Focus Storia (Gennaio 2015)

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SCOPRIRE IL PASSATO, CAPIRE IL PRESENTE

gennaio2015

ROMA SPIETATA

■ BOTTECCHIA

■ GENIO E REGOLATEZZA ■ GHINO DI TACCO

■ MEDICO FOTOGRAFO

■ STORIA DEL REGALO

■ SANKARA

■ ULTIMI GIORNI DI FRANCESCO II

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IN PIÙ...Grazie, vetro: come ha modellato la nostra civiltà Genio e regolatezza: la strana routine dei grandi pensatoriIl “Che” africano: Thomas Sankara, dal Burkina Faso sfidò l’Occidente. E morì

GIALLO SU DUE RUOTEUn secolo prima del “caso Pantani”, la morte misteriosa del campione Ottavio Bottecchia

GRANDUCATO DI TOSCANAPietro Leopoldo: quando Firenze

era la capitale dell’Illuminismo

ROMAROMAROMAIL LATO

SPIETATO DELL’IMPERO

Legioni implacabili, leggi inflessibili,

sovrani disposti a tutto. Dietro le quinte

di un dominio durato cinque secoli

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Fotostoria del Novecento

Ecco come i nostri nonni, i nostri genitori e noi siamo cambiati davanti (e dietro) la macchina fotografica. Questo volume speciale di Focus Storia è il ritratto, e spesso l’autoritratto, degli italiani nel XX secolo. Vi hanno contribuito grandi maestri della pellicola, ignoti fotografi ambulanti e tanti lettori del nostro giornale!

FOCUS STORIA: EMOZIONANTE, SORPRENDENTE, COINVOLGENTE PIU’ CHE MAI

CON LE

FOTO DEI

LETTORI!

Page 3: Focus Storia (Gennaio 2015)

Roma, faro della civiltà. Capitale di un

impero che, quindici secoli dopo la scompar-

sa, è ancora capace di esercitare la propria influenza culturale. Culla del diritto, cuore del cristianesi-mo, madre dell’Occidente. Ma anche centro di potere assoluto, dove i sovrani, grandi o mediocri che fossero, hanno sempre eser-citato la loro autorità senza farsi scrupoli. Dove i processi penali si concludevano con punizioni tanto meticolose quanto crudeli. Dove i generali consideravano la rappresaglia cosa di ordinaria amministrazione e lo sterminio il più scontato epilogo di qualsiasi campagna bellica. Roma, con la sua corte imperiale nido di con-giure, dove governare significava principalmente colpire per primi. È a questa Roma, eterna anche perché spietata, che abbiamo dedicato il tema di copertina di Focus Storia. Buona lettura.

16 TECNOLOGIAIl vetro allo specchioDagli Egizi a Murano, l’arte del vetro.

24 MEDIOEVOIl Falco della Val d’Orcia

Ghino di Tacco, brigante del Duecento.

30 MISTERILa moglie di Gesù (o no)Tutte le ipotesi su Maria Maddalena.

32 NOVECENTOIl “Che” africanoThomas Sankara, il leader del Burkina Faso che sfidò l’Occidente.

78 COSTUMEUn regalo per teLe radici antichissime dello scambio di doni.

84 ANNIVERSARIGli ultimi giorni di FranceschielloL’ultimo re delle Due Sicilie morì in esilio nel 1894, in Trentino.

90 STORIE D’ITALIAUn “Pantani” d’epocaLa morte misteriosa di Ottavio Bottecchia.

94 PERSONAGGILa routine della creativitàLe giornate-tipo dei grandi creativi: genio e regolatezza.

96 GRANDI TEMILumi di ToscanaLe riforme illuministe di Pietro Leopoldo.

102 NOVECENTOLouis Lafond, medico fotografoL’album inedito dal fronte francese della Grande guerra.

IN PIÙ...

Jacopo Loredan direttore

Una condanna ad bestias in versione ottocentesca.

La forza dell’impero

4 LA PAGINA DEI LETTORI 6 NOVITÀ & SCOPERTE 8 TRAPASSATI ALLA STORIA 9 AGENDA 10 MICROSTORIA 13 CURIOSARIO 15 SCIENZA E SCIENZIATI 72 PITTORACCONTI 76 DOMANDE & RISPOSTE 110 FLASHBACK

40Sangue e potere

Fin dalla sua fondazione Roma ha conosciuto il significato della violenza. Congiure e complotti sanguinari hanno segnato la sua storia.

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Cattivissimi reI dieci imperatori romani più efferati (almeno secondo gli storici antichi)

e le loro imprese senza scrupoli.

48A ferro e fuoco

I Romani sapevano essere aperti. Ma i popoli che si ribellavano dovevano fare i conti con la repressione delle legioni. Come accadde in Giudea.

54Mammina cara

Agrippina Minore, madre di Nerone, fece di tutto per conquistare e conservare il potere della sua famiglia. Ma morì vittima del figlio.

60Durissima lex

Pene capitali e supplizi per chi violava le leggi romane (o divine) erano un campionario di torture, ma nulla era affidato al caso.

66L’ultimo dei Romani

Ascesa e caduta di Flavio Ezio, “l’uomo forte” che tentò di far rivivere la grandezza militare di Roma alla vigilia della caduta dell’impero.

RUBRICHE

In copertina: Un legionario tardoimperiale in un’elaborazione al computer.ARCANGEL

Gennaio 201599

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Storiafocusstoria.it

CI TROVI ANCHE SU:

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Tra campagne

e metropoli,

fabbriche d’auto

e filande, gli

italiani sull’orlo

del conflitto

L’Europa divisa

e il resto del mondo

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l’italia alla vigilia della

grande guerra1914

IN PIù...il vero califfato: quattro

secoli di splendori tra Baghdad

e Damasco

eSplorazioni: il marinaio di

colombo che scoprì il tabacco

meDioevo: l’enigma dei càtari

piemontesi finiti al rogo

OSTIA ANTICAil porto di

roma 2mila

anni fa, ricostruito in

base alle ultime scoperte

AUgUrI CONIgLIETTE!

playboy: la

rivoluzione del

sesso “pop”

vista attraverso

sei decenni di

copertine

Dedicato ai tanti che non tornaronoMi chiamo Angela Vitale e sono nata a Busto Arsizio. Volevo compli-mentarmi per il dossier sull’Italia alla vigilia della

Prima guerra mondiale. L’ho tro-vato molto interessante, di rilievo storico ed umano. Mi lascio andare alle emozioni, perché fin da bambina, mi è giunto il ricordo, di un mio prozio, disperso a Caporetto. Di lui non è rimasta nessuna foto, nessuna lettera, solo un nome inciso su un monumento dedicato ai caduti della “Grande guerra”. Invio, se può essere d’interesse, un mio breve racconto, dedicato ai tanti soldati, che non tornarono più. Ai tanti giovani di tutta Italia, che vennero strappati dalle loro famiglie e che combatterono gloriosamente. Chi ritornò, riportò ferite non solo sul corpo, ma anche nell’animo. Per tutti loro sono le mie parole. Un piccolo contributo per continuare a ricordare.

Angela Vitale, Busto Arsizio (Va)

Non possiamo pubblicare qui il racconto che ci ha

inviato la signora Vitale, ma la ringraziamo molto per aver con-diviso con noi i suoi ricordi e le emozioni suscitate dalla lettura di Focus Storia.

Chiesa san Claudio Riguardo al palazzo di Carlo Magno ad Aquisgrana (Focus Storia n° 98, pag. 46-47), così ben illustrato da Giorgio Albertini, vorrei segnalare che lo studioso di archeologia cristiana Giovanni Car-nevale avrebbe riconosciuto nella chiesa di San Claudio al Chienti, in

provincia di Macerata, un edificio costruito con i medesimi criteri architettonici del palatium di Aqui-sgrana “così simile da essere sovrap-ponibile”. L’ipotesi è suffragata dalla presenza nelle Marche di Franchi d’Aquitania, fuggiti nella prima metà dell’VIII secolo dagli Arabi e accolti dai monaci dell’Abbazia di Farfa. Inoltre Carlo Magno si fece costrui re un palazzo simile a quello di Aquisgrana anche a Roma, vici-no a San Pietro.

Fabio Lambertucci

Maria Teresa: dall’istruzione alla libertà Nel XVIII secolo l’imperatrice Maria Teresa d’Austria incoraggiò la diffu-sione dell’istruzione con un editto: la Ratio educationis. Non sapeva che in tal modo, indirettamente e involontariamente, avviava i moti rivoluzionari che avrebbero porta-

Sono la moglie di un funzionario dell’Ambasciata Italiana a Kiev. Mio marito ha avuto da una signora ucraina una gavetta di ferro donata a sua madre per ricordo da un ufficiale (?) italiano che si trovava in Ucraina (non so perché) dopo il 1940. Questa signora vorrebbe poter restituire questa gavetta (v. foto a destra) ai familiari del soldato, come spiega nella lettera inviata

all’Ambasciata, ma non sa come rintracciarli [...]. Ho chiesto al distretto militare

di Roma, ma con così pochi elementi e senza neppure sa-pere se era di Roma non hanno potuto fare nulla. [...] Il militare si chiamava Emilio Motta, era del 2° Reggimento granatieri Compagnia Roma, fu congedato il 2 giugno 1934, ma fu richia-mato l’8 maggio 1935. Questo lo sappiamo perché è inciso sulla gavetta.

Lettera firmata

Una “gavetta di ghiaccio” dall’Ucraina della Seconda guerra mondiale

to alla fine del suo impero meno di due secoli dopo; peccò in lungi-miranza credendo che ciò avrebbe solo portato a rinforzare l’impero con un apparato burocratico istrui-to. Boemi, Sloveni, Bulgari: come in un circolo vizioso l’educazione dilagava e con essa la capacità di leggere la storia del proprio popo-lo, conservata a lungo e aggiornata nei monasteri. Filologi e storici diedero il loro contributo alla riscoperta o creazione delle lingue, gettando un primo passo verso il nazionalismo, che avrebbe generato il conflitto mondiale e causato la fine dei grandi imperi austriaco e ottomano. Mi piacerebbe leggere un articolo su questa storia di popoli [...] che, attraverso l’istruzione e la conoscenza della Storia, si resero liberi ed intrapresero la strada dell’indipendenza. Ilaria

Di alcuni di questi popoli (specie balcanici) ci siamo

già occupati. Ma torneremo ad oc-cuparcene ancora in futuro.

La storia dei confessoriLeggo sempre con passione Focus Storia, ma a volte per mancanza di tempo un po’ in ritardo. Come in

San Claudio al Chienti (Macerata), piccola Aquisgrana italica.

questo caso: sto ancora leggendo il numero di settembre.Mi dispiace aver notato a pag. 71 del n° 95 che indicate come giallo il colore della stola dei confessori nel cristianesimo. Come catechista mi è subito parso sbagliato e sono andata immediatamente a ricer-care i colori delle stole: il colore del pentimento e della richiesta di perdono è sempre il viola (quindi è il viola il colore liturgico della quaresima, della confessione e dell’unzione degli infermi);Il giallo-oro può essere utilizzato nelle occasioni più solenni sosti-tuendo il colore liturgico del gior-no ad eccezione del viola che non può essere sostituito.

Lisa, Trento

La ringraziamo della preci-sazione, anche se, stando

agli storici del cristianesimo, i significati simbolici dei colori liturgici non sono sempre stati gli stessi in tutte le epoche.

La fortuna dei Fieschi Nel numero 96 di Focus Storia avete trattato della congiura di Gian Luigi Fieschi. Questa congiura viene anche descritta da Agostino Mascardi nell’opera Congiura del Conte Gio. Luigi de’ Fieschi, stam-

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LA PAGINA DEI LETTORIInviateci opinioni, idee, proposte, critiche. Pubblicheremo le più interessanti oltre a una selezione dei commenti alla nostra pagina Facebook. (www.facebook.com/FocusStoria). Scrivete a Focus Storia, via Battistotti Sassi 11/a, 20133 Milano o all’e-mail [email protected]

Page 5: Focus Storia (Gennaio 2015)

pato nel 1629. Mascardi voleva continuare la Storia d’Italia del Guicciardini. Lo scrittore si docu-menta a lungo prima di redigere la sua opera che ha ben tre edizioni diverse con alcune modifiche tra loro. L’opera di Mascardi viene poi tradotta anche in altre lingue, tra cui il tedesco e il francese. Per la lingua tedesca sarà il poeta Schiller a riprendere l’opera, adattandola affinché sia più adatta alla tragedia. Diversa vicenda riguarda la tra-duzione francese fatta da Jean-Jacques Bouchard. Mascardi e Bouchard si conoscono alla corte barberina e il francese è al corrente dei tagli che il testo di Agostino Mascardi ha dovuto subire a causa delle censure: nonostante questo viene tradotta e pubblicata nel 1639. Una seconda personalità, sempre francese, s’interessa all’opera: è il cardinale di Retz, François-Paul de Gondi, nell’anno 1665. Quest’ultima opera ha delle caratteristiche diverse rispetto all’originale. Resta singolare il fatto che questa congiura abbia susci-tato curiosità tra gli intellettuali andando a far nascere diverse edi-zioni in più parti d’Europa.

Simona Ravasi

Ma quando eruttò davvero il Vesuvio? In merito all’articolo della rubrica Scienza e scienziati su Plinio il Vec-chio, a pagina 76 di Focus Storia n° 97, tengo a precisare che ho riscontrato un’imprecisione sulla data dell’eruzione del Vesuvio che distrusse Pompei ed Ercolano nel ’79 d.C. In una nota trasmissione televisiva di divulgazione (Ulisse, il piacere della scoperta, di Alberto Angela) dedicata all’eruzione ve-suviana ho sentito che essa non è avvenuta il 24 agosto del 79 d.C., bensì il 24 novembre di quell’anno, come indicano reperti archeologici ritrovati da poco, tra i quali mano-scritti datati 24 novembre del 79. A tutto dà conferma l’archeologa Grete Stefani, direttrice degli scavi archeologici di Pompei, dicendo che nei reperti sono stati rinvenuti dei frutti di stagione tipicamente

autunnali quali castagne sbucciate, dei melograni, delle noci; era già avvenuta da tempo la vendemmia, perché sono stati ritrovati dei cocci in terracotta contenenti del mosto. Infine sono stati ritrovati degli in-dumenti autunnali.

Adriano Giacomozzi, Trento

Vero. Anche noi, su Focus Storia, abbiamo più volte

parlato di questi indizi, che fareb-bero datare a novembre e non ad agosto l’eruzione pliniana. Va detto però che non tutti sono d’accordo, in quanto vanno tenu-ti presenti i mutamenti climatici avvenuti in 2mila anni. In ogni caso, nella rubrica in questione non abbiamo approfondito que-sto aspetto, essendo la pagina in-centrata soprattutto sulla figura di Plinio il Vecchio.

Non dimenticate il Biennio rossoSono un lettore della vostra rivista, appassionato di Storia, in partico-lare modo di quella del Ventesimo secolo. Volevo complimentarmi per gli interessanti articoli riferiti alla storia d’Italia degli anni antece-denti il primo conflitto mondiale. Tali articoli fanno il punto su un periodo poco conosciuto del nostro Paese, sebbene siano stati il prologo a un triennio che avrebbe per sempre cambiato non solo la Storia ma gli italiani stessi. Vorrei suggerire di approfondire anche un altro periodo che, se-condo il mio modesto parere, ha segnato un periodo di transizione del nostro Paese e per questo non sotto i riflettori: il Biennio rosso. È stata la porta d’ingresso che ha condotto le Camicie Nere a Roma e mai fino ad allora il nostro Paese è stato sull’orlo di una guerra civile come nei primi anni Venti.

Carnefici e vittime non sempre so-no stati giudicati dalla Storia come avrebbero meritato. [...]

Alberto Garlandini da Cecina (LI)

Civiltà dimenticateHo apprezzato il contenuto di Focus Storia Collection sulle civiltà perdute e ben capisco che avete dovuto fare una selezione molto stringente, ma almeno 2 omissioni mi paiono del tutto inopportune, per non dire altro.1. La First Nation del Nord degli Usa e Sud del Canada manca com-pletamente, eppure sono presenti sul territorio da oltre 10.000 anni. Hanno dato vita a tante nazioni di nativi nordamericani. Hanno una cultura, religione, tradizioni ben radicate e ancora presenti sul terri-torio. Non voglio farne qui un lun-go elenco, ma sarebbe piacevole e giusto da parte vostra di prendere atto di questa vivente civiltà [...].2. Non ho trovato, con rammarico, i Longobardi! A detta delle ricerche sul Dna degli italiani di oggi appare chiaro che non siamo più solo di-scendenti dei popoli della penisola italica alla fine dell’ Impero romano ma siamo frutto dell’ assimilazione di essi con i Longobardi. Si studia ovunque che il fenomeno dell’as-similiazione dei Longobardi con i popoli incontrati nella Penisola è unico nella storia occidentale, perché non fu una mera conviven-za né un’imposizione di cultura diversa imposta ai vinti ma di vera e propria assimilazione di varie culture con quella longobarda, il cui frutto siamo noi. Difatti basta guardare all’aumento di altezza delle persone dopo i due secoli di permanenza dei Longobardi nella Penisola italica. Vorrei ricordare che di Italia allora non se ne parlava proprio, neanche durante l’ Impero romano – c’era Roma e il resto, ma

di Italia non si era mai accennato fino al 1800 circa. Per questo fatto, l’assimilazione, il Dna precedente alla venuta dei Longobardi non è più quello che abbiamo noi, salvo che per l’estremo Sud e le isole dell’ attuale Italia.Questo fatto peculiare mi pareva appropriato che venisse illustrato e spiegato perché unico nella nostra civiltà occidentale e forse anche universale, perché si è sempre as-sistito alla eliminazione di ciò che atteneva al perdente e all’ imposi-zione dei vincitori che si distingue-vano sempre dai vinti anche nei matrimoni, cosa che non avvenne in questo caso.Distinti saluti

Sergio Lorenzutti

L’assenza delle nazioni indiane dipende dal fatto

che abbiamo scelto prevalente-mente civiltà palaziali che hanno lasciato evidenze archeologiche monumentali, e oggi scomparse. Quanto ai Longobardi (che ab-biamo escluso per la loro relativa “modernità”) ce ne occuperemo sicuramente, e in modo ampio, su Focus Storia.

Per la scienza La morte di Plinio il Vecchio, sotto i lapilli del Vesuvio, nel 79 d.C.

Focus Storia n° 98, pag. 33: Marco Claudio Marcello non era figlio di Antonia Minore, ma di Ottavia (sorella di Ottaviano Augusto); pag. 10: nella didascalia, i soldati della carica sono inglesi (come scritto nell’articolo) e non austria-ci; pag. 18: Viggiù è in provincia di Varese, non di Como.

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I NOSTRI ERRORI

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Durante un inventario nel Museo di storia naturale di

Londra, il conservatore Max Bar-clay ha scoperto una scatola che riportava il nome dell’esploratore britannico David Livingstone (1813-1873). Nella scatola, venti blatte africane catalogate. Li-vingstone è noto per aver navi-gato il fiume Zambesi e aver sco-perto le cascate Vittoria e il lago Malawi. Dichiarato scomparso, fu ritrovato dal collega e giornalista Henry Morton Stanley (1841-

1904), che lo salutò dicendo: “Il dottor Living stone, suppongo”). Eredità. Nessuno immaginava che dai suoi viaggi Livingstone avesse riportato esemplari di insetti. Si è poi scoperto che le blatte furono donate al museo dall’avvocato ed entomologo Edward Young Western (1837-1924) che aveva probabilmente comprato gli insetti (utili per studiare il clima africano di due secoli fa) da un membro della spedizione. (f. x. b.)

Gli scarafaggi del dottor Livingstone, suppongo

DimenticatiSopra, l’incontro fra Livingstone e Stanley, nel 1871. A sinistra, uno dei venti insetti ritrovati negli archivi del Museo di storia naturale di Londra, con il nome di Livingstone sul cartellino.

La sfinge di HollywoodSepolta nella sabbia, ma di una spiaggia californiana. È stata ritrovata la sfinge di gesso del film I 10 Comandamenti, del regista Cecil B. DeMille, un kolossal del 1956.

2Il “kamikaze” di Kublai KhanI relitti delle navi mongole che nel 1281 tentarono di invadere il Giappone erano noti. Geologi Usa hanno ora trovato le prove che fu davvero un tifone (kamikaze) a respingerle.

1 Ultimissime da AmfipolisContinua a far parlare di sé la tomba ellenistica scoperta ad Amfipolis (Grecia): nella terza sala è stato trovato uno scheletro, il cui sesso non è stato ancora determinato.

3

Trovato un tesoro di 50mila pezzi nella città di Teotihuacán, in Messico.È preazteco e risale a 1.800 anni fa.

Statue di pietra e di le-gno, pietre preziose, palle per i giochi sacri e

semi la cui datazione riman-da a 1.800 anni fa: è questa una parte dello straordinario tesoro scoperto a Teotihuacán (Messico), sotto la piramide del dio Quetzalcoatl, il Ser-pente piumato. In tutto, so-no almeno 50mila le prezio-se offerte votive rinvenute in un tunnel individuato già nel 2003 a 18 metri di profondi-tà, ma che solo oggi comincia a restituire i suoi tesori. E che potrebbe condurre alle tombe reali, cercate da anni.

Lungo scavo. Il tunnel ha pareti e soffitto con tracce di un rivestimento metallico che rifletteva la luce delle torce, ricreando l’atmosfera dell’in-framondo in cui credeva quel popolo, ed è lungo circa 100 metri. Dal 2010 si scava con due robot realizzati apposi-tamente per questo progetto, guidato dall’archeologo Ser-gio Gomez dell’Istituto nazio-nale di Antropologia e Sto-ria messicano. Ma nell’ultimo tratto si dovrà proseguire sca-

vando manualmente, a cau-sa del terreno franoso e insta-bile. I lavori finiranno forse l’anno prossimo.

La “città degli dèi” (questo il significato di Teotihuacán nella lingua locale), fondata circa 2.500 fa, si estende su una superficie di 40 chilome-tri quadrati, dei quali è stato esplorato solo il 5 per cento. Al suo apogeo, tra il 250 e il 500 d.C., con i suoi 150.000 abitanti era tra le città più po-polose del mondo. •

Giuliana Lomazzi

Sotto la piramide

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novità e scoperte

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Il beverone dei gladiatoriUna ricerca condotta su resti umani trovati in un cimitero a Efeso (Turchia) ha rivelato che lì i gladiatori erano vegetariani e bevevano un tonico a base di cenere.

5Bombardate Stalin!Un attacco nucleare preventivo per “cancellare” il Cremlino e annientare Stalin. Era l’idea di Winston Churchill nel 1947, stando a un memorandum dei servizi Usa.

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Offerte votiveSopra, una delle

statue scoperte nel tunnel al di sotto

della piramide del Serpente

piumato, nel sito di Teotihuacán (a sinistra, una

panoramica dell’area archeologica).

Lettere minatorie e attacchi erano all’ordine del giorno per Martin

Luther King, leader del movimento contro le discriminazioni dei neri negli Stati Uniti, che venne assas-sinato nel 1968. Una delle missive più inquietanti è stata rintracciata da una ricercatrice di Storia a Yale, Beverly Gage, e pubblicata dal New York Times: la scrisse l’Fbi per indur-re al suicidio il leader nero. Posta! Il 1963 era l’anno che cul-minò con la marcia a Washington di centinaia di migliaia di persone, per i diritti civili degli afroamerica-ni. E fu lo stesso anno dell’assassi-nio del presidente Kennedy, che sosteneva King. In questo clima, nel 1964 King ricevette il premio Nobel per la pace, mentre l’Fbi, guidata da John Edgar Hoover, fece arrivare questa lettera, di un ipotetico attivista deluso: “Sei stato registrato: tutti i tuoi atti di adulte-rio, le tue orge!”; “Tu sei un imbroglione colossale e un de-monio”. “C’è solo una cosa da fare. Tu sai quale”, conclude la lettera, suggerendo appunto il suicidio al leader. (a. b.)

L’Fbi contro Luther King

Martin Luther King e (sopra) la lettera anonima scritta dall’Fbi.

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Page 8: Focus Storia (Gennaio 2015)

TRAPASSATI ALLA STORIA

L’Heritage Lottery Fund britannico (il fondo fi-nanziato dalla lotte-

ria e destinato ai Beni cultura-li inglesi) ha messo sul piatto 12 milioni di sterline per tra-sformare l’incrociatore Caro-line in un museo galleggiante ancorato a Belfast (Irlanda del Nord). Il restauro segnerà l’ini-zio delle celebrazioni del cen-

A Belfast (Irlanda del Nord) sarà trasformata in un museo l’ultima nave della Battaglia dello Jutland.

Una nave per non dimenticare

tenario della battaglia navale dello Jutland (31 maggio-2 giu-gno 1916).

Longevo. L’Hms Caroline era un incrociatore leggero, vara-to il 29 settembre 1914, appe-na qualche settimana dopo l’i-nizio della Prima guerra mon-diale, ed entrò in servizio il 4 dicembre dello stesso anno. Lo scontro, al largo della Penisola

dello Jutland (Danimarca), vi-de fronteggiarsi Royal Navy e Marina tedesca e fu il più gran-de del primo conflitto. La na-ve che sarà restaurata è l’uni-ca, tra quelle che parteciparo-no alla battaglia, arrivata fino a noi, nonostante abbia parteci-pato anche alla Seconda guer-ra mondiale. •

François-Xavier Bernard

Lo scorso novembre è stata messa in vendita dalla casa

d’aste Osenat, a Fontainebleau, presso Parigi, la collezione del museo napoleonico della fami-glia Grimaldi di Monaco, inau-gurato nel 1970. La raccolta fu costituita da Luigi II e arricchita da Ranieri III. Tra i vari oggetti in vendita, il pezzo forte è stato senz’altro un cappello di Napoleone (sotto), uno dei 19 bicorni autenticati. Il cappello, in feltro detto “castoro nero”, fu indossato dall’imperatore durante il suo esilio all’isola d’Elba. La stima era di “soli” 300-400.000 euro, ma è stato acqui-stato per ben 1.884.000 euro da un collezionista sudcoreano.

Napoleone all’asta

Morto a 99 anni, è il padre di un tipo di vetrocera-mica, il più resistente e versatile. Un materiale che aprì la strada a nuovi impieghi in cucina (recipienti e piastre di cottura), ma anche per sistemi di dife-sa, ogive di missili e parti dello Space shuttle.Guasto fortunato. L’invenzione fu dovuta a un malfunzionamento del forno, che in sua assenza non si era fermato a 600 °C, ma aveva raggiunto i 900. Visto l’ottimo risultato, Stookey ne studiò le condizioni per poterle riprodurre a piacimento.

Negli Usa la chiamavano “la casalinga volante”, visto che era un’impeccabile madre di 3 figli, oltre che la prima donna a volare sola intorno al mondo. Avventure volanti. Studiò ingegneria aeronau-tica e ottenne il brevetto di pilota nel 1958, a 33 anni. Nel 1964 partì per la trasvolata con il proprio Cessna adattato per l’occasione. Rientrò dopo 29 giorni, 37.000 km e vari scali. In Algeria rischiò un incendio in volo, al Cairo atterrò per sbaglio in una zona militare. Aveva 88 anni.

Chi è cresciuto negli Anni ’80 ricorda le sigle che aveva composto per la tv: Ok il prezzo è giusto, Bim bum bam, Grand Prix, Casa Vianello, Il pranzo è ser-vito o il jingle di Canale 5 usato fino al 1994. Figlio d’arte. Il nonno era violinista d’orchestra, il padre compositore. Augusto iniziò a lavorare come arrangiatore per Mina, poi collaborò con altri artisti. Negli Anni ’70 compose la colonna sonora del film Il dio serpente (il brano Djamballà, che eb-be un successo internazionale). È morto a 74 anni.

Personaggi sconosciuti che sono stati, in vita, protagonisti.

STANLEY STOOKEYInventore

JERRIE MOCKAviatrice

AUGUSTO MARTELLI Compositore

A cura di Giuliana Lomazzi

A sinistra, una foto della Battaglia dello Jutland (1916). Sotto, l’Hms Caroline, oggetto del futuro restauro.

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novità e scoperte

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All’origine del “tutto”

Conoscenza e curiosi-tà si possono sposare a contemplazione e a

meraviglia. Non accade spes-so, ma quando capita il risul-tato è interessante. La mo-stra In principio. Dalla nasci-ta dell’universo al principio dell’arte va proprio in que-sta direzione. E nella cornice del complesso monumentale del Broletto, a Novara, offre ai visitatori un percorso alla scoperta del Big Bang e del-le idee sull’origine del “tut-to”. Nel percorso si affian-cano, per esempio, i disegni originali di Galileo Galilei, la prima edizione del suo Si-dereus nuncius e la rappre-sentazione pittorica del mito

RESTAURI MONZA

La regina da vicinoDopo 5 anni di lavori gli affreschi della Cappella di Teodolinda, nel Duomo, si potranno eccezional-mente vedere dai ponteggi.

dal 15/1/2015 a Pasqua. Info e prenotazione: 039 326383; www.museoduomomonza.it

ANNIVERSARI WATERLOO

Napoleone kaput!Un viaggio sui luoghi della disfatta due secoli dopo, con la possibilità di assistere anche alla rievocazione della battaglia.

10-17/6/2015 (prenotazioni entro gennaio). www.rusconiviaggi.com

MOSTRA NOVARA

A cura di Irene Merli

Fino al 6/4/2015. Broletto, Novara. Info e prenotazioni: 199 151115, www.mostrainprincipio.it

RIEVOCAZIONI

Nozze d’alturaLa rievocazione storica del matri-monio contadino, con il tradizio-nale corteo in slitta e carrozze da San Valentino a Castelrotto (Bz), e banchetto finale.

11/1/2015. Ufficio informazioni Castelrotto: 0471 706333

ALPE DI SIUSI

TRADIZIONI

Mercato di NataleSan Gregorio Armeno è la via de-gli artigiani dei presepi, in piazza Gaetano ci sono i presepi viventi, al Gesù Nuovo si trovano quelli realizzati nei gusci delle noci.

Fino all’Epifania. Tutti i giorni dalle 10 alle 21

NAPOLI

Atlante, del Guercino (1645-46).

Arte e scienza

Il sismografo Palmieri

(del 1856), il primo a

corrente elettrica.

di Atlante; il trattato Philoso-phiae naturalis principia ma-thematica di Isaac Newton e il mito di Medusa. E poi rari meteoriti, peli di mammut, i primi manufatti dell’uma-nità, accanto opere di artisti

di ieri (Guercino e Kircher, con il Mundus Subterraneus e la Torre di Babele) e di oggi (Fontana, Burri, Paolini, Bo-etti, Paladino, Kapoor, Ruff).

