEGRIERIQuelli che deportarono di più furono portoghesi e brasiliani (46%), inglesi (25%) e francesi (11%).

A DESTINAZIONEGli schiavi erano diretti in Nord America (4%), Brasile (43%), Caraibi (44%). Il 9% in altri Paesi, africani e non.

MARCHIATI A FUOCO I mercanti europei, brasiliani e americani compravano prigionieri da trasportare nelle colonie americane, quelli turchi li rivendevano nell’Impero ottomano e in India. Ogni passaggio era certificato da una marchiatura a fuoco sulla spalla per gli uomini e sul seno per le donne. I portoghesi usavano un marchio speciale per gli schiavi battezzati.

Il numero di schiavi che giunsero vivi in America. Il Brasile ne importò 10

volte più che gli Usa.

10,8MILIONI

Africani imbarcati sulle navi negriere verso le

Americhe. Il viaggio ne falcidiava circa 2 su 10.

12,5MILIONI

Schiavi catturati per la tratta atlantica: la maggior parte proveniva dall’Africa

Centro-occidentale.

20MILIONI

GLI SCHIAVISTI

Olandesi

Spagnoli

Portoghesi

Inglesi

Francesi

NORD AMERICA

CENTRO AMERICA

TRATTA ATLANTICA

SUD AMERICA

O C E A N O A T L A N T I C O

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ANTICHI COMMERCI Schiavi neri in catene: nel VII-VIII secolo i mercanti arabi li acquistavano dai re dell’Africa subsahariana. La richiesta aumentò con la colonizzazione dell’America (XV secolo).

SEMPRE STESIGli schiavi rimanevano

incatenati, talvolta senza spazio per stare seduti.

MARE IGNOTOMolti africani non avevano mai visto l’oceano prima di

essere deportati.

AMMASSATIGli imbarcati erano fino a

500. Avevano a disposizione circa mezzo metro ognuno.

A CAPO CHINONelle stive delle navi negriere gli schiavi avevano a disposizione appena 60-120 centimetri in altezza.

ECONOMIA MALATAUna volta giunti a destinazione, gli schiavi venivano venduti insieme al resto delle merci. Per gli sfruttatori era più conveniente fare lavorare gli schiavi fino alla morte per poi comprarne di nuovi, piuttosto che doverli curare o tenere in vita.

SALUTE A BORDOPer mantenere in salute la “merce” ogni giorno i negrieri lavavano gli schiavi con acqua di mare e li obbligavano a muoversi “danzando” sul ponte. A volte le epidemie che scoppiavano decimavano anche gli equipaggi delle navi negriere.

LAVORO PER DISPERATII marinai che prestavano servizio sulle navi negriere erano quasi sempre dei disperati indotti a quel lavoro dalla povertà, dai debiti o perché ingannati dal capitano; altri erano avventurieri senza scrupoli.

La tratta degli schiavi durò dal XVI al XIX secolo: per gli storici, è la prima grande tragedia globale.

4SECOLI

Il totale dei viaggi nel periodo in cui venne

praticata la tratta: XVI-XIX secolo con picco

nel XVIII secolo.

35MILA

La percentuale di donne imbarcate nella tratta atlantica.Il 28 per cento erano bambini.

33PER CENTO

Africani deportati nei Paesi islamici, nella

tratta orientale.

17MILIONI

Africani deportati nel corso della tratta

interna all’Africa.

14MILIONI BR

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ti. Ruiz e Montes furono invece liberati. La Amistad fu rimorchiata fino al porto di New London, nel Connecticut. Il dram-matico equivoco (ammesso che di equivo-co si trattasse) continuò. Il giudice decise che i ribelli andavano processati per pira-teria e omicidio, mentre i due schiavisti indossarono i panni delle vittime.

Caso politiCo. Gli ex schiavi diventati improvvisamente pirati rischiavano la for-ca. Ma non potevano difendersi, visto che non parlavano né inglese né spagnolo. A far girare nel giusto verso la ruota del lo-ro destino furono gli americani, che si ap-passionarono alla loro storia. Migliaia di persone di ogni classe sociale si ritrovaro-no sulle banchine del porto per vedere la nave dei “pirati neri”. La figura del fuori-legge era di moda in un’America ancora in formazione e negli Stati del Nord-est

era forte il movimento abolizionista, che si batteva contro la tratta e la schiavitù.

Il primo americano a prendere a cuore il caso dei ribelli dell’Amistad fu un dro-ghiere, Dwight Janes. Mobilitò i più in-fluenti intellettuali abolizionisti d’Ameri-ca, come Lewis Tappan, ricco uomo d’af-fari newyorkese e fervente evangelico, e Roger S. Baldwin, celebre avvocato del Connecticut. In pochi giorni prese vita

il Comitato Amistad. Missione: salvare i ribelli. Il primo processo era fissato per metà settembre: Cinqué e i suoi guerrie-ri avevano 15 giorni per imparare a difen-dersi con le leggi degli Usa.

prime speranze. La priorità era trova-re un interprete per stabilire un minimo di comunicazione tra i deportati e i lroo difensori. L’idea giusta venne a Josiah Gibbs, un linguista: si fece insegnare dai

I ribelli dell’Amistad subirono un lungo processo per pirateria e omicidio. Fu la Corte Suprema ad assolverli. Nel frattempo erano diventati delle star

Finanziatore Lewis Tappan (1788-1873): ricco abolizionista di New York, appoggiò e finanziò la causa dei ribelli dell’Amistad.

Guerrieri sotto i riflettori In una pausa del processo che li vide coinvolti, i superstiti dell’Amistad (sotto, l’uccisione del capitano della nave, in una stampa dell’epoca) circondati da curiosi.

Praticata per secoli da europei, arabi, turchi e

dagli stessi africani, la tratta negriera cominciò a essere considerata disumana sol-tanto verso la fine del ’700, quando crebbe il movimen-

to internazionale per la sua abolizione, ispirato all’Illu-minismo e al cristianesimo evangelico (protestante). Le sue roccaforti erano gli Stati nord-orientali degli Usa e l’Inghilterra: qui gli abolizio-

nisti coinvolsero l’opinione pubblica e nel 1807 otten-nero una legge che abolì il commercio di schiavi. Caccia allo schiavista. La prima nazione a vietare la tratta era stata la Danimarca

nel 1792, ma l’Inghilterra andò oltre facendo (almeno ufficialmente) dell’aboli-zionismo un pilastro della politica estera: tra i compiti della Royal Navy c’era anche la caccia alle navi negriere.

Danimarca e Inghilterra, abolizionisti della prima ora

CONT

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Page 81: Focus Storia (Maggio 2015)

Fenomeni. Migliaia di americani face­vano la fila fuori dal carcere e addirittu­ra pagavano il biglietto per vederli; si rea­lizzarono ritratti, gigantografie e statue di cera che girarono l’America con il Circo Barnum (v. Focus Storia n° 98). Gli incas­si però li intascava il secondino William Pendleton, che mise da parte una piccola fortuna. I prigionieri, intanto, passavano i giorni esercitando il fisico e la mente: gra­zie all’aiuto di docenti e studenti della vi­cina Yale imparavano inglese e teologia.

Si arrivò così alla sentenza, il 23 gen­naio 1840. A sorpresa, stabilì che gli afri­cani erano innocenti e i colpevoli erano gli spagnoli Ruiz e Montes (che evitaro­no comunque il carcere e ripararono all’A­vana). Sembrava fatta. Ma il presidente Martin Van Buren gelò gli entusiasmi fa­cendo ricorso alla Corte suprema per far

prigionieri i numeri da uno a dieci in lin­gua mende e andò a passeggiare nel mul­tietnico porto di New York, ripetendoli ad alta voce. Conobbe così James Covey, gio­vanissimo afroamericano, ex schiavo, che parlava le lingue della Sierra Leone.

Grazie a James venne a galla la rea­le versione dei fatti: l’accusa di pirate­ria cadde nelle prime udienze. Restava da sbrogliare la matassa legale. Il noccio­

lo della questione era stabilire se quegli uomini neri approdati in America erano merci, e cioè schiavi nati nei Caraibi spa­gnoli da altri schiavi, o se erano uomi­ni liberi, nati in Africa, ridotti in schiavi­tù e trasportati oltreoceano in violazione dei trattati internazionali. Se erano merci andavano restituiti ai proprietari, se era­no uomini andavano fatti tornare a casa. Nel frattempo i ribelli erano diventati star.

I ribelli dell’Amistad subirono un lungo processo per pirateria e omicidio. Fu la Corte Suprema ad assolverli. Nel frattempo erano diventati delle star

Navi in partenza dalla Sierra Leone.

Versione moderna Una replica della goletta a due alberi negriera La Amistad, ricostruita e varata nel 2000.

L’odissea dei deportati dell’A-

mistad iniziò a Lom-boko, al confine tra le attuali Sierra Leo-ne e Liberia, in Afri-ca Occidentale. Qui aveva il suo quar-tier generale Pedro Blanco, spagnolo a capo di una rete di campi di concentra-mento; suo alleato era Siaka, potente re del popolo Vai. L’organizzazione era perfetta: i razziatori di Siaka attaccavano le tribù nemiche e vende-vano i prigionieri a Pedro Blanco; lui poi li rivendeva a trafficanti brasiliani

e portoghesi che li portavano nelle Americhe. Ogni passaggio di pro-prietà era certifica-to da un marchio a fuoco sulla pelle dei deportati. Ritorsioni. In cambio Siaka rice-veva armi per le sue guerre, e il cerchio si chiudeva. Nel 1841 un comman-do anfibio della Royal Navy distrus-se i lager di Pedro Blanco, liberando 800 deportati. E la Corona spagnola scatenò una guerra diplomatica per i danni economici subiti dai sudditi.

I lager di LombokoM

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annullare la sentenza: Van Buren era un democratico, ma a quei tempi il suo par-tito difendeva gli interessi dei latifondisti del Sud. Erano i repubblicani, che soste-nevano i capitalisti del Nord, a essere con-trari alla schiavitù.

RitoRno amaRo. Gli abolizionisti gioca-rono l’ultima carta, l’ex presidente John Quincy Adams, repubblicano e abolizio-nista. Per convincerlo a difenderli, gli africani gli inviarono la lettera di un ra-

gazzo mende che aveva imparato a scrivere in inglese. Funzionò.

