Fisher Parte 1

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1 PROSPETTIVE SOCIOLOGICHE di Lorenzo Fischer (proprietà letteraria riservata) I PARTE INTRODUZIONE 1. Problemi di definizione della sociologia. Il vocabolo sociologia (derivato dal latino socius e dal greco logos ) fu inizialmente utilizzato da Comte, che sembrava quasi giustificarsi per aver inventato questo neologismo, per sostituire l’espressione " fisica sociale ", utilizzato in precedenza (Comte 1839). La sociologia nasce, come disciplina scientifica, dal proposito di spiegare la società razionalmente, abbandonando le interpretazioni di tipo teologico e metafisico. Questo autore, infatti, enunciò la " legge dei tre stadi " dello sviluppo intellettuale: quello teologico o fittizio, quello metafisico o astratto e quello positivo o scientifico. Nel primo lo spirito umano spiega i fenomeni, sia naturali che sociali, attraverso forze o entità soprannaturali: è caratteristico del Medio Evo europeo. Nel secondo si fa appello a principi astratti e soggettivi: ad esempio l'ordine sociale non è più considerato di origine divina, ma come un fatto naturale (domina l'Europa dal Rinascimento all'Illuminismo). Nel terzo gli uomini, rinunciando a scoprire l'origine dei fatti, si accontentano di stabilire, sulla base di osservazioni, delle relazioni stabili fra di essi, chiamate leggi: la sociologia è appunto lo studio positivo , cioè costituito da affermazioni controllabili sulla base dei fatti, delle leggi inerenti i fenomeni sociali. Se si vogliono individuare i precursori della sociologia si rischia di percorrere a ritroso la storia del pensiero umano fino alle antiche filosofie cinese, indiana e greca; infatti ciò di cui si occupa tale disciplina ha portato nei millenni a riflessioni di carattere religioso, filosofico, politico, giuridico, ma anche letterario. È perciò difficile porre un punto di inizio per la sociolo gia, se non facendo riferimento al contesto storico, il settecento e l'ottocento, nel quale sono avvenute grandi trasfor mazioni politiche, economiche, tecniche e intellettuali. In particolare vi furono tre grandi rivoluzioni nell'Europa di quel periodo: la rivoluzione politica francese, quella industriale e quella scientifica, che hanno segnato il passaggio alla società moderna, per cui si può anche considerare che la sociologia sia ad un tempo prodotto della modernità e strumento per studiarla (Durand e Weil 1989; Cavalli 2001). La destabilizzazione politica prodotta dalla rivoluzione francese crea un contesto favorevole al sorgere di una disciplina che studia la società, in un momento di profonda trasformazione. Lo sviluppo della produzione industriale su larga scala mette all'ordine del giorno la "questione sociale", ponendo le premesse per lo sviluppo di una scienza sociale capace di studiare la situazione con metodi scientifici, analoghi a quelli delle scienze naturali. Infine si deve accennare a quella che può essere definita "una rivoluzione silenziosa": lo sviluppo della scienza. Infatti dopo le scienze naturali anche quelle sociali, ed in particolare la sociologia, si separano dal pensiero filosofico realizzando una propria autonomia.

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PROSPETTIVE SOCIOLOGICHE

di Lorenzo Fischer (proprietà letteraria riservata)

I PARTE

INTRODUZIONE 1. Problemi di definizione della sociologia. Il vocabolo sociologia (derivato dal latino socius e dal greco logos) fu inizialmente utilizzato da

Comte, che sembrava quasi giustificarsi per aver inventato questo neologismo, per sostituire l’espressione "fisica sociale", utilizzato in precedenza (Comte 1839).

La sociologia nasce, come disciplina scientifica, dal proposito di spiegare la società razionalmente, abbandonando le interpretazioni di tipo teologico e metafisico. Questo autore, infatti, enunciò la "legge dei tre stadi" dello sviluppo intellettuale: quello teologico o fittizio, quello metafisico o astratto e quello positivo o scientifico. Nel primo lo spirito umano spiega i fenomeni, sia naturali che sociali, attraverso forze o entità soprannaturali: è caratteristico del Medio Evo europeo. Nel secondo si fa appello a principi astratti e soggettivi: ad esempio l'ordine sociale non è più considerato di origine divina, ma come un fatto naturale (domina l'Europa dal Rinascimento all'Illuminismo). Nel terzo gli uomini, rinunciando a scoprire l'origine dei fatti, si accontentano di stabilire, sulla base di osservazioni, delle relazioni stabili fra di essi, chiamate leggi: la sociologia è appunto lo studio positivo, cioè costituito da affermazioni controllabili sulla base dei fatti, delle leggi inerenti i fenomeni sociali.

Se si vogliono individuare i precursori della sociologia si rischia di percorrere a ritroso la storia del pensiero umano fino alle antiche filosofie cinese, indiana e greca; infatti ciò di cui si occupa tale disciplina ha portato nei millenni a riflessioni di carattere religioso, filosofico, politico, giuridico, ma anche letterario. È perciò difficile porre un punto di inizio per la sociologia, se non facendo riferimento al contesto storico, il settecento e l'ottocento, nel quale sono avvenute grandi trasformazioni politiche, economiche, tecniche e intellettuali. In particolare vi furono tre grandi rivoluzioni nell'Europa di quel periodo: la rivoluzione politica francese, quella industriale e quella scientifica, che hanno segnato il passaggio alla società moderna, per cui si può anche considerare che la sociologia sia ad un tempo prodotto della modernità e strumento per studiarla (Durand e Weil 1989; Cavalli 2001). La destabilizzazione politica prodotta dalla rivoluzione francese crea un contesto favorevole al sorgere di una disciplina che studia la società, in un momento di profonda trasformazione. Lo sviluppo della produzione industriale su larga scala mette all'ordine del giorno la "questione sociale", ponendo le premesse per lo sviluppo di una scienza sociale capace di studiare la situazione con metodi scientifici, analoghi a quelli delle scienze naturali. Infine si deve accennare a quella che può essere definita "una rivoluzione silenziosa": lo sviluppo della scienza. Infatti dopo le scienze naturali anche quelle sociali, ed in particolare la sociologia, si separano dal pensiero filosofico realizzando una propria autonomia.

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Il rapporto stretto fra modernità e sociologia induce, attualmente, a vedere nella crisi di questa disciplina il riflesso della messa in discussione della modernità, proposta dagli alfieri del cosiddetto post-moderno, i quali rifiutano soprattutto la fiducia nel progresso senza limiti e l'ideale di un controllo completo di tali processi (Rodriguez Ibãnez 1989). Se è vero che oggi esistono elementi di frattura nella modernità (ad esempio i problemi ecologici), essi non ci sembrano superabili che tramite un più ampio (e diversamente orientato) sapere scientifico: un arresto dello sviluppo della scienza e della tecnica, per un impensabile ritorno alla natura, pare solo una pericolosa fuga dalla realtà, ma di questo parleremo più a fondo successivamente.

La società industriale moderna, proprio perché si fonda sulla scienza ed ha abbandonato la tradizione come fonte di legittimazione delle proprie decisioni importanti, necessita della sociologia per una guida razionale (Ferrarotti 1977). Tale società presenta un insieme di caratteristiche fondamentali che si possono così riassumere: sviluppo dei rapporti sociali di produzione capitalistici, industrializzazione, urbanizzazione, forte incremento demografico, modificazione del tipo di stratificazione sociale, meccanizzazione della produzione con il passaggio ad un sistema basato su di una elevata utilizzazione di energia. Questi profondi mutamenti provocarono anche nuove contraddizioni e conflitti, facendo emergere in primo piano la cosiddetta "questione sociale", che sta appunto all'origine della sociologia, la quale si pone, in tal modo, come tentativo di comprensione e risposta dei gravi problemi di disorganizzazione sociale connessi allo svilupparsi della società industriale.

Dopo aver stabilito che la sociologia non nasce nel momento dell'invenzione del termine, ma precedentemente con l'affermarsi della società moderna, occorrebbe porsi il problema della sua defini-zione, che però risulta tutt'altro che agevole. Vi è in proposito un ampio disaccordo, tanto che è nota la facezia secondo la quale i sociologi concorderebbero su un unico punto: che è molto difficile definire il loro campo di studio (Aron 1962). La definizione più comune (di natura etimologica) di scienza della società è sostanzialmente un truismo, cioè una “verità ovvia e indiscutibile”, in quanto viene ripetuto nella definizione ciò che, appunto, dovrebbe essere definito. Le strade che si pos sono intraprendere per definire la sociologia sono numerose: si può studiare la storia dei suoi autori più importanti, è possibile analizzare i temi dei quali oggi i sociologi si occupano oppure tentare di costruire un campo di studio specifico (Inkeles 1967). Però ognuno di questi criteri di delimitazione presenta vantaggi e svantaggi e non basta da solo a risolvere il problema; inoltre non è neppure sufficiente utilizzarli congiuntamente in modo complementare. In fondo queste diverse strade non fanno che descrivere quanto hanno fatto in passato, o affrontano attualmente, i sociologi e le loro opinioni in merito alla delimitazione della propria disciplina: questo tipo di impostazione rinchiude la sociologia in una autoreferenzialità in base alla quale oggetto di indagine e ricercatore finiscono per sovrapporsi. Poiché i tentativi di definizione hanno scarse probabilità di portare ad un risultato condiviso, molti oggi preferiscono abbandonare l'impresa, accontentandosi piuttosto di spiegare come, e pe rché, la sociologia si è sviluppata, come prima abbiamo fatto schematicamente.

Il punto poi, per noi essenziale, è che la difficoltà di definizione della sociologia deriva dal fatto, ormai largamente accettato, che non esiste una sociologia, ma vi sono molte sociologie. Deve dunque essere chiaro sin d'ora che esiste una pluralità di approcci teoretici le cui differenze è utile sottolineare. Proprio in quanto non c'è un'unica sociologia, occorre che lo studente si impadronisca almeno dei fondamenti dei principali approcci, al fine di un apprendimento critico della disciplina. In questo testo ci sforzeremo, quindi, di approfondire particolarmente gli elementi di differenziazione, fra le diverse

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correnti sociologiche, nella preoccupazione di presentare soprattutto le diversità sul piano ontologico, epistemologico e metodologico.

La sociologia presenta due componenti, due vocazioni, sempre sostanzialmente coesistenti, ma che prevalgono una sull'altra a seconda dei vari studiosi. La prima componente è molto simile alla filosofia sociale, ma con una differenza importante rispetto ad essa, in quanto non può mai porsi come disciplina meramente teorica, ma deve essere sempre accompagnata da ricerche empiriche: il rapporto fra teoria e ricerca è, infatti, imprescindibile per la sociologia. Inoltre l'atteggiamento del sociologo, a differenza di quello del filosofo, non propone dei dover essere, non vuole cioè affermare come la società dovrebbe essere, ma cerca di capire come essa è effettivamente. La seconda componente può essere denominata "ingegneria sociale ": non solo il sociologo deve porsi nell'ottica di scoprire i meccanismi di funzionamento sociale, ma una volta individuati i problemi può anche progettare soluzioni alternative, fra le quali spetterà però ad altri (ad esempio al potere politico) fare successivamente una scelta.

In sociologia, come abbiamo appena affermato, è indispensabile un continuo rapporto fra teoria e ricerca, ma occorre, a nostro avviso, rifiutare ogni posizione legata ad un empirismo radicale: i dati empirici non sono affatto di per sé evidenti (non parlano da soli), ma vanno sempre interpretati alla luce di una qualche teoria. Risulta perciò impossibile la costruzione di teorie sociologiche partendo soltanto da generalizzazioni empiriche . L'empirismo classico riteneva possibile "pervenire all'elaborazione di teorie vere e dotate di senso, mediante la semplice osservazione dei fatti" (Giesen e Schmid 1982, p. 89). Invece è la teoria che precede l'osservazione e la rende possibile, infatti non si possono nemmeno ottenere i dati, realizzare le osservazioni, senza una ipotesi che ne precisi la natura. Anche le griglie più semplici di rilevazione (ad esempio le classi di età o le fasce di reddito) non sono del tutto neutre, ma derivano da ipotesi teoriche più o meno esplicite: trascurare questo fatto essenziale è il limite insupe-rabile dell'empirismo radicale, che ignora il momento specifico della costruzione teorica. Evidentemente, in tal modo, siamo portati a rifiutare l' induttivismo come impostazione che pretende, attraverso un procedimento inferenziale, di elaborare delle teorie.

2. Pluralità di prospettive Le differenze teoriche nell'ambito della sociologia necessitano di un tentativo di concettualizzazione,

capace di raggrupparle in grandi aree relativamente omogenee: a questo scopo, ormai con sempre maggiore frequenza, viene proposta l'utilizzazione del termine "paradigma" (Kuhn 1969). Si tratta di un concetto dalla molteplicità di significati, che ha dato luogo ad ampie discus sioni, nell'ambito della moderna filosofia della scienza. Può essere definito come un modo "di guardare il mondo", una pro-spettiva in base alla quale spiegare i fenomeni di un qualche dominio. Allorché un paradigma è stato accolto dagli scienziati, e Kuhn nella sua posizione più estrema afferma che in ogni scienza "matura" tutti gli studiosi di solito accettano il medesimo paradigma, si ha la "scienza normale", durante la quale il paradigma dominante risulta universalmente accettato. Solo quando si accumulano molte "anomalie" (cioè casi che sono in contrasto con il pa radigma) si ha un periodo di crisi, durante il quale gli scienziati si rivolgono ad altri paradigmi: se uno di essi risulta più adeguato del precedente si verifica una "rivoluzione scientifica", che porta al costituirsi di un nuovo paradigma dominante e quindi di un ulteriore periodo di scienza normale.

Nell'impostazione kuhniana così schematizzata, un aspetto ci sembra di notevole interesse: la messa

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in discussione dell'idea, comunemente accettata, del carattere cumulativo della scienza, anche se in realtà questo autore sostiene che lo sviluppo della scienza si produce di solito per accumulazione (nei periodi appunto di "scienza normale") e solo ogni tanto vi sarebbero delle rotture in tale linearità, provocate dai cambiamenti di paradigma. Per esempio il passaggio in astronomia dal paradigma Tole-maico, in base al quale il Sole gira intorno alla Terra a quello Copernicano e Galileiano, in base al quale la Terra gira intorno al Sole, non può certo essere considerato un semplice sviluppo cumulativo, ma costituisce una "svolta" profonda.

Il concetto di "paradigma" appare molto problematico: l'aspetto per noi più criticabile consiste nel contenuto convenzionalistico che ne deriva per la concezione della scienza; infatti l'accettazione o meno dei paradigmi viene presentato come un fatto meramente soggettivo, da parte della comunità degli studiosi, con evidenti conseguenze di tipo relativistico. Su questo punto le critiche sono state numerose e fra queste risulta di particolare interesse quella di Popper (da cui lo stesso Kuhn era partito per sviluppare la propria analisi), il quale ritiene che la scienza, nell'impostazione kuhniana, non presenti più capacità conoscitive, poiché non si rapporta più alla realtà naturale, ma costituisce una mera convenzione fra gli studiosi che condividono un certo paradigma (Geymonat 1983).

La sociologia, come le altre scienze sociali, ha sempre presentato una pluralità di impostazioni e quindi, seguendo lo schema kuhniano, dovrebbe venir considerata ancora in una fase sostanzialmente prescientifica. Vi è però una differenza importante rispetto alle scienze naturali, i cui adepti devianti vengono emarginati, mentre, ad esempio in sociologia, la diversità delle impostazioni viene sostanzialmente apprezzata (Hawthorn 1980). È stato anche rilevato che assimilare i paradigmi kuhniani ai molteplici approcci teorici esistenti, ad esempio, in sociologia costituisce un vero e proprio equivoco. Mentre nelle scienze naturali i paradigmi si rapportano soltanto a "segmenti di discipline", nella scienza sociale essi si riferiscono non solo ad una disciplina nel suo complesso, ma addirittura ad una pluralità di discipline, com'è il caso de l comportamentismo (psicologia e sociologia) o della teoria dell'azione (economia e sociologia) (Martins 1972). Volendo seguire Kuhn, cosa dovrebbe fare il sociologo? Potrebbe cercare di arrivare ad un paradigma "esclusivo", perché solo così ogni area di studi è in grado di raggiungere la pienezza scientifica, ma questo autore non for nisce ricette a questo scopo, in quanto la sua ottica è rivolta esclusivamente alla considerazione storica della scienza. Perciò uscire dalla fase "pre-paradigmatica", o me glio "immatura" (come Kuhn la definisce nella seconda fase della sua opera) è per il sociologo impossibile, se ragiona in termini kuhniani, in quanto non può sapere se tale situazione durerà ancora secoli o sta per cambiare, con la realizzazione di un paradigma dominante (Thomas 1982).