Scienza-tour. L’esposi-zione si sviluppa attraverso sette ambienti tematici: Big Bang (astronomia e astrofi-sica); Terra e dintorni (geo-logia); Comincia la vita (bio-logia); La sfida di Prometeo (antropologia); Il buio oltre la siepe (neuroscienze); Bla bla bla (linguistica); Perché non parli? (estetica). Sette scienziati italiani hanno col-laborato al progetto e accom-pagnano virtualmente i vi-sitatori alla scoperta di ogni sezione. •

agenda

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Page 10: Focus Storia (Gennaio 2015)

A cura di Aldo Carioli, Marta Erba, Giuliana Rotondi, Daniele Venturoli

“Mentre Garibaldi le mena all’austriaco, Napoleone III porta via all’Italia Nizza e la Savoia”. Così recita la didascalia di questa illustrazione di Melchiorre de Filippis, datata 1860 e pubblicata in un Album di caricature edito a Napoli nel 1860. Il riferimento è al Trattato di Torino del 24 marzo di quell’anno, nel quale fu sancita l’annessione alla Francia dei due territori, in precedenza appartenenti al Regno di Sardegna. A confermare l’annessione fu un plebiscito con maggioranze bulgare a favore del passaggio alla Francia (in entrambe le regioni i sì vinsero con circa il 99%). Infedeltà. Nizza e la Savoia sono rappresentati come “figli illegittimi”, con le facce di Vittorio Ema-

nuele II e di Cavour, portati via da Napoleone III, che aveva appoggiato i piemontesi nelle Guerre d’indipendenza. L’allegoria dell’Italia (la ragazza in tricolore) allude alla “facilità di costumi” del nascente regno uni-tario. E Napoleone III le canta infatti una romanza dall’opera di Giuseppe Verdi, Rigoletto: “Bella figlia dell’amore, schiavo son de’ vezzi tuoi”.La vignetta fu realizzata naturalmente con l’inten-to di denigrare l’operato dei Savoia e di Garibaldi: in quello stesso anno 1860 il Regno delle Due Sicilie, di cui Napoli era la capitale e dove l’album fu pubblicato, fu invaso dai volontari di Garibaldi, che sbarcarono in Sicilia l’11 maggio.

IL MITOLa SFINGE più celebre è l’enorme scultura in pietra (alta 57 metri) a Giza, in Egitto, che forse rappresenta il faraone Chefren (2600 a.C.): suo sarebbe il volto, mentre il corpo di leone ne simboleggiava l’invincibilità (una rappresentazione co-mune nelle raffigurazioni di faraoni).Femmina. Per i Greci la Sfinge era invece una figura mostruosa con testa fem-minile, corpo di leone e ge-neralmente alata (sopra, la Sfinge dei Nassi a Delfi): era il demone della morte che si appostava sul ciglio della strada, poneva un enigma ai passanti e divorava chi non sapeva rispondere. Secondo Diodoro Siculo, a sconfig-gere la Sfinge fu Edipo, che al suo indovinello: “Chi è contemporaneamente bipe-de, tripede e quadrupede?” rispose correttamente: l’uo-mo, che gattona quando è piccolo, mentre cammina con il bastone da anziano.

PAROLE DIMENTICATE

Probabilmente derivato da badare e alloccare (tendere insidie), può indicare un piccolo scontro, una scaramuccia per tenere a bada il nemico o un passatempo.

B A D A L U OC C

LA VIGNETTA

VISTI DA NAPOLI

FOTO

TECA

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RICA

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microstoria

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Page 11: Focus Storia (Gennaio 2015)

T O P T E N

Ferdinando l’Incostante (1345-83)Ferdinando I del Portogallo, dopo aver

trattato per sposare la figlia del re di Casti-glia, si unì in matrimonio a un’altra donna.

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Carlo il Folle (1368-1422)Carlo VI di Francia, che salì al trono a 12

anni come “il Beneamato”, tra i 20 e i 30 anni cominciò a soffrire di psicosi.

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Etelredo l’Esitante (968-1016)Etelredo II d’Inghilterra si rivelò incapace

di respingere l’invasione danese, e venne perciò soprannominato “the Unready”.

Luigi il Fannullone (967-987)Luigi V di Francia era noto anche come

“l’Ignavo” o “l’Indolente”: non realizzò nulla durante il suo breve e contestato regno.

Pietro il Crudele (1334-69)Pietro I re di Castiglia e di León combatté

a lungo contro la nobiltà. Era detto “il Giu-stiziere” dai suoi sostenitori.

Carlo il Malvagio (1332-87)Carlo II di Navarra, pretendente al trono

di Francia, si alleò prima con gli inglesi, poi con i re di Aragona e di Castiglia.

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Carlo il Semplice (879-929)Carlo III re dei Franchi fece troppe con-

cessioni ai Normanni, tanto da dare sua figlia in moglie al loro capo Rollone.

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Luigi l’Attaccabrighe (1289-1316)Luigi X di Francia, durante il suo breve

regno, fece eliminare i consiglieri dell’illu-stre padre, Filippo il Bello.

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Luigi il Grosso (1081-1137)Re di Francia obeso come suo padre,

Filippo I, a quarantasei anni non riusciva neanche a montare a cavallo.

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Ivan il Terribile (1530-84)In realtà la traduzione letterale del so-

prannome di Ivan IV di Russia sarebbe “il Minaccioso”: così lo chiamavano i boiardi.

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GLI EPITETI MENO REGALI

Il valore (in fiorini) di una dote principesca nel Trecento, pari a una tonnellata d’oro a 24 carati.300MILA

IL NUMERO

È stato Donato Codella di Cermenate (Como) il lettore più rapido nell’indovinare l’oggetto misterioso del

numero scorso. Si tratta di un attrezzo da camino, con molla di ferro, usato per aggiungere carbone al fuoco o togliere dalla brace castagne o patate.

L’OGGETTO MISTERIOSOHa l’aspetto di un vaso ed è in vetro soffiato. È alto 14 centimetri e largo 12. Su un lato del contenitore si trova un manico, appiattito e zigrinato. Di che cosa si tratta?

Aspettiamo le vostre risposte, indicando anche la località, a: Focus Storia, via Battistotti Sassi, 11/a - 20133 Milano oppure a [email protected]

D.VI

TTIM

BERG

A

Indicava nel Medioevo l’atto di sottomissione con cui un signore feudale riconosceva la superiorità di

un altro nobile. Il termine deriva dal latino homo (“uomo”, ma anche nel senso di servo) e agere (“condurre”): con l’atto di omaggio, infatti, ci si dichiarava uomo fedele, pronti a farsi condurre dal proprio signore. Nella foto, un omaggio di

papa Francesco a Barack Obama.

CHI L’HA DETTO?“Datevi all’ippica!”Lo disse il gerarca fascista Achille Starace (sopra, una delle iniziative ginniche che promosse). Nel 1931, giunto in ritardo a un convegno di medicina, si giustificò sostenendo che non avrebbe mai rinunciato alla sua cavalcata quotidiana. Poiché i presenti protestarono, si rivolse loro esortandoli a una vita meno intellettuale e più “fascista”: “Fate ginnastica e non medicina. Abbandonate i libri e datevi all’ippica”. Oggi il consiglio ha un significato offensivo.

AFP/

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ALIN

ARI

VOCABOLARIO: OMAGGIO

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Page 12: Focus Storia (Gennaio 2015)

il sistema dei maschiliGià a dicembre le novità 2015

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Page 13: Focus Storia (Gennaio 2015)

Il mito del filosofo un po’ svampito che, mentre pensa alle sorti dell’umanità, inciampa in ostacoli e mette i piedi nel-le pozzanghere – come si dice fosse accadu-

to al greco Pitagora nel VI secolo a.C. – è du-ro a morire. Complici di queste dicerie sono spesso le mogli dei grandi pensatori che si dipingono come il “braccio” di uomini con-siderati le “menti”. Anche il padre dell’idea- lismo tedesco, Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) non è sfuggito al cli-ché. Un aneddoto servirebbe infatti a di-mostrare che quando si dedicava alle sue elucubrazioni filosofiche non vo-leva essere disturbato da nessuno, per nessuna ragione. Ma proprio nessuna.

Al fuoco! Un giorno la sua casa prese fuoco, e un servo corse nel suo studio-lo urlandogli che l’edificio era avvolto da fumo e fiamme. Lui, imperturbabile, lo avrebbe guardato trasognato, dicendo: “Vai a dirlo a mia moglie! Sai bene che de-gli affari di casa io non mi occupo mai!”. E rimanendosene seduto al suo tavolo tornò ai suoi studi e alle proprie medita-zioni. Non sappiamo come andò a finire. Di certo il filosofo quella volta portò a ca-sa la pelle: morì infatti anni dopo, duran-te un’epidemia di colera (come risulta dagli atti) o per un disturbo gastrico (come sostenne la moglie).

La classe, al seduttore più discusso della Storia, non

mancava. E non solo nell’ir-retire le donne, ma anche nel chiedere aiuto. Si raccon-ta che Giacomo Casanova (1725-1798), a Varsavia (Po-lonia) per un ricevimento al-la corte del re Stanislao Augu-sto I, abbia portato la conver-sazione sui classici della lette-ratura. Discorrendo di Orazio, il re domandò all’ospite quale dei versi del poeta preferisse.

A buon intenditor... A quel punto Casanova, che si trova-va a corto di soldi e aveva pa-recchi creditori alle calcagna, declamò i versi che dicevano: “Coloro che dinanzi al re non parlano mai della loro pover-tà otterranno di più di coloro che chiedono”.

Il re capì l’antifona e il gior-no dopo fece avere all’avven-turiero veneziano un rotolo di 200 ducati, con i quali Casa-nova pagò i propri debiti.

Madre della patria (Ma-ter Patriae). Così veni-

va definita Livia, moglie di Augusto, dagli storiografi del tempo. Basterebbe questo per far capire come, alla donna più in vista dell’impero, tutto sarebbe stato concesso fuor-ché lasciarsi andare ad atteg-giamenti lascivi o sbarazzini. Complice un’indole austera e riservata, impersonò così per tutta la vita i valori della nuo-va Roma imperiale.

Propaganda. Gli storici di regime fecero il resto, traman-dando aneddoti che enfatizza-vano il suo rigore. Si dice che, passeggiando lungo il Teve-re, si imbatté in un gruppo di uomini che si apprestavano a fare un bagno, completa-mente nudi. Il senato, sapu-tolo, era pronto a condannarli a morte. Ma lei volle interce-dere per loro: “Gli uomini nu-di, per una donna onesta, non sono altro che delle statue”.

Basta saper chiedere L’imperturbabile Livia

Hegel: la testa in fiamme

A cura di Giuliana Rotondi

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Page 14: Focus Storia (Gennaio 2015)

quattro magazine per raccontare

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Page 15: Focus Storia (Gennaio 2015)

La grazia dei bruchiLa naturalista tedesca Maria

Sybilla Merian. Sopra, uno dei

disegni fatti durante il viaggio

in Suriname.

Maria Merian, l’artista degli insetti

Alcuni scienziati hanno saputo coniugare ricer-ca scientifica e arte in

maniera sorprendente. È il ca-so dell’entomologa e pittrice tedesca Maria Sibylla Merian (1647-1717), autrice di alcune delle più belle illustrazioni na-turalistiche di tutti i tempi.

Figlia dell’incisore Matthäus Merian il Vecchio, iniziò a di-pingere giovanissima sotto la guida del patrigno, Jacob Marrel, esponente della pittu-ra fiamminga di nature morte. Cresciuta in una famiglia di ar-tisti, Merian si appassionò alla storia naturale, facendo del di-segno lo strumento per studia-re la natura.

Bruchi, che passione! Negli anni in cui si stava afferman-do l’uso del microscopio, la sua attenzione era tutta per picco-le creature come gli insetti. Ad affascinarla era il misterioso fe-nomeno della metamorfosi da bruco a farfalla. Le prime os-servazioni sul campo le fece nella sua città natale, Franco-forte, con i bachi da seta, che allevava in scatole e monitora-va nel suo laboratorio. Il frut-to del suo paziente lavoro con-fluì nel 1679 in un’opera mo-numentale, il cosiddetto “Li-bro dei bruchi”: 50 tavole che immortalavano la metamorfosi delle farfalle insieme alle pian-te di cui si cibavano.

La sua passione per gli in-setti non era comune in quegli anni, soprattutto per una don-na. Se le piante erano conside-rate un rispettabile passatempo per signore, gli insetti (“bestie diaboliche” per la superstizione popolare) erano guardati con so-spetto. La teoria della generazione spontanea allora in voga spiegava la loro origine da materia organica in putrefa-zione. Soltanto nel 1668 il na-turalista italiano Francesco Re-di era riuscito a confutare que-sta tesi, che si tramandava dai tempi di Aristotele.

Anticonvenzionale. La vi-ta di Merian fu poco conven-zionale. A 18 anni si sposò con un pittore conosciuto nello stu-dio del patrigno. A 45 divor-ziò, trasferendosi con le due fi-

glie in Olanda, in un castello abita-to da una comu-nità religiosa pro-testante della set-ta dei labadisti. Dopo sei anni si

trasferì ad Amsterdam, vivace centro di scambi, dove transi-tavano piante e animali di ogni angolo del mondo. L’atmosfe-ra della città la spinse a ten-tare un’impresa all’apparenza impossibile: partire per il Su-riname, una colonia olandese dell’America Meridionale, per osservare con i suoi occhi gli insetti e le loro metamorfosi.

Fu così che nel giugno 1699, a 52 anni, con la guida di in-dios e schiavi africani, Merian esplorò le impenetrabili foreste del Paese tropicale: raccolse in-setti e rettili, descrisse e dise-gnò piante, fiori e frutti, molti ancora sconosciuti in Europa, annotò le loro proprietà e il lo-ro uso da parte degli indigeni.

La vita nella giungla mise a dura prova la salute di Merian, che dopo due anni fu costretta a tornare in Olanda. La pittri-ce pubblicò le sue ricerche nel 1705, nel libro Metamorpho-sis insectorum surinamensium. Stimata anche dal grande Lin-neo, che mezzo secolo dopo citò più volte il suo lavoro, Me-rian ispirò generazioni di natu-ralisti, affascinati dagli inset-ti e dalle piante da lei così ma-gistralmente dipinti. •

Elena Canadelli

A 52 anni partì per il Suriname alla ricerca di insetti tropicali

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SCALA

scienza & scienziati

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Page 16: Focus Storia (Gennaio 2015)

Quando la Galleria degli Spec-chi di Versailles fu presentata al pubblico, nel 1682, grida di am-mirazione si levarono tra gli in-

vitati. Cronisti e scrittori di panegirici tro-varono a stento le parole per celebrare

quel tripudio di luci che incantava e sedu-ceva. La gloria dell’arte vetraria – riflesso, è il caso di dire, di quella della monarchia francese – era al suo apogeo. Prima di en-trare nei palazzi reali, però, il vetro aveva conosciuto per secoli una vita umile, nel-

le case della gente comune, come compo-sto grezzo. Si otteneva, fin dall’antichità, scaldando l’argilla, ricca di ossido di sili-cio. Con questa e con il fuoco si poteva ot-tenere una pasta modellabile con la quale i Fenici producevano coppe, monili e de-

alloSPECCHIOVETROIl

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TECNOLOGIA

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Page 17: Focus Storia (Gennaio 2015)

È entrato nelle case, negli studi di architettura e nei laboratori, contribuendo alla rivoluzione scientifica. Trasformando una città

come Venezia in una “Silicon Valley”

Splendore rococò La Galleria degli specchi di Versailles

inaugurata nel 1682: la lavorazione dello specchio affiancò quella del vetro a

partire dal XIV secolo. I migliori maestri vetrai già allora venivano da Venezia.

corazioni. In pochi secoli fu un susseguir-si di innovazioni, fino all’ingresso ufficiale del vetro nei laboratori arabi, nel Medioe-vo. A questo punto però non per produr-re gioielli o vasellame. Ma per diventare il motore della rivoluzione scientifica. Senza

il vetro, la nostra civiltà non sarebbe infat-ti stata la stessa.

Bene domestico. Lo scrittore britannico Samuel Johnson già nel nel 1750 si pose il problema: “Colui che per primo vide sab-bia e ceneri fondersi per una casuale in-

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Page 18: Focus Storia (Gennaio 2015)

FUOCOMantenere attiva una fornace implicava il disboscamento di vaste aree.

PRIMA COTTURAIl ripiano più basso del forno era ri-servato alla prima cottura, cui segui-va la soffiatura.

RICOTTURAIl piano alto del forno era destinato a una seconda cottura, a tempe-rature più basse.

SOFFIATURAUn vetraio lavora con una canna da soffio: la pratica già conosciuta da-gli Egizi, si diffuse soprattutto dal I secolo a.C.

CRONOLOGIA

Un’arte millenaria

III millennio a.C. Prime lavorazioni del vetro in Mesopota-mia e tra i Fenici.

II millennio a.C. Prime testimonianze dell’arte vetraria in Cina e in Egitto.

I secolo a.C. I Roma-ni introducono la sof-fiatura a stampo per produrre oggetti.

V secolo d.C. La lavorazione del vetro è ormai diffusa in tutta Europa.

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BIANCO OPACOOssido di stagno con ossidi di arse-nico e antimonio danno il vetro bianco (simile alla porcellana).

ROSSOSelenio in grandi quantità dà il rosso.

BLUPiccole concentrazioni di cobalto danno il blu.

TURCHESEAggiunte del 2 o 3% di ossido di rame pro-ducono un co-lore turchese.

AZZURRO, VERDE, ROSSO OPACOCon il rame si ottiene un vetro azzurro, verde o rosso opaco.

TRASPARENTEPer ottenere il vetro tra-sparente si aggiunge man-ganese o antimonio, che neutralizza l’effetto dovuto alle impurità del ferro.

AMETISTAIl manganese, se abbondante, dà la tinta violacea.

GIALLO-MARRONEL’aggiunta di titanio dà un vetro giallo-marrone.

In una vetreria del Quattrocento lavoravano in mediauna trentina di operai

tensità di calore in una formula metallina, irta di escrescenze e venata di impurità, avrebbe mai immaginato che quella mas-sa informe richiudeva in sé tante cose utili per la vita e che, col tempo, sarebbe giunta a costituire una parte rilevante della felici-tà del mondo?”. Probabilmente no. Alme-no stando alle prime testimonianze, che ci vengono dalla Fenicia, dalla Mesopotamia e dalla cultura egizia, dove il vetro veniva usato principalmente per produrre tazze, vasellame e suppellettili.

O considerando i reperti romani e cine-si, che raffinarono tecniche di produzione avviate nel I secolo a.C. in Siria e in Iraq. Seppur con qualche innovazione: la prin-cipale fu la soffiatura a stampo (utilizzan-do apposite forme) che dava vita a oggetti di vetro trasparente decorabili con smalti e vernici. I ricchi patrizi ne andavano mat-ti. Esibivano nelle case vasi e piatti dai co-

lori sgargianti. E non disdegnavano pavi-menti e pareti con mosaici di vetro. Anti-cipando un’arte che esplose dopo l’Anno Mille (v. riquadro nelle pagine successive).

Vetri e Vetrini. Fosse stato per i Roma-ni, oggi avremmo coppe in vetro e splen-didi vasi, ma vivremmo ancora convinti che sia il Sole a ruotare intorno alla Terra. Se non è così e se siamo potuti addirittu-ra arrivare sulla Luna è merito anche dei

pensatori arabi. Furono loro nell’Alto Me-dioevo – mentre Carlo Magno faceva rivi-vere la romanità con il Sacro romano im-pero – a recuperare gli studi dei classici, sperimentando anche le potenzialità del vetro. Produssero, per esempio, bolle in vetro trasparente e le riempirono d’acqua, ragionando sugli effetti che queste aveva-no nel campo visivo. Questi studi arriva-rono in Europa soltanto nel XIII secolo.

IX-XIII secolo Scien-ziati arabi conducono i primi esperimenti di ottica usando il vetro.

XII secolo Si dif-fondono le vetrate nell’architettura goti-ca (e le finestre).

XIII secolo A Venezia viene inventato il cristallo; si realizzano le prime lenti.

XVI-XVII sec. Grazie alle lenti e a studi di ottica nascono mi-croscopi e telescopi.

1700 In Inghilterra si costruiscono forni a carbone per la pro-duzione industriale.

La colorazione naturale verde-bluastra, verde chiara e giallo-verdastra degli antichi manufatti era dovuta agli ossidi di ferro e a impurità presenti nella miscela. Ma con altri “ingredienti” si ottengono quasi tutte le colorazioni.

Antiche soffiature Rilievi dipinti egizi del II millennio a.C., che mostrano artigiani del vetro nell’atto della soffiatura. Sotto, due vasi veneziani in vetro di inizio Novecento.

I SEGRETI DEI COLORI

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Page 20: Focus Storia (Gennaio 2015)

Pensiero scientifico. I padri europei del-la svolta “scientifica” si chiamavano Ro-berto Grossatesta (1175-1253) e Ruggero Bacone (1214-1294). Il primo era un ve-scovo e per primo condusse esperimen-ti sulla luce. Il secondo era il filosofo che parlò esplicitamente di metodo empirico (teoria secondo cui la conoscenza deriva dall’esperienza, non da intuizioni o atti di fede, ndr), applicandolo ai suoi studi di ot-tica. Entrambi osservarono che le bolle di vetro riempite di acqua permettevano di ingrandire le immagini, seppure invertite. Le si poteva quindi utilizzare per studia-re la rifrazione della luce a partire da su-perfici curve. Non solo: il vetro, o meglio il cristallo, permise di inventare i primi oc-chiali da vista, per la gioia di amanuensi e studiosi. Per inciso: una volta lucidato, se veniva unito a fogli di stagno e mercu-rio, diventava uno specchio, venduto co-me prodotto di lusso.

Il vetro smetteva così di essere solo un complemento d’arredo, entrando nei labo-ratori sotto forma di ampolle, misurini e alambicchi. Permettendo a maghi e ciarla-tani di promuovere le loro pozioni, ma an-che agli scienziati di condurre esperimenti. Quelli che porteranno nel ’600 a invenzio-ni epocali, dal telescopio al microscopio.

Lo stile vetrario veneziano del ’400 fu molto influenzato da quello arabo e siriano

I MAESTRI DELLE VETRATE Le vetrate colorate delle cattedrali medioevali suscitano ancora oggi meraviglia. Realizzarle, quasi mille anni fa, non era facile.

IL VETROI grandi laboratori (spesso affidati a monaci) producevano il vetro in proprio, colorato con additivi. Ogni tinta richiedeva la fusione di una lastra diversa.

LE LASTRE Estratto a 1.300 °C dal forno, il vetro fuso veniva lavorato su un piano in marmo per farlo raffreddare nella forma voluta. Le lastre si ottenevano “striando” i cilindri di materiale fuso.

IL DISEGNOTutto partiva da un disegno creato dal maestro vetraio stesso e in seguito affidato a pittori. Il progetto era disegnato su una tavola di legno, sulla quale si poggiava poi la lastra da tagliare.

Testa fenicia in vetro massiccio cioè non soffiato.

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Page 21: Focus Storia (Gennaio 2015)

Le parole dei vetrai

IL MONTAGGIOI pezzi venivano

ritagliati dalle lastre con un diamante seguendo

il disegno e poi montati con filo di piombo sul

telaio in ferro. Dettagli come il volto venivano

dipinti a mano e fissati tramite cottura.

IL TELAIO Mentre si realizzavano le lastre di vetro, si fondeva il metallo per il telaio da modellare secondo il disegno. Il filo di piombo che fissava le tessere era spesso da 3 a 20 mm, secondo le dimensioni.

IL TRASPORTOUna volta finite, le vetrate venivano trasportate fino alla cattedrale su carri. Unite, le diverse sezioni formavano composizioni alte decine di metri, che decoravano facciate e absidi.

CRISTALLO Vetro tra-sparente ottenuto con materie prime depurate e decolorato con biossi-do di manganese. Ogni centro aveva la sua tec-nica: quello muranese era diverso da quello di Boemia e da quello inglese.

SOFFIATURA Cono-sciuta già dagli antichi Egizi, si diffuse nella seconda metà del I secolo a.C. nella regione siro-palestinese e fu sfruttata dall’industria romana. Può essere a mano libera o soffiando il vetro in uno stampo.

CANNA DA SOFFIO Tu-bo in ferro con una delle due estremità di forma conica, forato nel senso della lunghezza. Si usa per il prelievo del vetro dal crogiolo, la soffiatura e la formatura dell’og-getto, a mano libera o a stampo.

MURRINA Tecnica di lavorazione veneziana: si ottiene per accosta-mento a freddo di parti diverse in vetro fino a ottenere il disegno voluto. L’insieme viene collocato in un forno dove avviene il rammol-limento e l’adesione.

FRITTA Composto in cui vetrificante e fondente sono mescolati insieme e impastati con acqua per essere poi messi in un forno “a riverbero” a bassa temperatura (700-750 °C), dove ini-ziano le prime reazioni chimiche.

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Page 22: Focus Storia (Gennaio 2015)

Oltre a Venezia, in Italia c’erano altri importanti centri vetrari. Da Altare in Liguria, a San Gimignano in Toscana, fino alla Milano degli Sforza

IntrIghI venezIanI. Baricentro di tutta la produzione vetraria, dal Medioevo in poi, divenne la Serenissima, che garantiva for-niture pregiate a tutte le corti. La laguna diventò una Silicon Valley: il luogo dove si applicavano le tecnologie più avanzate, la-voravano gli artigiani più capaci e circola-vano le idee più innovative. Lo sapevano bene i dogi, che nel 1291 decisero di rele-gare le vetrerie a Murano, con la scusa di evitare il rischio di incendi in città.

«Venezia creò intorno ai propri operai un cuscinetto protettivo, costituito da con-sistenti privilegi – diritto di cittadinanza, esenzione dalle imposte, autorizzazione al

matrimonio con fanciulle di stirpe nobilia-re – e da alcune precise minacce preven-tive», scrive Sabine Melchior-Bonnet nella sua Storia dello specchio. «Murano è al ri-paro da sguardi indiscreti e gli operai non possono emigrare o comunicare con Pae-

si stranieri. Se vengono scoperti durante la fuga, o sospettati di voler fuggire, il “ter-ribile tribunale” li accusa di attentato al-la sicurezza dello Stato e li perseguita in quanto “traditori della patria”».

Chi ci provò ci rimise la pelle. La spy-story più nota è forse quella che coinvol-se due vetrai veneziani che nel 1667 deci-sero di farsi assoldare dall’industria fran-cese. Finirono entrambi al Creatore e l’in-chiesta dimostrò che dietro c’era la mano della Serenissima. Nuovi centri di produ-zione però stavano emergendo, soprattut-to all’estero. Principale rivale di Venezia, oltre a Parigi, era la Boemia degli Asbur-go che produceva cristalli raffinatissimi.

evoluzIone costante. La rivoluzione innescata dal vetro, dallo specchio e dal cristallo non si fermò più. La Galleria de-gli specchi di Versailles, al momento del-la sua inaugurazione, era illuminata dal-la luce di 3mila candele. Due se-coli dopo quel-le candele sareb-bero state sosti-tuite, grazie al vetro, da 3mi-la lampadine. La tecnologia, già allora, correva molto veloce. •

Giuliana Rotondi

Il lavoro nelle vetrerie era estremamente usurante, soprattutto per la manovalan-

za: un medico nel XVII secolo descrisse questi operai seminudi vicino a forni incandescenti, con lo sguardo fisso sulla fiamma, condannati a danni alla vista e a una sete insaziabile, spesso lenita con il vino, e ad affezioni polmonari per i conti-nui sbalzi di temperatura. Effetti collaterali. Malattie ancor più gravi affliggevano chi lavorava i vetri colo-rati per realizzare monili. Occorrevano in tal caso miscele di agenti chimici che pro-ducevano esalazioni nocive responsabili di complicanze polmonari estremamente gravi, che potevano portare alla morte.

I nonni dei Ray-Ban Moderni occhiali da sole appartenuti al doge veneziano Alvise IV Mocenigo (1701-1778).

Guardate qui Due microscopi del XVII secolo: la molatura delle lenti, diffusa dal Trecento, favorì la nascita di questi strumenti e del telescopio.

Mestiere duro. Da morire

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S+APERNE DI PIÙ

La storia dello specchio, Sabine Melchior-Bonnet (Dedalo edizioni).Una storia invisibile, Alan Macfarlane e Gerry Martin (Laterza).

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1270 Ottava crociata, sempre di re Luigi IX.

1265A Firenze nasce il poeta Dante Alighieri.

1266 Battaglia di Benevento (definitiva vittoria guelfa).

1260 Battaglia di Montaperti (vittoria ghibellina).

1250Intorno alla seconda metà del Duecento nel castello di La Fratta (Siena) nasce Ghino.

1249-50 Luigi IX di Francia guida la Settima crociata contro i califfi dell’Egitto.

1085-1123 Nelle città dell’Italia Centro-settentrionale si afferma il sistema di governo comunale.

CRONOLOGIA

La rocca degli agguatiVeduta notturna del Castello di Radicofani,da cui Ghino di Tacco (a destra, la sua statua nel paese) partiva per derubare i viandanti che passavano sulla Via Francigena.

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MEDIOEVO

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1320Secondo alcune fonti, in quest’anno Ghino muore.

1286 Il padre di Ghino, il ghibellino Tacco, è giustiziato.

1301 Cacciata dei guelfi di parte “bianca” da Firenze (tra gli esuli c’è Dante).

1294 Viene eletto papa Bonifacio VIII. Ghino prosegue la sua attività.

1290 Ghino, sfuggito alla morte, va in esilio a Radicofani (Si).

Chi lo ha sentito nominare lo conosce per lo pseudonimo usato negli Anni ’80 da

Bettino Craxi. Ma per gli storici, Ghino di Tacco fu un ghibellino-bandito del Duecento

Il Falco

Val d’Orciadella

“Ghino” CraxiIl libro del

disegnatore satirico Forattini, con le

vignette sul leader socialista raffigurato

come il brigante medioevale.

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Una rocca inespugnabile, Radico-fani. Su una via di pellegrinaggio strategica, la Francigena. E un no-bile ribelle diventato bandito: Ghi-

no di Tacco. Sono gli ingredienti di un avven-turoso romanzo, ma il protagonista di questa storia fu tutt’altro che un mito, benché di cer-to lo divenne. «Tra Valdichiana e Maremma la figura di Ghino di Tacco è ancor oggi l’ogget-to di una specie di culto folklorico», sottoli-nea Franco Cardini, professore emerito all’I-stituto Italiano di Scienze Storiche di Firenze. «Il suo nome assurse di nuovo a fama nazio-nale quando negli anni Ottanta venne preso a prestito come pseudonimo da un politico al-lora molto famoso».

La firma di Bettino. Fu Bettino Craxi, segreta-rio del Partito socialista italiano, a usare il nome del nobile ribelle nel 1985, quando l’allora di-rettore di Repubblica, Eugenio Scalfari, alluden-do ai voti del Psi e al ruolo di ago della bilancia svolto dal partito nella maggioranza parlamen-tare, aveva dichiarato: “Da lì, come da Radicofa-ni, si deve passare per forza”. Essere paragona-to al bandito della rocca lasciò inizialmente un po’ perplesso Craxi. Ma dopo aver scoperto che Ghino era un ribelle ghibellino, perseguitato po-litico avverso al potere papale, Bettino ne assun-se orgogliosamente il nome.

Il nome per la verità non era facile da porta-re: Ghino era un tipo senza scrupoli. Anche se, quando lui era ancora in vita e poco dopo la morte, illustri testimonianze letterarie (Dante e

Boccaccio in primis) lo elevarono al ruolo di brigante gentiluomo, una sorta di Robin Hood italiano. Ma nessun documento storico lo conferma.

Una vita aLLa macchia. «Ghino di Tacco apparteneva alla famiglia dei Cacciaconti, signori di una contea del-la Valdichiana senese. Era un rappre-sentante dell’aristocrazia senese del Duecento, molto violento: Dante lo ri-corda come assassino di un giudice, che però gli aveva fatto un torto. Esiliato da Siena, tolse al dominio papale la rocca di Ra-dicofani e per alcuni anni la tenne in suo pote-re, controllando da lì i pellegrini, i mercanti e i viandanti lungo la Francigena, da e per Roma», osserva Cardini.

La famiglia di Ghino era da anni in difficol-tà. Già all’inizio del secolo aveva perso il pro-prio feudo a causa dell’espansione del comune di Siena, riuscendo però a conservare qualche diritto e una certa indipendenza. Almeno fin-ché nel comune non prevalse la fazione guelfa (favorevole al papato), avversaria dei ghibellini (filoimperiali), tra i quali i Cacciaconti. A loro volta, questi mal tolleravano l’imposta terriera dovuta alla Chiesa. Come altri nobili della zo-na iniziarono a compiere razzie e azioni di di-sturbo contro il comune, che certo non stava a guardare. In questo contesto diventare fuorileg-ge non era difficile.

