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Anno Accademico 2014/2015
Scuola di Giurisprudenza
Corso di Laurea in
Giurisprudenza
L’imposizione delle multinazionali digitali: dal Progetto BEPS alla Digital Tax. Relatore Professor Roberto Cordeiro Guerra Candidato Joele Sapienza
I
INDICE
INTRODUZIONE 1
CAPITOLO PRIMO: L’ECONOMIA DIGITALE E IL DIRITTO 41. LE CARATTERISTICHE E LO SVILUPPO DELL’ECONOMIA DIGITALE 4
1.1. L’economia globalizzata 4
1.2. Le digital companies 12
2. LA DISCIPLINA DELL’IMPOSIZIONE DELLE PERSONE GIURIDICHE 23
2.1. La disciplina internazionale 23
2.2. La disciplina dell’Unione Europea 37
2.3. La disciplina nazionale italiana 43
3. IL RAPPORTO TRA IL GRUPPO DEI 20 E IL DIRITTO 44
3.1. La nascita di un nuovo organismo internazionale 44
3.2. Le origini storico-politiche del G-20 e la sua capacità normativa 45
3.3. Le aree di influenza nel diritto tributario internazionale 48
CAPITOLO SECONDO: CRITICITÀ FISCALI NELL’IMPOSIZIONE DELLE
MULTINAZIONALI DIGITALI 501. IL TRANSFER PRICING 50
1.1. L’analisi dell’OCSE 50
1.2. Il Double Irish with Dutch Sandwich 62
1.3. Transfer Pricing e multinazionali digitali 66
2. IL CONTRASTO DELLA DISCIPLINA CON L’ECONOMIA DIGITALE 68
2.1. Riqualificazione della nozione di stabile organizzazione 68
2.2. Il ruolo del dato digitale 69
2.3. Il luogo della creazione del valore 71
2.4. Il monopolio 72
2.5. Le imposte indirette 73
3. GLI EFFETTI SULLA REVENUE DEGLI STATI – IL CASO STARBUCKS 75
CAPITOLO TERZO: GLI INTERVENTI INTERNAZIONALI: IL BEPS
PROJECT DELL’OCSE E L’UNIONE EUROPEA 821. IL PROGETTO BEPS 82
1.1. Action n. 1 83
1.2. Action n. 2 90
II
1.3. Action n. 3 98
1.4. Action n. 4 104
1.5. Action n. 5 109
1.6. Action n. 6 111
1.7. Action n. 7 113
1.8. Actions nn. 8-10 122
1.9. Action n. 11 122
1.10. Action n. 12 125
1.11. Action n. 13 127
1.12. Action n. 14 133
1.13. Action n. 15 135
2. L’ANALISI DELL’UNIONE EUROPEA 138
2.1. In tema di imposte dirette 143
2.2. In tema di imposte indirette 147
CAPITOLO QUARTO: DAL BEPS PROJECT ALLA DIGITAL TAX 1491. LA TEORIA CONTRARIA 149
1.1. La “lotta” alla lotta all’elusione fiscale 149
1.2. Le critiche alle proposte 153
2. LE ISTITUZIONI POLITICHE E LE SOLUZIONI 154
2.1. L’approvazione degli Stati Uniti 154
2.2. Alcune riflessioni dottrinali 157
2.3. I pregressi tentativi 161
2.3.1. La proposta italiana 162
2.3.2. La proposta spagnola 163
2.3.3. La proposta ungherese 165
2.3.4. Il rapporto Colin-Collin 168
2.3.5. La proposta britannica 173
2.4. La Digital Tax italiana 176
CONCLUSIONI 180
BIBLIOGRAFIA 189
RINGRAZIAMENTI 202
1
INTRODUZIONE
La società globalizzata ha salutato il nuovo millennio con l’avvento di uno
strumento rivoluzionario, che ha modificato in pochi anni le abitudini private e
professionali di centinaia di milioni di persone. Questo strumento si chiama internet
ed è supportato da una serie di elementi tecnologici che permettono il suo sfruttamento
e che negli anni si sono evoluti per essere sempre più funzionali e mobili. Da personal
computers e telefoni cellulari, siamo rapidamente passati ad iPads e smartphones. In
questo nuovo scenario, si modificano, rectius sono già state modificate, le quotidiane
abitudini di una parte enorme della popolazione mondiale. Tal fatto rappresenta sia
l’origine che la conseguenza1 del cambiamento che l’avvento dell’era digitale ha
portato anche nel ramo dell’economia, modificando in maniera radicale tutti i
precedenti e rodati modelli di business che hanno regolato l’andamento economico
globale fino ad allora. Più rilevantemente ai fini della presente analisi e come sempre
accade, anche il diritto è stato toccato da questa rivoluzione, sia a causa del mutato
contesto sociale, sia (e maggiormente) a causa degli appena descritti mutamenti nella
gestione dell’attività economica delle imprese di qualsiasi settore e livello. Diritto ed
economia sono due discipline, da sempre, strettamente collegate, due isole
comunicanti il cui scambio di informazioni e la cui evoluzione porta a regolare con
attualità la vita dei soggetti appartenenti ad un gruppo sociale ormai sempre più
uniforme, omogeneo, globalizzato. Il “ponte”, per usare una metafora, che collega
queste due grandi aree dello sviluppo della mente dell’uomo è costituito dal diritto
tributario, la cui qualifica di internazionale ormai appare quasi superflua.
L’intensificarsi degli scambi commerciali tra soggetti residenti in giurisdizioni
differenti, infatti, non è più un elemento di novità o di nicchia, bensì la realtà
preponderante dell’attività economica della maggior parte dei Paesi della Terra. Al
pari di come l’aggettivo “digitale” legato al sostantivo “economia” rappresenta una
precisazione quasi non più necessaria, data la difficoltà oggettiva di separare ciò che è
1 Origine, nel senso che le imprese pionieristiche del settore digitale hanno portato con le loro novità al cambiamento sociale a cui stiamo assistendo negli ultimi dieci anni; conseguenza, poiché inevitabilmente, l’enorme exitus che questo cambiamento ha avuto, ha portato allo sviluppo di una galassia di investimenti nel settore, con un proliferare enorme di imprese dedite all’offerta di beni e servizi digitali.
2
digitale da ciò che non lo è, tanta è l’ingerenza della prima anche nella seconda, così
non appare possibile disquisire di diritto tributario senza riferirsi ad un contesto che
esuli dai confini nazionali. È per questa ragione che, in virtù dell’ampliamento
incontrollato del “traffico” che giornalmente si dispiega su questo punto di
collegamento, anche la struttura stessa del diritto tributario (internazionale) così come
sviluppato ed assodato nei decenni scorsi, è stato messo in discussione, a partire dalla
superficie di questo “ponte”, costituito dai singoli istituti giuridici affinati nel dibattito
internazionale sviluppatosi in particolare a partire dalla fine della Seconda Guerra
Mondiale, fino ai pilastri della struttura portante dello stesso, costituiti dai principi
guida di disciplina della materia fiscale internazionale.
L’analisi della situazione attuale e dei meccanismi che regolano la disciplina
dell’imposizione del reddito societario a livello globale è materia complessa, e questo
scritto si propone l’umile scopo di cercare di inquadrare tale situazione globale dal
punto di vista più obiettivo possibile, con il vaglio delle proposte effettuate dalle più
importanti giurisdizioni del Pianeta, che a seguito dello scandalo, anche mediatico, che
talune imprese del settore digitale hanno scatenato in relazione alla presunta facilità di
ottenere un, quantomeno non etico, risparmio d’imposta, si sono rese necessarie e
urgenti.
L’oggetto della presente analisi è quindi il rapporto tra gli istituti di diritto
tributario internazionale, ove campeggia indiscusso l’importante e costante lavoro
dell’OCSE, specie attraverso il suo Modello di convenzione contro la doppia
imposizione e il mutato scenario economico di cui la comunità internazionale pare
essersi resa conto solo con l’avvento di gigantesche multinazionali del settore digitale,
che per la loro penetrazione della società e per la loro impressionante forza economica,
vengono, anche dal quisque de populo, considerate come entità meta-giuridiche, o
forse più correttamente über-giuridiche, nel senso che si pongono come interlocutori
privilegiati nel dibattito internazionale tra i Governi del Mondo per la risoluzione delle
questioni fiscali che le riguardano direttamente. Oltre al problema, quindi, della
maggiore difficoltà che ha il Legislatore internazionale di doversi rapportare con
destinatari della disciplina particolarmente forti e consapevoli, vi è la complicazione
ulteriore (e principale) che il contesto in cui questo dibattito ha luogo è un “terreno
senza territorio”.
3
Ciò sta a significare che, intanto la sovranità territoriale come storicamente
concepita è un elemento di forza dei Governi che è venuto meno proprio con lo
sviluppo volutamente incontrollato di internet e del mondo digitale in generale. La
“battaglia” contro le grandi multinazionali del settore digitale non è una battaglia che
può essere intrapresa solus dal legislatore di uno Stato, ma deve essere il risultato di
uno sforzo combinato tra grandi aggregazioni di Paesi, come di fatto è avvenuto tra G-
20 e membri dell’OCSE. Inoltre, si è preso piano piano coscienza del fatto che esiste
un territorio virtuale, che è dove questa battaglia ha luogo, che risponde a regole
completamente differenti da quelle che disciplinavano la territorialità materialmente
intesa. Il cyberspazio, per usare un termine già quasi obsoleto, è un luogo non fisico
caratterizzato da rapidità, immediatezza e superficialità, che è esattamente il contrario
del contesto in cui il diritto è abituato a “muoversi”.
Senza presunzione alcuna di esaustività in merito all’ampio dibattito in corso,
che è destinato a durare ancora per lungo tempo, il presente lavoro cerca di cogliere
gli aspetti maggiormente innovativi della nuova economia digitale, correlandoli agli
ormai incompatibili dogmi della disciplina più classica della produzione normativa,
nel tentativo di inquadrare un’aurea mediocritas oraziana, un equilibrio tra la spinta
travolgente verso l’alto, portata dall’incessante sviluppo dell’economia digitale e la
pesante ponderatezza della produzione normativa che, correttamente, caratterizza
l’approccio del Legislatore al momento di disciplinare i fenomeni sociali bisognosi di
essere regolati.
4
CAPITOLO PRIMO
L’ECONOMIA DIGITALE E IL DIRITTO 1. LE CARATTERISTICHE E LO SVILUPPO DELL’ECONOMIA DIGITALE 1.1. L’economia globalizzata
Internet ha cambiato la quotidianità delle persone, ha cambiato le loro abitudini,
ha cambiato il loro modo di essere consumatori e ha cambiato il modo in cui le aziende
competono nel mercato. Tutti questi cambiamenti, hanno generato una rivoluzione
anche nel mondo dell’economia, delle imprese e del diritto. In particolare, sia lo
sviluppo della tecnologia digitale che quello del web in generale, hanno avuto
un’evoluzione talmente rapida per cui, non solo è possibile verificare i cambiamenti
appena evidenziati con chiarezza lampante, ma l’importanza di questa evoluzione,
nella società, ha acquisito una rilevanza tale da non poter essere più considerata una
mera innovazione di un mezzo di scambio di informazioni.
Anche nel mondo del diritto, l’avvento di internet ha portato a dover riqualificare
ed adeguare una serie di istituti giuridici che, altrimenti, così per come erano stati
concepiti, non avrebbero trovato applicazione: si pensi, ad esempio, al di fuori della
materia tributaria, alla diffamazione ex art. 595, co. 3, c.p. o ancora alla disciplina dei
contratti stipulati telematicamente. L’ingerenza, profonda e a volte eccessiva, del
digitale in tutti i settori della vita dell’uomo è ormai un dato di fatto e per tale motivo
il diritto, sia nazionale, sia comunitario e sia internazionale, si è mosso e continua a
muoversi per la creazione di una nuova branca, un diritto dell’internet, in grado di
disciplinare tale ingerenza, proprio perché i fenomeni descritti hanno assunto una
rilevanza sociale tale da non permettere più di considerare il problema come
marginale.
Tralasciando una “fisiologica” quota della società, infatti, è ormai un dato
assodato che quasi tutta la popolazione dei Paesi sviluppati, con una percentuale
esponenzialmente crescente anche nei Paesi in via di sviluppo, è “connessa” ad
internet e che quasi tutta la generazione delle persone nate dagli anni ’90 in poi può
considerarsi la generazione dei c.d. “nativi digitali”.2
2 PRENSKY, M., Digital Natives, Digital Immigrants, Part II. Do They Really Think Differently?, in On the Horizon, MBC University Press, vol. 9, n. 6, dicembre 2001.
5
Solo a titolo esemplificativo, partendo dalla “macchina”, e cioè lo strumento
attraverso il quale la connessione ad internet viene effettuata, è rilevante analizzare
una serie di dati storici. Inizialmente, quando è nato il web, poco più di vent’anni fa,
lo strumento unico utilizzabile per l’accesso alla rete di dati era il personal computer.
Lo sviluppo della tecnologia, dei materiali e il minor costo dei prodotti tecnologici
hanno portato ad un cambiamento anche sotto questo punto di vista, che si è
manifestato con l’impennata del numero di dispositivi connessi alla rete. Mentre un
tempo era tendenzialmente presente un solo computer per famiglia (famiglie, peraltro,
di un certo livello socio-economico), oggigiorno è la singola persona, appartenente a
qualsiasi livello di reddito, ad avere più di un device con il quale “essere connesso”.
Cisco Systems, Inc. stima che nel 2014 la media di dispositivi connessi fosse di 10-15
miliardi a fronte di una popolazione mondiale di circa 7,2 miliardi di persone.3
Dal punto di vista che qui maggiormente interessa, l’avvento di internet è
importante comprenderlo più dal punto di vista della sua “produzione” che non degli
effetti che esso ha sul consumatore. Questo enorme successo nella società alimenta (ed
è alimentato da) un’importante industria di c.d. imprese digitali che costituiscono una
fetta importante del tessuto produttivo del settore dei servizi, in particolare negli Stati
Uniti d’America per la proprietà intellettuale e in Cina per la produzione dei
dispositivi.
L’enorme sviluppo anche economico di queste società digitali ha portato
rapidamente l’economia latu sensu intesa a non essere così distinta dal ramo
dell’economia digitale, ma ad essere considerata come un unicuum, quando non
considerata esclusivamente come digitale. Tale definizione, infatti, ha ormai perso
l’aggettivo che lo contraddistingueva da un’economia, per così dire, analogica,
classica, in quanto a ben vedere, l’economia “non digitale”, non esiste più. O meglio,
essa esiste ed esisterà per sempre, ma a causa del progresso, essa non costituisce più
l’economia in senso stretto, non può più essere utilizzata come modello di riferimento
di un modo di concepire gli scambi di beni e servizi, in quanto la fetta a questo modello
riservata (quello analogico), è ormai particolarmente ristretta. Piuttosto, una volta
appurato che l’economia digitale è l’economia di oggi, può assumere rilievo, semmai,
3 OECD, BEPS Action 1: Address the Tax Challenges of the Digital Economy, Paris, 2014, p.14.
6
la qualificazione contraria, ovvero la specificazione di quella parte dell’economia che
ancora non sia digitale. Come correttamente rilevato in sede OCSE, infatti «because
the digital economy is increasingly becoming the economy itself, it would be more
difficult, if not impossible, to ring-fence the digital economy from the rest of the
economy».4
Ad ulteriore riconferma di quanto appena evidenziato, l’OCSE stessa ha redatto
un grafico relativo alle imprese (suddivise in piccole, medie e grandi) e alla
percentuale di esse, per ogni Stato membro, che utilizza una connessione a banda larga;
ne deriva da tale grafico, che, con qualche eccezione quale ad esempio il Messico o la
Grecia, la media delle imprese che utilizzano una connessione con la rete internet si
attesti tra il 90 e il 100% delle esistenti.5 Il dato è naturalmente significativo del fatto
che è possibile a tutti gli effetti considerare la nostra come l’epoca del digitale; e
l’epoca del digitale si manifesta, nel settore economico, nelle modalità più disparate,
riuscendo a influenzare molti settori, magari apparentemente ad essa sconnessi,
comunque salvaguardando le differenze peculiari del tipo di attività cui i modelli
imprenditoriali si riferiscono.
Così, ad esempio, vengono registrati rilevanti cambiamenti nei seguenti settori
• Vendita al dettaglio;
• Trasporti e logistica;
• Servizi finanziari;
• Settore manifatturiero e agricoltura;
• Educazione;
• Sanità;
• Televisione e media.
Prima di sviluppare un’ulteriore riflessione su tale, fondamentale, aspetto della ricerca,
è opportuno notare come, in tutti questi differenti settori, lo schema attraverso il quale
la tecnologia entra nella vita imprenditoriale sia sempre lo stesso.
Sebbene le funzioni, le ragioni, la ratio per così dire, che giustificano
un’applicazione del digitale anche ad un settore apparentemente da esso distante siano
4 ibidem, p. 24. 5 OECD, Science, Technology and Industry Scoreboard 2013: Innovation for Growth, Paris, 2013.
Consultabile su oecd.org/sti/scoreboard.
7
completamente diverse le une dalle altre, a seconda del ramo dell’economia cui si
debbono applicare, lo schema attraverso il quale questo inserimento avviene è sempre
il medesimo.
Esso costituisce, infatti, lo scheletro portante dell’economia digitale, costituito
da una concatenazione di elementi che hanno sempre la stessa origine, e che si
orientano in direzioni differenti a seconda del campo di applicazione con cui si devono
interfacciare. In particolare, si classificano sei livelli di interazione uomo-macchina
attraverso cui si realizza la creazione di strumenti volti all’efficientamento del settore
di riferimento.
Tali settori sono
1. Infrastruttura;
2. Risorse software;
3. Accessibilità;
4. Applicazioni;
5. Interfaccia utente;
6. Utenti.
A sua volta, questa catena “produttiva” del digitale ha portato ad una
segmentazione del mercato con riguardo ai vari livelli di competenza, tutti
convergenti, man mano che si scende di livello, verso una sempre più ampia apertura
al maggior numero di contributori possibile. Nello specifico, i primi livelli sono
riservati alle poche imprese che svolgono servizi di providing, generalmente
indentificate con la sigla ISP (internet service provider), mentre all’avvicinarsi agli
ultimi livelli della scala, si nota come un numero sempre più ampio di imprese
partecipa alla produzione dei servizi identificativi del livello stesso. L’ultimo livello,
infine, quello degli “utenti” comprende infatti non le imprese, bensì il consumatore
finale che, nell’economia digitale, rectius nell’economia di oggi, svolge un ruolo
preminente e assolutamente fondamentale, anche ai fini della creazione del valore.
In tema di valore, un’altra delle novità portate dallo sviluppo tecnologico della
comunicazione attraverso la rete globale è la crescente importanza, soprattutto
economica, che sta assumendo il “dato digitale”. Ogni grande rivoluzione economica
è sempre stata accompagnata dallo sfruttamento massiccio di un bene determinato, che
è proprio il moto propulsore dell’innovativa spinta economica. È stato così per la
8
“febbre dell’oro” divampata negli Stati Uniti d’America nella seconda metà del XIX
secolo così come per la rivoluzione petrolifera, sempre avvenuta negli Stati Uniti
d’America nella prima metà del secolo successivo. Dopo quasi cento anni, e con le
dovute marcate differenze, senza dubbio si è fatto spazio in questa rivoluzione
tecnologica un nuovo bene, che può essere preso come simbolo di questa stessa
rivoluzione.
Infatti, l’entità, peraltro non fisica e non tangibile, che ha maggior valore
nell’economia del 2000 è senza dubbio il dato. Tali dati, di cui è possibile identificare
la diversa natura in base all’utilizzo che ne viene fatto ed alla natura della loro
ricezione, sono ciò che muovono le grandi operazioni commerciali del nuovo
millennio. Se, da una parte, comunque, il valore di determinate materie prime, come i
metalli o gli idrocarburi, ancora rimangono il motore effettivo del progresso
tecnologico della società, è indubbio come il valore del singolo dato, rectius del dato
aggregato di un numero consistente di persone, sia qualcosa per cui le imprese sono
disposte a pagare cifre che solo fino a vent’anni fa non erano concepibili.
In merito, rispetto alla tradizionale concezione economica, secondo cui l’oggetto
della produzione può essere un bene o un servizio, ma null’altro, è stata avanzata la
teoria6 secondo cui il dato, che (al pari di quella che è la concezione del fotone nella
fisica moderna) fa proprie talune caratteristiche del bene (come la possibilità di essere
immagazzinato per essere utilizzato in un secondo momento) e talune caratteristiche
del servizio (come la sua sostanziale intangibilità), assurga a terzo elemento oggetto
di produzione da parte dell’economia; terzo elemento attualmente sottostimato sia
dall’industria, sia dalla politica, ma che riveste un ruolo sempre più centrale nelle
scelte decisive, sia dell’una, che dell’altra.
Un esempio emblematico di questo dato di fatto è l’acquisizione da parte della
società Facebook, Inc. (d’ora in poi anche solo Facebook), del servizio di
messaggistica istantanea chiamato Whatsapp (posseduto dall’omonima società), che
per un’irrisoria quota annuale (79 centesimi di euro nei Paesi della comunità monetaria
e per cifre equivalenti nel resto del mondo) permette di scambiarsi, attraverso la rete
dati, dei messaggi di testo (oltre ad altri media come files audio, immagini, video).
6 MANDEL, M., Beyond Good and Services: The (Unmeasured) Rise of the Data-Driven Economy, Progressive Policy Institute Memo, 2012, progressivepolicy.org, p. 2.
9
Tale operazione, cioè l’acquisizione della società che sviluppa l’app che svolge
questo servizio, è costata a Facebook l’importo di 19 miliardi di dollari americani,
cifra che economicamente non può essere giustificata dagli introiti dell’annuale
sottoscrizione del servizio da parte degli utenti, all’epoca dell’acquisizione stimati in
circa 450 milioni.7
È, infatti, l’acquisizione dei dati degli utenti stessi, e di un servizio, leader nella
propria categoria, che permette lo scambio privato di dati, di molteplice natura, che dà
valore all’acquisizione della compagnia. A ben vedere, peraltro, è la stessa Facebook,
attraverso il proprio portale di social networking, che ha contribuito in maniera
pionieristica allo sviluppo del valore del dato. Il suo portale facebook.com, infatti,
offre la possibilità per gli utenti registrati di scambiarsi informazioni, dati,
comunicazioni ed accedere all’intero database dei soggetti iscritti, i quali, attraverso
il meccanismo dell’accettazione dell’ “amicizia” sul portale, quindi attraverso un
filtro, permette di diversificare le informazioni visibili a seconda delle scelte
dell’utente, solitamente effettuate tramite il paragone con il livello di conoscenza
effettiva degli altri utenti.
I soggetti iscritti, volontariamente e gratuitamente, inseriscono dati relativi alla
propria educazione, alla propria posizione lavorativa e alla propria “situazione
sentimentale”, oltre alla definizione delle proprie preferenze e gusti nei più disparati
ambiti, dalla musica allo sport fino alle scelte politiche. Tutte queste informazioni, poi,
vengono utilizzate dallo stesso Facebook per offrire a terzi alcuni strumenti ormai
comunemente denominati di social media marketing attraverso cui creare delle
campagne pubblicitarie molto mirate e che appaiono durante la navigazione sul portale
in una colonna a ciò adibita, posta sulla destra di tutte le pagine del sito. Tutti gli
enormi introiti generati dalla società sono relativi alla vendita di questi spazi
pubblicitari, che tra l’altro sono essi stessi una novità nel mondo dell’advertisement,
in quando caratterizzati da un sistema di pagamento tecnicamente molto differente
dagli (ex) standard in materia.
In particolare, si divide tra CPC (cost per click) in cui l’inserzionista paga ogni
qual volta l’utente clicca sul link di rimando, CPM (cost per thousand) in cui
7 Facebook compra WhatsApp per 19 miliardi di dollari, in Il Sole 24 Ore, 19 febbraio 2014.
10
l’inserzionista paga per “pacchetti” di mille apparizioni del proprio annuncio e CPA
(cost per action) in cui l’inserzionista paga ogni qual volta l’utente finale compie una
determinata azione che si presuppone sia finalizzata all’acquisto del prodotto
sponsorizzato. Il dato in questa rivoluzione del sistema pubblicitario, il dato assume
un’importanza cruciale in quanto il vero valore aggiunto non sta tanto nell’innovativo
sistema di pagamento o nell’ampio bacino di utenza che è possibile raggiungere
tramite detto portale (che a gennaio 2015 contava oltre 1,4 miliardi di utenti attivi), ma
la possibilità di segmentare le inserzioni e personalizzarle a livelli mai visti prima in
nessun altro marketing media.
Tramite Facebook, infatti, grazie proprio ai dati inseriti dagli utenti,
l’inserzionista è in grado di scegliere personalmente il target cui rivolgere le proprie
inserzioni, potendo segmentarlo per sesso, età, situazione sentimentale, area
geografica di appartenenza, frequenza attuale o passata di un determinato istituto
educativo, collaborazione con una determinata impresa, interesse (il c.d. like) nei
confronti di una qualsiasi delle c.d. “pagine” (riferite a personaggi pubblici, artisti di
ogni genere ed epoca, determinati sport, leghe o associazioni sportive, società e brand
di fama internazionale e più in generale di qualsiasi cosa abbia una certa rilevanza in
termini di notorietà), man mano riducendo e raffinando il bacino di utenza degli utenti
cui rivolgersi per ottenere la più alta percentuale possibile di “conversioni”, ovvero di
acquisto del bene o servizio offerto in seguito alla visualizzazione dell’inserzione.
Quindi, a partire dal quasi miliardo e mezzo di utenti, e attraverso le chiavi di
fine tuning appena descritte, è possibile creare un’inserzione per poche centinaia di
soggetti, ed indirizzarla quindi verso un pubblico particolarmente qualificato. Numero
di soggetti raggiunti dall’inserzione, inoltre, che viene precisamente identificato prima
della pubblicazione stessa dell’inserzione, cosicché l’inserzionista sia perfettamente
conscio del numero di utenti cui si sta rivolgendo. I numeri legati a questo nuovo
business sono sicuramente molto rilevanti. Solo in materia B2C (business to consumer)
e nel solo 2012, le vendite relative all’e-commerce hanno superato i mille miliardi di
dollari americani. Le nuove principali frontiere della vendita online, e più
precisamente della vendita diretta online si possono dividere in più macro categorie
- App;
- Pubblicità online;
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- Cloud computing;
- Servizi di pagamento;
- Trading;
- Piattaforme partecipative.
Tutti questi elementi sono accumunati da alcune caratteristiche. Sicuramente, uno
degli elementi più peculiari è la mobilità, dato il solo bisogno, per poter operare, di
possedere un server allocato dove è maggiormente conveniente e la non necessità di
dover avere una presenza stabile in tutti i territori ove si trovino i clienti. Un altro
elemento di distacco è la dipendenza dai dati. Come già accennato, il dato digitale
assume pertanto una grande rilevanza nell’economia odierna in quanto principale
motore e elemento essenziale dei servizi offerti attraverso la rete.
Altri aspetti, poi, hanno carattere maggiormente negativo, e cioè rappresentano
una di quelle caratteristiche che potenzialmente si presenta come potenzialmente
“pericolosa” in quanto limitativa dei principi universalmente ormai accettati vigenti in
economia, come la libera concorrenza. Ed ecco che, in tema di digital companies, una
delle caratteristiche è la tendenza verso il monopolio o oligopolio. La creazione di un
software, di una piattaforma o di un portale che presenti anche un minimo elemento di
differenza rispetto alla concorrenza, può facilmente generare la nascita quasi
spontanea ed immeditata di un monopolio nel settore (è possibile portare ad esempio,
nell’ambito dei portali che trattano di viaggi e vacanze e di recensioni sulle varie
attività turistico-ricettive, il portale tripadvisor.com, che conta centinaia di milioni di
recensioni e di iscritti, un numero di gran lunga superiore a qualsiasi altro suo
competitor).
Altra caratteristica non tanto negativa, quanto rischiosa per coloro i quali si
addentrano in questo tipo di economia, è la volatilità del successo di una digital
company. La facilità di accesso e la sostanziale economicità di avviamento di una
compagnia con dette caratteristiche, oltre a poter generare enormi acquisizioni di
valore in pochissimo tempo (basti pensare alla già citata Facebook, creata 10 anni fa e
adesso nella top five delle aziende con la più alta capitalizzazione nel mondo), può
d’altra parte determinare anche un rapidissimo insuccesso commerciale e portare al
fallimento, come avvenuto, di migliaia di piccole start up che non ricevono, per una
serie di fattori non sempre addebitabile alla capacità di chi le amministra, il favore del
12
pubblico.
Una volta scartato e analizzato il “pacchetto” delle nuove regole dell’economia
digitale, è opportuno identificare quali siano i punti di contatto con il sistema tributario
internazionale attuale, che inevitabilmente si presentano anche come i punti di maggior
attrito, sui cui la comunità degli esperti si vari organismi (dall’OCSE all’ONU) sta
lavorando per ottenere un nuovo equilibrio normativo.
1.2. Le digital companies
Nel 2013 il Governo francese ha elaborato un rapporto sulla fiscalité de
l’économie numérique, che si è tradotto in un’attenta analisi delle problematiche fiscali
che la Francia avrebbe dovuto affrontare per adeguarsi al cambiamento dell’economia
in atto ed evitare di perdere ingenti imposte per a causa di una legislazione che non
fosse al passo con i tempi. Ne è nato ciò che nella comunità internazionale è noto come
il “Rapporto Colin-Collin” dal nome dei due autori e che si presenta come un elaborato
particolarmente qualitativo ed estremamente esaustivo.
Inizialmente, gli autori individuano una serie di punti cardine che, a loro dire,
costituiscono le caratteristiche principali dell’economia digitale, che qui di seguito
vengono riportati per essere meglio analizzati. I sei punti cardine del lavoro dei due
studiosi francesi sono
1. L’economia digitale accelera il ritmo dell’innovazione e la diffusione di nuovi beni
e servizi. È stato necessario un terzo del tempo per dare alla maggior parte dei
francesi internet rispetto al tempo impiegato per dargli il telefono. Un’applicazione
come Facebook ha acquisito un miliardo di utenti in meno di 8 anni.8
Viene analizzata dapprima la posizione maggiormente precaria delle
multinazionali digitali. Esse infatti sono molto più soggette alle oscillazioni del
mercato rispetto ad una multinazionale classica, in quando la mobilità del “successo”
in questo settore permette rapide ascese, ma altrettanto rapide ricadute. Per questo
motivo le grandi imprese del settore digitale hanno il fisiologico bisogno di investire
ingenti quantità di denaro in innovazione e migliorare anche con teorie particolarmente
8 COLIN, N. – COLLIN, P., Mission d’expertise sur la fiscalité de l’économie numérique, Paris, 2013, pp. 1-2. Traduzione libera.
13
rivoluzionarie il modello di business da seguire. Un esempio della necessità di
evoluzione continua che ha questo tipo di impresa ci viene dato da Apple, Inc., il
grande colosso produttore di computers e smartphones, allo stato l’azienda privata con
la maggior capitalizzazione di mercato, oltre 700 miliardi di dollari9, che nel 1997 ha
rischiato il fallimento, proprio a causa della mancanza di una spinta di innovazione,
arrivata soltanto con il ritorno dello storico fondatore STEVE JOBS. La vincente
strategia che ha permesso all’azienda di risollevarsi è partita da un’area
apparentemente di secondaria importanza per un produttore di dispositivi tecnologici
e cioè quella dell’industria musicale, sviluppandosi poi nel prodotto di maggiore esito
della casa, l’iPod e nello store musicale iTunes.
Una delle principali differenze dell’industria digitale rispetto a quella classica è,
quindi, l’alta volatilità del successo delle imprese, e della totale assenza di modelli di
gestione duraturi. Le ragioni di questo movimento continuo, di questa costante
necessità di innovazione è dovuta ad almeno due fattori tra di loro correlati: in primis,
lo sviluppo tecnologico, che porta da un anno all’altro un prodotto da non plus ultra
ad oggetto tecnologicamente superato10, in secundis, il fatto che né il fornitore del
servizio né l’utilizzatore finale sono sottoposti al pagamento di un prezzo marginale
per l’utilizzo della rete, così permettendo una sperimentazione ed una libertà di
sviluppo non concepibile nelle tradizionali “catene” di creazione del valore.
Quest’ultimo aspetto è forse una delle caratteristiche più peculiari di internet.
Con l’avvento della tecnologia ADSL, infatti, attraverso una semplice sottoscrizione
mensile, è possibile accedere alla rete mondiale e sfruttarla senza limiti di consumo.
Non vengono infatti, a parte rarissimi casi, posti dei limiti alla c.d. “banda” in
download o in upload. L’unico elemento distintivo tra le varie offerte è la velocità di
connessione, e cioè la “larghezza” della banda, in altre parole quanto è veloce il flusso
di dati.
Questo fatto ha costituito, e non solo nel mondo economico, il grande motore
del rapido sviluppo di internet e dell’ingerenza del mondo digitale nella realtà
9 Apple sempre più regina: il valore di mercato vola a 700 miliardi di dollari, in Il Sole 24 Ore, 24 novembre 2014. 10 La “legge di Moore”, uno dei fondatori della più grande produttrice di microprocessori, la Intel, Inc., afferma che il numero di transistors per pollice presenti sulla superficie dei microprocessori raddoppia ogni due anni.
14
quotidiana. Uno strumento accessibile a tutti, illimitato e che offre una quantità di
informazioni praticamente infinita. L’estrema libertà che ne deriva, libertà
particolarmente cara agli utilizzatori assidui di internet, e la sua grande accessibilità,
sono stati motori di un rinnovamento sociale che ha portato anche l’economia, sia di
larga che di piccola scala, come vedremo, a rinnovarsi completamente.
2. Grazie al capitale di rischio, l’economia digitale muove degli ingenti investimenti,
accompagnata da una forte esigenza di rendimento per quelle imprese che
ottengono successo e si sviluppano in grande scala.