L’arringa di Adams alla Corte suprema du-rò più di otto ore. I giu-dici provenivano so-prattutto dal Sud schia-vista, ma la sentenza fu confermata: gli africani dell’Amistad erano uo-mini liberi. Solo il moz-zo Antonio andava re-stituito ai suoi padro-ni a L’Avana; ma il ra-

gazzino riuscì a fuggire in Canada, dove la schiavitù era stata abolita a fine ’700.

Per Cinqué e i suoi compagni resta-va da affrontare l’ultimo passo: il ritor-no in Africa. Per raccogliere fondi si mise

in piedi una tournée di spettacoli mende: leggevano in inglese, recitavano inni sa-cri e rimettevano in scena la ribellione. Lo show fece il tutto esaurito persino a Bro-adway. Vennero racimolati 4mila dollari (circa 100mila di oggi), con i quali venne armato il Gentleman, che salpò da New York il 26 novembre 1841: a bordo, i 36 africani sopravvissuti all’odissea, un equi-paggio di marinai abolizionisti e un grup-po di missionari evangelici, bianchi e ne-

ri. La nave arrivò a Freetown il 13 genna-io 1842. La gioia degli africani durò poco: la Sierra Leone era sconvolta dalle guerre e il traffico di schiavi prosperava. Scampa-ti alle piantagioni, alcuni morirono negli scontri. Fra loro anche James Covey, l’in-terprete. Ma la ribellione dell’Amistad e la mobilitazione che l’aveva seguita ave-vano già cambiato la Storia: riconquista-re la libertà era un sogno realizzabile. •

Giorgio Zerbinati

Nel maggio del 1841 i deportati dell’Amistad si esibirono in una tournée di spettacoli mende: si pagarono così il viaggio di ritorno verso l’Africa

La diffusione della canna da zucchero

è una storia lunga un millennio. Originaria dell’Oriente, arrivò nel Mediterraneo nell’VIII secolo grazie agli arabi. Portoghesi e spagnoli impiantarono le prime coltivazioni d’oltremare tra ’400 e ’500, prima

nelle isole dell’Atlantico e poi nelle Americhe. Nel ’600, i brasiliani svilup-parono il sistema della piantagione fondata sulla manodopoera degli schiavi (foto). Gli olan-desi lo esportarono nei Caraibi, dove lo perfezio-narono inglesi, francesi e spagnoli tra ’700 e ’800.

Amaro. Si ricorse prima a schiavi nativi, poi a forzati europei e infine agli africani. Per sensi-bilizzare l’opinione pub-blica europea (grande consumatrice di dolci) fu lanciata una campagna di boicottaggio, al grido di “Lo zucchero si fa con il sangue”.

Lo zucchero? Si faceva con il sangue

Schiavi in arrivo L’arrivo di una nave negriera annunciato in un opuscolo pubblicato in South Carolina (Usa) e datato 24 luglio 1769.

S+APERNE DI PIÙ

La ribellione dell’Amistad, Marcus Rediker (Feltrinelli). Un’odissea tra schiavitù e libertà.La tratta degli schiavi, Olivier Petre-Grenouilleau (Il Mulino).

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L’OSTE CHE FECE UN ’48Lo definirono “l’ultimo tribuno di Ro-

ma”. Per l’anagrafe si chiamava An-gelo Brunetti. Ma per tutti era Cice-ruacchio, perché sin da bambino era

paffutello e in famiglia era vezzeggiato come “Ciccio” o “Cicciotto” o “Ciruacchiotto” (cic-ciottello, appunto). La sua vita finì poi per in-trecciarsi con una pagina memorabile e sfortu-nata del Risorgimento: la Repubblica romana.

TrasTeverino. Figlio di un maniscalco, An-gelo nacque nel settembre del 1800 a Traste-vere, allora quartiere proletario: fin da ragazzi-no si fece notare in risse e zuffe a ripetizione. Gran parlatore, si costruì presto la fama di tra-scinatore dei tanti popolani scontenti del gover-no papalino. Di suo, Ciceruacchio era alquan-to ignorante. Riuscì appena a imparare a legge-re, a scrivere e far di conto alla scuola dei Padri Carissimi, un’istituzione religiosa. Ovviò però all’interruzione degli studi memorizzando in-teri brani poetici, soprattutto quelli tratti dal-la Gerusalemme liberata del Tasso. Per far col-po sugli amici all’inizio, poi per dare enfasi ai suoi discorsi.

Di lui sappiamo, grazie ad alcune litografie, che aveva corporatura robusta, collo taurino, naso affilato, chioma biondiccia e un volto che ispirava simpatia. Vestiva in un modo che oggi diremmo casual: camicia rimboccata, panciot-to, giacca, calzoni stretti al ginocchio e larghi al fondo. In testa era solito portare un “cappel-lo a cencio”, di tipo calabrese.

Cominciò a lavorare come carrettiere di vi-no. Si sposò attorno ai vent’anni, e con la do-

te della moglie allargò il suo giro d’affari, com-prando cavalli e carretti per trasportare anche cerea li e fieno. Poi si mise in proprio e divenne titolare di un’osteria. Fu allora che iniziarono a chiamarlo Padron Angelo.

Carbonaro. Padron Angelo era ignorante, ma aveva le idee chiare in fatto di politica. Nel 1828 aderì alla Carboneria e cinque anni più tardi entrò a far parte della Giovine Italia di Mazzini. Era quindi un repubblicano. Intan-to, durante l’epidemia di colera del 1837, si mi-se in luce aiutando i malati. Fu in quel periodo che i romani si accorsero delle sue doti orato-rie. I suoi interventi in pubblico, più che infuo-cati di denuncia, erano improntati all’allegria e alla compassione per il prossimo. Ecco perché lo resero un personaggio noto dentro e fuori lo Stato pontificio.

Quando morì papa Gregorio XVI, nel 1846, salì al soglio di Pietro Pio IX, al secolo Giovanni Mastai Ferretti. Il nuovo papa aveva fama di li-berale. Al punto che in molti videro avvicinarsi la possibilità di realizzare il progetto politico di Vincenzo Gioberti: una confederazione di Stati italiani sotto la presidenza del papa. Ciceruac-chio esultò, aderendo a quell’idea.

Pio IX concesse l’amnistia ai detenuti politici e il popolino di Roma reagì alla sua maniera: fe-ce trasportare in piazza del Popolo undici barili di vino e li mise a disposizione di tutti. Fu an-che eretto un arco di trionfo. Ciceruacchio, en-tusiasta, faceva parte del comitato organizzato-re di quella festa ad alto tasso alcolico. Sull’ar-co, a caratteri cubitali, si leggeva: “Onore e glo-

Poco istruito ma gran parlatore, “Ciceruacchio”

divenne prima seguace di Pio IX, il papa liberale, e poi

uno dei capipopolo della Repubblica romana

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STORIE D’ITALIAROMA

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Trascinatore all’opera

Angelo Brunetti (1800-1849), alias

Ciceruacchio, arringa i romani in piazza

del Popolo: aveva un grande seguito.

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ria a Pio IX cui bastò un giorno per consolare i sudditi e meravigliare il mondo”. E in effetti ben presto la fama “liberale” del papa oltrepas-sò il Tevere e raggiunse chi lo identificava come l’uomo che davvero avrebbe “cambiato verso” a un’Italia che da anni meditava su varie formu-le costituzionali. Formule che non erano ancora riuscite a far tornare i conti dell’unità nazionale.

Al teatro Alibert seicento romani offrirono un banchetto a trecento forestieri, invitati per l’oc-casione. Lì Ciceruacchio prese la parola e, con il calice in mano, improvvisò un inno che si con-cludeva così: “Evviva la provincia e Roma ma-dre/evviva l’Italia con il santo Padre!”. Un’altra testimonianza della fede politica di Padron An-gelo si trova al Museo della Patria: la sua giacca rossa, sulla quale è ricamata la scritta “viva Pio IX”. L’esuberante oste-tribuno fu invitato al Qui-rinale, allora residenza papale.

Nel 1847, Ciceruacchio difese anche gli ebrei, quando Pio IX consentì loro di poter esercitare fuori dal ghetto le attività commerciali. Parteci-pò in prima persona all’abbattimento del mu-ro che di fatto “imprigionava” gli israeliti. E nel 1847, quando il papa si recò in carrozza a Su-biaco, Ciceruacchio l’accompagnò, alla testa di oltre cento popolani a cavallo.

Ciceruacchio diventò così famoso che, nel gennaio del 1848, anche la marchesa Trivulzio di Belgioioso, partita da Milano alla volta di Ro-ma per una missione politica per conto di Maz-zini, volle incontrarlo, insieme ad alcuni rappre-sentanti della nobiltà e della cultura “rivoluzio-naria”, ovviamente.

ArrivA il QuArAntotto. Intanto l’Italia era ap-prodata alle rivolte del Quarantotto. Ferdinando re di Napoli si vide costretto a concedere una Costituzione, imitato dal sabaudo Carlo Alber-to e dallo stesso Pio IX. Milano insorse e con le sue Cinque giornate cacciò temporaneamente gli austriaci: le campane romane annunciarono l’evento e il governo pontificio arruolò volon-

Nel 1848 papa Pio IX concesse la Costituzione. E quando Milano insorse, a Roma furono arruolati volontari repubblicani, tra i quali Ciceruacchio

tari repubblicani. In prima fila c’era Ciceruac-chio. I delicati equilibri dei “papisti repubblica-ni” furono infranti dall’assassinio dello statista pesarese Pellegrino Rossi. Corse voce che a usa-re il pugnale fosse stato il figlio maggiore di Ci-ceruacchio, un giovane di idee politiche confu-se. Pio IX si accorse che la situazione stava sfug-gendogli dalle mani e riparò a Gaeta, ospite del re di Napoli.

L’ex fedelissimo commentò: “Er papa vada do-ve je pare. Volemo l’Italia; l’Italia volemo”. La fe-de repubblicana di Ciceruacchio si dimostrò più forte di quella papalina. E quando fu proclamata la Repubblica romana, lui aderì. Non solo. L’o-ste-capopopolo tentò di formare un movimen-to estremista, ma non fu seguito. Dopo la scon-fitta dei difensori della Repubblica (v. riquadro a destra), Ciceruacchio si unì a Garibaldi in fu-ga verso Venezia. A Cesenatico 172 repubblica-ni furono bloccati dagli austriaci. Tra loro c’era anche Angelo, che sfuggì alla cattura e riparò a Comacchio con Garibaldi. L’Eroe dei due Mon-di raggiunse Genova e poi l’America. Ciceruac-chio invece proseguì per Venezia, ma fu inter-cettato da una guarnigione austriaca comandata da uno spietato tenente croato. Assieme ai suoi 8 ultimi seguaci fu fucilato a Ca’ Tiepolo (pres-so Goro). Rifiutò di farsi bendare. •

Pier Mario Fasanotti

“Volemo l’Italia”Ciceruacchio annuncia ai romani che Pio IX ha concesso la Costituzione, nel marzo del 1848. Il dipinto è di Antonio Malchiodi (1848-1915).A sinistra, il busto di Ciceruacchio in via Ripetta, dove abitava.