Così toccò anche al padre di Ghino, Tacco, e allo zio (Ghino di Ugolino). Nelle loro scor-

Fu violento fin da ragazzino. Figlio d’arte, con il padre Tacco, lo zio e il fratello aveva

formato la “banda dei quattro”. Le loro specialità? Le imboscate a mercanti e viandanti

Il volto del bandito?Particolare dell’architrave del Castello di Radicofani, in cui si dice sia scolpito il viso di Ghino. Sotto, la rocca su cui sorge il maniero, a 900 metri di altitudine. Da qui si dominava tutta la valle sottostante.

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TESTATINA

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ribande si portavano dietro il brigante in erba (nato nella seconda metà del XIII secolo) e il suo fratello minore, Turino. Era nata la famige-rata “banda dei quattro”. Da buon figlio d’arte, già nel 1288 il giovane Ghino era ricercato dal comune di Siena perché “fecit insultum in stra-tam publicam”, ovvero per un’imboscata. Ben presto si guadagnò il titolo di “rebelle et inimico manifesto communis et populi senensis”.

Scampato. Nel 1279 la banda aveva occupato e dato alle fiamme un castello a Sinalunga, feren-do gravemente un notabile guelfo senese, Jaco-pino da Guardavalle. Era troppo anche per quei pochi che ancora stavano con i Cacciaconti.

Braccati dai senesi, dopo 6 anni i quattro fu-rono catturati. Ghino e il fratello furono rispar-miati per la giovane età, ma padre e zio furono giustiziati in piazza del Campo per ordine del giudice aretino Benincasa da Laterina. Scampa-to alla mannaia, Ghino non cambiò. Quella del taglieggiatore era ormai la sua vita, e lui la pro-seguì. I suoi grandi nemici erano gli esponen-ti della nascente borghesia: un modo come un altro, il suo, per recuperare le rendite perdute.

Nel 1290 fu lì lì per far costruire una fortezza nei pressi di Sinalunga. Poi pensò bene di impa-dronirsi di Radicofani, sempre nel Senese, ma al confine con lo Stato pontificio. Difficile sceglie-re una posizione più strategica: l’inespugnabile roccaforte dominava (e domina ancora oggi) la vallata sottostante. E, ciliegina sulla torta, la Via Francigena, battuta da prelati, pellegrini e mer-canti diretti o provenienti da Roma.

Terra di SienaIn alto, la Porta di Castel

Morro, una delle contrade di Radicofani. Qui sopra,

particolare di un affresco di Ambrogio Lorenzetti (1285-

1348), in cui è ritratto il paesaggio senese.

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Più che sociali, le aspirazioni di Ghi-

no erano politiche. Per capirle, bisogna considerare che nella Toscana del XIII secolo infuriava la lotta tra la guelfa (filopapale) Firenze e la ghibellina (filoim-

periale) Siena. La lotta culminò nella sanguinosa battaglia di Montaperti (1260), in cui Siena ebbe la meglio (“lo strazio e ‘l grande scempio / che fece l’Arbia (un fiume, ndr) colorata in rosso”, scrisse Dante

nel X canto dell’Infer-no). La divisione tra sostenitori del papa e dell’imperatore na-scondeva a sua volta interessi politici che avevano come posta in gioco il predominio di una delle due città sull’intera regione.

Un’Italia divisa (almeno) in due

Ormai Ghino era pronto per trasformarsi nel “Falco della Val d’Orcia”, come lo chiameranno i posteri. Ed era abbastanza forte per vendicare l’uccisione dei familiari. Al comando di 400 uo-mini partì per il tribunale pontificio, dove eser-citava il giudice Benincasa. Ben presto la testa del magistrato, infilzata sulla picca di Ghino, fe-ce bella mostra di sé sulle mura di Radicofani.

Un Uomo del passato. Fin qui i fatti noti. Come sia finita la vicenda, di preciso non si sa. Boc-caccio, che narra di lui nel Decamerone, affer-ma che Ghino ricevette il perdono papale e non dovette più darsi alla macchia. Secondo Ben-venuto da Imola, tra i primi commentatori del-la Divina Commedia, trovò la morte nel secon-do ventennio del 1300 nei pressi di Sinalunga, mentre per alcuni storici finì la propria esisten-za a Roma, forse nel 1340. Di sicuro la sua fa-ma gli sopravvisse.

La vita alla macchia, fuori dal contesto socia-le, lontano dalla famiglia e dagli agi (ma con pa-recchi appoggi da parte di altri nobili e conta-dini), contribuì a creare la sua fama già in vita. Dante lo mette nel Purgatorio, tra guastatori e predoni, ricordando di lui solo “le fiere braccia”. Aspetto fisico e fierezza furono sottolineati an-che da Benvenuto da Imola: “Non fu infame co-me alcuni scrivono [...] ma fu uomo mirabile, grande, vigoroso [...]”.

Ma a renderlo davvero famoso, rivestendo-lo dell’aura di bandito gentiluomo fu probabil-mente il Decamerone, scritto a metà del XIV se-colo. «Boccaccio lo ricorda nella seconda novel-la della decima giornata con una certa simpatia. Avrebbe infatti tenuto prigioniero per un certo tempo l’abate di Cluny, che si recava ai bagni

del contado senese per curare “l’adiposità”, cioè il peso eccessivo: tenendolo a una rigorosa dieta di pane arrostito e vino bianco (poco dell’uno e poco dell’altro), Ghino seppe guarirlo», dice Cardini.

Cominciò anche a circolare la leggen-da del “bandito-gentiluomo”: Ghino chiedeva alle sue vittime quanto dena-ro avessero, ne prelevava una buona par-te e, dopo aver offerto loro un banchetto, li lasciava andare. Tutto vero? Cardini ha qualche dubbio: «non può essere considerato né un bandito di strada, né l’esponente di quello che Eric Hobsbawm definisce “banditismo socia-le”, una categoria che ha come rappresentante ti-pico Robin Hood, personaggio più folklorico che storico, la cui fama si deve ai romanzi ottocente-schi di Walter Scott. Ghino fu un rappresentante dell’aristocrazia cittadina del secolo XIII, che co-me molti suoi colleghi non seppe adeguarsi alla nuova realtà, che vide nell’Italia duecentesca l’a-scesa dei ceti popolani». Un uomo del passato, dunque. In fondo un romantico, che non accet-tava di veder morire il proprio mondo e sperava di restaurare l’ordine al quale era legato. •

Giuliana Lomazzi

La fine di Ghino è avvolta dal mistero. Di certo si sa soltanto che morì vicino a Sinalunga, dopo il 1320

Boccaccio lo rese famosoCenotafio di Giovanni Boccaccio (1313-1375), ovvero il busto scolpito dopo la sua morte. Lo scrittore descrisse Ghino come bandito cortese. Sotto, una miniatura che illustra la battaglia di Montaperti, del 1260.

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LA MOGLIEProstituta redenta, adultera, papessa, sposa di Gesù: di Maria di Magdala

è stato detto di tutto. L’ultimo “scoop” viene dall’Inghilterra, dove due ricercatori hanno fornito una loro interpretazione di un antico manoscritto. Ricavandone

dettagli, assai controversi, sulla presunta famiglia di Cristo.

A cura di Aldo Bacci

Nelle scorse settimane Barrie Wilson, studioso di religioni dell’Univer-

sità di Toronto (Canada), e lo scrittore Simcha Jacobovici hanno presentato il libro The Lost Gospel (Il Vangelo perdu-to), in cui danno una nuova interpre-tazione di un antico manoscritto della

British Library di Londra. Il testo con-fermerebbe che Gesù e la Maddalena si sposarono ed ebbero due figli. Rilettura. Quello che gli autori del libro chiamano “Vangelo perduto” è la Storia ecclesiastica di Zaccaria il Retore, codice siriaco del 570 d.C. noto da decenni. I

29 capitoli raccontano la storia del gio-vane Joseph che sposa Aseneth da cui genera Manasseh ed Ephraim. Per Wil-son e Jacobovici si tratta di un racconto in codice: Joseph e Aseneth sarebbero Gesù e Maria di Magdala, la cui vicenda coniugale era allora considerata tabù.

GESÙ

Prostituta e adulteraI primi cristiani, cercando di scovare

qualche dettaglio in più sulla Mad-dalena, incapparono in una catena di equivoci. La Maddalena, originaria di Migdal Nunaya (un villaggio di pe-scatori in Galilea), si chiamava Maria. Un’altra Maria, di Betania, secondo i Vangeli lavò i piedi a Gesù e lo unse con l’unguento. Lo stesso gesto, in un altro episodio evangelico, viene attribuito a una peccatrice pentita, forse una prostituta, che ben presto fu identificata con la Maddalena. Che infine fu confusa anche con l’adulte-ra che Cristo salvò dalla lapidazione. Così, l’ex indemoniata si trasformò in prostituta, e come tale fu raffigurata per secoli nella storia dell’arte.Identificazioni. La sovrapposizione fu tramandata da papa Gregorio Ma-gno (VI secolo) e dal fortunatissimo Legenda Aurea di Jacopo da Varazze (XIII secolo). Solo nel 1969 la Chiesa cattolica rimise in discussione l’u-guaglianza Maddalena-prostituta.

IPOTESI 1

I Vangeli gnostici e il “bacio”Alla base dell’idea che Maria Mad-

dalena fosse la sposa di Gesù c’è un fraintendimento dei Vangeli gno-stici, testi del I-IV secolo ritrovati nel 1945 a Nag Hammadi, in Egitto. Essi risentono di una corrente filosofico-religiosa che nei primi secoli attra-versò il cristianesimo. In scritti come il Vangelo di Filippo, il Vangelo di Tommaso, il Vangelo di Maria (attri-buito alla Maddalena) e Pistis Sophia, la Maddalena è la “compagna” di Gesù. E nel Vangelo di Filippo Gesù la bacia. Mistica. Lo gnosticismo, però, nega-va ogni carnalità, e questi testi, come ha chiarito lo storico del cristianesi-mo Mauro Pesce dell’Università di Bologna, fanno riferimento a figure simboliche: l’unione tra Gesù e la Maddalena non è un matrimonio, ma una relazione mistica tra manife-stazioni del divino: Maria rappresen-ta la sapienza e la conoscenza. E il bacio è un gesto mistico-liturgico.

IPOTESI 2

Il papiro della discordiaGrande scalpore ha destato nel

2012 la presentazione di un piccolo frammento di papiro che cita esplicitamente una “moglie di Gesù”. In quelle otto righe di testo si legge ‘’Gesù disse loro: ‘Mia moglie...’ e ‘Lei sarà in grado di essere mia discepola’ ”. Nel frammento compare il nome di Maria, facendo pensare a una prova di quanto ipotizzato da alcuni inter-preti dei vangeli gnostici.Dubbi. L’autrice della scoperta, Ka-ren King dell’Università di Harvard (Usa), ha sottolineato però che il testo non prova che Gesù fosse spo-sato, ma solo che già nell’antichità se ne discuteva. Benché le analisi abbiano datato all’VIII secolo (quan-do l’Egitto era già islamico) papiro e inchiostro utilizzati, gli studiosi sono convinti che il documento sia un falso storico (realizzato, come si fa in questi casi, con materiale antico). Un altro frammento che pare scritto dal-la stessa mano lo è sicuramente.

IPOTESI 3

LA NOTIZIA

IL “VANGELO PERDUTO”

(o no)di

MISTERI

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Malfamata Statua lignea di inizio Cinquecento con una Maria Maddalena discinta. La tradizione artistica ha sempre rappresentato questa figura come una prostituta redenta, confondendola con altri personaggi evangelici.

Il Santo Graal? È lei, sotto mentite spoglie Una tradizione medioevale racconta dell’arrivo in Provenza di Maria Mad-dalena. A partire da lì alcuni scrittori hanno costruito una teoria piuttosto fantasiosa, in base alla quale la Mad-dalena sarebbe da identificare come il Santo Graal, un termine che loro traducono “Sangue reale”. Questo perché la presunta sposa di Gesù avrebbe portato in grembo i suoi figli (il suo “sangue reale”). E da quei figli sarebbe nata la stirpe regale francese dei Merovingi. Questa ipo-tesi (assolutamente fantasiosa) deri-va dai famigerati “Dossier Segreti del priorato di Sion” depositati da Pierre Plantard presso la Bibliothèque Na-tionale di Parigi negli Anni ’60 e rive-latisi dei falsi. La vicenda è poi stata sviluppata nel libro del 1982 Il Santo Graal, degli scrittori Michael Baigent, Richard Leigh e Henry Lincoln, sulla base del quale Dan Brown ha costru-ito il suo Codice da Vinci nel 2003.

IPOTESI 5

La verità “canonica”: poco più che un nomeLe più antiche fonti che parlano di

Maria Maddalena sono i quattro Vangeli considerati “canonici”, del I-II secolo. Ma svelano meno di quanto si creda. Secondo Luca, Maria era una delle donne che “assistevano Gesù con i loro beni”, e si era unita a loro dopo essere stata liberata da sette demoni. Di certo era una figura importante: fu presente alla crocifis-sione di Gesù, alla sua sepoltura e fu la prima cui egli si manifestò dopo la resurrezione. Ma di più non si dice. Proprio questa vaghezza delle uni-che fonti riconosciute dalla Chiesa ha lasciato spazio a fantasiose inter-pretazioni, che riprendono i vangeli apocrifi (antichi, ma non canonici).

IPOTESI 4

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Thomas SankaraIl primo presidente del Burkina Faso, verso la fine

della Guerra fredda, denunciò il neocolonialismo per tentare il riscatto del suo Paese. Ma poi fu ucciso

Africa inquieta Il Burkina Faso (ex Alto Volta) e i suoi vicini “scomodi”: Blaise Compaoré, appoggiato dal liberiano Taylor e dagli Usa, guidò il colpo di Stato del 1987 contro Sankara (a destra).

Era una serata calda e umida a Ouaga-dougou, in Burkina Faso. Nell’ufficio presidenziale entrarono alcuni uomi-ni armati. Il presidente disse all’uomo

che gli puntava la pistola: “Blaise, ma tu sei il mio migliore amico, ti chia-mavo fratello”. Una versione africana del più famoso “Anche tu Bruto, figlio mio?”. Un gesto di stizza, e partono due colpi, con la freddezza di un’ese-cuzione. Era il 15 ottobre 1987. Così, quella sera, si compiva il complotto internazio-nale che tolse di mezzo Thomas Sankara, gio-vane presidente africano che, nell’ultimo scor-cio di Guerra fredda, sfidò Francia e Stati Uni-

ti su un tema caldissimo: il debito pubblico dei Paesi poveri.

Complotto internazionale. L’“amico” Blai-se, che di cognome faceva Compaoré, divenne

il nuovo presidente del Burkina. Era quello stesso Compaoré che lo scor-so novembre, dopo 27 anni, ha dovu-to lasciare il potere dopo una solleva-zione popolare, rifugiandosi in Costa d’Avorio. Nel 2008 il documentarista italiano Silvestro Montanaro ha rac-

colto con una videocamera nascosta testimoni-nanze sulla responsabilità di Compaoré e anche della Cia da alcuni degli uomini che liquidaro-no Sankara: l’attuale senatore liberiano Prince Johnson, il capo dell’ex partito unico liberiano Ciryl Allen e l’ex generale, anch’egli della Li-beria, Momo Jiba. Il video, che si può vedere su YouTube (con il titolo E quel giorno uccisero la felicità) ha portato a una commissione d’in-chiesta parlamentare in Francia e a un’indagi-ne Onu. Johnson ha confermato a una commis-sione liberiana di avere avuto un ruolo nel com-plotto. Ma chi era Thomas Sankara? E perché si scomodarono in tanti per toglierlo di mezzo?

il paese degli onesti. Avviato alla carriera militare, era diventato la guida di quello che al-lora si chiamava Alto Volta nel 1983, a 35 anni. Ex colonia francese, indipendente dal 1960, era un Paese di 8 milioni di abitanti, fra i più pove-ri del mondo, dove la vita media era di 40 anni e due bambini su 10 morivano prima dei cin-que anni. Fu Sankara a ribattezzare la nazione Burkina Faso (il “Paese degli onesti”, nella lin-gua locale). Il nuovo presidente assicurò due pasti al giorno e 5 litri d’acqua a tutti; mandò medici e ostetriche nelle campagne; distribuì 3

Il Che africano

B U R K I N A F A S O

A F R I C A

L I B E R I A

S I E R R A L E O N E C O S T A

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NOVECENTO

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Thomas Sankara

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Page 34: Focus Storia (Gennaio 2015)

milioni di vaccini contro poliomielite e menin-gite; garantì ospedali e scuole pubbliche. An-ticipando quello che oggi sostengono molti so-ciologi ed economisti, riteneva che lo sviluppo di una nazione non andasse valutato con il Pil. Meglio misurarlo in “gradi di felicità”. Semisco-nosciuto nel “primo mondo”, Sankara in Africa è considerato un martire, il Che Guevara nero.

Era un soldato, ma sul ruolo dei militari ave-va idee precise: “Quanti figli di lavoratori vedo-no i loro padri scioperare e solo per indossare la divisa accettano di combattere in favore di go-verni ingiusti? Senza una formazione e una pre-parazione politica, un soldato è un potenziale criminale”. Scelse uno stile sobrio molto prima del presidente dell’Uruguay Pepe Mujica e del-lo stesso papa Francesco.

Preferì continuare a vivere nella casa di due locali di cui pagava il mutuo, spostarsi in bici-cletta e ricevere uno stipendio di 120 dollari al mese, invece di attingere a piene mani alle cas-se dello Stato, come facevano molti altri leader africani. Con la sua “spending review” ordinò di vendere tutte le Mercedes di ministri e funzio-nari e le sostituì con più economiche Renault 5. Se dovevano prendere l’aereo, erano obbligati a

volare in classe turistica. Colpì la corruzione a tutti i livelli: gli incaricati della gestione pubbli-ca dovevano giustificare le loro entrate. Fu an-che tra i primi a sollevare la questione femmi-nile in Africa, portando alcune donne alla cari-ca di ministro e nelle forze armate.

All’Onu. La sintesi del suo pensiero diven-ne pubblica il 4 ottobre 1984, in un discorso all’Assemblea dell’Onu che era un atto d’accu-sa all’Occidente: “Oggi vi porto i saluti fraterni di un Paese di 274 mila km quadrati i cui abi-tanti si rifiutano di morire d’ignoranza, fame e sete, non riuscendo più a vivere una vita degna di essere vissuta [...]. Parlo in nome delle madri africane che nei nostri Paesi impoveriti vedono i propri figli morire di malaria o di diarrea, sen-za sapere dei semplici mezzi che la scienza del-le multinazionali non offre loro, preferendo in-vestire nei laboratori cosmetici o nella chirurgia plastica a beneficio del capriccio di pochi uomi-ni e donne il cui fascino è minacciato dagli ec-cessi di calorie nei loro pasti, così abbondanti e regolari da dare le vertigini a noi del Sahel”.

Sankara denunciava, in questo e in altri di-scorsi, il fatto che dopo la fine del colonialismo il Nord del mondo stava cercando di riprender-

Nella recente rivolta è stato

rovesciato Blaise Compaoré,

presidente del Burkina Faso da

27 anni. Secondo le testimonianze, fu lui a uccidere

Sankara

Celebrato Manifestazioni per il ventesimo anniversario della morte di Sankara, nell’ottobre del 2007.

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Page 35: Focus Storia (Gennaio 2015)

si il continente africano sfruttandone persone e risorse naturali. Questo nuovo colonialismo passava, secondo Sankara, attraverso gli aiu-ti allo sviluppo: cattivi consiglieri suggerivano ai Paesi africani da poco indipendenti investi-menti costosi, che alimentavano il debito pub-blico. “Il debito è la riconquista abilmente orga-nizzata dell’Africa, [...] per fare di ciascuno di noi uno schiavo finanziario”. Sankara ne aveva anche per il libero mercato. Gli africani esporta-vano prodotti agricoli a prezzi bassi, ma ciò che era lavorato in Occidente veniva poi reimporta-to a caro prezzo, pesando sulla bilancia dei pa-gamenti. “Quando si mangia miglio, mais o riso d’importazione, significa che il neocolonialismo

è andato oltre”, avvertiva. Gli aiuti alimenta-ri? “Disincentivano le nostre capacità, ci rendo-no dei poveracci”. Si doveva produrre e trasfor-mare in Africa, iniziando dal controllo dell’ac-qua e dalla creazione di un settore alimentare in grado di trattenere i prodotti agricoli. A che velocità? “Alla nostra”, rispondeva Sankara. “Noi preferiamo piccole unità a metà strada tra l’industria e l’artigianato”. In tre anni, il Burki-na Faso si rese autosufficiente dal punto di vi-sta alimentare.

In antIcIpo. «Sankara fu profetico, denuncian-do con trent’anni di anticipo la trappola del de-bito e lo strapotere della finanza internaziona-le, di cui anche in Europa oggi si conoscono gli

Inquadrati Ragazzi del Burkina Faso nel 1985: Sankara affiancò all’addestramento militare la formazione politica.

Prima l’acqua Un pozzo nel Burkina Faso degli Anni ’80. Sankara fu tra i primi a

comprendere la necessità per gli africani di essere autosufficienti.

Presidente del Benin dal 1972 al 1991 e dal 1996 al 2006. Nel novembre del 1974 adottò un

“comunismo flessibile”, stringendo contatti con Cuba e l’Urss. Banche

e industrie petrolifere furono nazionalizzate e istituì una sorta di

culto della personalità.

MATHIEU KÉRÉKOU (1933-VIVENTE)

Presidente della Tanzania dall’in-dipendenza (1961) al 1985, fondò

i “villaggi Ujamaa”, comunità agricole di grande condivisione.

Un concetto che, secondo Nyerere, era insito nella tradizione africana,

naturalmente vicina al modello socialista.

JULIUS NYERERE (1922-1999)

Salito potere in Zambia nel 1964 dopo una campagna di disobbe-dienza civile per l’indipendenza e

libere elezioni, promosse un “uma-nesimo zambiano”. Al governo fino al ’91 appoggiò la guerriglia contro

il regime razzista della Rhodesia.

KENNETH KAUNDA (1924-VIVENTE)

Ecco i leader africani socialisti che sono riusciti

a governare più a lungo.

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Page 36: Focus Storia (Gennaio 2015)

I Paesi “non allineati”, come il Burkina Faso, provarono a superare (senza riuscirci) la contrapposizione tra Usa e Urss

effetti», commenta Montanaro. “Che ci fai con la scritta Levis sulla maglietta?”, rimprovera-va Sankara. “Questa è pubblicità, ma ti paga-no almeno? Perché se non ti pagano è ridicolo. In Burkina, con tutto il cotone che produciamo, possiamo fare di più”. E lui lo fece, sviluppan-do la manifattura tessile.

IronIa contro la Guerra fredda. In un loro incontro, l’allora presidente francese François Mitterrand rimproverò a Sankara di non tene-re conto della Guerra fredda. E una giornalista fece notare che era stato a Cuba e a Mosca. Lui rispose che visitava molti Paesi, sia dell’Occi-dente che dell’Est, alla ricerca di soluzioni per il suo Paese. “Se qualcuno a me vicino vuole dar-ci una mano, incomincio volentieri da lui”. E ri-volgendosi a Mitterrand: “A proposito, ci servi-rebbe un bel Concorde!”. Ma quando Mitterrand ricevette Peter Botha, il presidente sudafricano dell’apartheid, Sankara fu durissimo: “Un uo-mo con i piedi sporchi di sangue ha calpestato il suolo della democratica Francia [...] la coscien-

za di chi ha permesso questo dovrà risponderne per sempre”. La faccia di Mitterrand, dopo quel discorso, era quella di chi aveva ricevuto una dichiarazione di guerra.

un vIcIno Invadente. Intanto, da un supercar-cere degli Stati Uniti, era evaso un cittadino li-beriano di nome Charles Taylor. Il suo avvoca-to era un americano, Ramsey Clark, già avvo-cato generale di Stato con il presidente statuni-tense Jimmy Carter. Non si evade facilmente da un carcere del genere. Non solo Taylor ci riu-scì, ma riapparve anche carico di armi in Libe-ria, pronto a rovesciare il presidente Doe. Tay-lor chiese a Sankara di ospitare alcune sue basi in Burkina. La risposta fu negativa.

«Due file resi pubblici da Wikileaks confer-mano che Charles Taylor lavorava per la Cia», dice oggi Montanaro. «La Liberia è un paradi-so fiscale, ma le sue società fanno capo a socie-tà di Reston, in Virginia, lo stesso Stato federa-le dove ha sede la Cia». Inoltre, Burkina Faso e Liberia si trovano sul Golfo di Guinea. «È un’a-

Sotto accusa Blaise Compaoré appena dopo l’insediamento come nuovo presidente del Burkina Faso, a pochi giorni dall’assassinio di Thomas Sankara. Resterà al potere per 27 anni.

I l Burkina Faso non fu l’unica ex colonia la

cui storia fu scritta dagli ex padroni. Esemplare è la vicenda di Patrice Lumumba (1925-1961). Lumumba fu il fautore dell’indipendenza della Repubblica democratica del Congo. Il Belgio, nel 1960, concesse un’indi-pendenza limitata: buo-na parte dell’ammini-strazione e dell’esercito dovevano restare belgi. Lumumba, che aveva vinto democratica-mente le elezioni, sfidò Belgio e compagnie mi-nerarie africanizzando l’esercito. Liquidatori. Il Belgio rispose inviando truppe nel Katanga, la regione mineraria e fomentò la secessione. Il generale Mobutu Sese Seko arre-stò Lumumba e lo fece trasferire nel Katanga, dove fu ucciso e sciolto nell’acido. Altri fedeli a Lumumba furono giustiziati da mercenari. Mobutu prese il potere e impose la “cleptocra-zia” fino al 1996: fondi pubblici e aiuti interna-zionali finivano su conti privati all’estero. Mal d’Africa. Il caso Lumumba dimostra che per gli africani non è mai stato facile “svilup-parsi a casa loro”. Oggi si sa che la Cia finanziò gli avversari di Lumum-ba e fornì armi a Mobu-tu. Il governo belga ha riconosciuto in parte, nel 2002, le proprie responsabilità: “Alcuni membri del governo di allora e alcuni personag-gi belgi dell’epoca porta-no una indiscutibile re-sponsabilità negli eventi che hanno condotto alla morte di Patrice Lumum-ba. Il Governo considera perciò appropriato porgere alla famiglia di Patrice Lumumba e al po-polo congolese il proprio profondo e sincero rin-crescimento e le proprie scuse per il dolore che è stato loro inflitto”.

Le scuse tardive del Belgio

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rea strategica, con grandi riserve di petrolio off shore e di uranio». E il figlio di Mitterrand era in affari con Taylor. Il gioco si faceva duro.

La goccia che fece traboccare il vaso fu il di-scorso di Sankara, il 29 luglio 1987, a una confe-renza dell’Oua (l’Organizzazione dell’unità afri-cana). “Non possiamo rimborsare il debito, non è una questione morale o di parola [...]. Se non paghiamo, i nostri finanziatori non moriranno. Questo è sicuro. Se invece paghiamo, le nostre popolazioni sì. Hanno voluto giocare, come al ca-sinò: hanno molte volte vinto, ma al gioco si può perdere. Che perdano allora, la vita continuerà [...]. Così possiamo destinare risorse allo svilup-po. Se il Burkina Faso da solo si rifiuta di pagare il debito, io non ci sarò alla prossima conferen-za”. Due mesi e mezzo dopo lo uccisero.

Il piano fu pensato prima in Mauritania poi in Libia. Stando alle dichiarazioni di Momo Jiba, raccolte da Montanaro, i francesi avrebbero fi-nanziato il colpo di Stato: subito riconobbero il nuovo governo di Compaoré. «C’era un uomo

della Cia all’ambasciata americana, che lavora-va con un agente dei servizi segreti francesi. Lo-ro presero le decisioni», racconta Jiba. «Ho visto tutto, ero nella stanza quando Sankara fu colpi-to. Compaoré aveva fatto finta di andare a casa, ma con il buio si unì a noi». Allen, pure lui nella stanza, conferma: «Sparò Compaoré».

NormalizzazioNe. La restaurazione fu rapida. Si disse che Sankara era morto di morte natu-rale. Pochissimi ci credettero. La madre e i fra-telli pagarono il mutuo della sua casa, ma il de-bito più grande, quello del Burkina Faso, conti-nuò a essere onorato. Come? Chiudendo scuole e ospedali pubblici e privatizzando persino l’ac-qua. Charles Taylor ebbe le sue basi in Burkina: da lì si prese la Liberia e poi scatenò una guer-ra in Sierra Leone per il controllo delle miniere di diamanti. Arruolò anche bambini-soldati che, fra le varie atrocità, tagliarono migliaia di brac-cia ai civili. I sogni di felicità erano volati via da quell’angolo d’Africa, con l’anima di Sankara. •

Franco Capone

Gioco pericoloso

Il presidente francese François Mitterrand

in visita ufficiale a Ouagadougou,

capitale del Burkina Faso, ricevuto

da Sankara, il 17 novembre 1986. Il

leader africano tenne aperte le relazioni sia

con i Paesi occidentali, sia con Cuba e Urss.

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OGNI MESE UNA NUOVA IMMAGINE DEL MONDO

Il mensile per chi ama partire alla scoperta della natura, della geografia, del costume, dell’ambiente e della storia dei popoli.

Un viaggio spettacolare per gli occhi e per la mente!

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Inarrestabile ROMA

Simbolo di potereL’aquila (simbolo delle legioni) e, sullo sfondo, la ricostruzione di un castrum romano.

La forza delle legioni, la durezza delle leggi, i delitti di governanti senza scrupoli. La grandezza dell’Impero romano passò anche dai suoi eccessi.

POTERE SFRENATO

pag. 40

I CATTIVISSIMIpag. 46

LA REPRESSIONE IN GIUDEA

pag. 48

SPIETATA AGRIPPINA

pag. 54

UNA “LEX” DURISSIMA

pag. 60

EZIO, ULTIMO ROMANO

pag. 66

ARCA

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SANGUEPOTEREE

Fin dalla fondazione, Roma ha conosciuto il significato della parola violenza. Non solo militare: congiure e complotti

sanguinari hanno segnato la sua politica

Altro che GrandeUna moderna statua di Costantino I il Grande a York, in Inghilterra, dove fu proclamato imperatore dalle legioni, nel 306. Sei anni dopo sconfisse il suo rivale Massenzio nella Battaglia di Ponte Milvio.

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Per arginare i complotti l’imperatore Augusto creò apparati di “intelligence” affidati ai pretoriani. Ma dopo di lui le congiure furono all’ordine del giorno

Se la storia degli imperatori di Ro-ma fosse un colore, sarebbe il ros-so. Declinato in due sfumature: il rosso porpora (nobile tintura as-

sociata al concetto di regalità) e il rosso sangue, quello che rigò i volti e i corpi di moltissimi imperatori.

Già ai suoi albori la successione impe-riale nell’Urbe fu infatti regolata da norme poco chiare. Il che contribuì a far scatena-re lotte per il potere in cui tutto dipendeva dall’autorità, dall’avidità, dalla scaltrez-za e dalla disponibilità a uccidere – o a fa-re uccidere – dei pretendenti al trono. Nei cinque secoli di vita dell’Impero romano quasi la metà degli imperatori morì am-mazzata in sordidi complotti, in un frene-tico alternarsi di colpi di Stato e congiure.