Le società dell’economica digitalizzata nascono con una struttura ed
un’organizzazione particolarmente efficienti. Mosse da una parte dalle forti spinte
motivazionali dei creatori, che sovente iniziano attraverso una start up e cercano
cospicui finanziamenti, e dalla loro consapevolezza di poter e voler «cambiare il
mondo»11 e dal ricorso massiccio al capitale di rischio dall’altra, queste società sono
potenzialmente, dal punto di vista dello sviluppo, inarrestabili.
Buona parte di questa forza motrice è data proprio dal mix di queste due
componenti: per una società già affermata nel mercato è molto più difficile poter
modificare la propria struttura senza rischiare seriamente di perdere fetta di mercato o
buona parte degli utili, mentre al contrario, queste giovani start up sono più malleabili
alle circostanze del mercato, essendo per loro molto più facile acquisire (ma si badi
bene, anche perdere) un numero di clienti spropositato in pochissimo tempo.12 Gli Stati
Uniti sono stati pionieri nell’incentivare questo tipo di economia e questo tipo di
imprese. Nel solo 2010 sono stati investiti oltre 22 miliardi di dollari e secondo uno
studio personale portato avanti da LO MIN MING, programmatore alle dipendenze sia
di Microsoft che di Google, dal 1998 al 2012, negli Stati Uniti, grazie agli investimenti
di capitale di rischio, ogni 3 mesi è nata un’impresa che ha raggiunto il miliardo di
dollari di capitalizzazione.13
11 Celebre frase del già citato STEVE JOBS, pronunciata al fine di convincere il CEO di Pepsi, Co., JOHN SCULLEY, ad amministrare la Apple, Inc. 12 Pinterest.com, un portale di social networking, ha stabilito il record di velocità nel raggiungere i 10 milioni di visitatori unici sul proprio sito: a partire dalle poche centinaia di migliaia nel maggio 2011, nei soli Stati Uniti, ha raggiunto quasi i 12 milioni al gennaio 2012. http://www.comscore.com/Insights/Data-Mine/Is-Pinterest-the-Next-Big-Social-Network-in-Europe 13 MIN MING, L., A billion dollar software tech company is founded every 3 months in U.S., in blog.minming.net, 2012.
15
Le caratteristiche dell’investimento tramite capitale di rischio sono
effettivamente le più adeguate al modello di business utilizzato dalle compagnie
digitali. L’estrema dinamicità del settore non permette, infatti, l’utilizzo di tecniche di
investimento finalizzate alla crescita di società nel lungo periodo, con investimenti
mirati destinati ad essere ripagati in un arco temporale di molti anni. In questo senso,
uno dei principali dogmi dell’investitore WARREN BUFFETT, «Only buy something that
you’d be perfectly happy to hold if the market shut down for 10 years»14 non sarebbe
applicabile all’economia digitale.
L’estrema aleatorietà del successo di queste imprese, collegata alla conseguente
minima probabilità di successo, costringe gli investitori a puntare su un numero
relativamente elevato di imprese di talché anche il successo di uno solo dei progetti
finanziati sia in grado di ripagare non solo l’investimento a lui dedicato, ma anche
quello degli altri progetti falliti, fatto assolutamente possibile nell’economia digitale,
dove la capitalizzazione di società nate appena qualche anno prima raggiunge spesso
le 9 cifre.
3. Grazie a degli spettacolari effetti di «trazione», l’economia digitale conduce
frequentemente all’acquisizione di posizioni dominanti. Essa mette in concorrenza,
non imprese in mercati ben identificati, ma degli ecosistemi interi ed inglobati in
differenti mercati tra di loro connessi.
Le imprese che operano nel mondo digitale, a causa della corsa costante
all’innovazione che, per le ragioni che saranno spiegate, hanno la necessità fisiologica
di intraprendere e complice anche la facilità con cui si spostano gli utenti da un servizio
(e quindi da un fornitore) all’altro, rende più probabile l’acquisizione di posizioni
dominanti all’interno della macro-area dei servizi su internet. Si è parlato, in proposito,
di modello winner-takes-all15, proprio a rimarcare la maggiore possibilità di ritagliarsi
(ma anche di perdere) fette dominanti di mercato con estrema rapidità, in stretta
connessione con la capacità di innovazione dei servizi. Tale maggiore possibilità è
determinata dal fatto che le imprese multinazionali operanti nel settore digitale creano
14 WARREN BUFFET è considerato tra i più grandi investitori nella storia della finanza ed è classificato come 3° uomo più ricco del mondo nel 2015 dalla rivista Forbes. 15 COMMISSION EUROPÉENNE, Commission expert group on taxation of the digital economy, Report, Bruxelles, 28 maggio 2014, p. 12.
16
una serie di servizi accessori e connessi con il core business aziendale tali che il
consumatore finale ha la tendenza (o quantomeno dovrebbe) ad utilizzare sempre lo
stesso fornitore per tutte le proprie necessità correlate all’esperienza nel mondo di
internet.
Può accadere, inoltre, che proprio a causa dell’estrema sperimentazione e
utilizzo di capitale per R&D (Research and development), un’azienda si trovi ad essere
«il primo attore a guidare un mercato immaturo [che], combinato con il basso costo
incrementale può rendere possibile che la compagnia raggiunga una posizione
dominante in un lasso di tempo particolarmente breve».16 Questo fenomeno genera,
inoltre, nella mente dell’utente stesso, un senso di attaccamento nei confronti del
marchio e dell’immagine dell’azienda per cui esse non sono semplicemente viste come
mere fornitrici di servizi online, ma vengono seguite con particolare interesse, per così
dire, “empatico”. Non a caso, da parte di una certa dottrina, in merito alla “forza”,
anche semplicemente politica con la quale le grandi majors del settore hanno
affrontato le prima controversie contro le Amministrazioni fiscali di alcuni Paesi
industrializzati, è stato coniato il termine «Repubbliche digitali», proprio a voler
enfatizzare che, un po’ per la grande mole di servizi anche eterogenei, un po’ per la
grande influenza che si riverbera nella quotidianità di milioni di persone, esse non sono
percepite come semplici aziende, ma possono addirittura essere paragonate a veri e
propri Stati.17
4. L’economia digitale è basata su un modello di reinvestimento dei profitti piuttosto
che della distribuzione dei dividendi, gli azionisti guadagnano grazie agli eventuali
guadagni di capitale. In questa economia, il rifiuto di spartire i dividendi è
considerato come il segno di intenso sforzo di innovazione.
Questa è una delle caratteristiche più importanti, uno degli elementi di maggior
distinzione tra un modello di business classico e uno avanguardistico. Le
multinazionali del settore digitale hanno la tendenza a non spartire i dividendi tra gli
azionisti e, anche se allo stato, in seguito alla pressione dei mercati, hanno iniziato a
16 op. cit. OECD, Beps Action 1, p. 41. Traduzione libera. 17 così CIPOLLINA, S., I redditi “nomadi” delle società multinazionali nell’economia globalizzata, in Rivista di Diritto Finanziario e Scienza delle Finanze, fasc. 1, 2014, pag. 24.
17
farlo con maggiore frequenza18, la ragione iniziale si è rivelata estremamente
vantaggiosa per due motivi. La scelta principale è dettata dalla struttura societaria volta
al maggior risparmio possibile d’imposta. Da un lato infatti, tali società riescono
tramite matrioske di imprese controllate, a spostare una parte ingente dei propri profitti
esteri (rispetto alla sede della casa madre) verso Paesi a fiscalità privilegiata,
sottraendoli alle imposizioni dei Paesi a fiscalità ordinaria in cui operano e da cui
provengono tali profitti, dall’altro, detta quantità di denaro non può rientrare negli Stati
Uniti in quanto verrebbe tassata al 35%19, il che vanificherebbe tutti gli sforzi
intrapresi per evitare l’imposizione alla fonte del reddito.
La normativa statunitense prevede infatti, al contrario di molti altri Paesi
sviluppati, l’applicabilità del consolidato fiscale mondiale attraverso l’utilizzo della
regola del c.d. check the box, che permette alle imprese multinazionali di non
dichiarare talune delle proprie controllate estere come società, preservandole
dall’imposizione fiscale a patto di non far rientrare negli Stati Uniti tale capitale. La
conseguenza di questo fatto è, non solo che tali società riescono a pagare percentuali
minime sui redditi prodotti nell’area extra-U.S.20, ma anche che esse ogni anno
dispongano di ingenti somme di denaro da destinare allo sviluppo e all’innovazione,
il c.d. R&D, come supra visto, linfa vitale per le multinazionali del settore digitale che
hanno per loro fisiologia natura la necessità, da una parte di espandersi verso i mercati
connessi a quelli in cui operano e hanno raggiunto una certa stabilità, dall’altra di
innovare, possibilmente prima e meglio degli altri, i punti di forza dei loro prodotti e
servizi, a causa dell’estrema volatilità che caratterizza il successo o il fallimento di
un’impresa del settore digitale, dovuta alla condizione per cui la clientela, che si sposta
nell’ordine delle milioni di persone, qualora scoprisse l’esistenza di un servizio
ritenuto migliore e offerto da un concorrente, migrerebbe quasi istantaneamente verso
quella direzione, creando un elevatissimo rischio di fallimento per l’altra impresa.
Dette società, inoltre, sono solite utilizzare un sistema remunerativo dei propri
quadri dirigenziali consistente in salari molto elevati e l’elargizione di stock options.
18 Steve Jobs Wouldn't Have Paid a Dividend, in Forbes.com, 19 marzo 2012. 19 Gli Stati Uniti hanno l’aliquota per le imposte societarie (corporate tax) più alta tra i Paesi industrializzati. 20 U. S. SECURITIES AND EXCHANGE COMMISSION, 10-K Form of Apple, Inc., anno fiscale 2013
18
Ciò genera un aumento degli azionisti e una diluizione delle azioni stesse, con
conseguente necessità di aggiornamento del relativo valore. Questo sistema permette
alle imprese trasferire questo valore agli azionisti senza però dividere gli utili e quindi
essere sottoposti alla pesante tassazione americana in materia.
Le conseguenze negative dell’elargizione dei dividendi sarebbero non soltanto
di natura fiscale, ma anche “politica”. Una volta che si allenta la presa e si procede a
versamenti di dividendi più ravvicinati nel tempo, l’aspettativa del mercato e degli
azionisti è che questa linea continui. Pertanto una volta che si è innescato un
meccanismo per il quale la spartizione è più frequente, il mercato non permette di
tornare indietro. I dividendi, rectius la loro spartizione, hanno inoltre cominciato ad
essere interpretati dagli azionisti come segnali negativi dell’andamento e del successo
dell’impresa. Questa caratteristica non è propria ed esclusiva delle multinazionali
digitali, ma in questo settore i suoi effetti sono amplificati. Se una società ricorre
troppo spesso alla spartizione degli utili, nella mente dell’azionista si innesca un
ragionamento logico per cui tale azione è correlata ad un minor investimento nel ramo
R&D, e pertanto quell’impresa non può più essere considerata innovativa, cioè si
ritiene aver smesso di “crescere” e svilupparsi.21
5. L’economia digitale è in rapido e perpetuo movimento, in tutti i settori, di talché
non è agevole identificarne un punto di stabilità, incluso per l’imposizione fiscale.
Né la tecnologia, né i modelli di business, né i servizi resi possono essere
considerati come perenni
A partire dagli assunti appena analizzati, in particolare sub 1) e 3), è facilmente
possibile comprendere come l’economia digitale sia in «perenne ristrutturazione»22 e
le imprese che ivi operano non concentrino i propri sforzi in un unico settore, dovendo
indirizzare i propri sforzi di innovazione e sviluppi verso un numero ampio di mercati
differenti, cercando di creare un rapporto privilegiato con la clientela, alla quale fornire
tutta una serie di strumenti al fine di alimentare un “ecosistema” di servizi tali che
dette imprese possano essere considerate dagli utilizzatori come unico punto di accesso
per l’utilizzo di una serie disomogenea di funzioni.
21 CHENG, R., Why technology companies loathe dividends, in CNET, 19 marzo 2012 22 op. cit. COLIN, N. – COLLIN, P., Mission d’expertise sur la fiscalité de l’économie numérique, p. 12. Traduzione libera.
19
Infatti, ognuna delle quattro grandi multinazionali del settore digitale, e cioè
Apple, Amazon, Google e Facebook, definite «i quattro cavalieri dell’apocalisse»23,
per la loro capacità di aver rivoluzionato completamente il mercato a partire dai primi
anni 2000, concentra i propri sforzi attraverso canali definiti “prioritari” proprio per
raggiungere un livello di affiliazione massima con il cliente, che con quel marchio si
deve indentificare. Apple, per esempio, avendo rivoluzionato per prima il settore degli
smartphones, si propone come leader del settore grazie ad una user experience sempre
più evoluta, dovuta anche al fatto che sia la produzione dell’hardware che quella del
software che modella il sistema operativo, sono direttamente creati, gestiti ed
aggiornati dalla stessa Apple. Amazon, invece, si era inizialmente proposta sul mercato
come “la più grande libreria del mondo”, in un momento in cui l’evoluzione
tecnologica sembrava suggerire una contrazione del mercato della carta stampata in
favore dei c.d. e-books24, per poi diversificare ampiamente il proprio market attraverso
la vendita di qualsiasi oggetto commerciabile, proponendosi come il “più grande
mercato del mondo”, sempre mantenendo un rapporto privilegiato con la clientela di
lettori, attraverso lo strumento denominato Kindle e cioè un dispositivo portatile che
consente la lettura degli ebook, che, se acquistati attraverso il canale di Amazon, sono
in un formato proprietario e leggibili solo attraverso quel particolare dispositivo
ovvero tramite un software proprietario. Google ha come missione quella di
«organizzare le informazioni a livello mondiale e renderle universalmente accessibili
e utili»25, attraverso il proprio motore di ricerca, che ha letteralmente spazzato via la
concorrenza in materia che aveva animato il mercato intorno agli anni ’90 e
arricchendo l’esperienza degli utenti con strumenti affini ma completamente differenti,
come la ricerca di immagini, l’acquisizione del più grande database di video privati e
professionali del mondo, YouTube, l’applicazione Google Libri che digitalizza un
numero sempre crescente di volumi, lo strumento Google Maps, che contiene le
immagini satellitari e quelle stradali di quasi tutto il Pianeta, oltre ad una serie di
23 NUSCA, A., Kleiner Perkins’ Doerr: Google, Facebook, Amazon, Apple the “four great horsemen of the internet”, in ZDNet, 2010. 24 Fatto poi effettivamente verificatosi nel 2011 quando le vendite degli ebook sul portale Amazon.com hanno superato del 5% le vendite di libri cartacei, http://www.dailymail.co.uk/sciencetech/article-1388779/The-end-paperback-Kindle-ebook-sales-exceed-print-sales-time-ever.html 25 https://www.google.it/intl/it/about/company/.
20
strumenti non minori ma sicuramente meno unici, quali ad esempio il servizio di posta
elettronica Gmail, il servizio di traduzione automatica Google Translator, etc.
Facebook, invece, si propone come il social network attraverso cui «connettere il
mondo», con un numero di utenti attivi estremamente elevato e un sistema di gestione
delle inserzioni pubblicitarie assolutamente all’avanguardia nel settore. La
differenziazione, nel mercato digitale, è ciò che permette alle multinazionali di tenersi
sempre su altissimi livelli di produttività e guadagnare posizioni di mercato.
Una volta ottenuta una certa stabilità e avendo conquistato il mercato in un
determinato settore, queste imprese aggrediscono i rami al proprio settore connessi, al
pari di come un tempo le nazioni a carattere imperialistico-coloniale operavano le
proprie espansioni territoriali.26 Uno degli ambiti in cui l’investimento per lo sviluppo
è maggiore è quello della pubblicità e delle nuove performances legati ai servizi per i
consumatori. In una materia già ampiamente sviluppata nei decenni precedenti, come
quella della pubblicità a pagamento, il c.d. marketing diretto, le frontiere aperte dalle
multinazionali digitali (in particolare Google e Facebook) sono considerabilmente
innovative, in quanto lo strumento attraverso il quale gli inserzionisti si presentano al
pubblico è particolarmente affinato da un lato e trasversale, nel senso dell’applicabilità
a tutti i supporti digitali, dall’altro.
Quasi tutta l’attività effettuata dall’utente, che sfrutta i servizi che gratuitamente
le due società mettono a disposizione, è tracciata attraverso lo strumento dei c.d.
cookies, che permette di archiviare le preferenze dell’utente e di mostrargli, attraverso
un complesso algoritmo, soltanto quelle inserzioni che si ritengono possano essere più
facilmente convertite in acquisti. È in questo che le due aziende sono state
rivoluzionarie e innovative: l’estrema personalizzazione dell’utenza da raggiungere,
attraverso il c.d. targeting, ha ampliato le frontiere del marketing diretto come non mai
prima d’ora.27 La portata di questa innovazione, che comunque ha destato qualche
problema relativamente alla privacy degli utenti28, ha una conseguenza importante
26 In riferimento a tale fenomeno di “neocolonialismo americano”, è stato coniato in Francia l’acronimo GAFA (Google, Amazon, Facebook e Apple), http://qz.com/303947/us-cultural-imperialism-has-a-new-name-gafa/. 27 AULETTA, K., Googled, The end of the World as we know it, New York City, 2011. 28 ex plurimis, la storica decisione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che condannando Google con la sentenza pronunciata nel procedimento C-131/12, ha stabilito il c.d. principio del diritto all’oblio.
21
anche dal lato del consumatore: l’internauta di oggi è un utente che ha un’attenzione
minore rispetto al consumatore finale classico, in parte perché la quotidianità sempre
più dinamica delle persone non permette loro di applicare la stessa “profondità” di
pensiero rispetto ad un tempo, in parte anche perché la rapidità e la superficialità delle
nozioni che si apprendono attraverso lo strumento internet sono due delle
caratteristiche peculiari di questo strumento. Pertanto, il consumatore è meno
“attento”, perlomeno durante una delle fasi dell’acquisto, cioè quello del
consolidamento della scelta ed è a questo punto che gli strumenti messi a punto da
Google e Facebook vengono in suo aiuto, presentando «l’informazione giusta, al
momento giusto e alla persona giusta».29
6. Infine, l’economia digitale elimina in maniera sistematica la relazione tra luogo di
stabilimento e luogo di consumo. Conseguentemente, è sempre più difficile
localizzare il valore creato da questa economia e di applicarne le regole di un
diritto fiscale ormai inadatto
Tutti i gruppi multinazionali digitali sono organizzati in modo particolarmente
efficiente dal punto di vista fiscale. Questa efficienza è dettata in parte dalle
caratteristiche peculiari già analizzate delle imprese digitali, in parte dall’iniziale
struttura societaria, con imprese interne al gruppo create ad hoc per una migliore
gestione dei profitti e conseguente riduzione del livello di tassazione.
Questa intensa attività di efficientamento delle spese tributarie prende il nome
di tax planning, una pratica utilizzata spesso dalle multinazionali di tutti i tipi, ma che
ha raggiunto l’apice del suo perfezionamento proprio grazie all’attività e alle strategie
delle multinazionali digitali. Rispetto ad un gruppo multinazionale classico, le società
che operano su internet non hanno bisogno di regolari riorganizzazioni interne: esse
sono già ottimizzate dal punto di vista tributario e non temono confronti diretti con le
Amministrazioni fiscali dei Paesi in cui operano.30313233
29 op. cit. COLIN – COLLIN, Mission d’expertise sur la fiscalité de l’économie numérique, p. 16. Traduzione Libera. 30 Fisco ancora dribblato da Google. Nel 2012 solo 1,8 milioni di tasse in Italia, in Il Sole 24 Ore, 20 luglio 2013 31 Posizione dominante, Google risponde a muso duro all'Ue: «Accuse infondate», in Il Sole 24 Ore, 27 agosto 2015 32 Tax avoidance hearing: Google, Microsoft and Apple tell Senate committee they fully comply with Australian laws, in Sidney Morning Herald, 29 aprile 2015 33 The Debate: Recording – Public Accounts Committee Hearing (12/11/2012) on Taxation of
22
Le multinazionali digitali, inoltre, sono società tendenzialmente giovani, che si
sviluppano, come visto, molto rapidamente, per cui la loro organizzazione originaria,
sicuramente più attenta a tali problematiche è più che sufficiente per una gestione
ottimale del carico fiscale, senza alcun bisogno di operare modifiche interne. Gli
strumenti più comuni attraverso i quali tali società riescono a diminuire il carico
fiscale, soprattutto nei confronti dei Paesi europei a fiscalità ordinaria in cui operano,
sono molteplici e basati sull’utilizzo massiccio degli intangibles. In particolare, si
possono identificare quattro operazioni principali che tutti e quattro i “cavalieri
dell’apocalisse” utilizzato per l’ottimizzazione del carico tributario
1. Riqualificazione di talune attività nella catena di creazione del valore al fine di
diminuire i profitti e assicurare l’assenza di una stabile organizzazione nel
territorio in cui operano: le imprese collegate e create nei Paesi a fiscalità
ordinaria vengono strutturate in modo da risultare appartenenti alle categorie del
par. 4 dell’art. 5 del Modello di convenzione OCSE (in questo capitolo infra
analizzato), che permette di non considerarle come stabili organizzazioni e
quindi di non applicare l’imposizione fiscale locale sulla tassazione degli utili
societari.
2. Localizzazione strategia in particolari Stati (generalmente Irlanda, Lussemburgo
e Paesi Bassi) per approfittare dei vantaggi fiscali da dette Amministrazioni
regolate attraverso leggi nazionali o accordi bilaterali: è il caso del Double Irish
with Dutch Sandwich, che sarà oggetto di approfondita analisi successivamente,
un meccanismo nato negli anni ’80 (prima, quindi, della rivoluzione digitale)
attraverso il quale le multinazionali possono spostare grande parte degli utili nei
c.d. paradisi fiscali.34
3. Grazie ad un attento utilizzo degli intangibles finanziari, come la proprietà
intellettuale o diritti di sfruttamento del marchio, tali società sono in grado di
destinare grande parte degli utili prodotti al di fuori del Paese ove la casa madre
ha sede (quindi gli Stati Uniti d’America), attraverso operazioni infragruppo e
Multinational Corporations, http://www.parliamentlive.tv/Event/Index/ab52a9cd-9d51-49a3-ba3d-e127a3af018c 34 ‘Double Irish With a Dutch Sandwich’, in New York Times, 28 aprile 2012, grafico http://www.nytimes.com/interactive/2012/04/28/business/Double-Irish-With-A-Dutch-Sandwich.html
23
una struttura societaria come quella sopra descritta, verso Paesi la cui tassazione
sugli utili è prossima allo zero.
4. Queste operazioni infragruppo, poi, sono influenzate nel quantum dallo
strumento del transfer pricing, e cioè dal prezzo a cui tali operazioni vengono
compiute, si ritiene spesso maggiorato35 rispetto al prezzo ottenibile in regime
di concorrenza di mercato (quindi nel caso in cui la stessa operazione
commerciale fosse stata portata avanti tra due società non appartenenti alla stessa
controllante) per aumentare il capitale esportato verso i Paesi a regime fiscale
agevolato.
Il rapporto, inoltre, analizza dal punto di vista economico il già citato fenomeno
dell’acquisizione massiccia di dati, soprattutto personali. Gli utenti che forniscono
volontariamente e gratuitamente i propri dati alle grandi multinazionali digitali, che
questi dati trasformano in enormi profitti generati dagli introiti pubblicitari, vengono
considerati come dei veri e propri “lavoratori”, paragonabili ai dipendenti di una
grande industria. Il fatto, però, che il “lavoro” svolto dagli utenti non sia retribuito, se
non sotto la forma di libera fruizione di una serie di servizi offerti, dà a queste imprese
un grandissimo vantaggio competitivo rispetto ad una del settore classico.
Inoltre, viene rilevato come a questo massiccio uso dei dati dei cittadini, in
questo caso francesi, non corrisponda una correlata contribuzione fiscale sul territorio
ove i soggetti, si ribadisce nel rapporto, «“travaillent” gratuitement».36
2. LA DISCIPLINA DELL’IMPOSIZIONE DELLE PERSONE GIURIDICHE 2.1. La disciplina internazionale
In ambito fiscale, la struttura normativa internazionale è peculiare e si distingue
da tutte le altre branche del diritto. Le fonti del diritto tributario internazionale infatti,
al contrario, ad esempio, del diritto internazionale pubblico o delle branche civilistiche
del diritto internazionale privato o commerciale, sono costituite da un complicato
intreccio tra norme consuetudinarie e pattizie bilaterali o multilaterali. Le fonti più
35 INTERNATIONAL TAX REVIEW, Transfer Pricing 17th edition, Tax Reference Library n. 99, 2015, p. 24. 36 ibidem, COLIN – COLLIN, Mission d’expertise sur la fiscalité de l’économie numérique, p. 2.
24
antiche sono le norme consuetudinarie, che si sono sviluppate in un arco temporale
molto ampio e che tendenzialmente sono frutto di prassi diplomatiche completamente
riconosciute.
A livello quantitativo, comunque, occorre rilevare come questo tipo di fonte
costituisca una minima parte della disciplina normativa del diritto tributario
internazionale, ove le norme pattizie sono sicuramente la fonte che maggior peso
riveste nella regolamentazione della materia. La consuetudine, comunque, è una delle
fonti del diritto, ma per poter avere una rilevanza giuridica, deve rispondere a
determinati requisiti. Essendo la fonte del diritto caratterizzata da minor “certezza”, in
quanto sono completamente assenti i riferimenti scritti alla disciplina, ed essendo,
quindi, unicamente costituita da comportamenti ripetuti nel tempo, ha bisogno di taluni
“paletti” per poter essere considerata tale a tutti gli effetti. Per questo motivo, affinché
un comportamento costante e ripetuto rivesta un ruolo giuridico a tutti gli effetti è
necessario che tale comportamento sia caratterizzato da
- diuturnitas
- opinio iuris sive necessitatis
Il primo elemento è ciò che in rerum natura identifica comunemente la prassi,
quindi è il comportamento “quotidianamente” ripetuto nel tempo, ovvero un’azione o
un insieme di azioni che instaurano un rapporto giuridico tra Stati differenti e che è
rimasto uguale e costante nel tempo.37
Il secondo elemento, invece, è l’elemento che serve a dare quel quid di certezza
in più che, come già accennato, manca a questo tipo di fonte; l’opinio iuris, infatti, è
la convinzione, da parte dei soggetti chiamati a mettere in atto una determinata prassi,
che tale comportamento costituisca per loro un obbligo giuridico. Questo elemento
riguarda l’approccio soggettivo nei confronti della norma consuetudinaria, che viene
quindi identificata da coloro che la devono applicare, come un fatto giuridico non
contestabile, non opinabile, ma una vera e propria prescrizione normativa, al pari di
qualsiasi altra fonte scritta. A ben vedere, quindi, quest’ultimo elemento è ciò che
distingue il mero “uso” da una consuetudine che può assurgere a fonte del diritto.
Nella materia tributaria, i riferimenti alla consuetudine sono pochi e nell’ambito
37 CORDEIRO GUERRA, R. (a cura di), Diritto Tributario Internazionale – Istituzioni, Padova, 2012, pp. 102-105.
25
dello studio qui intrapreso, di scarso rilievo. La presenza di questa fonte, comunque,
testimonia da un lato il fatto che il diritto tributario internazionale sia una disciplina
“giovane”, che si è evoluta soltanto di recente e che quindi presenta ancora in
determinati ambiti qualche refuso di una produzione normativa, per così dire,
primordiale.
Lo sviluppo della materia ha subito un grande impulso solo a partire dalla metà
del secolo scorso, con l’intensificazione dei rapporti commerciali internazionali e la
sentita esigenza da parte delle Amministrazioni finanziare di intercettare questo flusso
economico fino ad allora non regolato e soprattutto non sottoposto ad imposizione. È
infatti per questo motivo che nascono i primi accordi internazionali, prima in sede
Società delle Nazioni, (come era inizialmente conosciuta l’ONU) e successivamente
in seno all’organismo internazionale che maggiore importanza riveste in sede
tributaria, l’OCSE.
L’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, infatti, è
un’organizzazione che conta 34 membri attivi rappresentanti di Paesi sviluppati aventi
in comune un sistema di governo di tipo democratico ed un’economia di mercato e
finalizzata alla risoluzione dei problemi comuni, l’identificazione di pratiche
commerciali ed il coordinamento delle politiche locali ed internazionali dei Paesi
membri.38 È in questa sede che, nei decenni, si sono sviluppati le regole più largamente
condivise per la disciplina internazionale della materia tributaria, attraverso
l’elaborazione di norme pattizie prevalentemente bilaterali, che costituiscono l’hard
core del diritto tributario internazionale.
In particolare, l’OCSE ha sviluppato un documento, chiamato Modello contro la
doppia imposizione internazionale, ampiamente utilizzato dagli Stati per stipulare
trattati bilaterali sulla gestione dell’imposizione fiscale relativa a fattispecie con
elementi di estraneità. Tale Modello riveste un ruolo centrale ed è frutto di uno studio
continuo più che cinquantennale. La prima versione del Modello risale al 1963 e la sua
struttura rispondeva ai parametri economici del tempo, relativi quindi ad un’economia
certamente non statica, ma altrettanto certamente non mutevole come quella attuale. Il
primo aggiornamento del Modello, risale poi a quasi 15 anni dopo, e cioè al 1977,
38 OECD – About, http://www.oecd.org/about/whatwedoandhow/.
26
anche se le modifiche apportate non furono di grande rilevanza. È a partire dal 1991
che il Comitato per gli Affari Fiscali dell’OCSE ha adottato un criterio dinamico di
aggiornamento continuo del Modello e, a partire dall’anno successivo, ha introdotto
un importante strumento di supporto, il Commentario, per l’interpretazione delle
norme redatte. Il Modello OCSE è un modello snello, costituito da soli 30 articoli. In
tale sintetica esposizione, però, è racchiuso praticamente ogni aspetto della
regolamentazione dell’imposizione fiscale in caso di doppia pretesa impositiva.
Il Modello è composto da 7 Capitoli, che possono essere divisi in due aree, quella
delle nozioni e definizioni e quella delle singole categorie reddituali. Alla prima
appartengono i Capitoli 1 e 2 e i Capitoli 6 e 7, più precisamente
- gli artt. 1 e 2 identificano quelli che sono i soggetti attivi e passivi della disciplina
del Modello
- gli artt. 3, 4 e 5 contengono le definizioni essenziali per l’analisi del testo
normativo
- le disposizioni di cui al Capitolo VI, invece, contengono le regole e le procedure
da seguire per l’applicazione effettiva del trattato e saranno oggetto di maggiore
approfondimento infra
La seconda categoria di norme comprende, come detto, le singole categorie
reddituali, ma tra quelle di maggior rilievo per il caso che qui ci occupa, spiccano gli
artt. 10, 11, 12 e 13, che trattano rispettivamente dei dividendi, interessi, royalties e
capital gains, anch’esse oggetto di esegesi, infra.
Una delle più importanti nozioni sviluppate dall’OCSE per la disciplina della
tassazione internazionale e meritevole di specifica analisi è quello della “stabile
organizzazione” (d’ora in poi anche SO), regolata e definita dall’art. 5 del Modello,
che «designa una sede fissa di affari in cui l'impresa esercita in tutto o in parte la sua
attività».39 La finalità dell’istituto è quello di permettere ad uno Stato contraente di
esercitare la propria potestà impositiva sui profitti generati da un’impresa residente
nell’altro Stato contraente qualora eserciti la propria attività commerciale attraverso
una delle modalità descritte dalla norma.40 La SO quindi costituisce il criterio di
39 Par. 1, Art. 5, OECD, Model Tax Convention on Income and on Capital 2014, Paris, 2014. 40 CORDEIRO GUERRA, R. – MASTELLONE, P., Recenti orientamenti giurisprudenziali in tema di stabile organizzazione, in La stabile organizzazione, Milano, 11-12 ottobre 2013, p. 103.
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collegamento come presupposto per l’imposizione di un’attività economica svolta da
un soggetto in un Paese diverso da quello di residenza.41
Il Modello distingue poi due categorie di stabile organizzazione: la SO materiale
e quella personale, i cui connotati rispondono a caratteristiche differenti. I paragrafi 2
e 3 dell’art. 5 esemplificano una serie di situazioni in cui è possibile identificare una
SO materiale, accomunate dal fatto di implicare una presenza fisica, all’interno dello
Stato di non residenza, di un qualche tipo di mezzo organizzato dall’imprenditore
straniero42; la riconducibilità di un’installazione alla nozione di stabile organizzazione
materiale è, comunque, più ampia ed è ricompresa anche nel costantemente aggiornato
Commentario al Modello.
A prescindere dall’esemplificazione, quindi, la stabile organizzazione materiale
deve rispondere a determinati requisiti, che sono
a) l’esistenza di un’installazione di affari nello Stato contraente,
b) la presenza stabile, sia geografica che temporale, di tale installazione,
c) la sua riconducibilità all’ordinario esercizio di impresa,
d) l’idoneità dell’installazione a produrre reddito.
La prima caratteristica è propria anche della stabile organizzazione personale ed
identifica proprio il quid minimo per giustificare la pretesa impositiva da parte dello
Stato di non residenza dell’impresa. Il concetto di stabilità, poi, è uno degli elementi
cardine della caratterizzazione della SO, oltre ad essere uno dei fattori che più ha
messo in crisi questo istituto alla luce delle novità relative alla new economy.
Avendo riguardo sia alle esemplificazioni del par. 2, sia alla specificazione
temporale del par. 3, si intuisce come tale elemento caratterizzi un peculiare tipo di
organizzazione societaria, definibile classica, per cui lo sviluppo extra-territoriale di
41 VALENTE, P., Manuale di governance fiscale, Milano, 2011, p. 879. 42 «2. L'espressione "stabile organizzazione" comprende in particolare: a) una sede di direzione; b) una succursale; c) un ufficio; d) un'officina: e) un laboratorio; f) una miniera, un pozzo di petrolio o di gas, una cava o altro luogo di estrazione di risorse naturali;
3. Un cantiere di costruzione o di montaggio è considerato stabile organizzazione solamente se ha una durata superiore ai dodici mesi», art. 5, parr. 2 e 3, OECD, Model Tax Convention on Income and on Capital 2014, Paris, 2014.