La Masterman ha specificato meglio il discorso, sostenendo che le diverse discipline possono essere differenziate appunto a seconda del loro status paradigmatico in scienze paradigmatiche (che sono dotate di un unico paradigma ampiamente condiviso), scienze del paradigma duale (che sono nella fase in cui due paradigmi competono per l'egemonia, alla vigilia di una rivoluzione scientifica), scienze del non paradigma (che sono lontane da una chiara definizione dell'oggetto di studio) e scienze del paradigma multiplo (che vedono la convivenza di una pluralità di paradigmi, nessuno dei quali è in grado di ottenere il predominio) (Masterman 1976). Seguendo questa specificazione, occorre scegliere fra una considerazione della sociologia come scienza pre-paradigmatica o multiparadigmatica, e quest'ultima risulta essere l'opzione più attuata dalla maggior parte di quanti hanno voluto utilizzare il concetto di paradigma per classificare la molteplicità degli approcci sociolo gici. Al di là delle

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modificazioni intervenute, a nostro avviso il termine paradigma rimane, comunque, convenzionalisticamente connotato, per cui preferiamo non adoperarlo nell'esposizione delle principali correnti socio logiche.

Pare più utile la nozione di "tradizione di ricerca" e perciò ci serviremo di questo concetto per distinguere le principali aree teoriche nelle quali si suddivide la sociologia (Laudan 1979). Una tradi-zione di ricerca può essere definita come un complesso di assunzioni generali sulle entità ed i processi esistenti in un certo campo di studio, nonché sui metodi adeguati da utilizzare per approfondire i pro-blemi e costruire delle teorie su tale campo. Mentre i paradigmi sono tra loro incommensurabili e quindi non possono coesistere in competizione, per cui o ci sono o sono sostituiti da altri, le tradizioni di ricerca hanno la prerogativa di poter coesistere in modo competitivo nel medesimo campo di studi. Inoltre le teorie che le costituiscono possono entrare in rapporto fra loro e, ancora, hanno la capacità di trasformarsi, in modo più o meno rapido (superando così la visione "a salti" kuhniana del passaggio da momenti di stasi totale a momenti di rivoluzione completa). Infine una concezione come quella delle tradizioni di ricerca, la quale non pretende che una certa disciplina sia dominata da un unico approccio teoretico, pare davvero più adeguata allo stato attuale della sociologia.

La molteplicità delle tradizioni di ricerca in sociologia pone ampie esigenze di classificazione, che è stato proposto di risolvere (Wilson 1983) attraverso uno schema a tre livelli: le teorie vengono rag-gruppate in tradizioni di ricerca le quali, a loro volta, fanno riferimento a poche "immagini del mondo" (noi le chiameremo più semplicemente prospettive) che definiscono l'ambiente intellettuale nel quale la scienza viene realizzata. Ciascuna prospettiva, comprende una meta-teoria, cioè un insieme di regole e procedure per fare scienza, e una certa visione filosofica dell'uomo. Un modello di questo genere può essere utile per esporre le principali correnti della sociologia che, essendo una disciplina caratterizzata, come abbiamo visto, dalla pluralità degli approcci, necessita di uno strumento idoneo ad evidenziare gli elementi di somiglianza e differenza fra di essi. Ovviamente si tratta pur sempre di uno schema che, particolarmente nel momento in cui cerca di raggruppare le numerose tra-dizioni di ricerca in poche prospettive, può essere discutibile per le inevitabili forzature che impone. Principalmente i "classici" della sociologia (Marx, Durkheim e Weber), avendo subito una molteplicità di interpretazioni, rientrano con difficoltà in una prospettiva univoca. Ci sembra comunque che, so-prattutto a fini didattici, una impostazione di questo genere possa aiutare gli studenti a capire, criticamente, le caratteristiche fondamentali della teoria sociologica.

3. Quante sociologie? Sul problema relativo a quante e quali siano le prospettive cui fanno riferimento le varie tradizioni di

ricerca sociologica, il dibattito è piuttosto ampio. Si sono provate varie classificazioni basate su costruzioni logiche, ma la modalità che ci sembra più adeguata è quella che parte dalla considerazione dello sviluppo storico di questa disciplina.

Un tentativo di suddivisione della sociologia in due impostazioni contrapposte ha avuto larga fortuna nel momento in cui, negli U.S.A., si è approfondita, all'inizio degli anni settanta, l'opposizione all'approccio funzionalista che aveva per lungo tempo goduto di un relativo predominio, riprendendo una divisione tradizionalmente presente nella teoria sociale (Dawe 1970).

Vi sarebbero due "dottrine" le quali definiscono differenti "universi di significato" in rapporto ad

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impostazioni diverse sia sul piano metodologico che sostantivo: la contrapposizione è inerente alla concezione della natura umana, del rapporto uomo-società, e dell'essenza della società. La storia della sociologia vedrebbe una lotta fra due diversi tipi di analisi sociale, che sono stati, via via, definiti in modo diverso: " organicismo e meccanicismo, collettivismo e individualismo metodologico, olismo e atomismo, prospettiva conservatrice ed emancipatrice" (Ivi p. 366). In sostanza si sarebbe registrata la contrapposizione fra una sociologia del sistema, focalizzata sulle necessità di riproduzione e di sviluppo del sistema sociale, ed una sociologia dell'azione sociale, rivolta all'uomo ed alle sue motivazioni all'azione. Storicamente, la sociologia non è stata una reazione conservatrice all'Illuminismo, alla rivoluzione francese ed all'industrializzazione. Infatti accanto al problema dell'ordine sociale, vi è quello del controllo degli individui sulla società, il cui fondamento va ricercato proprio nella filosofia illuminista e non in una contrapposizione ad essa: appunto la problematica dell'ordine e quella del controllo costituirebbero, rispettivamente, la base della sociologia del sistema e di quella dell'azione.

Rispetto a questa posizione, è giusto sottolineare, in primo luogo, che ordine e controllo "costituiscono una coppia logica" (Benton 1978). Le due sociologie hanno il loro fondamento in due concezioni filosofiche, la prima relativa all'essenza dell'uomo (sociologia dell'azione), la seconda riguardante le condizioni generali di esistenza di ogni tipo di società (sociologia del sistema). Infatti solo una implicita impostazione metafisica può fondare gli opposti postulati del libero arbitrio e del determinismo. Inoltre le due sociologie così teorizzate pongono il rapporto individuo-società come chiuso in se stesso: basterebbe scegliere da che parte stare, senza preoccuparsi di studiare le diverse forme che, storicamente, l'ordine sociale ha assunto o di considerare le forze sociali intermedie (come ad esempio le classi sociali o le organizzazioni fondate sulla razza) che si frappongono tra gli elementi di tale rapporto. Infine lo spazio teorico occupato dalle due impostazioni è unico, in quanto ciascuna comporta le categorie di base dell'altra. Infatti, nella sociologia dell'ordine, dovrebbero, per forza, esserci almeno alcuni agenti, autonomi dai meccanismi riproduttivi del sistema, capaci di condizionare il proprio ambiente sociale. Reciprocamente l'azione è interdipendenza fra obiettivi astratti e condizioni reali, perciò la piena realizzazione dell'autonomia di un individuo potrebbe realizzarsi solo a patto della subordinazione di tutti gli altri. In conclusione, quindi, le due sociologie sono soltanto varianti di uno stesso spazio teorico.

In questa impostazione sembra quasi che tutta l'alternativa si riassuma in due concezioni della natura umana: la prima pessimistica (sociologia del sistema) e la seconda ottimi stica (sociologia dell'azione). Ma si tratta di affermazioni normative, che non dovrebbero aver posto nella sociologia come scienza. Del resto, seguendo questo discutibile tipo di affermazioni, si potrebbe sostenere una tesi opposta: la prima socio logia è ottimistica, in quanto ritiene possibile una scienza della società, mentre la seconda è pessimistica, poiché il caos di una libertà umana assoluta non permette una scienza sociale (Mayhew 1981).

La critica fondamentale a questa visione dicotomica, dopo aver dimostrato che le due sociologie non sono reciprocamente esclu sive, consiste nel chiarire che esse non esauriscono le potenzia lità di teorizzazione sociale. Occorre anche sottolineare che in questa impostazione non vengono distinti i presupposti metafisici di un approccio teorico (ad esempio la già ricordata concezione della natura umana) dalla sua epistemologia (intesa come concezione della conoscenza, delle sue condizioni di produzione e dei suoi criteri di accettabilità) (Benton 1978). Non vi è alcun legame necessario, dal

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punto di vista logico, fra le impostazioni sostantive prospettate (sociologia del sistema e dell'azione) e le rispettive epistemologie (continuità di metodo fra lo studio della natura e quello della società e dualismo metodologico). Soprattutto la coppia di epistemologie citate non esaurisce le posizioni possibili, così come le due sociologie non riempiono tutto lo spazio delle teorizzazioni del sociale realizzabili. Per ovviare a questi problemi, è stata proposta una epistemologia realistica che, nell'ultimo trentennio, ha poi avuto notevole seguito nei paesi anglosassoni, evidenziando la possibilità di una terza sociologia (Harré 1972; Keat e Urry 1975). Questa proposta ci sembra molto più soddisfacente, soprattutto perché pone le differenze fra i principali approcci a partire dai rispettivi fondamenti epistemologici, evitando di contrapporre (con una terminologia ben poco scientifica) una sociologia 'buona' (dell'azione) ad una 'cattiva' (del sistema).

Numerosi sono gli studiosi che hanno individuato tre differenti prospettive in sociologia, anche se di solito con denominazioni e caratteristiche diverse.

Wilson propone una tricotomia, che si basa su come viene considerata la realtà sociale e sulle modalità del suo studio. Egli denomina il primo approccio "positivismo perché definisce il mondo so-ciale come somigliante, nella struttura e nei processi, a quello naturale e spinge la sociologia a darsi un metodo identico a quello delle scienze naturali ... il secondo idealismo in quanto definisce la società come un aspetto della coscienza da analizzare in termini di idee, riflessioni e sentimenti ...il terzo realismo perché attribuisce priorità ontologica ad una dimensione sotterranea di strutture invisibili, ma reali, ed assegna alla sociologia il compito di scoprire queste strutture e specificarne gli effetti" (Wilson 1983,pp. 7-8).

Manicas (1987) sostiene che il dibattito sulla filosofia delle scienze sociali si è svolto fra una polarità soggettiva ed una oggettiva, rispettivamente frequentate dagli spettri dell'idealismo filosofico e di un mondo senza agenti. La via d'uscita è costituita dalla costruzione di una scienza sociale realista, che ri-fiuta sia il volontarismo e l'individualismo metodologico della prospettiva interpretativa (polo soggettivo), sia il determinismo e la reificazione della prospettiva oggettivista (strutturalismo e funzionalismo).

Layder (1981) distingue una sociologia positivista da una sociologia fenomenologica, esistenziale o interpretativa e pone come alternativa un'impostazione realista, meglio esplicitata in un'opera più recente (Layder 1990), nella quale presenta una interessante e costruttiva critica complessiva dell'impostazione realista nella filosofia delle scienze sociali, per ampliarne la capacità esplicativa.

Per quanto ci riguarda, dopo aver esposto ampiamente questi tentativi tass onomici, per farne capire la rilevanza, avanziamo, a meri fini didattici, la proposta di distinguere tre prospettive sociologiche principali che chiameremo oggettivista, soggettivista e realista. Abbiamo preferito i primi due termini in quanto sono, a nostro avviso, i più generali e comprensivi delle molteplici differenziazioni, mentre l'ultimo sottolinea il fatto che i vari tentativi di superamento della contrapposizione oggettivo-soggettivo possono trovare, in questa concezione ontologica ed epistemologica, un utile fondamento.

Nei prossimi capitoli esporremo le caratteristiche fondamentali di queste tre prospettive, portando come esempi le principali tradizioni di ricerca della sociologia contemporanea che possono rientrare in ciascuna di esse, senza pretendere, ovviamente, di essere esaustivi e ricordando che ogni singolo autore può presentare aspetti non del tutto inquadrabili in un unico approccio. Poiché la ricostruzione delle tre prospettive impone la semplificazione o accentuazione dei vari elementi caratterizzanti, non ci si potrà certo aspettare che ogni studioso rientri appieno in una di esse, la cui esistenza, trattandosi di

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modelli, è in un certo senso indipendente, mentre le singole tradizioni di ricerca costituiscono soltanto delle esemplificazioni.

PARTE I LA PROSPETTIVA OGGETTIVISTA 1. Caratteristiche generali della prospettiva oggettivista 1.1. Il punto di vista nell'analisi In questa prospettiva la realtà sociale, come quella del mondo fisico, risulta esterna all'uomo, sia esso

il ricercatore o lo stesso soggetto agente. I fatti sociali sono quindi esterni all'individuo e costrittivi nei suoi confronti. Inoltre essi sono indipendenti dallo psichismo individuale e generali per una determinata società (Durkheim 1895). In quest'ottica sia lo scienziato sociale, come osservatore, sia l'attore sociale, come osservato, svolgono un ruolo passivo. Il ricercatore perché i fatti sociali non possono essere modificati dalla volontà, ma anzi devono essere accettati sgombrando la mente da ogni pregiudizio; gli attori in quanto i fatti sociali sono indipendenti da loro e li influenzano in modo ineluttabile. Perciò occorre che i fenomeni della società siano studiati nella loro autonomia, in modo distaccato dalla soggettività consapevole degli indiv idui: questo è possibile e necessario proprio in quanto essi si presentano agli individui come 'cose' esterne (Ivi).

Sul piano filosofico l'oggetto della conoscenza è un presupposto che, come tale, non viene messo in discussione: si tratta solo di acquisirlo. Questa impostazione considera, appunto, i fatti sociali (analogamente a quelli naturali) come immediatamente conoscibili, sia teoricamente che empiricamente: dato che il linguaggio e gli interessi ed i valori degli individui non costituiscono impedimento per la conoscenza, viene postulata la 'trasparenza del reale'. Spesso questa concezione porta all'empirismo radicale, che considera possibile la conoscenza come semplice accumulazione di dati, sottovalutando del tutto l'importanza della teoria.

L'azione umana è vista come comportamento e proprio per questo studiabile esternamente e sottoponibile ad una metodologia scientifica analoga a quella di qualsiasi altro fenomeno oggettivo della natura. Il comportamentismo è perciò il modo utilizzato da tale prospettiva per considerare le azioni degli individui, prescindendo completamente dal punto di vista degli attori sociali. Tutt'al più le motivazioni e gli atteggiamenti degli attori, possono essere incorporati, per quanto non osservabili, nell'analisi scientifica come 'variabili intervenienti', che sono di aiuto nella spiegazione del legame fra stimolo osservato e risposta os servata (Wilson 1983). L'esistenza delle motivazioni e degli atteggiamenti non contraddice, del resto, il fondamentale determinismo di questa prospettiva in quanto i "fatti morali", pur mantenendo (come gli altri fatti sociali) la loro autonomia nei confronti dell'individuo, gli si impongono pienamente solo in quanto vengono interiorizzati. In questo modo la società è contemporaneamente trascendente e immanente rispetto agli individui, per cui l'uomo è tale solo in quanto assimila, almeno in parte, gli elementi della cultura nella quale vive, per mezzo del processo di socializzazione. Il rifiuto oggettivista di spiegare l'azione in base alle motivazioni, deriva dalla considerazione che, molto spesso, gli individui sono inconsapevoli dei motivi effettivi in base ai quali agiscono, per cui tali motivi, più che difficili da comprendere, sono ingannevoli per lo scienziato sociale. La spiegazione dei fatti sociali avviene attraverso l' appartenenza sociale e culturale degli

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individui (ma anche in base a fattori biologici ed ambientali). “Conta, di queste spiegazioni, ciò che hanno in comune. Esse hanno in comune il fatto di essere deterministiche” (Borlandi 1987).

1.2. La natura della realtà sociale Per la prospettiva oggettivista il mondo sociale è, per la sua esternità e costrittività nei confronti

dell'uomo, del tutto ana logo a quello naturale: questa è la caratteristica che qualifica sistemi produttivi, istituzioni, prodotti culturali. L'equivalenza fra fenomeni sociali e fenomeni naturali porta, ovviamente, alla possibilità di una unità di metodo scientifico, che è stato definito 'naturalismo'. Inoltre, di solito, la prospettiva oggettivista ritiene che le 'cose' del mondo sociale possano essere stu-diate solo in quanto cadono sotto i nostri sensi, accedendo ad una impostazione empirista.

La realtà sociale viene paragonata ad una macchina o ad un organismo vivente, cioè a qualcosa che è costituito di parti fra loro connesse in modi determinati e quindi abbastanza facilmente definibili. Il modello meccanico è adoperato per spiegare la tendenza della società a mantenersi in equilibrio, ma è soprattutto la metafora dell'organismo ad essere utilizzata, in quanto mette in luce il continuo adattarsi del sistema sociale.

Nello studio della natura della società la prospettiva oggettivista assume una posizione 'olistica', per cui le collettività sociali (stati, organizzazioni, culture, istituzioni...) debbono essere viste come un tutto o un sistema di parti interrelate. Tali collettività hanno dunque proprietà che non sono deducibili da quelle degli elementi individuali che le compongono: la società è qualcosa di più e di diverso della somma degli individui e presenta caratteristiche proprie. L'ovvia conseguenza di questa impostazione consiste nel fornire un oggetto di studio autonomo e particolare alla sociologia, per cui essa prevale nei fondatori della disciplina, che appunto avevano il problema di darle una rilevanza scientifica specifica. Queste entità collettive esistono realmente e sono fattori causali, si possono distinguere le une dalle altre e sono integrate al loro interno e almeno parzialmente autonome rispetto ai componenti. La realtà sociale presenta dunque una propria distinta essenza di base, che è di na tura macro-sociale .