Pax armata. A ottenere sempre più cre-dito furono, alla lunga, i generali-impera-tori, signori della guerra che al pari di mo-derni caudillos guadagnarono spesso un

potere assoluto. «Se il primo imperatore romano fu Augusto, l’idea di impero pre-se forma già con Caio Giulio Cesare; un uomo che morì accoltellato dopo una co-spirazione di senatori», racconta lo storico dell’antichità Antonio Montesanti dell’U-niversità di Exeter (Inghilterra). «E se fin dagli albori l’impero fu bagnato nel san-gue, la scia di violenza proseguì per tutta l’età d’oro, ovvero il lungo periodo di pa-ce – quasi due secoli – passato alle crona-che come pax romana».

D’altronde quando un imperatore scon-tentava altri soggetti politici o militari do-tati di ampi poteri, per esempio tra le file del Senato o dei pretoriani (le “guardie del corpo” del sovrano), c’era sempre qual-cuno pronto a tramare per sbarazzarsi di lui. E se Augusto morì di morte naturale, già sotto il suo successore, Tiberio, la cor-te prese ad assomigliare al set di un caoti-co film splatter, a cui parteciparono spes-

so anche le donne. Qualche esempio? Lo stesso Tiberio, sfuggito a un complotto del pretoriano Seiano, morì poi soffocato nel suo letto. Il successore, Caligola, fu accol-tellato lasciando spianata la strada a Clau-dio, che finì i suoi giorni avvelenato dalla consorte Agrippina, madre di Nerone (v. articolo a pag. 54). Il quale, diventato so-vrano, dovrà fronteggiare, reprimendola nel sangue, una congiura ordita dal sena-tore Pisone. Per chiudere il cerchio, Agrip-pina sarà fatta uccidere dallo stesso Nero-ne. Dopodiché, sul finire del I secolo, si re-gistrarono gli omicidi degli imperatori Gal-ba, Vitellio e Domiziano. Quest’ultimo si distinse come uno dei sovrani più crude-li, dispotici e dissoluti prima di essere tra-volto (a suon di pugnalate) dall’ennesimo complotto del Senato.

Dall’oro... alla ruggine. Nel 180, dopo la morte (naturale, strano a dirsi) di Mar-co Aurelio, si concluse l’età d’oro dell’im-

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pero e iniziò un periodo di decadenza. Lo storico latino Cassio Dione Cocceiano (163-229) lo definì, con una celebre meta-fora, come il passaggio “da un regno d’o-ro a uno di ferro e ruggine”. E la ruggine divenne particolarmente corrosiva con la salita al potere del depravato e prepoten-te Commodo, che su input di un manipolo dei soliti senatori finì i suoi giorni strango-lato dal suo allenatore di arte gladiatoria. Solo nel 193 morirono quindi assassinati ben due imperatori: Pertinace, per mano dei pretoriani, e Didio Giulio, con il solito zampino del senato.

Una fase particolarmente delicata era di solito il passaggio dinastico. Quando, tra la fine del II e l’inizio del III secolo, si af-fermò la dinastia dei Severi, fu stabilito un macabro record: a parte il fondatore, Set-timio, tutti i sovrani severiani furono vit-time di congiure che si conclusero con il loro omicidio.

Largo ai barbari. «L’ultimo dei Severi, Alessandro, fu ucciso dai suoi soldati du-rante un ammutinamento che portò al po-tere il generale Massimino Trace (235). Questo evento costituì uno spartiacque, introducendo una novità: la possibilità per un barbaro di diventare imperatore gra-zie a meriti militari», riprende Montesanti.

Proveniente dalla Tracia rurale, Massi-mino riuscì nella scalata sociale grazie al-le qualità di combattente – era un colosso alto oltre due metri – messe in mostra gui-dando l’esercito romano, da tempo aper-tissimo agli stranieri. In quegli anni si con-solidò un fenomeno già emerso con Setti-mio Severo: ogni aspirante imperatore do-veva contare sul consenso delle milizie più che su quello dei senatori.

«Al tempo dei cosiddetti imperatori sol-dati, se un sovrano non soddisfaceva le truppe, queste semplicemente lo depo-nevano. E, come in un moderno colpo di

Stato, lo sostituivano con un generale ri-tenuto più affidabile», spiega lo storico. «Ogni comandante poteva così aspirare al-la carica di imperatore, mettendo in conto però di ritrovarsi velocemente scalzato».

A ben vedere, era un’eredità arcaica. Prima di assumere connotazioni geopoli-tiche, la parola imperium si riferiva infatti al potere di alcuni magistrati militari i cui ordini, indiscutibili, erano vincolanti an-che in ambiti politici e religiosi.

anarchia miLitare. Nel III secolo, all’in-stabilità dei confini dovuta alla crescente minaccia dei popoli barbari si sommarono i pericoli derivanti dalle guerre interne, fo-mentate dai signori della guerra. Tutto ciò portò all’anarchia.

«Se nei primi due secoli il rapporto tra ambito politico e ambito militare era in equilibrio, l’esercito finì per assumere tut-to il potere, dettando i tempi e i modi della politica», sottolinea Montesanti. «La per-

Trame di palazzo A sinistra, la vittoria

di Costantino nella Battaglia di Ponte

Milvio in un dipinto del Seicento. A destra

dall’alto: l’assassinio di Cesare in un quadro di

Karl Piloty (1826-1886) e un dipinto del vittoriano Lawrence Alma-Tadema

(1836-1912), che raffigura un dialogo tra

due Romani: fino al III secolo le congiure furono

ordite nelle stanze del potere, poi nelle tende

dei generali.

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Quando, dopo la Battaglia di Ponte Milvio (312), fu ritrovato il corpo di Massenzio, le truppe vittoriose portarono la sua testa in parata

centuale di sovrani uccisi rimase sempre elevata. Ma se nella prima fase dell’impe-ro la crudeltà era spesso legata alle manie e alle follie dei singoli sovrani, ora a domi-nare erano le esigenze belliche».

Sulla scia di quanto avvenuto con Mas-simino Trace (che non mise mai piede a Roma), aumentarono i sovrani “esotici”. Esemplare il caso di Marco Giulio Filippo, detto l’Arabo. Nato in terra siriaca, aveva fatto carriera nell’esercito fino a diventare prefetto del pretorio e poi imperatore (nel 244). Non senza aver prima tradito il pre-cedente sovrano Gordiano III, ucciso dai propri soldati sobillati da Filippo. Una cu-riosità: sarà proprio quest’ultimo a festeg-giare i primi mille anni di Roma (fondata, secondo la tradizione, nel 753 a.C.). Poi,

dopo un’altra ventina di imperatori, la cri-si del III secolo sembrò finire grazie a un comandante proveniente dalla Dalmazia: Diocleziano. Il nuovo sovrano, convinto che ormai il dominio romano aveva trop-pi fronti caldi, non controllabili da un uo-mo solo, escogitò nel 293 la cosiddetta te-trarchia, o “governo dei quattro”. Comin-ciò una tregua per l’instabilità politica, ma non per la violenza.

Fiumi di sangue. L’impero fu diviso in quattro aree e a Diocleziano si affiancaro-no altri tre sovrani: Massimiano, Costanzo Cloro e Galerio. Se i quattro, almeno per un po’, evitarono di farsi la guerra, il san-gue tornò a scorrere con una recrudescen-za delle persecuzioni contro i cristiani. L’e-sperimento tetrarchico, durante il quale si

avvicendarono più quaterne di imperato-ri, finì nel 324. Lo spettacolo si replicò: guerra civile e vittoria finale del più forte, Costantino I. «Con la fondazione di Co-stantinopoli, dal 395 capitale del neona-to Impero romano d’Oriente, gli imperato-ri d’Occidente furono prevalentemente dei sovrani fantoccio», dice Montesanti. «Que-sto perché il potere era tornato a concen-trarsi nelle mani dei massimi comandanti militari, incarico che nel tardo impero cor-rispondeva a quello di magister militum, “maestro dei soldati”».

«Uno dei più famigerati fu Stilicone (359 ca.-408), di origini germaniche, che res-se l’impero dopo la morte dell’imperatore Teodosio». Anni dopo, un potere simile fu raggiunto da Flavio Ezio (390-454), gene-

LE CONGIURE PIÙ FAMOSE

Alcuni storici si sono presi la briga di contarle e sono arrivati a 15.

Le cospirazioni, nell’antica Roma, erano all’ordine del giorno.

Nella repubblica

in crisi Catilina, senatore e console, passò dall’opposizione politica

(il suo nemico era Cicerone) a quella armata, finendo

ucciso nel 62 a.C.

CATILINA

Fu assassinato a

pugnalate il 15 marzo del 44 a.C. da alcuni senatori (tra i

quali il suo pupillo, Bruto). Tutti aristocratici repubblicani,

i congiurati temevano l’accentramento di poteri

imposto da Cesare. Furono tutti uccisi.

GIULIO CESARE

Nel 535 a.C. Tarquinio

il Superbo irruppe nel Foro con un gruppo di uomini

armati e si autoproclamò re. Quando il suocero Servio Tullio, sesto re di

Roma, gli chiese spiegazioni, Tarquinio lo assalì. Mentre arrancava verso

casa, i congiurati lo finirono e Tullia Minore, sua figlia, ordinò di

passargli sopra con il carro.

SERVIO TULLIO

Nel 192 d.C. annunciò

che il primo giorno dell’anno si sarebbe presentato al popolo in veste di gladiatore.

La sua concubina Marcia Demetriade e il prefetto Emilio Leto decisero allora di accelerare la congiura: su loro ordine,

il 31 dicembre, l’atleta Narcisso (con il quale Commodo

usava allenarsi) lo strangolò.

COMMODO

Agrippina, quarta moglie

dell’imperatore Claudio e madre di Nerone, decise di far

fuori il marito avvelenandogli la cena. Siccome la dose non bastò a ucciderlo, si premurò che il medico

Senofonte gliene servisse subito un’altra, che fu letale.

Era il 13 ottobre del 54 d.C.

CLAUDIO Il 24

gennaio del 41 Caligola fu ucciso da

un gruppo di pretoriani. Infierirono sul suo corpo,

forse decapitandolo. I congiurati (aristocratici che volevano

sul trono Claudio) trucidarono anche la moglie

e la figlia di tre anni.

CALIGOLA

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Page 45: Focus Storia (Gennaio 2015)

rale del sovrano Valentiniano III che, dopo aver a lungo frenato la pressione dei bar-bari, fu ucciso in un complotto con la par-tecipazione dello stesso imperatore (v. ar-ticolo a pag. 66). Un film già visto, con un finale scontato. Nel 455 anche Valentinia-no fu assassinato, per volere del prefetto Petronio Massimo, salito sul trono ma de-stinato pure lui a morte violenta: fu truci-dato dal suo popolo.

Sipario (roSSo). Il rosso porpora e il ros-so sangue continuarono a intrecciarsi fino alla fine, sull’immaginaria tela che chia-miamo Impero d’Occidente. Una tela di-pinta, specie nel tardo impero, dalle spa-de dei soldati. E sarà proprio un soldato, il germanico Odoacre, al culmine di una car-riera nell’esercito romano, a deporre nel 476 Romolo Augusto. Facendo calare il si-pario (rigorosamente rosso) su quel dram-ma truculento durato cinque secoli. •

Matteo Liberti

Mors tua... potere mio Sopra, l’assassinio di Caligola in un dipinto

ottocentesco: dietro la tenda Claudio, suo successore. Sotto, la “statua dei Tetrarchi” a Venezia: la tetrarchia fu una spartizione

dell’impero fra capi militari.

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Page 46: Focus Storia (Gennaio 2015)

CATTIVISSIMI RE

Nel 37 si ammalò. Quando si riprese divenne uno degli uomini più amorali e malvagi della Storia. Gli si attribuirono rapporti

incestuosi con le sorelle, accoppiamenti con le mogli dei suoi ospiti durante i banchetti, gesti folli come nominare console il proprio amato cavallo o pretendere che tutti lo adorassero. Ordi-nò la tortura o l’uccisione di tutti coloro che erano in disaccordo con lui, anche su questioni banali.

Fu il massimo persecutore dei cristiani nei primi secoli. Con un editto nel 303 costrinse tutti a convertirsi alla religione roma-

na. Chi si rifiutava inizialmente veniva imprigionato, poi la pena divenne più drastica: crocifissione o decapitazione. In meno di 10 anni fece uccidere circa 3mila cristiani. Fu lui a introdurre gli spettacoli al Circo Massimo durante i quali i seguaci della nuova religione venivano condannati a essere divorati vivi.

CALIGOLA DIOCLEZIANO

5 6 7Poiché la madre Agrippina, per correg-

gerne il brutto carattere (fin da piccolo Nerone rivelò un’indole sadica e violen-ta), gli portava l’esempio del fratello Bri-tannico, saggio e virtuoso, Nerone prese a odiarlo. Temendo che potesse un giorno portargli via il trono, lo fece avvelenare, rallegrandosi di fronte alla sua strazian-te agonia. Ci prese gusto: con accuse sommarie uccise tutti coloro di cui non si fidava o che non gli piacevano, compresi la madre, le mogli Ottavia e Poppea e il precettore Seneca.

NERONE

Il figlio adottivo di Augusto e suo suc-cessore nel 14 d.C. non era portato per

governare. Preferì quindi delegare la ge-stione del potere al Senato e al prefetto del pretorio Seiano, per potersi dedicare a ciò che gli interessava di più: gli agi e il lusso. Oggetto di pesanti critiche, nel 26 si ritirò a Capri per il resto della sua lunga vita, tornando a Roma in rare occasioni. Nell’isola fece costruire la Villa Jovis dove passava gran parte del tempo molestan-do bambini e ragazzi. Tra loro c’era anche il suo futuro successore Caligola.

TIBERIO

Secondo alcune fonti fu lui a inaugurare la prima grande persecuzione contro

cristiani ed ebrei (l’Apocalisse di san Gio-vanni, con i suoi toni catastrofici, fu scrit-ta sotto il suo regno). Comportandosi da sovrano assoluto, provocò moti di rivolta e congiure. Reagì instaurando una sorta di “regime del terrore”: eliminava chiun-que, anche tra i suoi più stretti collabora-tori, fosse sospettato di tramare contro di lui. Finì col peggiorare la situazione: morì vittima di una congiura, pugnalato nella sua camera da letto.

DOMIZIANO

12-41 d.C.

37-68 d.C. 42 a.C.-37 d.C. 51-96 d.C.

244-311

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A cura di Marta Erba

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IL SOSPETTOSOIL PEDOFILOIL SERIAL KILLER

IL PERSECUTOREIL DEPRAVATOP

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Page 47: Focus Storia (Gennaio 2015)

CATTIVISSIMI RE Da Caligola a Teodosio il Grande, la classifica degli imperatori romani più crudeli (a detta degli storici antichi). Così prepotenti e disumani da farci addirittura rivalutare i governanti di oggi

Figlio degenere di Marco Aurelio (uno dei più grandi sovrani di Roma), Commodo amava mettersi in mostra durante i giochi

gladiatori. Ordinava che venissero gettati nell’arena gli storpi, i gobbi e i menomati, per poi avere facilmente la meglio su di loro. Ma la sua passione erano gli animali: abbatteva elefanti, infilzava giraffe, decapitava struzzi. Una volta uccise 100 leoni in un giorno, fino a provocare il disgusto tra gli spettatori.

Nei primi anni regnò con il fratello Geta ma, non andandoci troppo d’accordo, lo uccise. Per ragioni oscure (forse a causa

di uno spettacolo che ridicolizzava l’imperatore), nel 215 fece massacrare tutti i 20mila abitanti maschi di Alessandria d’Egitto, per poi saccheggiare e bruciare la città. Inoltre eliminava chiun-que gli sembrasse vagamente ostile all’impero. Fu assassinato da una delle sue guardie mentre urinava sul lato della strada.

COMMODO CARACALLA

8 9 10Altissimo (oltre i 2 metri), è ritenuto il

responsabile della crisi dell’impero del III secolo. Non fidandosi di nessuno, uccise decine di amici, consulenti e be-nefattori. Pensando di farsi apprezzare dal popolo con le conquiste territoriali, invase la Germania, la Sarmazia e la Dacia (Balcani), al prezzo di gravi perdite. Al malcontento romano reagì marciando sulla città, ma le truppe erano tanto esau-ste che in molti disertarono o si rivoltaro-no contro di lui. Massimino fu assassinato e la sua testa infissa a un palo ed esposta.

MASSIMINO TRACE

Di origini africane, fu il primo dominus (“padrone”, in contrapposizione al

princeps, primo tra pari, che implicava la condivisione del potere col Senato) e il primo imperatore a trarre la propria forza dall’appoggio dell’esercito. Perseguitò duramente i cristiani e gli ebrei met-tendoli di fronte alla difficile scelta tra rinnegare il loro Dio ed essere decapitati (o crocefissi): fece giustiziare tra 1.000 e 3.000 credenti. Rispettava soltanto l’eser-cito, da cui traeva il proprio potere (e che temeva potesse toglierglielo).

SETTIMIO SEVERO

Nel 390 ordinò il massacro di circa 7.000 abitanti di Tessalonica colpevoli

di essersi ribellati all’esecuzione di un loro idolo sportivo, ordinata da Teodosio, e di aver linciato un alto ufficiale dell’im-peratore. Per questa strage Teodosio fu duramente rimproverato da sant’Ambro-gio, vescovo di Milano, che gli negò in un primo momento il perdono, invitandolo a un lungo periodo di penitenza. Dopo l’episodio, l’imperatore irrigidì la politica religiosa emanando i severissimi “decreti teodosiani” che vietavano i culti pagani.

TEODOSIO I

173-238 146-211 347-395

161-192 188-2173 4

L’INVASORE COMPULSIVO IL MILITARISTA LO STRAGISTA PENTITO

IL VENDICATIVOL’ESIBIZIONISTA

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Page 48: Focus Storia (Gennaio 2015)

A FERRO E FUOCOI Romani sapevano essere aperti. Ma distruggevano senza pietà chi osava ribellarsi. Come accadde alla Giudea del 70 d.C.

Preda di guerraIl candelabro dal Tempio di Gerusalemme portato in trionfo come preda di guerra dai Romani, sull’arco che celebra il trionfo del generale Tito. Fu lui il “flagello” degli Zeloti ribelli di Giudea.

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Page 49: Focus Storia (Gennaio 2015)

AssedioGerusalemme sotto

assedio nel 70 d.C. da parte delle legioni

romane, in un dipinto di Ercole de’

Roberti (1456-1496). La città riuscì a

resistere per 5 mesi.

“F anno un deserto e lo chia-mano pace”. Parola di Taci-to, storico latino. Ma come: il segreto della grandezza

dell’impero non era il fatto che i Roma-ni sapevano essere tolleranti con i regni e i popoli che entravano a far parte dei lo-ro domini? Vero. Ma altrettanto vero è che chi entrava nell’orbita capitolina lo faceva spesso scegliendo il minore dei mali. Inol-tre, i vantaggi della cittadinanza romana non erano per tutti. E comunque, con chi

non accettava le regole, gli imperatori e i loro governatori nelle province avevano una sola risposta: il pugno di ferro.

Provincia inquieta. Due popoli in parti-colare hanno sostenuto una lotta plurise-colare per non farsi dominare dall’Urbe: le tribù ispaniche, spina nel fianco del-la Roma repubblicana, e la Giudea, foco-laio di rivolte nella prima età imperiale. La Palestina era entrata sotto il control-lo dell’Urbe grazie a Pompeo Magno, nel corso del I secolo a.C.

600.000Le vittime della repressione romana nella Prima guerra

giudaica (66-73).

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Page 50: Focus Storia (Gennaio 2015)

L’assedio del 70 a Gerusalemme fu solo l’ultimo di una serie di massacri in altre città

Non si può dire che sia mai scattato un feeling tra i dominatori, diffidenti verso il grande zelo religioso dei sottoposti, e gli Ebrei, irritati dall’invadenza capitolina nelle loro tradizioni. Un dialogo tra sordi, insomma, destinato a sfociare in aperto conflitto. A Roma si considerava la Giudea uno scacchiere marginale, poco produtti-vo e di scarso interesse politico; a gover-narla non andavano gli uomini più abi-li e ambiziosi, ma figure di basso profilo.

Provocazioni. Le responsabilità dell’Ur-be nel provocare il popolo ebraico furo-no tutt’altro che trascurabili: i procuratori della Giudea si distinsero per ottusità, cor-ruzione e mancanza di diplomazia, tanto da far dire persino a Tacito che “la capa-cità di sopportazione dei Giudei non andò oltre il periodo in cui fu procuratore Gessio Floro”, il cui mandato ebbe inizio nel 64.

A Floro bastarono due anni per porta-re gli Ebrei alla rivolta. Confiscò parte del tesoro del Tempio di Salomone, per com-pensare un mancato tributo, senza ren-dersi conto che il torto economico era me-no importante dell’affronto religioso. Flo-ro mandò i soldati a saccheggiare alcuni quartieri di Gerusalemme, facendo oltre 3mila morti. Ottenne soltanto di essere co-stretto a evacuare la città con tutta la guar-nigione, per evitare il linciaggio da parte della popolazione, sobillata dagli Zeloti, promotori della rivolta. Gli Zeloti (tradu-zione dell’ebraico kannaim, “fedele ese-cutore”, “seguace”) erano un gruppo orto-dosso che si opponeva con le armi all’oc-cupazione. Nerone, fedele all’idea di una Palestina luogo di confino, mandò contro quei “terroristi” un personaggio caduto in disgrazia, Tito Flavio Vespasiano, allora esiliato in Grecia.

Da quel momento, la repressione seguì un copione ben collaudato e replicato per secoli. Il nuovo comandante assegnò il co-

mando di una legione, la XV Apollinaris, al proprio figlio Tito, raccolse 60.000 ef-fettivi e si pose l’obiettivo di riportare sot-to il controllo di Roma l’intera Giudea, pri-ma di affrontare le imponenti difese della capitale. Come prima mossa sfilò in forze per la Galilea, sperando che lo spettacolo delle legioni in parata bastasse a convin-cere i ribelli alla sottomissione senza com-

battere. Il suo auspicio si rivelò vano fin dalla prima sfida, il baluardo di Iotapata; i difensori costrinsero i Romani a 47 gior-ni di assedio. Come da copione, una vol-ta presa la città i legionari massacrarono 40mila abitanti, catturando come schiavi 1.200 tra donne e bambini. I Romani ave-vano sconfitto un esercito ebraico di 12mi-la uomini inseguendolo oltre la prima cin-

CRONOLOGIA

Le tre Guerre giudaiche

66 d.C. Rivolta con-tro la violazione del Tempio; inizia la Pri-ma guerra giudaica.

66 Al passo di Beth Horon 6mila legiona-ri romani muoiono in un’imboscata.

66 Gaio Cestio Gallo assedia e conquista Giaffa, successiva-mente rasa al suolo.

Primavera 67 Asse-dio romano di Iota-pata: dopo 47 giorni la città cade.

Trionfatore Tito in trionfo a Roma, dopo aver distrutto Gerusalemme, in un dipinto di Lawrence Alma-Tadema (1836-1912). Alle sue spalle la Menorah (il candelabro) del Tempio incendiato.

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ta muraria; quando i cittadini sbarrarono la seconda cinta, i guerrieri ebrei, intrap-polati, caddero fino all’ultimo uomo. Seguì la conquista dell’abitato, dopo sei ore di combattimenti strada per strada. Vennero trucidate anche tutte le donne, colpevoli di aver scagliato addosso ai Romani le tegole dei tetti. Solo i bambini sopravvissero, ma furono ridotti in schiavitù.

Capolavoro di Crudeltà. Questi attac-chi spietati avevano lo scopo di rendere più facile espugnare le successive rocca-forti, fino ad assediare Gerusalemme. La morte di Nerone, nel 69, distrasse Vespa-siano. Il generale tornò a Roma, dove vin-se la lotta di potere per la successione. Co-sì, la repressione in Giudea passò al figlio Tito: sarebbe stata la sua più grande im-

Settembre 70 Dopo 5 mesi di assedio Tito prende Gerusalemme e distrugge il Tempio.

72-73 Assedio di Ma-sada, roccaforte degli Zeloti. I 960 assediati si suicidano in massa.

115-117 Repres-sione delle rivolte di Alessandria e Cirene (2a guerra giudaica).

132 Scoppia la rivol-ta guidata dal sedi-cente Messia Simon Bar Kokhba.

132-135 L’imperato-re Adriano reprime la ribellione con la Terza guerra giudaica.

Seconda distruzione Il Secondo Tempio distrutto dai legionari nel

70. Il primo (quello di Salomone) fu raso al suolo dai Babilonesi nel VI secolo a.C.

Luogo simbolo Il tratto di mura del Tempio sopravvissuto:

è tutto ciò che resta, con poche altre tracce archeologiche, della Gerusalemme del I secolo.

In epoca imperiale, oltre agli abitanti della Giudea, altri dovettero fare i conti con la violenza romana, che aveva de-buttato contro Cartagine, distrutta fino all’ultima pietra nel 146 a.C.

LA VENDETTA SUI GERMANILa sconfitta delle legioni a Teutoburgo (9 d.C.) fu vendicata, sette anni dopo, a Idistaviso (sul fiume Weser, in Germa-nia). Non si sa quante furono le vittime, ma i Germani ribelli di Arminio schiera-rono forse più di 40mila uomini, molti dei quali morirono.

I BRITANNI DI BUDICCASotto Nerone (54-68), Roma spazzò via gli Iceni della regina Budicca. La sovrana aveva guidato una rivolta iniziata da una strage di Romani e conclusa in breve con un’ecatombe di nativi: circa 80mila.

IL GENOCIDIO DEI DACII Daci erano gli antichi abitanti dell’at-tuale Romania. Contro di loro Traiano (imperatore fra il 98 e il 117) fu impla-cabile. Anche se la documentazione per l’epoca è scarsa, per i Daci si può parlare di genocidio. Il massacro è celebrato dai rilievi dalla Colonna di Traiano, a Roma.

GLI OSTROGOTI E STILICONELa repressione più feroce nel tardo im-pero fu inflitta nel 406 dal generale mez-zosangue Stilicone all’orda multietnica di forse 400.000 “barbari” guidata dall’o-strogoto Radagaiso, penetrata in Italia fino a Fiesole (Toscana). Pare sia soprav-vissuto solo un terzo di quei 400mila. Comunque abbastanza da far crollare nella Penisola il prezzo degli schiavi, che in quei giorni si vendevano, dice un cronista dell’epoca, “alla stregua degli armenti più deprezzati”.

Le altre repressioni delle legioni romane

80.000I Britanni massacrati

al tempo di Nerone dopo la rivolta guidata dalla

regina Budicca.

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LA RESISTENZA ESTREMA DI MASADAAsserragliati sull’altura nel deserto, circa 960 Zeloti resistettero, nel 73-74 d.C., a un lungo assedio. Prima di suicidarsi in massa.

IMPRENDIBILE Sull’altopiano, considerato imprendibile, costruì una propria residenza il re di Giudea Erode (37-4 a.C.).

IL SENTIERO DEI SERPENTI Alla rupe si saliva lungo il tortuoso Sentiero dei serpenti, stretto e quindi ben difendibile. I Romani costruirono una rampa per le macchine d’assedio.

LE ABITAZIONI Sono stati ritrovati resti di abitazioni. Dopo la caduta, Masada rimase romana fino all’epoca bizantina.

FRA TERRA E CIELO Gli archeologi hanno identificato il sito della sinagoga fatta costruire dagli Zeloti che si rifugiarono qui dopo la caduta di Gerusalemme.

ATTREZZATI PER RESISTERE L’altura, usata già dagli Asmonei, sovrani di Giudea nel II secolo a.C., era dotata di magazzini e cisterne per raccogliere l’acqua piovana.

presa e uno degli episodi più cruenti del­la storia romana.

Tito arrivò davanti alla città subito dopo la Pasqua ebraica, che aveva fatto conflui­re entro le mura una folla immensa per i tempi. Secondo Tacito, 600mila persone. Con il trascorrere dei mesi, il blocco impo­sto agli assedianti impose delle condizio­ni di vita tremende agli assediati, ridotti a cibarsi dello sterco trovato nelle fogne. I loro cadaveri ingombravano le strade, senza che nessuno si curasse di seppellir­li; quando una casa era chiusa, per i capi zeloti era segno che qualcuno stava man­giando: ordinavano pertanto un’irruzione, durante la quale si arrivava a sfilare il cibo dalla bocca dei commensali. C’era chi in­

dio del Tempio, ultimo baluardo dei ribel­li. “Intorno all’altare si accumulò un muc-chio di cadaveri mentre lungo la scalina-ta del Tempio correva un fiume di sangue e rotolavano i corpi di quelli che veniva-no massacrati su in alto”, scrive Giusep­pe Flavio.

Seguì la “solita” strage di civili, sacerdo­ti, vecchi, donne e bambini nella città al­ta; i legionari, esasperati da cinque mesi di duro assedio, massacrarono chiunque in­contrassero durante il saccheggio, poi giu­stiziarono i superstiti, oppure li mandaro­no alle miniere, o a morire nei circhi, sal­vandone alcuni per farne gladiatori. Sette­cento dei più prestanti sfilarono nel trionfo di Tito, a Roma.

ghiottiva le proprie monete d’oro e chi si vedeva infilare ceci nel pene per un tozzo di pane che aveva nascosto.

I Romani, da parte loro, non trascuraro­no nulla, durante e dopo l’assedio: il cro­nista Giuseppe Flavio (v. riquadro a de-stra) racconta di come colorassero di ne­ro le pietre delle catapulte, per evitare che il riflesso del sole consentisse ai difenso­ri di accorgersi in tempo della traietto­ria del proiettile. Gli assedianti costruiro­no terrapieni a ridosso delle mura, facen­dovi avanzare sopra torri semoventi, con­quistando una dopo l’altra, con pazienza e determinazione, le tre cinte murarie che proteggevano la città. L’epilogo si ebbe nell’agosto­settembre del 70, con l’incen­

Durante l’assedio di Masada, i legionari resero inutilizzabili le cisterne per l’acqua, che erano vitali

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FORTIFICATA La rupe fu identificata nel 1834 come quella del celebre assedio romano. Lungo il perimetro c’erano casematte e mura.

PALAZZO REALE L’altopiano fu fortificato da Erode il Grande intorno al 35-30 a.C. Il sovrano dotò la cittadella di caldaie per le terme.

Resistenza estRema. Dopo la caduta di Gerusalemme, rimanevano solo tre fortez-ze in mano agli Zeloti. Di queste, Masada si è guadagnata una fama che arriva fino a oggi grazie al gesto estremo dei suoi 960 difensori, guidati da Eleazar Ben Yair. Al-la vigilia dell’assalto finale dei Romani as-sedianti si uccisero tutti, tranne due don-ne e cinque bambini. Dopo che i legiona-ri avevano tagliato i rifornimenti idrici al-le cisterne ed erano riusciti ad aprire una breccia, non c’era altra alternativa: conse-gnarsi o uccidersi.

L’ultimo capitolo del copione repressi-vo romano prevedeva l’abolizione di ogni residuo di indipendenza. Furono soppres-si pressoché tutti gli organi di autogover-

no giudaici, inclusi sinedrio e sommo sa-cerdozio, fu vietato il culto ebraico in quel che restava del Tempio e molte terre intor-no a Gerusalemme furono assegnate ai ve-terani romani.

Seguì la riorganizza-zione amministrativa della Siria-Palestina e un’accelerazione del-la diaspora. Ma la lon-ga manus romana ar-rivò anche là dove si erano rifugiati gli Zelo-ti sopravvissuti: Ales-sandria d’Egitto e Cirene (Libia). Ci pensò Traiano, campione di repressione e regista della Seconda guerra giudaica (115-117).