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Page 87: Focus Storia (Maggio 2015)

Ciceruacchio non fu l’unico a credere

nella svolta liberale che nel 1846 sembrò ac-compagnare l’elezione del nuovo papa, Pio IX. Garibaldi, dal Sud Ame-rica, scrisse una lettera al nuovo pontefice, in cui gli offriva la propria spa-da e i propri volontari. Il papa declinò l’offerta. Ma i garibaldini arrivaro-no lo stesso, a difendere

la Repubblica romana di Mazzini. All’armi! Il breve espe-rimento repubblicano era iniziato appunto con la fuga di Pio IX a Gaeta, il 15 novembre 1848. Ufficialmente cominciò il 9 febbraio 1849 e a guidarlo fu un triumvi-rato ispirato all’antichità romana, di cui fece parte lo stesso Mazzini. Ma il sogno durò poco.

A difendere Roma erano circa 1.200 legionari di Garibaldi, 600 ber-saglieri comandati da Luciano Manara, reduce dalle Cinque giornate di Milano, e una schiera di ragazzi disposti al sacri-ficio, ma poco preparati. Presto si trovarono di fronte le truppe d’Oltral-pe. Con i borbonici, i francesi erano accorsi a difendere il papa

che aveva nutrito le speranze di Ciceruac-chio e di tanti altri romani. Sconfitti. Il generale francese Charles Victor Oudinot sbarcò a Civi-tavecchia il 24 aprile. Il primo attacco alle mura fu respinto e Garibaldi fermò i borbonici a Velletri. Contro i 30mila uomini e i 75 cannoni francesi, però, a giugno,

ci fu poco da fare. La presa del Gianicolo (3-4 giugno) diede un vantaggio fondamenta-le agli attaccanti france-si, che in una trentina di giorni assunsero il con-trollo di Roma. Metten-do fine a 5 mesi che, se si fossero trasformati in qualcosa di più, avreb-bero potuto cambiare per sempre la storia del nostro Paese.

Un sogno infranto: la Repubblica romana

Page 88: Focus Storia (Maggio 2015)

Acquistati nei mercatini per pochi soldi, si sono poi rivelati rarità e un affare d’oro per chi li ha rivenduti

10TESORI INASPETTATI1

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SPECCHIO LIBERTY, DI TIFFANY

Uno specchio in stile liberty “modello pavone” di Tiffany, dei primi del ’900, costato appena

2 dollari, ha fruttato al suo fortunato proprietario ben 25mila dollari, solo

un paio di settimane dopo l’acquisto.

VALORE EFFETTIVO

$25.000

COMPRATO PER$2

I NEGATIVI DI ANSEL ADAMS

Cercava una sedia da barbiere e invece al mercatino delle pulci di San Francisco trovò “solo” 2 scatole di negativi di foto dello Yosemite Park. Lui li acquistò

perché erano belli. E fu la sua fortuna: sono del grande fotografo Ansel Adams (1902-1984).

VALORE EFFETTIVO

$200MILIONI

COMPRATO PER$45

ANDY WARHOL PRIMA MANIERA

Un collezionista d’arte inglese li aveva comprati per 5 dollari in un mercatino di Las Vegas. Studiando-

li, scoprì che uno di quei disegni era uno schizzo firmato da un giovanissimo Andy Warhol:

si trattava del ritratto dell’attore Rudy Valee.

VALORE EFFETTIVO

$2 MILIONI

COMPRATO PER$5

VIDEOGAME D’ANNATA

Spulciando in una garage sale (i mercatini organizzati per svuotare cantine e solai), un americano ha sco-vato alcuni videogiochi Nintendo del 1990 ancora

imballati e ha deciso di comprare l’intera serie. Sul mercato dei collezionisti si sono rivelati un affarone.

VALORE EFFETTIVO

$50.000

COMPRATO PER$40

MASTER IN VINILE

Paghereste un disco 25mila dollari? È quello che un collezionista ha sborsato per avere un raro vinile, una

copia master del gruppo rock Velvet Underground. Chi lo ha acquistato per primo a New York non

sapeva che in tutto il mondo ce ne sono solo 100 copie.

VALORE EFFETTIVO

$25.000

COMPRATO PER$75

CURIOSITÀ

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10TESORI INASPETTATI

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GAUGUIN E BONNARD IN CUCINA

Nel 1974 un operaio torinese comprò, per quelli che oggi sarebbero 200 euro, a un’asta delle Ferrovie, due

tele rubate e poi abbandonate. Erano Donna con due poltrone di Pierre Bonnard e una natura

morta di Gauguin (foto). Valgono oggi 600mila e 35 milioni di euro.

VALORE EFFETTIVO

€35,6MILIONI

COMPRATI PER45.000

DICHIARAZIONE DI INDIPENDENZA

L’aveva acquistata per soli 3 dollari e poi lasciata in garage per 10 anni. Fino a quando non ha

scoperto che si trattava di un documento raris-simo: una delle 200 copie originali della

Dichiarazione di Indipendenza degli Usa.

VALORE EFFETTIVO

$477.000

COMPRATA PER$3

VASO CINESEDEL 1000 D.C.

“Che affare!” avrà pensato l’uomo che per 3 dollari si era portato a casa una ciotola di porcellana finissima.

Non era però solo un bel pezzo di antiquariato, si trattava di una rarità: una porcellana cinese

di mille anni fa che gli ha fruttato oltre 2 milioni di dollari.

VALORE EFFETTIVO

$2,2MILIONI

COMPRATO PER$3

AZIONI DELLA COCA-COLA

Il californiano Tony Marohn comprò una scatola con alcuni documenti per 5 dollari. Scoprì solo in

seguito che, tra le altre cose, la scatola conteneva azioni della Palmer Oil Company, fusasi poi

con la Coca-Cola, del valore oggi di 130 milioni di dollari.

VALORE EFFETTIVO

$130MILIONI

COMPRATE PER$5

CARTOLINA STORICA

Nove giocatori e il loro manager: è la squadra di baseball dei Brooklyn Atlantics ritratta nel 1865. La

cartolina era stata acquistata, in un mercatino del Maine (Usa), da un collezionista che nel 2013 l’ha rivenduta all’asta

a quasi mille volte tanto.

VALORE EFFETTIVO

$92.000

COMPRATO PER$100

A cura di Federica Ceccherini

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Page 90: Focus Storia (Maggio 2015)

SCEMIDI GUERRA

Non chiamateli

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Ce n’era uno in quasi ogni famiglia. Erano l’eredità (a lungo rimossa) della Prima guerra mondiale: uomini tornati dal fronte sotto shock, con gravi disturbi mentali

Pausa sigaretta Soldati francesi in uno

dei rari momenti “sociali” all’interno di una trincea,

nell’ottobre del 1915.

Prima guerra mondiale, fronte france-se. Nel mezzo di un combattimen-to un soldato balza sul bordo della trincea e comincia a muovere le ma-

ni in gesti ampi, come a dirigere la traietto-ria dei proiettili che tempestano la sua posta-zione. “Tranquilli”, dice ai commilitoni che lo guardano sconvolti, “non vedete che qui è tut-to finto? Il sangue è solo un trucco di scena. I morti li mettono di notte per spaventarci. Non capite che non c’è nessuna guerra?”.

Scampato per miracolo ai tiratori nemici, l’uo-mo viene ricoverato in un ospedale da campo. Ad assisterlo c’è il giovane e sensibile infermie-re militare André Breton, poeta. Sarà proprio il ricordo di questo soldato, che per reagire all’e-sperienza estrema della guerra aveva trasforma-to la realtà in un sogno, a ispirarlo quando nel 1924 fonderà uno dei più importanti movimenti culturali del Novecento: il Surrealismo.  

La guerra più foLLe. Oggi gli storici concor-dano: la Prima guerra mondiale fu veramente la più “surreale” di tutte. Spietata, disumana e traumatica come non ce ne sono mai state, né prima né dopo. «Fu la prima guerra industria-le», spiega Andrea Scartabellati, storico triesti-no autore di Dalle trincee al manicomio (Mar-co Valerio editore). «Tecnologie belliche inedite lasciarono disorientati non solo i soldati, per lo più contadini costretti al fronte dalla coscrizio-ne obbligatoria, ma anche gli alti ufficiali, le cui tattiche si rivelavano puntualmente fallimenta-ri, traducendosi in massacri di massa».

Trauma da trincea Un soldato inglese trasporta un camerata ferito fuori dalla trincea durante la Battaglia della Somme (luglio 1916).

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Page 92: Focus Storia (Maggio 2015)

Per questa ragione quella che non a caso sarà poi chiamata la “Grande guerra” fu combattuta per la maggior parte del tempo in trincee, cioè in fossati umidi, sporchi e stretti, dove i solda-ti restavano per settimane, continuamente sot-toposti al rumore sordo dei bombardamenti e al sibilo dei proiettili. Anche quando non facevano nulla, vivevano in preda alla paura di quello che sarebbe potuto succedere da un momento all’al-tro. E non c’era via di fuga: uscire dalle trincee significava morte certa nel giro di pochi secondi.

Valori ribaltati. «È dimostrato che il mo-mento più drammatico della guerra non è quel-lo dell’assalto, che pure è il più pericoloso, ma il logorio dell’immobilità, la tensione insoppor-tabile dell’attesa», chiarisce Bruna Bianchi, stu-diosa della Grande guerra presso l’Universi-tà Ca’ Foscari di Venezia e autrice di La follia e la fuga (Bulzoni editore). Inoltre si verificaro-no almeno due situazioni che rappresentavano un rovesciamento dei valori bellici tradizionali e che contribuirono ad accentuare la mancanza di senso del conflitto. «La prima fu l’impossibi-lità di onorare i defunti: i soldati erano costan-temente a contatto con cadaveri che si decom-ponevano e che non potevano seppellire», spie-ga la storica. «La seconda fu la sostituzione del mito del “buon soldato”, cioè dell’eroe pronto a combattere e a dare la vita per la patria, con un diverso modello di virilità: quello dell’uomo in-differente, insensibile, che non si fa impietosire dalla sofferenza e dalla morte». Un modello in-naturale, come testimonia ciò che avveniva du-rante le tregue.