Nella prospettiva oggettivista viene proposta una immagine dell'uomo di tipo passivo, che è stata efficacemente definita dell'"Uomo Plastico" (Hollis 1977). La natura umana è determinata dalle predi-sposizioni biologiche e genetiche degli individui e dalle espe rienze che essi attraversano a seconda del tipo di famiglia, delle condizioni economiche, del livello di educazione, delle caratteristiche del linguaggio, dell'ambiente sociale nel quale vivono. Come il termine 'plastico' suggerisce questa immagine di uomo è priva di una essenza propria: "l'Uomo Plastico è una creatura naturale in un mondo razionale di causa ed effetto" (Ivi, p.11). I fatti sociali modellano e trasformano la natura umana, perciò la condotta degli individui ne è il prodotto: portata all'estremo questa posizione annulla ogni effettiva individualità, in quanto più che di individui si tratta di marionette intercambiabili. Questo determinismo sociologico ha portato qualche studioso a parlare di storia come "processo senza un soggetto" e di individui come semplici "portatori" delle strutture sociali, le quali esisterebbero indi-pendentemente da essi, con un totale annullamento degli attori sociali (Althusser 1974). Peraltro questo determinismo produce la regolarità delle azioni degli individui e quindi la loro prevedibilità, solo eventualmente limitata da una imperfetta conoscenza della situazione.

1.3. Come viene studiata la realtà sociale.

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La prospettiva oggettivista, considerando il mondo sociale del tutto simile a quello naturale, propone

una continuità di metodo fra scienze naturali e scienze sociali. Partendo dai dati dell'esperienza vengono studiati sistematicamente gli avvenimenti sociali, per ritrovare le regolarità che sottostanno ad essi: lo scopo consiste nel formulare, per la società, leggi generali relative ai comportamenti, simili a quelle della fisica o della chimica, ad esempio relativamente al funzionamento dei gruppi o delle organizzazioni sociali. Il modello di spiegazione è nomologico, cioè va alla ricerca di leggi universalmente valide, in un'ottica che pone le scienze naturali, particolarmente la fisica-matematica, come un ideale metodologico da conquistare anche da parte delle scienze sociali. "Un evento (B) è spiegato in riferimento a qualche evento precedente (A) se c'è una legge universale che stabilisce che sempre, se capitano eventi dello stesso tipo di A, ne conseguono eventi dello stesso tipo di B. Tali spiegazioni sono confermate o confutate dal loro successo o insuccesso nel produrre predizioni accurate" (Wilson 1983, p.8). Queste spiegazioni, di tipo nomologico de duttivo, di solito si basano sulla costruzione di leggi a partire esclusivamente dall'esperienza, per cui si tratta di un modello empirista di conoscenza, che è tipico, fino dall'origine, del positivismo . Questo modello di conoscenza è stato largamente dominante e proposto anche per le scienze sociali. È anche stata evidenziata l'esistenza, accanto ad esso, di altri modelli (quello probabilistico, quello funzionale e quello genetico), che però risulterebbero accettabili solo se riconducibili, in qualche modo, a quello deduttivo (Nagel 1961). Occorre però sottolineare che, nella prospettiva oggettivista, solitamente naturalismo e positivismo vengono a coincidere, la qual cosa, come vedremo meglio parlando della prospettiva realista, non è strettamente necessaria: è infatti possibile un naturalismo non positivista.

La prospettiva oggettivista sempre sul piano metodologico, si pone in termini anti-riduzionistici, come ovvia conseguenza del fatto che propone una visione della sociologia come scienza della società, la quale, come abbiamo visto, non sarebbe riducibile agli individui che la compongono. Questa posizione afferma quindi l'autonomia e l'indipendenza della sociologia rispetto alla psicologia. Dato che in questa prospettiva la sociologia si occupa di entità collettive, saranno da considerarsi teorie di tale disciplina solo quelle che includano esclusivamente concetti collettivi o macroscopici (Giesen e Schmid 1982). I concetti debbono essere il più possibile precisi ed univoci e di validità generale: ad esempio il concetto di "pregiudizio razziale" deve essere utilizzabile ad Harlem come a Chicago o Los Angeles, in modo da poterlo misurare attraverso appunto una scala di pregiudizio sociale (Wilson 1983).

Le metodologie di ricerca utilizzate nella prospettiva oggettivista sono prevalentemente di tipo quantitativo: è spesso privilegiato il metodo della survey, cioè la raccolta sistematica di dati ed informazioni su individui e collettività, attraverso intervista o questionari standardizzati, da interpretare successivamente con l'analisi statistica. Questo tipo di indagine è, di solito, rivolta ad un campione rappresentativo di una popolazione più ampia.

Sul piano epistemologico, la prospettiva oggettivista enfatizza le funzioni e finalità di conoscenza della sociologia, confinando gli aspetti pratici all'ambito extra-scientifico: fine della scienza è la conoscenza di verità, la cui utilizzabilità pratica non riguarda direttamente gli scienziati, spettando ai politici. Il rapporto tra teoria sociologica e pratica sociale viene visto come esterno alla disciplina in quanto tale. Pertanto la sociologia deve limitarsi a capire il funzionamento del mondo sociale, escludendo ogni intento normativo o la prescrizione di azioni pratiche, dal momento che il criterio della

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verità è l'unico metro possibile per giudicare i risultati della ricerca sociologica (Sztompka 1979). Con questo non si vuole negare che anche nella prospettiva oggettivista vi sia interesse per quella che abbiamo chiamato "ingegneria sociale", ma essa pone solo un rapporto indiretto fra sociologia e pratica sociale: una volta compreso il funzionamento di una certa istituzione, spetterà ad altri, e non al sociologo, la decisione se e come operare delle trasformazioni.

Sempre sul piano epistemologico ed in stretto rapporto con la posizione cognitivista prima sottolineata, nella prospettiva oggettivista si afferma anche la neutralità della scienza e quindi della sociologia. I dati sociali vanno utilizzati in modo totalmente distaccato, liberi da ogni valutazione, perciò una teoria sociologica dovrà essere scevra da qualsiasi giudizio di valore e basata esclusivamente sui fatti (Ivi). Cognitivismo e neutralismo costituiscono i fondamenti di una scienza che afferma il valore dell'oggettività, certo più difficile da raggiungere per il mondo sociale che per quello della natura, ma che rimane l'ideale epistemologico essenziale.

Riassumendo la prospettiva oggettivista propone una sociologia dall'esterno, che studia i fatti sociali come cose, è determinista e considera gli individui come oggetti passivi, è olistica, afferma una metodologia naturalista e antiriduzionista ed ha una visione cognitivista e neutrale della scienza.

2. Durkheim e la prospettiva oggettivista 2.1. Definizione e oggetto della sociologia Nell'opera più specificatamente metodologica Durkheim (nota) riflette in modo sistematico su cosa

sia la sociologia ed a quali condizioni diventi una scienza "distinta ed autonoma". Infatti una disciplina può dirsi "scienza definitivamente costituita soltanto quando è riuscita a farsi una personalità indipendente, poiché essa ha una ragione d'essere soltanto se il suo oggetto consiste in un ordine di fatti che le altre scienze non studiano" (Durkheim 1895, p.132). Il concetto di fatto sociale, perciò, risulta essenziale per dimostrare la possibilità della sociologia di porsi come disciplina scientifica autonoma. Si tratta di fatti o fenomeni specifici, che si distinguono da quelli psicologici in quanto collettivi: essi non sono la mera sommatoria di quelli individuali, ma hanno caratteristiche proprie. L'oggettivismo di Durkheim si evidenzia soprattutto nell'idea che vi sia, per la sociologia, un ambito di studio indipendente (oggettivo) rappresentato da: "fatti sociali", "strutture", "sistemi" o "istituzioni" (Layder 1994). Quindi questo autore rifiuta, per principio, la riduzione dei fatti sociali a fenomeni psicologici , come pure la spiegazione del sociale tramite questi ultimi. Del resto anche "la società non è una semplice somma di individui; al contrario, il sistema formato dalla loro associa zione rappresenta una realtà specifica dotata di caratteri propri" (Ivi, p.101).

Durkheim constata che vi è differenza fra gli individui isolati ed i fenomeni collettivi: certi fatti manifestano la na tura del gruppo in quanto tale, mentre gli individui sono diversi a seconda dei gruppi di appartenenza. Anche la mentalità dei gruppi non è quella dei singoli e presenta sue proprie leggi. Le volontà individuali non bastano a spiegare queste leggi e bisogna, quindi, ammettere che vi siano forze esterne impersonali che agiscono, cioè che esistano, appunto, dei fenomeni sociali. Questo è lo speci-fico della sociologia: studiare le abitudini collettive e le loro trasformazioni. Tale impostazione, entusiasmante per gli spiriti scientifici, era difficile da accettare per quanti pe nsavano che le azioni

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individuali fossero sostanzialmente libere. È facile ammettere che le leggi fisiche siano esterne alla volontà degli individui, poiché condizionano gli uomini soltanto materialmente, ma leggi sociali, fabbricate da noi stessi a nostra insaputa, che ci determinano senza che noi lo sappiamo, sono più difficili da accettare. Tanto più che questo autore, non contento di scoprire questi fatti sociali, aggiunge che la loro caratteristica principale, ciò che permette di riconoscerli, è la contrainte (costrizione). I fatti sociali "consistono in modi di agire, di pensare e di sentire esterni all'individuo, e dotati di un potere di coercizione in virtù del quale si impongono ad esso" (Ivi, p.26). Viene, però, subito chiarito che la contrainte non è l'essenza dei fatti sociali, ma soltanto una sua manifestazione che permette di riconoscerli. Comunque i criteri specifici di un fatto sociale sono: la costrizione che esso esercita sull'individuo, la sua indipendenza in rapporto allo psichismo individuale e la sua generalità rispetto ad un determinato tipo di società. Durkheim vuole contrapporsi a quello che ritiene un pregiudizio, comune specialmente nelle società moderne, secondo il quale il sociale sarebbe una manifestazione o un effetto dell'attività psichica de gli individui. Questo autore, importante esponente della terza Repubblica francese, si chiede come sia possibile rendere maggiormente coesi i propri concittadini: lo studio dei fatti sociali può costituire una guida per appropriate riforme della società. Per realizzare questo obiettivo ritiene utile lo sviluppo della sociologia, intesa come disciplina positiva (nel senso di Comte) che abbandona ogni traccia metafisica, nell'ottica di una accumulazione delle conoscenze basata sulla scienza.

Nella sua opera di definizione della sociologia come scienza autonoma, Durkheim deve liberarsi non solo del "riduzionismo " psicologico, come abbiamo già accennato, ma anche del "finalismo " delle impostazioni di Comte e Spencer: egli rifiuta la "metafisica positivistica" di questi due autori. Comte "parte dall'idea che c'è una evoluzione continua del genere umano, la quale consiste nella realizzazione sempre più completa della natura umana; ed il problema che egli si pone è di ritrovare l'ordine di tale evoluzione" (Ivi, pp.38-39). Spencer "fa delle società, e non dell'umanità l'oggetto della scienza; però dà immediatamente delle prime una definizione che fa scomparire la cosa di cui parla, per mettere al suo posto la prenozione che egli ne ha". Sono soltanto i pregiudizi provenienti dalla tradizione filosofica a costituire la base di una visione secondo la quale i fenomeni sociali sarebbero immediatamente trasparenti all'intelligenza umana: occorre invece l'approfondito procedimento induttivo della scienza. In questo modo Durkheim si sba razza, oltre che della psicologia introspettiva, anche del finalismo storico, che ostacolava lo sviluppo scientifico della sociologia, il cui metodo è "in primo luogo ... indipendente da ogni filosofia" (Ivi, p.129),.

2.2. Solidarietà e integrazione L'impostazione, rivolta a cogliere la crescente complessità delle società, in questo autore è legata

all'evolversi del tipo di solidarietà fra gli uomini ( ): dalla solidarietà meccanica delle società più semplici alla solidarietà organica di quelle complesse. Durkheim iniziò questo tipo di analisi già nell'opera La divisione del lavoro sociale, divisione che considerò utile allo sviluppo degli individui. Dunque egli distingue tra due modelli di società: la società antica nella quale la divisione del lavoro era, se non inesistente, almeno ancora debole, e la società nuova, nella quale tale divisione aumenta sempre più. Perciò gli individui della società antica hanno conosciuto fra di loro legami di solidarietà meccanica, fondata sul sentimento della somiglianza. Invece gli individui della società nuova sono

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legati fra loro da una solidarietà organica, fondata sul sentimento della loro reciproca complementarità (infatti dipendono gli uni dagli altri come le varie parti del corpo umano). Il passaggio dalla solidarietà meccanica a quella organica produce una progressiva valorizzazione dell'individuo (Layder 1997), fatto che è indispensabile alla divisione del lavoro sociale: si tratta di una visione ottimistica ancora impre-gnata di evoluzionismo. Secondo questo autore la vita collettiva degli esseri umani ha dunque, nei diversi momenti storici, due fonti: la somiglianza delle coscienze nelle società a solidarietà meccanica e la complementarità dei compiti nelle società a solidarietà organica.

Durante tutta la propria opera, Durkheim si è posto il problema di come sia possibile l'integrazione sociale degli individui e, a tale proposito, ha operato una distinzione fra "coscienza collettiva" e "coscienza individuale ", che coesisterebbero in ogni persona. La prima è costituita dall'insieme delle idee comuni a tutti i membri della società, quale retaggio culturale comune, mentre la seconda è soltanto il risultato delle opinioni di ciascun individuo. Questo autore, contrapponendosi all'utilitarismo, ritiene che se ciascun uomo fosse soltanto guidato dalla propria coscienza individuale, non riuscirebbe a vivere in una collettività, poiché il perseguimento di meri interessi personali renderebbe impossibili legami sociali durevoli. La coscienza collettiva, invece, riesce a tenere legati fra loro gli individui, facendo della società un'entità superiore alla semplice somma dei suoi membri: ecco l'olismo durkheimiano.

In una società complessa esistono molteplici tipi di obblighi, cioè di fatti sociali: fatto sociale per eccellenza è l'istituzione, che è esterna sia alla maggioranza degli individui contemporanei alla sua nascita, sia a tutti quelli delle generazioni successive (si pensi, ad esempio, alla famiglia). Essa esercita, direttamente o indirettamente, la propria coercizione sul sentire, l'agire ed il pensare di tutti i membri della società ed infine non può dipendere, nella propria realtà, dal vissuto dei singoli individui. Successivamente Durkheim evidenzierà che il "fatto morale", pur mantenendo le caratteristiche di autonomia nei confronti dell'individuo, gli si impone pienamente solo in quanto viene interio rizzato. In questo modo la società è contemporaneamente trascendente ed immanente rispetto all'individuo, tanto che, per questo autore, l'uomo è tale solo in quanto assimila, almeno in parte, gli elementi della civiltà in cui vive, attraverso il processo di socializzazione.

Nelle società più antiche vi era una forte coscienza collettiva, come risultato appunto di sentimenti comuni a tutti i membri della stessa società. Attualmente la specializzazione dei compiti, generata dalla divisione del lavoro sociale, ha fatto regredire l'antico sentimento della somiglianza delle coscienze, indebolendo la coscienza collettiva e quindi la coesione della società. Si ha, cioè, l'opposizione fra la normalità che porta allo sviluppo di una solidarietà organica, e la anormalità che consiste nel venir meno di questa coscienza. L' anomia, cioè il venir meno delle regole e del conformarsi alle regole, genera, proprio in quanto disgregazione collettiva, fatti di patologia sociale. Dovremmo, a questo punto, aver chiaro il fondamentale concetto durkheimiano di integrazione: si tratta del processo che consente alle società di esistere come unità coerenti, nonostante siano in ciò ostacolate dalle differenze individuali. Come abbiamo visto le diverse società realizzano la propria integrazione, a seconda del loro grado di complessità, tramite un diverso tipo di solidarietà.

2.3. L'osservazione dei fatti sociali.

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Dimostrata l'esistenza dell'oggetto della sociologia (i fatti sociali), occorre definire come può essere studiato in modo scientifico. La prima e fondamentale regola consiste nel "considerare i fatti sociali come cose" (Ivi, p.35). Durkheim afferma che "è una cosa tutto ciò che è dato, tutto ciò che si offre o che si impone all'osservazione. Conside rare i fenomeni come cose significa considerarli in qualità di data che costituiscono il punto di partenza della scienza" (Ivi, p. 44). "Non diciamo... che i fatti sociali sono cose materiali, bensì che essi sono cose allo stesso titolo in cui lo sono le cose materiali - per quanto in un'altra maniera" (Ivi, p.10). Dunque i fatti sociali possono essere studiati soltanto dall'esterno , come quelli de lla natura, e non dall'interno. Altro elemento importante è la necessità, da parte del sociologo, di "abbandonare sistematicamente tutte le prenozioni" (Ivi, p. 47), cioè le idee preconcette provenienti dalle sue esperienze personali, che costituiscono un ostacolo rispetto ad una conoscenza scientifica. Non è possibile studiare la famiglia, la religione o il suicidio senza averne delle "prenozioni", che hanno in sé la forza dell'evidenza, ma scaturiscono da esperienze personali ovviamente limitate e pertanto non rappresentative.