Una ventina di anni dopo, l’imperatore Adriano alimentò nuove tensioni con al-cune decisioni: ribattezzare Gerusalemme Elia Capitolina, istituirvi una colonia ro-

mana e un tempio dedicato a Giove Capi-tolino erano affronti. Furono necessari tre anni per riportare l’ordine dopo la rivolta guidata da Bar Kokhba (“Figlio della stel-la”), sedicente Messia.

OlOcaustO. La mi-sura della repressio-ne (alias Terza guerra giudaica) è tutta nelle cifre: 985 villaggi con-quistati e 50 roccaforti distrutte; 580.000 per-sone massacrate, alle quali vanno aggiunti i

morti di fame e per la peste. Un’anticipa-zione dell’Olocausto. Da allora, gli Ebrei cessarono di essere un problema per l’Ur-be. Ma siccome avevano venduto cara la pelle, i Romani li avrebbero ricordati co-me i ribelli più tenaci. •

Andrea Frediani

Durante l’assedio di Masada, i legionari resero inutilizzabili le cisterne per l’acqua, che erano vitali

Gran parte delle notizie sulla Giudea del I

secolo si devono a uno storico che fu anche testi-mone oculare. E in parte anche protagonista. Giu-seppe Flavio nel 67 era il responsabile militare ze-lota di Iotapata durante l’assedio di Vespasiano. Ripensamenti. Dopo la caduta della città, Flavio si rifugiò in un sotterra-neo con una quarantina

di sopravvissuti. Qui spin-se i suoi al suicidio collet-tivo, ma quando rimasero solo lui e il subalterno con cui aveva assistito alla carneficina, convinse l’altro ad arrendersi. Fu portato al cospetto di Ve-spasiano ed ebbe salva la vita grazie all’intercessio-ne di Tito. Quando Vespa-siano divenne imperatore se ne guadagnò il favore come biografo ufficiale.

Anzi, l’unico, almeno per noi posteri: i libri delle Storie di Tacito relativi a quel periodo sono infatti perduti.Le opere. Guerra giudaica e Antichità giudaiche sono fonti preziose, sep-pure tendenziose, per ri-costruire quelle che sono probabilmente la rivolta e la repressione meglio documentate del mondo romano.

Giuseppe Flavio, ribelle pentito

Scacco momentaneoLa trappola zelota contro i Romani al passo di Beth Horon, nel 66. Fu una delle poche vittorie dei ribelli.

700Gli Zeloti condotti in catene a Roma per il

trionfo del generale Tito.

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L’incantatrice Statua di Agrippina Minore, sorella di Caligola e moglie in terze nozze dell’imperatore Claudio. Qui è con il piccolo Nerone, avuto dal primo marito, Domizio Enobarbo.

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MAMMINACARA

Morì per mano del figlio Nerone. Ma prima si impose a sua volta nella politica della corte giulio-claudia grazie alla crudeltà e (forse) all’assassinio

del marito imperatore, Claudio. O almeno questo narra la tradizione

Il papà di Nerone Statua del console Gneo Domizio Enobarbo, padre di Nerone e marito di Agrippina: secondo la storiografia, non godette di una buona reputazione e venne accusato di adulterio e di lesa maestà.

Giulia Agrippina ricordava l’e-saltazione provocata dagli ap-plausi dei Romani. Da un an-golo della sua mente riemerse

suo padre: l’eroico, valoroso condottiero Germanico sfilava a Roma, nel suo grande trionfo per la vittoria ottenuta in Germa-nia contro i terribili Cherusci. Il popolo lo acclamava con gioia e lo stesso faceva una bambina con i riccioli scuri, che sgambet-tava felice battendo le manine a fianco di sua madre. Quanti anni aveva allora? For-se due: se non si sbagliava era il 17 d.C.

Ora, a distanza di 32 anni, era lei a esse-re applaudita, mentre si recava in Campi-doglio per ricevere l’omaggio dei sacerdo-ti: un onore che non aveva avuto neppu-re Livia, la moglie del divino Augusto. Tra il luccichio dei vessilli, delle trombe e dei tamburi, assisa sul carro e circondata dal-la guardia personale, vedeva la folla accal-carsi per potersi avvicinare a lei, figlia di Germanico e di Agrippina Maggiore, mo-glie dell’imperatore Claudio e Augusta.

Realtà e pRegiudizi. Il popolo e i sol-dati la amarono molto, eppure passò al-la Storia come una delle donne più cru-deli dell’impero. Gli storici latini di I-II se-colo la descrissero come una tessitrice di inganni, mantide avvelenatrice e ammalia-trice, disposta a usare il proprio corpo per raggiungere il potere. La accusarono inol-tre di diversi omicidi, di almeno un paio di congiure e, più volte, di incesto. Ma chi fu davvero Agrippina minore? Di quali cri-mini si macchiò?

«Gli storici antichi danno una propria in-terpretazione dei fatti, che non corrispon-de sempre alla realtà, soprattutto quando parlano di donne con un ruolo importan-te a corte», spiega Francesca Cenerini, do-cente di Storia romana e Storia delle don-ne nel mondo classico all’Università di Bo-logna. «Chi, come Tacito, era contrario al potere imperiale, le descrive sempre come licenziose o crudeli: era anche un modo per colpire gli imperatori, mostrandoli de-boli e in mano alle proprie mogli o aman-ti». Fin qui le riserve degli storici moder-ni. Ma qual è invece il ritratto tramandato dalla tradizione?

CResCiuta sul limes. Alta e silenziosa, il viso severo, i capelli neri, Agrippina fu quasi un personaggio da tragedia greca, una tragedia il cui primo atto si apre in un accampamento militare in Germania. La pronipote di Augusto, futura madre, sorel-la e moglie di imperatori, nacque a Oppi-dum Ubiorum (l’attuale Colonia), sulla ri-va sinistra del Reno, il 6 novembre del 15 d.C. Il clangore delle armi e il vociare dei soldati furono la sua ninna nanna, le im-prese militari del padre le sue favole del-la buonanotte. Non le rimasero che quel-le, quando a quattro anni perse il genitore.

Germanico era stato adottato dall’allo-ra imperatore Tiberio come suo succes-sore. Dopo i successi militari, però, l’im-peratore, geloso, lo spedì a combattere in Siria e lì lo fece avvelenare. Prove non ce n’erano, ma la vedova, inconsolabile, ne era sicura: l’errore fu gridarlo per tut-

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UNA DINASTIA DA CAMMEOIl Grande cammeo di Francia (conservato a Parigi) è uno dei più celebri gioielli dell’antichità, databile tra il 20 e il 30 d.C. Rappresenta alcuni membri della dinastia giulio-claudia, alla quale apparteneva Agrippina, anche se non tutti concordano sulle identificazioni.

MARCO CLAUDIO MARCELLONipote di Augusto, in groppa a un pegaso. Oppure Germanico.

LA DEA ROMASecondo alcuni, Enea o Apollo, o la divinità Mitra.

AUGUSTOVelato, assunto in cielo. Il cammeo vorrebbe dimo-strare la continuità della gens giulio- claudia con lui.

GIULIO CESARESecondo altre interpretazioni si tratterebbe invece di Druso Maggiore.

DRUSO MINOREFiglio dell’impera-tore Tiberio e della sua prima moglie Vipsania.

LIVILLAMoglie di Druso Minore, figlia di Druso Maggiore (fratello di Tiberio).

LIVIAMoglie di Augusto e madre di Tiberio. Spinse per la sua elezione al trono.

TIBERIOL’imperatore sul trono: regnò dal 14 al 37. Sposò la figlia di Augusto.

ANTONIA MINORE Figlia della sorella di Augusto, Ottavia minore, e di Marco Antonio.

CALIGOLAFuturo imperatore di Roma, qui anco-ra bambino, fratel-lo di Agrippina.

AGRIPPINA MAGGIOREMadre di numero-si figli tra cui Cali-gola e Agrippina.

GERMANICONipote di Tiberio, successore al tro-no imperiale. Pa-dre di Agrippina.

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GAIO CESARE (CALIGOLA)

GIULIA LIVILLA

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DOMIZIO ENOBARBO(1° MARITO)

CLAUDIO (3° MARITO)

GAIO SALLUSTIO

CRISPO (2° MARITO)

INTRIGHI TRA PARENTI L’albero genealogico della famiglia di Agrippina.

ta Roma. Così anche sul resto della fami-glia, lentamente, calò la spietata vendetta dell’imperatore.

Nel 29, Tiberio diede in moglie Agrippi-na, neppure quindicenne, al crudele Gneo Domizio Enobarbo, trent’anni più vecchio di lei. Nessuno dei suoi familiari partecipò alle nozze: sua madre era in esilio sull’isola di Pandataria (l’odierna Ventotene, v. Focus Storia n° 98) e i due fratelli maggiori, Ne-rone e Druso, in carcere. Fu durante que-sto matrimonio infelice che Agrippina mi-se al mondo il suo unico figlio: Lucio Domi-zio Enobarbo, il futuro imperatore Nerone.

Atto secondo. Era il 37, l’anno in cui cominciò il secondo atto di questa storia, quello del calcolo e della crudeltà, l’an-no che vide non solo la nascita del picco-lo Enobarbo, ma anche la morte di Tibe-rio e l’ascesa al trono di Caligola, il fratello più piccolo di Agrippina, scelto come ere-de dall’imperatore. Con Caligola al centro della scena, le cose non migliorarono: lo scrittore Svetonio racconta che il nuovo imperatore “intrattenne relazioni incestuo-se con tutte le sue sorelle: davanti a tutti, a tavola, le collocava a turno sotto di sé, mentre la moglie stava sopra”.

La sua preferita pare fosse Drusilla, la più giovane. Quando la ragazza morì, nel 40, Agrippina e l’ultima sorella Livilla fu-rono esiliate a Ponza: pare avessero con-giurato contro l’imperatore. Vero o no, le due rimasero sull’isola un anno, giusto il tempo che i pretoriani facessero ciò che a loro non era riuscito. Il nuovo imperatore Claudio, fratello di Germanico, le richia-mò a Roma e diede ad Agrippina, rima-sta da poco vedova, un marito: Gaio Sal-lustio Passieno Crispo, suo vecchio e ric-chissimo amico.

In quell’unione il prezioso sangue della discendenza di Augusto era davvero spre-cato: Agrippina sapeva di poter pretendere di più, per se stessa e per il figlio, e agì di conseguenza. Senza guardare in faccia a nessuno. Tacito racconta che fece di tutto per screditare Messalina (al momento mo-glie di Claudio) agli occhi dello zio, spian-dola e raccogliendo accuse contro di lei. Tanta fatica per niente: la ragazza era per-fettamente in grado di mettersi nei guai da

sola. Nel 48, mentre Claudio era assente, nell’ebbrezza di una festa dionisiaca spo-sò il suo amante Gaio Silio: il gesto costò a Messalina la vita.

“AugustA”. Dopo la sua morte, Agrippi-na, vedova per la seconda volta (secondo gli storici non accidentalmente), ebbe gio-co facile: la spuntò sulle altre rivali e ven-ne scelta da Claudio come moglie. Il Sena-to si limitò a notare che, per quanto inu-suali, le nozze tra zio e nipote non erano mai state espressamente vietate da alcuna legge. Il censore Lucio Vitellio, che doveva farsi perdonare l’appoggio dato in passato a Messalina, fece anche di più: chiese per la figlia di Germanico il titolo di Augusta.

Ed eccola infine, nel 50, acclamata dai Romani sul Campidoglio, al massimo del

suo potere. «Come madre, Agrippina desi-derava che il figlio diventasse imperatore, ma al contrario di quanto dicono le fonti fu Claudio a sceglierlo come erede, non lei a imporglielo. Il motivo è semplice: la figu-ra di Nerone portava con sé il retaggio e la forza del sangue di Augusto, che gli veni-va dalla madre», spiega Cenerini.

“Tuo figlio regnerà, ma porterà la tua ro-vina”: a nulla era valso l’oracolo di una indovina. Agrippina si impegnò con tut-ta se stessa per garantire a Lucio Domizio Enobarbo, ribattezzato Nerone dopo l’a-dozione da parte di Claudio, la successio-ne imperiale.

Secondo le fonti antiche l’Augusta eli-minò o fece eliminare chiunque si fosse messo di traverso sul suo cammino: Lollia

Agrippina fu capace di muoversi senza scrupoli dietro le quinte del potere per far rimanere

in sella il giovane figlio Nerone

Caligola e le sorelleSesterzio con l’immagine di Caligola raffigurante sul rovescio le sue tre sorelle: Agrippina, Drusilla e Giulia.

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se per la guardia pretoriana. E la madre si dimostrò davvero ottima a reggere le redi-ni dell’impero, a tramare e a uccidere per difendere il trono del figlio. Col tempo, pe-rò, la sua prevaricante autonomia comin-ciò a essere d’intralcio al giovane: stanco della donna che Tacito definisce “infiam-mata da tutte le voglie di una pessima ti-ranna”, cominciò a toglierle potere.

Allontanò Pallante, il tesoriere imperiale che le dava appoggio, le revocò la scorta di pretoriani e la guardia germanica, poi la sfrattò dal Palazzo. Intuito il pericolo, se-condo Tacito, Agrippina non esitò a mac-chiarsi del crimine di incesto, tentando di sedurre suo figlio: lo scandalo, precisa lo storico, venne evitato solo grazie all’in-tervento del filosofo Seneca, precettore di Nerone. Poco dopo, la donna fu costretta a difendersi anche dall’accusa di aver con-giurato contro suo figlio.

Matricidio. Il suo destino fu segnato quando Nerone conobbe Poppea, la don-na che avrebbe sposato nel 62: pare sia sta-ta lei, infatti, a spingerlo al matricidio. «La mia opinione è che il vero discrimine fu la diversa politica portata avanti da madre e figlio: Agrippina credeva nella politica ari-stocratica, che legittimava i discendenti in base all’aristocrazia del sangue. Poppea, in-vece, rappresentava il ceto della nuova bor-ghesia municipale: Nerone preferì appog-

giarsi anche ad altri ceti e, non potendo più venire incontro alle aspettative di sua ma-dre, la uccise», afferma Cenerini.

Nel 59 il sipario si alzò sull’ultimo at-to della tragedia di Agrippina: invitata da suo figlio alla festa di Minerva a Baia, su un’insenatura del Golfo di Pozzuoli, do-po cena venne fatta salire su una barca che avrebbe dovuto riaccompagnarla alla sua villa ad Anzio. L’imbarcazione era sta-ta modificata per affondare con il prezio-so carico, ma quando il soffitto piombato della cabina di Agrippina crollò, lo scafo si inclinò soltanto.

La vittima finì in acqua con la sua an-cella, che, scambiata per la padrona, ven-ne uccisa a colpi di remo: in silenzio, feri-ta a una spalla e molto più profondamen-te nell’animo, l’optima madre raggiun-se la riva.

Alcuni pescatori l’accompagnarono in una villa nei pressi del lago Lucrino. Men-tre Seneca scriveva al Senato la lettera in cui annunciava la condanna e la morte di Agrippina, colpevole di avere attentato al-la vita del figlio, i sicari di Nerone tramor-tivano la donna a botte. A finirla ci pensò Aniceto, armato di coltello: “Colpisci qui”, avrebbe esclamato la figlia di Germanico indicando il ventre in cui era cresciuto suo figlio. E l’assassino l’accontentò. •

Maria Leonarda Leone

Agrippina e Poppea avevano una visione politica simile, anche se la prima era aristocratica e la seconda rappresentava la classe emergente

Paolina, che le aveva conteso la mano di Claudio, Domizia Lepida, madre di Messa-lina ed ex baby-sitter di Nerone, per il pes-simo ascendente sul figlio; i suoi due cu-gini di secondo grado, Lucio e Marco Giu-nio Silano, concorrenti al trono; Sosibio, precettore del figlio di Claudio, Britannico, accusato di aver tramato contro Nerone.

delitti in faMiglia. «Anche se è impos-sibile stabilire con sicurezza quali e quan-ti siano stati, gli atti compiuti da Agrippi-na rientravano nelle normali dinamiche della corte romana, piena di delitti e in-trighi. Per sopravvivere bisognava essere abili: in questo senso il ruolo notevole di Agrippina è chiaro», dice Cenerini. Deter-minata e capace di zigzagare tra gli intri-ghi di palazzo, per essere ancora più certa della successione dispose le nozze, nel 53, fra Nerone e Ottavia, la figlia di Claudio.

Ormai nulla, se non l’imperatore stes-so, poteva impedire al ragazzo di regna-re. E l’anno dopo Claudio improvvisamen-te morì. Tacito, Svetonio e Cassio Dione scrivono che lo avvelenò Agrippina con un piatto di funghi, complici l’assag-giatore Aloto e il medico di corte Se-nofonte. «Personalmente non credo sia stata la moglie a ucciderlo», so-stiene Cenerini. «Ma, dopo la sua morte, fu abilissima a mettersi d’ac-cordo con il Senato e con i pretoriani per favorire l’ascesa di Nerone».

“Ottima madre” fu la parola d’ordine che il diciassettenne neo-imperatore scel-

Fu una delle donne più facoltose della Roma repubblicana

e moglie di Marco Antonio, il generale di Cesare. Risoluta e, secondo Svetonio,

“superba, violenta e prepotente”, si guadagnò gli strali di tutti gli storici romani: secondo Velleio Patercolo aveva “di femminile solo un corpo caldo

e attraente”. Cicerone le attribuì la colpa della rottura fra Ottaviano e Antonio e lo scoppio della guerra civile: quando le venne portata

la testa dell’oratore, Fulvia ne riempì la lingua ormai violacea

di spilli (43 a.C.).

FULVIA (84-40 A.C.)

Il matricida Profilo di Nerone. Sembra sia stata la sua seconda moglie Poppea a spingerlo al matricidio.

LE CATTIVISSIMELa moglie di Augusto cercò di

assicurare l’impero a suo figlio Tiberio. Non avendo avuto figli con Augusto, l’unica erede

diretta era la figlia dell’imperatore, Giulia. Alcune voci vogliono che Marco Claudio Marcello, il nipote preferito di Augusto, sia stato ucciso per volere di Livia (23 a.C.). Lo stesso sarebbe accaduto ai figli

maschi di Giulia e del secondo marito Marco Agrippa, adottati da Augusto. Rimasta vedova, per legittimare la successione

al trono, Giulia fu costretta a sposare Tiberio.

LIVIA DRUSILLA (58 A.C.-29 D.C.)Agrippina non fu la peggiore

delle romane. Ecco le altre.

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Page 59: Focus Storia (Gennaio 2015)

A quindici anni sposò l’imperatore Claudio e a 22 morì, ma in questo breve

lasso di tempo si creò una pessima fama. Viziosa e trasgressiva, non fu da meno delle altre madri nel sostenere la corsa al trono di suo figlio

Britannico. Si dice che, senza riuscirvi, cercò di far strangolare nel sonno il figlio di Agrippina, il

futuro imperatore Nerone, e che, gelosa della bellezza della nipote di suo marito, Livilla,

la fece uccidere. Tra le vittime pare ci sia stata anche la madre di

Poppea.

VALERIA MESSALINA (25-48 D.C.)

Avvelenatrice ufficiale di palazzo, gli antichi storici le attribuiscono dai cinque ai

sette omicidi, anche se il loro numero potrebbe essere più alto. Nata in Gallia, pare gestisse a

Roma un emporio di veleni, al quale attingeva a piene mani. I suoi servigi erano molto

richiesti dall’aristocrazia: Agrippina avrebbe fatto ricorso a lei per avvelenare

i funghi serviti all’imperatore Claudio e Nerone se ne servì

per uccidere il fratellastro Britannico.

LOCUSTA(?-69 D.C.)

Si dice fosse perfida e bellissima e che istigò il suo amante, l’imperatore Nerone,

a liberarsi sia della moglie Ottavia che della madre Agrippina. Tacito aggiunge che fu anche

la causa dell’insana follia dell’imperatore. La descrive arida, dissoluta e senz’amore, odiata e

temuta da molti a Roma per l’ambizione e la sua mancanza di scrupoli. Si dice che fece uccidere

o esiliare chiunque osasse sfidarla, ma in realtà pare fosse una donna colta e

legata a Nerone da un affetto sincero.

POPPEA SABINA (30-65 D.C.)

Colpita al ventreNerone e sua madre in un dipinto dell’800 di Antonio Rizzi. A sinistra, cammeo con Claudio e Agrippina Minore (a sinistra) e i genitori Germanico e Agrippina Maggiore.

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Le pene e i supplizi inflitti a chi violava la legge romana (o quella divina) erano un campionario

di torture. Ma niente era affidato al caso

I più fortunati venivano decapitati, sca-raventati giù da una rupe o strangola-ti. Altri finivano invece annegati, ar-si sul rogo, crocifissi, fustigati, lapida-

ti, mangiati dalle belve o murati vivi... Era questo il macabro campionario delle pe-ne di morte in uso nell’antica Roma, do-ve a ogni crimine corrispondeva una spe-cifica punizione.

Non tutte le condanne capitali erano stabilite da apposite leggi, ma quasi tutte avevano in comune una tetra fantasia. «I supplizi romani non si limitavano a dare una morte più o meno dolorosa, ma impli-cavano riti misteriosi dietro a cui vi erano credenze magiche o religiose», conferma Eva Cantarella, autrice del saggio I sup-plizi capitali. Origine e funzioni delle pene di morte in Grecia e a Roma (Feltrinelli). «Le pene rispondevano inoltre a tre esi-genze: infliggere un castigo a chi non ave-va rispettato l’autorità familiare o politica; espiare un comportamento che aveva offe-so una divinità; soddisfare il desiderio di vendetta di chi era stato vittima di un tor-to». All’origine delle più antiche punizio-ni, l’indissolubile unione di sacralità e vi-ta quotidiana nel mondo romano.

Morte lenta. Tra le più antiche istitu-zioni della città c’era quella delle vestali, giovani sacer-dotesse vergini che aveva-no il compito di tenere sem-pre acceso il fuoco sacro alla dea Vesta (simbolo della vi-ta eterna dell’Urbe). Proprio a loro, nel caso in cui aves-sero infranto il voto di ca-

stità o avessero lasciato spegnere il sacro fuoco, era destinato uno dei supplizi più crudeli: essere murate vive. Dopo una lu-gubre cerimonia, la colpevole veniva con-dotta nel cosiddetto “campo scellerato” (oggi presso Porta Collina, lungo le Mu-ra Serviane) e fatta entrare in una camera sotterranea dove erano presenti un letto, pochi viveri e una fiaccola. Veniva quindi chiusa all’interno della sua futura tomba e abbandonata a morire di inedia.

A livello simbolico, la camera tombale rappresentava la casa, la dimensione do-mestica, così come i compiti quotidiani delle vestali ricalcavano le mansioni del-le donne comuni. Non a caso, queste ul-time andavano incontro a una morte ana-loga a quella delle sacerdotesse in caso di adulterio o se si davano al vino: solo che a eseguire la condanna non era il pontefi-ce massimo (capo di tutti i sacerdoti), ma il pater familias, titolare della patria pote-stas. I motivi per cui venivano puniti adul-terio e ubriachezza sono da ricercare nella cultura del tempo.

«A Roma, una delle prime preoccupa-zioni era quella di garantire un’ordinata riproduzione dei cittadini, controllando di conseguenza il comportamento femmi-

nile», spiega Eva Cantarel-la. In quest’ottica, ovvia-mente, non potevano es-sere ammessi rapporti ses-suali illeciti, mentre il vino era vietato poiché porta-va le donne a “perdere il controllo” distraendole dai propri doveri.

LEXDURISSIMA

Ad bestias! Mosaico romano di età imperiale, da El

Djem (Tunisia), con una damnatio ad bestias,

condanna pubblica che consisteva nell’essere

divorati vivi dalle belve.

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Page 62: Focus Storia (Gennaio 2015)

CONDANNATI Colpevoli di delitti

contro lo Stato.

ESECUZIONE Il condannato

veniva legato a un albero, fustigato e

abbandonato.

MORTE Emorragie, infarto,

soffocamento.

CONDANNATI Schiavi ribelli e altri criminali.

ESECUZIONE Il condannato

veniva prima fla-gellato, poi legato

alla croce.

MORTE Soffocamento,

emorragie, infarto.

CONDANNATI Schiavi ribelli e altri criminali.

ESECUZIONE Divoramento da

parte delle fiere (a volte legati sulle

stesse).

MORTE Lesioni interne,

emorragie, infarto.

CONDANNATI Colpevoli di delitti

contro lo Stato.

ESECUZIONE Decapitazione

con la scure.

MORTE Rapida, per

mancato afflusso del sangue al cervello.

CONDANNATI Schiavi insubordi-nati, amanti delle

vestali.

ESECUZIONE Il condannato

veniva colpito con delle verghe.

MORTE Lesioni interne,

emorragia.

“ALBERO INFELICE” CROCIFISSIONE DAMNATIO AD BESTIAS DECAPITAZIONE FUSTIGAZIONE

Presi Per il collo. Rispetto alla sorte del-le vestali, una pena considerata “privile-giata” era lo strangolamento, a cui ricor-revano molti aspiranti suicidi (spesso con-dannati a morte, ma intenzionati a evita-re il disonore di un supplizio pubblico). «Quando un romano decideva di mette-re fine ai suoi giorni, ricorreva in parec-chi casi al laqueum, un laccio che, stretto al collo, toglieva il respiro in pochi secon-

di risultando indolore», afferma l’esperta. «Peraltro per i Romani togliersi la vita non era un atto di codardia, ma un gesto di li-bertà». In tal senso, il suicidio più “onore-vole” era considerato quello con la spada, l’arma virile per eccellenza. Tornando alle pene capitali, una delle più frequenti era la fustigazione, riservata sia agli amanti delle vestali, sia, in ambito domestico, agli schiavi insubordinati o ai figli che avesse-

Le donne non erano processate in pubblico. Eseguivano la condanna i familiari, tra le mura domestiche

Flagellata Scena di flagellazione da un affresco di Pompei. Era una punizione riservata a servi e schiavi insubordinati (o agli amanti delle vestali).

Le principali pene previste dal diritto romano e dalla tradizione, e le colpe alle quali erano associate. IL CATALOGO DEI SUPPLIZI

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CONDANNATI Disertori ed

omicidi.

ESECUZIONE Lancio di

pietre contro il condannato.

MORTE Emorragia,

lesione degli organi.

CONDANNATI Rei di crimini

religiosi, incen-diari, omosessuali

passivi.

ESECUZIONE Legato a un palo e

arso vivo.

MORTE Soffocamento, ustioni, infarto.

CONDANNATI Vestali infedeli,

donne adultere o che si dedicavano

al vino.

ESECUZIONE Rinchiusa per sempre in una

camera.

MORTE Per inedia.

CONDANNATI Traditori

della patria.

ESECUZIONE Condannato a es-sere gettato vivo

da un dirupo.

MORTE Lesione degli organi e della spina dorsale.

CONDANNATI Parricidi.

ESECUZIONE Lanciato in acqua

in un sacco con 4 animali: cane,

gallinaccio, scimmia e vipera.

MORTE Emorragia e

soffocamento.

LAPIDAZIONE ROGO SEPOLTURA DA VIVI RUPE TARPEA PENA DEL SACCO

ro tradito i princìpi della civitas (la cittadi-nanza): venivano uccisi a colpi di verghe.

Rimanendo in tema di traditori, i colpe-voli di crimini contro lo Stato (il reato si chiamava perduellio) incorrevano spesso nella securi percussio: la decapitazione con la scure, strumento storicamente associa-to al potere dei re di Roma. Seguito da un folto pubblico, il rito di morte era prece-duto da una processione nota come “pas-seggiata ignominiosa”. «Con le mani lega-te, il condannato veniva fustigato, pungo-lato, insultato e preso a sassate», dice l’e-sperta. «Fino a quando, al suono di una tromba, la scure cadeva sul suo collo po-nendo fine a ogni sofferenza».

Dagli alberi alle croci. Ai colpevoli di perduellio era destinata anche la pena dell’arbor infelix (“albero infelice”). Se-condo lo storico Tito Livio (59 a.C.-17) il supplizio prevedeva che il reo, con il ca-po coperto, fosse “sospeso con una corda all’albero” e poi frustato. Alcuni hanno letto tale narrazione pensando a un ritua-le di impiccagione, ma l’ipotesi è da scar-tare. «Per i Romani, impiccagione e pena capitale erano inconciliabili, poiché si cre-deva che le anime degli impiccati, aven-do esalato l’ultimo respiro sospesi in aria, non riuscissero a tornare a terra, nel regno dei defunti, e vagassero tra i vivi, terroriz-zandoli», spiega Cantarella. L’arbor infe-lix era invece assimilabile alla crocifissio-ne: il condannato veniva legato a un tron-co con una corda e lasciato al suo destino.

Questa pena (come molte altre nel mon-do antico) aveva inoltre caratteri sacrifica-

Tra mito e Storia A lato, il toro di Falaride (tiranno di Agrigento). Sotto, la punizione divina di Prometeo: il fegato divorato da un corvo.

Le principali pene previste dal diritto romano e dalla tradizione, e le colpe alle quali erano associate.

Come a Roma, anche nell’antica Grecia era-

no in uso diversi tipi di pena capitale, alcuni dei quali adottati poi nell’Ur-be. Eccone alcuni.

CROCIFISSIONE GRECA Chiamata apotympani-smos, prevedeva che il condannato fosse incate-nato a un palo e percosso con bastoni per poi es-sere abbandonato a una lunga agonia in preda a fame, sete, intemperie e morsi degli animali.

BARATHRON Il Barathron era una fos-sa profondissima situata secondo Platone lungo la strada tra Atene e l’Epiro. Qui venivano gettati i criminali.

CICUTA Dal kóneion, o pianta della cicuta, veniva estratto un potentissimo veleno che intorpidava corpo e mente, poi bloc-cava il respiro. Tra le vitti-me celebri, Socrate.

IMPALAMENTO A provocare la morte era la lacerazione degli organi, ma se questi non

venivano lesi immedia-tamente l’agonia poteva durare giorni.

IMPICCAGIONE Riservata alle donne, ri-calcava la punizione data da Ulisse (una volta tor-nato a Itaca) alle ancelle a lui infedeli. Si moriva per asfissia.

TORO DI FALARIDE Era una struttura in bron-zo a forma di toro, cava all’interno e con una por-ticina per farvi entrare il condannato di turno. Il suo destino? Essere arrostito vivo, a causa del calore proveniente da un fuoco acceso sotto la pancia dell’animale.

Anche i Greci non scherzavano

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li. Ai condannati veniva coperta la testa, proprio come avveniva quando si consa-crava una vittima agli dèi.

La crocifissione vera e propria, destina-ta soprattutto a schiavi e stranieri, impli-cava uno specifico strumento, costituito da un’asse verticale detta stipes e da una orizzontale nota come patibulum, unita alla prima dopo che il condannato l’ave-va faticosamente trasportata sulle proprie spalle. Come i Vangeli raccontano sia ac-caduto a Gesù. Non è però vero che i chio-di furono usati per Cristo in un eccesso di disprezzo e crudeltà: i resti di un condan-nato alla crocifissione, ritrovati presso Ge-rusalemme, hanno confermato che que-sta era la regola, non l’eccezione. Il mal-capitato, appeso alla croce, veniva tortu-rato con ferri roventi e colpito alle gambe fino a spezzargli le ossa. La morte soprag-giungeva per infarto, blocco respiratorio o emorragia. A metà tra l’“albero infelice” e la croce si collocava la furca: a forma di Y, vi si poggiava il collo del condannato, che moriva per soffocamento (v. a sinistra).