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un’impresa era legata ad una presenza materiale ben visibile sul territorio straniero.
Questo fatto, alla luce della maggiore mobilità delle strutture societarie delle
multinazionali odierne, determina la non applicabilità della disciplina a tutte quelle
aziende che abbiano un indice di sviluppo digitale significativo, precludendo quindi
alle Amministrazioni finanziare dei Paesi “ospitanti” la possibilità di imporre la
tassazione sul reddito prodotto da tali società sul proprio territorio.
Inoltre, le previsioni del par. 443 alimentano la questa difficoltà impositiva, in
quanto il Modello OCSE esplicitamente esclude dalla nozione di SO tutta una serie di
circostanze che, in realtà, sono più tipiche delle moderne imprese digitalizzate. Come
si vedrà infra, infatti, una delle soluzioni proposte per arginare tale problema consiste
proprio nell’eliminazione di tale paragrafo.
Come anticipato, alla nozione di SO materiale si affianca quella di SO personale,
disciplinata dai parr. 5 e 6 dell’art. 5. A ben vedere, il primo dei due paragrafi identifica
una situazione fattuale che è ricompresa nella nozione di SO, mentre il secondo
esclude che la situazione ivi prospettata possa essere inquadrata all’interno di tale
istituto.
Il tratto comune tra le due ipotesi è la presenza sul territorio straniero non di
un’installazione fisica, materiale, ma di un agente. La differenza consiste
sostanzialmente nel tipo di “qualifica” data all’agente stesso, in quanto nel primo caso,
quello in cui si può parlare di SO personale, denominato “agente dipendente”, egli
agisca in nome e per conto dell’impresa, mentre nel secondo caso, denominato “agente
43 ibidem, «4. Nonostante le precedenti disposizioni di questo articolo, non si considera che vi sia una "stabile organizzazione" se: a) si fa uso di una installazione ai soli fini di deposito, di esposizione o di consegna di merci appartenenti alla impresa; b) le merci appartenenti all'impresa sono immagazzinate ai soli fini di deposito, di esposizione o di consegna; c) le merci appartenenti all'impresa sono immagazzinate ai soli fini della trasformazione da parte di un'altra impresa; d) una sede fissa di affari è utilizzata ai soli fini di acquistare merci o di raccogliere informazioni per la impresa; e) una sede fissa di affari è utilizzata, per l'impresa, ai soli fini di pubblicità, di fornire informazioni, di ricerche scientifiche o di attività analoghe che abbiano carattere preparatorio o ausiliare per l’impresa. f) una sede fissa di affari è utilizzata unicamente per qualsiasi combinazione delle attività citate ai paragrafi da a) a e), purché l’attività della sede fissa nel suo insieme, quale risulta da tale combinazione, sia di carattere preparatorio o ausiliare».
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indipendente”, egli agisca in nome proprio ma per conto dell’impresa.44 Infine,
l’ultimo paragrafo dell’art. 5 stabilisce un principio che, nel caso delle multinazionali,
in particolare quelle digitali, si presenta come una valvola di salvezza rispetto alla
necessità di operare come una stabile organizzazione all’interno del territorio straniero.
L’assunto di partenza è che «il fatto che una società residente in uno Stato
contraente controlli una società residente nell'altro Stato contraente o sia da questa
controllata, ovvero svolga attività in questo altro Stato non costituisce di per sé motivo
sufficiente per far considerare una qualsiasi delle dette società una stabile
organizzazione dell'altra».45
Le implicazioni di questa norma sono rilevanti. Le multinazionali digitali o
digitalizzate, seppur potenzialmente potrebbero svolgere la propria attività senza alcun
ausilio nel territorio straniero dove si trova una parte rilevante della propria clientela,
spesso utilizzano delle controllate per compiere determinate operazioni in loco, che
esse giustificano come rientranti nelle previsioni del par. 4, quindi ad esempio attività
di ricerca di informazioni, pubblicità o attività preparatorie a quella d’impresa, a volte
mascherando una vera e propria attività rientrante nei parametri della SO.46
Un caso particolare è costituito dai server e dalla disciplina dettata dal
Commentario OCSE in merito alla loro qualificazione come stabili organizzazioni. La
circostanza non è irrilevante proprio in virtù del fatto che (vedi supra) la stragrande
maggioranza delle imprese dei Paesi sviluppati utilizza un sito internet per promuovere
la propria attività o addirittura come canale di vendita. I dati che formano i siti web,
44 ibidem, «5. Nonostante le disposizioni dei paragrafi 1 e 2, quando una persona diversa da un agente che goda di uno status indipendente, cui si applichi il paragrafo 6 agisce per conto di un'impresa oppure abitualmente esercita in uno Stato contraente il potere di concludere contratti a nome dell'impresa, si può ritenere che l’impresa abbia una stabile organizzazione in detto Stato in relazione ad ogni attività intrapresa dalla suddetta persona per l'impresa, a meno che l’attività di tale persona sia limitata all’attività citata al precedente paragrafo 4 che, se esercitata a mezzo di una sede fissa di affari, non farebbe di tale sede fissa di affari una stabile organizzazione ai sensi delle disposizioni di detto paragrafo. 6. Non si considera che un'impresa di uno Stato contraente abbia una stabile organizzazione nell'altro Stato contraente per il solo fatto che essa eserciti in detto Stato la propria attività per mezzo di un mediatore, di un commissionario generale o di un qualsiasi altro intermediario che goda di uno status indipendente, a condizione che dette persone agiscano nell'ambito della loro ordinaria attività». 45 ibidem, par. 6. Traduzione Libera. 46 Così, per esempio, è stato dimostrato nel noto caso Philip Morris (Cass. Civ., nn. 3367 e 3368 del 7 marzo 2002, n. 10925 del 25 luglio 2002 e n. 7682 del 25 maggio 2002), nel quale la Suprema Corte ha identificato l’attività svolta da alcune società del gruppo del tabacco come stabile organizzazione, mentre la casa madre le considerava semplici controllate svolgenti un’attività ausiliaria pari a quella disciplinata dal par.4 dell’art. 5 del Modello OCSE.
30
necessariamente, debbono essere “salvati” su di un server, da qui l’interrogativo di
poter considerare tali macchine, che comunque sono strutture fisse, come una stabile
organizzazione, ancorché peculiare, di un’impresa, data anche l’attitudine a generare
redditi attraverso i siti web.
Il Commentario riserva ampio spazio a questa precisa problematica,
individuando tre casi da disciplinare. Nel primo caso, si prende in considerazione il
sito web in sé per sé, quindi a prescindere dalla sua “collocazione”, ma come entità
formata da dati digitali e software per l’elaborazione di tali dati, non rilevando,
nell’analisi, quale sia il supporto ove tali dati siano salvati, anche se, evidentemente,
essi siano salvati su di un server di proprietà di un ISP, in forza di un contratto c.d. di
hosting.47
In questo caso non si può parlare di SO in quanto «l’impresa non ha nemmeno
una presenza fisica in quella sede, considerato che il sito web non è un bene tangibile.
In questi casi, non può ritenersi che l’impresa abbia acquisito una sede d’affari in
forza di quel contratto di hosting».48 Diversa la disciplina del server. In questo caso,
infatti, una presenza fisica è indiscutibile, ma il Commentario subordina l’applicabilità
della SO ad un’ulteriore serie di fattori.
Uno di questi fattori è la materiale disponibilità del bene stesso. Un ISP, che
offre servizi di hosting, è naturalmente proprietario dei server che utilizza per offrire i
propri servizi e detti server sono nella sua materiale disponibilità, quindi secondo
l’OCSE, tale circostanza configura una stabile organizzazione.
Parimenti, un’impresa che non si occupa di offrire servizi di hosting, ma più
semplicemente ha deciso, per la gestione del proprio portale, di acquistare essa stessa
un server, ed essendo tale server nella materiale disponibilità della stessa impresa,
qualora tale strumento si trovi in uno Stato diverso da quello della sede dell’impresa,
sarà configurabile una stabile organizzazione. Così infatti il Commentario «Se
l’impresa che svolge la propria attività attraverso un sito web ha la piena disponibilità
del server, per esempio perché lo possiede o lo affitta, e gestisce il server dove il sito
web è salvato e utilizzato, il luogo dove si trova il server può costituire una stabile
47 Dall’inglese, per l’appunto, “ospitare”. 48 Par. 42.3, OECD, Commentary to the OECD Model, 2010. Traduzione libera.
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organizzazione se gli altri requisiti dell’Articolo sono soddisfatti».49
Una volta stabilito il requisito della disponibilità uti dominus e della fissità del
server, il Commentario ricorda la differenza tra attività preparatorie ed ausiliarie e
attività più direttamente finalizzate alla produzione di reddito (par. 4, art. 5 Modello
OCSE). Nel primo caso, infatti, il server non costituirà una stabile organizzazione, in
quanto «se queste attività sono meramente preparatorie o ausiliarie all’attività di
vendita dei prodotti attraverso internet (per esempio, la sede è utilizzata per gestire
un server che ospita un sito web, come spesso accade, utilizzato esclusivamente per
scopi pubblicitari, attraverso l’esposizione di un catalogo prodotti o il chiarimento su
di essi attraverso informazioni date ai potenziali clienti), il paragrafo 4 sarà applicato
e la sede non costituirà una stabile organizzazione».50 Nel secondo caso, invece,
qualora l’attività svolta attraverso il server sia una vera e propria attività di vendita,
con pagamenti effettuati online, allora «tali attività non potranno essere considerate
come mere attività preparatorie o ausiliarie».51
Data la rapida evoluzione di tutte le vicende legate al mondo della digital
economy, l’OCSE ha correttamente ritenuto di dover aggiornare con frequenza il
proprio Commentario al Modello contro le doppie imposizioni, che pur non rivestendo
alcun ruolo ufficiale e non essendo allegato ai trattati bilaterali, costituisce comunque
lo strumento principe per l’interpretazione di tutte le Convenzioni. La scelta di
modificare il Commentario, rispetto ad una modifica costante del Modello, si è rivelata
vincente e i paragrafi appena citati sulla disciplina del server come stabile
organizzazione ne sono una prova.
Spostandoci verso la tassazione del reddito generato dalla SO, disciplinato nel
Modello OCSE dall’art. 7, par. 1, che stabilisce che «i profitti di un’impresa di uno
Stato contraente sono tassati solo in tale Stato, a meno che l’impresa svolga la propria
attività nell’altro Stato contraente attraverso una stabile organizzazione ivi stabilita.
Se l’impresa svolge un’attività come sopra detto, i profitti imputabili alla stabile
organizzazione, in virtù delle disposizioni del paragrafo 2, possono essere tassati in
tale altro Stato» è opportuno rilevare che due sono le interpretazioni che gli Stati
49 Ibidem. Traduzione libera. 50 Ibidem, par. 42.9. Traduzione libera. 51 Ibidem. Traduzione libera.
32
hanno offerto e che sono definite “functionally separate entity” approach e “relevant
business activity” approach. Secondo la prima, che è anche l’interpretazione autentica,
i profitti imputati alla stabile organizzazione, e quindi tassati dallo Stato di non
residenza, sono quelli ottenuti dall’installazione considerata come un’impresa del tutto
indipendente dalla casa madre. La seconda interpretazione, invece, considera come
profitti dell’impresa solo i profitti dell’attività in cui una stabile organizzazione ha una
determinata partecipazione attiva.
Con riguardo alla disciplina delle singole categorie reddituali, invece, come
anticipato, assumono rilievo gli artt. 10, 11 e 12 che trattano rispettivamente di
dividendi, interessi e royalties. L’importanza di questi articoli è correlata ad una
caratteristica comune a tutti e quattro gli istituti: essi costituiscono intangibles, ovvero
quegli strumenti finanziari, per l’appunto, intangibili, che spesso sono stati oggetto di
abuso da parte delle imprese multinazionali al fine di limitare l’imposizione fiscale e
sono per questo motivo stati oggetti di specifica analisi da parte dell’OCSE all’interno
del più ampio lavoro contro il Base Erosion and Profit Shifting (infra oggetto di
approfondita analisi), che è costituito da 15 Action Plans in merito proprio ai problemi
derivanti da e alle soluzioni proposte contro il fenomeno appena descritto; l’Action
Plan 8 è proprio indirizzato all’uso degli intangibles52 e si propone di «Sviluppare
regole per prevenire il fenomeno BEPS attraverso lo spostamenti di intangibles tra
membri di un stesso gruppo societario. Ciò includerà una netta, chiara e delineata
definizione di intangibles e l’assicurazione che i profitti associati con il trasferimento
e l’uso di intangibles siano propriamente allocati in relazione al luogo della creazione
del valore (piuttosto che da esso separati).53
Il primo di questi intangibles disciplinati dal modello OCSE è l’istituto dei
dividendi, normato dall’art. 10, il cui par. 1 stabilisce che «i dividendi pagati da una
società residente in uno stato contraente ad un residente di un altro stato sono tassati
in detto altro Stato»54 pertanto prevedendo la possibilità (mancando nella norma
l’avverbio soltanto) che essa sia una potestà impositiva concorrente con il Paese di
52 Il titolo del lavoro dell’OCSE è, infatti, Guidance on Transfer Pricing Aspects of Intangibles, Paris, 2014. 53 ibidem, p.11. Traduzione libera. 54 Art. 10, par. 1, OECD, Model Tax Convention on Income and on Capital 2014, Paris, 2014. Traduzione libera.
33
residenza della società erogante. Di tale possibilità, infatti si occupa il paragrafo 2, il
quale specifica che, vi è la possibilità che i dividendi siano tassati anche nello Stato
del quale la società pagante è residente in base alla disciplina di tale Stato, ma se il
beneficiario dei dividendi è residente nell’altro Stato, l’imposta non può eccedere
determinati limiti.55 Tale strumento è stato utilizzato nel processo di BEPS da
numerose multinazionali, seguendo l’ormai celebre schema del Double Irish with
Dutch Sandwich, un meccanismo più ampiamente analizzato infra nel Capitolo
Secondo del presente testo, che si basa sullo sfruttamento delle regole sulla tassazione
dei dividendi, stabilite dai Paesi Bassi, sulla base dell’articolo appena descritto.56
Lo sfruttamento della libertà lasciata agli Stati contraenti il Modello OCSE, si
rinviene anche nei successivi articoli riguardanti le altre figure di intangibles che, per
le loro caratteristiche intrinseche e “volatili” si prestano perfettamente a manipolazioni
funzionali allo scopo delle multinazionali di ottenere una pressione fiscale minore.57
L’art. 11 del Modello OCSE, infatti, si occupa degli interessi e si applica
unicamente agli interessi derivanti in uno Stato contraente e pagati a un soggetto
residente dell’altro Stato. Anche in questo caso, al pari di quanto già visto per i
dividendi, il paragrafo 2 limita il diritto di tassazione degli interessi da parte dello Stato
della residenza del percipiente stabilendo l’applicazione di un’aliquota «che non può
eccedere il 10% dell’ammontare lordo dell’interesse».58
Di particolare rilevanza per il caso che qui ci occupa, il paragrafo 6, il quale
contiene il dispositivo in materia di transfer pricing con riferimento al pagamento di
interessi tra soggetti appartenenti allo stesso gruppo societario, stabilendo che
«qualora l’ammontare degli interessi ecceda l’importo che sarebbe stato concordato
55 ibidem, «a) il 5 per cento dell’ammontare lordo dei dividendi se il beneficiario economico è una società (diversa da una società di persone) che detiene almeno il 25 per cento del capitale della società che paga i dividendi; b) il 15 per cento dell’ammontare lordo dei dividendi in tutti gli altri casi. Le autorità competenti degli Stati contraenti disporranno di comune accordo le modalità applicative di queste limitazioni. Questo paragrafo non riguarda la tassazione della società sugli utili dai quali derivano i dividendi». 56 GALLO, F., Indagine conoscitiva sulla fiscalità nell’economia digitale, Audizione alla Camera dei Deputati della Repubblica Italiana, 24 febbraio 2015, pp. 6-7. 57 ibidem, p. 4. 58 Art. 11, par. 2, OECD, Model Tax Convention on Income and on Capital 2014, Paris, 2014. Traduzione Libera.
34
tra il debitore e il creditore in assenza di tale relazione, le previsioni del presente
Articolo si applicheranno unicamente a quest’ultimo importo».59 La norma è rilevante
in quanto il citato strumento di transfer pricing applicato a strumenti finanziari come
gli intangibles, è largamente utilizzato dalle multinazionali, non solo del settore
digitale, per limitare il carico fiscale. Le operazioni infragruppo, ed in particolar modo
i pagamenti degli interessi tra società interne, è uno dei mezzi “classici” (come meglio
analizzato infra) attraverso il quale ottenere un risparmio d’imposta e nei confronti del
quale l’OCSE e gli organismi internazionali già citati (il G-20, e come analizzato
successivamente, anche l’Unione Europea) stanno elaborando dei sistemi alternativi
finalizzati a porre fine a tali pratiche.60 Sempre in tema di intangibles, l’articolo
successivo a quello appena analizzato norma uno degli istituti più caratteristici di
questo tipo di strumenti finanziari: le royalties.
Il paragrafo 2 dell’articolo dà una definizione di ciò che vengono considerate tali
ai fini della Convenzione e cioè «compensi di qualsiasi natura corrisposti per l’uso o
la concessione in uso di beni immateriali». È proprio l’essenza “immateriale” di tale
strumento che lo rende particolarmente apprezzato dai pianificatori fiscali delle grandi
multinazionali, che lo sfruttano per giustificare i trasferimenti infra-gruppo sovente
utilizzati; o quantomeno, queste sono le accuse a loro mosse dalle Amministrazioni
fiscali di più parti del Mondo, per abbassare la base imponibile delle società operanti
in Paesi a fiscalità ordinaria.61 Per quanto riguarda la disciplina della ripartizione degli
oneri fiscali, il paragrafo 1, art. 12, prevede il principio della tassazione esclusiva nello
Stato di residenza dell’effettivo beneficiario dei canoni provenienti da uno Stato
contraente e pagati ad un residente dell’altro stato contraente.62 Il paragrafo 2, poi,
59 ibidem, par. 6. Traduzione libera. 60 AZAM, R., The Political Feasibility of a Global E-Commerce Tax, in The University of Memphis Law Review, vol. 43, 2013, pp. 749-753. 61 Senza presunzione di esaustività si citano, ex plurimis, alcune audizioni di rappresentanti di multinazionali, non sempre legate al mondo digitale, al cospetto degli organi parlamentari del Regno Unito, dell’Australia e degli Stati Uniti: in ordine, HOUSE OF COMMONS, Public Accounts Committee Hearing, Taxation of Multinational Corporations, 12 novembre 2012; WADE, M., Tax avoidance hearing: Google, Microsoft and Apple tell Senate committee they fully comply with Australian laws, Sydney Morning Herald, 9 aprile 2015; U.S HOUSE OF REPRESENTATIVES Committee on Ways and Means, Earing titled “Tax reform: Tax havens, Base Erosion and profit-shifting”, audizione del Prof. EDWARD D. KLEINBARD, 13 giugno 2013. 62 «(…) shall be taxable only in that other State», par. 1, art. 12, OECD, Model Tax Convention on Income and on Capital, Paris, 2014.
35
prevede la non applicabilità del regime qualora il beneficiario effettivo dei canoni
operi nello Stato della fonte mediante stabile organizzazione ovvero se i diritti o i beni
generatori dei canoni si ricollegano effettivamente alla stabile organizzazione. In tal
caso, infatti, si considera quale Stato della fonte quello in cui è sita la stabile
organizzazione, con conseguente applicazione dell’art. 7 del Modello.63 L’ultimo
paragrafo, infine, in applicazione del c.d. arm’s length principle, prevede che in caso
di stabili organizzazioni o di rapporti di controllo societario tra beneficiario e debitore,
la disciplina agevolata appena descritta si applichi soltanto ai canoni che non eccedono
quelli che sarebbero stati convenuti in assenza di detta relazione tra i contraenti.64
Questa sommaria esposizione della disciplina stabilita dal Modello OCSE sarà
utilizzata successivamente per specificare i punti di rottura del sistema, così come è
stato pensato, rispetto alle multinazionali digitali.
Infine, un altro articolo che ha rivestito e che riveste un ruolo estremamente
importante nella disciplina internazionale è l’art. 26 e cioè l’articolo relativo allo
scambio di informazioni tra i Paesi contraenti. Prima di addentrarsi in un’analisi storica
di ciò che ha significato questo articolo, occorre partire da un assunto differente, che
ha costituito il leitmotiv dell’evoluzione di questo istituto. Tradizionalmente, gli Stati,
hanno cercato di custodire gelosamente i più importanti baluardi di sovranità che sono
ad Essi riservati: la materia penale e la materia fiscale.
In un mondo sempre più, globalizzato, la tendenza è quella di cedere meno
“fetta” di sovranità possibile, per non snaturare del tutto la rilevanza dell’istituzione
statale.65 Tale custodia rispetto alla materia tributaria internazionalmente concepita ha
portato, oltre al lento sviluppo della normativa, come già accennato, anche ad una
determinata negazione della collaborazione tra Stati in materia di scambio di
informazioni (art. 26) e cooperazione per la riscossione (art. 27). La materia tributaria
è sempre stata collegata intrinsecamente al territorio, nasceva e finiva all’interno dei
confini dello Stato e ciò che al di fuori di questi confini succedeva, veniva ignorato. A
63 «The provisions of paragraph 1 shall not apply if the beneficial owner (…) carries on business (…) through a permanent establishment», ibidem. 64 in proposito, il Modello utilizza l’espressione «relazione speciale tra il debitore e il beneficiario», ibidem. Traduzione libera. 65 A tal proposito, SACCHETTO (1992) afferma che «il principio di territorialità [è] fondato sul riconoscimento della sovranità degli Stati».
36
maggior motivo, non si comprendeva il senso di dover addirittura scambiare
informazioni con un altro Stato in merito ad un residente non cittadino e men che mai
era concepibile che uno Stato A, impiegando risorse umane e finanziarie, aiutasse lo
Stato B a ottenere la soddisfazione, ad esempio, di un credito tributario utilizzando i
beni che il soggetto debitore possedeva nello Stato A.
La tendenza, quindi, era quella di guardare esclusivamente “al proprio giardino”,
in quanto ciò che succedeva al di fuori della propria giurisdizione era qualcosa cui gli
Stati non erano interessati. A tale riguardo, eloquenti sono le parole del Giudice Lord
MANSFIELD, il quale sosteneva che: «no country ever takes notice of the revenue laws
of another»66 Con l’evolversi del commercio internazionale, però, anche le dinamiche
politiche e i punti saldi della manifestazione della sovranità territoriale sono
cambiati.67
Il primo passo, in realtà, era frutto non tanto della lotta alla doppia non
imposizione, esigenza che nel lontano 1963 non si sentiva, ma era un passo fatto per
agevolare gli scambi commerciali e eliminare le restrizioni dovute ai casi di doppia
imposizione. Nasce in questo contesto la c.d. “piccola clausola di assistenza
amministrativa”, uno strumento che permetteva la cooperazione per l’attuazione
dell’accordo bilaterale stesso. Successivamente, e non troppo tempo dopo, con
l’intensificarsi degli scambi commerciali, più precisamente nel 1977, si è allargato la
portata di tale strumento anche per l’attuazione delle normative fiscali nazionali, ma
solo se “relative alle imposte previste dalla Convenzione”. Già da questo primo
passaggio si nota come le esigenze della comunità internazionale erano nel frattempo
cambiate.
Da una tutela nei confronti delle norme contenute nell’accordo, quindi una tutela
tutta positiva, volta a rendere maggiormente certa l’applicazione della convenzione, si
passa ad una tutela contro gli illeciti commessi, all’interno della giurisdizione di uno
Stato contraente, relativi alle imposte che fossero oggetto dell’accordo. Il grande
passo, però, avviene molti anni dopo, nel 2005, con l’istituzione della c.d. grande
clausola di assistenza amministrativa, che per la prima volta estese “alle imposte di
66 Holman vs. Johnson (1775) 1 Cowp 341; 98 ER 1120. 67 Secondo CORDEIRO GUERRA (2012) tale cambiamento è dovuto a due fattori: l’internazionalizzazione dell’economia e il cambiamento conosciuto dai sistemi fiscali degli Stati più evoluti.
37
qualsiasi genere o denominazione” l’applicabilità dell’art. 26. Art. 26 che, fino allo
spartiacque costituito dal G-20 di Londra dell’aprile del 2009, ha sofferto di un grave
handicap, che ha quasi del tutto vanificato la portata della norma. Tale grave
menomazione era dovuta all’esistenza del segreto bancario.
L’articolo, infatti, al proprio paragrafo 3, inserisce una serie di limitazioni
all’obbligo di cooperazione disciplinato dai paragrafi precedenti In particolare, lo Stato
interpellato non è tenuto
a) ad adottare provvedimenti in deroga alla propria legislazione o alla prassi
amministrativa interna o dell’altro Stato contraente;
b) a fornire informazioni che lo Stato richiedente non potrebbe ottenere in base alla
propria legislazione o nel quadro della propria normale prassi amministrativa.
c) a fornire informazioni che potrebbero rivelare un segreto commerciale,
industriale, professionale o un processo commerciale, oppure la cui
comunicazione sarebbe contraria all’ordine pubblico.
Tale lettera c) costituiva l’elemento di appiglio attraverso il quale gli Stati a
fiscalità privilegiata, in primis la Svizzera, si opponevano allo scambio di informazioni
bancarie con gli altri Stati contraenti. Nella convenzione tra Italia e Svizzera, ad
esempio, ciò era esplicitamente formulato: “non potranno essere scambiate
informazioni suscettibili di rilevare segreti commerciali, bancari, industriali o
professionali o metodi commerciali”. Tal fatto, causava la sostanziale inefficacia
dell’art. 26, che perdeva quasi completamente la propria utilità, non potendo, le
Amministrazioni finanziarie, in tal modo, “rincorrere” tutti i soggetti considerati
potenziali evasori, poiché non era possibile dimostrare che avessero dei conti aperti in
alcuno dei paradisi fiscali fino a qualche anno fa esistenti.
Tale esenzione, comunque, è stata del tutto eliminata a seguito del G-20 di
Londra 2009, di cui si analizzeranno gli effetti più avanti.
2.2. La disciplina dell’Unione Europea
In tema di imposizione fiscale internazionale, e anche avendo riguardo al tema
in oggetto, la rilevanza dell’Unione Europea e della disciplina comunitaria in materia
di tassazione delle imprese è centrale e meritevole di un’approfondita analisi. Tra gli
38
Stati dell’Unione vige il principio che in ambito di tassazione diretta si applichi il c.d.
principio di concorrenza fiscale, secondo il quale gli Stati membri sono liberi di
determinare la propria disciplina tributaria per poter attrarre più investimenti stranieri.
In tema di imposte indirette, invece, l’Unione Europea regola direttamente
attraverso una serie di Direttive l’imposta sul valore aggiunto, lasciando agli Stati
membri solo la possibilità di scegliere l’aliquota all’interno di una “forbice”
determinata. A prima vista, la libertà di concorrenza fiscale sembra non conformarsi
troppo con lo spirito di armonizzazione legislativa dell’Unione, ma può essere
inquadrata nella storica “gelosia” degli Stati a disciplinare la materia tributaria
autonomamente, esprimendo così il massimo del loro potere sovrano.
La scelta della corretta policy fiscale, comunque, è un’impresa tutt’altro che
scontata, in quanto gli interessi contrapposti sono molteplici e gli esiti sempre non
determinabili; da una parte, la maggiore mobilità del capitale può spingere i Governi
ad abbassare la pressione fiscale per apparire più “attraenti”, dall’altra, l’integrazione
economica e la conseguente maggiore presenza di operatori stranieri nel territorio,
potrebbe indurre il Governo ad alzare le imposte nei loro confronti. È per queste
ragioni che in tema di concorrenza fiscale il dibattito è stato incessante. Dottrina
autorevole68, invece, ha criticato l’eccessiva libertà lasciata agli Stati di determinare le
proprie politiche fiscali nelle aree ove i fallimenti del mercato fossero di maggiore
entità, senza tener conto degli altri soggetti dell’Unione, mentre altri69 hanno
evidenziato il rischio della c.d. race to the bottom, e cioè della corsa al ribasso delle
aliquote con conseguente contrazione del gettito. Gli obiettivi dell’originaria
Comunità Europea erano quelli di un miglioramento della qualità della vita, sviluppo
economico e tutela dell’ambiente, che si ottenevano tramite la creazione di un mercato
comune e di un’economia monetaria unitaria. Tale processo di unificazione è avvenuto
attraverso varie fasi.
In seguito al dominio dei trattati bilaterali in tema di imposizione diretta, negli
anni ’90 sono state promulgate una serie di Direttive in materia di imposizione
societaria: in materia di fusioni, scissioni e trasferimenti di attività (90/434/CEE), la
68 È la tesi di Sørensen (2001), secondo il quale è controproducente lasciare agire liberamente la concorrenza ove vi siano fallimenti di mercato e quelli dello Stato fossero di maggiore entità. 69 Si veda ad esempio Oates (2001).
39
seconda contro la doppia tassazione dei redditi distribuiti tra società madre/figlia
(90/435/CEE) ed infine la terza, volta ad evitare la doppia imposizione sui dividendi
(90/436/CEE). Queste Direttive costituiscono il fondamento su cui si può basare una
nuova disciplina coordinata in tema di tassazione societaria.
La Commissione, comunque, non si è mai troppo sbilanciata a favore di una o
l’altra teoria (tassazione comune o concorrenza fiscale) ed anzi ha manifestato
l’interesse a che la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (d’ora in poi anche CGUE),
proseguisse con il proprio lavoro di armonizzazione negativa rispetto alle discipline
dei singoli Stati membri che fossero in contrasto con la disciplina comunitaria. Il
lavoro dei Giudici, molto attenti agli eventuali effetti violatori dei principi
fondamentali dell’Unione da parte di alcune norme locali, si sono spesso “sostituiti”
al legislatore proprio bocciando determinate regole, anche in tema fiscale, che secondo
la loro valutazione fossero potenzialmente in grado di compromettere il mercato unico
o il libero scambio e la libera circolazione di merci o persone. La Commissione,
comunque ha individuato una strategia per arrivare ad una maggiore armonizzazione
della tassazione societaria attraverso due punti: rimozione degli ostacoli finanziari per
il mercato interno e valutazione di una base imponibile consolidata per tutte le imprese
dell’Unione, che sarà oggetto di specifica trattazione infra.
Lo studio della materia delle fonti del diritto comunitario risulta a volte
farraginoso, non solo perché la normativa è di per sé complessa, ma anche perché
complessi sono i meccanismi di rapporto gerarchico tra le norme comunitarie e quelle
nazionali e internazionali. L’UE, inoltre, è dotata di una propria Corte, la Corte di
Giustizia dell’Unione Europea, che opera un’incessante coordinamento tra la
normativa comunitaria e quella locale. Quindi, oltre agli strumenti ufficiali di
armonizzazione di una determinata materia, v’è la presenza della CGUE che, con la
propria azione, contribuisce in modo rilevante, se non principale all’armonizzazione
negativa degli istituti cardine dell’Unione.
Uno dei principi fondamentali dell’Unione si rinviene nell’art. 26 del Trattato
sul Funzionamento dell’Unione Europea (d’ora in poi anche TFUE), ed è la creazione
di un mercato interno libero, che «comporta uno spazio senza frontiere interne, nel
quale è assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei
40
capitali»70. Questo caposaldo dell’Unione è uno dei motori della produzione
legislativa finalizzata all’armonizzazione dei singoli ordinamenti comunitari.
Spesso, infatti, la ratio di una norma comunitaria è quella di “preservare”
l’integrità del mercato unico e della libera circolazione delle merci. Correlato a questo
principio, troviamo il c.d. principio di non discriminazione. Tale principio ha assunto
una rilevanza centrale al momento di regolare tutte quelle operazioni che gli stessi
Stati membri ponevano in essere nei propri ordinamenti per attrarre capitale estero.
Sebbene, infatti, la concorrenza fiscale in Europa da una parte, sia considerata come
un fattore positivo che incentiva gli Stati ad un maggior virtuosismo finanziario,
dall’altra ha indubitabilmente portato i Paesi comunitari ad una rincorsa non sempre
corretta alla maggiore attrazione fiscale. Questo fenomeno ha in parte modificato le
ragioni dell’applicazione del principio di non discriminazione. Inizialmente, com’è
ovvio, tale principio fungeva da “freno” verso una potenziale produzione normativa
che fosse lesiva della libera circolazione latu sensu intesa.
Al pari di quanto avveniva in materia tributaria, gli Stati erano portati ad una
produzione legislativa che favorisse la propria economia, quindi i propri cittadini a
discapito di quelli degli altri Paesi. Ed è qui che entrava in gioco il principio di non
discriminazione, che limitava la portata negativa di tali norme. Adesso, invece, in
ambito di attrazione fiscale, al fine di ottenere un vantaggio competitivo sugli altri
Paesi dell’Unione, gli Stati membri sono portati a disciplinare un regime più agevolato
per gli investitori stranieri e-o per i non residenti, penalizzando invece i propri
cittadini.
Questa politica è in netto contrasto con i principi fondamentali dell’Unione
Europea, basata non soltanto sul pacifico vivere delle popolazioni, su una maggiore
consapevolezza in tema di risorse ambientali, sulla libertà di circolazione delle
persone, ma anche e soprattutto sullo sviluppo di un’economia comune, che permetta
un più rapido sviluppo della società attraverso la coordinazione degli sforzi tra i vari
Paesi che la costituiscono.