Il principio di trattare i fatti sociali come delle cose, che non è altro che il principio scientifico dell'oggettività, necessita, da parte dello scienziato, di un atteggiamento di distacco e di annullamento dell'emotività che, seppure difficile da realizzare, può essere raggiunto solo tramite una rigorosa definizione concettuale dell'oggetto di studio. Nella definizione precisa dei concetti, occorre anche fare attenzione a raggruppare insieme tutti i fenomeni simili: una scelta di essi sarebbe comunque arbitraria e quindi non scientifica per Durkheim. Dunque questo autore non segue uno dei tipici presupposti della tradizione positivista, l'affermazione cioè della "trasparenza" della realtà sociale, anzi, all'opposto, tende ad esaltare la difficoltà del rapporto tra senso comune e scienza, sostenendo che, particolarmente in sociologia, esso ostacola lo sviluppo di un'analisi scientifica, facendo velo alla realtà. Questa affermazione ricade fra le impostazioni che definiscono il rapporto tra scienza e senso comune in termini di rottura, come avviene (ad esempio) in una famosa opera di autori francesi i quali, ispirandosi esplicitamente a Durkheim, hanno proposto di considerare "la familiarità con l'universo sociale" quale principale "ostacolo epistemologico". "Il sociologo è sempre minacciato dalla sociologia spontanea e deve imporsi una polemica incessante contro le accecanti evidenze che offrono troppo a buon mercato l'illusione del sapere immediato e della sua ricchezza insuperabile" (Bourdieu e altri 1976).

Una critica condivisibile di questa posizione ci sembra quella, formulata da un filosofo della scienza inglese, che ne rileva l'insostenibilità, sia perchè "il campo del senso comune è la base della nostra comprensione iniziale dei concetti teorici e di molti controlli o verifiche dell'interpretazione teorica di un fenomeno...[sia perchè] il senso comune non forma un'unità, singola e immutabile, che la scienza può lasciarsi alle spalle una volta per tutte...[anche perchè ] muta come risultato del progresso scientifico " (Thomas 1982). Durkheim sembra disposto ad ammettere che la scienza sociale produce mutamenti razionali del senso comune, che però rimane soltanto un ostacolo per la scienza.

E' importante sottolineare come, nella concezione durkheimiana relativa al ruolo sia dello scienzato sociale, come osservatore, sia dell'attore sociale, come oggetto di osservazione, ambedue risultano passivi. Il ricercatore perché i fatti sociali non possono essere modificati da un "semplice atto di volontà", ma anzi devono essere accettati sgombrando la mente da ogni pregiudizio. Gli attori in quanto i fatti sociali sono indipendenti da loro, che ne risultano condizionati in modo ineluttabile.

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2.4. La spiegazione dei fatti sociali Durkheim inaugura una metodologia di ricerca sociologica che viene definita quantitativa, poiché si

basa su dati statistici: l'indagine sul suicidio ne costituisce un esempio fondamentale. Innanzi tutto: "quando ci si accinge a spiegare un fenomeno sociale, bisogna [...] ricercare

separatamente la causa effi ciente che lo produce e la funzione che esso assolve" (Durkheim 1893, p.95). Questo autore, mantenendo la continuità di metodo fra scienze naturali e scienze sociali, postula la possibilità, anche in sociolo gia, di ritrovare delle uniformità nelle cause dei fatti sociali, arrivando così a spiegare fatti singoli. Quindi, per giungere a stabilire le cause di un fenomeno sociale, occorre riferirsi a leggi complessive che esprimono rapporti costanti tra fenomeni. È importante sottolineare che le regole metodologiche impongono, prima, di ricercare le cause di un fatto sociale e poi, separatamente, la funzione svolta. Quest'ultima nozione è derivata dal linguaggio biologico, dove esprime "una attività che si rende necessaria per la soddisfazione di un bisogno dell'organismo vivente" e trasferita, in modo analogico, alla società (Crespi 2002, p.24). Possiamo vedere in ciò, come è stato fatto da molti, l'inizio del funzionalismo, ma non si deve dimenticare che, per Durkheim, viene comunque prima la causazione storica di un fatto sociale, abbandonata, invece, dai funzionalisti. Per questo autore è necessaria una spiegazione causale, nel senso che vi è una variabile precedente (causa) che ne spiega un'altra, la quale quindi costituisce l'effetto. Infatti "mostrare a che cosa un fatto sia utile non vuol dire spiegare né come esso sia nato, né come esso sia ciò che è". Il funzionalismo, al contrario, sostenendo che i fatti si spiegano attraverso la "funzione" svolta nel sistema sociale, finisce per limitarsi ad una prevalente descrizione della realtà sociale complessiva, senza arrivare ad una vera e propria spiegazione. Del resto è abbastanza curiosa la totale assimilazione, che è stata tentata, di Durkheim all'ottica funzionalista, se si tiene presente il suo continuo interesse per la storia ed il suo importante contributo alla formulazione di un metodo storico-comparativo coerente.

Inoltre: "la causa determinante di un fatto sociale deve essere cercata tra i fatti sociali antecedenti e non già tra gli stati della coscienza individuale" e "la funzione di un fatto sociale deve venir sempre cercata nel rapporto in cui si trova con qualche scopo sociale" (Ivi, p.106). Viene così sottolineato, ancora una volta, l'antipsicologismo durkheimiano ed il fatto che anche la funzione, la quale in seconda istanza costituisce un indispensabile completamento della spiegazione sociologica, è relativa ad una utilità sociale e non individuale.

2.5. La verifica in sociologia La spiegazione causale, necessaria per fare della sociologia una scienza autentica, pone il problema

della verifica, che risulta particolarmente ardua per una disciplina impossibilitata a sperimentare. La soluzione del problema consiste nella sperimentazione indiretta, cioè nel metodo comparativo, che dovrebbe permettere di superare le difficoltà. Poiché il sociologo non può costruire la propria esperienza in laboratorio, deve utilizzare la varietà esistente dei fatti sociali per compararli fra di loro. Si realizza, così, un equivalente del metodo sperimentale delle scienze naturali, costituendo un complesso di regole e procedure tali da verificare l'oggettività e l'universalità delle relazioni trovate tra i fatti sociali. Il metodo comparativo usa to da questo autore è rivolto alla ricerca di leggi generali della società e alla loro verifica, e di esso sono state individuate due caratteristiche fondamentali. Permette di

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evidenziare il carattere ad hoc di alcune ipotesi esplicative, accettabili soltanto in ambiti limitati, e di scoprire equivalenze di struttura e di invarianti fra diversi sistemi sociali (Cherkaoui 1981).

Il metodo comparativo, quale sostituto della sperimentazione, consiste, per Durkheim, nella utilizzazione del metodo della "variazione concomitante ". Questo metodo dice che, se due fenomeni variano contemporaneamente (sono in correlazione), si può presumere che esista una relazione causale. Il problema che però sorge è: come si fa a stabilire qual è la causa e quale l'effetto, o se vi è un terzo fenomeno che interviene a spiegare gli altri due? Durkheim propone, a questo proposito, un esempio tratto dalla sua ricerca sul suicidio: la tendenza a suicidarsi aumenta con l'aumentare dell'istruzione. Questa correlazione, però, pare inaccettabile, poiché un fatto relativamente superficiale come l'istruzione, allora prevalentemente elementare, non è credibile possa influenzare il fondamentale istinto di conservazione. Si deve allora ipotizzare che "entrambi i fatti ... siano la conseguenza di uno stesso stato, cioè dell'indebolimento del tradizionalismo religioso che rafforza contemporaneamente il bisogno di sapere e la tendenza al suicidio" (Durkheim 1895, p.122). Si può, dunque, spiegare l'innalzamento del tasso di suicidio con l'indebolirsi della forza della religione sull'individuo, tanto più forte quanto maggiore è la sua istruzione.

Complessivamente grande è l'importanza attribuita, da questo autore, al me todo storico-comparativo, che viene da lui usato in maniera sistematica, particolarmente per spiegare i fatti sociali per eccellenza (le istituzioni), la cui complessità necessita sia di confronti fra diverse società, sia di paragoni fra differenti momenti storici all'interno della medesima società.

2.6. Un esempio di ricerca Lo studio del suicidio costituisce una vera e propria prova di forza, di questo autore, nei confronti

degli avversari della sua impostazione sociologica. Egli affronta un oggetto di ricerca che sembra profondamente ancorato nella coscienza individuale di chi decide di togliersi la vita, per trasformarlo in una "cosa": il tasso di mortalità per suicidio. La analisi è fondata sul rifiuto di ogni concezione aprioristica e sull'utilizzo sistematico delle statistiche. Comincia con il valutare la validità delle spiegazioni correnti: la malattia mentale, la razza, l'ereditarietà, i fattori cosmici e climatici e l'imitazione. Anche se elementi individuali possono facilitare il suicidio, nessuna di queste spiegazioni è provata da regolarità statistiche. Allora Durkheim ipotizza che sia l'ambiente sociale nel quale la persona vive a determinare il suo suicidio. Esamina i contesti familiari, politici , economici e religiosi e compara città e campagna, i paesi e le epoche. Da questa analisi, grazie all'utilizzo delle statistiche nazionali dei suicidi in Europa, e ad una rielaborazione innovativa, questo studioso riuscì a costruire una serie di generalizzazioni empiriche, basate sulla variazione concomitante di alcune variabili con il tasso di suicidio. Egli constata che, proporzionalmente, gli uomini si suicidano più frequentemente delle donne, i celibi più degli sposati, i cittadini più dei contadini, gli intellettuali più che i lavoratori manuali e gli adepti di certe religioni più di quelli di altre.

In generale si può dire che questa ricerca costituisca una messa in opera delle "regole" durkheimiane, ma non si può dimenticare un cambiamento che costituisce un vero e proprio "capovolgimento" del suo metodo (Steiner 1994). Infatti egli è costretto, per mancanza di dati (sono pochi i documenti lasciati per giustificare il fatto e di dubbio valore le indagini poliziesche o giudiziarie in merito), ad elaborare dei tipi sociali di suicidio in base alle cause che li producono e non, come vorrebbero le "regole", a partire

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dalle caratteristiche di tali suicidi, descritti come punto di partenza (Durkheim 1897). Insomma, seppure per necessità, questo autore rinuncia all'atteggiamento empirista ed induttivo per un'ottica deduttiva: questo fatto dimostra che gli non è un " empirista radicale". Le variazioni concomitanti prima accennate trovano una spiegazione complessiva, una legge, nell'importanza attribuita, dalla teoria sociologica precedente di questo autore, all' integrazione dell'individuo nella società ed alla regolazione presente nella società stessa. Più un individuo è integrato nella vita collettiva, ambientale ed istituzionale e meno probabilità ha, statisticamente parlando, di suicidarsi. Il suicidio costituisce, quindi, la prova per assurdo dell'importanza fondamentale, per gli individui, della loro integrazione sociale, cioè della loro partecipazione pratica, affettiva e intellettuale alle diverse istituzione esistenti: famiglia, scuola, impresa, confessione religiosa, stato nazio nale. "Nei concetti di integrazione e di anomia è concentrata tutta una teoria generale della società..[che va oltre]...il campo definito da Durkheim stesso per il fatto sociale.... La [sua] forza ... sta proprio nel sottomettere un dispositivo teorico ambizioso alla prova dei fatti, prova che comincia con la necessità di costruire i fatti stessi" (Baudelot e Establet 1984, p.113). Nello spiegare il suicidio, dunque, emergono elementi che, in modo regolare e comprensibile, dipendono da variabili sociali: in questo modo Durkheim ha raggiunto un ri-sultato scientifico, ancora oggi sostanzialmente valido e che permette un processo di accumulazione della conoscenza.

Vengono individuati tre fondamentali tipi di suicidio: egoistico, altruistico ed anomico (cui si aggiunge quello fatalistico). Il suicidio altruistico, e a maggior ragione quello fatalistico, sono caratteristici delle società antiche, nelle quali l'individuo era fortemente sottomesso ai valori collettivi (troppo nei casi di suicidio). Il suicidio egoistico, e soprattutto quello anomico, sono invece peculiari delle società moderne, nelle quali gli individui soggiacciono sempre meno alla pressione della collettività, le cui regole si allentano. Ad esempio durante un periodo di forte crescita economica, i desideri degli individui non sono più circoscritti da limiti precisi: si osserva allora un aumento sistematico dei tassi di suicidio anomico (per insufficiente regolazione). Il suicidio egoistico è il comportamento tipico dell'uomo che non si sente più condizionato dalle regole sociali, ma da quelle che decide egli stesso di darsi (scarsa integrazione). Risulta evidente lo stretto rapporto fra questi due tipi di suicidio: nel caso di quello egoistico si sottolinea soprattutto l'importanza dell'intensità del controllo sociale, mentre nel caso di quello anomico si evidenziano le conseguenze delle crisi politiche, economiche o istituzionali delle società moderne.

2.7. Considerazioni critiche. L'esposizione degli aspetti di metodo della sociologia durkheimiana, centrata sull'analisi del suo

"manifesto" metodologico, ha avuto proprio lo scopo di evidenziarne le peculiarità programmatiche, non sempre poi completamente rispettate nelle opere di ricerca. In tal modo emergono maggiormente le differenze rispetto ad altre tradizioni di ricerca, così come ci eravamo inizialmente proposti. Se è apprezzabile il suo rifiuto del riduzionismo e del soggettivismo, il suo problema è costituito dal "sociologismo", che tende a cancellare l'individuo e la sua psicologia dall'ambito dell'analisi sociale (Layder 1997).

Nell'opera di Durkheim emergono, però, elementi che non possono essere considerati come esclusivamente oggettivistici: egli stesso si definisce un "razionalista scientifico", che cerca di

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estendere il metodo delle scienze della natura alla sociologia. Se quest'ultimo punto costituisce certamente una componente positivistica, è anche vero che è impossibile attribuire a questo autore un empirismo radicale ed una considerazione della realtà sociale come immediatamente trasparente. Egli sembra combinare un impegno metodologico di tipo positivistico con una pratica scientifica realistica, evidenziata teoricamente sia dall'affermazione secondo la quale le cause possono essere conosciute scientificamente solo in base agli effetti che producono, sia dalla considerazione che, ad esempio, le regole morali sussistono anche quando non vengono applicate (Bhaskar 1975). D'altra parte, per questo autore, le definizioni degli oggetti di studio (con una chiara accentuazione empirista) debbono basarsi sulle caratteristiche esterne comuni. Inoltre, sia il senso comune che la prospettiva realista, convergono nel rifiutare l'affermazione, di questo autore, secondo la quale un fatto sociale sarebbe il prodotto di un'unica causa: la molteplicità causale degli eleme nti della società costituisce, per molti, una considerazione acquisita (Outhwaite 1987). In questo alternarsi di elementi oggettivistici e realistici, rimane corretto sottolineare che Durkheim ha mostrato come la vita sociale non sia immediatamente comprensibile, per chi la vive, e quindi occorra una analisi scientifica.

L'affermazione che un fatto sociale può essere spiegato soltanto in relazione ad un altro fatto sociale, e non in base alla psicologia degli individui, discende dalla considerazione di questo autore rispetto alla natura della realtà sociale (olistica, come abbiamo già ricordato), per cui gli strumenti concettuali necessari a studiarla non possono, appunto, rapportarsi agli individui. Una autrice inglese ha definito questa posizione, tipica della prospettiva da noi denominata oggettivista, "conflazione verso il basso", per la quale l'individuo non è altro che un epifenomeno della struttura sociale (Archer 1995). Ma non è contraddittorio sostenere che in Durkheim (ma anche in Marx, come sottolineeremo a suo tempo) vi è una visione dualistica della realtà sociale, nel considerare il rapporto fra le istituzioni sociali e le attività pratiche, le quali ultime sono soggette all' influenza delle prime (Layder 1997).

Non sono mancate le interpretazioni che hanno parlato, per Durkheim, di due periodi: il primo, analizzato qui, caratterizzato da un positivismo oggettivo, il secondo, la cui massima espressione si trova nell'opera Le forme elementari della vita religiosa, che può essere definito positivismo idealistico (Carracedo 1984). La "coscienza collettiva", che già nella prima fase costituiva la base implicita dell'analisi, diventa l'elemento predominante che subordina a sé i fatti sociali. Si può addirittura affermare che, negli ultimi scritti, questo autore si sarebbe avvicinato, in misura notevole, ad una concezione secondo la quale il pensiero simbolico costituirebbe un requisito affinché vi sia la società, aiutando a spiegarla (Lukes 1972). Si ritrova anche in Durkheim una tendenza presente, in modo paradossale, in gran parte della sociologia positivistica (da Saint Simon a Comte) e cioè la considerazione della religione "come modello ideale di integrazione sociale" (Crespi 1985, p.128). L'ultima sezione delle Forme elementari della vita religiosa riecheggia esplicitamente il pensiero di Platone, tanto che è stato attribuito a Durkheim un "neoplatonismo" che avrebbe poi influenzato lo strutturalismo contemporaneo, nella considerazione degli agenti sociali come semplici manifestazioni (o supporti) delle strutture della società (Manicas 1987). L'oggettivismo sociologistico di questo autore ha, infatti, condizionato fortemente il pensiero sociale francese del ventesimo secolo, come vedremo successivamente.