Al rogo. Molte esecuzioni capitali era-no eventi pubblici altamente scenografici, come nel caso della damnatio ad bestias, o condanna alle belve, introdotta nel II se-colo a.C. e riservata soprattutto agli schia-vi. Per consentire lo svolgimento dello spettacolo mortale, i cui protagonisti era-no leo ni e tigri, furono costruiti gli anfitea-tri. Un atroce impatto scenografico lo ave-vano anche le condanne al rogo, eseguite in particolare per i crimini religiosi e usate durante le persecuzioni dei cristiani (v. ri-quadro a destra). Legati a un palo rivesti-to di legni ai quali si dava fuoco, era una pena tra le più atroci. Per aumentare l’ef-fetto scenografico dei roghi veniva fatta in-dossare la tunica molesta, una veste intri-sa di pece e zolfo che contribuiva a far di-vampare le fiamme. Oltre ai cristiani, tra i destinatari della pena del rogo c’era chi dava fuoco ai campi coltivati: così, il con-dannato si trasformava in sacrificio uma-no alla dea della fertilità, Cerere. «Nel 390, l’imperatore Teodosio I (quello che rese il cristianesimo religione di Stato, ndr) sta-bilì che venissero arsi vivi tutti quelli che commettevano “l’infamia di condanna-re il corpo virile [...] a sopportare pratiche riservate all’altro sesso”», aggiunge Can-tarella. «In altri termini, tutti gli omoses-suali passivi».

giù dAllA rupe. Preferibile al rogo era il destino che attendeva disertori e doppio-giochisti, condannati alla precipitazione, o

Qualsiasi patibolo in legno affisso nel terreno veniva genericamente chiamato crux, ovvero “croce”

A ciascuno la sua croce Scultura in legno dall’Egitto romano (V secolo), raffigurante la liberazione di una città cristiana assediata dai barbari. Gli assedianti catturati sono mostrati appesi alle furcae.

TROFEII capi degli asse-dianti sconfitti esposti sulle fur-cae: era il tipo di crocifissione più rapida nel dare la morte. In molti casi avevano anche un’asse orizzontale.

ANTEFATTOIn basso, sono raffigurate scene della battaglia con la quale la città fu liberata.

LEGIONARIA protezione della città (anonima) c’era una guarni-gione romana.

ALTO PATROCINIONella parte alta del reperto, alcune figure sono forse i santi protettori.

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Page 65: Focus Storia (Gennaio 2015)

meglio a essere gettati dall’alto della Rupe Tarpea. Si trattava di uno sperone di roc-cia del Campidoglio dove, secondo la leg-genda, era morta una giovane (Tarpea) dopo essersi venduta ai Sabini.

Tra le morti più appariscenti c’era infi-ne la lapidazione, ossia il lancio di pietre contro il colpevole di turno. Era una pra-tica diffusa soprattutto in ambito privato: la usavano i parenti delle vittime di omi-cidio, autorizzati – secondo l’antica legge del taglione – a uccidere l’assassino.

Cani, gallinaCCi, sCimmie e vipere. Dato il valore, per i Romani, dell’istituzione fa-miliare, il reato peggiore era però il parri-cidio. Di conseguenza, il relativo supplizio era tra i più elaborati e crudeli: la pena del sacco (poena cullei). «Al parricida veniva-no fatti indossare degli zoccoli di legno e un cappuccio di pelle di lupo», riprende l’esperta. «Poi, dopo essere stato percos-so, il condannato veniva cucito dentro a un sacco con un cane, un gallo, una vipe-ra e una scimmia, quindi gettato in mare o nel più vicino corso d’acqua».

Si moriva per mancanza d’aria o per le ferite inferte dagli animali, la cui presen-za aveva valore simbolico: il cane gode-va di pessima fama per la parentela con i feroci lupi; il gallo era sinonimo di vio-lenza; la scimmia era considerata un “uo-mo mostruoso” e della vipera si diceva che i piccoli fossero soliti uccidere la ma-dre. Per quel che riguarda la pelle di lupo, anch’essa alludeva alla ferocia del parrici-da, mentre gli zoccoli di legno erano lega-ti alla credenza che tale materiale avesse la capacità di “isolare” gli influssi malefi-ci del condannato. A finire trucidato e get-tato in acqua (ma senza sacco), fu anche

un imperatore: Aulo Vitellio, scalzato con la forza da Vespasiano. Vitellio, narra Sve-tonio, fu trascinato nel Foro con una cor-da al collo mentre la folla “gli gettava ad-dosso dello sterco e del fango”, fino a che, “scarnificato [...], fu ucciso e trascinato con l’uncino nel Tevere”.

Ancora scene da film horror, dunque. «Sarebbe però ingiustificato e anacroni-stico pensare che i Romani avessero una

particolare tendenza alla crudeltà», avver-te la storica. A riprova, il fatto che molti supplizi dell’antica Roma sono tuttora in auge in alcuni dei Paesi dove vige la pe-na capitale, mentre altrove, a partire da-gli Usa, ne sono stati escogitati di nuovi. In molti casi, oggi come ieri, prevedendo la presenza di un piccolo pubblico in cer-ca di castigo, di espiazione o di vendetta. •

Matteo Liberti

“E coloro che morivano furono pure scher-

niti: coperti di pelli di bestie perché morissero dilaniati dai cani oppure affissi alle croci e dati alle fiamme perché, caduto il giorno, bruciassero come fiaccole notturne”. Così Tacito, negli Annali, de-scrive la condanna “crea-tiva” riservata da Nerone ai cristiani, durante una delle prime persecuzioni anticristiane, seguita al grande incendio di Ro-ma del 64 d.C.

Sediziosi. A far finire i cristiani nel mirino della repressione furono le accuse di sedizione e la confusione tra i seguaci di Gesù e quelli di altre sette (in particolare gli Zeloti). Ma fu soltanto quando il loro numero crebbe tra gli aristocra-tici, minando l’unità fra paganesimo e organiz-zazione statale, che i cri-stiani divennero nemici dello Stato, oltre che un perfetto capro espiato-rio in tempi di crisi.

Molti subirono la con-danna ad bestias: i Ro-mani non erano tipi da guerre di religione, ma non offrire sacrifici agli dèi o all’Augusto era un tradimento. Emanarono leggi ad hoc Decio e Valeriano (III secolo), ma l’ultima grande ondata di condanne la firmaro-no Diocleziano e Galerio, all’inizio del IV secolo. Poi, nel 313, Costantino “depenalizzò” quel culto ormai parte della società romana.

Sangue e arena Statuetta del II secolo trovata in Siria, con un condannato legato al toro e assalito da un felino: una pena riservata soprattutto agli schiavi, ed eseguita nelle arene.

I cristiani nel mirino di RomaRM

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Il martirio di san Pietro, di Luca Della Robbia (1400-1482).

Page 66: Focus Storia (Gennaio 2015)

Potere femminile Moneta d’oro del IV-V secolo (trasformata in pendente) con la potente Galla Placidia, madre dell’imperatore Valentiniano III.

L’ULTIMO DEI ROMANIIn un giorno della tarda primavera del

425 d.C. il popolo di Aquileia si rac-colse nel circo per assistere a un cru-dele spettacolo: l’esecuzione capitale

di Giovanni, per due anni usurpatore del trono di Ravenna. Sulla tribuna, circonda-ta da guardie del corpo, c’era la reggente Galla Placidia, figlia di Teodosio I; con lei,

suo figlio Valentiniano III, di appena 6 an-ni, da quel momento Augusto d’Occiden-te. Per l’ambiziosa Placidia era un trionfo, ma non poté gioirne a lungo. Tre giorni dopo sotto le mura della città si presentò un’armata di cavalieri unni fedeli all’usur-patore ormai liquidato. Il loro comandante era un ufficiale illirico, Flavio Ezio.

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Page 67: Focus Storia (Gennaio 2015)

L’ULTIMO DEI ROMANI

L’ascesa e la caduta di Ezio, ”uomo forte” che, con

l’appoggio degli Unni e poi dei Visigoti, fece rivivere, alla vigilia della caduta, i fasti militari dell’Urbe

Mezzo barbaro. Fino a quel momen-to rimasto ai margini della grande politi-ca, Ezio non si lasciò sfuggire l’occasio-ne per conquistare una posizione di po-tere nell’impero. Galla Placidia non aveva altra scelta che scendere a patti con chi le chiedeva udienza alla testa di un esercito così temibile, in pieno assetto di guerra.

Generalissimo Il comandante

romano Flavio Ezio in una stampa che

riprende una statua antica. A sinistra, la Battaglia dei Campi

Catalaunici, in cui Ezio sconfisse Attila,

re degli Unni (451).

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Page 68: Focus Storia (Gennaio 2015)

Ezio tentò di trovare un equilibrio tra i vari popoli dell’impero. Fino al punto di allearsi con gli UnniQuel nome, Flavio Ezio, sarebbe diven-

tato presto sinonimo di condottiero mici-diale, l’ultimo grande generale delle legio-ni romane. E pensare che era un barbaro.

Ezio aveva allora circa 35 anni. Origina-rio di Durostorum sul basso Danubio (og-gi Silistra, in Bulgaria), aveva trascorso l’a-dolescenza e una parte della giovinezza come ostaggio, prima alla corte del re vi-sigoto Alarico e poi presso gli Unni. I qua-

li non erano più i feroci selvaggi descritti dallo storiografo Ammiano Marcellino al-la fine del IV secolo. Ma facevano anco-ra paura. Sicuro della loro lealtà, Ezio of-frì a Galla Placidia la pace in cambio di un risarcimento (terre e ricchezze) per i sol-dati e del titolo di comes per sé, ovvero di un ruolo nel governo dell’Impero romano d’Occidente. Galla Placidia, a malincuore, fu costretta a cedere.

Doppia anima. Cominciò in questo modo la carriera di quello che lo storico Proco-pio di Cesarea, attorno alla metà del VI se-colo, avrebbe definito “l’ultimo vero roma-no” per la sua virtus (un mix di coraggio e audacia, temperate da disciplina e spi-rito di sacrificio) e per l’abilità nel gesti-re l’intricata situazione politica salvando quel che rimaneva del prestigio imperiale.

Flavio Ezio ci riuscì perché seppe uni-re alla spietatezza militare la novità rap-presentata da lui stesso: un nuovo tipo di condottiero, mezzo barbaro e mezzo ro-mano. Questa doppia anima lo portò a cercare un equilibrio tra le diverse popo-lazioni ormai insediate sul territorio ro-mano, nella consapevolezza che soltanto sfruttandone la forza sarebbe stato possi-bile evitare la dissoluzione dell’impero.

Ezio giocò la sua partita su due fron-ti: combattendo per gli interessi dell’im-pero in Gallia e in difesa dei propri in Ita-lia. Nell’uno e nell’altro caso contò su un’arma insuperabile: i reparti di cava-lieri unni, che il suo amico Rua continuò a fornirgli.

Tra il 426 e il 429 Ezio spezzò l’asse-dio di Arelate (Arles) da parte dei Goti, respinse i Visigoti in Armorica (l’attuale Bretagna), rintuzzò le scorrerie dei Fran-chi a nord della Senna e ristabilì l’autorità romana ai confini con la Germania: come avrebbe recitato il cantore ufficiale Mero-baude, “anche il Reno gioisce, perché su entrambe le sue sponde si accresce la po-tenza del Tevere”.

il “DaDo” Di Ezio. Ma la vera partita per il potere si giocava a Ravenna, alla cor-te di Valentiniano III. Galla Placidia con-tinuava a non fidarsi di Ezio. Nel 431 la reggente decise di promuovere il comes Africae Bonifacio alla massima carica mi-litare dell’impero (magister utriusque mi-litiae). Come Giulio Cesare prima di lui, anche Ezio, vittorioso in Gallia, si trovò di fronte al suo “Rubicone”: accettare un ruolo di secondo piano o marciare sull’I-talia con il proprio esercito e combatte-

re per conquistare il potere. Come Ce-sare, anche Ezio attraversò le Alpi,

la Pianura Padana e il fiume Rubi-

Page 69: Focus Storia (Gennaio 2015)

Ezio tentò di trovare un equilibrio tra i vari popoli dell’impero. Fino al punto di allearsi con gli Unnicone, scontrandosi con l’esercito di Boni-facio tra Ravenna e Rimini, nell’estate del 432. E qui il parallelo con Cesare finisce. Ezio subì qui la sua unica sconfitta in uno scontro campale. Dovette fuggire, prima a Roma e poi nell’unico luogo davvero sicu-ro: la corte unna di Rua.

La rivincita non si fece attendere. Mor-to Bonifacio, per la terza volta Ezio marciò sull’Italia alla testa di un’armata di cava-lieri unni e mercenari goti. Trovò ad atten-derlo il genero di Bonifacio, Sebastiano, con quel che restava dell’esercito fedele a Galla Placidia e Valentiniano. Ancora una volta Ezio si presentò sotto le mura (a Ra-venna) e Galla Placidia fu costretta ad ac-cettare il fatto compiuto: Ezio fu nomina-to magister utriusque militiae, “generalis-simo” dell’impero e arbitro incontrastato del suo destino politico e militare.

Il massacro deI BurgundI. Gli anni suc-cessivi, poco documentati dalle fonti, fu-rono determinanti per la formazione della nuova Europa romano-barbarica. Ezio la forgiò con l’esercito, applicando con meto-

do pochi princìpi fondamentali: rinunciare alla dimensione mediterranea del vecchio impero, concentrare le risorse in Italia e in Gallia; sfruttare cinicamente le divisio-ni esistenti tra i popoli barbari, blandir-li, ricompensarli o punirli a seconda del-la loro fedeltà, favorendone la progressi-va assimilazione attraverso forme di par-ziale autonomia.

Per realizzare questa politica di “con-trollo attivo”, Ezio sfruttò la sua solita ar-ma vincente, ovvero l’alleanza con i te-mutissimi guerrieri unni: grazie al loro aiuto, nel 436, decimò i Burgundi, che dalla regione intorno alle attuali Worms e Strasburgo conducevano continue scorre-rie in Gallia. La punizione inflitta ai Bur-gundi dai mercenari unni ebbe la dimen-sione di una tragedia collettiva: la cultu-ra germanica ne conservò memoria nella saga dei Nibelunghi.

La campagna del 436 fu però l’ultima in cui Ezio poté contare sull’appoggio degli Unni. Il suo vecchio amico Rua morì pro-prio in quell’anno, lasciando il potere ai propri nipoti Attila e Bleda. Che, inizial-mente, attaccarono le province controllate da Costantinopoli, imponendo a Teodosio II una pace onerosa nel 443. A quel pun-to, Attila decise di sbarazzarsi del fratello e rivolse le sue mire all’Occidente.

Insoliti alleati In primo piano,

un cavaliere unno (con l’arco

lungo e un gladio alla cintura), un

cavaliere romano dei bucellarii (guerrieri barbarici assoldati

dai Romani) e un generale romano.

A sinistra, il re degli Unni Attila in una

stampa d’epoca.

Galla PlacidiaFiglia di Teodosio I,

madre dell’imperatore Valentiniano III,

di cui fu reggente.

I mosaici del Mausoleo di

Galla Placidia a Ravenna,

capolavoro di arte bizantina.

Bonifacio Generale (comes)

dell’Impero romano e governatore della

“diocesi” d’Africa.

Rua Re degli Unni (e zio di

Attila), appoggiò Ezio aiutandolo

contro Bonifacio.

I CO-PROTAGONISTI

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Page 70: Focus Storia (Gennaio 2015)

Quando Attila avanzò su Roma, il pragmatico Ezio si alleò con i Visigoti. Così sconfisse gli ex alleati unni

Il cIclone AttIlA. Spregiudicato e am-bizioso – oltre che molto più “civilizza-to” di quanto non racconti la tradizione sul “flagello di Dio” – Attila aveva deci-so di espandere il proprio dominio in Eu-ropa. Se possibile con le buone, per esem-pio sposando la sorella maggiore di Valen-tiniano III, Onoria, altrimenti con la forza.

Ezio si trovò così non solo privo dell’aiu-to militare degli Unni, ma addirittura co-stretto a fronteggiare la minaccia di un’in-vasione da parte loro: la politica aggressi-va di Attila metteva impietosamente a nu-do la sua fragilità, costringendolo a creare in tutta fretta una nuova alleanza con i Vi-sigoti. La resa dei conti fra l’ex alleato e Attila avvenne in Gallia, nella Battaglia dei Campi Catalaunici, ultima grande vittoria romana (v. riquadro in basso).

l’AvAnzAtA unnA. Nonostante la vitto-ria su Attila, le difficoltà per Ezio aumen-tarono. Torrismondo, figlio del re visigoto Teo dorico, attaccò subito l’impero, e an-che Attila preparava una nuova offensiva. Dopo aver fatto sgomberare la corte da Ra-venna, a Ezio non restò che temporeggia-re, contando sulla solidità delle mura cit-tadine e sulla vulnerabilità del nemico alle malattie nel clima sfavorevole della Pianu-ra Padana. Dopo un lungo assedio Aqui-leia cadde e fu rasa al suolo.

Ma Attila aveva subìto perdite gravi e sprecato tempo prezioso, trovandosi co-stretto ad avanzare verso il Po nel pieno dell’estate. A quel punto si sarebbe verifi-cato il celebre incontro sulla riva del Min-

cio con papa Leone I, che avrebbe persua-so il re unno a ritirarsi. La leggenda po-trebbe contenere un nocciolo di verità: la decisione di tornare sui propri passi Atti-la potrebbe averla presa davvero, ma per sfuggire alle epidemie che decimavano i suoi uomini. L’anno successivo, dopo una notte movimentata, fu trovato morto nel suo letto dalla giovane che aveva appena preso in moglie. I cavalieri unni svanirono con lui dalla storia europea.

lA fIne dI ezIo (e dell’Impero). Non era invece svanito Ezio. Nel 453 Torrismon-do fu liquidato dall’ennesima congiura e la situazione in Gallia tornò relativamente tranquilla. Sembrava non esserci più biso-gno di un “uomo forte”: la condotta pru-

dente di Ezio dopo la vittoria su Attila, giustificata dal pragmatismo, fu utilizza-ta dai nemici per screditarlo. L’ambizioso Petronio Massimo, ministro delle finanze di Valentiniano III, convinse l’imperatore che il magister utriusque militiae proget-tava di ucciderlo e impadronirsi del trono.

Per togliersi il pensiero, il 21 settembre 454 Valentiniano III uccise Ezio con l’aiu-to di un ciambellano. Ma l’imperatore, co-me gli venne ben presto fatto notare, “con la mano sinistra si era tagliato il braccio destro”: da quel giorno, con la scomparsa dell’“ultimo dei Romani”, nessuno sareb-be stato più in grado di difendere gli inte-ressi dell’Impero d’Occidente. •

Gastone Breccia

Il mistero dei Campi Catalaunici Attila erige un rogo dopo la sconfitta subita da

parte di Ezio, pronto a bruciarsi piuttosto che arrendersi. In realtà, il romano lo lascerà andare.

Attila invase la Gallia nella primavera

del 451 alla testa di un esercito costituito in larga parte dai suoi sudditi germanici. Contro questa armata possente (anche se le cifre delle fonti antiche, che parlano di 500.000

uomini, sono certa-mente gonfiate) Ezio schierò una coalizione di Franchi, Burgundi e Visigoti, il cui re Teode-rico si fece persuadere a opporsi all’invasione. Ezio dapprima sorprese l’armata nemica men-tre stava per assediare

Aurelianum (Orléans), costringendola a ri-piegare oltre la Loira. Attila si accampò per riorganizzare le proprie forze in una località indicata come Campi Catalaunici, nei pressi dell’attuale Châlons-en-Champagne: qui

lo raggiunse l’esercito romano-visigoto e qui, il 20 giugno del 451, fu sconfitto dopo una durissima battaglia. Mistero. Ezio non volle inseguire Attila sconfitto. Perché? Se-condo il cronista goto Giordane, temeva che,

se gli Unni fossero stati annientati, i Visigoti avrebbero potuto rom-pere l’alleanza e diven-tare a loro volta una minaccia per l’impero. Ma è più probabile che il suo esercito fosse altrettanto provato di quello nemico.

Perché Ezio, dopo aver sconfitto Attila, non lo inseguì?

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I supplizi capitaliEva Cantarella (Feltrinelli)Attingendo a fonti giuridiche, religiose e letterarie, la storica traccia il ritratto di una classicità poco conosciuta, fatta di luci e ombre, ragione e istinto, senso civico e pulsione tribale. Analizzando origini, significato e funzioni della morte di Stato in Grecia e nell’antica Roma.

Il supplizio come spettacoloCinzia Vismara(Edizioni Quasar)La visione delle torture, delle esecuzioni dei condannati a morte e della violenza era frequente nelle città romane: fra gli intrattenimenti più graditi al pubblico non a caso c’erano i combattimenti tra gladiatori. Il saggio (parte di una collana del Museo della civiltà romana) descrive gli aspetti

Memorie di AgrippinaPierre Grimal(Garzanti)Pronipote di Augusto, sorella di Caligola, madre di Nerone, Agrippina domina con il suo tragico destino, una delle epoche più fosche e insieme più importanti della storia romana. Pierre Grimal combina, in questo pregevole saggio, il rigore della ricostruzione storica con gli intrecci della narrativa. NeroneEdward Champlin (Laterza)La dubbia fama di Nerone per due millenni è stata fondata su una serie di gesti pubblici stravaganti,

talvolta violenti. Senza tentare di riabilitare “il mostro” che la Storia ci ha consegnato, Edward Champlin, docente alla Princeton University, mette in luce la determinazione con cui Nerone plasmò la propria vicenda ispirandosi alla mitologia greca e romana.

La guerra giudaicaFlavio Giuseppe(Mondadori)Il disperato tentativo del popolo ebreo, guidato dalla fazione degli Zeloti, di sottrarsi al dominio romano nel drammatico resoconto dello storico ebreo Flavio Giuseppe (38-103 d.C.), testimone oculare (e parte in causa) di quella tragedia.

del supplizio in età imperiale. Mettendo in luce elementi che coinvolgono diritto, morale e che sollevano discussioni .

Servizi segreti in Roma antica Anna Maria Liberati, Enrico Silverio(L’Erma di Bretschneider )Informazioni e sicurezza dalla fondazione di Roma alla creazione dell’impero universale. Lo sviluppo dei “servizi segreti” dell’ antichità, dai tempi della sfida tra Orazi e Curiazi fino alla difesa delle frontiere contro i barbari.

Gladiatori. Sangue e spettacolo nell’antica RomaKostantin Nossov(Editrice Goriziana)L’opera raccoglie i risultati delle ricerche più recenti riguardanti i gladiatori, per offrire un quadro più completo della loro storia. Per conoscere l’evoluzione della gladiatura anche attraverso l’apparato iconografico.

Cristiani messi al rogo da Nerone, in un dipinto ottocentesco di Henryk Siemiradzki.

Caligola (da una miniserie

britannica per la televisione).

Perché la storia dell’antica Roma è costellata da episodi di crudeltà e di sangue? Le risposte, oltre l’aneddotica.

ROMA VIOLENTA

Anche questo mese History, il canale di Sky

dedicato alla Storia, affronta il tema in primo piano su questo numero di Focus Storia. Lo fa con tre documentari “psicolo-gici” su altrettante figure spre-giudicate della Roma antica.

CALIGOLACaligola è passato alla Storia come uno degli imperatori romani più viziosi. Ma fu dav-vero così? Nel documentario vengono ripercorse le tappe principali della sua vita per ca-pire quali sono state le espe-

rienze che potrebbero averlo indotto ad agire così.Mercoledì 7 gennaio, ore 8:45

NERONENerone fu un crudele tiranno, o almeno questo è quello che la storiografia antica ci ha tramandato. La verità è che fu un bambino allevato da una madre con gravi problemi psi-cologici, incapace di impartire un’educazione equilibrata al figlio (che non voleva nem-meno diventare imperatore). Il documentario ricostruisce il profilo psicologico di una

delle figure più chiacchierate dell’antica Roma.Venerdì 9 gennaio, ore 8:45

GIULIO CESARE Il successo di Cesare non fu costruito solo con il genio militare. Questa “indagine psicologica” rivela l’indole di un uomo disposto a qual-siasi cosa per raggiungere i suoi obbiettivi: era dotato di un’ambizione sfrenata e di una megalomania che contri-buirono a renderlo l’uomo più potente del suo tempo.Venerdì 16 gennaio, ore 14:15

La Storia raccontata in queste pagine rivive anche in tv

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Le Fiandre, a cavallo fra Cinquecento e Seicento, stavano emer-gendo come potenza commerciale di scala mondiale. La cit-

tà di Anversa era uno dei centri principali della regione belga e Nicolaas Rockox (1560-1640), borgomastro (cioè il sindaco), ric-co borghese e avvocato, ne fu un tipico esponente. Questo dipin-to di Frans Francken del 1630-35 (conservato nella Alte Pinako-thek di Monaco di Baviera) ritrae un banchetto a casa Rockox.

Convivio. Al centro della scena raffigurata nel dipinto si vede l’allegra convivialità di un pranzo tenuto nella sala grande del palazzo del sindaco. L’edificio fu acquistato da Rockox nel 1603, ed era affacciato sulla centralissima Keizerstraat: ancora esisten-te, è oggi un museo.

La sala ospitava la ricca collezione d’arte del borgomastro, uomo di raffinata cultura umanistica che, seguendo il gusto del tempo, costituì nel corso degli anni una raccolta eteroge-nea. Tra i suoi “pezzi” figuravano antichi reperti di scultura greco-romana, dipinti della sua epoca (fu amico e grande so-stenitore di Rubens, autentica “star” dell’arte fiamminga), li-bri, monete antiche, curiosità naturalistiche. Questa collezio-ne d’arte e la sua esaltazione in un dipinto testimoniano di una grande passione, ma riflettono anche il desiderio di imi-tare lo stile di vita della nobiltà. Soprattutto, esprimono la vo-lontà di esibire la propria ricchezza: una questione di grande rilievo in una società mercantile come quella fiamminga, fonda-ta in primo luogo sul credito e sul capitale. •

Edoardo Monti

I banchetti di un notabile borghese nelle Fiandre del ’600 servivano anche a esibire ricchezza e cultura del padrone di casa.

A pranzo dal sindaco di Anversa

1 I dipinti sono disposti sul-le pareti fino quasi al soffitto. Ai prevalenti soggetti sacri e biblici si accostavano nature morte, sce-ne di genere, ritratti e paesaggi.

2 Oltre la porta si scorge un’o-pera di Pieter Paul Rubens: l’In-credulità di san Tommaso (1614 ca.), pannello centrale di un tritti-co commissionato da Rockox per la cappella di famiglia nella chie-sa dei Recolletti di Anversa (oggi in un museo cittadino).

3 Sopra il camino domina la sa-la uno dei più noti dipinti di Ru-bens, Sansone e Dalila (1609-10), commissionato all’artista dal bor-gomastro. Oggi è alla National Gallery di Londra.

5 Quando acquistò il palazzo, Rockox lo fece ristrutturare ispi-randosi ai celebrati modelli del Rinascimento italiano, come te-stimoniano le sontuose cornici delle porte e il camino.

4 Il quadro Il cambiavalute con la moglie, ispirato a una celebre opera del fiammingo Quentin Metsys (oggi al Louvre), rimanda all’importanza dei commerci in-ternazionali nelle Fiandre.

6 Rockox possedeva una colle-zione di conchiglie. Arrivavano con le navi mercantili dai mari più lontani ed erano oggetti co-stosi, talvolta elaborati da orafi e argentieri.

7 I libri sottolineano la ricchez-za del padrone di casa: la biblio-teca del borgomastro ospitava oltre 200 volumi, un numero più che ragguardevole per l’epoca.

8 Le grandi e spesse gorgiere ancora di moda all’inizio del se-colo lasciarono il posto, nella mo-da femminile come in quella ma-schile, ad ampi colletti di pizzo ri-cadenti sulle spalle.

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9 Gli abiti femminili alla mo-da erano più morbidi, con scol-lature più generose, bordate da colletti di pizzo. Cappelli e cuf-fie non erano più d’obbligo, nemmeno in pubblico.

10 Le ostriche erano apprezza-te e non esenti da significati sim-bolici, in genere sessuali: a que-sti molluschi si attribuivano po-teri afrodisiaci.

12 Gli stivali di cuoio, con gli speroni e la “farfalla” (un fiocco in pelle sul collo del piede), era-no indispensabili per i gentiluo-mini. Una fodera di lino proteg-geva poi le delicate calze di seta.

11 Negli anni Trenta del ’600 i farsetti maschili si fecero più morbidi e le maniche più larghe, di foggia rinascimentale. I pan-taloni si allungarono fin sotto il ginocchio e i cappelli diventaro-no a tesa più ampia e mossa.

13 I bicchieri più pregiati ve-nivano dalle vetrerie di Mura-no, dove a metà del ’400 era sta-to scoperto il procedimento per creare il cristallo. Dalla fine del ’500 si erano diffusi in Europa.

14 I pappagalli colorati erano simboli del giardino dell’Eden (le foreste brasiliane scoperte da poco più di un secolo erano vi-ste come un paradiso terrestre) e di Eva. La loro presenza in que-sta scena può essere interpreta-ta come un’allusione alla lussuria e al desiderio, in relazione all’al-legra promiscuità nella stanza.

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Page 76: Focus Storia (Gennaio 2015)

Da dove viene il motto “keep calm and carry on”?Domanda posta da Alessandra Bernardi.

Chi ha inventato l’anestesia?Domanda posta da Jacopo Silvestri.

Che cosa avvenne realmente a Tunguska il 30 giugno 1908?Domanda posta da Anna Parisi.

La mattina del 30 giugno 1908 nei cieli vicino a Tunguska, loca-

lità della Siberia Centrale che pren-de il nome dal fiume Tunguska Pietrosa, si verificò un’esplosione di potenza pari a mille atomiche di Hiroshima. Fu probabilmente l’ef-fetto dell’impatto di un asteroide di circa 30 km di diametro con la nostra atmosfera. La deflagrazione del corpo celeste avvenne a un’al-tezza di 8 km, causando un’onda d’urto che colpì il suolo: fra 60 e 80

I tre poster prodotti nel 1939 dal governo britannico.

Doveva servire a incoraggiare la popolazione a non farsi prendere dal panico in caso di eventi bellici.Padre sconosciuto. Il poster, realizzato da un designer rimasto ignoto, era il terzo di una serie, tutti sovrastati dalla corona simbolo del Regno Unito. Ma a differenza dei due precedenti (“Il tuo coraggio, il tuo vigore e la tua fermezza ci porteranno alla vittoria” e “La libertà è in pericolo. Difendila con tutte le

milioni di alberi furono abbattuti, i vagoni della Transiberiana (a 600 chilometri di distanza) rischiarono di deragliare e i cieli si illuminarono

in luoghi lontanissimi (si racconta che a Londra, dove era mezzanot-te, si poteva leggere un giornale senza bisogno di luce artificiale).

A cura di Marta Erba e Maria Lombardi

tue forze”), distribuiti in centinaia di migliaia di copie, quello oggi più famoso ebbe allora scarsissima diffusione: si era infatti deciso di utilizzarlo in caso di raid aerei, ma poi si ritenne l’intera operazione troppo costosa e fu quindi abban-donata. Riscoperto nel 2000, da allora è stato usato da compagnie private per pubblicizzare una vasta gamma di prodotti, ed è finito su più di un gadget.

Ricerche. Tra il 1927 e il 1939, il mineralologo russo Leonid Alekseevič Kulik organizzò quattro spedizioni nella regione, ma non fu mai trovato alcun cratere o altre prove dell’impatto, né frammenti. Tuttavia, nel 1991, il dipartimento di Fisica dell’Università di Bologna ipotizzò che un frammento dalle dimensioni di pochi metri colpì il suolo formando il lago Cheko, situato a una decina di chilometri dall’epicentro dell’esplosione.

Alberi abbattuti a Tunguska nel 1908.