Nei diari lasciati dai soldati di tutti i fronti ri-corrono molti episodi di fraternizzazione con il nemico. La più nota è la tregua di Natale del 1914, quando sul fronte occidentale, da Ypres a Neuve Chapelle, truppe inglesi e tedesche si in-contrarono nella “terra di nessuno” per scam-biarsi auguri, regali, sigarette e indirizzi, con la promessa di reincontrarsi dopo il conflitto.

Sintomi mai ViSti. Il fatto che durante e dopo la Prima guerra mondiale migliaia di persone furono ricoverate per disturbi mentali oggi non stupisce affatto (v. riquadro sotto). Invece allora i medici non si raccapezzavano. Lo dimostrano i rari filmati di ospedali militari (che mostrano reduci estraniati e muti, che camminano come automi, con i muscoli irrigiditi) e le numerose cartelle cliniche, dalle cui fredde espressioni tec-niche trapela il dramma di quei giovani. Si leg-ge di “tremori irrefrenabili”, di “ipersensibilità al rumore”, di “stati permanenti di terrore, con estreme reazioni di difesa a stimoli di nessuna entità”, di “uomini inespressivi, che volgono in-torno a sé lo sguardo come uccelli chiusi in gab-bia”, che “camminano con le mani penzoloni e piangono in silenzio” o che “mangiano quello che capita, cenere, immondizia, terra”.

In un manicomio delle retrovie fu accolto “un bersagliere che fu incaricato di seppellire i resti di alcuni soldati austriaci, fatti saltare da una nostra mina sul Carso. Di un tratto, terrorizzato dal macabro spettacolo, rimase come in catalessi con un arto nemico in mano. Da quel momento non parla più. Ha continue scosse e sussulti. Si fissa nel vuoto come se vedesse qualcosa di pau-roso, e facendo poi un salto si nasconde sotto le coperte del letto”.

“Shell Shock”. Questi quadri clinici presso-ché inediti suscitarono subito l’interesse degli psichiatri, specialisti allora emergenti (in Italia erano stati riconosciuti ufficialmente nel 1872 ed erano diventati molto influenti a partire dal 1904, grazie alla legge che istituiva i manicomi).  

Su Lancet, tra le riviste mediche più autorevo-li, nel 1915 Charles Myers usò per la prima volta l’espressione “shell shock”, “shock da bombar-damento”. Myers ipotizzava che le lesioni cere-brali fossero provocate dal frastuono dei bom-bardamenti oppure dall’avvalenamento da mo-nossido di carbonio. Ma presto apparve chiaro che alla base di questi strani disturbi c’era qual-

I soldati passavano settimane in trincee strette e umide, accanto a cadaveri che non potevano essere seppelliti

Metodi radicali Soldati Usa sbarbati prima

di andare al fronte. Più a destra, una macchina che

usava l’elettricità per curare le nevrosi di guerra, in un

ospedale inglese (1917).

Ogni specie animale, uomo compreso, possiede un

sistema di difesa che si attiva per gradi di fronte a una mi-naccia: è quanto emerge dalla ricerca scientifica sui traumi. «In Homo sapiens, come in molti mammiferi, questo siste-ma si esprime con quattro tipi di risposte che gli inglesi iden-

tificano con le cosiddette “4 F”: fight (lotta), flight (fuga), free-zing (“congelamento”, cioè im-mobilità rigida) e faint (perdita del tono muscolare)», spiega lo psichiatra Giovanni Liotti, autore di Sviluppi traumatici (Raffaello Cortina editore). Cumulativi. Le risposte pa-tologiche sono più probabili

quando la minaccia viene per-petrata da esseri della stessa specie e soprattutto quando i traumi sono “cumulativi”, cioè continui, ripetuti, senza pos-sibilità di sottrarsi. In questo caso non solo si attivano le misure più estreme (le ultime due “F”) ma l’attivazione può diventare permanente.

Una conseguenza frequente è il fenomeno della “dissociazio-ne”, cioè il distacco dalla realtà, con la sospensione delle normali capacità di riflessione e ragionamento allo scopo di limitare la sofferenza. L’aliena-zione tipica di molti reduci del-la Grande guerra fa pensare a questo tipo di processo.

Dissociazione e alienazione: quando il trauma è permanente

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Page 93: Focus Storia (Maggio 2015)

Merry Christmas Soldati tedeschi e inglesi si ritrovano nella “terra di nessuno” per festeggiare insieme durante la tregua di Natale del 1914.

Il tempo non passa Soldati francesi in una trincea del fronte franco-tedesco durante l’inverno del 1915.

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Ritorno alla norma Sopra, la spilla di un centro di riabilitazione inglese per la cura di soldati affetti da “shell shock”. A destra, reduci in un analogo centro in Georgia (Usa) si dedicano al giardinaggio.

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cos’altro, dal momento che i sintomi si manife-stavano anche in persone che non si trovavano in prossimità di bombardamenti.

Tra i primi a esprimersi in merito ci fu il neu-rologo francese Joseph Babinski. Nel 1917 attri-buì i sintomi a fenomeni di isteria, disturbo che si riteneva diffuso solo tra le donne (isteros si-gnifica utero in greco). Suggerì quindi di curar-lo come allora si trattava l’isteria femminile: con l’ipnosi. E in effetti i trattamenti talvolta funzio-navano, nel senso che i sintomi scomparivano o si riducevano. Si diffuse perciò l’idea che questi quadri clinici fossero frutto di simulazioni, mes-se in atto per non combattere ed essere conge-dati. Il che diede il via libera all’accusa di “fem-minilizzazione” o di “omosessualità latente”, e a una serie di trattamenti di tipo decisamente punitivo, come le aggressioni verbali e le “fara-dizzazioni”, forti scosse di corrente elettrica al-la laringe (in caso di mutismo) o alle gambe (in caso di immobilità).  

Degeneri. «Questa disciplina feroce fu messa in atto soprattutto in Italia, dove persistevano atteggiamenti ispirati alle idee di Cesare Lom-broso, che classificavano il malato come un es-sere inferiore, un soggetto debole e primitivo», sottolinea Bruna Bianchi. «Inoltre, in un Paese in cui la leva era obbligatoria, non si voleva at-tribuire alla guerra la causa del disagio psichico: meglio sostenere che il conflitto contribuiva a ri-velare devianze o degenerazioni in individui già predisposti. Un atteggiamento che non c’è sta-to, per esempio, in Gran Bretagna, dove c’era un maggior rispetto per i soldati, sia da parte delle istituzioni sia da parte dell’opinione pubblica».

Nel nostro Paese invece, soprattutto dopo la disfatta di Caporetto del 1917, passò la te-si che le nevrosi fossero il frutto di iste-

ria e di cattiva volontà, e si cominciò a trattare i malati alla stregua di codardi che sfuggivano ai loro doveri di soldati. Dagli archivi spuntano descrizioni trionfali dell’efficacia dei trattamen-ti più drastici: in una cartella clinica si legge di un soldato in stato catalettico che, sottoposto al-la terapia elettrica, cominciò a piangere copiosa-mente gridando “mamma mia! mamma mia!” e fu in grado di rispondere alle domande dei me-dici dimostrandosi orientato. Ritenuto guarito, fu prontamente rispedito al fronte.

Dubbi. «Va detto», precisa la storica, «che nei documenti del primo dopoguerra trapela come gli psichiatri cominciassero a sospettare che la guerra fosse la vera causa di quei disturbi. Co-sì come appare chiaro che la sospensione finale del loro giudizio fu la conseguenza di pressio-ni del governo, preoccupato che i bilanci statali non fossero in grado di farsi carico di eventuali indennizzi economici. Al contrario, in Gran Bre-tagna il 75 per cento degli 80.000 soldati accol-ti nei reparti psichiatrici ottenne una pensione di invalidità, così come molti dei 114mila uomi-ni che crollarono dopo il conflitto».

In Italia, invece, quella dei traumi psichici conseguenti alla Grande guerra fu una pagina presto chiusa e rimossa. E se circa 40.000 uo-mini con disturbi mentali finirono rinchiusi nei manicomi statali, una quantità ben più nume-rosa fece ritorno a casa e in quelle condizioni fu accolta dalle loro famiglie. Fu anche per prende-re le distanze dal carico emotivo di quegli sguar-di assenti e per poter ricominciare a vivere do-po il trauma collettivo dell’esperienza bellica che la gente prese a chiamare quei giovani uo-mini, chiusi per sempre in un silenzio inacces-sibile, “scemi di guerra”. •

Marta Erba

I medici, ritenendo che le nevrosi fossero simulate, usavano metodi crudeli come la “terapia elettrica”

Cara mamma... Soldati italiani in prima linea a Doberdò (Gorizia). Tenere un diario o scrivere lettere ai familiari fu per molti un’importante strategia di sopravvivenza.

Lo chiamavano “Leg-genda”. Dopo avere uc-

ciso almeno 160 nemici, il cecchino Chris Kyle (a sinistra) rientra dall’Iraq,

ma non è più lui: si isola, si sente in col-pa, non dorme più. I suoi sintomi, ben

descritti nel film

American Sniper di Clint Eastwood, sono quelli del “disturbo post-traumati-co da stress”, riscontrato in almeno il 17 per cento dei soldati impegnati in Afghanistan e in Iraq.I sintomi. Il disturbo è sempre esistito. Il primo caso lo riporta Erodoto: descrivendo l’ateniese Epizelo, reduce della Bat-taglia di Maratona. Ma è stato riconosciuto solo a

partire dalla guerra

in Vietnam. Tre i sintomi principali: i flashback (continui ricordi intrusivi degli episodi traumatici), l’evitamento (la tendenza a evitare tutto ciò che ricordi il trauma) e l’hype-rarousal (“iperattivazione permanente”): il reduce è in uno stato di ansia pe-renne, che gli impedisce di dormire, lo rende ag-gressivo e paranoico e più vulnerabile all’abuso di alcol, droghe e farmaci.