Rimanendo in tema di discriminazione, il co. 1, art. 18, del TFUE prevede
espressamente che «Nel campo di applicazione del presente trattato, (…), è vietata
70 Par. 2, Art. 26, Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea.
41
ogni discriminazione effettuata in base alla nazionalità».71 Spesso, però, nell’adottare
politiche fiscali “discriminatorie”, gli Stati non prevedono espressamente delle norme
di favore nei confronti di soggetti appartenenti a determinate nazionalità (c.d.
discriminazione diretta), bensì raggiungono l’equivalente danno attraverso scelte
operate all’interno di criteri di collegamento con il territorio o il domicilio. Nella
materia che qui ci occupa, inoltre, la prassi legislativa di molti Paesi dell’Unione è
stata quella di operare la c.d. «discriminazione al rovescio». Questa pratica, finalizzata
all’attrazione di capitale di investimento estero, favoriva, al contrario di quanto
avviene nella discriminazione classica, sia essa diretta o indiretta, le società non
residenti rispetto a quelle residenti, specialmente in tema di deduzioni e detrazioni
fiscali.
La Corte Europea di Giustizia, comunque, ha sempre mantenuto una linea di
rigore nel punire tutte le politiche di incentivo allo sviluppo di un territorio attraverso
il capitale straniero che sfociassero in un disciplina tributaria discriminatoria.72 Per
arginare il problema, nel lontano 1997 è stato stipulato un accordo politico, ad opera
del Commissario europeo Mario Monti, denominato Codice di condotta in materia di
tassazione delle imprese. Tale accordo, in realtà solo parzialmente rispettato dagli
Stati, a ben vedere costituiva l’arenamento dell’ultima possibilità di armonizzazione
europea in materia fiscale, poiché, combattendo una “certa” concorrenza fiscale, non
se ne contestavano le fondamenta, ma anzi esse venivano esaltate e tutelate da un
utilizzo scorretto di tale principio. L’assunto della totale impossibilità di disciplina
comune della materia fiscale in Europa, comunque, ha subito una parziale modifica
negli ultimi 6 anni, ad esempio con la ricerca in merito ad una possibile introduzione
della c.d. CCCTB (Common Consolidated Corporate Tax Base). Dal punto di vista
normativo, invece, la produzione comunitaria è limitata, a causa degli artt. 113, 114 e
115 del TFUE.
L’art. 113 stabilisce che il Consiglio «adotta le disposizioni che riguardano
l’armonizzazione delle legislazioni relative alle imposte sulla cifra d’affari, alle
71 Art. 18, comma 1 (già art. 12 TrCE), Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea 72 Solo a titolo di esempio e senza pretesa di esaustività si cita una delle sentenze più importanti in merito, la C-307-97 (detta anche sentenza Saint-Gobain ZN), in cui la CGUE afferma che «la riduzione di entrate fiscali (...) non può considerarsi motivo imperioso di interesse pubblico invocabile per giustificare una disparità di trattamento in linea di principio incompatibile con l'art. 43 del Trattato».
42
imposte di consumo ed altre imposte indirette, nella misura in cui detta
armonizzazione sia necessaria per assicurare l’instaurazione ed il funzionamento del
mercato interno ed evitare le distorsioni di concorrenza». La norma in questione
consente all’Unione di regolare la materia delle imposte indirette solo nel caso in cui
ciò sia necessario al funzionamento del mercato interno, quindi in osservanza di uno
dei due principi fondamentali supra richiamati. Inoltre, in tale materia, è necessaria
l’unanimità dei consensi dei 28 Paesi facenti parte dell’Unione. In tema di tassazione
diretta, invece, è lasciato completamente campo libero alla libera determinazione degli
Stati, in parte anche perché i precetti degli artt. 114 e 115 non permetterebbero di
regolare alcunché in proposito, con l’unica eccezione dei casi in cui la produzione
normativa diretta sia necessaria per «[l']instaurazione o [il] funzionamento del
mercato interno».73
Questa completa assenza di disciplina in materia di imposizione indiretta è
parzialmente compensata dall’intensa attività della CGUE. La Corte, infatti, sempre in
applicazione dei principi fondamentali dell’Unione Europea, attua la sua opera di
armonizzazione negativa del diritto degli Stati membri attraverso la “bocciatura” di
tutte quelle norme, anche in materia di fiscalità diretta, che, a suo dire, si pongono in
contrasto con detti principi. Sempre in tema di scambio di informazioni, a livello
comunitario la disciplina è regolata dalla Direttiva n. 77/799/CEE che prevede che gli
Stati membri siano liberi di scambiarsi «ogni informazione che sembri utile per un
corretto accertamento delle imposte sul reddito e sul patrimonio».74 Questo scambio
di informazioni può avvenire attraverso tre diverse modalità, che sono lo scambio su
richiesta, automatico oppure lo scambio spontaneo.
Fino ad alcuni anni fa la Direttiva soffriva di una scarsa applicazione, dato che
il suo utilizzo è stato definito come “facoltativo” dalla CGUE, oltre al fatto che i
meccanismi sopra elencati non erano sottoposti a particolari termini, fatto che
determinava potenzialmente un immodificabile stallo nella procedura di acquisizione
di informazioni dello Stato richiedente. A ciò si aggiungeva l’invocabilità del segreto
professionale (spesso utilizzato per nascondere il segreto bancario) e una mancanza
generale di cultura amministrativa omogenea tra gli Stati membri tale che ne risultasse
73 Art. 115, Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea. 74 Direttiva 77/799/CEE del 19 dicembre 1977, Premessa.
43
compromesso il materiale scambio di informazioni.
2.3. La disciplina nazionale italiana
Tutti i principi appena elencati e analizzati, essendo propri di organismi
sovranazionali, debbono in qualche modo entrare anche nell’ordinamento degli Stati
sovrani, come ad esempio il Nostro. Nel nostro ordinamento i criteri di applicazione
delle regole stabilite in sede internazionale sono differenti a seconda del tipo di norma
da recepire nel diritto interno. Naturalmente, partendo dal livello a noi più prossimo,
e cioè la appena analizzata Unione Europea, si distingue tra le direttive self-executing
e tutta la produzione normativa che necessita di ratifica. Nel primo caso, le disposizioni
previste a livello comunitario sono direttamente applicabili sia verticalmente, quindi
eccepibili dal cittadino nei confronti dell’Apparato statale, sia orizzontalmente, quindi
nelle controversie tra privati cittadini. In merito a tali fonti di diritto, in realtà, nulla
quaestio. Differente è il caso di tutta quella produzione normativa che per essere
efficace nel territorio dello Stato deve essere necessariamente ratificata dalle Camere.
Ogni anno, il Parlamento effettua una seduta appositamente concepita per
recepire nell’ordinamento interno le norme di produzione comunitaria e adeguarsi così
alla disciplina dell’Unione. Questo, però, non ha impedito all’Italia, insieme a molti
altri Paesi, di essere particolarmente indietro con l’adeguamento, fatto che “costa” allo
Stato una quantità di denaro non indifferente sotto forma di penalizzazione
direttamente imposta dall’Unione Europea.
Alzando il gap, incontriamo, oltre alle consuetudini internazionali di cui si è già
trattato, il nocciolo centrale della disciplina tributaria internazionale: il Modello
OCSE. A tutti gli effetti, nonostante sia originato da un’organizzazione internazionale,
il Modello si propone come un accordo bilaterale, modificabile tra le parti, che
spessissimo viene preso come base. L’Italia, quindi, si è accordata con decine e decine
di Paesi (gli accordi conclusi sono, allo stato, 9275) attraverso una procedura di
contrattazione e ratifica come di seguito meglio specificata.
Preliminarmente va considerato che in materia tributaria, per previsione
75 MAISTO, G., Convenzioni internazionali per evitare le doppie imposizioni, Milano, 2015.
44
costituzionale, la stipulazione degli accordi non può avvenire tramite la procedura
semplificata, in quanto senza dubbio tali accordi rientrano nella fattispecie prevista
dall’art. 80 della Carta costituzionale, che impone l’autorizzazione delle Camere con
legge di ratifica per gli accordi internazionali che, tra gli altri, prevedano «oneri alle
finanze».76 Pertanto il procedimento attraverso il quale gli accordi internazionali
entrano all’interno dell’ordinamento locale passa attraverso l’azione di ratifica degli
accordi stessi da parte del potere legislativo.
Le fasi che portano, invece, alla stipula dell’accordo in sé per sé, quello stipulato
con l’altro Stato contraente, vengono portate avanti da un organo dello Stato all’uopo
adibito, che agisce come c.d. plenipotenziario, rappresentando in sede di trattativa il
volere della Nazione. Da notare come la firma, la c.d. parafatura dell’accordo non
costituisce un vincolo giuridico all’esecuzione, in questo caso, della convenzione,
bensì ha effetti nei confronti dell’altro Stato contraente, meramente politici. Con esso
si indentifica una manifestazione di volontà che viene confermata e diventa quindi
operativa solo in seguito alla ratifica da parte delle Camere, la necessaria firma del
Presidente della Repubblica77 e la fase dello scambio delle ratifiche tra gli Stati
contraenti.
3. IL RAPPORTO TRA IL GRUPPO DEI 20 E IL DIRITTO 3.1. La nascita di un nuovo organismo internazionale
La crisi finanziaria internazionale iniziata nel 2008, ha avuto un’influenza diretta
rispetto alle scelte politiche operate dagli Stati in materia fiscale. In risposta alle
negative conseguenze economiche, infatti, sono state da più parti varate delle riforme,
talvolta anche di sorprendente portata, volte a sostenere il settore finanziario e
aumentare la domanda aggregata.78
Questa rinnovata attenzione per la fiscalità internazionale ha messo in luce una
serie di tematiche rispetto alla sostenibilità dell’apparato regolatore della materia, così
com’è attualmente nei confronti delle nuove sfide che l’economia proporrà negli anni
76 Art. 80, Costituzione della Repubblica Italiana. 77 Art. 87, Costituzione della Repubblica Italiana. 78 COMMISSION EUROPÉENNE, Innovative financing at global level, SEC 409, 2010, p. 8.
45
futuri. Per questo motivo, l’attenzione della politica verso certi principi ed istituti del
diritto tributario internazionale si è fatta maggiore e conseguentemente sono state
intraprese una serie di iniziative di politica fiscale, volte alla modifica ed
all’aggiornamento del diritto tributario internazionale, proprio per assicurare una
maggiore sostenibilità fiscale per il futuro.79 Ferma restando l’egemonia in materia
tributaria internazionale dell’OCSE80 in materia di politica fiscale, si è sviluppato, a
partire dalla fine degli anni ’90, un nuovo soggetto politico che si è in prima persona
occupato di determinate problematiche fiscali a livello globale, il G-20. Tale
organismo è composto dai Ministri delle Finanze dei 20 Paesi più sviluppati, oltre ai
rappresentanti dell’Unione Europea, del Fondo Monetario Internazionale e della
Banca Mondiale.
3.2. Le origini storico-politiche del G-20 e la sua capacità normativa
Il G-20 è un’istituzione relativamente nuova, caratterizzata dall’alta qualifica dei
propri membri, ma dall’assenza di una segreteria permanente e di gruppi di lavoro di
recente costituzione, al contrario di quelli, ad esempio, dell’ONU o dell’OCSE. A
partire dagli anni ’70 e fino al 1999, infatti, i Governi dei sette Paesi più
economicamente sviluppati (Italia, Giappone, Canada, Stati Uniti d’America, Francia,
Regno Unito e Germania), cui si è poi aggiunta la Russia nel 1994, erano soliti
incontrarsi una volta all’anno per discutere e collaborare in merito a determinati temi
di politica economica internazionale81. A partire dalla riunione tenutasi nel settembre
1999 a Berlino, l’accesso è stato allargato ad altre dodici nazioni, venendosi così a
costituire l’istituto con la conformazione attuale. L’organismo a cominciato ad
assumere un’importanza rilevante in tema di politica fiscale internazionale con
l’avvento della crisi economica scoppiata a seguito della bolla immobiliare americana
del 2008.
Sotto l’amministrazione Bush, infatti, è stato inaugurato il primo summit
79 WOUTERS, J. – MEUWISSEN, K., Global Tax Governance: Work in progress?, in EUI working papers, RSCAS 2011/12, p. 1. 80 BRAUNER, Y., An International Tax Regime in Crystallization, in Tax Law Review, vol. 56, 2003, pp. 310-316. 81 PUTNAM, R. D. – BAYNE, N., Hanging Togheter: The Seven-Power Summits, Cambridge, MA, 1984
46
(Washigton, D.C., 14-15 novembre 2008) in cui sono stati affrontati per la prima volta
in maniera aperta una seria di problematiche fiscali la cui risoluzione, proprio a causa
della forte crisi economica che si stava riversando sui Paesi industrializzati di tutto il
mondo, era di sentita urgenza.82 In particolare era stata espressa, da parte di alcuni
Paesi europei, in particolare Francia e Germania, la necessità di arrivare ad una
«genuine, all-encompassing reform of the international financial system».83 I temi84
sui quali si sono maggiormente soffermati i membri della conferenza, in tema di
imposizione fiscale internazionale, sono stati
- il rafforzamento della trasparenza fiscale, anche attraverso un maggiore utilizzo
dello strumento dello scambio di informazioni,
- la promozione dell’integrità dei mercati finanziari, attraverso la prevenzione
delle manipolazioni del mercato e delle frodi,
- la riforma di talune istituzioni finanziarie internazionali, attraverso
l’ampliamento dei poteri di rappresentazione dei Paesi in via di sviluppo.
In particolare, in tema fiscale la politica intrapresa dai Leaders del G-20 è stata
quella di stretta nei confronti delle c.d. “giuridisdizioni non collaborative”, finalizzata
all’apertura di tali giurisdizioni verso una maggiore trasparenza bancaria, dato che fino
a quel momento esse erano la meta di destinazione di ingenti capitali (tassati con
aliquote nulle o prossime allo zero) proprio in virtù del loro, si riteneva, inviolabile
segreto bancario.
Appena qualche mese dopo il summit di Washington, D.C., si è svolto a Londra
(2 aprile 2009) una seconda conferenza del G-20. In tale occasione, i Capi di Governo
coinvolti hanno nuovamente ribadito la necessità e l’opportunità di intraprendere
azioni di contrasto all’esportazione di capitale verso le già citate giurisdizioni non
collaborative. Nella dichiarazione congiunta pubblicata a fine lavori, i membri
dell’organismo internazionali hanno dichiarato che “l’era del segreto bancario [era]
finita”.85 Per la prima volta veniva riconosciuta la necessità di una lotta senza
82 RIEFFEL, L., The G-20 Summit: What’s It All About?, in brookings.edu, 27 ottobre 2008. 83 CONSIGLIO DELL’UNIONE EUROPEA, Conclusioni della Presidenza, Concl. 4, 14368/08, 16 ottobre 2008, p. 5. 84 THE WHITE HOUSE, Fact Sheet: Summit on Financial Markets and the World Economy, 15 novembre 2008, p. 1. 85 G-20, Leaders’ Statement, London, 2 aprile 2009. Traduzione libera.
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precedenti nei confronti dei c.d. paradisi fiscali, che, a detta della conferenza, erano il
primo strumento da debellare per ricostruire una maggiore equità distributiva e per
combattere l’evasione fiscale in un momento di grave crisi economica.86
Al fine di rendere concreti gli intenti dichiarati, la soluzione individuata dal
Gruppo è stata quella di non rendere opponibile il segreto bancario al momento della
richiesta di informazioni promossa da uno Stato nei confronti di dette giurisdizioni e
invitarle a sottoscrivere un quantum minimo (12) di accordi TIEA, di cui infra si
accennerà più nel dettaglio, pena la somministrazione di ingenti sanzioni
economiche.87 La portata di tale decisione è stata storica, basti pensare che il 2 aprile
2009, giorno della conferenza di Londra, i Modelli di convenzione sullo scambio d
informazioni in materia tributaria erano 65 e appena due anni dopo, nel giugno 2011,
hanno raggiunto quota 680.88
I primi «impressionanti»89 risultati sono stati registrati già a partire dalla
conferenza successiva, svoltasi nel settembre dello stesso anno a Pittsburgh, in
Pennsylvania; in tale occasione i Leader della conferenza hanno dichiarato, con una
certa determinazione, che essi non sarebbero venuti meno «[all]’impegno di
mantenere l’impulso di dialogo nei confronti dei paradisi fiscali» e che essi erano
«pronti a usare contromisure contro i paradisi fiscali a partire dal Marzo 2010».90 Va
notato, comunque, che, sebbene tali misure siano state particolarmente efficaci sul
piano pratico poiché hanno effettivamente permesso di “debellare” i paradisi fiscali,
almeno così come erano stati conosciuti fino ad allora, le dichiarazioni pubblicate in
seguito alle conferenze del G-20, specificatamente quelle relative alle sanzioni
economiche “minacciate” alle giurisdizioni non collaborative, hanno fatto sorgere una
serie di dubbi quantomeno sulla legittimità della sede in cui sono state effettuate, posto
che effettivamente il G-20 non è un organo deliberativo di norme di rilevanza
internazionale, ma più semplicemente un forum politico, che per quanto autorevole è
86 ibidem, parr. 2 e 3. 87 ALDRICK, P., G20 summit: Blacklisted tax havens face sanctions, in The Daily Telegraph, 3 aprile 2009. 88 CORDEIRO GUERRA, R. (a cura di), Diritto Tributario Internazionale – Istituzioni, Padova, 2012, p. 234. 89 G-20, Leaders’ Statement, Pittsburgh, PA, 25 settembre 2009. Traduzione libera. 90 ibidem. Traduzione libera.
48
privo di ufficialità.91
Al di là delle controversie relative alla legittimazione di determinate prese di
posizione da parte dei membri della conferenza, il G-20 ha riposto nell’OCSE e nei
sui strumenti il compito di attuare le politiche fiscali dichiarate durante le varie
conferenze. L’OCSE, infatti, già nel 2002, attraverso lo strumento del Tax Information
Exchange Agreement era riuscita a rendere più concreto lo sforzo di cooperazione
internazionale in tema di scambio di informazioni già così ampiamente sentito. Tale
organismo, per sua stessa ammissione, svolge un ruolo preminente nella produzione
normativa tributaria internazionale, definendosi «the market leader in developing tax
standards and guidelines».92
Il rapporto che tale organizzazione ha con il G-20 è stata definita «simbiotica»93
nel senso che, se da una parte il G-20, organo autorevole ma informale si affida
all’OCSE per l’elaborazione e l’implementazione delle proprie dichiarazioni di
politica fiscale, dall’altra l’OCSE stessa ne ricava che alcune delle proprie produzione
possono assurgere a posizionarsi sul gradino più alto dell’agenda di produzione
normativa internazionale. Questo rapporto bilaterale tra i due organismi è essenziale
per ottenere dei risultati a partire dagli sforzi internazionali per migliorare i campi della
trasparenza fiscale e dello scambio di informazioni tra Paesi.94
3.3. Le aree di influenza nel diritto tributario internazionale
Durante le riunioni che hanno avuto luogo nel 2008 e 2009, considerando sia le
riunioni tra i Rappresentanti del Governo dei vari Paesi, sia i summit tra i Ministri delle
Finanze, sono state affrontate nel dettaglio alcune tematiche relative alla fiscalità
internazionale ed in particolare la politica dei c.d. paradisi fiscali. Nella dichiarazione
di intenti pubblicata alla fine dei lavori, il G-20 ha individuato la direzione verso cui
intraprendere il cammino per un “rafforzamento del sistema finanziario”, in particolare
91 In tema di sovranità nazionale e tassazione, NUSSBAUM, M. C., Frontiers of Justice: Disability, Nationality, Species Membership, Cambridge, MA, 2007; CHRISTIANS, A., Sovereignty, Taxation and Social Contract, in Minnesota Journal of International Law, vol. 18, 2009, pp. 99-123. 92 OECD, OECD’s Current Tax agenda, giugno 2010, pp. 74-75. 93 WOUTERS, J. – MEUWISSEN, K., Global Tax Governance: Work in progress?, in EUI working papers, RSCAS, 2011/12, p. 5. 94 ibidem, p. 6.
49
evidenziando come “it is essential to protect public finances and international
standards against the risks posed by non-cooperative jurisdictions. We call on all
jurisdictions to adhere to the international standards in the prudential, tax, and
AML/CFT areas”.95
Il mezzo attraverso il quale gli Stati partecipanti hanno ritenuto fosse possibile
operare il cambiamento desiderato, e cioè una maggiore protezione delle finanze
pubbliche e degli standard internazionali contro i rischi dovuti alle giurisdizioni c.d.
“non cooperative”, è la già accennata norma relativa al secreto bancario. A tal
proposito, lo statement pubblicato per il summit del 2 aprile 2009 ha annunciato
ufficialmente che “the era of banking secrecy is over”.96
Nei capitoli successivi verranno analizzati quelli che sono gli istituti di diritto
tributario maggiormente chiamati ad essere modificati, basandosi sull’analisi specifica
dei metodi e delle strategie fiscali messe in atto dalle multinazionali digitali e che
costituiscono, quindi, l’origine della ratio che sottostà alla presa di coscienza
dell’opportunità di tali modifiche; infine, verranno analizzate le soluzioni proposte ai
vari livelli (internazionale, comunitario e le impervie strade intraprese singolarmente
da alcuni Stati membri per arginare il problema della “debole” tassazione di questi
soggetti economici).
95 G-20, Declaration on strengthening the financial system, London, 2 aprile 2009, p. 4. 96 op. cit. G-20, Leaders’ Statement, London, 2 aprile 2009, p. 4.
50
CAPITOLO SECONDO
CRITICITÀ FISCALI NELL’IMPOSIZIONE
DELLE MULTINAZIONALI DIGITALI 1. IL TRANSFER PRICING 1.1. L’analisi dell’OCSE
L’azione di spostare, all’interno di un gruppo multinazionale, una grossa parte
dei profitti generati in controllate residenti in Paesi a fiscalità ordinaria verso
controllate con residenza in Paesi a fiscalità privilegiata, al fine di erodere la base
imponibile dei primi, che poi è l’oggetto di tutta l’ampia ricerca dell’OCSE
denominata BEPS, si attua attraverso le c.d. operazioni infra-gruppo.
Le controllate compiono operazioni commerciali interne di varia natura, dal
prestito di denaro con conseguente pagamento di interessi deducibili, alla cessione del
diritto di utilizzo del marchio di una delle controllate in favore di un’altra, dietro
pagamento di royalties.
Gli strumenti finanziari evidenziati i più disparati e rientrano tutti nella categoria
degli intangibles, ovvero quei beni immateriali, suscettibili di cessione, sfruttamento
e compravendita, mere creazioni del diritto, in quanto non si sostanziano mai in un
oggetto materiale. Proprio per la loro intrinseca natura, tali beni sono maggiormente
suscettibili di indebito sfruttamento, nel senso che non soltanto nel caso delle
multinazionali digitali, ma più in generale, la determinazione del valore degli stessi è
quantomeno più incerta di qualsiasi altro bene tangibile, essendo, raramente
comparabile con le altre compravendite dello stesso tipo.97
Esemplificando, il pagamento di un canone per il diritto di sfruttamento
dell’immagine di un determinato marchio sarà quantificato proprio in base al valore
stimato del marchio stesso, il che, oltre ad essere di per sé una determinazione
complessa, è una stima che può variare molto in un arco ristretto di tempo, a causa
delle oscillazioni del mercato che incidono direttamente sul valore del marchio stesso;
97 Tale comparazione, come ampiamente argomentato infra, è l’essenza del c.d. arm’s length principle, principio di diritto internazionale che subordina la comparabilità tra il prezzo di cessione stipulato tra società dello stesso gruppo ed prezzo ottenibile in regime di libera concorrenza, all’efficacia di una molteplicità di istituti giuridici come ad esempio, quelli dello stesso Modello di convenzione OCSE.
51
è proprio questo valore l’oggetto della specifica analisi da parte dell’OCSE, in quanto
costituente lo strumento privilegiato dei tax plannings delle multinazionali per la
riduzione dell’imposizione fiscale globale. Il transfer pricing, quindi, diventa uno
degli elementi cardine della lotta alla pianificazione fiscale aggressiva ed è oggetto di
analisi negli Action Plans nn. 8-10, che per la loro affinità e similarità vengono
considerati come un unico elemento. L’obiettivo principale del lavoro è quello di
«assicurare che i prezzi di trasferimento siano in linea con la creazione del valore».98
La rilevanza del tema del transfer pricing nell’imposizione delle imprese
multinazionali ed in particolare delle multinazionali digitali è ampiamente confermato
anche dalla dottrina più autorevole. «Le norme sul transfer pricing sono una
componente necessaria di qualsiasi norma tributaria internazionale dal momento che
queste norme impediscono alle multinazionali di eludere facilmente o ridurre
significativamente le imposte attraverso il profit shifting verso Paesi a fiscalità
privilegiata o Paesi ove l’imposizione societaria è nulla».99 Nel proprio scritto,
l’autore inoltre si sofferma sull’importanza anche “quantitativa” del problema,
affermando che «dal momento che gli intangibles sono importanti per le operazioni e
l’esistenza stessa delle multinazionali e dal momento che le multinazionali giocano un
ruolo principale nel meccanismo delle transazioni internazionali di intangibles, le
norme sul transfer pricing si applicano naturalmente in maniera ampia alle
transazioni che coinvolgano il trasferimento di immateriali, in un modo o
nell’altro».100 L’autore, poi, afferma che «l’analisi sul transfer pricing è necessaria in
ogni accordo di licenza tra entità correlate; in quasi tutte le ristrutturazioni
internazionali di un gruppo societario; in molti degli accordi infra-gruppo che
includono la conoscenza, il settore di ricerca e sviluppo, il management, i processi di
produzione o di organizzazione; e anche gli accordi di distribuzione di prodotti
materiali ove il valore del prodotto dipenda da intangibles incorporati (ad esempio
software proprietario)».101 In conclusione, l’elenco stilato delle situazioni che la
98 OECD, Action Plans nn.8-10, Aligning transfer pricing outcomes with value creation – Final Report, Paris, 2015, p. 11. 99 BRAUNER, Y., Value in the Eye of the Beholder The Valuation of Intangibles for Transfer Pricing Purposes, in Virginia Tax Review, 2008, p. 86. Traduzione libera. 100 ibidem. Traduzione libera. 101 ibidem. Traduzione libera.
52
disciplina del transfer pricing dovrebbe toccare secondo l’autore è estremamente
ampio e ricomprende praticamente tutte le attività principali ed imprescindibili messe
in atto dalle multinazionali, evidenziando tra l’altro la maggiore attenzione da porre
nel caso in cui ad operare siano multinazionali del settore digitale o comunque
multinazionali che trasferiscono beni immateriali.
In realtà, la lotta al transfer pricing è iniziata da molti anni. Già nel 1979, infatti,
l’OCSE aveva affrontato il problema con il suo “Report on Transfer Pricing and
Multinational Enterprises”, poi aggiornato nel 1995 e successivamente nel 2010. Sia
il Modello di convenzione contro le doppie imposizioni sviluppato dall’OCSE, sia
quello sviluppato in sede ONU, prevedono il c.d. principio dell’arm’s length,
finalizzato proprio ad evitare un uso indebito dei prezzi di trasferimento: secondo
questo principio, i benefici fiscali previsti dagli accordi contro la doppia imposizione
si applicano, nelle operazioni tra controllate dello stesso gruppo, soltanto alla parte del
prezzo di trasferimento equivalente a quella che sarebbe stata pagata in assenza della
relazione tra le due società, non applicandosi invece per la parte eccedente tale
importo. Così, ad esempio, qualora il prezzo pagato da una società infra-gruppo per il
pagamento di un interesse verso un’altra società del gruppo ecceda del 50% il prezzo
che per lo stesso bene due società non collegate avrebbero pagato, i benefici previsti
dal Modello di convenzione non si applicheranno a quel 50% in eccesso. La norma è
ripresa in più punti del Modello di convenzione OCSE, come ad esempio l’art. 11 sui
già citati interessi o l’art. 12 sulle royalties.102 Le previsioni presenti sono risultate, a
detta della stessa organizzazione internazionale, insufficienti poiché potenzialmente
manipolabili nel rapporto con la reale creazione del valore proprio per la già analizzata
difficoltà di quantificazione data la natura di intangibles. Per questo motivo, l’Action
Plan si prefigge l’obiettivo di chiarire maggiormente e rafforzare lo strumento
dell’arm’s length ed eventualmente affiancargli (o sostituirlo con) ulteriori strumenti
di contrasto a tale pratica.103
La dottrina si è già in passato occupata del problema, sottolineando come «al
102 La lettera della norma dispone testualmente che «Where, by the reason of a special relationship between the payer and the beneficial owner (…), the amount (…) exceeds the amount wich would have been agreed upon by the payer and the beneficial owner in the absence of such relationship, the provisions of this Article shall apply only to the last-mentioned amount». 103 Cfr. nota 25.
53
fine di impedire alle imprese multinazionali di ottenere vantaggi dal differente
trattamento fiscale tra le varie giurisdizioni e innestare meccanismi di spostamento
del reddito, le autorità tributarie nazionali devono stabilire una disciplina prudenziale
della regolazione del transfer pricing basata sull’arm’s length principle».104
La questione dell’arm’s length principle è stata, poi, qualificata da una differente
dottrina come «the most acute problem in international taxation and the income
taxation of corporate income today».105 La ragione di tale importanza viene
individuata nella «mancanza intrinseca dell’arm’s length principle nella suddivisione
delle operazioni tra parti correlate e il modo in cui questa difficoltà nasce nella più
complicata concorrenza fiscale dinamica tra i Paesi e gli investitori».106 Secondo
l’autore, la via da seguire è quella di rispettare la divisione netta tra le società
protagoniste delle operazioni di transfer pricing, permettendo loro di registrare i propri
redditi su di una base separata: «in regime di contabilità separata, la struttura delle
transazioni infra-gruppo dovrebbe essere rispettata, e il reddito di una società non
dovrebbe essere influenzato dal reddito delle affiliate. C’è una limitazione
significativa, comunque: le transazioni tra membri di una multinazionale dovrebbero
essere pagate come se fossero state effettuate tra membri terzi – quindi secondo il
principio dell’arm’s length».107
Le difficoltà in tema di transfer pricing, però, non si esauriscono qui. Non è solo
una questione di gestione interna dei prezzi di trasferimento o di come dovrebbe essere
effettuata la rendicontazione di tali operazioni all’interno del bilancio del gruppo, se
separatamente o unitariamente, ma la complessità della disciplina, come già accennato,
deriva dalla difficoltà di trattazione della materia, causata a sua volta dall’aleatorietà e
dalla soggettività delle valutazioni delle tecniche basate su questo principio.108
L’effetto più pratico di questa difficoltà è che in sede di controllo, da un lato, il
contribuente dovrà dimostrare di aver adottato misure fiscali legittime, dall’altro,
104 AKRAM, T. – ALÌ KHAN, H. – HOLLADAY, J., U.S. Intra-Firm International Trade, in Social Science Research Network, 14 novembre 2007, pp. 3-4. Traduzione libera. 105 BENSHALOM, I., Rethinking the source of the arm’s length transfer pricing problem, in Virginia Tax Review, Vol. 32, No. 3, 2013, p. 430. 106 ibidem. Traduzione libera. 107 ibidem. Traduzione libera. 108 «Il Transfer Pricing non è una scienza esatta, ma richiede uno sforzo di giudizio sia da parte della Amministrazione finanziaria sia del contribuente». OECD, Transfer Pricing guidelines for Multinational Enterprises and Tax Administration, Paris, 2000, p. 36. Traduzione libera.
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l’Amministrazione finanziaria dovrà prevenire che i prezzi di trasferimento delle
transazioni infragruppo siano solo apparentemente legittimi, nascondendo in realtà
valori che sono significativamente differenti da quelli che si sarebbero formati in
regime di libera concorrenza.
A riprova della particolare importanza che questo argomento ricopre nella lotta
all’elusione fiscale internazionale, l’OCSE riserva al transfer pricing ben tre dei
quindici Action plans elaborati, dedicandoli ad altrettanti temi la cui analisi risulta di
fondamentale importanza per la risoluzione di questo controverso problema. I tre
action plans, sono delle proposte di modifica dell’ampio lavoro svolto a partire dal
1995 (aggiornato fino al 2010) e denominato “Transfer Pricing Guidelines”, elaborato
con l’obiettivo di risolvere i problemi relativi a tre aspetti a questo tema legati e che
qui di seguito si evidenziano.
Intangibles
Il progetto che l’OCSE ha dedicato a questo tema non si esaurisce nel documento
sulle linee guida e nella bozza pubblicata nel 2014. Sono almeno tre, infatti i
documenti che si frappongono tra queste due documenti fondamentali. Nel gennaio
2011, l’organizzazione parigina ha pubblicato il c.d. Scoping Document, nel quale
venivano individuate le aree di maggiore interesse e meritevoli di approfondimento:
in primis, la definizione stessa di intangible, poi, tutta una serie di aspetti più pratici
come ad esempio la questione dei profitti derivanti dallo sfruttamento di beni
immateriali o la determinazione del valore “normale” per il trasferimento; infine,
veniva evidenziata l’importanza dei c.d. Cost Contributions Arrangements.109
Successivamente, viene pubblicato da parte del Working Party n. 6 on the Taxation of
Multinational Enterprises (d’ora in poi solo Working Party), costituito in seno
all’OCSE, il Discussion Draft del giugno 2012 (che non rientra ancora tra quelli che
sono oggetto di specifica analisi in questa sede e che sono appartenenti al più recente
BEPS project). La bozza, come sempre, è finalizzata a recepire il commento su
tematiche considerate particolarmente rilevanti da parte degli operatori economici e si
concentra su 4 punti chiave:
• Definizione
109 OECD, Transfer Pricing aspects of intangibles: scope of the OECD project, Paris, 2011.
55
Viene data una definizione di intangible «basata sul concetto di controllo»110,
secondo la quale «intangible is not a physical asset or a financial asset, and (…) is
capable of being owned or controlled for use in commercial activities».111
• Identificazione delle parti aventi il diritto ad un ritorno economico sugli
intangibles
Partendo dalla definizione data dallo Scoping Document, che per la prima volta
contrastava il concetto di legal ownership con quello di economic ownership, i membri
del Working Party si spingono oltre enfatizzando il concetto di control of functions
and risks, da assumere quale fattore determinante per identificare i soggetti che hanno
diritto ai ritorni economici attribuibili agli intangibles.