3. La tradizione di ricerca funzionalista.

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3.1 Caratteristiche generali. Nell'ambito della prospettiva oggettivista, il funzionalismo costituisce la "tradizione di ricerca" più

rappresentativa, che per un lungo periodo, almeno nei paesi anglosassoni, è stata predominante, fino alla presunzione di identificarsi con la sociologia stessa. Se per Durkheim spiegare un fatto sociale significa, innanzi tutto, determinarne la causa efficiente e successivamente stabilirne la funzione eventuale, cioè l'apporto dato all'esistenza ed al mantenimento della società complessiva, il funzionalismo tende a far prevalere la seconda parte della regola metodologica enunciata dal sociologo francese. Si afferma, cioè, la possibilità di spiegare un fatto sociale anche a prescindere da elementi di informazione storica relativi alla sua genesi. Una istituzione può essere studiata e interpretata, cioè si possono proporre su di essa delle ipotesi plausibili, anche senza conoscerne la causa efficiente. L'analisi funzionale dunque lascia da parte il rapporto tradizionale di causa ed effetto, per impostare ragionamenti in termini di variabili dipendenti e indipendenti, ove si decide la connotazione di ciascuna variabile in relazione alle necessità della ricerca. Per esempio, se consideriamo il rapporto fra tipo e localizzazione della abitazione e stile di vita, quando il problema è la costruzione di nuovi alloggi, si considererà l'ambiente abitativo come variabile indipendente, al fine di prevedere le conseguenze delle diverse scelte possibili. Se invece si vuole promuovere un certo stile di vita, sarà quest'ultima la variabile indipendente, in modo da trarne delle conseguenze per il tipo di alloggio. Evidentemente questo modo di ragionare è diverso da quello causale tradizionale, in quanto basta evidenziare la concatenazione fra variabili.

L'approccio causale e quello funzionale sono, dunque, differenti. Nel primo ci si riferisce a fatti precedenti nel tempo e che vengono considerati come causa dell'effetto da spiegare. Nel secondo non si fa riferimento ad un evento precedente nel tempo, considerato come causa, ma ad "altri fatti - contemporanei o immediatamente successivi al primo - che ne esprimono le finalità, gli scopi o, più esattamente, le relazioni funzionali" (Giesen e Schmid 1982).

Il funzionalismo, nonostante la variabilità delle sue impostazioni, presenta almeno un fondamento comune: l'attenzione a collegare un elemento sociale ad un altro o ad un qualche aspetto del tutto (Cancian 1968). Ma questa tradizione di ricerca può essere vista in molti modi diversi: come una prospettiva , come una teoria generale, come un metodo , come un linguaggio. Cercheremo ora di dare un'idea di queste diverse maniere di intendere il funzionalismo.

Inkeles parla di una prospettiva che privilegia la società, con le sue interrelazioni fra istituzioni, rispetto all'individuo (Inkeles 1967). Occorre capire in che modo le varie strutture sono interrelate e organizzate in un tutto: così il funzionalismo ha partecipato al potenziamento della teoria e della ricerca sociologica, evidenziando le funzioni dei vari elementi sociali e contribuendo a renderli decifrabili. Anche se questa prospettiva presenta degli inconvenienti, tutti i sociologi finiscono per accettarne, in modo più o meno ampio, qualche elemento caratterizzante: ad esempio difficilmente qualcuno negherà l'importanza della funzione di socializzazione delle nuove generazioni o affermerà che la società può essere considerata come un insieme disordinato.

Davis (1959) è famoso per aver affermato che analisi funzionale e analisi sociologica coincidono, perciò rifiutare la prima significherebbe anche respingere la seconda. Infatti le due principali caratteristiche del funzionalismo (legare le parti di una società al tutto e porre in rapporto ciascuna

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parte) si ritroverebbero in ogni teor ia sociologica. Questo significa che il compito della sociologia consiste nell'esaminare la funzione svolta da una certa istituzione o da un certo comportamento sociale nell'ambito della società, spiegandola proprio a partire dal suo carattere sociale. Il funzionalismo è soprattutto una teoria sociale: più una teoria è generale e minori sono le possibilità di valutarla nella sua interezza. La teoria sociale tende ad essere particolarmente ampia e complessa, in quanto lo studioso riesce a giungere alla massima astrazione teorica poiché conosce la società di cui è parte. La sociologia è caratterizzata da conflitti fra diversi e parziali punti di vista: il funzionalismo sarebbe dunque in grado di rappresentare una efficiente teoria generale per questa disciplina.

Homans (1964), invece, sostiene che il funzionalismo è un metodo e non una teoria, se per teoria si intende una spiegazione della realtà. Infatti a suo avviso l'analisi funzionale stabilisce soltanto che le istituzioni sociali sono in relazione fra loro, ma non chiarisce perché: saremmo di fronte non ad una teoria sbagliata ma ad una non teoria. Tutti possono, metodologicamente, dirsi analisti funzionali, ma non tutti certamente accettano di essere definiti teorici funzionalisti. Il programma empirico del funzionalismo è il normale comportamento metodologico di un qualsiasi scienziato sociale, perciò viene criticato il funzionalismo sostenendo la sua non specificità metodologica, che peraltro può essere accettata, e la mancanza di una teoria peculiare.

Coenen-Hunther (1984) infine sostiene che il funzionalismo è un linguaggio , cioè uno strumento che rende possibile una concettualizzazione mirata della società. Ma il rischio è che ci si accontenti di un vocabolario facile, essendo abbastanza vicino al discorso quotidiano, producendo illusioni di scientificità quando invece si rimane sostanzialmente legati ad evidenze di senso comune. La comodità di questo linguaggio può portare ad un utilizzo dell'apparato concettuale di questa tradizione di ricerca che si traduce in un funzionalismo volgare, fondamentalmente tautologico, perchè le conclusioni coincidono con le premesse. Può derivarne una grave imprecisione concettuale, che ha come risultato di nascondere problemi più gravi, di natura teorica ed epistemologica: anche Merton, come vedremo, nonostante notevoli ed utili sforzi chiarificatori, non è forse riuscito fino in fondo nel suo intento.

Nel funzionalismo sono fortemente presenti due forme di pensiero molto antiche: l'organicismo e il teleologismo.

Per quanto riguarda il primo, che ha una lunghissima tradizione (basta ricordare l'apologo di Menenio Agrippa), esso pone una analogia fra esseri viventi e società: quest'ultima è immaginata come un organismo che si evolve. Come il corpo umano, la società è fornita di organi e funzioni che ne assicurano la permanenza in vita e la riproduzione, tramite processi di integrazione interna e di adattamento all'ambiente esterno. Ecco perchè, come gli organismi viventi, diventa sempre più complessa e differenziata, mano a mano che si sviluppa. Proprio l'analogia costituisce un problema, perché c'è il rischio di sostenerla fino in fondo, al di là del ragionevole, arrivando a vedere nella società un ciclo vitale del tutto simile a quello degli esseri viventi. L'organicismo tende ad associarsi con una impostazione conservatrice, in quanto presuppone l'impossibilità del cambiamento sociale attraverso l'intervento politico. Però l'analogia organicistica è vista in modo diverso dai vari tipi di funzionalismo.

Il teleologismo (dal greco telos = scopo), cioè la tendenza a spiegare gli eventi in base ai fini a cui sono diretti, è per alcuni la specificità del funzionalismo, la cui spiegazione, pur essendo spesso formulata in termini teleologici, non fa riferimento, come il finalismo della tradizione filosofica, ad entità astratte, ma si prospetta nella forma della spiegazione empirica. Del resto già Durkheim aveva affermato: "la funzione di un fatto sociale deve venir sempre cercata nel rapporto in cui si trova con

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qualche scopo sociale" (Durkheim 1895, p.106). Organicismo e teleologismo sono sicuramente presenti nel funzionalismo, ma vi assumono

caratteristiche non tradizionali (Alexander 1985).

3.2. Il funzionalismo antropologico. Si può facilmente comprendere lo sviluppo dell'analisi funzionale nell'ambito dell'antropologia

culturale, considerando l'impossibilità di studiare, con metodo storico, le società illetterate: l'unico modo per spiegare usi o istituzioni sociali particolari di tali società sembra appunto essere la scoperta della loro funzione. Nello studiare le comunità primitive, che risultavano sostanzialmente isolate e stabili, il ricercatore poteva facilmente constatare l'esistenza di interrelazioni fra le diverse componenti di tali società, peraltro poco complesse; inoltre il fatto che lo studioso fosse estraneo alla cultura esaminata, permetteva di individuare le effettive funzioni svolte dagli elementi culturali, prescindendo dai significati proposti dagli agenti sociali.

Il funzionalismo si impone innanzi tutto in antropologia, in contrapposizione alle due scuole prima dominanti: l'evoluzionismo ed il diffusionismo .

Gli evoluzionisti consideravano la storia come un susseguirsi di tipi diversi di società, in un'ottica di progresso; i diffusionisti, invece, spiegavano l'esistenza di "tratti culturali" simili in società differenti, per mezzo della diffusione, da una società all'altra, avvenuta casualmente attraverso contatti e scambi diretti o migrazioni.

Secondo Malinowski (1944) nella fabbricazione di utensili vi sono delle possibilità limitate: un vaso, ad esempio, può assumere forme molto diverse, ma in sostanza la sua funzione rimane quella di essere un contenitore. Gli uomini debbono soddisfare dei bisogni determinati da necessità fisiologiche, ma "impulsi fisiologici semplici non possono esistere in condizioni culturali", perciò questo autore elenca sette bisogni fondamentali, ciascuno dei quali presenta una risposta culturale. Questa concezione strumentale della cultura, intesa come un insieme di mezzi volti all'appagamento di un sistema di bisogni, porta alla considerazione dell'esistenza di bisogni derivati, che diventano altrettanto importanti di quelli primari. Proprio la risposta culturale a questi ultimi pone la necessità di soddisfare una serie di bisogni derivati, relativi alla fabbricazione, conservazione e trasmissione degli strumenti utili a soddisfare quelli primari. Secondo questa impostazione lo studioso deve porsi di fronte ad ogni oggetto materiale, elemento culturale o istituzione, la domanda: a quale bisogno (individuale o sociale) risponde? Infatti ogni elemento culturale esiste in quanto risponde ad un bisogno, e non può essere accidentale o inutile: è errato pensare che sia possibile la "sopravvivenza" di elementi culturali i quali abbiano ormai perso ogni funzione. Perciò ogni fatto culturale deve essere spiegato in relazione al contesto della società in cui si colloca. Ogni cultura risulta originale, per il modo in cui si realizza l'interrelazione fra gli elementi che la compongono, e costituisce un insieme coerente da considerare nella sua globalità. Contro evoluzionismo e diffusionismo, Malinowski afferma la specificità del metodo funzionalista: "atomizzare o esaminare isolatamente i tratti culturali appare sterile, perché il significato di una cultura consiste nella relazione fra i suoi elementi" (Ivi, p. 23). Dunque questo studioso ha cercato di affermare un metodo scientifico per l'analisi sul campo delle società primitive, considerandole come sistemi coordinati e coerenti. Inoltre ha sviluppato notevolmente il concetto di cultura, che è "essenzialmente una realtà strumentale sorta per soddisfare i bisogni dell'uomo in una

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maniera che sorpassa di molto qualsiasi adattamento diretto all'ambiente" (Ivi, p.190-1). Malinowski propose un vero e proprio 'manifesto' del funzionalismo, e finì per consideraresi un

caposcuola, cosa che fu rifiutata da Radcliffe-Brown l'altro maggior esponente del funzionalismo antropologico. Peraltro vi erano effettive differenze fra le impostazioni di questi due antropologi: mentre per lo studioso polacco la funzione va sempre riferita all'individuo singolo, che costituisce la sede originaria dei bisogni primari, per quello inglese si deve in ogni caso fare riferimento alla società complessiva, cioè alle "condizioni necessarie" della sua esistenza.

Per Radcliffe-Brown (1952), che parte dalla concettualizzazione durkheimiana, occorre precisare bene il senso della nozione di funzione. Muovendo dall'analogia tra vita sociale e vita organica, egli afferma: "la funzione di ogni attività ricorrente quale può essere la punizione di un crimine o una cerimonia funebre, è il ruolo che essa svolge nella vita sociale intesa come totalità e perciò il contributo che dà al mantenimento della continuità strutturale". Per funzione non si deve intendere alcun "teleologismo sociale", per cui questo autore ritiene opportuno parlare di "condizioni necessarie" all'esistenza di un sistema, invece che di "bisogni" di esso. L'insieme delle numerose relazioni sociali di una società, in un momento dato, costituisce una struttura, che ha una sua coerenza interna e permane nel tempo: si tratta di un nodo resistente che permette di studiare una stessa società in momenti diversi.

Al fine di comprendere meglio l'impostazione di Radcliffe-Brown, occorre ricordare che per lui il sistema sociale persiste come un sistema naturale, per cui afferma la possibilità di una scienza naturale della società. Una struttura sociale mantiene la propria continuità, nonostante i cambiamenti interni che si verificano nel tempo, nello stesso modo in cui l'organismo vivente continua ad essere lo stesso, nonostante i mutamenti prodotti dal metabolismo. Perciò il tipo di cambiamento è di carattere evolutivo e quindi vi è una storia naturale delle società. Come si vede questo autore, a differenza di Malinowski, non è anti-evoluzionista, infatti ricorda che la sua prospettiva è quella di "uno studioso il quale per tutta la vita ha accettato l'ipotesi dell'evoluzione sociale... quale utile ipotesi di lavoro nello studio de lla società umana". Egli considera una continuità dei sistemi sociali di tipo dinamico, che permette un cambiamento, purché all'interno della struttura, mentre ricorda che soltanto in rare occasioni avvengono cambiamenti del tipo di struttura. Lo studioso deve spiegare sia la persistenza dei sistemi sociali, cioè i problemi sincronici, sia il cambiamento di tali sistemi, cioè i problemi diacronici: i primi però interessano maggiormente Radcliffe-Brown. Anche sul piano metodologico occorre distinguere fra due metodi: quello "storico" e quello "comparativo", che solo permette di arrivare a proposizioni di carattere generale. La comparazione permette "di conoscere le leggi dello sviluppo sociale". "Ma soltanto uno studio integrato e organico in cui il criterio storico e quello sociologico siano insieme congiunti ci consentirà di raggiungere una reale comprensione dello sviluppo della società umana, che siamo ancora oggi ben lungi dal possedere" (Ivi, p. 145-6).

3.3 I tre postulati del funzionalismo e la loro critica Dopo essersi affermato in antropologia, il funzionalismo si sviluppa nell'ambito dell'analisi

propriamente sociologica. Per rendere questa impostazione effettivamente utilizzabile per lo studio di società complesse occorreva una profonda revisione critica di quelli che Merton definisce i tre postulati del funzionalismo "classico". Questa ricostruzione, basata sulle opere di Malinowski e Radcliffe-Brown, anche se forse leggermente forzata, risulta molto utile.

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Il primo è il postulato dell' unità funzionale della società: "le attività sociali standardizzate o gli elementi culturali sono funzionali per l'intero sistema sociale o culturale" (Merton 1971, p.131). Si tratta di una impostazione organicista: analogamente a quanto avviene negli esseri viventi ciò che è positivo per la totalità lo è anche per ognuna delle parti che cooperano all'armonia complessiva. Inoltre, poiché riti e credenze sono aprioristicamente considerati propizi all'integrazione sociale, emerge il carattere conservatore del postulato. Per Merton la concezione dell'antropologo polacco relativa all'unità funzionale, che si riferisce sia all'intera società che ad ogni singolo individuo, è "doppiamente discutibile" rispetto a quella di Radcliffe-Brown, che oltre tutto ne parlava solo come di "un'ipotesi che richiederebbe ulteriori accertamenti". In particolare l'esempio della religione chiarisce che "un dato elemento sociale o culturale può avere conseguenze diverse, funzionali e disfunzionali, e ciò sia per gli individui che per i sottogruppi o per la struttura sociale e la cultura". Infatti, cosa succede del ruolo integratore della religione in presenza di un pluralismo religioso, e come si possono dimenticare le guerre di religione? Come mai anche i laici accettano i valori e i fini comuni della società e viceversa cosa succede quando vi è conflitto fra valori religiosi e laici (si pensi alla questione dell'aborto)? L'affermazione che i vari elementi sono funzionali per l'intero sistema, può essere accettabile nelle società non letterate, ma non lo è più in quelle attuali complesse e ampiamente differenziate. Che una istituzione favorisca l'integrazione sociale non può essere stabilito per postulato, ma va verificato empiricamente. Nelle società complesse l'analisi funzionale deve essere realizzata per le singole parti e non fra le parti e il tutto: bisogna "che vi sia una specificazione delle unità rispetto alle quali un dato elemento sociale o culturale è funzionale". Dunque l'integrazione sociale è una variabile empirica da studiare e non un postulato e neppure un ideale da raggiungere. Non si deve partire dalle funzioni per vedere come vengono realizzate, ma concentrare l'attenzione su particolari elementi circoscritti, dei quali successivamente individuare le funzioni. Evidentemente ogni società possiede un certo grado di integrazione, che però è variabile nel tempo e nello spazio: ogni società ha una situazione specifica. Merton, rifiutando questo postulato, dimostra una concezione dell'analisi funzionale non metastorica.