Lo stress dell’american sniper

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I GRANDI TEMI

Il primo passo era una visita all’oracolo di Delfi, dove i sa-cerdoti di Apollo offrivano preziose indicazioni per scegliere la destinazione. Dopodiché, sotto la guida di un capo-spedi-zione, l’ecista (“fondatore”), gli uomini si imbarcavano spe-

ranzosi alla volta di quel “nuovo mondo” al di là del mare. Se-guendo questo programma-base, a partire dall’VIII secolo a.C., molte poleis greche fondarono le loro colonie nelle regioni dell’I-talia Meridionale (la “Grande Grecia” propriamente detta) e del-la Sicilia: insediamenti che conquisteranno la piena indipenden-za dalla madrepatria e arriveranno a contare più abitanti della stessa Grecia. Dando vita a una civiltà che ha lasciato, a noi ita-liani, un’eredità unica al mondo.

Pressione demografica. Ma perché quei Greci partirono? «All’i-nizio dell’VIII secolo a.C. la Grecia conobbe un rapido sviluppo economico che generò un’esponenziale crescita della popolazio-ne: il territorio non bastava più a sfamare tutti, e così molti scel-sero di emigrare verso la vicina penisola italiana», spiega lo sto-rico dell’antichità Antonio Montesanti, autore di vari saggi sulla Magna Grecia, tra cui Terina: vittoria e leggenda (GB EditoriA).

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A partire dall’VIII secolo a.C. genti elleniche attraversarono il mare e si stabilirono nell’Italia del Sud e in Sicilia. Dove seminarono la civiltà greca (facendosi spesso la guerra).

DEIIL BELLO MIGRANTI

Page 97: Focus Storia (Maggio 2015)

INTANTO NEL MONDO

Greci d’ItaliaIl tempio di Era a

Selinunte (Trapani) risalente al VI secolo

a.C. A sinistra, un efebo in bronzo

ritrovato nella stessa zona.

MAGNA GRECIA E SICILIA 757 a.C. I Greci dell’Eubea fondano la polis di Kyme, odierna Cuma (Campania).

735 a.C. Con la fondazione di Naxos inizia la colo-nizzazione greca della Sicilia, o Trinacria.

734 a.C. Coloni da Corinto fondano Syrakousai, odierna Siracusa.

706 a.C. Coloni spartani fondano in Puglia la città di Taras, attuale Taranto.

580 a.C. Fondazione di Akra-gas (Agrigento) da parte di sicelioti di Gela.

510 a.C. L’esercito di Crotone conquista Sibari, sommergendola dopo aver deviato il corso di un fiume.

ALTRI PAESI

753 a.C. È l’anno della fonda-zione di Roma.

745 a.C. Il sovrano assiro Tiglatpileser III sot-tomette Babilonia. Procederà poi alla conquista di Dama-sco e di buona parte del Regno di Israele.

660 a.C. In Giappone il leg-gendario condottiero Jimmu Tenno fonda l’impero.

612 a.C. La città di Ninive, centro dell’Impero assiro, viene distrutta da Medi e Caldei.

590 a.C. Nasce Ciro il Grande, imperatore persiano della dinastia ache-menide ricordato sia per i successi militari,

sia per il rispetto mostrato

verso le popolazioni sottomesse.

535 a.C. A Roma sale al trono Tarquinio il Superbo. Dopo la sua morte si afferma la repubblica.

495 a.C. Ad Atene nasce Pericle.

492-490 a.C. Si combatte la Prima guerra persiana. Vittoria greca a Maratona.

CULTURA

704 a.C. Aminocle di Corinto costruisce il primo modello di trireme.

700 a.C. Esiodo scrive la Teo-gonia, opera base per la mitografia greca.

630 a.C. Nasce la poetessa greca Saffo di Lesbo, celebre per i suoi versi incentrati sulla passione amorosa.

590 a.C. Il sovrano babilonese Nabucodonosor II fa costruire i giardini pensili di Babilonia.

556 a.C. Nasce Gautama Buddha, filosofo e mistico indiano.

551 a.C. In Cina nasce il filoso-fo Confucio.

540 a.C. Milone, atleta nato a Crotone, vince la sua prima Olimpiade.

530 a.C. Pitagora di Samo fonda a Croto-ne la sua scuola matematico-filosofica.

490 a.C. Ad Atene nasce Fidia, progettista del Partenone.

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Lo conferma tra l’altro il fatto che protagonisti della colonizzazio-ne erano di solito le fasce più disagiate della popolazione, quel-le che non potevano permettersi terre o bestiame e che in quei viaggi verso l’ignoto vedevano la chance di un futuro migliore.

Le spedizioni erano composte da soli uomini, che spesso pren-devano in moglie un’indigena. Erano agricoltori, allevatori e ar-tigiani, più raramente mercanti o intellettuali. Ogni flotta conta-va di solito due o tre navi con a bordo poche centinaia di perso-ne. Presenze obbligatorie erano un maestro d’ascia e un velaio, figure indispensabili per garantire una navigazione sicura. Una volta raggiunta l’area prescelta (il santuario di Delfi era una sor-ta di “ufficio viaggi” in cui confluivano informazioni da tutto il Mediterraneo), essa veniva trasformata in un distaccamento del-la metropoli (che, letteralmente, vuol dire “città madre”) di ori-gine, della quale venivano ereditati tutti i riti e le festività. Non solo: in molti casi i coloni si fermavano in zone con paesaggi si-mili a quelli di casa. Quel che cambiava erano gli equilibri so-ciali: nelle colonie si ripartiva tutti da zero, i terreni erano divisi in modo equo e le doti personali decidevano le sorti di ognuno.

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I GRANDI TEMI

In Sicilia e sul continente fiorirono le arti: e il “made in Italy” veniva esportato in tutti i Paesi del MediterraneoFra Tirreno e ionio. I pionieri della colonizzazione greca in Ita-

lia salparono dall’isola di Eubea, nel Mar Egeo, e si fermarono at-torno al 770 a.C. a Ischia. Qui è stata trovata una delle più anti-che tracce della scrittura greca, incisa sulla cosiddetta Coppa di Nestore. Da lì sbarcarono poi sulla costa attorno a Napoli, a parti-re da Cuma. «Molto battute furono poi le coste ioniche, dove Gre-ci del Peloponneso fondarono Crotone, Locri, Metaponto, Siba-ri e Taranto, l’unica colonia fondata ufficialmente da Spartani», prosegue l’esperto. «Le poleis ma-

Fieri guerrieriCavaliere in bronzo del VI secolo a.C. trovato in Italia, oggi al British Museum di Londra. Le poleis della Magna Grecia e di Trinacria erano difese da eserciti di tutto rispetto.

gnogreche generarono in molti casi delle sub-colonie, creando un cosmo politico-culturale in cui sorse il concetto di Megàle Ellàs, espressione che apparve tra IV e II secolo a.C. con il significato di “Grande Grecia”; Magna per i Latini. La terminologia si estese poi a tutto il Sud dello Stivale, mentre la Sicilia era chiamata Tri-nacria (“tre punte”, data la forma triangolare)». Qui, a partire da Naxos, sorsero importanti città-Stato come Agrigento, Messina, Selinunte e Siracusa, le cui vicende storiche furono sempre con-nesse a quelle del resto del Meridione.

ScienziaTi, arTiSTi e campioni. Nelle città magnogreche, oltre a svilupparsi velocemente l’agricoltura, l’artigianato e i com-

merci (il loro grano si esportava verso i maggiori porti gre-ci), si registrò da subito un notevole fervore culturale. I co-

loni edificarono biblioteche e scuole in cui si formaro-no i più grandi filosofi, letterati e scienziati del tempo. Il matematico Pitagora di Samo, per esempio, fondò a Crotone, attorno al 530 a.C., una scuola che divenne punto di riferimento anche per la Grecia. Decisivo fu il clima intellettuale che da Taranto, sotto il governo del

filosofo e matematico Archita (428-360 a.C.), segua-ce di Pitagora, “contagiò” il resto del Sud Italia. Che attrasse come una calamita pensatori del ca-libro di Eschilo, Erodoto e Platone e che diede i

natali a personaggi come Empedocle e Gorgia (nati in Sicilia), Parmenide e Zenone (nati in Campania).

Per non parlare del siracusano Archimede (III secolo a.C.). Accanto alla scienza, fiorì l’arte, naturalmente di stampo ellenico: architettura (ovunque), pittura (insuperabile quella di Paestum), scultura in bronzo (soprattutto nella zona di Reggio Calabria) e ceramiche (a Taranto e altrove). Un “made in Italy” che veniva esportato in tutto il Mediterraneo.

«Le colonie della Magna Grecia furono attive persino sul pia-no sportivo», dice Montesanti. «Inviavano atleti ai giochi olim-pici che si tenevano in Grecia, cogliendo spesso quell’occa-sione per mostrare la loro superiorità sulle metropoli d’ori-gine». Italioti e sicelioti – rispettivamente i Greci stanziati nel Sud Italia e in Sicilia – collezionarono successi in tutte le competizioni. Milone di Crotone (VI secolo a.C.) è considera-to il più grande lottatore di sempre. E da primato furono an-

che gli eserciti di queste città, che si sfidarono tra loro per l’e-gemonia sui mari, ma affrontarono anche flotte straniere e se la videro persino con i Greci della madrepatria.

poTenTi Tiranni. In effetti, la Magna Grecia fu una terra piut-tosto inquieta e litigiosa. Come in Grecia, governi democratici e tirannici si alternavano con una netta preferenza per i secondi, come dimostra la potente Siracusa. «Fondata attorno al 734 a.C. da coloni giunti da Corinto, Syrakousai divenne presto una me-galopoli da oltre 300.000 abitanti, più del doppio di quelli attua-li, e legò la propria ascesa al succedersi di una serie di tiranni tra cui spiccò Dionisio I (430–367 a.C.)», spiega lo storico. «Il tiran-no fece circondare la città di imponenti fortificazioni ed estese i propri territori oltre la Sicilia, assicurandosi il controllo delle rot-te tirreniche e adriatiche. Nel far ciò risolse tra l’altro le tensioni sociali presenti in città, inviando nelle nuove colonie coloro che non digerivano il suo regime e “importando” forze fresche dal-le poleis conquistate».

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INTANTO NEL MONDO

In Sicilia e sul continente fiorirono le arti: e il “made in Italy” veniva esportato in tutti i Paesi del Mediterraneo

Quel che resta delle poleisL’acropoli di Selinunte (sopra) e il teatro greco di Siracusa (sotto) visti dall’alto. Entrambe sono oggi tra le mete turistiche più suggestive e visitate dell’antica Trinacria.

480 a.C. Le forze militari di Siracusa e quelle di Agrigento sconfiggo-no i Cartaginesi nella battaglia di Himera.

475 a.C. I Greci provenienti da Cuma fondano Nea-polis, l’antico nucleo della città di Napoli.