• Transazioni
Il Discussion Draft identifica due tipologie di transazioni: quelle aventi ad
oggetto l’uso di beni immateriale in connessione con la cessione di beni o la
prestazione di servizi, ma non vi è alcun trasferimento di beni immateriali e quelle in
cui quest’ultimo aspetto sia presente.
• Determinazione delle condizioni di libera concorrenza
Qui viene confermata l’importanza di condurre un’analisi di comparabilità,
tenendo conto delle prospettive di entrambe le parti coinvolte nella transazione, in
quanto «a one-sided comparability analysis does not provide a sufficient basis for
evaluating a transaction involving the use or transfer of intangibles».112
Successivamente, come già anticipato, il 16 settembre 2014 è stato pubblicato
dall’OCSE l’action plan n. 8, denominato Guidance on Transfer Pricing Aspects of
Intangibles, proprio sul tema dei beni immateriali. L’obiettivo dichiarato del lavoro è
quello di sviluppare regole per il contrasto al BEPS, attraverso
- una più chiara definizione di intangibles,
- l’assicurazione che i profitti generati dal trasferimento e dall’uso degli
intangibles siano allocati in accordo con la creazione del valore,
- lo sviluppo di regole per il transfer price o misure speciali per il caso degli hard-
110 op. cit. VALENTE, P., Elusione fiscale internazionale, p. 1356. 111 OECD, Discussion Draft: Revision of th Special Considerations for Intangibles in Chapter VI of the OECD Transfer Pricing Guidelines and Related Provisions, Paris, 2012, p. 7. 112 op. cit. OECD, Discussion Draft, Paris, 2012, p. 21.
56
to-value intangibles,
- l’aggiornamento della Guidance sui cost contribution arrangements.113
Risk and capital
Anche il trasferimento del rischio tra le società del gruppo può portare al
fenomeno BEPS. Secondo le guide linea dell’OCSE, la remunerazione relativa alle
transazioni tra soggetti appartenenti allo stesso gruppo deve riflettere anche i rischi
assunti da ognuna delle parti coinvolte. Pertanto, in tema di prezzi di trasferimento,
minore è il rischio assunto da una delle controllate, minore è il margine di profitto
attribuito. Così non facendo, le imprese sono portate a spostare il rischio (ma anche le
funzioni e gli assets) verso Paesi dove la tassazione sul margine di profitto è minore.114
Infatti, uno degli obiettivi dichiarati dell’organizzazione internazionale per la
risoluzione dei problemi di disciplina in tema di transfer pricing, passa anche per lo
sviluppo di «norme di contrasto al BEPS attuato tramite trasferimento del rischio tra
i membri del gruppo societario ovvero tramite allocazione eccessiva di capitale. La
disciplina includerà regole sui prezzi di trasferimento o comunque misure speciali per
assicurare che non sarà possibile ottenere ritorni inappropriati per il solo fatto che
un’entità si sia contrattualmente assunta il rischio di investimento o abbia procurato
il capitale. Le norme da sviluppare comporteranno un allineamento dei ritorni di
investimento con la creazione del valore».115
High-risk transactions
Parimenti, nel caso in cui le transazioni infra-gruppo rientrino nella categoria
delle c.d. high-risk transaction, è necessario apportare delle modifiche alla disciplina
attuale al fine di «sviluppare norme di contrasto al BEPS attuato attraverso l’utilizzo
di operazioni che, tra parti terze, non sarebbero mai messe in atto, o quantomeno lo
sarebbero molto raramente. Questo includerà l’adozione di norme sui prezzi di
trasferimento o altre misure speciale finalizzate al chiarimento delle circostanze nelle
quali le transazioni possono essere riqualificate, dell’applicazione dei transfer pricing
methods, in particolare la divisione dei profitti, nel contesto della catena globale della
113 OECD, Guidance on Transfer Pricing Aspects of intangibles, Paris, 2014, p. 9. Traduzione libera. 114 op. cit. VALENTE, P., Elusione fiscale internazionale, p. 1374. 115 Questo era l’obiettivo dell’Action plan n.9, poi ricompreso nel documento da cui la citazione, op. cit. OECD, Action Plan 8-10 – Final report, p. 17. Traduzione libera.
57
creazione del valore, ed infine finalizzate ad apportare protezione contro i metodi più
comuni di pagamenti finalizzati all’erosione della base imponibile, come le spese
d’ufficio o i management fees».116
Final Report
Il rapporto finale pubblicato in data 5 ottobre 2015 in tema di transfer pricing è
complesso, articolato e non definitivo. Preliminarmente, l’OCSE opera una revisione
ed un aggiornamento del proprio transfer pricing guidance, attraverso
- la modifica della disciplina dell’arm’s length principle, così come regolata dalla
sezione D del Capitolo 1 delle Guidelines dell’OCSE, in particolare fornendo
indicazioni sull’identificazione dell’effettiva transazione intrapresa, su ciò che
deve essere inteso per controllo del rischio e sulle circostanze nelle quali la
transazione effettiva possa essere presa in considerazione ai fini di transfer
pricing,
- le indicazioni sui fattori di comparabilità del transfer princing, incluso la
localizzazione dei risparmi, la forza lavoro complessiva e le sinergie del gruppo
multinazionale,
- nuove linee guida sulle commodity transactions (Capitolo 2 delle Guidelines),
- nuova versione del Capitolo 6 delle Guidelines in merito agli intangibles, inclusa
una nuova linea guida sulle attività di finanziamento e sugli hard-to-value
intangibles,
- nuove linee guida sui servizi infra-gruppo di basso valore (Capitolo 7 delle
Guidelines),
- una versione completamente rinnovata del Capitolo 8 sui CCA.
Inoltre, il final report introduce un ulteriore studio, sempre a conduzione OCSE,
da sviluppare in forma di discussion draft nel corso del 2016 e con relativo final report
fissato per lo stesso anno in tema di applicazione del transactional profit split method.
Nell’ambito più strettamente pertinente gli intangibles, il rapporto finale
dell’OCSE introduce una nuova versione del Capitolo 6 delle Guidelines sulla base
della precedente che prevedeva quattro sezioni:
- identificazione degli intangibles per propositi di transfer pricing,
116 Parimenti, questo era l’obiettivo dell’Action Plan n. 10, ibidem. Traduzione libera
58
- identificazione delle transazioni che hanno a che fare con intangibles, compresa
la determinazione di quale entità debba compartire i costi e i rischi dello sviluppo
dell’intangible,
- identificazione dei “tipi” di transazioni che coinvolgono intangibles,
- determinazione delle condizioni di arm’s length nel caso di transazioni per
intangibles con particolare riferimento alla valutazione degli stessi.
Le novità introdotte riguardano nuove linee guida in merito alle entità che
abbiano il diritto di ottenere parte del ritorno d’investimento per lo sfruttamento degli
intangibles. In altre parole, il report, afferma che la proprietà meramente legale e
formale di un intangible non conferisce alcun tipo di diritto ad un rendimento per il
suo sfruttamento, a meno che l’entità che ne sia proprietaria svolga una serie di attività
finalizzate allo sviluppo, mantenimento e protezione dell’intangible, assumendosi non
solo la gestione ma anche il rischio associato con tali attività.117 Inoltre, sono previste
nuove indicazioni sulla determinazione del rendimento per il finanziamento dello
sviluppo di un intangible, sempre in relazione al rischio corso dal finanziatore. In altre
parole, se l’entità che ha disposto il finanziamento esercita anche un controllo sul
rischio finanziario assunto, allora il rendimento dovrà essere commisurato al livello di
rischio; nel caso contrario, invece, e cioè «se l’impresa associata finanziatrice non
esercita un controllo sul rischio associato al finanziamento, allora essa è titolare di
niente di più che un rendimento risk-free».118
Vengono stabilite anche delle regole in merito all’annosa questione degli
intangibles difficilmente valutabili. In questo caso le Amministrazioni finanziarie sono
autorizzate ad utilizzare prove sorte ex-post, come i risultati finanziari, per determinare
se l’originale cessione, rectius il prezzo originale cessione, rispettasse il c.d. arm’s
length principle. Il contribuente può provare che il prezzo di trasferimento originale
fosse opportuno tenendo conto di tutte le variabili od eventualità razionalmente
prevedibili. Anche la sezione dedicata al Cost Contribution Arrangements sostituisce
interamente il Capitolo 8 delle Guidelines. L’obiettivo del final report è quello di
allineare la disciplina delle CCAs a quella del controllo del rischio e delle transazioni
intangibles.
117 op. cit. OECD, Action Plan 8-10 – Final report, pp. 74-75. 118 ibidem, p. 65. Traduzione libera.
59
Tornando alla disciplina degli hard-to-value, l’intento è quello di assicurare che
le Amministrazioni fiscali siano in grado di determinare in quali situazioni la gestione
del prezzo di trasferimento siano effettuate secondo il principio dell’arm’s length e
quali no. Come già accennato, in queste situazioni può essere d’aiuto la c.d. prova ex
post, la cui finalità è verificare l’esistenza di incertezze al momento della transazione
e se il contribuente ha correttamente tenuto conto degli sviluppi ragionevolmente
prevedibili al momento della transazione. Una prova oltremodo presuntiva, che può
essere soggetta a confutazione nel caso in cui si dimostri che non viene intaccata la
determinazione accurata del prezzo arm’s length. Rispetto al discussion draft, il final
report si articola con un numero maggiore di esenzioni e “safe harbors” da utilizzare
nel caso in cui una transazione non cada sotto la disciplina delle hard-to-value.
Il report contiene anche una revisione alla Sezione D del Capitolo 1 delle
Guidelines, modificate nella parte relativa al trasferimento del rischio (la “ex” action
n. 9) e nella parte relativa alla caratterizzazione delle transazioni (ex action n. 10). Più
in particolare, vengono incluse le seguenti previsioni in tema di transfer pricing
analysis
- l’importanza di delineare accuratamente le effettive transazioni tra imprese
collegate attraverso l’analisi delle relazioni contrattuali tra le parti. Una guida
dettagliata sull’analisi dei rischi come parte dell’analisi funzionale, comprensiva
di un quadro analitico a sei “steps”. Questo quadro considera l’identificazione
del rischio economicamente rilevante con specificità, la determinazione
dell’allocazione contrattuale di questi rischi e le funzioni a questi rischi correlati.
Per gli scopi dell’analisi sui prezzi di trasferimento, l’entità del gruppo che si
assume il rischio dovrebbe anche avere il potere di controllarlo, oltre alla
capacità finanziaria di poterlo assumere.
- Un’entità del gruppo che sia ricca di capitale, senza possedere rilevanti attività
economiche (la c.d. “cash box”) che fornisce finanziamenti, ma non controlla i
rischi finanziari correlati al finanziamento, otterrà solamente un rendimento di
livello risk-free o addirittura minore, se la transazione è “commercialmente
irrazionale”.
- In circostanze eccezionali di irragionevolezza economica, l’Amministrazione
fiscale potrà ignorare la transazione effettiva. Per verificare tale
60
“irragionevolezza”, è necessario domandarsi se la stessa operazione
commerciale sarebbe stata messa in atto, alle stesse condizioni, anche tra parti
terze, tra di loro non collegate, in circostanze economiche “comparabili”.
In comparazione con il discussion draft, il final report dei piani d’azione nn. 8-
10 contiene delle modifiche significative rispetto al tema del rischio e
recharachterization, compresa l’introduzione del già accennato quadro analitico “six
steps”, l’inclusione di una soglia materiale per considerare economicamente
significativo il rischio intrapreso, l’importanza di una capacità finanziaria coerente con
il rischio che si intende assumere, elemento che era stato tendenzialmente ignorato in
sede di discussion draft e l’eliminazione del concetto di “azzardo morale”.119
Un’altra questione risolta con la pubblicazione del final report in questione
riguarda i c.d. low value added services e la determinazione del loro ammontare.
Intanto il report suggerisce di partire da una definizione univoca di low value added
services, e cioè che essi non siano parte dell’attività principale della multinazionale,
non richiedano e non creino alcun bene intangibile di valore e non determinino
l’assunzione di rischi significativi.120 Viene identificato inoltre un approccio
semplificato alla disciplina per la determinazione dei ricarichi che rispettino il
principio dell’arm’s length: un processo per la determinazione dei costi associati ai
servizi low value added, permettere chiavi di ripartizione generiche, creare un benefit
test semplificato, individuare un mark-up standardizzato (5%), opzionalmente
prevedere che le Amministrazioni finanziaria possano includere una soglia oltre la
quale l’approccio “semplificato” possa non essere concesso. Implementazione
nell’ordinamento internazionale avverrà in due fasi. Primo, un numero consistente di
Stati ha manifestato l’intenzione di aderire al meccanismo semplificato entro il 2018.
Secondo, nel caso delle giurisdizioni per cui il meccanismo semplificato non
raggiungerebbe i pagamenti base-eroding, sono stati studiati dei meccanismi
(potenzialmente delle soglie di applicazione) per cui aggirare l’ostacolo normativo e
permettere anche a quegli Stati di usufruire del nuovo regime.
119 ERNST&YOUNG, OECD releases final reports on BEPS Action Plan, in Global Tax Alert, 6 ottobre 2015, p. 10. 120 op. cit. OECD, Action plans nn. 8-10 – Final Reports, pp. 141-142.
61
Uno degli obiettivi dell’action plan n. 10 era quello di stabilire delle norme di
transfer pricing più chiare e semplici possibili, per favorirne un’applicazione corretta
in un contesto di catena di creazione del valore globale. Il final report provvede alla
pubblicazione di un documento, già citato in questo scritto, denominato “scope of
work for guidance on the transactional profit split method”, che tra le altre cose,
spiega come le nuove regole debbano
- chiarire le circostanze nelle quali gli spostamenti di profitto siano il metodo più
appropriato di gestione,
- tenere in conto dei cambiamenti alle linee guida sul transfer pricing evidenziate
in tutti gli altri action plans del BEPS project con particolare riguardo al primo
piano d’azione, quello relativo all’economia digitale,
- rispecchiare l’ulteriore lavoro intrapreso per lo sviluppo dell’approccio al
transfer pricing in quelle situazioni ove la disponibilità di comparazione sia
limitata.
Questo “scope of work” verrà sviluppato nel corso del 2016 e si prevede il
raggiungimento della versione final report per la prima metà del 2017. Nel corso degli
ultimi decenni e di pari passo con la globalizzazione dell’economia, il traffico
mondiale delle operazioni infra-gruppo è aumentato esponenzialmente, per questo
motivo il problema dell’indebito utilizzo dello strumento del transfer pricing ha
cominciato così pesantemente a farsi sentire. Esso costituisce uno dei “mattoni”
principali degli schemi elusivi messi in atto da molte imprese multinazionali e che ha
loro permesso un notevole risparmio d’imposta nel corso degli anni.
La lotta al transfer pricing è oggi sentita come prioritaria, anche in virtù della
maggiore complicazione nella sua determinazione dovuta al sempre più massiccio
utilizzo di intangibles nella catena della creazione del valore, la quale appare sempre
più slegata dalla materia e sempre più connessa alla proprietà intellettuale, perdendosi
nel mare magnum di un’attribuzione di valore assolutamente incomparabile e pertanto
molto difficilmente contestabile. In generale, le previsioni appena analizzate,
sviluppate dall’OCSE, tentano di “colpire” il fenomeno in maniera più diretta,
attraverso un approccio più pragmatico alla materia, con l’individuazione dell’ambito
della disciplina e l’inserimento di soglie, quanto meno orientative, che possano fungere
in qualche modo da indirizzo per la determinazione di un prezzo di trasferimento che
62
sia più o meno distante dal c.d. arm’s length, posto che fino ad ora non era supportato
adeguatamente nella sua qualificazione da alcun tipo di previsione normativa e
risentiva pertanto di tale lacuna normativa al momento di dover qualificare una
transazione infra-gruppo come rispondente o meno al principio della rispondenza del
prezzo pagato secondo le regole del mercato libero.
1.2. Il Double Irish with Dutch Sandwich
Con questa espressione colorita, si è soliti identificare una strategia di
pianificazione fiscale elaborata alla fine degli anni ’80 negli Stati Uniti da Apple,
Inc.121 anche se, all’epoca, naturalmente, non poteva ancora essere considerata una
multinazionale digitale, ancorché fosse un’impresa del settore tecnologici
particolarmente incentrata sullo sviluppo di prodotti all’avanguardia. Tale modello è
comunque stato spesso utilizzato da molteplici imprese multinazionali122 operative nei
più differenti ambiti ed è finalizzato ad ottenere un risparmio di imposta solo
relativamente a quelli che sono comunemente considerati overseas profits, e cioè i
profitti ottenuti, solitamente in Europa ma comunque al di fuori della sede centrale di
tali società, che la maggior parte delle volte si trova negli Stati Uniti, da qui la
qualificazione “d’oltreoceano”. Al giorno d’oggi, la maggior parte delle imprese del
settore digitale, compresi i “quattro cavalieri dell’apocalisse” utilizzano tale strategia
o strutture societarie equivalenti per ottenere ingenti risparmi fiscali123, peraltro non
facendone segreto124. È proprio per tale apertura nei confronti della propria
organizzazione che, forse, la comunità internazionale ha iniziato a muoversi nel senso
di cercare di porre rimedio a tali pratiche, attraverso l’analisi del complesso fenomeno
in seno al G-20, prima e all’OCSE, poi.
La disciplina degli istituti che sono posti a fondamento di tale schema costituisce
121 DUHIGG, C., How Apple Sidesteps Billions in Global Taxes, in New York Times, 29 aprile 2012. 122 CIPOLLINA, S., I redditi “nomadi” delle multinazionali nell’economia globalizzata, in Rivista di Diritto Finanziario e Scienza delle Finanze, fasc.1, 2014, p. 33. 123 IL SOLE 24 ORE, Le norme Ocse in arrivo spingono i big al dialogo, 26 febbraio 2015. 124 È divenuta celebre la frase pronunciata dall’ex CEO di Google, Eric Schmidt che in un’intervista a BLOOMBERG BUSINESS del 12 dicembre 2012, ha affermato «sono molto orgoglioso della struttura (fiscale, ndr) che abbiamo creato. Ci siamo basati sugli incentivi che i vari Governi ci hanno offerto per operare sul mercato». Per l’articolo completo, http://www.bloomberg.com/news/articles/2012-12-12/google-chairman-says-android-winning-mobile-war-with-apple-tech.
63
l’oggetto principale della ricerca effettuata dall’organizzazione internazionale appena
citata e che è sfociata nell’ampia multi-relazione sul BEPS. Il Double Irish with Dutch
Sandwich rappresenta, pertanto, il risultato di tutti quegli istituti e strumenti giuridici
che al giorno d’oggi sono percepiti come inadatti a regolare la trattazione fiscale delle
imprese a livello internazionale e che non può essere avallato dalle giurisdizioni dei
Paesi a fiscalità ordinaria.
La struttura del modello è basata sulla creazione di tre imprese controllate dalla
casa madre, due delle quali irlandesi e una delle quali con sede nei Paesi Bassi125, da
cui il nome Double Irish with Dutch Sandwich.
La metafora delle due “fette di pane” con cui identificare le controllate irlandesi
e il contenuto con cui identificare la controllata olandese derivano dall’organizzazione
del modello, che qui di seguito si analizza:
- la casa madre statunitense trasferisce la propria IP (intellectual property) verso
la controllata A, società irlandese con residenza fiscale in un Paese non
collaborativo (spesso le Isole Bermuda)
- la controllata A cede in licenza, dietro il pagamento di una royalty, l’utilizzo
della IP, ricevuta dalla casa madre, alla controllata B con sede nei Paesi Bassi
- la controllata B, a sua volta, cede in licenza dietro il pagamento di una royalty
l’utilizzo della IP ricevuta in licenza alla controllata C, società con sede
nuovamente nella Repubblica d’Irlanda
- la controllata C, infine, è la società con cui il cliente finale, spesso appartenente
all’ampio bacino Europa - Medio Oriente - Africa (nel gergo anglosassone
conosciuto con l’acronimo EMEA), si interfaccia.
Per una maggiore chiarezza si allega uno schema riassuntivo delle varie
transazioni infra-gruppo che portano alla creazione di questa strategia fiscale126,
tenendo presente che tale schema non è l’unico utilizzato, ma costituisce il modello
più semplice, nonché quello scelto dalla società Google.
125 RODRIGUEZ FERNANDEZ, T., La imposición directa sobre el comercio electrónico. El límite de los conceptos fiscales tradicionales, in InDret, fasc. 2, 2015, p. 95. 126 La fonte del grafico è il website della società di consulenza Pearse Trust, http://www.pearse-trust.ie/blog/bid/86105/US-Companies-Their-Use-Of-The-Double-Irish-Dutch-Sandwich.
64
Le ragioni normative di una tale struttura sono presto dette.
La controllata A ha una doppia residenza: per la legge statunitense è residente
nel luogo dell'incorporazione, cioè in Irlanda. Per la legge irlandese è, invece, residente
nel luogo in cui si trovano gli effettivi “mind and management”, quindi alle Isole
Bermuda; questo è possibile poiché qualificabile come “relevant company”,
soddisfacendo le condizioni di “non residenza” previste dalla section 23 del Taxes
Consolidation Act del 1997, in quanto:
1. controlla, in misura superiore al 50%, una società irlandese che opera
attivamente in Irlanda (che è la controllata C);
2. è controllata da una società residente in un Paese partner dell'Irlanda in un
trattato contro le doppie imposizioni (Casa-madre).
Ai fini delle regole “check the box” statunitensi, sia la controllata B, che la
controllata C sono “disregarded entity”, mentre sono considerate “corporations” a
tutti gli effetti negli altri Paesi.
I redditi che affluiscono alla controllata C sono soggetti alla corporate income
tax irlandese del 12,5%, ma la base imponibile viene abbattuta dalla deduzione della
cospicua royalty che la società corrisponde alla controllata B per l'utilizzo della
proprietà intellettuale.
La controllata B, a sua volta, paga una royalty di quasi uguale importo alla
controllata A, che -come già notato- è per il sistema irlandese residente alle Bermuda,
dove non esiste imposta sul reddito delle società.
L’interposizione della società olandese ha lo scopo di far “viaggiare” i redditi in
65
sostanziale esenzione di imposta. Se il pagamento della royalty fosse fatto in modo
diretto dalla controllata A alla controllata C sarebbe assoggettato a ritenuta alla fonte
in Irlanda.
I Paesi Bassi non applicano, invece, alcuna imposta sulle royalties in uscita ed
effettuano soltanto un piccolo prelievo sulla differenza tra la royalty che la controllata
B ivi residente riceve e quella che paga alla controllata A. Si è detto, però, che gli
importi sono sostanzialmente equivalenti, per cui il prelievo si configura, in realtà,
come una sorta di compenso per l'utilizzo del sistema fiscale; un compenso che di
solito viene negoziato in anticipo con l'Amministrazione fiscale olandese.
La finalità di questa “macchina” fiscale è la creazione di “stateless income”,
attraverso la distruzione di ogni possibile coerenza del concetto di “fonte del reddito”,
quantomeno inteso in senso geografico. Il “reddito senza Stato” infatti, deriva da
un’attività che il gruppo multinazionale svolge in un Paese che non è né quello di
residenza della società-madre, né quello in cui sono localizzati i fattori di produzione
che generano il reddito; come appena analizzato, infatti, il reddito guadagnato dall’uso
dei beni e servizi intangibili da parte dei consumatori in Paesi a fiscalità ordinaria,
viene dirottato verso la controllata C con sede in Irlanda, evitando la tassazione nel
Paese della fonte.127
Lo schema è molto semplice, ed è efficace proprio per la natura stessa delle
imprese che lo mettono in atto. Nulla di ciò che l’impresa vende al consumatore finale
è un bene tangibile, nulla di ciò che viene venduto a livello infra-gruppo è un bene
tangibile. Il caso specifico di Google è importante in quanto può fungere da esempio
perfetto, privo di “interferenze” dovute ad attività collaterali che in qualche modo
implichino la produzione di un bene effettivo. Nel caso di Google, vengono venduti
spazi pubblicitari e campagne di marketing da una parte, e cioè verso l’esterno e
vengono ceduti diritti di sfruttamento della proprietà intellettuale dall’altra e cioè
internamente. Tutto questo, con l’aggiunta del già citato “lavoro gratuito” da parte
127 Come correttamente rilevato da KLEINBARD, E. D. nell’articolo Stateless Income, in Florida Tax Review, vol. 11, n. 9, 2011, pp. 18-19. L’autore evidenzia poi che «All’interno dell’Unione Europea gli Stati Membri non possono imporre ritenute alla fonte sulle royalties pagate ad un’impresa residente in un altro Stato. Inoltre l’Irlanda ha una buona rete di trattati bilaterali che permettono spesso di ridurre l’imposizione sulle royalties pagate da imprese residenti nei due Paesi firmatari a zero». Traduzione libera.
66
degli utenti. Dietro uno schema societario così semplice si nasconde, in realtà, uno dei
più grandi sconvolgimenti del diritto tributario internazionale dell’ultimo secolo.128
1.3. Transfer Pricing e multinazionali digitali
Come anticipato, l’origine dello schema del Double Irish non è appannaggio
esclusivo delle multinazionali digitali, essendo nato in un contesto antecedente ed
essendo utilizzato anche da multinazionali che, con la tecnologia digitale, hanno quasi
niente a spartire129. La peculiarità della situazione delle imprese di questo settore
(quello “non digitale”) che utilizzano pianificazioni simili o identiche a quelle
descritte, come si desume dall’analisi effettuata supra al paragrafo, è che la struttura
societaria che devono mettere in atto è assai più complessa rispetto a quella delle
multinazionali digitali, che spesso utilizzano lo schema appena analizzato. Inoltre,
come dato vedere dal confronto delle colonne evidenziate nelle due tabelle (quella
subito qui di seguito allegata e quella presente nel paragrafo 3 di questo stesso
Capitolo) le multinazionali del settore digitale riescono ad ottenere un’imposizione sul
fatturato prodotto fuori dagli Stati Uniti minore rispetto a quella che, di contro,
riescono ad ottenere le multinazionali classiche.
Di seguito, la tabella130 relativa alle sette principali aziende multinazionali
statunitensi attive nel settore del web e relativa agli anni fiscali 2011, 2012 e 2013. Si
precisa che la voce sales corrisponde al fatturato, la voce profits corrisponde al reddito
e che la voce tax corrisponde all’imposta sul reddito societario. L’unità di misura dei
valori riportati è il milione di dollari americani.
128 Per il segretario generale dell’OCSE, ANGEL GURRÌA, è la riforma nella tassazione fiscale internazionale «più importante da quasi un secolo». 129 Come ad esempio la società Starbucks, ampiamente criticata nel Regno Unito, insieme a Google, “per non aver pagato alcuna (o in misura sufficiente) tassa” nel Paese. Si veda a tal proposito ARNOLD, B. J., Morality, Taxation and morning coffee, in Canadian Tax Foundation, 26 aprile 2013. 130 Lo schema è parte del lavoro effettuato dal gruppo di esperti della Commissione Europea sul rapporto tra economica digitale ed imposizione internazionale ed è rinvenibile all’indirizzo http://ec.europa.eu/taxation_customs/resources/documents/taxation/gen_info/good_governance_matters/digital/report_digital_economy.pdf, p. 57.
67
A partire da tali premesse, si evince facilmente come, se il fenomeno BEPS come
analizzato ed in particolare le questioni giuridiche relative alla disciplina del transfer
pricing, della stabile organizzazione e della gestione degli intangibles in genere sia
già di per sé un elemento di forte interesse per le Amministrazioni finanziarie al fine
di generare un ingresso fiscale nel proprio territorio relativo alle operazioni
commerciali messe in atto dalle multinazionali in genere, tale problema è ancor più
sentito nel caso delle multinazionali del settore digitale. In merito ad esse, infatti, la
risoluzione della disciplina degli istituti che non possono adattarsi alle loro
caratteristiche peculiari è maggiormente complessa e richiede un’azione più incisiva
sulla normativa internazionale, comunitaria e interna. Per questo motivo, si
analizzeranno le soluzioni trovate dall’OCSE nei Final Reports di tutti gli Action
Plans, oltre alle considerazioni effettuate sia in sede comunitaria, sia in sede interna,
prendendo ad esempio alcune iniziative legislative messe in atto, ma non sempre
portate a termine, da alcuni Governi europei e i conseguenti problemi giuridico-politici
a queste soluzioni connessi, al fine di tracciare una linea spazio-temporale continua
che permetta di inquadrare la strada che le varie giurisdizioni (collettivamente o
singolarmente), tenteranno di intraprendere nell’immediato futuro, ma non prima di
aver analizzato sommariamente i principali punti di attrito con l’economia digitale
rappresentati dagli istituti giuridici che risultano meno compatibili con le regole
economiche cui essa risponde.
68
2. IL CONTRASTO DELLA DISCIPLINA CON L’ECONOMIA DIGITALE Il progetto BEPS prevede delle soluzioni al contrasto del fenomeno elusivo sulla
base del base erosion and profit shifting che, come visto, viene perpetuato ai danni
delle Amministrazioni finanziarie di molti Paesi a fiscalità ordinaria da parte di
imprese multinazionali. Prima di passare in rassegna tutte le soluzioni prospettate dai
recentissimi Final Reports ai 15 action plans presentati dall’organizzazione
internazionale, verrà effettuata un’analisi della peculiare situazione delle
multinazionali digitali, che sono peraltro state il “motore” di questa iniziativa,
attraverso un’osservazione analitica dei punti fondamentali di intersezione (e di
contrasto) tra l’economia digitale e il diritto tributario internazionale come
storicamente concepito.
2.1. Riqualificazione della nozione di stabile organizzazione
Uno dei punti fondamentali del lavoro dell’OCSE, in tema di contrasto
all’elusione fiscale da parte delle multinazionali digitali riguarda il concetto di stabile
organizzazione. Le soluzioni trovate dall’OCSE riguardano principalmente
- il caso dell’agente, già accennato, per cui le modifiche proposte ai paragrafi 5 e
6 del Modello di convenzione porteranno ad una situazione per cui non sarà più
necessario che i contratti siano conclusi in uno Stato per dar luogo ad una stabile
organizzazione in quello Stato: si tratterà di SO ogni qual volta una persona
agisce nello Stato della fonte in nome e per conto dell’impresa non residente e
nel caso in cui giochi abitualmente un ruolo principale nella conclusione
“abitudinaria” dei contratti. Un’eccezione è prevista nel caso in cui la persona
sia un agente indipendente che agisce nel corso ordinario della propria attività
- il caso delle esenzioni per attività ausiliarie o preparatorie, per cui si propongono
le modifiche al paragrafo 4 dell’art. 5 (che disciplina proprio questo caso); in
futuro sarà possibile esimersi dalla qualifica di SO soltanto per le attività che
siano effettivamente ausiliarie o preparatorie rispetto all’attività principale
dell’impresa. Per evitare distorsioni di qualifica, viene introdotta la c.d. anti-
fragmentation rule, e cioè una regola che permetta di escludere dall’esenzione
tutte quelle attività che solo formalmente risultino preparatorie o ausiliarie.
69
- Il caso degli splitting-up contracts, per cui viene regolata (o quantomeno questo
è il tentativo) la disciplina temporale legata al concetto di stabile organizzazione.
La soglia dei 12 mesi di attività non potrà più essere oggetto di abuso, e ciò
avverrà in correlazione con la disciplina prevista dall’action plan n. 6 in tema di
abuso di trattati.
L’OCSE, comunque, ritiene che il proprio lavoro sulla disciplina della stabile
organizzazione non sia concluso, e successive indicazioni in merito verranno fornite
nel 2016, così come le modifiche della definizione stessa di stabile organizzazione che
verrà inclusa nel progetto per la creazione di un Modello multilaterale (Action Plan n.
15).
Le proposte dell’organizzazione internazionale permetteranno di assoggettare alla
disciplina della stabile organizzazione una grande quantità di attività che oggi, per i
motivi sopra visti, risultano esenti: questo fatto porterà un maggiore ingresso a livello
di imposte societarie per i Paesi a fiscalità ordinaria in cui le attività poste in essere
dalle multinazionali digitali non risultano allo stato tassabili.
2.2. Il ruolo del dato digitale
Un’altra questione affine a quella dell’intangibilità dei beni scambiati dalle
imprese multinazionali digitali riguarda in modo più specifico non tanto l’oggetto dei
loro scambi commerciali, quanto uno dei mezzi attraverso i quali dette imprese
multinazionali (in particolare Apple e Facebook) attraggono i clienti cui offrono i loro
servizi pubblicitari. La questione riguarda l’utilizzo dei dati digitali. Anche
prescindendo dalla peculiarità dei servizi offerti dalle due imprese citate, più in
generale le imprese digitali sono solite sfruttare una grande quantità di informazioni
in più forme reperite e relative al bacino di utenza che generano, seguendo la già citata
“Legge di Moore”.131 La quasi incontrollata accumulazione di dati, i Big Data,
appunto, offre delle prospettive assolutamente incredibili per l’economia. I vari
providers elaborano ed analizzano questi dati di varia natura per proporre al
consumatore prodotti su misura “ritagliati” secondo le loro personali preferenze.
131 Si veda Capitolo Primo, paragrafo 1.1.
70
Inoltre, dalla parte delle imprese, la digitalizzazione permette di effettuare
sperimentazioni di marketing (“testare” differenti siti web, differenti campagne
pubblicitarie e differenti mercati), ottenendo ottimi risultati sia in relazione al
matching con il potenziale cliente, sia ottimizzando i costi spesi per raggiungerlo.