Il secondo è il postulato del funzionalismo universale: "siffatti elementi sociali e culturali svolgono tutti funzioni sociologiche" (Ivi, p. 140). È una impostazione che presenta il rischio di far dimenticare le conseguenze non-funzionali di certi elementi culturali: ad esempio i bottoni sulle maniche delle giacche da uomo, sono di questo tipo. Ha poco significato affermare che essi svolgono la funzione "di mantenere la tradizione". Per questo autore ogni elemento può avere una funzione, ma non è sempre detto che ce l'abbia. Esistono anche elementi disfunzionali: non si tratta solo più di funzioni positive (da alcuni funzionalisti chiamate più correttamente eufunzioni), ma anche di disfunzioni. La ragione storica di questo postulato, tipico del funzionalismo antropologico, risiede nel rifiuto del concetto di sopravvivenza, abusato dall'evoluzionismo nel ricostruire gli stadi dello sviluppo delle civiltà. Nei due casi, l'errore risiede nelle metodologie interpretative: come la nozione di sopravvivenza permette di spiegare tutti i fatti sociali che non si iscrivono nello schema evolutivo proposto, così il funzionalismo universale consente di chiarire ogni fatto sociale trovandogli una funzione, per quanto assurda. Per Merton non solo vi sono elementi non funzionali, o afunzionali, ma anche disfunzionali, perciò occorre impostare il problema in termini di bilancio funzionale, di possibile "somma algebrica" positiva. Perciò dalla critica di questo postulato emerge una visione dinamica del sistema sociale: nessun elemento è solo positivo o solo negativo e può succedere che disfunzioni provocate da un elemento si traducano, in definitiva, in un miglior adattamento del sistema.

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Il terzo è il postulato dell'indispensabilità: "ogni costume, oggetto materiale, idea o credenza ... rappresenta una parte indispensabile in un tutto operante" (Ivi, p. 143). In questo caso l'organicismo (attribuito da Merton in particolare a Malinowski) supera la stessa realtà degli esseri viventi, nei quali vi sono elementi non del tutto indispensabili (si vive senza appendice o tonsille). Questo postulato implica una grave ambiguità: sono le funzioni o le istituzioni (cioè gli elementi per lo svolgimento delle funzioni medesime), o ambedue, ad essere indispensabili? Quando vi è un'interpretazione rigida, per cui ogni funzione risulta indispensabile e ogni elemento risponde ad essa in modo univoco, si va incontro a gravi difficoltà teoriche, in quanto si tratta di un'affermazione irrealistica. Infatti esistono strutture sociali alternative: "proprio come lo stesso elemento può avere molteplici funzioni, così la stessa funzione può essere svolta, in vario modo, da elementi alternativi". Quindi questo autore afferma che occorre superare il postulato dell'indispensabilità per mezzo del concetto di alternative funzionali (o equivalenti funzionali o sostituti funzionali): una stessa funzione può essere assolta da una rosa di alternative istituzionali, che possono essere compresenti o successive nel tempo. Questo rende l'analisi funzionalista molto più elastica e dà anche spazio alle pratiche di trasformazione della società, poiché in tal modo è possibile sostituire un'istituzione con un'altra più evoluta. Merton dunque rifiuta il funzionalismo "assoluto" degli antropologi, proponendo un "funzionalismo relativizzato". Questa impostazione costituisce premessa teorica a progetti di trasformazione sociale: se ad ogni funzione deve corrispondere una istituzione, non è però sempre detto che essa sia la più soddisfacente, per cui ci può essere un'istituzione alternativa a quella esistente. Basta pensare, come esempio, alla funzione di socializzazione, che è facile ammettere sia indispensabile perché una società continui a sussistere: in un primo tempo l'istituzione preposta era soltanto il clan familiare, oggi, almeno la socializzazione secondaria, avviene attraverso la scuola, e anche, con sempre maggior forza, attraverso i mezzi di comunicazione di massa. Secondo questo sociologo il concetto di funzione, che ha un carattere fondamentalmente dinamico, deve legarsi a quello di alternativa, acquisendo così la capacità di spiegare anche gli aspetti conflittuali della società.

3.4. Funzioni manifeste e latenti L'altro elemento fondamentale della revisione mertoniana del funzionalismo è costituito dalla

distinzione, da lui considerata "centrale per l'analisi funzionale", fra funzioni manifeste e funzioni latenti. "Le prime si riferiscono a quelle conseguenze oggettive per una unità specifica (persona, sottogruppo, sistema sociale o culturale), che contribuiscono all'adattamento o all'aggiustamento di essa ed a tal fine sono state volute; le seconde a conseguenze dello stesso genere che non sono né volute né riconosciute" (Ivi, p.191). L'importanza della distinzione fra "motivazioni coscienti del comportamento sociale e conseguenze oggettive di esso" è di carattere prevalentemente metodologico: bisogna superare le apparenze, ricercando le funzioni nascoste dei fenomeni sociali, come del resto hanno spesso fatto i sociologi, pur senza arrivare ad esplicitare tale distinzione. Infatti "le scoperte concernenti funzioni latenti rappresentano per la conoscenza un incremento maggiore ... [e] un maggior distacco dalla conoscenza del 'buon senso' intorno alla vita sociale. In quanto le funzioni latenti si distaccano, più o meno, dalle funzioni manifeste dichiarate, la ricerca che scopre funzioni latenti produce molto spesso risultati 'paradossali'" (Ivi, p.199).

Merton osserva che è più facile pensare in termini di funzioni latenti quando si considera una attività

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(ad esempio la danza della pioggia) che scientificamente si ritiene irrealizzabile, perciò gli antropologi sono stati facilitati nell'evidenziare le funzioni latenti dei riti nelle società primitive (cioè rafforzare l'identità del gruppo). Quando invece si tratta di comportamenti non volti ad obiettivi chiaramente irraggiungibili, gli studiosi sono meno portati a considerare le funzioni latenti, per cui i sociologi troppo spesso si limitano ad esaminare le funzioni manifeste.

Molteplici sono gli esempi di analisi in termini di funzioni latenti proposti. Lo studio, realizzato da Veblen, del consumo vistoso nella società di massa, che pose in luce come

l'acquisto di un bene (ad esempio un'auto di lusso) più che da ragioni inerenti alle caratteristiche intrinseche a tale bene, fosse connesso proprio al costo elevato, che, non essendo accessibile a tutti, costituisce una dimostrazione di prestigio.

Le ricerche di Mayo alla Western Electric, che evidenziarono una situazione paradossale, dovuta proprio alla non considerazione delle "funzioni latenti delle pratiche correnti tra i lavoratori". In queste ricerche, partendo da ipotesi tayloristiche, si voleva verificare se davvero, aumentando l'illuminazione, aumentava di conseguenza l'efficienza produttiva. L'aumento della produttività, sia nel gruppo studiato che in quella di controllo, fu spiegato col fatto che, sentendosi osservati, tutti gli operai avevano aumentato il loro impegno nel lavoro. Questa scoperta diede vita ad uno sviluppo importante dell'impostazione tayloristica: l'approccio delle "relazioni umane".

Merton propone anche una propria analisi, in termini di funzioni latenti, della macchina politica negli Stati Uniti. Si tratta di un'organizzazione ufficiosa, non formalmente riconosciuta, con forti basi a livello locale, che si sostituisce alle istituzioni ufficiali nel fornire servizi ai propri affiliati, utilizzando spesso la corruzione ed il racket. Tutti ammettono che questa macchina politica è riprovevole, perché viola i principi della moralità e della legalità, ma si deve constatare che tale macchina funziona con notevole forza. Bisogna allora chiederesi se essa, nonostante le "disfunzioni manifeste" (sviluppo dell'illegalità), non adempia a delle funzioni latenti positive. Effettivamente il legalismo burocratico rende spesso impossibili azioni efficaci: un cittadino "povero", che ha legalmente diritto ad una prestazione, spesso non riesce ad ottenere risposta. La "macchina politica" supera il problema: il cittadino è conosciuto personalmente dal "boss" (l'uomo che padr oneggia la macchina), perciò può chiedergli, senza bisogno di giustificazioni, la prestazione di cui ha bisogno. Che ne abbia o meno diritto, col pagamento di un qualche contributo, otterrà rapidamente soddisfazione, senza nemmeno doversi preoccupare dei mezzi utilizzati. Questa situazione, che vale per il "povero cittadino", a maggior ragione funziona per i grandi affari, sia legali che illegali. La macchina politica, che è caratterizzata da una organizzazione centralizzata del potere, quasi per ovviare ai paralizzanti contrappesi ed agli equilibri di potere tipici del sistema costituzionale americano, compete, con successo, con le varie istituzioni ufficiali. Nel campo dell'assistenza sociale, grazie allo sviluppo di legami personalizzati impossibili agli operatori pubblici, ottiene risultati immediati e permette, inoltre, un più rapido inserimento nel sistema sociale americano dei gruppi di recente immigrazione. In definitiva si può dire che la macchina politica, secondo Merton, svolge almeno tre funzioni latenti: assistenza sociale, aiuto alle attività economiche (sia lecite che illecite) e aiuto alla mobilità sociale per i gruppi più sfavoriti. Il nostro autore trae, da questa analisi, delle importanti conclusioni sul piano teorico, per cui risulta evidente che funzione e struttura interagiscono: una struttura troppo burocratizzata non adempie alla funzione per la quale è stata creata, e allora tale funzione, non essendo realizzata dalla struttura ufficiale, viene svolta da una struttura parallela. Inoltre "ogni tentativo di

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eliminare una struttura sociale esistente senza che si provvedano strutture alternative adeguate a svolgere le funzioni che l'organizzazione abolita svolgeva precedentemente, è destinato al fallimento " (Ivi, pp. 219-220). Perciò le riforme sociali che non tengano conto delle funzioni latenti, rischiano di creare disillusioni e addirittura effetti boomerang.

Merton, sempre preoccupato delle applicazioni pratiche della sociologia, propone una importante fondazione delle riforme sociali: "volere un cambiamento sociale senza fare una debita ricognizione delle funzioni manifeste e delle funzioni latenti che l'organizzazione sociale da modificarsi svolge, significa indulgere al ritualismo sociale, piuttosto che al 'social engineering'" (Ivi, p. 220). Sono dunque impossibili riforme sociali di tipo "illuministico", cioè concesse dall'alto. Non basta, inoltre, un accordo generalizzato sul fatto che una certa organizzazione (ad esempio la mafia) sia riprovevole, per riuscire ad eliminarla: la più bella riforma sociale rischia di rimanere sulla carta, se non si tiene conto delle funzioni latenti. Giudizi di carattere morale, fondati solo sulle funzioni manifeste svolte da una certa struttura sociale, sono "non realistici", perché non tengono conto di ulteriori "reali conseguenze" di tale struttura. Perciò è indispensabile tenerne conto per realizzare riforme sociali effettive. Questa impostazione ha costituito una valida teorizzazione del riformismo del New Deal, partendo dalla realtà umana come base fondamentale dello sviluppo della società.

Sicuramente, come è stato rilevato da molti commentatori, questa impostazione non è priva di ambiguità: la distinzione fra funzioni manifeste e latenti ha senso fondamentalmente solo dal punto di vista di un osservatore esterno, che attraverso di essa evidenzi aspetti nascosti al senso comune. Infatti è abbastanza difficile sostenere che, ad esempio, le funzioni latenti della macchina politica sfuggano del tutto agli attori sociali. È molto probabile che esse possano essere riconosciute, perché producono in cambio un rafforzamento del potere del boss, anche se forse non sono volute, nel senso che tali conseguenze, in se stesse, interessano abbastanza poco chi governa tale macchina (in quanto il boss non è un assistente sociale, pur se finisce in qualche caso per svolgerne le funzioni in modo più adeguato, anche se per propri fini particolari). All'opposto, nel caso del consumo vistoso, si può dire che la funzione latente di differenziazione sociale è voluta, anche se non riconosciuta, dall'attore.

In definitiva crediamo che l'ambiguità della differenza fra funzioni latenti e manifeste si riduca, se si tiene presente l'ambiente di derivazione durkheimiana di Merton, per il quale ci si deve mettere dal punto di vista di un osservatore esterno. Del resto in generale l'approccio funzionalista si basa proprio su di una osservazione di tipo esterno ed oggettivo: solo così si può parlare di funzione, altrimenti si dovrebbe ricorrere al concetto di fine, se ci si mettesse dal punto di vista del soggetto agente. Si usano i termini funzionale e disfunzionale adeguatamente solo prendendo le distanze dalla situazione analizzata, mentre se ci si pone in un'ottica comprendente (cioè si cerca di entrare nei panni dell'attore sociale) sarebbe più appropriato parlare rispettivamente di positivo e negativo. Ad esempio, nell'analisi della macchina politica americana, le considerazioni che si ricavano prescindono da come agli attori percepiscono la situazione, dimostrando che la consapevolezza degli individui coinvolti sarebbe incapace di comprendere i meccanismi descritti (Coenen-Hunther 1984).

Probabilmente sarebbe stato meglio se Merton si fosse accontentato di rilevare che le conseguenze oggettive delle azioni producono una molteplicità di funzioni, alcune note ed altre no, ma che è importante conoscerle globalmente per capire come funziona la società e, quindi, eventualmente cambiarla.

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3.5. Le teorie di medio raggio Un altro aspetto rilevante che distingue il funzionalismo "relativizzato" di Merton è l'importanza

assegnata alle "teorie di medio raggio". Egli rifiuta una dimensione onnicomprensiva della teoria, opponendosi sia al cieco empirismo sviluppato dai funzionalisti che non sanno andare al di là dei dati, sia alla "grande teoria". Si tratta dunque di "teorie intermedie fra le ipotesi di lavoro che si formulano abbondantemente durante la routine quotidiana della ricerca e le speculazioni onnicomprensive basate su uno schema concettuale unificato che mirano a spiegare tutte le uniformità, empiricamente osservabili, del comportamento sociale, dell'organizzazione sociale e del mutamento sociale" (Merton 1971, p. 67). Tali teorie intermedie, dotate di maggiore rigore scientifico e verificabilità empirica, dovrebbero costituire la strada maestra sulla quale far progredire la teoria sociologica. Questo autore ritiene "che siano le teorie di medio raggio ad offrire le più larghe promesse, purché la loro ricerca sia accompagnata dal proposito fermo di unificare le teorie specifiche in un insieme più generale di concetti e proposizioni reciprocamente collegati" (Ivi, p.89). Non sembra dunque che per Merton sia impossibile, in futuro, arrivare a teorizzazioni generali della società, ma per ora sarebbe prematuro. Infatti fra la sociologia e, ad esempio, la fisica vi è un enorme divario di ore di lavoro: sarà possibile arrivare a teorie generali solo dopo un lungo processo di accumulazione scientifica, altrimenti si rischia di costruire un sistema filosofico invece di fare della scienza. Come primo esempio di teorie di medio raggio, questo autore considera lo studio sul suicidio di Durkheim.

Sintetizziamo, di seguito, una delle teorie di medio raggio mertoniane: la teoria dell'anomia. La teoria mertoniana identifica l'anomia nella contraddizione fra la meta della riuscita, culturalmente

definita, ed il mancato accesso a mezzi leciti e idonei al suo raggiungimento. L'individuo, in questa situazione, può vedersi costretto a comportamenti devianti, cioè in particolare all'uso di mezzi illeciti.

Merton, dunque, distingue le mete culturali, che sono aspetti della "struttura culturale", dai mezzi istituzionalizzati, che sono relativi alla "struttura sociale". Le mete, cioè le aspirazioni, gli interessi, sono più o meno integrati fra loro e "sebbene talune... (non tutte) siano direttamente connesse agli impulsi biologici dell'uomo, non ne sono però determinate" (Merton 1971, p. 300). Le norme costituiscono la regolamentazione che definisce i modi, leciti, per raggiungere gli obiettivi socialmente prefissati. I mezzi istituzionalizzati sono le condizioni oggettive dell'agire, che dipendono dalla differente distribuzione delle risorse per raggiungere le mete. Nella cultura americana viene dato grande rilievo alla meta del successo, senza che, contemporaneamente, siano tenuti in considerazione i mezzi istituzionalizzati per il suo conseguimento. Infatti si dice che tutti debbono tendere agli stessi fini, che si considerano aperti universalmente. L'insuccesso è valutato come una semplice tappa verso la meta finale, mentre solo la rinuncia è vista come scacco.

Utilizzando la terminologia mertoniana, si può dire che la frattura fra mete e mezzi ha una funzione manifesta ed una latente. La prima consiste nel distribuire gli individui nei ruoli sociali stratificati. Infatti, poiché non esistono per tutti mezzi idonei per arrivare agli strati più elevati, si mantiene la stratificazione esistente. La seconda va vista nel prodursi della devianza, espressione dell'individualità costretta da un determinato tipo di s truttura sociale.