474 a.C. Nella battaglia navale di Cuma, la flotta siracusana guidata da Gerone I sconfigge quella etrusca.

367 a.C. Muore il tiranno Dio-nisio I di Siracusa.

272 a.C. L’esercito romano conquista la poten-te polis di Taranto, evento che sancisce la sottomissione della Magna Grecia al po-tere di Roma.

214-212 a.C. Le forze militari roma-ne assediano e alla fine prendono Siracu-sa. Una dopo l’altra, cadono tutte le città della Trinacria.

480 a.C. Battaglia delle Termo-pili tra Greci (sconfitti) e Persiani.

431-404 a.C. Atene e Sparta si sfidano nella Guerra del Peloponneso, che vedrà trionfare gli Spartani.

390 a.C. I Galli Senoni, guidati da Brenno, mettono a sacco Roma.

359 a.C. Filippo II diventa re in Macedonia, facen-done una potenza di primo piano.

336 a.C. Sale al trono Ales-sandro Magno, che conquisterà l’Impero persiano.

323 a.C. Morto Alessandro Magno, il suo impero viene smembrato e l’Egitto passa sotto il controllo di Tolo-meo I.

225 a.C. Nella Battaglia di Ta-lamone i Romani ot-tengono una decisiva vittoria contro un’al-leanza di popolazioni celtiche.

216 a.C. A Canne, in Puglia, i Cartaginesi di An-nibale accerchiano e piegano l’esercito romano.

483 a.C. Nella colonia greca di Lentini nasce Gorgia, il più importante filosofo siceliota del V secolo assieme a Em-pedocle di Agrigento.

469 a.C. Ad Atene nasce Socrate.

450 a.C. Muore il filosofo Par-menide, fondatore nella polis di Elea del-la scuola eleatica.

391 a.C. Dalla città campana di Atella viene impor-tato a Roma un nuo-vo genere di comme-dia: l’Atellana.

377 a.C. Muore Ippocrate di Coo, considerato il fondatore della medicina.

287 a.C. Nasce Archimede di Siracusa.

247-221 a.C. Durante il regno del primo imperatore cinese Qin Shi Huang viene edificata la Grande Muraglia.

Siracusa sfidò più volte le città della cosiddetta Lega Italiota (guidata da Crotone) e durante il V secolo a.C. si batté a lungo contro i Cartaginesi, a volte alleandosi con Agrigento (Akra-gas). Non solo. Tra il 415 e il 413 a.C. i Siracusani umiliarono le forze di Atene, che avevano tentato un attacco alla città.

A Taranto, invece, governava un’aristocrazia oligarchica di stampo spartano, specializzata nell’attività bellica. In Puglia, pe-rò, più che conquistare terre i Greci dovettero contenere gli indi-geni: dagli Apuli ai Lucani, dai Campani ai Sanniti.

Il segno tangibile della potenza della Magna Grecia furono le monete, battute in proprio dalle poleis, come Sibari, in Calabria, dove sorse la prima zecca, e Terina, l’odierna Lamezia Terme. Ma quella grandezza era destinata a cedere il passo al nuo-vo astro nascente della Storia: Roma.

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I GRANDI TEMI

TramonTo al rallenTaTore. «A fermare lo sviluppo della Ma-gna Grecia, già messa sotto pressione dai Cartaginesi, fu nel III secolo a.C. l’arrivo delle legioni romane, che sconfissero e sog-giogarono una dopo l’altra le grandi poleis del Meridione così come i popoli italici presenti nell’area», avver-te Montesanti. «Nel 272 a.C. fu piegata Taran-to, mentre attorno al 212 a.C. cadde l’indo-mabile Siracusa, sottoposta a un lungo assedio durante il quale la difesa era coordinata dallo stesso Archimede». Secondo la leggenda, lo scienzia-to avrebbe utilizzato i suoi celebri “specchi ustori”, in grado di con-vogliare i raggi solari contro le navi nemiche fino a infuocarle. I Roma-ni ebbero comunque la meglio e an-che per Syrakousai iniziò il declino.

Quello della civiltà magnogreca fu in ogni caso un tramonto parziale. La sua profonda eredità culturale – e in parte ge-netica – passò sia alle popolazioni italiche, sia al mondo romano. Un esempio per tutti: dopo la caduta di Taranto giunse a Roma il letterato tarantino Li-vio Andronico, che tradurrà nella lingua dell’Urbe i versi dell’O-dissea di Omero, gettando le basi della letteratura latina.

ImpaTTo ambIenTale. Persino il paesaggio, dopo l’arrivo dei Gre-ci, non fu più lo stesso. Anzi, furono loro a modellarlo trasfor-

mandolo in “paesaggio mediterraneo”, diffondendo gli ulivi (e l’olio). Ma non sempre l’impatto fu positivo. L’insediamento io-nico di Metaponto, i cui resti archeologici si trovano oggi a cen-

tinaia di metri dalla costa, 2.500 anni fa era in riva del mare. Per soddisfare i crescenti bisogni alimenta-

ri della popolazione, i coloni disboscarono i terreni delle alture adiacenti trasforman-

doli in campi coltivati. Ma senza più al-beri l’azione erosiva delle piogge inne-scò uno dei più antichi casi italiani di dissesto idrogeologico: i terreni fra-narono producendo l’avanzata della costa e l’impaludamento dell’area.

«Al di là dell’impatto ambientale, italioti e sicelioti trasmisero impor-tanti innovazioni nella costruzione

degli edifici, nell’organizzazione del-le città, nella lavorazione dei metal-

li e, soprattutto, nell’uso della scrittura alfabetica», precisa l’esperto. E il patrimo-

nio che abbiamo ereditato dalla Magna Gre-cia, che a livello archeologico non ha nulla da in-

vidiare al territorio greco, ha contribuito a fare dell’Italia uno dei luoghi più ricchi al mondo sotto il profilo artistico e ar-chitettonico. Benefici dell’immigrazione, che si sentono ancora, più di 2mila anni dopo. •

Matteo Liberti

Nel 212 a.C. Siracusa cadde nelle mani dei Romani dopo un lungo assedio. Per difendere la città Archimede ideò (inutilmente) gli “specchi ustori”

Facce da magnogreci Statuette votive in terracotta e (sopra) una moneta d’argento con l’effigie di Poseidone rinvenute a Paestum.

Da Odessa a Cirene, le altre colonieNella loro ricerca di nuovi mon-

di da colonizzare i Greci non si limitarono alle coste italiane, ma spaziarono dal Mar Nero al Nord Africa, dalle coste francesi a quelle iberiche.Navigando qua e là. Tra le colonie del Mar Nero (tra VII e VI secolo a.C.), le maggiori furono Trapezunte (oggi Trebisonda, Turchia) e Odessos (odierna Odes-sa, Ucraina). Sulle rive del Bosforo sorse invece nel 659 a.C. Bisanzio. Navigatori instancabili, i Greci fondarono inoltre importanti centri lungo le coste orientali dell’A-driatico (come Epidam-nos, attuale Durazzo, Albania) e nel Mediter-raneo occidentale. Qui spiccò Massalia, odierna Marsiglia. Lungo le coste li-biche, si distinse invece Cirene, fondata intorno al 630 a.C.

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Gran parte dei lasciti artistici delle poleis greche nel Sud Italia è oggi

conservata nel Museo nazionale della Magna Grecia di Reggio Calabria (do-ve si trovano anche i celebri Bronzi di Riace). Ma molto altro – soprattutto a livello architettonico – si trova invece en plein air, in importanti siti archeolo-gici dichiarati in molti casi patrimonio dell’umanità Unesco.

❂ Agrigento La Valle dei Templi di Agri-gento è uno dei parchi archeologici più celebri e vasti al mondo, grazie ai resti dell’antica Akragas, tra cui i templi della Concordia e di Giunone del V secolo a.C.

❂ Selinunte (tp) Era la colonia più occi-dentale della Trinacria, tra Agrigento e Trapani. Ne restano suggestive vestigia in gran parte sull’acropoli a strapiombo sul mare (cinta ancora da possenti mu-ra) e sulla collina orientale, con il tempio dedicato a Hera (VI secolo a.C.).

❂ SegeStA (tp) Città rivale di Selinunte fondata dagli Elimi (per gli antichi discendenti dei Troiani), conserva un tempio dorico e un grande teatro.

❂ SirAcuSA Tra i più vasti del Mediterra-neo, il parco archeologico di Siracusa è celebre per il suo grande teatro, eretto nel V secolo a.C., rinnovato due secoli dopo e tuttora in uso. Nel cuore di Siracusa, sull’isola di Ortigia, spiccano invece i resti del più antico tempio dorico della Sicilia (VI secolo a.C.), dedicato ad Apollo, e quelli del masto-dontico Tempio di Atena (V secolo a.C.), oggi inglobato nel duomo cittadino.

❂ cumA (nA) Fondata nell’VIII secolo a.C., è famosa per la Sibilla, sacerdotessa di Apollo la cui attività si svolgeva nel cosiddetto Antro della Sibilla, oggi meta prediletta dei turisti. A poca distanza da questo sorge l’acropoli, con le vestigia dei templi di Apollo e Giove.

❂ pAeStum (SA) Circondato in parte dalle originali mura greche (IV secolo

a.C.), il sito è celebre per la sua area sacra in cui, tra VI e V secolo a.C., furono in-nalzati i maestosi templi di Atena, di Hera I e di Hera II o Poseidone.

❂ eleA-VeliA (SA) Nel cuore del Cilento, l’area archeo-logica di Elea-Velia (unione del nome greco e di quello romano) conserva le tracce della polis che diede i natali a Parmenide, filosofo maestro di Zenone e fondatore della scuola elea tica. Tra le vesti-

gia spicca la Porta Rosa (IV secolo a.C.), un’arcata che collega due alture su cui si trovano gli edifici dell’acropoli.

❂ cApo colonnA (Kr) L’estrema punta orientale della Calabria deve il suo fa-scino a un’imponente colonna che fron-teggia le acque dello Ionio e che è l’uni-ca superstite tra quelle che sostenevano il mastodontico tempio di Hera Lacinia (VI secolo a.C.), circondato da strutture secondarie di cui sono visibili i resti.

❂ locri epizefiri (rc) Seppur scavato solo in parte, il sito di Locri Epizefiri presenta numerosi resti di templi, tra i quali spiccano quelli del santuario di Marasà (VII-V secolo a.C.). Di notevole fascino sono inoltre le vestigia di un grande teatro risalente al IV secolo a.C. e modificato successivamente, in epoca romana.