Un’autorevole dottrina ha qualificato questo meccanismo di accumulo enorme
(nell’ordine di miliardi di informazioni quotidianamente scambiate e/o ottenute) con
il neologismo di datafication132, ed a tal proposito vengono fatti alcuni esempi,
chiarificatori della portata di questo fenomeno: Google, ad esempio, è un sito visitato
2,5 miliardi di volte da 500 milioni di persone i cui click sono automaticamente
“datizzati”, Facebook alloca oltre 219 miliardi di immagini caricate dai singoli utenti,
Wal-Mart, l’azienda con più dipendenti nel mondo133, registra più di 1 miliardo di
transazioni ogni ora, aumentando il proprio database di 2,5 petabytes all’anno, 167
volte la quantità di dati che accumula la Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti.134
Questo importante fenomeno, che influenza non soltanto l’economia di qualsiasi
impresa voglia competere nel mercato globalizzato al giorno d’oggi, ma che pone il
diritto di fronte a sfide ben più ampie, come la riservatezza dei dati, il c.d. “diritto
all’oblio”135 o ancora il problema delle intercettazioni136, si pone, dal punto di vista del
diritto tributario, come potenziale presupposto di imposta per la tassazione delle
imprese che, sulla base di questi dati, costruiscono le proprie fortune, sulla base della
teoria francese che verrà analizzata nel Capitolo Quarto.
132 MARINO, G., General Report, Atti del Congresso 2014 dell’EATLP, New exchange of information versus tax solutions of equivalent effect, Istanbul, 30 maggio 2014. L’autore sottolinea la differenza con il concetto di digitalizzazione, che “traduce” determinati media, come libri, musica o film, in formato digitale. La datafication, invece «è un’attività molto più ampia: prende tutti gli aspetti della vita e li converte in dati. Big data è il risultato di questa attività: grandi categorie di dati, catturati, comunicati, aggregati, immagazzinati e analizzati». 133 http://fortune.com/global500/walmart-1/. 134 La più grande biblioteca del mondo per numero di pubblicazioni, http://www.loc.gov/about/. 135 Il diritto all’oblio è il diritto a veder cancellato qualsiasi tipo di riferimento dalle pagine web (attraverso un filtro operato dai motori di ricerca) su di un determinato soggetto. È stato stabilito con la storica sentenza C-131/12, 13 maggio 2014 della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. 136 Il fenomeno che ha preso piede nell’anno 2013 e nell’anno 2014 e relativo ad una serie di intercettazioni non autorizzate operate dagli Stati Uniti prima e dalla Germania ai danni sia di ignari cittadini che di importanti membri di Governo, ha un’ampia letteratura giornalistica sotto il nome giornalistico di datagate.
71
2.3. Il luogo della creazione del valore
Uno dei nodi cruciali del dibattito in merito alla tassazione delle imprese
multinazionali digitali riguarda il luogo di creazione del valore. Le caratteristiche
uniche delle imprese di questo settore determinano delle discrepanze anche su questo
tema in comparazione con il normale approccio che si potrebbe avere nel caso di una
impresa multinazionale classica. Come anticipato nel Capitolo Primo, una delle
caratteristiche della digital economy è che essa non segue il “normale” percorso
neanche nella fase della creazione del valore. Le principali società espressione di
questi nuovi modelli economici sono Google e Facebook. Esse, creano dei sofisticati
sistemi informatici e li mettono a disposizione gratuita di tutti coloro che ne vogliano
fare utilizzo. Google ha iniziato creando un algoritmo, risultato particolarmente
accurato, per la ricerca dei siti internet all’interno della rete globale e sia è poi estesa
anche in ulteriori ambiti come visto al par. 1.1. del Capitolo Primo; Facebook ha creato
una piattaforma digitale, già analizzata supra, dove le persone possono incontrarsi e
scambiarsi informazioni e dati. Come anticipato, questi servizi vengono gratuitamente
offerti agli utenti ed hanno costi di gestione enormi, dovuti al fatto che il numero di
utenti è sempre nell’ordine delle svariate centinaia di milioni.
I costi di gestione dei server e del software, d’altra parte, sono compensati dal
fatto che questi servizi gratuitamente offerti permettono alle indicate multinazionali di
accumulare una enorme quantità di dati (non a caso nel gergo tecnico si parla ormai di
big data) che costituiscono il bene “più prezioso” per tali aziende, in quanto la messa
a disposizione di spazi pubblicitari sui propri portali, che costituisce la voce di fatturato
in percentuale assolutamente preponderante per entrambe, non si basa esclusivamente
sul fatto che gli inserzionisti possono contare su un numero molto elevato di utenti da
utilizzare come bacino per i propri annunci, ma anche e soprattutto sul fatto che
entrambe le piattaforme mettono a disposizione un sofisticato sistema di
“affinamento” del bacino di utenza che, come visto137, permette di ottenere un insieme
di destinatari delle inserzioni “qualitativamente” superiore a qualsiasi altro mezzo di
marketing. Da queste premesse si evince pertanto che l’annosa questione della
creazione del valore è in questo campo più intrecciata: da una parte, le imprese
137 Si veda a proposito dei nuovi marketing media, supra, Capitolo Primo, paragrafo 1.1.
72
sviluppano onerosamente dei sofisticati sistemi di “intrattenimento” o “utilità”,
gratuitamente messi a disposizione al fine di incentivare gli utenti all’utilizzo, dietro
la disponibilità che gli stessi danno alla cessione anche a terze parti dei dati che
volontariamente e altrettanto gratuitamente immettono nei sistemi delle due imprese;
dall’altra, il fatturato di queste imprese è sostanzialmente dovuto al corrispettivo che i
terzi pagano loro per avere la possibilità di ottenere uno spazio pubblicitario sui loro
portali ed usufruire di potenti mezzi di perfezionamento dell’utenza di riferimento.
2.4. Il monopolio
Una delle caratteristiche già accennate dell’economia digitale è che essa soffre
del c.d. “effetto rete”. Abbassando notevolmente i costi marginali di produzione
(rectius, praticamente azzerandoli), associati al rapidissimo sviluppo della tecnologia,
anche i prezzi di vendita subiscono una costante diminuzione. Inoltre, offrendo
perlopiù prodotti a costi bassissimi, anche il margine di ricavo lordo sul singolo bene
o servizio venduto è minimo; per loro natura, pertanto, le imprese del settore digitale
hanno la necessità fisiologica di doversi proporre in una fetta di mercato quanto più
ampia possibile. Una conseguenza di questo livellamento al ribasso dei prezzi di
offerta, è che la “battaglia” commerciale tra imprese non si giochi tanto sul costo del
prodotto, che viene ormai quasi standardizzato138, bensì sulla loro qualità e la
funzionalità. Questo fatto, che è in diretto collegamento anche con la tendenza già
analizzata delle imprese del settore digitale ad investire moltissimo del loro ricavo
netto piuttosto che distribuire i dividendi, porta le imprese a concorrere l’una contro
l’altra per raggiungere la “perfezione” di un prodotto già esistente, quando non
proporre prodotti innovativi. Un piccolo cambiamento in un bene o un servizio
prestato, può portare un’impresa ad acquisire o perdere anche milioni di clienti in un
lasso di tempo rapidissimo. In un mercato così fortemente concorrenziale, uno degli
effetti più immediati è il già visto winner-takes-all, e cioè il processo per cui si creano
rapidamente, proprio in funzione della facilità con cui si spostano e dell’enorme mole
che costituiscono i clienti, monopoli assoluti ovvero oligopoli.
138 op. cit. VALENTE, Economia digitale e commercio elettronico, p. 299.
73
Gli effetti di un sistema caratterizzato dalla naturale tendenza a creare monopoli
od oligopoli determina una seri di questioni anche in tema fiscale. Internet deve il suo
esponenziale e inattendibile sviluppo proprio alla libertà completa, di cui ha potuto
godere sin dal principio, da qualsiasi norma regolatrice in qualsiasi ambito giuridico.
La tendenza dei Governi, a parte quelli di stampo totalitaristico che hanno visto in
internet una minaccia al proprio status quo ed hanno quindi provveduto ad una parziale
quando non totale censura dello stesso, è stata quella di lasciare libero da vincoli anche
e soprattutto fiscali lo sviluppo di questa tecnologia il che ha permesso, insieme con
l’enorme spinta globalizzatrice data e subita dallo stesso internet, di avere un mercato
in cui il bacino di utenza si sposta rapidamente e nell’ordine di centinaia di milioni di
utenti. Pertanto, ora, il quesito il legislatore fiscale deve porsi è dove incidere con
l’imposizione poiché c’è del rischio che, da un lato si penalizzino tutte quelle imprese
che non sono market leader, con il fine ultimo di colpire le imprese sono al vertice del
monopolio/oligopolio in quel settore, dall’altro permettendo per l’appunto al market
leader non solo di godere della grande della fetta di mercato in cui opera, ma di non
subire un’imposizione così pressante tale che l’ulteriore sviluppo economico sia
ancora più semplice.
2.5. Le imposte indirette
La rapida evoluzione di internet ha portato ad un parallelo rapido sviluppo del
mercato digitale. Tale mercato si contraddistingue per essere “virtuale” e quindi
bypassare i canali tradizionali di distribuzione e si divide in commercio elettronico
indiretto e diretto. Nel primo, internet è utilizzato come mero strumento di contatto tra
le parti e come “luogo” di conclusione degli accordi commerciali, siano essi B2B, B2C
o C2C: una volta raggiunto l’accordo, e tendenzialmente dopo che la parte acquirente
ha onerato l’impegno assunto, viene spedito per i canali postali tradizionali il bene
ceduto dal venditore. A partire da un sistema innovativo, l’operazione si conclude nelle
forme più classiche; al contrario, nel caso di commercio elettronico diretto, la
particolarità consiste nella “smaterializzazione” del bene venduto, che viene fornito in
formato digitale e quindi direttamente scaricato sul supporto dell’acquirente attraverso
lo sfruttamento della rete telematica. In questo caso, quindi, tutta l’operazione, dal
74
principio fino alla sua fase conclusiva, avviene telematicamente e senza alcun tipo di
scambio fisico tra le parti. Quest’ultimo caso, che riguarda in modo diretto l’attività
delle imprese digitali, ha causato una serie di difficoltà riguardo alla disciplina fiscale
in tema di imposte indirette, proprio a causa della natura dei beni scambiati. Proprio
per la maggiore facilità con cui gli operatori del settore riuscivano ad eludere
l’imposizione indiretta, la Commissione Europea è intervenuta con il documento
COM(1998)374 denominato Commercio elettronico ed imposizione indiretta,
assumendo una posizione ben precisa, e cioè stabilendo che «un’operazione il cui
risultato è che un prodotto viene messo a disposizione del destinatario in forma
digitale tramite una rete elettronica va trattata, ai fini IVA, come una prestazione di
servizi».139 Da tale previsione, se ne deduce che i beni “smaterializzati” non vengono
equiparati nella disciplina agli altri beni, bensì, proprio per la loro natura intangibile
sono associati alla prestazione di servizi. Nel regime comunitario di IVA, pertanto, si
distingue tra
- Cessione di beni materiali
- Cessione di beni immateriali e-o fornitura di servizi
Passando alla disciplina delle due già identificate categorie (che rispettivamente si
concretizzano nel c.d. commercio elettronico indiretto e diretto), si nota come nel
primo caso si applicano le norme di cui al D.L. n. 331/1993, secondo cui: la cessione
è considerata effettuata nello Stato dell’acquirente, se egli è soggetto passivo
d’imposta; se il cessionario è persona fisica e non è soggetto passivo di imposta, in
deroga alle previsioni dell’art. 7 del D.P.R. 633/1972 (d’ora in poi anche Decreto IVA)
si applicano le disposizioni previste per le cessioni a distanza.140
Nel caso del commercio elettronico diretto, come detto, le operazioni di cessione
di beni immateriali sono qualificate come prestazioni di servizi e grazie alle modifiche
apportate agli artt. 58 e seguenti della direttiva 2006/112/CE i criteri di territorialità
applicati sono stati modificati, con effetti a partire dal 1° di gennaio 2015. È stato
inaugurato un regime agevolato denominato Mini One Stop Shop (d’ora in avanti
139 COMMISSION EUROPÉENNE, Commercio elettronico ed imposizione indiretta, COM(1998)374, 17 giugno 1998, p. 6. 140 op. cit. VALENTE, P., Economia digitale e commercio elettronico – fiscalità in internet e nella gestione d’impresa, Milano, 2015, pp. 325-326.
75
anche MOSS), secondo cui alle cessioni di beni o alle prestazioni di servizi effettuate
verso consumatori residenti nell’Unione Europea saranno assoggettate al regime
impositivo indiretto del proprio Paese di residente. In altre parole, l’aliquota IVA
applicata sarà quella dell’acquirente, a prescindere dalla residenza del venditore del
bene. Il cessionario sarà comunque onerato al pagamento dell’imposta indiretta nel
proprio Paese; al fine di sfruttare la disciplina speciale appena illustrata, gli operatori,
per quanto riguarda l’Italia, dovranno registrarsi allo sportello unico telematico
dell’Agenzia delle Entrate e presentare una dichiarazione trimestrale indicando
l’ammontare dei servizi resi con riferimento a ciascuno Stato membro e alle aliquote
applicate.141
La disciplina analitica di tale strumento verrà esposta infra, nel Capitolo Terzo,
paragrafo 2.2.
3. GLI EFFETTI SULLA REVENUE DEGLI STATI – IL CASO STARBUCKS Il comune fenomeno del BEPS ha un effetto diretto sugli introiti tributari di più
nazioni a più titolo coinvolte.
- In primis, gli Stati Uniti, sede della c.d. “casa-madre” di molte delle società che
utilizzano questo stratagemma, in quanto tutti i profitti generati dalle controllate
che non abbiano sede in quel Paese e che ivi non vengano fatti rientrare, non
sono sottoposti a tassazione.
- In secundis, si pone un problema di concorrenza fiscale dannosa tra Paesi della
stessa Unione Europea, posto che il regime fiscale preferenziale di Irlanda e
Paesi Bassi (ma sempre all’interno della stessa unione se ne potrebbero citare
altri, come il Lussemburgo) alimenta un mercato di capitale straniero che decide
di investire in quei Paesi a regime fiscale più “attraente” grazie ad una normativa
che è al limite, quando non abbia già sforato, il limite della concorrenza fiscale
dannosa. Infine, e più rilevantemente, è la posizione di tutti quei Paesi che fanno
parte del bacino di clientela “extra-U.S.” ma che restano fuori dallo schema
appena analizzato di flusso finanziario, se non per essere il punto di origine dello
141 ivi, pp. 326-328.
76
stesso. Infatti, tutti gli altri Paesi europei (eccetto quindi Paesi Bassi, Irlanda e
Lussemburgo) e generalmente i Paesi del Medio-Oriente e dell’Africa non
ricevono alcun tipo di imposta da alcuna delle multinazionali che utilizza questo
schema fiscale (che si sostanzia nel c.d. Double Irish with Dutch Sandwich già,
supra, trattato).
La seguente tabella142 mostra, nelle colonne evidenziate, l’aliquota pagata dalle
multinazionali, si noti, non appartenenti alla categoria digitale, sul reddito generato al
di fuori degli Stati Uniti. Nella prima colonna la percentuale si riferisce al rapporto tra
le imposte pagate e il reddito, mentre nella seconda tra le imposte pagate e le vendite.
Se, come vedremo infra, nel caso delle multinazionali digitali il fenomeno è
ancora più evidente, appare chiaro come la prassi sia diffusa in tutti i settori in cui
un’impresa sia per dimensioni allocata in più giurisdizioni. Questo è stato uno dei
motori principali della spinta del G-20 nei confronti dell’OCSE per un tentativo di
risoluzione di una pratica di risparmio d’imposta che spiega i suoi effetti a 360 gradi.
Gli effetti sul gettito fiscale di un Paese a fiscalità ordinaria non sono, come si
evince facilmente dalla lettura della tabella supra annessa, secondari. Inoltre, viene
sfatato il mito per cui sia un problema esclusivo delle multinazionali digitali, che, come
142 op. cit. COMMISSION EUROPÉENNE, Commission expert group on taxation of the digital economy, p. 58.
77
correttamente evidenziato da certa dottrina «esasperano i rischi connessi alle pratiche
di base erosion and profit shifting»143, ma non rappresentano certo gli unici attori in
questo campo. Ne è un caso lampante quello recentemente scoppiato nel Regno Unito
di Gran Bretagna e relativo al colosso multinazionale della caffetteria Starbucks,
meritevole di un’approfondita analisi. La compagnia opera nel Regno Unito dal 1998;
l’agenzia Reuters, nel 2012, pubblicava un articolo144 in cui mostrava come nei 15 anni
di attività in quello Stato, la società avesse registrato ben 14 anni di perdite, nonostante
detenesse il 31% della fetta di mercato e nonostante che gli azionisti affermassero che
il gruppo avesse una «solid profitability».145 L’articolo non è passato inosservato,
infatti meno di un mese dopo, l’ House of Commons Committee of Public Accounts ha
richiesto un incontro con i rappresentanti di Starbucks, Google e Amazon.146 Durante
tale incontro, Troy Alstead, in rappresentanza di Starbucks in quanto CFO (Chief
Financial Officer), visibilmente teso, affermava «Noi crediamo strenuamente nella
trasparenza, riconoscendo che una delle sfide che ci troviamo ad affrontare è che la
struttura tributaria globale (dell’azienda, NdT) è molto complessa. È molto difficile
da spiegare e comunque ciò non ha niente a che vedere con l’elusione. È
semplicemente una sfida difficile».147 Effettivamente, la struttura societaria globale del
gruppo Starbucks è complessa, ma anche opaca148, ed è riassumibile secondo lo
schema che qui di seguito si propone. Si noti a tal proposito la differenza con lo schema
relativo alla struttura societaria della multinazionale Google proposto al paragrafo 1.2.
di questo stesso Capitolo, relativamente alla maggiore “facilità” con cui le imprese del
settore digitale riescono a creare schemi societari estremamente efficienti dal punto di
vista del risparmio fiscale, in comparazione con i gruppi multinazionali di altri settori.
143 CEDERWALL, E., Making Sense Of Profit Shifting: Pascal Saint-Amans, in States News Service, 22 maggio 2015. Traduzione libera. 144 L’articolo completo è disponibile all’indirizzo http://uk.reuters.com/article/2012/10/15/uk-britain-starbucks-tax-idUKBRE89E0EW20121015. 145 ibidem. 146 Il già citato Public Accounts Committee Hearing on Taxation of Multinational Corporations del 12 novembre 2012 (vedi supra, Capitolo Primo, paragrafo 1.1.). 147 ibidem, minuto di ascolto HC716, Q601. Traduzione libera. 148 KLEINBARD, E. D., Through a Latte, Darkly: Starbucks's Stateless Income Planning, in Tax Notes, 24 giugno 2013, p. 1521.
78
- Starbucks possiede la controllata Starbucks UK attraverso una società
intermediaria inglese, la Starbucks Coffee Holding Ltd.
- Attraverso un’altra catena, e ignorando gli interessi di proprietà di altre affiliate
del gruppo, Starbucks è proprietaria di due società partecipate olandesi, la Rain
City CV e la Emerald City CV. Quest’ultima è proprietaria della Alki LP, la quale
a sua volta è proprietaria della Starbucks Coffee BV EMEA, una società olandese.
- La Starbucks Coffee BV EMEA possiede gli assets per i quali Starbucks UK paga
le royalties e opera come la holding per le operazioni del gruppo nei Paesi Bassi,
in Svizzera e altri Paesi. Questa società ha una sussidiaria, denominata Starbucks
Manufacturing EMEA BV, un’altra società olandese che gestisce la tostatura del
caffè e la distribuzione nella zona EMEA.
- Sia la Starbucks Coffee BV EMEA che la Starbucks Manufacturing EMEA BV
pagano royalties alla Alki LP per “intangibles right” posseduti dalla stessa Alki,
ma dal momento che quest’ultima società non ha l’obbligo di pubblicare un
rendiconto finanziario nel Regno Unito, non ci sono dettagli riguardo a tali
accordi.149 L’ammontare delle royalties pagate dalle società olandesi alla Alki
LP ammontavano nel 2012 a oltre 50 milioni di euro. Non è chiaro se la Alki LP
149 ibidem.
79
trattenga tali somme ovvero le sposti in qualche altro “punto” della catena
societaria.
- Le due società olandesi effettuano la dichiarazione dei redditi consolidata nei
Paesi Bassi. Negli anni fiscali 2010 e 2011 hanno dichiarato perdite.
- La Starbucks Coffee BV EMEA inoltre possiede la Starbucks Coffee Trading
SarL, che è una compagnia svizzera del gruppo che ha la funzione di vendere il
caffè a tutte le caffetterie del gruppo nel mondo, applicando un sovrapprezzo del
20%.
Da questa complessa struttura societaria, si ricava che le operazioni commerciali di
particolare rilevanza tra le società controllate sono ascrivibili a tre gruppi: la questione
delle royalties, l’aumento di prezzo relativo alla vendita del caffè e i prestiti inter-
societari.
Royalties
La controllata inglese (Starbucks UK) paga il 6% di royalties verso quella che
viene denominata la Amsterdam structure150,anche se in seguito all’accordo stipulato
con l’Amministrazione fiscale britannica tale percentuale è scesa al 4,7%. La copertura
di questo pagamento comprende i diritti di sfruttamento del marchio, il diritto ad avere
“la migliore qualità e la certezza di una provenienza etica del caffè Arabica”, la
competenza nelle c.d. store operations, l’utilizzo del modello di business di Starbucks
e lo store design concept. L’ammontare di questi pagamenti raggiunge i 20-25 milioni
di sterline per anno. Secondo la multinazionale, l’aliquota del 6% rispetta il principio
dell’arm’s length, in quanto in linea con quanto pagato da oltre 20 unrelated third
parties sparse nel mondo.151 A prescindere dal fatto che la riduzione di 1,3 punti
percentuali in seguito all’accordo con l’Amministrazione finanziaria del Regno Unito
possa far presumere che il maggiore importo (come detto, del 6%) fosse quindi non
giustificabile per tali operazioni152, assume maggior rilievo non tanto l’aliquota
percentuale delle royalties, quanto il fatto che è dubitabile che le tasse pagate dal
gruppo nel Regno Unito, che è il luogo di residenza della società che ha effettivamente
150 op. cit. Public Accounts Committee Hearing on Taxation of Multinational Corporations, Q246. 151 ibidem. 152 Così KLEINBARD, nell’op. cit. Through a Latte, Darkly: Starbucks's Stateless Income Planning, p. 1523.
80
intrapreso il rischio societario e sviluppato il mercato, siano state pagate nella misura
corretta ed equa.153
Ricarico sul prezzo del caffè
Come visto, Starbucks acquista tutto il caffè in grani necessario a soddisfare il
proprio fabbisogno attraverso la propria controllata svizzera, la quale a sua volta
rivende i grani di caffè alla società olandese che si occupa della tostatura degli stessi.
Non è chiaro, secondo la deposizione di Alstead, quale sia il c.d. mark-up su queste
operazioni. Dalle parole da lui pronunciate in sede di public hearing già citato, viene
fatta menzione della maggiorazione del 20%, ma non è dato sapere se questo è il prezzo
totale che viene fatto pagare sia per la vendita che per la tostatura del caffè ovvero se
ognuno di questi due passaggi comporta un incremento del prezzo del 20%.154 Inoltre,
la sussidiaria svizzera non entra mai in possesso del bene, ma opera un ricarico sulla
base delle spese effettuate per “spostamenti fisici, gestione dell’immagazzinamento,
preparazione dei contratti e fatture, organizzazione del trasporto, assicurazione,
preparazione dei documenti di trasporto e trattazione della migliore qualità”.155 Dalla
documentazione prodotta al Comitato fiscale del Regno Unito, Starbucks ha dichiarato
che la controllata svizzera, nell’anno fiscale 2011 ha avuto un’imposizione sul reddito
totale di 11,6 milioni di franchi svizzeri (circa 10 milioni euro). Questa parte del
procedimento è però oscura in quanto non vi sono informazioni sul prezzo a cui la
società svizzera vende il caffè a quella incaricata della tostatura sedente nei Paesi
Bassi, e comunque, anche qualora vi fosse quest’informazione, sicuramente tale
operazione rientrerebbe nella categoria di difficile comparazione con un’eventuale
operazione alternativa effettuata da parti non connesse, in applicazione dell’arm’s
length principle.
Al contrario, il margine di guadagno della società olandese incaricata della
tostatura del caffè è ampiamente paragonabile con l’azione eventualmente posta in
essere da un’altra impresa non correlata. Sta di fatto, però, che tale società paga
pochissime imposte anche nei Paesi Bassi. A fronte di un fatturato nell’anno fiscale
2011 di 286 milioni di euro, la società ha dichiarato spese per 253 milioni: 65 derivano
153 ibidem. 154 op. cit. KLEINBARD, Through a Latte, Darkly: Starbucks's Stateless Income Planning, p. 1527. 155 Code of Federal Regulation, Title 26.
81
dal prezzo di acquisto del caffè, 17 dai salari, spese amministrative e generali, ma la
maggior parte deriva dalle royalties pagate alla Alki LP.156
Prestiti inter-societari
La società inglese Starbucks UK annualmente paga degli interessi sul prestito
monetario che gli viene concesso dalla casa madre americana (Starbucks Corp.). il
report annuale della società inglese afferma che l’impresa «è finanziata da e necessita
quotidianamente del capitale ottenuto tramite la ultimate parent company».157
Nonostante che all’apparenza sembri che le ragioni di questo finanziamento siano
esclusivamente fiscali, la società ha negato che vi sia una simile intenzione nel
ragionamento che ha portato a tale scelta.
In conclusione, l’analisi appena sviluppata permette di comprendere come anche
le multinazionali non appartenenti al settore digitale siano perfettamente in grado di
evitare l’imposizione fiscale nei Paesi a fiscalità ordinaria, utilizzando gli stessi
strumenti cui accedono anche le imprese digitali per lo stesso scopo. Come visto nel
precedente paragrafo, inoltre, per le multinazionali digitali, questa operazione risulta
ancora più semplificata, proprio in virtù della immaterialità dei beni scambiati o dei
servizi prestati, che, per così dire, “facilitano” il lavoro dei pianificatori fiscali di tali
imprese.
156 op. cit. KLEINBARD, Through a Latte, Darkly: Starbucks's Stateless Income Planning, p. 1528. 157 Report annuale di Starbuck UK per l’anno fiscale 2011.
82
CAPITOLO TERZO
GLI INTERVENTI INTERNAZIONALI:
IL BEPS PROJECT DELL’OCSE E L’UNIONE EUROPEA 1. IL PROGETTO BEPS
Il fenomeno dell’erosione della base imponibile e dello spostamento dei profitti
ha acquistato rilievo internazionale soprattutto a partire dalla crisi economico-
finanziaria iniziata negli Stati Uniti nel 2008.158
Si è in particolare evidenziato come le economie dei vari Stati siano strettamente
interdipendenti e come, per questo motivo, i principali organismi internazionali
abbiano intensificato le proprie attività con l’obiettivo di adottare soluzioni
multilaterali per contrastare il fenomeno dell’erosione della base imponibile mediante
lo spostamento dei profitti, ormai conosciuto con l’acronimo inglese di BEPS. Tale
prassi, comune a tutte le imprese multinazionali, ma che ha assunto un rilievo
particolare a causa dell’utilizzo che ne hanno fatto le multinazionali digitali, consiste
nella costruzione ad hoc di strutture societarie finalizzate ad un risparmio d’imposta.
Lo schema, già precedentemente richiamato159, consiste sostanzialmente nella
traslazione degli ingenti profitti generati dai Paesi in cui vengono prodotti, che sono
per la maggior parte giurisdizioni a fiscalità ordinaria, verso una società appositamente
creata in un Paese a fiscalità privilegiata, evitando così le rilevanti imposte societarie
previste dall’ordinamento del primo Stato. Questo procedimento non viene effettuato
direttamente, ma si ottiene attraverso una serie di pagamenti per prestazioni intangibili,
tendenzialmente il pagamento di royalties che le società residenti in Paesi a fiscalità
ordinaria effettuano nei confronti delle altre società del gruppo, erodendo così la
propria base imponibile. Questi passaggi di denaro, inoltre, beneficiano (e ciò non
costituisce naturalmente una casualità) di speciali regimi di esenzione di ritenuta alla
fonte in virtù degli accordi specifici siglati tra i Paesi in cui sono state poste le società,
oltre alla generale normativa fiscale in materia dell’Unione Europea. Infine, ma non
perché meno importante, nello specifico caso delle multinazionali digitali questo
158 VALENTE, P., Erosione della base imponibile e profit shifting nei principi nazionali e internazionali, in Il Fisco, n. 6 del 9 febbraio 2015, p. 563. 159 si veda, supra, Capitolo Primo, paragrafo 1.
83
procedimento, come visto, viene ancora più semplificato grazie alla particolare natura
dei beni e servizi che da queste società vengono scambiati. Non si tratta, in questo
caso, di commercio elettronico indiretto, e cioè quel commercio che utilizza internet
come mero strumento di scambio, bensì di commercio elettronico diretto, che
comprende tutte quelle operazioni commerciali di beni e servizi digitali o digitalizzati,
come la concessione di spazi pubblicitari sui siti internet ovvero lo scambio di
materiale digitale (immagini, musica, film). La natura intangibile dei beni o servizi
scambiati rende più agevola l’articolazione di una struttura societaria snella, ma
comunque in grado di trasmigrare la maggior parte dei profitti delle società del gruppo
verso Paesi a fiscalità privilegiata o nulla.
La necessità di porre rimedio a questo tipo di pratiche ha cominciato a farsi
sentire in maniera forte soprattutto in seguito al G-20 di Londra del 2009, ove si è
preso coscienza dell’ingiustizia di un diffuso sistema di risparmio d’imposta,
considerato non più tollerabile a causa della forte crisi finanziaria160. A tal fine,
l’OCSE, proprio per mano della pressione politica del G-20, ha intrapreso un studio
ampio e articolato sul tema proprio dell’erosione della base imponibile attraverso lo
spostamento dei profitti, elaborando 15 Action Plans su altrettante tematiche rilevanti
e relative alla struttura e allo sviluppo del BEPS; i campi di indagine dell’imponente
lavoro dell’OCSE hanno toccato vari temi, di particolare importanza, che verranno qui
di seguito analizzati.
1.1. Action n. 1
Le sfide in tema di diritto tributario poste dall’economia digitale161
Il primo piano d’azione redatto dall’OCSE ha come tema principale proprio il
rapporto tra il diritto tributario internazionale e l’economia digitale. L’organizzazione
parigina individua le specificità dell’economia digitale in relazione alla normativa
internazionale, in particolare attraverso l’analisi delle caratteristiche peculiari, delle
imprese digitali e del loro rapporto con il Modello di convenzione bilaterale contro le
160 Il secondo paragrafo del Leaders’ Statement del G-20 di Londra del 2 aprile 2009, in modo sintetico ed efficace, afferma che «A global crisis requires a global solution». 161 Traduzione libera del titolo “Address the tax challenges of the digital economy”.
84
doppie imposizioni.
Il Discussion Draft
La “bozza di discussione” si sofferma, come ampiamente argomentato nel
Capitolo Primo, al quale peraltro espressamente si rimanda, sulla descrizione dei nuovi
modelli economici che l’evoluzione tecnologica di questo settore ha apportato. In
particolare, l’OCSE identifica una serie di key features, significativamente rilevanti
dal punto di vista fiscale:
- mobilità
- l’uso massivo dei dati
- la presenza di multi-sided business models
- la tendenza a creare monopoli o oligopoli
- la volatilità
L’effetto che la presenza di queste caratteristiche genera, è la possibilità che le imprese
«siano “coinvolte” nella vita economia di un Paese differente da quello di residenza
senza, per questo, avere una “taxable presence” che porta ad un’imposizione fiscale.
In un’epoca in cui i contribuenti non residenti traggono notevoli vantaggi fiscali dalle
transazioni intercorse con clienti situati in giurisdizioni differenti, risultano legittimi
i dubbi sulla adeguatezza delle previsioni normative tributarie internazionali».162
In questo contesto, mentre le imprese si sottopongono ad un processo di
integrazione internazionale e di globalizzazione, i vari ordinamenti tributari nazionali
sono spesso poco organizzati e coordinati (anzi, come visto, sono tra di loro spesso in
competizione), permettendo pertanto alle multinazionali di creare strutture societarie,
formalmente legali, che sfruttano «le asimmetrie esistenti nei regimi fiscali nazionali
ed internazionali, al fine di ridurre il carico impositivo».163
La dottrina già da tempo si è occupata del problema della concorrenza fiscale tra
Stati164; sarebbe la scarsità di risorse che porterebbe gli Stati ad intraprendere la strada
della concorrenza fiscale. In altre parole, l’elemento che fondamentalmente muove
162 VALENTE, P., Elusione fiscale internazionale, Milano, 2014, p. 2064. 163 ibidem. 164 Sulla medesima linea della dottrina supra citata, AUERBACH, A. J. – DEVEREUX, M. P. – SIMPSON, H., Taxing Corporate Income, in National Bureau of Economic Research, Paper n.14494, Cambridge, MA, 2008, «Tax competition can clearly result from a situation in which governments do not cooperate with each other. In that case, governments may seek to compete with each other over scarce resources».