La concezione dell'anomia di Merton è in, un certo senso, opposta a quella di Durkheim. La prima rinvia alla limitazione dei mezzi, la seconda alla mancanza di limiti nei fini. Per il sociologo americano le mete sono prescritte dal sistema culturale, per quello francese l'illimitatezza dei fini costituisce la

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caratteristica centrale dell'anomia. L'individuo anomico di Merton è sicuro delle proprie mete, ma gli mancano le risorse per raggiungerle; quello di Durkheim ha di fronte un ventaglio di possibilità così ampio che lo rende incerto (Besnard 2005).

3.6. Rapporto fra teoria e ricerca Questo autore sottolinea con forza l'influenza reciproca fra teoria sociologica e ricerca empirica. L'apporto della teoria, nei confronti della ricerca, consiste essenzialmente nel fornire uno schema

concettuale che aiuta lo studioso ad orientare il proprio lavoro, che si realizza in una ricerca rivolta a rilevare le uniformità empiriche che producono conseguenze sulla sistemazione teorica. Teorie, anche provvisorie e limitate, sono indispensabili per formulare delle ipotesi ed arrivare a delle spiegazioni, ma anche semplicemente per ordinare la realtà sociale e scegliere dei concetti adeguati.

Spesso i teorici tendono a limitare il ruolo della ricerca ad una specie di sperimentazione, che ha soltanto il compito passivo di verificare il valore della teoria. Per Merton, invece, la ricerca svolge un ruolo attivo nei confronti della teoria: "stimola, riformula, riorienta e chiarifica" (Ivi, p. 255).

In primo luogo la ricerca empirica stimola la teoria in quanto può dare origine a nuove ipotesi, che scaturiscono di solito da un risultato inatteso o anomalo rispetto alle ipotesi di partenza. Si ha la serendipity cioè la scoperta, dovuta al caso (scoperta della pennicillina) o meglio alla sensibilità dello studioso. Occorre che il ricercatore approfondisca il significato del fatto imprevisto, mantenendo un atteggiamento teorico.

Secondariamente la ricerca contribuisce a riformulare la teoria, quando questa risulta, in base alle ripetute osservazioni, non adeguata: in tal caso viene ampliato lo schema concettuale iniziale.

In terzo luogo la ricerca riorienta la teoria grazie al fatto che l'elaborazione metodologica di nuovi procedimenti di indagine sollecita l'interesse per nuovi temi di ricerca (è il caso ad esempio di procedimenti quali l'analisi del contenuto o l'intervista focalizzata).

Infine la ricerca chiarifica la teoria, in quanto impone che i concetti siano definiti in modo molto chiaro al fine di poter procedere nell'indagine. Una seria concettualizzazione teorica deve allontanarsi dalle esposizioni discorsive, largamente presenti nelle scienze sociali: la ricerca costringe a definizioni precise con indicatori adeguati.

È tipico dello sforzo di chiarezza metodologica di Merton l'avere tentato di definire la funzione come concetto specificatamente sociologico, poiché tale termine è stato utilizzato diversamente dal linguaggio comune e da varie discipline. Egli considera cinque significati, chiarendo che ve ne sono molti altri possibili.

1)- Riunione pubblica, ad esempio religiosa. 2)- Attività assegnata al titolare di un incarico. 3)- Occupazione. 4)- y=f(x) (y è funzione di x, dato che per ogni valore della variabile "indipendente" 'x' esiste uno ed

un solo valore della variabile "dipendente" 'y'). 5) Processi sociali o biologici che servono al mantenimento del sistema. Quest'ultimo significato è il più importante per la sociologia, ma anche quello matematico è stato

spesso usato dagli studiosi della società. Le funzioni sociali così osservate vanno però distinte dai "motivi", che sono soggettivi, in quanto chiaramente oggettive (Sztompka 1986). Ad esempio i motivi

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personali che portano, ciascun individuo, al matrimonio non sono necessariamente uguali alla funzione svolta dalla famiglia, che è prevalentemente quella di socializzare i bambini. Questo oggettivismo lega la posizione mertoniana al positivismo durkheimiano, che privilegia nettamente il punto di vista dell'osservatore esterno. Proprio l'importanza attribuita alle possibilità di mutamento sociale ed il ruolo delle teorie di medio raggio, luogo di integrazione tra teoria e ricerca empirica, costituiscono gli aspetti originali di tale tipo di funzionalismo. Anche se non sempre gli assunti me todologici innovativi sono stati portati fino in fondo, essi costituiscono un notevole stimolo critico per un ripensamento del funzionalismo.

3.7. Considerazioni critiche Cohen (1971, pp.68-92) ha opportunamente raggruppato le innumerevoli critiche che sono state

rivolte al funzionalismo in tre tipi fondamentali: di ordine logico, contenutistico e ideologico . La prima critica di ordine logico consiste nel fatto che il funzionalismo scambierebbe gli effetti per

cause: la religione esisterebbe per sostenere le basi morali della società, lo Stato per coordinare le attività sociali. In questi casi le conseguenze dell' azione della religione e dello Stato diventerebbero altrettante ragioni per spiegare la loro esistenza. "È come se uno dicesse: x produce y, perciò l' accadere di y, che è auspicabile, deve spiegare l'accadere di x". Risulta certo difficile accettare, sul piano logico, che un fenomeno sia causato da un altro, temporalmente successivo. Occorre però ricordare che Nagel e Hempel, epistemologi neopositivisti, sostengono la validità scientifica sia della spiegazione causale che di quella funzionale: la differenza consiste solo nel fatto che la prima fa riferimento a condizioni antecedenti, mentre la seconda parla di conseguenze. È vero che permarrebbe una superiorità concorrenziale della spiegazione causale su quella funzionale, ma quest'ultima, attraverso la ricerca comparativa degli equivalenti funzionali, risulta utilissima per una migliore conoscenza dei rapporti fra le macrostrutture della società (Giesen e Schmid 1982).

La seconda critica logica afferma che il funzionalismo non permetterebbe di formulare delle ipotesi empiricamente controllabili. Che lo Stato coordini le attività sociali o che la religione produca consenso è un fatto che non si può affermare o negare in modo assoluto. Si tratta di una supposizione che può essere vera in certi casi e falsa in altri e ad ogni modo, rispetto ad ipotesi di questo genere, si possono sempre trovare elementi di prova, anche quando esse sono evidentemente infondate. Ad esempio si può affermare che la religione ha provocato guerre e stragi, invece che pace e fratellanza, ma si può rispondere che questi avvenimenti si sono verificati proprio perché i fedeli mettono il più grande impegno nel sostenerla.

La terza critica logica sostiene che il funzionalismo impedisce la comparazione e la generalizzazione. Se un elemento della società può essere analizzato soltanto nel quadro della totalità cui appartiene, esso presenta caratteristiche di unicità che non permettono di trasferire i risultati di ricerca ad altre situazioni. Ad esempio se la famiglia italiana può essere compresa soltanto in riferimento alla società italiana, e questa situazione si verifica anche per la famiglia francese e così via, sarebbe impossibile un metodo comparativo.

La prima critica di ordine contenutistico fa riferimento al fatto che il funzionalismo dà troppa importanza al problema dell'ordine. Questa situazione non sarebbe altro che la conseguenza della visione della società come un tutto solidale, che quindi necessita di una organizzazione duratura nella

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quale le varie parti (individui, gruppi, istituzioni e così via) sappiano stare al loro posto ubbidendo agli imperativi del sistema. La seconda critica contenutistica evidenzia il fatto che il funzionalismo sminuisce la dimensione del conflitto sociale ed è incapace di fornire spiegazioni soddisfacenti del mutamento, a volte addirittura considerato come fatto anomalo, insistendo sull'armonia sociale e privilegiando l'ottica dell'equilibrio. Pare ovvio che nell'equilibrio del sistema il cambiamento non possa che assumere un'importanza secondaria, spesso casuale e comunque generalmente poco rilevante.

La principale critica di ordine ideologico riguarda il fatto che il funzionalismo rispecchierebbe una prospettiva conservatrice. L'insistenza sull'importanza del 'sistema' produrrebbe, alla lunga, il risultato di far credere che, se esiste e perdura, è positivo e quindi va difeso da tutti i tentativi non solo di sovversione ma addirittura di mutamento. Si può in tal caso affermare che questa impostazione sociologica non è altro che una proiezione, sul piano intellettuale, della potenza del 'sistema'.

Come abbiamo visto, molte di queste critiche erano già presenti in alcuni degli stessi funzionalisti, particolarmente in Merton, il quale ha svolto un'opera importante per superare gli aspetti più deboli della tradizione di ricerca in questione.

Non sono mancate critiche severe al sostanziale empirismo di Merton, che con le teorie di medio raggio non farebbe altro che trasformare la teoria funzionale in un metodo. Sostituire la teoria con il metodo costituirebbe proprio una caratteristica tipica dell'empirismo. Del resto le teorie di medio raggio non possono fare a meno di ipotesi teoriche, che si inquadrano pur sempre in un sistema sociale complessivo, ridotto però a un guscio vuoto. Insomma, nonostante questo autore si sia sforzato di superare l'empirismo più ingenuo, ne rappresenterebbe soltanto "una versione sofisticata" (Layder 1990). Questo perché, pur avendo sottolineato la differenza fra generalizzazioni empiriche e teoria, tenderebbe a validare quest'ultima soltanto sulla base dell'esperienza empirica. È curioso, a questo proposito, che Merton proponga, come esempio di teoria di medio raggio, proprio l'analisi durkheimiana del suicidio, che noi abbiamo invece utilizzato come esempio di impostazione non empirista. Ricordiamo che la teoria dell'anomia del sociologo francese è il risultato della precedente ricerca sulla divisione del lavoro, e non delle generalizzazioni empiriche sui dati relativi ai suicidi in Europa.

Nagel (1956) afferma che, nonostante tutto, l'equilibrio rimane il quadro di riferimento del paradigma mertoniano. Inoltre il termine funzione ha altri significati, in aggiunta a quelli attribuitigli dall'autore in esame e quindi egli non è riuscito a conferirgli univocità. Infine manca la considerazione dei vincoli materiali e culturali che condizionano i rapporti nella realtà sociale. Vi è poi chi ha addirittura accusato l'analisi di Merton, relativa alla macchina politica americana, di "implicazioni conservatrici", in quanto accetterebbe come dato ciò che invece va spiegato. Il potere promuoverebbe interessi particolari per poter organizzare la società dall'alto e l'analisi considererebbe la popolazione un soggetto passivo, manipolabile a piacere dalle élites (Swingewood 1984). In quest'ultima critica viene presunto un sostanziale determinismo mertoniano, sottovalutando le già ricordate valenze riformistiche di questa impostazione. Invece ci pare che, al massimo, si possa dire che la revisione del funzionalismo operata da Merton avrebbe potuto portarlo a sostituire la nozione stessa di funzione con quella di contraddizione, fuoriuscendo dalla tradizione di ricerca funzionale, ma è davvero eccessivo accusarlo di conservatorismo.

Uno dei motivi del successo di Merton, rispetto ad altri funzionalisti, è probabilmente da addebitare alla maggior chiarezza delle sue analisi, soprattutto per il linguaggio, che non è quasi mai vago o

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impreciso: nonostante però i suoi tentativi una certa indeterminatezza terminologica continua a caratterizzare questa tradizione di ricerca.

4. LA TEORIA SISTEMICA 4.1. Parsons e la teoria sistemica

L'insieme dell'opera di Parsons può essere diviso in tre fasi: una prima, pre-funzionalista, specifica

dell'opera La struttura dell'azione sociale, una seconda, da lui stesso a suo tempo considerata struttural-funzionalista, la cui massima espressione è Il sistema sociale, e una terza che porta questo autore sempre più verso una posizione sistemica, tipica ad esempio di un'opera come Sistemi di società. È utile sottolineare che l'impostazione parsonsiana fa riferimento sia al modello meccanicistico (Pareto) sia a quello organicistico, sia (nell'ultimo periodo) alla teoria generale dei sistemi. Della concezione paretiana questo autore recepisce alcune idee fondamentali: a) che l'equilibrio costituisce la situazione preferita del sistema sociale; b) che ogni individuo agisce perseguendo il massimo delle gratificazioni possibili; c) che ogni sistema sociale tende a riprodursi sempre uguale a se stesso e perciò ogni un mutamento ha, necessariamente, una causa esogena (Gallino 1978)

Evidentemente, quindi, Parsons non può essere solo considerato un teorico dei sistemi, ma non è forse senza significato il fatto che egli abbia intitolato la propria autobiografia intellettuale On Building Sistems Theory: sembra si possa dire che questo autore divenne sempre più convinto che la sociologia debba utilizzare gli stessi modelli sistemici usati dai biologi (Wilson 1983). Del resto la nozione di sistema risulta fondamentale in tutta l'opera parsonsiana, infatti egli afferma: "il concetto di sistema nel campo dell'agire e in altri campi ha costituito un nodo centrale del mio pe nsiero già dalle prime fasi” (Parsons 1978). In La struttura dell'azione sociale, anche se tale concetto è adoperato prevalentemente per rilevare l'interdipendenza degli elementi dell'azione, vengono espresse alcune posizioni che caratterizzeranno tutto il suo successivo lavoro scientifico: la sociologia e le altre scienze dell'azione, per svilupparsi, hanno bisogno di una impostazione sistematica. Inoltre gli elementi che compongono il sistema "sono interdipendenti, legati insieme in modo tale che il cambiamento o il funzionamento corrente possono essere compresi solo come il risultato di una complessa serie di interazioni tra le strutture e i processi nei cui termini essi sono organizzati" (Hamilton 1989, p.101). Pertanto esporremo questo autore in relazione alla teoria sistemica, senza per questo dimenticare i suoi importanti contributi alla teoria dell'azione ed al funzionalismo.

4.2. Il problema dell'ordine sociale

Fin dall'inizio Parsons rifiuta "l'empirismo sociografico" diffuso negli anni 30 e 40 negli Stati Uniti.

Per lui la scienza non può limitarsi ad una mera accumulazione di dati, ma deve appoggiarsi a un quadro teorico capace di attribuire significato a questi dati. Una questione fondante della sociologia è costituita dal problema di come sia possibile l'ordine sociale (Parsons 1937).

Questo autore si domanda quale sia una soluzione accettabile di tale questione, per la quale la filosofia politica ha proposto due soluzioni. La prima è quella di Hobbes, per il quale punto di partenza era lo stato di guerra di tutti contro tutti (homo homini lupus), poiché ognuno cercava di "distruggere

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l'altro". Gli uomini, ad un certo punto, per superare tale situazione, decidevano di delegare tutto il potere allo Stato Leviatano, passando dallo "stato di natura" ad una convivenza ordinata. La seconda è quella di Locke, per il quale la società è il risultato di un contratto fra gli uomini, basato sugli interessi comuni. In questo caso l'ordine sociale non costituisce un problema, poiché è la naturale conseguenza della comunanza di interessi fra gli uomini. Per Parsons nessuna di queste due soluzioni pare sufficiente ad assicurare l'ordine sociale. I comportamenti sociali non sono soltanto il risultato degli interessi egoistici o della sottomissione alla forza statuale, ma anche dei valori e delle norme. Questa è la risposta che deriva dalla tradizione sociologica, secondo la quale la società esiste anche come sistema di valori, di culture e di norme. Le azioni degli individui possono armonizzarsi, permettendo l'ordine sociale, grazie al fatto che essi hanno introiettato tali valori e tali norme.

Parsons afferma che lo stato di natura è impossibile logicamente. Infatti, per lui, ogni società implica, necessariamente, un insieme di valori condivisi, in relazione ai quali gli uomini scelgono fini e mezzi e dimostrano aspettative rispetto alle azioni degli altri. Dunque siamo di fronte all'affermazione che esiste un insieme di valori condivisi da cui scaturiscono, come norme, degli obblighi interiorizzati durante la socializzazione. Questo tipo di integrazione sociale è l'unica davvero capace di mantenere l'ordine sociale, mentre la costrittività risulterebbe insufficiente. L'importanza data all'aspetto normativo non deve, però, far dimenticare che "si deve pensare all'azione come implicante uno stato di tensione tra due ordini diversi di elementi, quello normativo e quello condizionale" (Ivi, p 898). Occorre mantenere sempre compresenti i due elementi, altrimenti si ricade, se si annulla l'aspetto normativo, nel determininismo oggettivistico, se si elimina l'aspetto condizionale, nel volontarismo soggettivistico.

4.3. Le pattern variables Parsons, per analizzare gli orientamenti di valore, utilizza le pattern variables (variabili modello), che

rappresentano i cinque dilemmi di scelta che sono a monte di ogni azione specifica. Gli attori risultano liberi di dare la preferenza all'uno o all'altro dei due corni di ciascun dilemma, ma sono in ciò condizionati dai valori dominanti e dalle norme. Tali pattern variables servono ad analizzare e classificare sistemi di valore a livello del sistema culturale, gli orientamenti degli attori a livello del sistema della personalità ed i ruoli sociali a livello del sistema sociale, evidenziando in tal modo la continuità esistente fra i tre livelli. Fra le varie definizioni delle pattern variables utilizziamo la formulazione iniziale (Parsons, Shils e altri 1951, pp. 48 e ss. ). 1) Affettività - Neutralità affettiva: l'attore può lasciarsi guidare dai propri sentimenti o, al contrario, tenerne a freno le manifestazioni. 2) Orientamento verso di sé - Orientamento verso la collettività : l'azione può essere motivata da scopi puramente personali, oppure la finalità collettive. 3) Universalismo - Particolarismo: l'alternativa consiste nel valutare l'oggetto di un'azione in rapporto con un sistema generalizzato di regole, oppure sulla base delle significato specifico che esso ha per l'attore stesso. 4) Ascrizione - Realizzazione: L'attore si basa in prevalenza o sugli aspetti predeterminati dell'altra persona (esempio sesso-età) o sulle caratteristiche acquisite (ad esempio la qualifica professionale).