Splendida mostruositàGorgone alata, oggi al museo archeologico di Siracusa.

Il tempio di Atena (o Cerere) a Paestum.

Il teatro di Segesta (Trapani).

Antefissa con testa di divinità, da Agrigento.

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UN MUSEO A CIELO APERTO NELL’ITALIA DEL SUDDa Siracusa ad Agrigento, da Paestum a Cuma, i capolavori ancora visibili delle antiche città-Stato.

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❂ metAponto (mt) Il sito si sviluppa attorno a un’area sacra che presenta le vestigia di molteplici templi e che è separata da un antico muro dalla zona dell’agorà, dove vi sono i resti del teatro della polis (IV secolo a.C.). Fuori dallo spazio sorge invece un enorme tempio dedicato a Hera (VI secolo a.C.), gran parte delle cui colonne è tuttora in piedi.

❂ tArAnto Nel cuore di Taranto, nata come colonia spartana di Taras, sorge il più antico luogo di culto della Magna Grecia, o meglio quel che ne resta: un grande basamento sovrastato da due enormi colonne doriche dal diametro di oltre due metri, un tempo a sostegno del cosiddetto Tempio di Poseidone (VI secolo a.C.).

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A cura di Achille Prudenzi

CONFINI PAZZI

Un giardino di Sainte-Adresse dipinto nel 1867 da Claude Monet.

“Scrivere la Storia vuol dire incasinare la geografia”: parola dello scrittore francese Daniel Pennac. Che sia così, lo dimostra una serie di bizzarrie: dall’isola in comproprietà alla camera d’hotel extraterritoriale, ecco le più curiose.

Sainte-Adresse, vicino a Le Havre, è un paesino francese di circa 8mila abitanti.

Un secolo fa era una meta della mondanità internazionale: per quattro anni, infatti, fu la capitale del Belgio. Al sicuro. Nell’agosto del 1914, quando i te-deschi invasero il piccolo Paese cuscinetto, il re belga Alberto I e il suo governo furono costretti ad abbandonare Bruxelles. Ma dove riparare? La Francia propose ai vicini di scegliere una città del proprio territorio in cui stabilirsi. E i belgi chiesero Sainte-Adresse, a patto che i francesi accordassero l’extraterritorialità, ovvero cedessero la sovranità su quella che diventava a tutti gli effetti una città belga. L’accordo si fece e nell’ottobre 1914 a Le Havre sbarcarono i notabili belgi, accolti come eroi dalla popo-lazione locale. Il re Alberto tuttavia rimase sempre nella città di La Panne, sulla costa

belga, per difendere di persona i pochi chi-lometri quadrati del suo Paese non invasi. Il primo consiglio dei ministri belga a Sain-te-Adresse si svolse il 3 novembre 1914. Poste e telegrafi. Per permettere ai belgi di affermare che la loro nazione esisteva ancora, nonostante l’occupazione tedesca, ogni mattina nella corte del ministero della Guerra veniva issata la bandiera belga. In città apparvero anche un ufficio postale belga e varie cassette delle lettere rosse, come si usavano in patria. A fine conflitto, il Belgio riprese possesso del suo territorio e

Sainte-Adresse tornò francese. A ricor-dare quel periodo sono oggi

una statua di Alberto I, targhe commemorative e una cassetta delle lettere: rossa, ma ormai acquisita dalle poste francesi.

Una capitale a termine

Sainte-Adresse

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NAZIONI

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In alto, incisione seicentesca con l’isola basca, luogo di incontro e di pace tra Francia e Spagna.

Sotto, re Pietro II di Serbia a Londra dopo l’invasione tedesca del suo regno (1943).

Sotto, soldati turchi alzano la bandiera nell’area della tomba di Suleyman Shah dopo il blitz in Siria, a febbraio.

L’Isola della Conferenza (in origine dei Fagiani) si trova nei Paesi Baschi ed è un caso unico al mondo. Dal 1°

febbraio al 31 luglio è amministrata dagli spagnoli, dal 1° agosto al 31 gennaio dai francesi. Situata in mezzo

al Bidassoa, un fiume che segna la frontiera tra la Francia e la Spagna, è più piccola di un campo da

calcio, non ha abitanti ed è contraddistinta da un’abbondante vegetazione. Allora come mai questa spartizione? Per la sua posizione, che la rende ideale per ogni tipo di transazione. Scambi. Sull’isola avvenne, nel 1615, lo scam-

bio di due “infante”: quella francese, promessa sposa del futuro Filippo IV di Spagna, e quella

spagnola, promessa a Luigi XIII di Francia (allora fan-ciullo e sottoposto alla reggenza di Maria de’ Medici).

Nel 1659 sull’isola si tenne poi la conferenza per nego-ziare il Trattato dei Pirenei. Che prevedeva l’ennesimo patto matrimoniale: le nozze tra Luigi XIV e Maria Teresa. Dopo quella firma, l’isola ormai detta “della Conferenza” rimase in comproprietà. E dal 2012 è stata istituita una cerimonia militare che celebra l’alternanza di sovranità.

Il 17 luglio 1945, mentre si apriva la Conferenza di Potsdam per definire confini e spartire in zone di

influenza la Germania, il primo ministro inglese Winston Churchill creò la più piccola ed effimera

exclave della Storia: la suite 212 dell’Hotel Cla-ridge’s a Londra, dichiarata territorio iugoslavo per un giorno. Per il nascituro. La stanza ospitò il re Pietro II

di Serbia, costretto all’esilio dopo che i tedeschi avevano invaso il suo Paese, e la moglie del

sovrano, in stato di avanzata gravidanza. Proprio quello era il motivo dell’improvvisa extraterritorialità

della suite 212: il principe Alessandro, erede al trono, nato quel 17 luglio, doveva venire alla luce in territorio iugoslavo per poter aspirare alla successione. Ma il gesto rappresentava soprattutto un riconoscimen-to simbolico, da parte del Regno Unito, verso un sovrano calpestato dalla Storia, che si era rifugiato lì perché i reali inglesi erano imparentati con la sua famiglia. Non che

Churchill simpatizzasse per l’esi-liato. Al contrario, per garantirsi la sua lealtà verso il Regno Unito, sin dal 1941 aveva fatto sorvegliare il sovrano balcanico. In ogni caso, Pietro non tornò mai nel suo Pae-se. Alla fine del 1943 gli Alleati de-cisero di non rimetterlo sul trono, lasciando la Serbia alla Iugoslavia del comunista Tito. Nel 1947 i beni del re furono confiscati e Pietro morì poi negli Stati Uniti.

Un’isola in multiproprietà

Il Regno in una stanza

Kobane

Isola della Conferenza

Hotel Claridge’s

Lo scorso febbraio un blitz mili-tare turco è penetrato per alcu-

ni chilometri nel territorio siriano controllato dall’Isis. La missione della colonna di circa 100 blin-dati e carri armati era mettere in salvo la tomba di Suleyman Shah

(1178-1236), nonno del fonda-tore della dinastia ottomana

Osman I. L’operazione, con-clusa in poche ore e costata la vita a un militare turco, mirava all’exclave turca (cioè

un’area turca totalmente isolata all’interno di un’altra

nazione, in questo caso la Siria). Lì era infatti conservata la “reli-quia” ottomana.Dove c’è la tomba. A essere ex-traterritoriale, in questo caso, è la tomba stessa, più che il territorio. Il tutto in virtù del Trattato di Ankara, firmato nel 1921, dopo la nascita della nuova Turchia di Atatürk, all’indomani del dissol-vimento dell’Impero ottomano a causa del conflitto mondiale. L’articolo 9 di quel trattato recita: “La tomba rimarrà, con le sue spet-tanze, proprietà della Turchia, che potrà nominarne guardiani e po-trà impiegare lì la sua bandiera”. Di fatto, dove si sposta la tomba (rimasta in Siria, ma nei pressi della città di confine Kobane), lì è Turchia. Ma solo per i turchi, visto che gli altri Stati non riconoscono questo principio.

La tomba della

discordia

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Nel villaggio di Baarle, conteso tra Paesi Bassi e Belgio, c’è una casa con porta di ingresso a cavallo della frontiera: ha un indirizzo belga e uno olandese

Banchetto con il principe arabo Faysal e l’ambasciatore inglese a Gedda, in Arabia Saudita, nel 1930.

Sopra, l’Abbazia di Wissemburg, a cui in

origine i Franchi donarono la foresta dell’Obermundat.

Nella cartina, le aree belga e olandese a Baarle-Hertog.

Nella foto, un caffè a Baarle-Nassau: le croci rappresentano il

confine tra le due nazioni.

I territori dell’Alsazia e della Lorena sono stati a lungo contesi tra Francia e Germania. Per questo, dopo due guerre mondiali, si è do-

vuto attendere fino al 1984 per risolvere il contenzioso sui 679 ettari della foresta dell’Obermundat. Il dissidio risale al Medioevo, quando i re dei Franchi donarono all’Abbazia di Wissemburg quella foresta, preziosa per il suo legname e la cacciagione. In seguito, l’abbazia rimase francese. Finché, dopo la rivoluzione scoppiata nel 1789, le sue terre passarono al comune tedesco di Wissemburg. Da allora in poi, per 150 anni, quei territori passarono a una o all’altra nazione a seconda delle vicende belliche. Tira e molla. Sul finire degli anni Trenta, la Francia decise di sbarazzarsi di quel terreno e di venderlo ai vicini, per oltre un milione di marchi. Finita la Secon-da guerra mondiale, però, la Germania era stremata e in miseria, e non saldò il conto. A quel punto la Fran-cia, che aveva già ottenuto l’Alsazia e la Lorena, chiese anche le terre di Wissemburg. Ma ne ottenne soltanto una parte. Compromesso. Quando, nel 1962, si decise di met-tere fine alla vicenda, il parlamento tedesco rifiutò di ratificare l’accordo. La Germania aveva già perso molti territori e non voleva cederne altri. Nel 1984, in cambio della promessa di un indennizzo per gli alsaziani arruolati a forza dai tedeschi, la Francia riconobbe alla Germania la sovranità sulla foresta dell’Obermundat, dove però Parigi mantiene (dal 1990) una proprietà fondiaria.