85
questo spirito competitivo è il capitale. In tale situazione, «la competizione strategica
si introdurrebbe in una situazione nella quale siano presenti un numero relativamente
piccolo di nazioni coinvolte nel tentativo di attrarre investimenti all’interno del loro
territorio».165 In merito a tale eventualità, due illustri dottrine hanno dimostrato che la
determinazione del livello di imposizione per le società in questi Paesi è influenzato
da quello degli altri Paesi concorrenti.166
Il fenomeno della globalizzazione, in latu sensu inteso, non è un elemento nuovo
nell’economia degli ultimi cento anni, ma mai come prima questo fenomeno ha subito
un’accelerazione così rapida. Tal fatto è dovuto ad una serie di fattori, tra cui la libera
circolazione dei capitali e del lavoro, la delocalizzazione delle attività manifatturiere
in Paesi ove la manodopera è a bassissimo costo, gli sviluppi tecnologi e delle
telecomunicazioni e il crescente sviluppo della proprietà intellettuale; elementi, che,
complessivamente, «hanno avuto un sensibile impatto sulle modalità di strutturazione
e gestione delle imprese multinazionali».167
Segnatamente, inoltre, l’avvento dell’economia digitale che ha rapidamente
soppiantato, come supra argomentato, l’economia tout court, ha determinato l’annosa
questione della separazione tra il territorio e la creazione del valore economico; a tal
proposito, l’OCSE, nel suo Report Addressing Base Erosion and Profit Shifting del
2013, che ha preceduto gli action plans successivamente pubblicati, afferma che le
GVCs (Global Value Chains) sono «caratterizzat[e] dalla framentazione del prodotto
attraverso i confini, [diventando] un elemento dominante nell’economia globale
attuale, comprendendo sia le economie emergenti che quelle sviluppate».168 Il
rapporto tra beni e territorio è l’elemento centrale della difficile convivenza tra il diritto
tributario internazionale e l’economia globale e globalizzata del giorno d’oggi, nonché
una delle basi fondamentali della necessaria rivisitazione degli istituti cardini
dell’imposizione internazionale, che costituisce l’obiettivo principale del BEPS
project dell’OCSE.
Infine, l’economia digitale pone il diritto tributario internazionale di fronte a
165 ibidem. Traduzione libera. 166 Si tratta delle teorie di ALTSHULER e GOODSPEED (2000) e DEVEREUX, ET AL (2006). 167 op. cit. VALENTE, Elusione fiscale internazionale, p. 2065. 168 OECD, Addressing Base Erosion and Profit Shifthing – Report, Paris, 2013, p. 26. Traduzione libera.
86
sfide anche in tema di imposte indirette, in particolare ove i beni, i servizi e gli
intangibles sono acquisiti da consumatori privati da venditori esteri. La questione
riguarda principalmente la raccolta dell’IVA nel caso di transazioni internazionali,
quando la residenza del consumatore e quella del fornitore non coincidano. L’analisi
della disciplina de iure condendo, ipotizzata dall’Unione Europea, sarà oggetto di
analisi nel successivo Capitolo. La normativa comunitaria riveste in questo caso un
ruolo fondamentale, non soltanto perché l’Europa costituisce un grande bacino di
utenza a livello di consumatori, ma anche perché le multinazionali ed in particolare le
multinazionali digitali, hanno la tendenza a porre le società del gruppo che si
interfacciano con i consumer in Paesi dell’Unione, come il Lussemburgo o l’Irlanda.
Il Final Report
Come visto, l’action plan n. 1 si occupa del caso specifico delle multinazionali
digitali, identificando le sue caratteristiche peculiari e i problemi che esse generano
nella disciplina fiscale internazionale. A tal proposito, si riportano le conclusioni tratte
dal Final Report pubblicato dall’organizzazione internazionale in data 5 ottobre 2015.
In tale documento, vengono previste delle soluzioni che nello specifico riguardano la
disciplina della stabile organizzazione, dei prezzi di trasferimento e delle CFC.
Le soluzioni alla disciplina delle stabili organizzazioni
L’OCSE propone di modificare la lista delle eccezioni alla qualifica di stabile
organizzazione per rendere più certa la circostanza in cui l’esenzione (di cui al par. 4
art. 5 del Modello, già analizzato) per le attività “preparatorie o ausiliarie” sia effettiva
ed impedire pertanto che sia possibile per le imprese beneficiare di tale circostanza nel
caso in cui esse abbiano operato una solo formale frammentazione delle attività di
impresa. Un secondo aspetto della disciplina viene modificato, e cioè quello relativo
alle circostanze in cui siano presenti degli artificial arrangements correlati alla vendita
di beni o servizi, che devono necessariamente risultare al momento della stipula del
contratto. La stabile organizzazione è l’oggetto dell’action plan n. 7, infra analizzato,
ove verranno esposte in maniera più analitica le scelte effettuate dall’organizzazione
parigina per il contrasto all’abuso di tale strumento giuridico.
Il Transfer Pricing
Nel caso della disciplina dei prezzi di trasferimento, la revisione operata
dall’OCSE rende più chiara la circostanza per cui la proprietà “legale” in sé per sé non
87
necessariamente determina il diritto a tutti (o ad alcuno) i profitti generati dall’utilizzo
degli intangibles. Altre misure riguardano invece il caso in cui l’analisi da parte delle
Amministrazioni finanziarie non sia indebolita dalla mancanza di coordinamento tra
Stati o dalla scarsità delle informazioni che vengono demandante alle imprese. A
riprova dell’ampiezza della materia, l’OCSE per lo sviluppo di una nuova disciplina
del transfer pricing non utilizza un unico action plan, bensì tre. L’analisi congiunta
dei piani d’azione nn. 8-10 è stata trattata separatamente supra.169
Controlled Foreign Companies
Nel caso delle controlled foreign companies e dell’economia digitale, l’OCSE si
è concentrata sulla definizione, per l’analisi della quale si rimanda, interamente, allo
specifico action plan n. 3, infra, analizzato.
Uno degli allegati170 dell’action plan n. 1 riguarda l’analisi circa l’inserimento
(alternativo) di tre potenziali imposte per generare gettito fiscale nelle giurisdizioni a
fiscalità ordinaria in cui le multinazionali digitali operano e che allo stato non riescono
ad intercettare il flusso economico derivante dalla vendita dei beni o servizi
immateriali da queste imprese offerti. Le tre imposte analizzate sono:
- un’imposta sul reddito societario generata dalla vendita remota di beni e servizi
digitali da parte di un’impresa non residente e che non abbia una stabile
organizzazione nello Stato dei consumatori che verrebbe riscossa sul reddito
netto delle attività e calcolata sottraendo dal fatturato lordo i costi per la
produzione del reddito. Con riguardo ai profitti derivanti da transazioni cross-
border, gli Stati solitamente applicano un’imposta sul reddito societario
territoriale nella quale il tributo grava sul reddito attribuibile all’attività
economica generata nello Stato di residenza (c.d. tassazione alla fonte), mentre
un numero minore di Paesi prediligono la c.d. worldwide CIT (dove l’acronimo
sta per Corporate Income Tax) che include nell’imposizione anche il reddito
generato al di fuori dello Stato di residenza, anche se nella maggior parte dei casi
i profitti generati all’estero rimangono congelati, fino all’eventuale rimpatrio,
tramite credito d’imposta
- un’accisa gravante sulla vendita remota di beni o servizi digitali offerti dallo
169 Capitolo Secondo, paragrafo 1. 170 op. cit., OECD, Action plan. n.1 – Final Report, Annex E, p. 276-285.
88
stesso tipo di imprese di cui sopra, generalmente gravante sulla vendita di
prodotti specificamente identificati (i casi più frequenti sono alcool, tabacchi ed
energia); si presenta, pertanto, come una tassa sul consumo, anche se il venditore
è il responsabile d’imposta; una delle differenze con un’imposta sui consumi è
che generalmente non è proporzionata al prezzo di vendita del prodotto, ma
possono essere previsti dei meccanismi per i quali sia correlata ad uno specifico
elemento, come il numero di unità o il volume del prodotto venduto
- una ritenuta alla fonte sul valore lordo delle transazioni per la vendita di beni o
servizi digitali offerti dallo stesso tipo di imprese di cui sopra, che può essere
applicata solo alle transazioni B2C ovvero essere estesa alle transazioni B2B; ha
il vantaggio di poter essere trattenuta dagli intermediari finanziari coinvolti nel
pagamento del bene o servizio ceduto.
Sulle tre imposte viene poi elaborato il c.d. tax incidence analysis, ovvero
un’analisi improntata alla determinazione dei soggetti che sono effettivamente onerati
dall’imposta ed agli effetti reali che una sua introduzione porterebbe a livello
economico. La teoria economica sull’incidenza delle imposte parte dal presupposto
fondamentale che in ultima istanza sono sempre i soggetti privati a farsi carico
dell’effettivo pagamento dell’imposta: possono essere privati cittadini che vedono il
prezzo del bene o servizio rialzato a causa dell’introduzione dell’imposta, possono
essere i lavoratori dell’impresa costretta ad abbassare i salari ovvero ancora i suoi
azionisti, attraverso una minore redditività del capitale investito.
Prima di poter analizzare gli effetti dell’introduzione dell’imposta sul reddito
societario, è necessario evidenziare alcuni dati di partenza, che si assumono come base
fondamentale per lo sviluppo della teoria: intanto, viene dato per scontato il fatto che
una simile norma sia inserita nella giurisdizione non di un solo Stato o di un numero
limitato di giurisdizioni, ma che tale disciplina sia coordinata e sia inserita
nell’ordinamento di un numero considerevole di Paesi ed inoltre, che venga
considerato il mercato di riferimento come un mercato ove sono presenti sia imprese
non residenti che vendono beni e servizi digitali in presenza di una stabile
organizzazione nella giurisdizione dei clienti sia l’opposta situazione in cui tale
organizzazione sia assente, caso, quest’ultimo, che si profila come presupposto per le
imposte ipotizzate e qui analizzate. L’analisi viene canalizzata in due grandi aree: nella
89
prima, l’assunto principale è che il mercato di riferimento sia un mercato perfettamente
competitivo, mentre nel secondo caso, vengono analizzati gli effetti dell’imposta in un
mercato caratterizzato da concorrenza imperfetta. Nel primo caso, e cioè in sistema
perfettamente competitivo, l’effetto di un minor ritorno nei confronti degli investitori
comporterebbe la riduzione delle vendite nei mercati in cui l’impresa non ha una
stabile organizzazione, in quanto supponendo che il capitale sia mobile e quindi sia
facilmente “shiftabile” tra imprese e Stati, gli equity investors sposterebbero i propri
investimenti fuori dalla produzione di beni e servizi digitali (sempre dalle giurisdizioni
in cui non siano presenti stabili organizzazioni) e altri competitors prenderebbero
quella fetta di mercato lasciata vuota. Naturalmente, affinché ciò avvenga, è necessario
che lo spostamento del capitale di investimento sia significativo. Conseguentemente
alla riduzione di offerta di beni e servizi, l’impresa ridurrà anche la forza lavoro,
proprio in ragione della minore necessità di personale dovuta alla riduzione della
produzione. Infine, in correlazione con la diminuzione dell’offerta, è lecito aspettarsi
anche un incremento dei prezzi, dovuto in parte anche alla diretta imputazione ai
consumatori di parte dell’imposta sui prodotti, relativi allo scambio del bene ceduto o
servizio prestato. Nel caso, invece, di un mercato non perfettamente competitivo, in
cui le imprese non siano price-taker, ma price-setter, proprio in conseguenza del
potere di mercato da esse esercitate, si assisterà ad una maggiore capacità di
modulazione del prezzo dei beni e servizi offerti. In questa circostanza, posto che la
situazione del mercato determina un eccesso di profitto sulla percentuale di ritorno di
un mercato competitivo, le imprese saranno meno inclini a ridurre significativamente
i capitali di investimento a lungo termine. Primariamente, quindi, il peso dell’imposta
sarà sopportato dagli investitori di equity capital del produttore straniero che non abbia
una stabile organizzazione nel Paese di consumo.
Con riguardo agli altri due tributi, gli effetti generati sia nel caso di un ambiente
perfettamente competitivo, sia nel caso di un ambiente non perfettamente competitivo,
saranno gli stessi appena descritti.171
La strada di una digital tax, quindi della proposta n. 3 dell’OCSE supra descritta,
sembra la più probabile172, non solo perché inserita nella trattazione internazionale
171 ibidem. 172 COSIMI, S., Digital tax, l’Ocse spiega come tassare i big del digitale, in Wired, 6 ottobre 2015.
90
dell’organizzazione parigina, ma anche perché, come descritto infra nel successivo
capitolo, molti Stati si stanno autonomamente muovendo in quella direzione; la
soluzione più efficacie, quindi sembra essere rappresentata dall’applicazione di una
ritenuta alla fonte sulle transazioni digitali. Le ragioni di una tale scelta sono mosse
dall’assunto «che, nell’ambito della web economy, è oramai possibile penetrare in un
mercato locale, senza dover necessariamente mantenere una presenza fisica nel
singolo Paese, tale da rendere tassabili in tale Stato i profitti dell’impresa digitale,
sulla base delle vigenti regole in tema di stabile organizzazione».173 A primo impatto,
l’ostacolo principale all’adozione di un tale provvedimento sarebbe costituito dalla
difficoltà di assoggettare a tassazione le cessioni di prodotti digitali effettuate
direttamente in favore dei consumatori finali, quindi le operazioni B2C, per
l’impossibilità di questi ultimi di fungere da sostituti d’imposta; la presunta barriera,
in realtà, è facilmente superabile in quanto in tutte le transazioni concluse attraverso
la rete internet, il pagamento come corrispettivo per la cessione del bene, avviene
attraverso canali tracciabili e attraverso l’intermediazione di un istituto finanziario.
Pertanto, l’unica soluzione finora individuata dall’OCSE per l’applicazione di tale
ritenuta alla fonte comporterebbe il coinvolgimento diretto delle istituzioni finanziarie
incaricate di regolare il relativo pagamento degli acquisti online a cui dovrebbe essere
affidato il compito di “tassare” le transazioni digitali, trattenendo una percentuale del
valore della transazione, per poi trasferire all’Erario il gettito derivante
dall’applicazione della ritenuta. Un sistema così congeniato permetterebbe facilmente
di applicare il tributo in maniera diretta, procedendo alla sua riscossione
immediatamente al momento del pagamento del bene o servizio scelto.
1.2. Action n. 2
Strumenti per l’eliminazione degli effetti dei c.d. Hybrid Mismatch
Arrangements174
Il tema in questione è stato ampiamente dibattuto in sede OCSE anche
173 ANTONACCHIO, F., La distribuzione di software esteri nelle nuove prospettive OCSE sull’economia digitale, in Il Fisco, n. 26, 30 giugno 2014, p. 2585. 174 Traduzione libera del titolo “Neutralising the Effects of Hybrid Mismatch Arrangements”.
91
precedentemente all’introduzione del progetto BEPS175, così come da altri organismi
internazionali176 in quanto ritenuto di fondamentale importanza nella lotta all’elusione
fiscale delle imprese multinazionali; l’insieme di strumenti che identifica, infatti,
costituiscono uno dei nodi centrali della difficile armonizzazione tra le normative dei
vari Paesi, tant’è che vengono considerati come l’ovvio risultato della mancanza di un
“paradigma legale” che unisca più giurisdizioni, la cui assenza «giace al cuore del
problema degli hybrid entity mismatch nel regime tributario internazionale».177
Gli hybrid mismatch arrangements ricomprendono una serie eterogenea di
elementi tutti accomunati dalla caratteristica di essere, per l’appunto, “ibridi”, e cioè
di subire un trattamento differente in differenti Stati. L’assunto di partenza, in questo
caso, è che lo stesso strumento giuridico abbia una diversa qualificazione a seconda
della giurisdizione che lo disciplina ovvero subisca un trattamento fiscale differente a
seconda dello Stato in cui viene tassato. Si differenziano tre “tipologie” di elementi
che possono rivestire tale qualifica
• strumenti, che diventano ibridi in quanto trattati in maniera differente in diversi
Stati (l’esempio più comune è quello in cui lo stesso strumento sia considerato
come capitale di prestito in uno Stato e come capitale di rischio in un altro178)
• entità, che possono essere trattate come trasparenti ai fini fiscali in uno Stato e
non trasparenti in un altro ovvero avere una doppia residenza, e cioè essere
considerate residenti ai fini fiscali in due Stati
• trasferimenti, e cioè accordi che sono disciplinati, ad esempio, come
trasferimento di proprietà di un asset in uno Stato e come prestito garantito in un
altro.
In altre parole, è ricompreso nella categoria qualsiasi accordo finanziario, entità
o trasferimento la cui disciplina fiscale sia differente secondo la legge di due o più
giurisdizioni.179
175 OECD, Hybrid Mismatch Arrangements, Paris, 2012; OECD, Corporate Loss Utilisation through Aggressive Tax Planning, Paris, 2011; OECD, Addressing Tax Risks Involving Bank Losses, Paris, 2010. 176 EUROPEAN COMMISSION, The internal market: factual examples of double non-taxation cases, documento di consultazione, Brussels, TAXUD D1 D(2012). 177 Così DE WILDE, M. F., Sharing the Tax Pie, taxing multinationals in a global market, Erasmus Universiteit Rotterdam, 2015. Traduzione libera. 178 op. cit. VALENTE, Elusione fiscale internazionale, p. 2026. 179 OECD, BEPS Action 2: Neutralise the Effects of Hybrid Mismatch Arrangements (Recommendations
92
Il Discussion Draft
L’OCSE, nel suo action plan, suddivide l’analisi del tema in due momenti: nella
prima parte viene fatto riferimento alle misure che sarebbero raccomandabili per la
legislazione interna degli Stati, mentre nella seconda parte evidenzia le criticità del
Modello di convenzione contro la doppia imposizione, ipotizzando le relative
soluzioni. Per quanto riguarda la prima parte, quella relativa alla domestic law,
secondo l’organizzazione internazionale, le raccomandazioni sono relative a tre
categorie di strumenti ibridi:
Hybrid financial instruments and transfers
Con tale definizione si indentifica qualsiasi accordo finanziario soggetto ad una
differente tassazione secondo le norme di due o più giurisdizioni tale che il pagamento
effettuato in relazione a tale accordo generi una incongruenza impositiva.
Lo schema più semplice, esemplificato dall’OCSE180, è quello appena
presentato. Si nota come la linea colorata identifica la separazione di giurisdizione cui
sono soggette le due imprese, collegate dal pagamento in conseguenza di uno
strumento finanziario genericamente identificato. La differenza di disciplina può
essere dovuta ad una serie ampia di ragioni. Un esempio può essere il caso di una
sussidiaria (società B) finanziata dalla società capogruppo (società A) mediante uno
strumento ibrido. Nello Stato B il finanziamento è trattato come debito, pertanto
«beneficia del regime di deducibilità degli interessi passivi».181 Viceversa, lo Stato A
for Domestic Laws), Paris, 2014, p. 19. 180 La fonte del grafico è il documento citato alla nota precedente, così come tutti i grafici successivi e relativi a questo sotto-paragrafo. 181 op. cit. VALENTE, Elusione fiscale internazionale, p. 2035.
93
considera il finanziamento come equity e pertanto «i relativi “frutti” sono fiscalmente
assimilabili ai dividendi»182.
Gli hybrid transfers, invece, vengono utilizzati dalle multinazionali per ottenere
credito per le imposte pagate all’estero.
Nell’esempio appena citato la società A vende le quote della propria sussidiaria
(la sussidiaria B) alla società B con l’accordo per cui, successivamente, riacquisterà
dette azioni ad un prezzo prestabilito. Tra la vendita e il riacquisto, la sussidiaria B
ottiene reddito, paga le tasse e distribuisce i dividenti alla società B. La società B è
considerata pertanto come proprietaria delle quote della sussidiaria B e titolare del
diritto di ottenere e trattenere i dividendi pagati dalla stessa su cui lo Stato B
tendenzialmente garantisce un qualche tipo di vantaggio fiscale (sia esso un credito,
un’esenzione o qualsiasi altro strumento). La società B considererà, poi, la vendita
delle quote alla società A «come una pura vendita di azioni e potrà essere esente dal
pagamento sula plusvalore secondo l’equity participation exemption ovvero una
generale esclusione per i capital gains».183
Hybrid entity payments
In questo caso un pagamento sarà considerato “ibrido” se è deducibile secondo
la disciplina di una giurisdizione (la giurisdizione sussidiaria) ed è presente una
circostanza per la quale tale pagamento può essere deducibile una seconda volta, come
nel caso in cui ad esempio nel caso in cui il payer non sia residente nella giurisdizione
182 ibidem. 183 op. cit. OECD, Action Plan n. 2, p. 21. Traduzione libera.
94
sussidiaria e la seconda deduzione gli derivi dalla disciplina dell’altra giurisdizione
ovvero il caso in cui il payer sia residente nella giurisdizione sussidiaria ma la seconda
deduzione sia ottenibile dall’investor in ragione della disciplina di un’altra
giurisdizione ovvero ancora il caso in cui il payer sia residente sia nella giurisdizione
sussidiaria sia in un’altra giurisdizione. L’operazione ricalca il seguente schema
Questo è uno degli schemi elusivi più utilizzati.184 In questo caso l’hybrid
mismatch permette una doppia deduzione a partire dal pagamento fatto dall’hybrid
payer che innesca tale doppia deduzione secondo la disciplina della parent
jurisdiction. Il caso più comune è quello in cui una sussidiaria ibrida sia trattata come
entità trasparente secondo le norme della giurisdizione dell’investor mentre sia trattata
come non trasparente secondo la giurisdizione in cui essa opera.
Reverse hybrids and imported mismatches
I tax mismatches possono essere anche generati da pagamenti effettuati verso
un’entità ibrida. In questo caso di parla di reverse hybrid entity in quanto l’entità è
considerata come non trasparente fiscalmente dalla controllante estera e come
trasparente fiscalmente nello Stato in cui ha sede.185 Lo schema di riferimento è il
seguente
184 op. cit. VALENTE, Elusione fiscale internazionale, p. 2031. 185 op. cit. OECD, Action Plan n. 2, p. 56.
95
Nell’esempio, la società A possiede tutte le azioni della società estera B;
quest’ultima società, poi, concede un prestito alla società C, residente in un terzo Stato.
La conseguenza fiscale è che a fronte di una deduzione degli interessi nello Stato C,
relativi al finanziamento ricevuto, lo stato B (che come visto considera la società B
come entità trasparente) considera i redditi del prestito soggetti tassazione nello Stato
A e lo Stato A (che come visto considera la società B come entità non trasparente)
considera i redditi relativi al prestito soggetti a tassazione nello Stato B. Pertanto, il
pagamento effettuato a beneficio della reverse hybrid entity genera deduzioni fiscali a
fronte di nessuna imposizione.
Ne deriva inoltre che da una struttura similare, non deriverebbe un mismatch
fiscale nel caso in cui il reddito venisse considerato come tassabile nel Paese in cui è
residente la società B ed è per questo che per ottenerlo è necessario generare una
presenza fiscale tale che la società B non possa essere oggetto di un’imposizione
fiscale.186 Un altro strumento molto utilizzato è il c.d. imported mismatch
arrangements il cui schema è il seguente
186 «Payments made through a reverse hybrid structure will not result in D/NI outcomes if the income is treated as sourced in the intermediary jurisdiction due to the intermediary maintaining a permanent establishment or some other form of taxable presence in that jurisdiction. In the cases of reverse hybrids, however, the intermediary will generally be structured so as to avoid having a taxable presence in its jurisdiction of establishment», op. cit., OECD, BEPS Action n. 2, p. 57.
96
In questo caso la società a concede un finanziamento alla società B tramite un
strumento finanziario ibrido; i pagamenti relativi all’operazione sono esenti nello Stato
A e deducibili nello Stato B. A sua volta, la società B concede un finanziamento alla
società C (come si evince ogni società ha sede in uno Stato differente); questo secondo
finanziamento è tassabile nello Stato B. I benefici fiscali che derivano da questa
operazione sono la deducibilità dei costi di tale operazione nello Stato C a fronte di un
non pagamento di imposte nello Stato A, per questo motivo le strutture di imported
mismatch vengono utilizzate per beneficiare dei vantaggi fiscali concessi da uno Stato
verso un altro Stato che non li concede.
Nella seconda parte del piano di azione, vengono evidenziate le modifiche da
apportare al Modello OCSE. Sono state ipotizzate alcune modifiche agli articoli sia
del Modello che del Commentario. Una prima ipotesi è quella di fare determinare di
comune accordo dalle autorità competenti la residenza di un’entità che ne possegga
più di una e prevedere che in assenza di questo accordo, tale entità non possa richiedere
benefici fiscali in nessuna delle due giurisdizioni. Una seconda ipotesi è quella di
creare una norma in tema di entità fiscalmente trasparenti per cui il reddito derivato da
o tramite un’entità o un accordo considerato totalmente o parzialmente trasparente
dalle norme di uno degli Stati contraenti «will be considered to be income of a resident
only to the extent that the income is treated as the income of a resident of that State».187
Queste discrepanze di trattamento tra Stati vengono utilizzate ad hoc da soggetti
187 op. cit., OECD, BEPS Action n. 2, p. 6.
97
contribuenti al fine di ottenere una doppia deduzione dei costi, ovvero una deduzione
e un’esenzione, ovvero ancora generare un credito di imposta in realtà indebito.
Per questo motivo, l’OCSE ha dedicato ampio spazio al problema, dal momento
che (come visto in maniera più accurata supra nel Capitolo Secondo) l’utilizzo di
queste strategie fiscali è molto comune tra le imprese multinazionali, che le
utilizzavano già a partire degli anni ’80; la stessa organizzazione internazionale
afferma che tali pratiche hanno un impatto negativo sua competitività, sull’efficienza,
sulla trasparenza e sulla correttezza delle imprese. 188
L’action plan n. 2, per quanto riguarda le soluzioni ipotizzate, prevede sia delle
raccomandazioni per la legislazione interna, sia delle modifiche al Modello di
convenzione contro la doppia imposizione. Lo sforzo dell’OCSE è stato quello di
disegnare delle norme che fossero chiare e automaticamente applicabili e che
permettessero di neutralizzare il tax mismatch senza particolari conseguenze
economiche. Inoltre tali norme dovrebbero essere ossequiose dei principi indicati
dall’OCSE stessa, come ad esempio, ma è ovvio, evitare la doppia imposizione
attraverso il coordinamento tra norme. Le norme pertanto dovrebbero essere applicate
e applicabili anche in coordinazione con le norme tributarie interne, senza che vi sia
conflittualità, oltre alla possibilità che siano coordinabili con norme specifiche o
generali anti-abuso. Per quanto riguarda l’aspetto della modifica dell’ordinamento
interno dei Paesi, si è dubitato in dottrina dell’effettiva portata di tali raccomandazioni,
non vincolanti per gli Stati, possano avere nel cambiamento della disciplina interna
della materia.189
Il Final Report
L’action plan n. 2 è suddiviso in due parti: nella prima, l’OCSE suggerisce una
serie di soluzioni tali che «gli Stati neghino la deduzione al contribuente per un
pagamento qualora quest’ultimo non sia incluso nel reddito tassabile del creditore
ovvero sia da esso deducibile».190 Inoltre, «qualora la regola non sia applicata [dalla
giurisdizione del debitore], allora l’altra giurisdizione può generalmente applicare
188ibidem, p. 4. 189 POPA, O., Hybrid Entity Payments – Extinct Species after the BEPS Action Plan, in IBFD European taxation, settembre 2014, p.411 190 OECD, Action Plan n.2, Neutralising the Effects of Hybrid Mismatch Arrangements – Final Report, Paris, 2015, p. 13. Traduzione libera.
98
una norma difensiva, richiedendo che l’importo deducibile sia incluso nel reddito
ovvero negando la doppia deduzione, in relazione alla natura della discrasia
normativa».191 Così facendo, si tenta di eliminare alla radice la possibilità che i
contribuenti di uno Stato si approfittino di tali strumenti ibridi per sottrarsi
completamente alla tassazione in entrambi i Paesi. La seconda parte del rapporto, poi,
si pone come obiettivo quello di «assicurarsi che le entità e gli strumenti ibridi, al pari
delle entità con doppia residenza, non siano utilizzate indebitamente per ottenere i
benefici dei trattati bilaterali e che tali trattati non prevengano l’applicazione di
cambiamenti nella legislazione locale raccomandati nella prima parte».192 Il final
report non aggiunge niente alla disciplina elencata nella bozza di discussione,
specificano comunque che tutte le giurisdizioni dovrebbero introdurre nei propri
ordinamenti tale disciplina e che tra di loro, gli Stati, dovrebbero cooperare per
assicurare che tali norme siano implementate e applicate in maniera costante ed
efficace.
1.3. Action n. 3
Stabilire regole per le CFC (controlled foreign companies) più efficaci193
A livello internazionale il problema posto dalle società controllate non residenti
si pone in un quadro normativo complesso, poiché, se è vero che per ciò che riguarda
la trasparenza nello scambio di informazioni tra Paesi la comunità internazionali si sta
muovendo nella direzione di limitare il potere dei c.d. paradisi fiscali, per ciò che
riguarda il loro uso nella tax avoidance, la lotta rimane affidata alle singole
giurisdizioni, le quali hanno stabilito delle regole peculiari per la disciplina delle CFC.
Più sostanzialmente, l’operazione di «[riclassificazione] dei bilanci e [attrazione] a
tassazione in capo al soggetto nazionale tutto o parte del reddito prodotto dalla filiale
estera collocata in paesi a fiscalità privilegiata rimane un procedimento poco efficace
e farraginoso».194 L’approccio alla disciplina, quindi, non è univoco, generale, ma
191 ibidem. Traduzione libera. 192 ibidem. Traduzione libera. 193 Traduzione libera del titolo “Designing Effective Controlled Foreign Company Rules”. 194 BIASCO, S., I danni della concorrenza fiscale in Europa, in Rassegna tributaria, n. 1, gennaio-febbraio 2015, p. 125.
99
implica l’interpretazione della disciplina da parte dei singoli Paesi, con la conseguente
generazione di complicazioni amministrative e incertezze di dimostrazione probatoria.
Il Discussion Draft
In questo contesto, quindi, l’OCSE ha tentato di analizzare le posizioni più
critiche sul tema e proporre una serie di soluzioni che permettano di regolare in
maniera più omogenea la disciplina di un istituto, come quello delle controllate
straniere, che si presenta come elemento nevralgico della pianificazione fiscale
aggressiva. Tali raccomandazioni, «sono disegnate per assicurare che le giurisdizioni
che scelgono di implementarle abbiano delle regole che effettivamente impediscano
ai contribuenti di spostare il reddito verso sussidiarie straniere».195 Per fare ciò,
l’OCSE individua sei “blocchi” sui quali incentrare la disciplina delle CFC.
Definizione di CFC
La disciplina CFC generalmente si applica alle società non residenti controllate
da imprese site in una giurisdizione differente. Il report stabilisce una serie di
raccomandazioni su come determinare quando la controllante ha sufficiente influenza
su di un’impresa straniera e quando essa è qualificabile come CFC. Stabilisce inoltre
raccomandazioni su come le non-corporate entities e i loro redditi debbano essere
integrati nella definizione di CFC. Uno dei problemi legati alla definizione delle CFC
è che, nonostante che, anche a tenore dell’acronimo, la sua disciplina dovrebbe essere
propria solo delle società, molte nazioni hanno una definizione più ampia di quali tipi
di entità possano essere considerate CFC; infatti, spesso tali definizioni comprendono
trusts, partnership e stabili organizzazioni. Questa scelta legislativa si giustifica con il
timore delle Amministrazioni finanziarie che le imprese possano eludere
l’applicazione della disciplina delle CFC semplicemente cambiando la forma legale
delle proprie controllate. È da notare, comunque, che queste differenti entità sono
considerate delle CFC soltanto in determinate circostanze.196
Requisiti per l’esenzione CFC
La disciplina CFC spesso si applica solo dopo l’applicazione di talune
previsioni, come il possesso di determinati requisiti anti-elusione o l’appartenenza ad
195 OECD, Action Plan n. 3, Designing Effective Controlled Foreign Company Rules – Final Report, Paris, 2015, p. 11. Traduzione libera. 196 OECD, Action Plan n. 3, Strengthening CFC Rules – Discussion Draft, Paris, 2015, p.15.
100
una soglia de minimis. Il report raccomanda che si applichino le norme sulle controlled
foreign companies solamente nel caso in cui dette imprese siano soggette ad un regime
impositivo effettivo che sia significativamente più basso di quello applicato nella
giurisdizione della controllata.
Definizione di reddito
Alcune norme di disciplina delle CFC (al contrario di altre che prevedono
l’applicabilità a tutti i tipi di reddito) possono essere applicate soltanto a determinate
categorie di ingressi. Il report raccomanda che la disciplina includa una definizione di
reddito CFC e provveda a stilare un elenco di “approcci” in cui tale definizione possa
essere utilizzata.
Computazione del reddito
Il report raccomanda che la norma di disciplina usi le regole della parent
jurisdiction per computare il reddito delle CFC alle controllate. Raccomanda inoltre
che le perdite di tali entità possano essere compensate solo dalle entità stesse o da altre
residenti nella stessa giurisdizione.
Attribuzione del reddito
Il report raccomanda che, ove possibile, la soglia di attribuzione sia legata alla
soglia di controllo e che l’ammontare del reddito da attribuire sia calcolato in relazione
alla proporzione di proprietà o di influenza della controllante.
Prevenzione ed eliminazione della doppia tassazione
Uno dei problemi di policy fondamentale da considerare al momento di
affrontare la disciplina CFC è quello di assicurare che tali norme non portino alla
doppia tassazione. Il report enfatizza l’importanza sia di prevenire che di eliminare la
doppia tassazione e raccomanda, ad esempio, che le giurisdizioni che conoscono la
disciplina CFC consentano di computare a credito le tasse effettivamente pagate in
altre giurisdizioni.
Infine, viene specificato come tutte le raccomandazioni siano redatte in maniera
tale da non risultare incompatibili con la normativa comunitaria, al fine di poter essere
liberamente implementate dagli Stati membri dell’Unione.
Il Final Report
Richiamando l’analisi effettuata sulle premesse relative alla disciplina delle
controlled foreign companies, verranno qui di seguito sviluppati gli esiti del lavoro
101
dell’OCSE relativo all’action plan n. 3, che proprio del tema si occupa.