GETT

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AGES

Questo motto inglese, che invita a mantenere la calma e

ad andare avanti – e che nei social network è diventato un vero tor-mentone, con moltissime varianti e parodie – risale alla vigilia della Seconda guerra mondiale. Faceva parte di un poster prodotto dal ministero dell’Informazione bri-tannica tra il 27 giugno e il 6 luglio 1939, quando per l’Inghilterra si prospettavano tempi difficili.

Era il 1846 quando nacque l’anestesia moderna, quella in-

dotta usando un gas: l’ete-re. Prima di questa data, su-bire un intervento chirurgico significava soffrire in modo orribile: il paziente rimane-va sveglio e semicosciente, se non del tutto cosciente.

domande & risposte

Queste pagine sono aperte a soddisfare le curiosità dei lettori, purché i quesiti siano di interesse generale. Non si forniscono risposte private. Scrivete a Focus Storia, via Battistotti Sassi 11/a, 20133 Milano o all’e-mail [email protected]

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Page 77: Focus Storia (Gennaio 2015)

Chi erano i Carni?Domanda posta da Roberto Santellani.

Si chiamava così una popolazio-ne celtica che nel V secolo a.C.,

a causa della crescita demografica e delle pressioni dei popoli germa-nici, si spostò dalle originarie pia-nure tra Reno e Danubio fino alle regioni alpine corrispondenti alle attuali Carnia (in Friuli) e Carinzia (in Austria).Qui i Carni si dedicaro-no alla caccia e alla pastorizia, ma

William Morton illustra ai colleghi il funzionamento dell’etere, in un dipinto ottocentesco.

Il panorama friulano, con le

Alpi Carniche.

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anche alla lavorazione del ferro e del legno. Queste genti erano co-mandate da un re e da una casta sacerdotale composta, come nelle tradizioni celtiche, da druidi.Data storica. Intorno al 186 a.C., 12mila Carni scesero verso le zone pianeggianti e vi fondarono un insediamento fortificato, Akileja. I Romani reagirono quasi immedia-

tamente e, nel 183 a.C., ricacciaro-no i Carni oltre le Alpi, fondando a difesa dei confini una colonia che chiamarono Aquileia, riprendendo il primo nome dell’ insediamento.L’assoggettamento dei Carni ai Ro-mani avvenne nel 115 a.C., a opera del console Marco Emilio Scauro, che avviò anche una progressiva latinizzazione della loro lingua. DE

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Per tentare di alleviare il do-lore, per lungo tempo si utiliz-zarono sostanze stupefacenti come l’oppio, l’hashish e an-che l’alcol. Mentre nell’ulti-mo decennio del Settecento si iniziarono i primi esperimenti di anestesia moderna con l’u-tilizzo del “gas esilarante” (il protossido d’azoto).

Il primo a servirsi dell’ete-re fu Crawford Long nel 1842, che però non pubblicò i risul-tati ottenuti. Perdendo così la paternità di una scoperta che rivoluzionò la medicina. Leg-genda vuole che l’idea di ser-virsi di questo gas in ambito sanitario sia nata in un luna park, dove la sostanza era l’at-

trazione nello spettacolo di un saltimbanco.

Scopritore ufficiale. Al di là degli aneddoti, non sem-pre attendibili, nel 1846 l’etere iniziò a diffondersi come nar-cotico. Fu il dentista William Morton, su suggerimento del collega Charles Jackson (con il quale ebbe poi una disputa

legale per la proprietà intellet-tuale della scoperta), il primo a usare il gas per estrarre un dente. Vista l’esperienza posi-tiva, lo consigliò ai chirurghi. La prima operazione “indolo-re” fu compiuta da John Col-lins Warren su un paziente a cui doveva essere asportato un tumore al collo. •

Page 78: Focus Storia (Gennaio 2015)

UN REGALO PER TEL’usanza di scambiarsi doni è vecchia

quanto l’uomo. Ma nel corso dei secoli ha mutato significato. Che cosa ci

si regalava e quale fu il primo regalo?

“Se si vuol che l’amicizia si manten-ga, bisogna che una borsa vada e l’altra venga”, dice il proverbio. E mai come a Natale le borse, vuoi

per amicizia, vuoi per ragioni di circostanza, vanno e vengono. La pratica dello scambio dei doni il 25 dicembre però è antica ed è figlia di un crogiolo di tradizioni: alcune pagane, altre religiose, tutte arcaiche. C’è chi dice per esem-pio sia stato un vescovo bizantino – in Italia

TESTATINACOSTUME

Page 79: Focus Storia (Gennaio 2015)

UN REGALO PER TEOro, incenso

e mirraA sinistra, mosaico

con l’Adorazione dei Magi a Ravenna

(VI secolo). A destra, rappresentazione di

Babbo Natale di inizio ’900. In origine la sua

casacca era verde.

L’antropologo fran­cese Marcel Mauss

a inizio ’900 analizzò il dono in diverse socie­tà primitive. E raccon­tò le sue conclusioni nel Saggio sul dono (1923). In queste cul­ture, spiegò, lo scam­bio assumeva una for­ma differente rispetto a quella a cui ci ha abituato la logica utili­taristica dello scambio di mercato. Le transa­zioni economiche si basavano infatti sulla logica della reciproci­tà, riassumibile nella formula “dare, riceve­re, ricambiare”. Chi faceva un dono a un altro lo obbligava a sua volta a ricambiare. Si trattava di un obbli­go morale, non perse­guibile per legge, né sanzionabile. Il valore del dono stava quindi nell’assenza di garan­zie per il donatore. Il che presupponeva

una grande fiducia negli altri. Il potlatch. Un’altra pratica “sovversiva” rispetto alle logiche dell’economia di mer­cato era il potlatch, cerimonia rituale tipi­ca dei nativi nordame­ricani che serviva a stipulare o rinforzare le relazioni gerarchi­che tra i vari gruppi. Attraverso il potlatch individui dello stesso status sociale distribu­vano doni o facevano a gara a distruggere beni preziosi per affer­mare pubblicamente il proprio rango (o per riacquistarlo nel caso lo avessero perso). Così si bruciava carne di foca e di salmone, si incenerivano i vestiti, si spargeva per terra olio e sale. Chi più “distruggeva” o “spre­cava”, più saliva nella gara alla conquista del primato sociale.

conosciuto come san Nicola di Bari – a dar vi-ta nel IV secolo all’usanza di nascondere pic-coli doni nelle scarpe che i bambini lasciava-no fuori dalla porta a Natale. Gettando il se-me della tradizione di Santa Claus (alias Sankt Nikolaus). La celebrazione della nascita di Ge-sù proprio a fine anno sarebbe invece una cri-stianizzazione di un precedente rito pagano. Ma perché ci si scambiano regali? E che signi-ficato hanno avuto nei secoli?

Mauss: l’economia del dono

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CirColo virtuoso. «Fin dall’epoca degli eroi omerici lo scambio di doni poteva sottoli­neare un rapporto paritario fra due individui, ma anche disuguale, creando dipendenza e subordinazione», spiega Gianluca Cuniberti, docente di Storia greca all’Università di Tori­no. «Poteva segnare per esempio il passaggio di oggetti preziosi e talismanici che davano il potere a chi li deteneva; e poteva addirittura essere il mezzo di un’azione risarcitoria che riparava un danno subìto, evitando altre so­luzioni, magari violente».

Il grande ruolo svolto dai doni nella cultu­ra greca, spiegherebbe così perché proprio un regalo – il famigerato cavallo di Troia – se­gna uno degli episodi più epici dell’antichità. Quando i Troiani trovarono l’animale di legno davanti alle loro mura non si insospettirono. Credettero in buona fede che si trattasse di un dono di pace, fatto dagli Achei, ovvero i Gre­ci. Pratica frequente allora. Lo stesso re gre­co Agamennone aveva provato a placare l’i­ra di Achille a forza di doni, a conferma che la pratica era assai diffusa. Su cosa donare, ci si poteva sbizzarrire. «Gli oggetti erano spes­so simbolici», precisa lo storico. «Solitamen­te rappresentavano un oggetto importante in scala ridotta. Per questo sono frequenti ritro­vamenti di carri e armi in miniatura, statuine antropomorfe di ogni tipo e oggetti che si de­finiscono pre­monetari perché, usati in gran numero, hanno svolto una funzione che poi è stato assunta dalla moneta».

regali “firmati”. La pratica di scambiarsi doni simbolici, per cementare alleanze o risol­vere conflitti, si tramandò anche tra gli Etru­schi. I ritrovamenti archeologici hanno con­fermato che questo popolo offriva agli dèi og­getti in miniatura (rappresentazioni di ani­mali, cibo o beni preziosi), usati anche come merce di scambio all’interno della comunità. Spesso chi li donava vi incideva la propria fir­ma. Il tutto per una ragione di prestigio: ini­zialmente la società etrusca era strutturata in­torno a pochissime famiglie aristocratiche che dovevano ribadire e ostentare il loro potere. E uno dei modi per farlo era servirsi del cosid­detto “circuito del dono”. Regalare a qualcuno

Per i Greci l’ospite era sacro. Dopo il suo soggiorno lo si omaggiava con uno xenia: un simbolico dono d’ addio

GIARDINI PENSILIIl re babilonese Nabucodonosor II si dice che fece costruire i celebri giardini con le piante preferite della moglie Amytis, che soffriva di

nostalgia per la sua patria, l’antico Iran.

590 A.C.

ABUL-ABBASEra il nome dell’elefante albino asiatico di Carlo Magno, ricevuto in dono dal califfo

di Baghdad, Harun al-Rashid, nel 798.

798

REGINA FORMAGGIATAPer il suo matrimonio, la regina Vittoria

d’Inghilterra, tra i vari regali, ricevette una gigantesca forma di formaggio del diametro

di 3 metri e pesante mezza tonnellata.

1840ORECCHIO D’ARTISTA

Van Gogh si tagliò un orecchio nel 1888. Secondo alcuni biografi, il pittore inviò la parte mozzata a Rachele, prostituta di cui

si era invaghito, come pegno d’amore.

1888

BACCO DI CARAVAGGIOFu donato dal cardinale Del Monte a

Ferdinando I de’ Medici, in occasione delle nozze del figlio di questi, Cosimo II.

1596

II MILLENNIO A.C.IL CAVALLO DI TROIA

Durante la guerra con gli Achei, i Troiani fecero entrare il famigerato cavallo

all’interno della città, convinti che fosse un dono di pace da parte dei nemici.

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LA STATUA DELLA LIBERTÀ

Fu costruita in Francia e donata agli americani in segno di alleanza per celebrare il

centenario della nascita degli Stati Uniti.

1889

I DIECI REGALI

PIÙ CURIOSI DELLA STORIA

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AQUILA “AVVELENATA”Durante la Guerra fredda un ambasciatore

russo donò al governo Usa una versione dello stemma americano. Nel becco c’era però una sofisticata cimice. Fu scoperta solo nel 1952.

1945

A 68 CARATINel 1969 l’attore Richard Burton donò

alla moglie Liz Taylor un diamante da 68 carati a forma di goccia, venduto poi nel 1979

per ben 5 milioni di dollari.

1969

PISTA DA BOWLING Il presidente americano Harry Truman ricevette per il compleanno una pista da bowling a due

corsie. Venne installata alla Casa Bianca.

1947

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Page 82: Focus Storia (Gennaio 2015)

della propria cerchia un manufatto “firmato” che il destinatario a sua volta poteva riciclare, facendo così circolare il nome del primo do-natore. Il circuito consisteva, secondo gli stu-diosi, proprio in questo: nell’atto del regalare, senza avere la garanzia di una contropartita. Secondo la definizione del sociologo canadese Jacques T. Godbout, un dono è “ogni presta-zione di beni e servizi effettuata, senza garan-zia di restituzione, al fine di creare, alimenta-re o ricreare il legame sociale tra le persone”.

Natale alla romaNa. A Roma si diffuse l’u-sanza di scambiarsi i regali proprio a fine an-no, a ridosso di quello che nella cultura cri-stiana sarà il Natale: non a caso fin dalla pri-ma fondazione dell’Urbe si omaggiava il co-siddetto dio degli inizi, Giano, e la dea Strenia (dalla quale deriva la parola “strenna”, rega-lo), per avere prosperità per il nuovo anno. Come rito augurale ci si scambiavano ramo-scelli di alloro, ulivo, fico, che vennero poi sostituiti da piccoli oggetti, per la gioia dei bambini che invece ricevevano in dono dol-cetti di pasta e marzapane.

Nello stesso mese invernale si tenevano an-che i Saturnalia (dal 17 al 23 dicembre): fe-steggiamenti, banchetti e sacrifici al dio Sa-turno. Da alcuni epigrammi di Marziale sco-priamo che i Romani in questa occasione si scambiavano regali economici come dadi, candele di cera colorata, abiti, libri, una mo-neta, piccoli animali domestici.

La diffusione del cristianesimo comportò un “giro di vite” per il sistema del dono. Se da un lato la nuova religione fece proprie mol-te tradizioni pagane, scegliendo per esempio il 25 dicembre (festa di fertilità del Sol Invic-tus) per celebrare la nascita di Gesù, dall’al-tra reinterpretò l’idea di regalo. «La religione cristiana ha sdoganato la concezione del do-no come atto gratuito nei confronti dell’altro, secondo gli insegnamenti di Gesù. Il dono per eccellenza divenne fare offerte ai pove-ri», precisa Andrea Salvini, docente di Meto-dologia e ricerca sociale all’Università di Pi-sa. Il regalo non serviva più a ribadire il pro-prio ruolo sociale. Diventava semplicemente un modo per guadagnarsi un posto in Paradi-so. Era un atto di carità.

magNificeNza. La sobrietà chiesta al popolo di Dio rimase invece estranea alla sfera poli-tica. Già nel Medioevo e ancor più nel Rina-scimento: alla corte di Lorenzo il Magnifico, nella Firenze del ’400, approdavano spes-so sontuosi regali, doni degli amba-sciatori stranieri. Tra i regali più simbolici, il Magnifico ricevet-te per il figlio Giovanni il cap-pello cardinalizio dal pontefice

Per gli antichi gli oggetti avevano un’anima. Questo contribuiva a potenziare il valore di “collante sociale” di doni e regali

La Befana del vigile Vigili urbani ricevono i doni per l’Epifania in piazza Barberini, a Roma, nel 1957. In basso, fibula etrusca in oro, del VII secolo a.C. L’iscrizione dice “Io [sono] la fibula di Arath Valavesna; [mi] ha donato Manurke Tursikina”.

Giulio II. Senza immaginare cosa, anni dopo, lo stesso Giovanni, divenuto papa con il no-me di Leone X, avrebbe ricevuto per la sua incoronazione: re Manuele d’Aviz di Porto-gallo gli spedì un elefante albino (stesso do-no fatto a suo tempo dal califfo di Baghdad a Carlo Magno).

Le cronache narrano che la nave che tra-sportava Annone (la bestia fu chiamata così in onore del generale cartaginese) arrivò da Lisbona a Roma il 12 marzo 1514. Il cucciolo di 4 anni fu portato in processione per le stra-de tra l’entusiasmo della folla, insieme a due leopardi, una pantera, pappagalli, tacchini ra-ri e cavalli indiani. Il papa lo attese a Castel Sant’Angelo. La leggenda vuole che una vol-ta giunto davanti a lui, l’elefante bianco si sia inginocchiato per tre volte in segno di omag-gio, strofinandogli la proboscide sulle panto-fole; poi, obbedendo a un cenno del suo cu-stode indiano, aspirò l’acqua con la probosci-

de da un secchio e la spruzzò contro i cardinali e la folla.

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Page 83: Focus Storia (Gennaio 2015)

Uova d’amore

Una delle uova del gioielliere francese

Fabergé, capolavori per la corte dello

zar Alessandro III di Russia: all’interno contenevano altri

oggetti preziosi.

La gara a chi faceva il regalo più raffinato proseguì ininterrotta. Alla corte di Versailles Luigi XIV donava ai diplomatici bombonie­re in madreperla e avorio dipinto o in oro. E, sempre lui, durante la visita del doge di Ge­nova, donò all’ospite propri ritratti personali incorniciati di gemme e vari arazzi.

Tempi moderni. «Oggi, l’aspetto del legame e del mostrare affetto attraverso un dono è ri­masto intatto», commenta Raffaello Ciucci, docente di Sociologia a Pisa. «La pratica del Natale o quella del compleanno, soprattutto nella ristretta cerchia di familiari e amici, go­de ancora di ottima salute».

È venuto meno, invece, il ruolo comunita­rio del dono, tipico dell’antichità e delle so­cietà arcaiche (v. riquadro in apertura di ser-vizio), l’idea che il regalo possa avere “un’a­nima” e sia in grado di alimentare un circui­to virtuoso di coesione sociale. Si trattava di un pensiero magico, estraneo alla nostra cul­tura razionalista. «Sarebbe il dono di sociali­tà, che da noi sopravvive sotto forma di vo­lontariato», conclude Ciucci. «Il regalo per ec­cellenza, che mantiene la gratuità e la nobiltà del gesto». •

Arianna Pescini e Giuliana Rotondi

I regali per dire “ti amo”: dalle uova di Fabergé al maritozzo

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Fidanzamenti, matri-moni e nascite era-

no suggellati da regali e simboli d’amore sin dal tempo degli anti-chi Egizi. Coi Romani si affermò l’usanza di donare un fiore agli appuntamenti, men-tre con il fidanzamen-to le amate ricevevano oggetti e gioielli. Nel III secolo per esempio, il figlio dell’imperatore Massimino il Trace re-galò alla fidanzata una gigantesca collana di perle e smeraldi, un bracciale, vesti ornate d’oro e di gemme e altri oggetti preziosi. Durante il Medioevo, poi, il promesso sposo lasciava non di rado come pegno d’amore anche una camicia, mentre nei secoli suc-cessivi a dame e nobil-donne venivano dona-ti per le nozze monili, pregiate suppellettili, costose cinture (sim-bolo dell’unione), stoviglie in maiolica, bauli e persino baci-nelle da parto. Uova d’amore. Furo-no un inno al lusso, invece, le celebri uova create dal gioielliere Fabergé per lo zar Alessandro III di Russia (1845-1894). L’intento era fare una sorpresa di Pasqua alla moglie, Maria Fjodorovna, che rimase abbagliata

dal prezioso oggetto, creato con smalti, oro e rubini. Ogni uovo aveva una struttura a scatole cinesi e conteneva all’interno una piccola sorpresa. Un dono d’amore che venne ripetuto anche dal successore, Nicola II ogni anno fino al 1917, rendendo le uo-va un puro oggetto di collezionismo. Mariti e maritozzi. E chi abitava nella Roma settecentesca invece delle uova in oro, poteva sperare di rice-vere un maritozzo con la panna. La tradizione vuole infatti che i fidanzati lo donassero alle promesse spose, ogni primo venerdì di marzo. Le ragazze soprannominavano i loro donatori “mari-tozzi”; da qui l’origine del nome. Costituito da pane morbido, pi-noli e uvetta, pare de-rivi da una specialità degli antichi Romani: pagnotte con miele e uva passa.

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FRANCES CHIELLOGli ultimi giorni di

Esattamente 120 anni fa moriva, ad Arco di Trento dove si curava sotto falso nome, l’ultimo re delle Due Sicilie.

Al termine di un esilio durato oltre tre decenni

Era il 27 dicembre del 1894 e, con un secco telegramma (“Re di Napoli è mor-to”) indirizzato alla corte di Vienna, il borgomastro di Arco di Trento annun-

ciava la notizia: Francesco II di Borbone non c’era più. L’ultimo re Borbone delle Due Sici-lie, sul trono dal maggio 1859 al febbraio 1861, non ce l’aveva fatta. Una violenta crisi di dia-bete gli era stata fatale, mentre si trovava nella cittadina asburgica, oggi in provincia di Tren-to. Francesco, che aveva 58 anni (più della me-tà passati in esilio), era arrivato qualche giorno prima, come si diceva allora a “passare le ac-que”: curarsi bevendo acqua di fonte, seguen-do la prescrizione medica per guarire da una grave forma di diabete, trasformatasi nel tem-po in mielite.

Presagio di morte. Già a 51 anni l’ex re aveva pensato al “dopo”, disponendo sulla sua suc-cessione, con una lettera spedita al fratello Al-fonso di Borbone: “Re in diritto tu sei dal mo-mento della mia morte: ma non ne hai l’eserci-zio. Tuo debito è di comunicare la mia morte e l’essermi tu successo. [...] Ricordati che quello di duca di Castro è nostro familiare di primoge-nito in primogenito”. Così scrisse il 18 novem-bre 1887. “Duca di Castro” era il titolo scelto dall’ex re per indicare il capo della dinastia (in quel momento, lui stesso), mentre il “primoge-nito” del duca di Castro aveva il titolo di duca di Calabria. I titoli di re e principi, tra i Borbo-ne in esilio, si usavano poco: inutili finezze di-nastiche. Francesco II, da piccolo, veniva ad esempio chiamato “Lasa” dal padre Ferdinan-do II per la sua passione culinaria nei confron-ti della lasagna napoletana.

Per gli abitanti di Arco l’ex re (chiamato Fran-ceschiello dagli storici unitari) era un villeggian-

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Page 85: Focus Storia (Gennaio 2015)

FRANCES CHIELLO

Da Napoli alle Alpi A sinistra, Francesco II delle Due Sicilie (1836-1894) fotografato poco prima di lasciare per sempre Napoli (1860). Sotto, il funerale dell’ex re ad Arco di Trento.

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te qualsiasi: il signor Fabiani, un uomo distin-to, di poche parole, aristocratico nei modi an-che quando si limitava a passeggiare per la città con il suo cane. Amava confondersi tra la gen-te. Ed era molto religioso: si confessava una vol-ta a settimana sempre alla stessa ora, tra le 6 e le 6:30 del mattino, e frequentava ogni sera la chiesa al Rosario della Collegiata in compagnia dell’arciduca d’Austria, Alberto. Il prete di Arco, Giuseppe Maria Chini, nelle sue memorie lo ri-corda come un uomo di “gran modestia e spiri-to di sopportazione”. E racconta ancora: “Lo si incontrava soletto, oppure in compagnia di qual-che principe, raramente da altri accompagnato”.

Negli ultimi giorni, però, il signor Fabiani ave-va perso il suo elegante incedere. Lo si vedeva trascinarsi per le vie di Arco, con gambe debo-li ma sempre cortese con chi incontrava. Nel-le ultime settimane lo accompagnava la mo-glie Maria Sofia di Baviera, sorella dell’impera-trice Sissi. Si aggravò in dicembre e morì poco dopo Natale.

I solenni funerali furono organizzati dagli Asburgo, ad Arco, il 3 gennaio successivo: due cordoni di soldati austriaci allineati delimitava-no il percorso. Dal monte Brione i cannoni spa-rarono a salve e la bara, dove fu deposta una biografia del sovrano, fu portata a spalla dai Cacciatori imperiali tirolesi. In prima fila l’ar-ciduca Alberto, e nelle file successive parenti e principi del regno di cui Francesco II era sta-to sovrano. Ma non c’erano solo nomi illustri. Il corteo era animato anche da una grande folla di gente comune che volle portare l’ultimo saluto al gentile e aristocratico signor Fabiani.

AssediAto e esiliAto. Sembrava passato un se-colo dal 1860, quando i piemontesi, che aveva-no già preso la Calabria e la Sicilia, su ordine di Cavour marciarono verso Napoli per unirla al Regno d’Italia. Francesco II abbandonò la cit-tà partenopea per, scrisse, “salvarla dagli orrori di una guerra e combattere in più favorevole si-tuazione strategica”. Il 13 dicembre di quell’an-no da Gaeta, dove si trovava con la moglie per l’estrema difesa del regno, scrisse all’imperatore francese Napoleone III che gli consigliava di ar-rendersi: “Sire, Vostra Maestà lo sa, i re che par-

Durante il soggiorno ad Arco di Trento l’ex sovrano delle Due Sicilie

adottò un nome fittizio: si faceva chiamare “signor Fabiani”

Fino all’ultimo Maria Sofia di Baviera, consorte dell’ex sovrano e sorella della principessa Sissi.

Tappa a Roma

Francesco II da papa Pio IX, a Roma,

dove iniziarono i lunghi anni di

esilio, proseguiti in Baviera e in Francia.

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Page 87: Focus Storia (Gennaio 2015)

Nel regno delle Due Sicilie, l’ultimo re

salì al trono a 23 anni, nel maggio 1859, e lo perse nel febbraio 1861, 25enne. “Io sono napoletano, né potrei senza grave ram-marico dirigere parole di addio ai miei amatis-simi popoli. Qualunque sarà il mio destino, prospero od avverso, serberò sempre per essi forti ed amorevoli rimembranze”. Con queste parole, conte-nute nel suo proclama di giovedì 6 settembre 1860, Francesco II lasciava Napoli. Non ci sarebbe più tornato. In viaggio. Ancora re, si spostò a Gaeta, per organizzare l’estremo tentativo di difendere il Regno delle Due Sicilie. Con lui, migliaia di militari che, in sei mesi, affrontarono garibaldini ed esercito

regolare piemontese, che il 9 ottobre ave-vano invaso il regno senza dichiarare guer-ra. Volturno, Capua, Macerone, Garigliano, Caiazzo, Pontelatone, Mola, Gaeta furono i luoghi degli scontri dal settembre 1860 al febbraio 1861. Poi, si aggiunsero, a marzo, gli assedi di Messina e Civitella del Tronto (Teramo). Francesco II si considerò per decre-to in “istato di guerra” solo alla partenza da Napoli. Prima, conside-rava i combattimenti con i garibaldini solo azioni di “filibustieri invasori”. Fu una sotto-valutazione che gli costò cara. Un re così giovane aveva biso-gno di affidarsi alla vecchia classe dirigen-te, quella di Ferdinan-do II, che però non si dimostrò all’altezza.

Ultimo re, per 17 mesi

tono ritornano difficilmente sul trono, se un rag-gio di gloria non abbia indorato la loro sventu-ra e la loro caduta”. Furono giorni di sofferenze e sangue. Eppure il re li ricordava con rimpian-to nell’esilio: “Eravamo più felici, e di molto, al-lora”, confidò a Pietro Calà Ulloa, capo dell’ul-timo governo delle Due Sicilie, riferendosi ai 3 mesi trascorsi a Gaeta sotto l’assedio dell’eser-cito sardo-piemontese. Alla fine, il re dovette capitolare andando in esilio a Roma, ospite del papa Pio IX.

A nord! Dopo il soggiorno romano, trascor-so prima al Quirinale e poi a Palazzo Farnese (proprietà dei Borbone), Francesco II e Maria

Sofia si trasferirono in Baviera: Garathausen, Hohenschwangau e infine Egern. Nonostante i frequenti viaggi per l’Europa, l’inquieto France-sco non trovava pace. Così, con la moglie, si tra-sferì nella villa di Saint Mandé, vicino a Parigi.

In fAmIglIA. Senza impegni di governo, l’ex re ebbe modo di dedicarsi alla famiglia, eserci-tando il ruolo di capo di dinastia, cercando con paternalismo di tenere a bada le irrequietez-ze dei fratelli più piccoli. Su tutti gli diede mol-ti grattacapi Luigi, conte di Trani, che conduce-va una vita dispendiosa, si dava all’alcol e gio-cava d’azzardo. Questo ruolo impegnava mol-to Francesco. Troppo, secondo qualcuno che gli

Gaeta addio Francesco II e Maria Sofia salutano la guarnigione borbonica lasciando Gaeta, il 14 febbraio 1861, giorno di San Valentino.

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era sempre stato molto vicino, l’ufficiale e pre-cettore di Luigi, Pietro Quandel. Nelle sue me-morie, Quandel riporta una conversazione del 27 agosto 1874 con Alfonso di Borbone, fratel-lo dell’ex re. Argomento, proprio Francesco II. “D’un sol difetto si è potuto accusare il re. In ogni tempo e oggi più che mai, cioè di una gran debolezza. Ma chi ha contribuito a sviluppare questa debolezza sono stati i suoi fratelli, sorel-le e zii con le loro pretensioni continue e i con-tinui maltrattamenti. Se il re avesse avuto l’e-nergia di suo padre, avrebbe ben saputo tener a fronte i suoi parenti, e a via di far concessioni e cedere non sarebbe giunto al punto in cui è”. Nel 1884, Quandel rinunciò al suo incarico. Do-po due anni, Luigi morì in circostanze misterio-se, forse suicida. Sul suo diario, annota France-sco II: “Martedì 8 giugno. Alle 4:10 a. m. perdo il mio caro fratello Luigi. Triste giorno”.

RitoRno a casa. Francesco II condusse quei 33 anni d’esilio oppresso dai problemi finan-ziari: i suoi beni furono sequestrati già all’ar-rivo a Napoli dei garibaldini. L’ex re provò an-che il dolore della perdita della figlia Maria Pia, morta a Roma all’età di 3 mesi, che si aggiunse ai problemi che gli davano i fratelli. Non rivide

Il corpo di Francesco II fu riportato a Napoli soltanto nel 1984. Insieme a quello della regina, Maria Sofia

di Baviera, riposa nella Basilica di Santa Chiara

mai la sua amata Napoli. Nella ex-capitale del suo regno tornò solo a più di cento anni dalla morte, nel 1984. In quell’anno i suoi resti, con quelli di Maria Sofia, furono trasferiti nella Ba-silica di Santa Chiara, il Pantheon dei Borbone delle Due Sicilie. •

Gigi Di Fiore

Famiglia difficile Sopra, la famiglia reale di

Francesco II: zii e fratelli furono, secondo molti, tra

le cause della debolezza politica dell’ultimo re

delle Due Sicilie. Sotto, i partecipanti al funerale, tra i quali c’erano anche

Cacciatori imperiali.

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UN PANTANID’EPOCA

3giugno 1927, 9 e 30 del mattino. A Peo­nis, frazione di Trasaghis (all’epoca in provincia di Udine), lungo la strada stretta e sconnessa incassata tra la mon­

tagna e il Tagliamento, Ottavio Bottecchia, cor­ridore di fama mondiale, viene trovato privo di conoscenza accanto alla sua bicicletta: una feri­ta gli squarcia la nuca e sanguina in abbondan­za. Portato a braccia dai primi soccorritori in una vicina osteria, poi caricato su un carretto, il ferito raggiunge l’ospedale di Gemona dove morirà il 15 giugno dopo lunga agonia. Una fine

tragica, che alimenterà dubbi e sospetti, so­prattutto a partire dagli anni Cinquanta.

All’epoca la versione ufficiale par­lò di una caduta accidentale. Bot­

tecchia, quel mattino in allena­mento solitario sulle strade di

casa, avrebbe sbattuto la te­sta contro un paracarro o una pietra dopo aver sban­dato nell’atto di chinarsi per allacciare i cinturini del

pedale, oppure nel tentativo di scansare un’auto, o ancora

in seguito a un improvviso “ma­lore”, una delle poche parole da lui

stesso biascicate nei rari momenti di lucidità. Tra i giornali, solo il Messagge-

ro scrisse di “una tragedia avvolta nel mi-stero”. Mancavano testimoni oculari. Si dice

che un brigadiere di Gemona troppo zelante nel­le indagini fosse stato convocato nella locale se­

Nel 1927 il campione del ciclismo Ottavio Bottecchia fu trovato agonizzante lungo una strada friulana. Una morte misteriosa, che ricorda quella del “Pirata” romagnolo

Mistero friulano Nel disegno, la scena del ritrovamento del ciclista agonizzante, nel 1927. A sinistra, Bottecchia nel 1920.

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STORIE D’ITALIATRASAGHIS (UD)

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de del Fascio e persuaso ad archiviare il caso e che anche la vedova di Bottecchia fosse d’accor-do: il marito aveva stipulato una forte assicura-zione sulla vita il cui premio sarebbe stato pa-gato solo in caso di incidente avvenuto durante l’attività ciclistica.