Il richiamo della foresta

BelgioPaesi Bassi

Madha

Baarle

Wissemburg

Un villaggio per due

Più che un mosaico, è un rompicapo: il villaggio di Baarle è composto da una

parte belga e da una olandese. La prima, Baarle-Hertog, consiste di quattro aree dentro i confini del Belgio e di 22 “excla-ve” a Baarle-Nassau, la zona olandese di Baarle. La quale, a sua volta, include una parte principale e otto “sotto enclave” nelle 22 parti belghe di Baarle-Hertog.

Matassa. Il groviglio nacque nel 1843, quando un

trattato stabilì la linea di confine tra Olanda e Belgio, da poco un regno indipendente. A quell’epoca, Baarle era divisa a nord in

una regione olandese e a sud in una belga.

Invece che tenere conto di quella situazione, ognuna delle

5.372 porzioni territoriali del catasto fu singolarmente attribuita all’uno o all’al-tro Paese, sulla base di antichi documenti del 1198 relativi a quelle proprietà, senza chiedere il parere degli abitanti. I quali, a loro volta, ne approfittarono. Nel 1953 un contadino, giocando con le legislazioni dei due Stati, aprì un casinò, cosa vietata in Olanda ma non in Belgio. Solo nel 1995 i confini furono tracciati in maniera definitiva. Baarle oggi ha due consigli municipali, due poste, due polizie, due reti elettriche, due sistemi di numerazione delle case. I confini attra-versano però strade, negozi e case.

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Osservando una carta geografica degli Emirati Arabi, si può notare, a est, un

microscopico possedimento straniero. È la città di Madha, enclave del vicino Sultanato dell’Oman nella Penisola del Musandam. Ma non basta. L’enclave ospita al suo inter-no una exclave degli Emirati: il villaggio di Nahwa. La spiegazione di questa “scatola cinese”? Il petrolio.Spartizioni. Tutto iniziò nei primi decenni del Novecento, quando il ritrovamento dell’oro nero nella regione risvegliò l’in-teresse delle potenze internazionli per la Penisola Arabica. La Gran Bretagna aveva

già un protettorato, quello degli “Stati della Tregua”, una serie di emirati sorti nell’Ot-tocento. Ampie zone desertiche erano rimaste però senza padroni: la sabbia non faceva gola a nessuno, allora. Dopo la Prima guerra mondiale, però, quando ormai si sapeva che sotto il deserto c’era l’oro nero, la famiglia al-Saud estese le sue conquiste. Il Regno Unito, per non perdere l’opportunità di sfruttare quei gia-cimenti, offrì alla famiglia il riconoscimento formale in cambio del rispetto dei confini del proprio protettorato. I sauditi accettaro-no e nel 1932 nacque l’Arabia Saudita.

Di qua o di là. Restavano però alcune aree non assegnate. Quando si chiese agli abi-tanti di Madha (dei quali non importava a nessuno) da chi volessero essere protetti, loro scelsero il sultano dell’Oman, che garantiva il prezioso accesso all’acqua po-tabile. Il piccolo villaggio di Nahwa si legò invece agli Stati della Tregua, che nel 1971 presero il nome di Emirati Arabi Uniti. Oggi i palazzi moderni del villaggio di Nahwa contrastano con la città di Madha: la situa-zione riflette le disparità economiche tra i ricchi Emirati e il più povero Oman, dove il petrolio scorre meno copioso.

Vittime (si fa per dire) del petrolio

A sinistra, Llivia, in Catalogna. Sotto, guardie francesi e soldati spagnoli nel 1939, sul confine.

Tra il 1973 e il 1983 a Llivia, enclave spa-gnola sui Pirenei francesi che i Romani

chiamarono così in onore della terza moglie di Augusto (Livia), si è combattuto uno stra-no conflitto: la “guerra degli stop”. Contesa antica. L’ostilità ha radici lontane. Nel 1528, al termine di una lunga contesa tra francesi e spagnoli per il controllo della cit-tadina, in posizione strategica, Llivia diventò iberica e l’imperatore Carlo V, ripercorrendo le tracce dei Romani, le attribuì lo status di “città”. Sul momento, la cosa non ebbe con-seguenze. Finché, 131 anni dopo, il re france-se Luigi XIV e il suo collega spagnolo Filippo IV siglarono la Pace dei Pirenei. All’articolo 42, il trattato prevedeva la condivisione tra i due Paesi di alcuni “villaggi” posti nella regione di confine della Cerdagne. I villaggi, appunto. E le città? Il trattato non ne faceva menzione. Così, i commissari incaricati di ap-plicare gli accordi lasciarono (arbitrariamen-

te) Llivia alla Spagna. Da allora i suoi abitanti (attualmente circa 1.500) possono recarsi in patria usando una strada francese riservata. Declassata. Nel 1973 la Francia decise di declassare quella strada da “nazionale” a “dipartimentale”, mettendo lungo il suo per-corso alcuni segnali di stop, per agevolarne l’attraversamento. Gli spagnoli iniziarono a boicottare l’intrusione facendo sparire i car-telli: un numero indefinito di stop fu vittima di quella strana ripicca. La soluzione? Un nuovo svincolo realizzato nel 1983, che tiene separate le due viabilità, quella di pertinenza spagnola e quella francese.

LliviaLa guerra degli stop

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L’isola atlantica di Sant’Elena è nota per aver fatto da sfondo al

secondo esilio di Napoleone, che vi morì il 5 maggio 1821. Pochi sanno che sull’isola (territorio d’Oltremare del Regno Unito), la Francia pos-siede circa 15 ettari di terreno, che includono la residenza dell’impera-tore deposto (Casa Longwood), il Pa-villon de Briars e la cosiddetta Valle della Tomba, che ospitò le spoglie di Napoleone fino al 1840, quando il re Luigi Filippo ne ottenne la traslazio-ne a Parigi.

Eccezione. Per preservare la memo-ria del “gran còrso”, pochi anni più tardi Luigi Napoleone Bonaparte, ovvero Napoleone III, chiese di ac-quistare dal governo britannico la dimora di Longwood e la Valle della Tomba. Non fu semplice. La vendita di terre britanniche a una potenza straniera era teoricamente vietata. Ma la regina Vittoria e Napoleone III andavano d’accordo al punto di diventare alleati nella Guerra di

Crimea. E il 7 maggio 1858, in de-roga alle leggi del regno, il

governatore di Sant’Elena autorizzò la vendita delle due proprietà al prezzo di 7.100 sterline. Donazione. Ai possedimenti francesi di Sant’Elena si aggiunse nel 1959 il Pavillon de Briars, il luo-

go dove inizialmente aveva soggiornato Napoleone I. In questo caso si trattò di una donazione di Mabel Brooks, discendente della famiglia Balcombe, i padroni di casa di Napoleone oltre un seco-lo prima.

Sant’Elena: il prezzo della memoria

Sulla sponda destra del fiume

Elba, una parte della città tedesca di

Amburgo corrisponde a un’antica cittadina danese:

Altona. Secondo la leggenda, alcuni amburghesi decisero nel Medioevo di dare vita a un nuovo insediamento nel luogo in cui fosse caduto un loro compagno, appositamente bendato. Ma l’uomo percorse una distanza così ridotta da fa-re esclamare loro: “das is all-to-nah”, “è troppo vicino”. Frase che diede il nome alla città. Fuor di leggenda. Tradizioni a parte, pare che Altona sia nata

come villaggio di pescatori nel 1535, diventando in poco più di un secolo la seconda città portuale in Danimarca. Nel 1664 il re danese Federico III le concesse lo status di città e molti ebrei di Amburgo, lì discriminati, vi si trasferirono. Da allora fino all’Ottocento la danese Altona rimase uno dei principali centri ebraici d’Euro-pa (a sinistra, un decreto anti-sommossa del 1687). Nel 1864 la città venne però ceduta agli austriaci, che tre anni dopo la passarono a loro volta al Re-gno di Prussia. Nel 1937 Altona divenne infine uno dei distretti della vicina città tedesca.

Le peregrinazioni di Altona

Altona, quando era danese, accolse molti ebrei in fuga da Amburgo. Oggi è un distretto tedesco, e vanta uno dei cimiteri ebraici più vasti in Europa

Turisti a Longwood House, dimora

di Napoleone a Sant’Elena, dal 1858

territorio francese.

Sant’Elena

Altona

S+APERNE DI PIÙ

Il Monte Bianco non è in Italia, Olivier Marchon (Edizioni Clichy). Bizzarrie storico-geografiche (queste e altre).

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N°11 Dicembre 2013 ! ! 6,90

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Sui ghiacciai nel 1915 -18Vita al fronte in Afghanistan. I Ranger del Monte Cervino

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N°12 Marzo 2014 ! ! 6,90

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Storia

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Direttore responsabile Jacopo Loredan [email protected]

Ufficio centrale Aldo Carioli (caporedattore, [email protected]), Marco Casali (Photo Editor, vicecaporedattore, [email protected]), Andrea Parlangeli (caporedattore centrale, [email protected]), Massimo Rivola (Art Director, vicecaporedattore, [email protected]) Redazione Federica Ceccherini, Lidia Di Simone (caporedattore), Marta Erba, Irene Merli (caposervizio), Giuliana Rotondi, Anita RubiniUfficio fotografico Patrizia De Luca (caposervizio), Rossana CacciniRedazione grafica Katia Belli, Mariangela Corrias (vicecaporedattore), Barbara Larese, Vittorio Sacchi (caposervizio)Segreteria di redazione Marzia Vertua, [email protected]

Hanno collaborato a questo numero:A. Bacci, F.-Xavier Bernard, G. Boarotto, E. Canadelli, E. Cattaneo, P. M. Fasanotti, G. D. Iachini, M. L. Leone, M. Liberti, G. Lomazzi, M. Lombardi, A. Marzo Magno, E. Monti, A. Monti Buzzetti Colella, A. Prudenzi, R. Roveda, D. Venturoli, G. Zerbinati, S. Zimbardi.

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Page 109: Focus Storia (Maggio 2015)

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Il “maruzzaro”, a Napoli, era il venditore di lumache (più propriamente chiocciole), chiamate appunto “maruzzelle”.

Qui se ne vede uno fotografato dal francese Gustave Emile Chaufforier intorno al 1890. I molluschi venivano

bolliti con pomodori e prezzemolo e venduti per strada, accompagnati da “freselle” (pane biscottato). Al banchetto si trovavano

anche altri tipi di molluschi, come lumache di mare, vongole e cozze. Il che, se il maruzzaro non era stato più che scrupoloso

nella scelta della materia prima e nella preparazione del cibo, si trasformava spesso in un pericolo per la salute.

ALIN

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flashback

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Page 112: Focus Storia (Maggio 2015)

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