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5) Specificità - Diffusione: l'attore può essere interessato soltanto ad una parte della personalità e dell'azione degli altri attori, oppure considerarli nella loro globalità (interesse specifico-interesse diffuso).

Si può dire, ad esempio, che la modalità di rapporto di una madre nei confronti del figlio verrà individuata attraverso l'affettività, il particolarismo, l'ascrizione e la dif fusività. Invece l'atteggiamento di un insegnante sarà improntato a neutralità affettiva, universalismo, realizzazione e specificità.

Parsons ha studiato l'interazione medico-paziente, chiarendo le aspettative di ruolo nei confronti della professione medica. Oltre la realizzazione, perché il medico è tenuto a possedere delle competenze socialmente validate, questa figura professionale deve avere un atteggiamento sottoposto all'universalismo , evitando così che rapporti particolari interferiscano con la cura. Inoltre le altre caratteristiche del suo comportamento saranno: la specificità, la neutralità affettiva e, infine, l'orientamento verso la collettività.

Le cinque pattern variables possono essere combinate in modi diversi e danno luogo a un sistema di aspettative di ruolo che, a sua volta, può essere utilizzato per differenziare empiricamente diversi tipi di società (Parsons 1965, pp. 161-210). Ad esempio la società industriale è caratterizzata da orientamenti neutrali, universalistici, volti alla realizzazione e specifici, e sarà tanto più moderna quanto più si svilupperanno universalismo e realizzazione.

Le pattern variables presentano una rilevanza differente. Universalismo-particolarismo e ascrizione-realizzazione sono particolarmente adeguate a considerare le proprietà delle situazioni nella quale si trova il soggetto agente e quindi utili per l'analisi dei sistemi sociali. Affettività -neutralità affettiva e specificità-diffusione sono, invece, soprattutto utili per l'analisi degli orientamenti di base dell'attore. Uno status a sé possiede il dilemma ego-collettività: essenzialmente stabilisce i rapporti fra le due coppie precedenti. Questa coppia di variabili è stata successivamente abbandonata da Parsons, perchè risultava ancora troppo influenzata dall'utilitarismo, ponendo, in sostanza, l'alternativa fra individualismo e altruismo.

4.4. Gli imperativi funzionali dei sistemi Nella fase più propriamente sistemica, Parsons applica la propria teoria dell'azione ai campi più

diversi, dalla famiglia all'economia. La pluralità di prospettive nelle quali si inseriscono le pattern variables viene sostituita da due diversi assi di differenziazione. Il primo costituito dalla dimensione strumentale-consumatoria, che si riferisce cioè alla distinzione tra fini e mezzi. Il secondo costituito dalla dimensione esterna -interna, vista in rapporto con l'ambiente (Parsons, Bales e Shils 1953). Proprio in questo quadro l'autore abbandona la variabile modello ‘orientamento verso di sé - orientamento verso la collettività’, che veniva ad assumere un significato meramente derivato.

Parsons affronta il problema dei requisiti funzionali di ciascun sistema, creando uno schema nel quale sono considerati i quattro bisogni fondamentali, o imperativi funzionali, a cui esso deve rispondere per poter esistere e mantenersi.

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Strumentale Consumatorio (MEZZI) (SCOPI) A G Esterno Adattamento Conseguimento Interno Latenza Integrazione L I

La latenza (latent pattern maintenance ) risponde all'esigenza del mantenimento della coerenza del sistema di valori e di gestione delle tensioni fra gli attori, per preservare l'identità del sistema. L'integrazione (integration) assicura il reciproco adattamento delle parti del sistema e la sua stabilità, fatto indispensabile affinché non si disgreghi. Il conseguimento (goal attainment) riguarda il raggiungimento degli obiettivi a lungo termine, costituendo la funzione più ovvia del sistema. L'adattamento (adaptation) risponde alla necessità di recuperare sufficienti risorse dall'ambiente, per la sopravvivenza ed il raggiungimento dei fini.

Lo schema AGIL individua dunque quattro aspetti fondamentali di ogni tipo di sistema: questo è il risultato del processo di specializzazione funzionale che si produce in ciascun di essi, dando luogo appunto a quattro sottosistemi; nonostante questa tendenziale specializzazione funzionale ogni struttura mantiene però un carattere multifunzionale. Si può dire che, in Parsons, la nozione di sistema venga a costituire il punto di partenza dell'ana lisi sociologica. La sua concettualizzazione complessiva lo porta, in seguito, ad interrogarsi sui requisiti indispensabili al suo mantenimento in quanto sistema, studiandone gli elementi costitutivi e le loro interrelazioni. Pertanto, per questo autore, il concetto di funzione costituisce soltanto il risultato di una riflessione a partire dall'analisi di sistema e sottosistemi (Coenen-Hunter 1984).

Il sistema generale dell'azione, che aveva costituito il punto di partenza di Parsons nelle prime opere, può essere visto in termini quadrifunzionali, dando luogo quindi a quattro sottosistemi: organico, psicologico o della personalità, sociale e culturale. L'organismo biologico svolge una prevalente funzione di 'adattamento', fornendo agli altri sistemi le risorse derivate dall'ambiente. La personalità è il sistema decisionale che si occupa del 'raggiungimento dello scopo'. Il sistema sociale è preposto alla 'integrazione' fra i modelli culturali e le necessità della personalità. Il sistema culturale ha come compito principale di produrre la 'latenza', cioè di gestire le tensioni e mantenere il modello di valori del sistema.

I quattro sottosistemi, pur essendo tra loro interdipendenti, sono in un rapporto gerarchico di tipo cibernetico, cioè basato sulla ricchezza di informazione. Il sistema culturale si pone perciò nel punto più alto di tale gerarchia, essendo costituito soprattutto da elementi simbolici, e quindi controlla l'azione esclusivamente attraverso l'informazione, seguono poi il sistema sociale, della pe rsonalità e organico, il quale ultimo risulta essere il più povero di informazione ed invece ricco di energia: ogni sistema esercita un controllo su quello sottostante.

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Anche il sistema sociale è costituito a sua volta da quattro sottosistemi, anch'essi ordinati gerarchicamente. Latenza "Un sistema sociale è sempre caratterizzato da un sistema di valori istituzionalizzato. Il primo imperativo funzionale del sistema sociale è quello di mantenere l'integrità di quel sistema di valori e di garantirne l'istituzionalizzazione" (Parsons e Smelser p.92). Le istituzioni preposte a tale funzione sono: la famiglia, le istituzioni educative e quelle religiose, tutti i tipi di manifestazioni simboliche. Integrazione Altro imperativo funzionale "è quello di mantenere la solidarietà nei rapporti tra le diverse unità nell'interesse di un effettivo funzionamento" (Ivi, p.94): man mano che un sistema sociale si fa più complesso il problema integrativo diventa più importante, in quanto la maggiore specializzazione produc e una più ampia necessità di coordinamento. Le istituzioni preposte a tale funzione sono quelle giuridiche ed in generale quelle rivolte al controllo sociale. Conseguimento "Il sottosistema per il conseguimento dello scopo concerne le funzioni politiche in senso lato di una società e, dal momento che queste funzioni coincidono con la struttura statale, ci sembra adeguato definire questo settore 'sistema politico'...[il cui scopo] è quello di massimizzare la capacità della società di conseguire i suoi scopi sociali, cioè gli scopi collettivi" (Ivi. pp.121-2) Adattamento "Questa funzione adattiva... in senso negativo significa minimizzare la subordinazione al controllo da parte della situazione esterna (ad esempio inondazioni, carestie etc.). In senso positivo indica il possesso di un massimo di risorse disponibili come mezzi per conseguire ogni scopo ritenuto di valore dal sistema o dalle sue unità componenti" (Ivi, p.97). Il sottosistema che svolge la funzione adattiva della società è, quindi, quello economico.

4.5. L'evoluzione delle società Inizialmente Parsons aveva criticato con forza l'evoluzionismo, ma poi anche lui viene tentato da

questa concezione della storia. Certo la sua posizione è più complessa e raffinata, non essendo più di tipo unilineare come era quello ottocentesco; infatti riconosce una molteplicità di cause storiche ed una pluralità di possibili traiettorie di sviluppo.

Questo autore, rifacendosi alla biologia, evidenzia che la capacità di adattamento aumenta grazie ai processi di differenziazione, anche per la società. Dalla cibernetica, invece, acquisisce l'idea che l'evoluzione avviene verso un tipo di società sempre più basata sull'informazione.

La differenziazione, processo che in Parsons ha una collocazione centrale, costituisce una vera e propria "legge" di notevole rilievo; infatti più una società evidenzia differenze fra i suoi quattro sotto-sistemi funzionali, più è avanzata dal punto di vista dello sviluppo (Rocher 1972). Ad esempio la differenziazione progressiva fra la proprietà dei mezzi di produzione ed il potere decisionale, cioè la separazione tra il ruolo dell'azionista e quello del manager, costituisce un caso particolarmente significativo. Una società progredisce quanto più si differenzia per poter rispondere meglio alla molteplicità dei suoi bisogni in modo adeguato. Affinché si possa sviluppare la differenziazione,

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occorre mettere in atto "nuove modalità di integrazione per coordinare gli elementi nuovi e più numerosi che la compongono" (Ivi, p.95).

Parsons si preoccupa di sottolineare l'importanza della funzione svolta dalle tre grandi "rivoluzioni" (industriale, democratica e dell'istruzione) nel produrre il processo evolutivo verso la società moderna. Queste rivoluzioni, tra la fine del settecento e l'inizio dell'ottocento, posero le premesse per una più definita differenziazione dei quattro sottosistemi della società (Parsons 1973). La rivoluzione industriale ha sviluppato il sottosistema economico, che come sappiamo è rivolto all'adattamento; quella democratica ha aiutato i sottosistemi politico e della comunità societaria, per il raggiungimento degli scopi e l'integrazione sociale; quella dell'educazione ha notevolmente ampliato la socializzazione, che è preposta a soddisfare il bisogno essenziale della latenza.

Per Parsons, dunque, vi sarebbero dei veri e propri universali evolutivi, indispensabili affinché si sviluppi una società moderna: industrializzazione e mercato, democrazia e istruzione sono i principali.

4.6. Considerazioni critiche La teoria sistemica, che considera la sociologia come scienza dei sistemi sociali, è la sola

impostazione che, soprattutto attraverso l'opera parsonsiana, abbia cercato di proporsi come teoria scientifica unitaria l'insieme della disciplina, nel senso del paradigma Kuhniano. Proprio questa questione viene sottolineata, da chi difende questa impostazione, affermando che i critici dovrebbero "chiarire se rinunciano all'unità della disciplina o se sanno proporre una qualche alternativa all'approccio sistemico" (Luhmann 1970, p.130). In questo senso le critiche alla parzialità verso l'ordine e l'integrazione non possono essere svolte a partire da un'altra parzialità verso il mutamento ed il conflitto. La teoria sistemica può facilmente dimostrare che è anche in grado di prendere in considerazione le tensioni sociali ed il cambiamento, come abbiamo appena visto.

Fra le numerose obiezioni rivolte all'opera di Parsons, di particolare interesse ci pare quella che lo accusa di anteporre il concetto di struttura a quello di funzione. In questo modo sarebbe impossibile problematizzare le strutture, che rimangono un dato, rispetto al quale la domanda è: a quali condizioni possono mantenersi? Se invece si parte dal concetto di funzione, ci si può chiedere quale funzione svolgano certe strutture specifiche, senza doverle presupporre (Ivi). Bisogna, però, ricordare che questa critica è molto simile a quella fatta da Merton al postulato della indispensabilità funzionale: quest'ultimo aveva evidenziato che, come ogni elemento può svolgere una pluralità di funzioni, così la stessa funzione può essere svolta da elementi alternativi (Izzo 1991). Non sembra che Luhmann aggiunga molto; inoltre non è affatto scontato che la posizione di Parsons possa venir ciscoscritta al postulato della indispensabilità funzionale.

Le critiche più comuni riguardano il grado di coerenza interna della teoria parsonsiana e le sue presunte implicazioni ideologiche conservatrici. Rispetto alla prima, sembra corretto affermare che vi sono differenze di accentuazione in una impostazione che rimane sostanzialmente uniforme per tutta la sua opera (Ivi). Scarso fondamento presenta anche la critica ideologica, spesso basata su letture parziali e politicamente orientate, che si limita a partire dal dato di fatto che l'or dine sociale esiste e perciò deve essere spiegato: pur senza fare di Parsons un teorico del mutamento, l'accusa di conservatorismo sembra ormai decisamente datata (tipica dei primi anni 70). Più seria appare la critica di quanti hanno

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messo in dubbio la capacità, di questa teoria, di portare ad una conoscenza più adeguata della realtà sociale, stante che questi schemi di analisi sono stati elaborati soltanto sulla base della loro coerenza interna, senza tenere in alcun conto il rapporto con la rea ltà empirica. Siamo cioè di fronte ad un sistema teorico-concettuale chiuso, più preoccupato della propria coerenza interna che di rapportarsi alla realtà concreta (Toharia 1978). Infatti anche interpreti benevoli di Parsons rilevano che i saggi 'empirici' di questo autore sono soltanto degli esempi, su temi settoriali, dello schema concettuale complessivo, senza alcun intento di verifica (Hamilton 1983).

Parsons ha ammesso, nonostante la partenza volontaristica, di essere un "determinista culturale", dando ragione alle critiche di quanti ne hanno fatto l'alfiere della sociologia del sistema, perciò incapace di superare una visione dell'uomo come soggetto totalmente condizionato. Se le critiche alla Dawe, che come abbiamo visto tendono semplicemente a ribaltare il discorso, ci sembrano sbagliate per la loro unilateralità, più fondata sembra la considerazione secondo la quale Parsons, pur essendosi sempre sforzato di superare l'alternativa fra attore e sistema, non riesce nel proprio intento. Questo fatto è abbastanza evidente nel rapporto, non armonizzato, fra variabili modello e schema AGIL. Le prime esprimono una possibilità di scelta per l'attore in ogni situazione, mentre i requisiti funzionali impongono che solo alcuni tipi di orientamento dell'azione si prestino a rispondere positivamente alle esigenze sistemiche (ad esempio l'adattamento sarà raggiunto dagli orientamenti universalistici e specifici), annullando, così, la possibilità di scelta (Johnson, Dandeker e Ashworth 1984) . È stata rilevata una ontologia dei sistemi che porta ad una reificazione dell'analisi, la quale si preoccupa di cercare, con una visione antropomorfica, bisogni fondamentali che conferiscono attributi umani ad entità (come il sistema) che, ovviamente, tali non sono (Layder 1990). Nonostante dunque l'interesse, il tentativo parsonsiano di costruire una teoria generale, che tenga insieme attore e sistema, non sembra sufficiente, per il persistere di elementi tipici della prospettiva oggettivistica.

È anche molto rilevante l'ana lisi del modello di uomo implicito nella sociologia parsonsiana, la quale presenta, secondo alcuni, un dualismo non risolto (Skidmore 1975). Per un verso l'uomo ha bisogni e preferenze conformi a quelli socialmente prevalenti, per cui sembra essere essenzialmente determinato, ma per altro verso è anche un attore autonomo. Non si tratterebbe, quindi, di una marionetta, ma di un individuo dotato di predisposizioni che, pur essendo socialmente costituite, gli permetterebbero di raggiungere scopi specifici, attraverso azioni attuate liberamente. Allora il merito di Parsons consisterebbe nel fatto di non aver cercato "di spiegare l'ordine sociale secondo un modello di uomo", come molti invece sostengono parlando di ipersocializzazione. In lui permane un dualismo per cui si possono individuare due modelli umani, uno volontaristico ed uno deterministico, che prevalgono alternativamente a seconda dell'analisi che l'autore viene realizzando. Inoltre Parsons afferma che l'azione individuale è sia motivata internamente dai bisogni e dalle predisposizioni, sia esternamente attraverso gratificazioni o punizioni, spiegando attraverso questo duplice meccanismo il comportamento conformista. La doppia polarità volontarismo-determinismo e interno-esterno fa, perciò, emergere un diverso modello di uomo a seconda del polo prevalente. Quando pare utile all'analisi sottolineare la subordinazione dell'individuo alla società, l'uomo è considerato "plastico" e disponibile a seguire la volontà sociale. Quando prevale il momento volontaristico, l'uomo è visto come una persona che valuta la situazione, basandosi su propensioni e motivazioni interne, e sebbene limitato a livello generale dall'ambiente sociale e culturale ha, però, vasta autonomia rispetto all'esecuzione delle azioni.

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