Dalla fame alla fama. Nato a Colle San Mar-tino (Treviso) nel 1894, ultimo di 8 figli, Otta-vio Bottecchia aveva conosciuto da giovane la fame e la miseria: era stato carrettiere, murato-re, tagliaboschi, bersagliere portaordini durante la guerra e poi emigrante in Francia. Gare tra i commilitoni a parte, cominciò a correre in bici-cletta da dilettante a 25 anni; da professionista in Italia era fra gli “isolati”, quelli che speravano di racimolare qualche premio di consolazione e che, se sospettati di parteggiare per una delle squadre in lotta per il primato, potevano incor-rere in spiacevoli disavventure. Risparmiava su tutto: anche la sacchetta del rifornimento rime-

diata nel corso di una durissima Milano-Sanre-mo era cibo prezioso da portare a casa.

Il primo vero ingaggio venne dai francesi dell’Automoto. Era il 1923, i più noti Brunero e Girardengo non volevano partecipare al Tour e per questo si ripiegò su Bottecchia, primo al Gi-ro di quell’anno tra gli “isolati”. Avrebbe fatto il gregario dei fratelli Pélissier, affermati campio-ni francesi, ma lo si guardava con sufficienza: “Pagagli tre giorni in anticipo, tanto questo più di tre tappe non fa”, aveva ordinato il padrone dell’Automoto al suo contabile.

Il trIonfo Del BotescIà. Di tutte le corse il Tour era la più massacrante, tappe di “trasferi-mento” di quasi 500 km, venti ore e più sem-pre in sella; tappe pirenaiche e alpine di im-mensa fatica su impervie strade sterrate. Fra quelle montagne il ventinovenne gregario ita-liano compì imprese strabilianti. Conquistata la maglia gialla, la cedette solo nel finale a Henri

Autodidatta di origini poverissime, all’inizio correva come gregario dei francesi al Tour. Ma poi divenne simbolo del riscatto italiano

Doppio successo Il 21 luglio 1925, Ottavio Bottecchia insegue il belga Lucien Buysse durante l’ultima tappa del Tour de France (che vinse l’italiano). A destra, la vittoria al Tour dell’anno precedente (1924).

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Pélissier per obblighi di scuderia. Al Parco dei Principi i francesi portarono in trionfo anche lui, ribattezzandolo Botescià.

La Gazzetta dello Sport bandì una sottoscri-zione: una lira a testa per esprimere “la ricono-scenza degli italiani” a quel povero ex murato-re che contribuiva a tenere alto l’onore della pa-tria all’estero. Benito Mussolini, pur non avendo alcuna passione per il ciclismo, volle compari-re al primo posto. Quell’eroe del pedale, sim-bolo del riscatto nazionale e per giunta decora-to in guerra con medaglia di bronzo, sembrava perfetto per la propaganda fascista. Si raccolsero 61.725 lire, che Bottecchia impiegò per costru-irsi una casa a Pordenone e per vestire i suoi 32 nipoti. Ma la gloria e altri soldi tornò a cercarli oltralpe. Nel 1924, in maglia gialla dalla prima tappa all’ultima, fu il primo italiano a vincere il Tour. Replicò l’anno successivo. Era una sorta di Lance Armstrong degli anni Venti, agli avversa-

ri non lasciava quasi nulla. “Corro per gli sghei”, affermava senza perifrasi. I successi al Tour gli valsero anche nei due anni successivi contratti ben remunerati nei velodromi di tutta Europa.

Aggressione fAscistA? Pur avendo preso nel 1923 la tessera del Partito nazionale fascista, Bottecchia era noto per le sue simpatie sociali-ste, alimentate nel corso dei lunghi soggiorni in Francia dalla frequentazione dei fuoriusciti an-tifascisti. Tra le sue amicizie pericolose si segna-la anche l’anarchico Alberto Meschi, carrarese, compagno di quel Gino Lucetti, che come Bot-tecchia aveva fatto il carrettiere nel dopoguerra sull’altopiano di Asiago e che, nel 1926, fu au-tore di un fallito attentato al duce.

Chi sostiene che Bottecchia finì vittima di una vendetta squadristica si basa su questi antefat-ti. Ai quali si aggiungerebbe un alterco piutto-sto vivace avvenuto proprio la mattina del 3 giugno, durante una sosta in un’osteria, con al-cuni fascisti di passaggio. Secondo questa rico-struzione il ciclista, aggredito lungo il percor-so, avrebbe tentato di rimettersi in sella, sep-pure ferito, ricadendo più volte e infine acca-sciandosi nel luogo dove fu ritrovato dai primi soccorritori.

L’ombrA deL rAcket. Il delitto avrebbe pe-rò potuto avere anche altre cause, in parte le stesse tirate in ballo dopo la tragica fine, nel 2004, di Marco Pantani: uno sgarbo al racket delle scommesse clandestine.

A decenni di distanza spuntarono impro-babili rei confessi, tra cui un contadino che sul letto di morte dichiarò di aver colpito il cicli-sta sorpreso a rubare della frutta. I referti medi-ci, che non individuarono sul corpo di Bottec-chia tracce di resistenza a un’ipotetica aggres-sione, avvalorano la tesi di un banale inciden-te. Banalità che mal si concilia con l’immagine dell’eroe inossidabile alle prove più dure. Per questo resiste l’alone di mistero su uno dei più grandi campioni del ciclismo italiano. •

Gianpaolo Fissore

Alfonsina, unica “corriditrice”

Se il Tour del 1924 vide Bot-tecchia sempre in giallo,

il Giro d’Italia di quell’anno fu più che mai una “corsa rosa”. Protagonista assoluta Alfonsina Strada (1891-1959), trentatreenne emiliana di origini poverissime e con la bicicletta come strumento di emancipazione. L’attrazione del Giro. Alfonsi-na aveva corso le prime volte travestita da maschio e nelle competizioni femminili non aveva avuto rivali. Nel Giro del 1924, orfano di grandi campioni, diventò un’inedita attrazione. I giornali abbon-darono in doppi sensi e falsità. Lei, paffutella, capelli corti, gambe nude e muscolose, riu-scì a portare a termine anche le tappe più dure. A Roma rice-vette da un ufficiale a cavallo un mazzo di rose e una busta con 5mila lire da parte del re. A Bologna, dopo che finì fuori tempo massimo, fu lo stesso direttore di gara a consentirle di proseguire, pagando di ta-sca sua vitto e alloggio. Lei re-sistette fino alla fine, a Milano, arrivando con i 30 “soprav-vissuti” sui 90 partiti. La pre-senza di una “corriditrice” tra i maschi non fu in seguito più consentita. Ma Alfonsina restò a lungo una celebrità nei velodromi d’Europa.

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LA ROUTINE DELLAGenio e... regolatezza: sono queste le caratteristiche dei grandi creativi. I loro risultati sono infatti favoriti da abitudini giornaliere ripetitive.

Lettura posta con la moglie Emma

Lettura, controllo situazione finanziaria, pranzo Lezioni di musica

Passeggiata col cane (il fox terrier Polly)

Composizione Analisi dei pazienti (fumando fino a 20 sigari al giorno)

Ore d’ufficio: i suoi impiegati lavorano sulle

idee della mattina

Ozio, tè con un uovo, backgam-mon con Emma

Pensiero serale: cosa ho fatto di buono oggi?

Sonno

Sonno

Sonno Sonno Sonno

Sonno

Passeggiata

Lavoro

Pranzo e attività sociale

Composizione o concerti

Consulti e altre analisi di pazienti

Riordino, cena, musica e conversazione

Passeggiata di buon passo sulla Ringstrasse (il viale intorno al centro di Vienna)

Lunga pas-seggiata (con penna e carta da musica appresso)

Pasto principale (con vino)

Pranzo

Corteggiamento di Constanze (futura moglie)

Composizione

Scrittura lettere, lettura giornali

Passeggiata

Toilette e colazione

mentre progetta la

giornata Vestizione

Colazione solitaria

Lavoro Composizione

Contemplazione artistica: pittura, disegno, scrittura

Esercizi a corpo libero

Elaborata pre-parazione del

caffè (60 chicchi macinati per

tazza)

Caffè con la moglie

Colazione, toilette

Colazione con la moglie

Lavoro e tabacco da fiuto

Pranzo

Lavori in sospeso

A casa Cena leggera

Cena e gioco a carte con la moglie o la figlia

Lettura libri scientifici Sveglio nel letto a ragionare

1781W. A. Mozart (1756-1791)

1910Sigmund Freud (1856-1939)

1771Benjamin Franklin (1706-1790)

1822-27L. Van Beethoven (1770-1827)

1842-1859Charles Darwin (1809-1882)

1930-40Le Corbusier (1887-1965)

Il giornalista americano Mason Currey ha raccolto dettagli bio-

grafici di 168 artisti, mostrando che tutti, anche quelli considerati sregolati e istintivi, seguivano un preciso programma di abitudini giornaliere. A conferma (come già illustrato su Focus Storia n° 96) che il genio creativo non è frutto di ispirazioni momentanee ma di applicazione costante. Riportiamo alcuni esempi: le date sotto ai nomi si riferiscono al periodo in cui il personaggio ha seguito quella particolare “routine creativa”.

A CIASCUNO I SUOI RITUALI

I COLORIDELLE

ATTIVITÀ

ATTIVITÀ PRINCIPALE

SONNO

ESERCIZIOFISICOSBARCARE

IL LUNARIO

PASTI, TOILETTE E VITA SOCIALE

ALTRE ATTIVITÀ

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Alla taverna, leggendo il

giornale

PERSONAGGI

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LA ROUTINE DELLA

Pranzo leggero e cioccolato

Corsi di logica, metafisi-ca e altro (fu un ottimo docente per 40 anni)

Giornali, posta, riempire la pipa, bagno caldo

Scrittura, sigarette

Conversazione con ospiti, lettura

e grammofono

Cena, gioco a carte con amici

LetturaSonno

SonnoSonno

SonnoSonno Sonno

Sonno Sonno (aiutato da un barbiturico)

Sonno

Cena

Chiacchiere con la mamma

Scrittura

Passeggiata in famiglia

Lezioni private Pisolino

Lettura Pranzo e sigaro

Caffè e bagno

Caffè, due uova crude e lettura

della lettera quoti-diana dall’amante

Juliette DrouetBagni di ghiaccioOspiti e pranzo

Tè con la famiglia

Dal barbiere

Passeggiata

Amici e famiglia

Cena, vita sociale con ospiti oppure lettura

Esercizio fisico

Carne e vino al pub

Scrittura (e 50 tazze di caffè al giorno) Pranzo

Passeggiata su e giù per il giardino Camminata

vigorosa in campagna o a Londra

Lunga passeggiata

Visitatori; cena leggera, pipa

Cena

Composizione

Tè e lettura quotidiani o giornali di storia

Pranzo PranzoLettura (con aiutante)Scrittura nello studio, in quiete assoluta

Composizione

Dettatura poesie (Milton era cieco dall’età di 40 anni) Colazione

Correzione di bozze e corrispondenza

Visita all’amico Joseph Green

Ospiti e vodka martini

Lavoro

Bagno e visite di amici e conoscenti

Lettura Cena

Scrittura

Meditazione solitaria; un aiutante gli legge la Bibbia per mezz’ora

Tè, fumo, lettura Bib-

bia e testi filosofici

Passeggiata

Tè, pipa, meditazione

Caffè e parole crociate

Scrittura

Pisolino

Lavoro con dose quotidiana di

anfetamina per concentrarsi

Esercizi sulla spiaggia

Passeggiata

Scrittura, risposta alle lettere

Revisioni e articoli

Giro in carrozza con Juliette

1943Thomas Mann (1875-1955)

1851-1856 (STESURA DI MADAME BOVARY)Gustave Flaubert (1821-1880)

1885-1893Piotr I. Cajkovskij (1840-1893)

1851-1860Charles Dickens (1812-1870)

1764-1804Immanuel Kant (1724-1804)

1660John Milton (1608-1674)

1852Victor Hugo (1802-1885)

creatività

NEI LUNGHI PERIODI DI SUPERLAVOROHonoré de Balzac (1799-1850)

“GLI ANNI CHIMICI” (1930-40)Wystan H. Auden (1907-1973)

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LUMI DITOSCANA

Leopoldo I di Toscana, con le sue riforme, ispirate ai princìpi illuministi, trasformò il granducato in uno Stato all’avanguardia

Sapeva che per ben governare era necessario conoscere di persona il territorio. Per questo il suo primo incarico fu viaggiare. Era il 1765 e Pietro Leopoldo d’Asburgo-Lorena era appena diventato granduca di Toscana suc-

cedendo al padre Francesco Stefano di Lorena, che di quel pez-zo di Italia annesso al suo regno (il Sacro romano impero) si era sempre disinteressato. Invece il diciottenne Leopoldo, che visitò la Toscana in lungo e in largo per capirne a fondo la società e i problemi, aveva le idee chiare sui suoi nuovi dominii: voleva tra-sformarli in un laboratorio di nuove esperienze culturali e politi-che nel tentativo di mettere in pratica quelle idee illuministe con cui era cresciuto, era figlio infatti di Maria Teresa d’Austria, regi-na (e poi regnante di fatto) illuminata.

Un tUffo nella realtà. Viaggiando nel suo nuovo regno Leo-poldo ebbe modo di osservare situazioni diverse tra loro seppur a poca distanza. Se infatti la Toscana Centrale era una zona pro-spera, legata a contratti agrari più avanzati, come la mezzadria, e caratterizzata da coltivazioni specializzate come gli olivi, le vi-ti e gli alberi da frutta, la parte più meridionale, la Maremma, era una zona ancora poco popolata dove regnavano il latifondo e la malaria. Nel Nord del regno invece allevatori e piccoli proprieta-

Page 97: Focus Storia (Gennaio 2015)

Sdoganati a Palazzo Vecchio Veduta di Palazzo Vecchio, sede del governo. Nel palazzo, Leopoldo (sopra) istituì la dogana, dove le merci, provenienti da altri regni, venivano depositate in attesa che il destinatario le ritirasse, pagando una tassa.

Altri regni

1740-48Guerra di succes-sione austriaca ed espansione della Prussia.

1760Gli inglesi si espandono in India e in Canada, ai danni dei francesi.

1762Caterina II diventa zarina di Russia.

1763La Pace di Parigi pone fine alla Guerra dei Sette anni.

1765Giuseppe II (fratello di Pietro Leopoldo) diventa coreggen-te del Sacro ro-mano impero con Maria Teresa.

1768-74Con la guerra russo-turca l’Impe-ro ottomano viene ridimensionato.

1773Papa Clemente XIV scioglie la Compa-gnia di Gesù.

1774Maria Antonietta, sorella di Pietro Leopoldo, sposa Luigi XVI e diventa regina di Francia.

Cultura e società

1748Montesquieu pub-blica Lo spirito delle leggi, che introduce il concetto della divisione dei poteri, alla base della mo-derna concezione dello Stato.

1764L’illuminista Cesare Beccaria pubblica a Livorno Dei delitti e delle pene, schierandosi contro la pena di morte.

1768L’inglese James Cook esplora la costa dell’Australia.

A Venezia muore il pittore Canaletto.

1770James Watt costruisce la sua macchina a vapore. Inizia la rivoluzione industriale.

Granducato di Toscana

1747Pietro Leopoldo Giuseppe d’Asbur-go-Lorena nasce a Vienna, il 5 maggio. Sua madre è Maria Teresa d’Austria.

1762Pietro Leopoldo sposa a Innsbruck (Austria) Maria Luisa, figlia di Carlo III di Spagna.

1765Il 18 agosto Pietro Leopoldo diven-ta granduca di Toscana.

1774Tumulti popolari nel granducato.

INTANTO NEL MONDO

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sburgo

Pietro LeopoldoGranduca di Toscana dal 1765 al 1790. Alla morte del fratello (l’imperatore

Giuseppe II) la corona imperiale passò a lui.

Maria TeresaDal 1745 al 1765 fu

imperatrice consorte di Francesco I. Con la morte di lui, divenne regnante

di fatto dell’impero.

Francesco IImperatore dal 1745

al 1765, cedette la Lorena alla Francia in

cambio della corona del Granducato di Toscana.

La Toscana, per i Lorena, era sempre stata la periferia dell’impero. Ma con Leopoldo tutto cambiòri terrieri la facevano da padroni. Anche se con sacche di ricchez-za e progresso, la società toscana, come quelle di molti altri regni del Settecento, era caratterizzata da miseria, povertà, carestie e prevaricazione da parte dei ceti privilegiati su quelli più deboli. E sicuramente questo non sfuggì al neo-granduca, che per prima cosa volle rendere più efficiente l’amministrazione municipale e migliorare le vie di comunicazione.

Quest’ultima “opera infrastruttu-rale” aveva lo scopo di collegare in modo più sicuro il granducato con la Pianura padana, con i porti adriatici e con il fulcro dell’impero, Vienna.

Calcio in piazza Una partita di calcio fiorentino in piazza Santa Croce, all’epoca di Leopoldo I.

Oltre che con Roma. Per collegare il Granducato con il Ducato di Modena furono costruite strade di montagna, come per esempio quella che tutt’oggi collega Pistoia a Modena passando per l’Ap-pennino, scollinando al passo dell’Abetone. Fece inoltre bonifi-care paludi in Maremma e in Val di Chiana.

Maledetti toscani. L’idea che si fece in quel tour, e nei succes-sivi anni di regno, era che i tosca-ni mancassero in qualche modo di un’educazione morale. Una respon-sabilità che attribui va soprattutto al clero. In una delle sue relazioni sul regno scrisse che i toscani, caratte-

ASSOLUTISMO ILLUMINATO Evoluzione della monarchia caratteristica del Settecento, nella quale il re, pur mantenendo il potere assoluto, promuove riforme giuridi-che e sociali influenzate dagli ideali illumini-

sti, riducendo i privilegi di nobiltà e clero.

Page 99: Focus Storia (Gennaio 2015)

Giuseppe IINel 1765 successe al padre Francesco I sul

trono imperiale e regnò fino al 1790. Esponente

dell’assolutismo illuminato.

1775Viene eletto papa Pio VI, timido riformatore.

1776Dichiarazione d’in-dipendenza delle colonie inglesi del Nord America (4 luglio).

1780Muore Maria Teresa d’Austria; Giuseppe II governa da solo.

1789In Francia scoppia la rivoluzione che rovescia Luigi XVI e l’ancien régime.

I neonati Stati Uniti adottano la nuova Costituzione e George Washing-ton è il primo presidente.

1774Maria Teresa d’Au-stria introduce l’i-struzione primaria obbligatoria.

1777L’illuminista Pietro Verri pubblica le Osservazioni sulla tortura.

1781L’astronomo in-glese di origine tedesca William Herschel scopre il pianeta Urano.

1787Prima rappresen-tazione, a Praga, del Don Giovanni di Mozart.

1790Kant pubblica la Critica del giudizio, che anticipa l’este-tica romantica.

1778Lungo soggiorno a Vienna, dove studia le riforme del fra-tello Giuseppe.

1780Pietro Leopoldo affida a vescovi riformisti (gianseni-sti) i rapporti con la Chiesa.

1782Abolizione in To-scana del Tribunale dell’Inquisizione e adozione di un’uni-ca unità di misura.

1786Proclamazione del-la Leopoldina, la ri-forma che introdu-ce il nuovo codice penale e abolisce la pena di morte nel granducato.

1790Pietro Leopoldo abdica a favore del figlio (Ferdinando III) per diventare imperatore del Sacro romano impero.

Maria LuisaMaria Luisa di Borbone

(1745-1792), figlia di Carlo III di Spagna, sposò Leopoldo nel 1765: uno

dei figli fu Ferdinando III.

rizzati più da furbizia che da violenza e coraggio, tendevano a commettere reati contro il patrimonio più che contro la persona. Leggendo le opinioni di Leopoldo sui sudditi, si scopre che per il granduca la società toscana era pericolosamente divisa: “sempre disuniti fra loro, diffidenti e invidiosi l’un l’altro, eccessivamente minuti, sfogano il loro cattivo umore in maldicenze, in ciarle, in calunnie ed intrighi di piccolissimo momento”. Aggiungeva tutta-via che i toscani hanno molto ingegno, vivacità di intelletto e ta-lento, seppur poco coltivato con lo studio.

I maggiori ostacoli ai suoi progetti di riforma li indi-viduò proprio nella nobiltà, soprattutto fiorenti-na, “sempre contraria e sempre nemica del

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A remare contro le riforme leopoldine furono soprattutto Chiesa e aristocrazia toscana. A sostenerlo erano invece il ceto borghese e i professionistigoverno”, nonché poco istruita, oziosa, falsa e superba. E nel cle-ro, giudicato il maggiore responsabile dell’arretratezza e dell’i-gnoranza della società a tutti i livelli, seminatore di “inquietudi-ni e di disunioni”. Per cui cominciò una riforma religiosa, ispi-rata ai principi del giurisdizionalismo, chiudendo confraternite e ridimensionando conventi, e utilizzandone i beni in favore de-gli ospedali. Tentò inoltre di contenere il potere degli ecclesiasti-ci, abolendo i vincoli manomorta (i beni posti sotto questo vin-colo sono inalienabili e non soggetti a imposte di successione o vendita). L’opera moralizzatrice raggiunse anche i nobili: “Il lus-so smoderato è uno dei vizi del Paese”, scrisse il granduca nel-le Relazioni del 1790. “Quello che si può fare si è che chi governa dia nella sua persona e famiglia l’esempio del contrario, non tol-

lerando il lusso negli impiegati e persone della sua casa e servi-zio e procurando con l’esempio e colle parole di screditarlo”. Per questo, nel 1781, aveva inviato agli aristocratici una circolare sul contenimento del lusso.

All’AvAnguArdiA. Se questi erano i “poteri forti” che remavano contro, Leopoldo poté invece contare su una larga parte di citta-dini, ossia su quel ceto, a suo dire più istruito ed educato, di “dot-tori e procuratori”. Borghesi e professionisti che appoggiarono da subito il riformismo illuminato. Come Pompeo Neri, che si occu-pò del nuovo codice penale, e Giulio Rucellai, che ispirò al gran-duca la riforma del clero. L’opera riformatrice durò per tutto l’ar-co del suo regno dal 1765 al 1790. Leopoldo ci aveva visto giusto. Grazie al rinnovamento della società toscana il suo piccolo regno

Un libro illuminante La copertina del saggio di Cesare Beccaria Dei delitti e delle pene (pubblicato a Livorno nel 1764), nel quale il giurista illuminato solleva dubbi sulle pene allora in vigore. Sullo sfondo, il palio delle bighe, a Firenze, per l’incoronazione di Ferdinando III, figlio e successore di Leopoldo sul trono di Toscana.

Belle arti Artisti fiorentini al lavoro: l’Accademia di Belle arti di Firenze fu fondata nel 1784.

S+APERNE DI PIÙ

Le riforme di Pietro Leopoldo e la nascita della Toscana moderna, a cura di Valentino Baldacci (Mandragora).

Page 101: Focus Storia (Gennaio 2015)

Il primato della Specola fiorentina

divenne un territorio all’avanguardia in Europa e nel mondo.

Per capirlo basta considerare che il Granducato di Toscana fu il primo Sta-to al mondo ad abolire, cancellandola dal codice penale, la pena capitale. Il 30 novembre 1786, in segui-to alla promulgazione del nuovo codice (Riforma criminale tosca-na o Leopoldina), nel cortile del Palazzo del Bargello vennero bru-ciati tutti gli strumenti di tortura e i patiboli utilizzati fino a quel momento. Leopoldo aveva messo in pratica i princìpi del giurista lombardo Cesare Beccaria, espressi nel suo Dei delitti e delle pene (non a caso pubblicato a Livorno, dove non c’era l’Inquisizione).

Oltre l’IllumInIsmO. Le idee più progredite Leopoldo le aveva sullo Stato. “La mia convinzione è che un sovrano, anche eredita-rio, è soltanto un delegato e un impiegato del popolo, per il qua-le egli è fatto e al quale deve tutte le cure, pene, veglie […] il pote-re esecutivo è nel sovrano, ma quello legislativo è nel popolo e nei suoi rappresentanti, ché il popolo, a ogni cambiamento di sovra-no, può aggiungere nuove condizioni all’autorità del sovrano stes-so”, scrisse in una lettera alla sorella Maria Cristina, il 25 gennaio 1790). Leopoldo era convinto che una monarchia non si potesse reggere senza un “contratto” tra popolo e sovrano. Un patto che limitasse i poteri di quest’ultimo e condizionasse il sovrano stes-so: se il re non avesse osservato la legge fondamentale, i suddi-ti non erano tenuti a obbedirgli. Un pensiero che per alcuni sto-rici andava al di là del riformismo illuminista anticipando le co-stituzioni del XIX secolo.

È in quest’ottica che cominciò a lavorare a un progetto di co-stituzione, che però non portò a termine perché, anche se mal-

Èaperto al pubblico da 239 anni. Era il 1775,

quando l’Imperiale e rea-le museo di Fisica e Storia naturale fu istituito, per volere di Pietro Leopoldo. Oggi si chiama Museo della Specola (“specola” significa osservatorio astronomico, e infatti c’era anche quello) ed è il museo di storia naturale dell’Università fiorentina. Scienza per tutti. L’idea di raccontare la natura in modo scientifico nacque dalle idee illuministe: il sapere doveva essere condiviso, e la ricerca, come l’esplorazione di

nuove terre, non doveva essere spinta dal deside-rio di conquista e di domi-nio, bensì dal desiderio di conoscenza. La collezione di reperti naturalistici, in origine una Wunderkam-mer (“stanza delle mera-viglie”) come ce n’erano in tutte le corti europee, fu catalogata dal fioren-tino Giovanni Targioni Tozzetti seguendo i criteri scientifici di Linneo, allora una novità assoluta. Si trasformò così in museo naturalistico, uno dei pri-mi al mondo e, appunto da 239 anni, il primo in Italia. (a. c.)

La sala delle cere anatomiche, alla Specola.

volentieri, nel 1790 dovette fare i ba-gagli per Vienna: era diventato impe-ratore. Morì dopo due anni, passan-do alla Storia più che altro per quello che fece a Firenze.

esempIO. La sua opera ebbe grande eco tra gli intellettuali eu-ropei che videro in Leopoldo il buon governante capace di met-tere un freno allo sfarzo e al potere della Chiesa, al servizio dei suoi sudditi fino al punto da concedere udienza a chiunque glie-la chiedesse. Così non fu per il popolo toscano: durante il suo regno furono molti i tumulti popolari, a Livorno, Firenze, Pra-to. E la sua figura non ebbe il consenso che si potrebbe pensare oggi. La ragione? Probabilmente la sua politica religiosa. La po-polazione era ancora legata al devozionismo popolare e mal ve-deva il tentativo (rimasto tale) di Leopoldo di riformare la Chie-sa secondo i princìpi del giansenismo: rigore nei costumi e ridu-zione del potere papale. La riforma naufragò, ma uno spiraglio verso la laicizzazione delle istituzioni, grazie al piccolo Gran-ducato di Toscana, era stato aperto. •

Federica Ceccherini

GIURISDIZIONALISMOLaicizzazione dello Stato attraverso la riduzione

o l’abolizione dei privilegi ecclesiastici.

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Page 102: Focus Storia (Gennaio 2015)

Elegante Autoritratto di Lafond nel 1901, giovane studente di farmacia.

Sotto le frasche A Saint-Malo, in Bretagna, nell’estate del 1901, Lafond fotografa tutta la “banda” dei suoi amici più stretti e compagni alla facoltà, in un caffè del Bois du Lapin.

Selfie Autoritratto di Lafond studente di farmacia con un suo compagno d’università, nel 1901. All’epoca i prodotti chimici per lo sviluppo delle pellicole si acquistavano nelle farmacie: da lì scaturì la sua passione.

LouisLafondMedico e fotografo

LAFO

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NOVECENTO

Page 103: Focus Storia (Gennaio 2015)

L’album di un soldato dei reparti sanitari, appassionato di fotografia, che ritrasse la vita quotidiana nelle retrovie della Prima guerra mondiale

Nel conflitto Campo di servizio sanitario nei Vosges, dove servì Lafond durante la Grande guerra. Gli oltre 2.000 farmacisti dell’Armée nel 1914-18 svolsero spesso gli stessi compiti dei medici.

La leva A Toul, in Lorena, alcuni ufficiali francesi osservano le manovre a cui Lafond partecipò durante il servizio militare, nel 1904. Fu subito assegnato al servizio sanitario dell’Esercito.

La macchina L’apparecchio stereoscopico con cui Lafond fotografò su lastre di vetro sensibile il “dietro le quinte” della guerra.

In Bretagna Cancale, Bretagna, 1901. Il France, una barca a vela, entra nel porto di La Houle dopo aver partecipato a una regata.

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“In vino pax” Una pausa degli uomini del servizio sanitario in un caffè, attorno a un bicchiere di vino. Le foto di Lafond sono attente agli aspetti più umani della lunga assenza dei soldati da casa.

Marchons Agosto 1914: Louis Lafond ritrae un reggimento che parte per il fronte, tra ali di folla festante. Nessuno immagina a quale terribile destino andranno incontro molti di questi uomini.

Sfinito Autoritratto di Lafond con il camice e gli strumenti usati per gli interventi chirurgici, ai quali molto spesso prendeva parte.

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Dal Mare del Nord all’Alsazia, raccoglieva i feriti della prima linea. E allestì ospedali mobili nelle fattorie e nei monasteri

Guerra aerea Un caccia Farman F40. È il 5 ottobre 1914 e siamo vicino a Reims, dove quel giorno si svolse il primo combattimento (con velivolo abbattuto) nella storia dell’aviazione.

In prima linea Louis Lafond mentre entra in uno dei baraccamenti del servizio sanitario dell’esercito, nelle retrovie.

Ambulanza express Lafond sul suo auto-chir, un camion attrezzato per sterilizzare gli strumenti e per la radiologia, dotato di baracca operatoria montabile.

Come bambini Lafond (in primo piano) in un villaggio francese mentre scivola sul ghiaccio di una via gelata.

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Cheese! Lafond si ritrae con i colleghi del servizio sanitario dell’esercito, in una fattoria trasformata in ospedale. Accanto a loro, anche due infermiere: indispensabili come i medici e i farmacisti.

Quasi felici Verdun (Lorena), 1916. Gli uomini del servizio sanitario hanno finalmente l’occasione, rara per chi stava al fronte, di lavarsi, in un ruscello vicino a una fattoria-ospedale

Pausa tecnica Lafond (il secondo da destra) durante una giornata di revisione delle ambulanze militari, parcheggiate in una fattoria.

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Le ultime foto del “reportage” di Lafond sono del 1919. A guerra finita, girando in bicicletta, documentò la devastazione della Francia

I morti erano troppi Si scavano le fosse comuni per accogliere i corpi dei soldati uccisi. I cimiteri ormai erano pieni.

Morte dal cielo Soissons, in Piccardia: una delle “città martiri” della Prima guerra mondiale. Era stata bombardata di continuo, dall’agosto 1914 fino al 1917. Lafond ne mostrò le macerie.

Verdun L’Altopiano di Allemant durante la Battaglia di Verdun, il 23 ottobre 1917. Un’immagine di desolazione assoluta, con un’unica presenza umana nel paesaggio devastato.

Scena bucolica St. Prix, 1917. Jeanne, la moglie di Lafond, osserva i figli giocare. Un week-end strappato alla guerra, grazie a un permesso ottenuto dal marito soldato.

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Hans “il cavallo intelligente” con il padrone Wilhelm von Osten in uno scatto di inizio Novecento. Si riteneva che l’animale fosse in grado

di eseguire operazioni aritmetiche e von Osten lo esibì in spettacoli in Europa e negli Usa. Uno psicologo dimostrò però che Hans

non faceva operazioni mentali, ma rispondeva soltanto ai segnali involontari lanciati con il linguaggio del corpo dall’addestratore.

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