Definizione di CFC
L’OCSE, in tema di definizione di CFC raccomanda che le norme di controllo
siano orientate sia a criteri legali che economici. Le entità trasparenti non dovrebbero
essere considerate come controllate straniere nella misura in cui il loro reddito sia già
tassato nella parent jurisdiction su base corrente. Comunque, se un’entità trasparente
produce reddito che fa sorgere dubbi di BEPS e non è tassata nella parent jurisdiction,
allora le norme CFC possono essere applicate di una delle seguenti maniere: primo, la
disciplina può considerare l’entità trasparente come CFC per assicurare che il reddito
non sia esente da imposizione a causa del differente trattamento nella giurisdizione
della controllata, secondo, la disciplina può assoggettare il reddito di un’entità
trasparente che era di proprietà di una CFC per tassare come reddito da controllata non
residente per evitare che la controllata stessa non sposti i profitti verso l’entità
trasparente per eludere la disciplina.
Nel caso, poi, delle stabili organizzazioni, in due circostanze è possibile
assoggettarle alla disciplina delle controlled foreign companies: nel primo caso, si
tratta delle situazioni in cui un’entità non residente abbia una stabile organizzazione
nel territorio di un altro Stato, nel secondo, si tratta della situazione in cui, per la parent
jurisdiction, il reddito della CFC non sia tassabile. Un ulteriore caso riguarda il modo
in cui trattare la pianificazione fiscale ibrida nei casi in cui la caratterizzazione degli
strumenti e delle entità della disciplina della parent jurisdiction risulti nei pagamenti
che altrimenti potrebbero essere attributi alla disciplina delle CFC ed ivi essere
ignorate. Le soluzioni a questo problema potrebbero essere che
- il pagamento non è incluso nel reddito delle CFC
- il pagamento potrebbe essere incluso nel reddito delle CFC nel caso in cui la
parent jurisdiction classifichi le entità e gli strumenti allo stesso modo dell’altra
giurisdizione
Requisiti per l’esenzione CFC
I criteri, secondo l’OCSE, cui gli Stati dovrebbero uniformarsi in tema di
esenzioni dalla disciplina e requisiti minimi per l’accesso alle esenzioni, sono di tre
tipi e verranno qui di seguito analizzati
- Impostare un regime de minimis al di sotto del quale le norme CFC non trovano
102
applicazione
In realtà, al fine di rendere le norme CFC più mirate, molte giurisdizioni già
prevedono un regime de minimis, il quale però è potenzialmente suscettibile di
elusione attraverso le operazioni di c.d. “frammentazione” delle imprese del gruppo, e
cioè l’operazione mediante la quale le multinazionali dividono i loro profitti tra una
moltitudine di sussidiarie, ognuna delle quali si trova al di sotto della soglia prevista
dalla norma. Per evitare che ciò accada, vengono previste delle norme di salvaguardia
dell’applicazione della soglia de minimis, che si sostanzia in una norma anti-elusiva,
che viene pertanto caldamente raccomandata dall’organizzazione internazionale nel
caso in cui la disciplina di un Paese non solo non preveda specifiche regole CFC, ma
le preveda senza l’applicazione della anti-fragmentation rule.
- Un requisito anti-elusione che possa focalizzare le norme CFC in situazioni ove
ci sia un movente o un intento elusivo
Una soglia nell’applicazione di questa norma sarebbe soltanto l’assoggettamento delle
circostanze per cui una transazione o una struttura societaria siano in risultato di
un’elusione della norma CFC. Quindi, per così dire, l’organizzazione internazionale
in realtà non individua una soglia, al di là del caso evidente appena evidenziato, entro
cui applicare la normativa anti-elusiva.
- Un’esenzione nel caso in cui le norme CFC si applichino unicamente alle
controllate residenti in Paesi con un regime fiscale più favorevole di quello della
parent company
La maggior parte delle norme sulle CFC prevedono un’esenzione di imposta oltre una
certa soglia. Le ragioni di una simile previsioni sono due: primo, questo approccio
indica che le norme si applichino solamente alle imprese che beneficiano di un regime
fiscale favorevole e pertanto sono soggetti a maggior rischio di profit shifting, secondo,
una focalizzazione sulle controllate non residenti low-tax può portare ad una maggiore
certezza per i contribuenti e ridurre in generale gli oneri amministrativi.
Definizione di reddito
Un elemento molto importante della disciplina delle CFC è legata alla
definizione di reddito. Le normative in tema attualmente vigenti in molti Paesi
tendenzialmente qualificano il reddito in cinque categorie differenti, associando ad
ognuna di esse un trattamento normativo differente, con il fine specifico di evitare la
103
nascita di BEPS concerns. In particolare: per la categoria dei dividendi, la tendenza è
quella di considerarli sempre come reddito puramente passivo; per gli interessi, data
la loro forte utilità nel caso di schemi fiscali elusivi, è necessario che le norme che li
definiscono non attribuiscano alle entità capitalizzate reddito per il solo fatto che
l’entità stessa debba mantenere un certo livello di capitale per propositi non fiscali; per
quanto riguarda il reddito da assicurazione, stante anche qui la particolare utilità in
caso di pianificazione fiscale aggressiva di tale strumento, è necessario che le norme
CFC siano dotate di restrizioni in termini di rischio e capitale per evitare una possibile
distorsione nell’utilizzo dello strumento; per quanto riguarda il reddito da vendite e
servizi, i potenziali problemi nascono in due casi: fatturazione e reddito da proprietà
intellettuale; a proposito di proprietà intellettuale, l’ultima categoria riguarda due
elementi che sono sempre risultati fondamentali per la determinazione delle
pianificazioni fiscali aggressive messe in atto dalle multinazionali, e cioè le royalties
e, per l’appunto, l’intellectual property; entrambi gli strumenti, per la loro natura di
intangible, sono facilmente manovrabili e manipolabili, oltre alla discussa e qui già
argomentata questione della determinazione del loro valore (transfer pricing e
principio arm’s length).
Computazione del reddito
In risposta al primo quesito posto dal tema in oggetto e cioè di quale giurisdizioni
si debba seguire la disciplina in materia di computazione del reddito, tra le opzioni
vagliate, l’OCSE raccomanda che si applichi la legge della parent jurisdiction che
sarebbe perfettamente coerente con il rischio di BEPS specialmente nel caso in cui le
norme CFC si concentrino sull’erosione della base imponibile nella parent
jurisdiction. Il secondo quesito riguarda invece il problema della limitazione
dell’imputazione delle perdite, al cui riguarda l’OCSE ritiene necessaria la previsione
di una norma che a priori prevenga l’utilizzo delle CFC per ridurre la base imponibile
della società nella parent jurisdiction.
Attribuzione del reddito
Le raccomandazioni dell’OCSE su questo tema vengono affrontate tramite
alcuni quesiti posti direttamente nel final report. Alla domanda “a quale contribuente
deve essere attribuito il profitto?” l’organizzazione internazionale risponde che nelle
giurisdizioni che applicano la concentrated ownership rule, il profitto è generalmente
104
attribuito non soltanto al contribuente che supera la soglia di controllo, ma anche a
tutti gli altri contribuenti residenti che, del controllo, mantengano una certa quota (ad
esempio il 10%). D’altronde la disciplina CFC potrebbe prevedere una differente
regolazione, e cioè che l’attribuzione del profitto possa toccare anche i soggetti che
abbiano effettuato un investimento minore nell’impresa. La seconda domanda a cui
l’OCSE risponde in tema di attribuzione del reddito è “quanto profitto deve essere
attribuito?” Fermo restando che la somma delle quote di attribuzione non può superare
il 100%, è possibile che le norme di disciplina delle CFC prevedano l’attribuzione
sulla base del valore delle proporzioni nell’ultimo giorno dell’anno ovvero prevedano
l’attribuzione sulla base del periodo del possesso delle quote. Il final report, infine,
riconosce come vi siano alcune norme la cui priorità è condivisa dalla maggior parte
degli Stati, mentre per altre, stante la differenza di obiettivi politici a breve termine, la
tempistica potrebbe non sempre essere parallela. Per questo motivo, e cioè per la
ragione per cui le varie giurisdizioni possono avere priorità differenti sulla tempistica
di attuazione delle norme ipotizzate, le raccomandazioni sono dotate di flessibilità
affinché non vi siano ulteriori ostacoli tra l’approvazione delle stesse e l’agenda
politica di un Paese.
1.4. Action n. 4
Limitare il BEPS attraverso la deduzione degli interessi e altri strumenti
finanziari197
Che il denaro sia un bene mobile e fungibile è un’affermazione scontata e banale.
Così come lo è il fatto che le imprese multinazionali possano facilmente raggiungere
obiettivi di vantaggio fiscale facilmente attraverso l’aggiustamento del debito
societario tra le imprese del gruppo. Anche in questo caso, una simile pratica non è
appannaggio esclusivo delle multinazionali digitali, ma si configura come una pratica
comunemente utilizzata dai grandi gruppi operanti nei più disparati settori. L’estrema
volatilità dell’oggetto dello scambio, però, rende tali operazioni particolarmente
“sospette”, spesso mascherando un tentativo di risparmio di imposta più che una reale
197 Traduzione libera del titolo “Limiting Base Erosion Involving Interest Deductions and Other Financial Payments”.
105
ragione commerciale. Per questo motivo il quarto piano d’azione dell’OCSE è
incentrato sulla modifica della disciplina della deducibilità dei pagamenti degli
interessi o di altri pagamenti finanziari.
Il Discussion Draft
Gli strumenti finanziari costituiscono la base del mercato globale da ormai
decenni e soprattutto negli ultimi anni costituiscono il fondamento assoluto
dell’economia mondiale198, è impensabile poter eliminare del tutto tali strumenti ed è
per questo motivo che l’OCSE si prefigge l’obiettivo di contrastare tutte quelle
operazioni finanziarie citate considerate “eccessive”, affermando che «l’influenza
delle regole fiscali sull’allocazione del debito all’interno di gruppi societari
multinazionali è stato sancito da un numero rilevante di studi accademici ed è fatto
noto che i gruppi possano facilmente moltiplicare il livello del debito al livello di
singole entità del gruppo attraverso il finanziamento infra-gruppo. Gli strumenti
finanziari possono essere utilizzati anche per effettuare pagamenti economicamente
equivalenti agli interessi ma con forma legale differente, in modo tale da sfuggire alle
restrizioni sulla deducibilità degli interessi».199
Il Final Report
Lo scopo ufficiale del quarto action plan era quello di «identificare soluzioni
coerenti e consistenti nei confronti del base erosion and profit shifting attraverso
l’utilizzo degli interessi o dei pagamenti economicamente equivalenti agli
interessi».200 Per raggiungere lo scopo, l’OCSE identifica una serie numerosa di
soluzioni, elencate nel seguente schema e successivamente singolarmente analizzate.
198 Come pionieristicamente ipotizzato dalla dottrina tra le più illustri del nostro Paese, mi riferisco in particolare a GALGANO, F. – CASSESE, S. – TREMONTI, G. – TREU, T., Nazioni senza ricchezza, ricchezze senza nazione, Bologna, 1993. 199 OECD, Action Plan n. 4, Limiting Base Erosion Involving Interest Deductions and Other Financial Payments – Final Report, Paris, 2015, p. 13. Traduzione libera. 200 op. cit. OECD, Action Plan n. 4, p. 27. Traduzione libera.
106
Regime monetario de minimis per la rimozione delle entità a basso rischio
L’OCSE considera appropriato, stante la finalità di limitazione del meccanismo
BEPS nelle multinazionali, di instaurare una soglia minima di “rischio” al quale
assoggettare la disciplina della deducibilità degli interessi. Sotto una certa soglia,
quindi, tali imprese verrebbero escluse dalla c.d. fixed ratio rule o dalla c.d. group
ratio rule, con benefici anche in termini di costi di compliance e di gestione. La soglia
dovrebbe seguire dei criteri ben determinati e dovrebbe essere basata sul totale degli
oneri finanziari netti di tutto il gruppo locale. In correlazione con questa previsione,
gli Stati dovrebbero inserire una anti-fragmentation rule per prevenire gli abusi dovuti
alla frammentazione delle attività per far rientrare tutte le sussidiarie (per lo scopo
frammentate) sotto la soglia di applicabilità della norma. Una soglia de minimis basata
sulle spese nette per gli interessi dovrebbe essere relativamente semplice da applicare
e assicurerebbe che le entità highly-leveraged siano obbligate ad applicare una regola
generale di limitazione dell’interessa a prescindere dalla loro dimensione.
Regola della fixed ratio
Questo tipo di regolamentazione può essere applicata a tutti i tipi di entità, quindi
sia gruppi multinazionali, che compagnie nazionali, che entità autonome. La base di
107
riferimento della fixed ratio è determinato dal Governo di un Paese e si applica
indipendentemente dal livello di leverage dell’entità o gruppo. Gli interessi pagati nei
confronti di parti terze, parti correlate o entità del gruppo sono deducibili fino alla
soglia della fixed ratio, mentre qualsiasi interesse che porti la ratio dell’entità sopra la
soglia limite non è permesso. Uno dei punti di maggior valore di questa regola è la sua
semplicità. Risulta, infatti, di facile applicazione sia per le imprese che la devono
applicare, sia per le Amministrazioni finanziarie che la devono gestire. D’altro canto,
però, una regola di rapporto fisso non tiene conto del fatto che i gruppi operanti in
diversi settori possono richiedere diverse quantità di leverage, e questo anche nel caso
in cui vengano adottate diverse strategie di finanziamento per motivi non fiscali.
Rispetto alla determinazione del valore di questa soglia, l’OCSE propone la
limitazione della deduzione netta per gli interessi e i pagamenti ad essi equivalenti ad
una percentuale degli stessi e nel riconoscere che «not all countries are in the same
position», l’OCSE ipotizza una forbice compresa tra il 10 e il 30%.201
Regola della group ratio
Uno dei limiti della regola del rapporto fisso è che essa non tiene (e per natura
non può tenere) conto del fatto che all’interno di un gruppo, nei diversi settori, sia
necessario un leverage differente. La regola del rapporto fisso, però, non
permetterebbe di dedurre le spese per gli interessi da prestiti di terze parte oltre la
soglia fissata. Per questo motivo, l’OCSE raccomanda che gli Stati introducano, a
supporto della fixed ratio, un’altra norma, denominata group ratio. Questa regola del
rapporto per il gruppo permetterebbe all’entità di un gruppo di dedurre le spese nette
per gli interessi anche qualora essi superino la soglia stabilita dalla fixed ratio, sulla
base del rapporto finanziario globale del gruppo. La combinazione di entrambe le
norme permetterebbe di mantenere l’efficacia della fixed ratio, per il contrasto al
fenomeno BEPS e permettere comunque al gruppo di operare delle compensazioni
sulle limitazioni dalla fixed ratio imposte.
Regole specifiche per il supporto della disciplina della limitazione generale
degli interessi e nei confronti di rischi specifici
Con l’espressione “targeted interest limitation rules” si intende qualsiasi tipo di
201 ibidem. Traduzione libera.
108
provvedimento che possa limitare la deducibilità di un interesse per un pagamento
effettuato sotto una specifica transazione. Tal fatto potrebbe porsi in contrasto con le
già analizzate fixed ratio rule o group ratio rule, che impongono un limite generale
alla deducibilità degli interessi per “entità”. Un numero rilevante di Paesi, ancora non
è dotato di una norma di contrasto alla deducibilità degli interessi, e il tal fatto incide
negativamente dal momento in cui la loro previsione riduce il rischio che una norma
possa incidere negativamente sulle entità che siano già correttamente capitalizzate e
evita che i gruppi siano incentivati ad accrescere il livello spese nette per interesse
delle loro entità locali fino al livello permesso dalla fixed ratio rule. L’OCSE elenca
una serie di soluzioni a problemi relativi alla deducibilità degli interessi in relazione
alle due regole sopra citate, dimostrando come «le regole specifiche possono
apportare ad effettive soluzioni per alcuni problemi legati al base erosion and profit
shifting».202
Regole specifiche per il contrasto ai problemi generati dai settori bancario e
assicurativo
Preliminarmente si osserva come il ruolo giocato dagli interessi nel settore
bancario o assicurativo sia distinto da quello di altri settori: per questi due istituti,
infatti, gli interessi costituiscono parte integrante della loro attività principale; va poi
tenuto in considerazione il fatto che nella maggior parte delle giurisdizioni le attività
puramente finanziarie sono soggette ad una rigida disciplina che regola in modo
minuzioso la struttura del capitale. Nonostante queste restrizioni, una serie di studi203
dimostrano come il leverage delle banche è influenzato dalle imposte societarie nella
stessa misura dei gruppi multinazionali di altri settori. Il fenomeno BEPS nell’ambito
assicurativo e bancario può assumere diverse forme, che la regola del rapporto fisso e
la regola del rapporto del gruppo non sono in grado di contrastare, per una serie di
ragioni, tra cui il fatto che i gruppi bancari e assicurativi sono fonti di finanziamento
del debito per i gruppi di altri settori; per tale ragione, ad esempio, le banche e le
assicurazioni sono soggetti che hanno più spesso a che fare con profitti da interessi
netti che non spese per interessi netti. Dal momento che le due regole sopra citate (fixed
ratio e group ratio) si applicano alle spese, non avrebbero alcun tipo di impatto sulle
202 op. cit. OECD, Action Plan n. 4, p. 73. Traduzione libera. 203 Si tratta dei lavori di KEEN e DE MOOIJ, 2012 e quelli di HECKEMEYER e DE MOOIJ, 2013.
109
entità all’interno di gruppi bancari o assicurativi. Gli studi per la disciplina delle
attività bancarie e assicurative devono svilupparsi evitando il conflitto con la disciplina
del capitale destinato a ridurre il rischio di una futura crisi finanziaria.
In conclusione, il final report prevede l’introduzione di una serie di norme,
quelle appena analizzate, volte a limitare la deducibilità degli interessi passivi, che
sono uno degli strumenti attraverso cui si attua il fenomeno del BEPS; l’OCSE inoltre
lascia aperta la possibilità di adottare nuove e differenti forme di disciplina, comunque
consigliando alle giurisdizioni che vogliano introdurre la fixed ratio rule o la group
ratio rule di permettere ai contribuenti coinvolti un lasso ragionevolmente ampio di
tempo per permettere loro di ristrutturare i vigenti accordi finanziari.
1.5. Action n. 5
Contrastare più efficacemente le pratiche fiscali “dannose”, aumentando la
trasparenza204
Riprendendo il report redatto nel 1998 sempre dall’OCSE, denominato Harmful
Tax Competition: An Emerging Global Issue, l’Action Plan n. 5 si concentra sul
problema delle c.d. pratiche fiscali dannose analizzandole dal punto di vista della
trasparenza.
Il Discussion Draft
Infatti, l’organizzazione internazionale concentra i suoi sforzi nello strumento
del scambio spontaneo di informazioni che potrebbero permettere una limitazione
delle pratiche di BEPS. L’OCSE individua sei categorie ritenute bisognose di una
regolazione per ottenere un contrasto efficace a tali pratiche, come ad esempio le
regole dettate specificamente per i c.d. regimi preferenziali, i c.d. APAs (advance
pricing arrangements), regolazione dell’aggiustamento dei profitti, regolazione
dell’istituto della stabile organizzazione, e più in generale ogni tipo di scambio la cui
assenza possa incrementare l’effetto di erosione della base imponibile a partire dallo
spostamento dei profitti.
Il Final Report
204 Traduzione libera del titolo “Countering Harmful Tax Practices More Effectively, Taking into Account Transparency and Substance”.
110
Questo specifico piano d’azione si concentra sulla lotta alle c.d. harmful tax
practices attraverso lo sviluppo del principio di trasparenza. Come precedentemente
visto, è incentrato su due punti fondamentali: una prima parte di “rimedi” è focalizzata
sul miglioramento della disciplina relativa ai regimi preferenziali, rafforzando i
requisiti della c.d. substantial activity; la seconda parte, invece, si prefigge l’obiettivo
di migliorare la trasparenza attraverso sei categorie di ruling.
Requiring substantial activity for preferential regimes
L’OCSE distingue in questa sezione dell’action plan tra requisiti nel caso di IP
regimes e non-IP regimes in quanto l’elemento di immaterialità della proprietà
intellettuale è un nodo controverso della lotta all’elusione fiscale internazionale e si
collega in maniera stretta alla determinazione di un’attività sostanziale per l’accesso
ai regimi preferenziali, in quanto la sua determinazione in questa circostanza è
maggiormente complessa. Nel caso quindi dei regimi preferenziali connessi con il
concetto di proprietà intellettuale, assume rilevanza in quanto essi costituiscono, per
loro caratteristica intrinseca, un’arma “a doppio taglio”: «I regimi che prevedono una
preferenza fiscale sul reddito collegata alla proprietà intellettuale aumentano i
problemi connessi con l’erosione della base imponibile (…). Allo stesso tempo, è
riconosciuto che l’industria della proprietà intellettuale è un fattore chiave della
crescita e dell’occupazione e che i Paesi sono liberi di prevedere incentivi fiscali per
le attività di ricerca e sviluppo (R&D)».205
Il Forum on Harmful Tax Practices ha determinato tre approcci possibili alla
necessità di un’attività sostanziale per l’accesso ai regimi fiscali preferenziali. Il primo
di questi approcci è relativo alla creazione del valore, il secondo è relativo al transfer
pricing ed il terzo è un approccio relativo alla connessione. Nel caso invece dei regimi
preferenziali non legati alla proprietà intellettuale, l’OCSE rileva che «le attività
principali in tema di non-IP regimes sono geograficamente attività mobili come quelle
finanziarie o altre attività di servizi. Tali attività possono non necessitare di alcun
legame con il reddito poiché le attività di servizio possono essere considerate come
un contributo diretto al reddito che riceva i benefici (fiscali, NdT)».206 Secondo
205 OECD, Action plan n. 5, Countering Harmful Tax Practices More Effectively, Taking into Account Transparency and Substance – Final Report, Paris, 2015, p. 26. Traduzione libera. 206 op. cit. OECD, Action Plan n. 4, p. 39. Traduzione libera.
111
l’OCSE, il regime preferenziale per la proprietà intellettuale dovrebbe essere limitata
ai brevetti e ai software dotati di copyright, oltre alla necessità di una stretta
correlazione tra il reddito qualificato (il per regime preferenziale) e l’attività principale
necessaria per l’ottenimento di quel reddito. Per quanto riguarda la seconda area di
sviluppo, quella relativa alla trasparenza fiscale, in determinati casi di ruling è previsto
lo scambio di certe informazioni, nel rispetto della procedura stessa, come contenute
nel modello incluso nel final report. Lo scambio di informazioni si applicherà non
soltanto ai nuovi accordi di ruling, ma anche a quelli siglati a partire dal 1° di gennaio
del 2010 e se ancora in vigore al 1° di gennaio 2014.
1.6. Action n. 6
Prevenire l’utilizzo degli strumenti dei trattati bilaterali in circostanze
inappropriate
La pratica di utilizzare le regole poste dai trattati contro la doppia imposizione
internazionale a fini di risparmio d’imposta è molto utilizzata dalle multinazionali.
Costituisce, ad esempio, uno dei punti cardini del c.d. Double Irish with Dutch
Sandwich già analizzato. Il fenomeno, più in generale, prende il nome di treaty
shopping, proprio a voler sottolineare come l’utilizzo degli strumenti inseriti nei vari
trattati bilaterali sia finalizzato unicamente al risparmio d’importa (nell’esempio
appena fatto, si sfruttano gli accordi in merito alla ritenuta alla fonte in caso di
pagamento di royalties stipulati tra Irlanda e Paesi Bassi).
Il Discussion Draft
L’OCSE, data la rilevanza del fenomeno, dedica un intero action plan al suo
studio. Configurandolo nella più ampia categoria del «treaty abuse», il report
individua tre aree di intervento su cui concentrare gli sforzi della comunità
internazionale e degli Stati singolarmente. Prioritariamente, viene rilevata
l’importanza dell’esistenza di una clausola anti-elusiva generale che sia al tempo
stesso sufficientemente flessibile per poter correttamente rispondere alle diverse
esigenze del mercato e delle imprese. Vi sono poi tutta una serie di operazioni, che
costituiscono un “campanello d’allarme” rispetto ad un tentativo di elusione fiscale,
su cui gli Stati dovrebbero porre particolare attenzione, come ad esempio alcune
112
transazioni di trasferimento di dividendi, i casi in cui un’entità sia residente in più di
un Paese o ancora i casi in cui una Paese renda esenti da imposte i profitti di una stabile
organizzazione. Viene sottolineata, da una parte, l’importanza di un’iniziativa
“personale” da parte di taluni Stati, finalizzata alla creazione nel diritto interno di una
normativa generale anti-elusione e dall’altra, di apportare una serie di modifiche al
Modello OCSE.207
Il Final Report
Come analizzato nel paragrafo relativo del Capitolo Secondo, l’obiettivo di
questo action plan è quello di «prevent the granting of treaty benefits in inappropriate
circumstances»208 Per raggiungere tale obiettivo, l’organizzazione internazionale
identifica tre punti (denominati A, B e C) sui quali concentrare la propria azione.
Punto A
Il primo punto analizza il doppio caso in cui il contribuente tenti di aggirare le
limitazioni previste
- dal trattato in sé
- dall’ordinamento interno attraverso lo sfruttamento dei benefici previsti dai
trattati
nel primo caso, uno degli “stratagemmi” utilizzati per eludere l’imposizione fiscale è
attraverso lo strumento del c.d. treaty shopping, che si sostanzia nel beneficiare della
disciplina che uno Stato prevede per i soggetti residenti, senza però effettivamente
esserlo. Al fine di contrastare questo tipo di pratica, l’OCSE raccomanda questo tipo
di provvedimenti
1. lo Stato contrante deve prevedere chiaramente uno strumento di contrasto alla
possibilità di sfruttare il fenomeno del treaty shopping,
2. lo Stato contraente deve disciplinare una regola specifica anti-abuso basata sulla
c.d. clausola della limitazione dei benefici (limitation-on-benefits clause, anche
detta LOB),
207 «Countries have therefore agreed to include anti-abuse provisions in their tax treaties, including a minimum standard to counter treaty shopping. They also agree that some flexibility in the implementation of the minimum standard is required as these provisions need to be adapted to each country’s specificities and to the circumstances of the negotiation of bilateral conventions». op. cit. OECD, Action Plan n. 6, p. 11. 208 op. cit. OECD, Action Plan n. 6, p. 15.
113
3. lo Stato contraente deve prevedere una normativa generale anti-abuso basata
sullo specifico fine di contrastare l’utilizzo scorretto di transazioni o strumenti.
Inoltre, il final report indica una serie di lavori ulteriori che sono necessari per
le finalità dell’action plan n. 6. Più in particolare, il riferimento è alle proposte
effettuate dagli Stati Uniti d’America per la modifica della LOB rule nel loro modello
di convenzione.209 V’è da dire, che le versioni finali della LOB rule e delle relative
modifiche al Commentario, verranno completate presumibilmente nella prima parte
del 2016.
1.7. Action n. 7
Prevenire l’elusione artificiale dello status di stabile organizzazione210
L’Action plan n. 7 è uno dei più rilevanti nel dibattito del contrasto all’elusione
fiscale nel mondo dell’economia, non solo digitale. Come visto, la definizione
“classica” di stabile organizzazione, così come proposta dal Modello OCSE all’art. 5
non permette di assoggettare a tale regime molte delle multinazionali digitali che
operano in svariati Paesi europei attraverso delle società controllate, che sono state
accusate di costituire “stabile organizzazione occulta”.211 Al centro dell’attenzione
delle Amministrazioni fiscali, ma anche dei media212, sono state talune controllate di
società multinazionali operanti nel settore digitale che, essendo registrate in Paesi a
fiscalità ordinaria, come Italia, Francia o Germania, non erano considerate parte del
processo produttivo, ma come mere agenzie di promozione pubblicitaria e marketing
209 Come visto al paragrafo 2.1. del Capitolo Primo, gli Stati Uniti d’America sono uno dei pochissimi Paesi a non utilizzare il Modello di convenzione bilaterale dell’OCSE; essi sono gli unici ad avere un personale Modello di convenzione contro la doppia imposizione, che applicano arbitrariamente con tutti gli Stati che vogliano disciplinare la materia fiscale, senza alcun tipo di negoziazione. 210 Traduzione libera del titolo “Preventing the Artificial Avoidance of Permanent Establishment Status”. 211 Nel nostro Paese, ma non è l’unico caso, la Guardia di Finanza ha aperto un’inchiesta nel 2007 nei confronti di Google, nella quale affermava che la controllata Google Italy s.r.l., formalmente una società di servizi, costituiva in realtà «stabile organizzazione della Google Inc. e della Google Ireland in aderenza a quanto previsto dall’art. 162 del TUIR e dall’art. 5 par. 5 del Modello OCSE». 212 Solo a titolo di esempio e solo per quanto riguarda la stampa italiana, si richiama a LA STAMPA, Google dribbla il fisco e risparmia 3 miliardi, 26 ottobre 2010; IL SOLE 24 ORE, Le norme Ocse in arrivo spingono i big al dialogo, 26 febbraio 2015; LA REPUBBLICA, Re del poker, baro col Fisco: 300 mln di redditi non dichiarati per PokerStars, 11 marzo 2015; CORRIERE DELLA SERA, Apple, chiusa indagine per maxi evasione fiscale, 23 marzo 2015.
114
(nel caso di Amazon come magazzino di stoccaggio) tali da configurare l’esenzione di
cui all’art. 5 par. 4 del Modello OCSE e pertanto non rientranti nella definizione di
stabile organizzazione e non soggette al pagamento delle imposte per la parte del
reddito prodotto in quel Paese.
Il Discussion Draft
A partire dall’analisi effettuata nel Capitolo Primo delle disposizioni in tema,
previste dal Modello OCSE, sia la dottrina che la stessa organizzazione internazionale
hanno ritenuto che fosse necessario modificare la disciplina della stabile
organizzazione per evitare che vi fosse la possibilità che le multinazionali (d’ora in
avanti anche MNEs213) sfruttassero tali norme a fini di elusione fiscale. In particolare,
si è sviluppato il fenomeno per cui le imprese hanno iniziato a frammentare
“artificialmente” le attività tra le diverse entità del gruppo214 al fine di qualificare
talune di esse come svolgenti attività “preparatorie o ausiliarie” e farle pertanto
rientrare nelle previsioni del paragrafo 4 dell’art. 5 del Modello OCSE che, per queste
e altri tipi di attività, esclude l’applicabilità della disciplina della stabile
organizzazione. Data la rilevanza del tema, in quanto costituente uno dei punti
fondamentali della lotta all’elusione fiscale internazionale delle multinazionali
digitali, è opportuno, prima di sviluppare un pensiero sull’analisi dell’OCSE, fare un
passo indietro e partire dal cuore normativo della disciplina della stabile
organizzazione.
Con riferimento alla tassazione delle imprese, in diritto tributario
internazionale215 si distingue tra
- impostazione sintetica, secondo cui la fonte del reddito coincide con la singola
unità presso la quale vengono svolte le attività produttive, attività che vengono
considerate parte di un un’unica categoria di reddito
- impostazione analitica, secondo cui ad ogni fattispecie reddituale viene
applicato un criterio di localizzazione o un altro tipo di trattamento differenziato
e autonomo, che può essere differente dal reddito di impresa.
213 Acronimo per Multi-National Enterprises, termine utilizzato nel linguaggio anglosassone. 214 op. cit., VALENTE, Elusione fiscale internazionale, p. 1104. 215 GAFFURI, A. M., La determinazione del reddito della stabile organizzazione, in Rassegna Tributaria, n.1/2002, p. 86.
115
Queste due impostazioni operano congiuntamente, in quanto la forza di
attrazione interagisce con i criteri di localizzazione e trattamenti differenziati. Tal fatto
determina che, con riguardo al reddito di impresa, è necessario mettere in atto
un’operazione a due binari: da una parte, i redditi vanno localizzati, dall’altra, è
necessaria la presenza di criteri di attribuzione del reddito così localizzato. Le diverse
giurisdizioni possono risolvere il problema dell’attribuzione dei redditi alla stabile
organizzazione secondo due diverse impostazioni generali:
- quello della forza di attrazione globale
- quello della forza di attrazione modificata
Il principio della forza di attrazione globale riconduce alla stabile organizzazione
tutti i redditi conseguiti dall’impresa non residente che siano stati localizzati
nell’ambito del territorio dello Stato, i quali restano così soggetti al regime impositivo
previsto per i redditi di impresa. L’applicazione di tale principio si giustifica in forza
della considerazione che la stabile organizzazione rivela un livello di penetrazione
economica paragonabile a quello che caratterizza l’attività di impresa svolta dai
soggetti residenti.216 Il principio della forza di attrazione modificata prevede invece
una distinzione tra i redditi che derivano effettivamente e direttamente dall’esercizio
dell’attività di impresa, che non sono quindi autonomamente considerati ai fini della
loro localizzazione ed attribuzione, e di redditi che non derivano effettivamente e
direttamente dall’esercizio dell’attività di impresa e richiedono, quindi, un’autonoma
considerazione ai fini della localizzazione e del trattamento impositivo.
Il Rapporto BEPS identifica una seria di strumenti attraverso i quali le
multinazionali riescono ad ottenere i benefici fiscali della c.d. doppia non imposizione.
Low taxed branch of a foreign company
È il caso in cui un’impresa costituita in un Paese a fiscalità ordinaria potrebbe
essere assoggettata ad una tassazione limitata sui redditi derivanti da finanziamento,
mediante la costituzione di un ramo d’azienda in un Paese a fiscalità privilegiata. Tale
sistema è attuabile «se il Paese in cui è localizzato l’head office prevede l’esenzione
per i redditi prodotti dalle stabili organizzazioni estere, sia in base alla legislazione
nazionale, sia in base ai trattati contro le doppie imposizioni applicabili».217 La stabile
216 VAN RAAD, K., Non discrimination in international tax law, Deventer, 1986, p. 125. 217 op. cit. VALENTE, Elusione fiscale internazionale, p. 1116.
116
organizzazione, poi, beneficerà di una tassazione nulla o prossima allo zero in virtù
della ridotta aliquota fiscale applicata dal Paese in cui è stata costituita ovvero grazie
ad una disciplina fiscale che non permette di assoggettare a imposizione le attività
poste in essere dalla “branch” in quanto non ritenute sufficientemente collegate con il
territorio.
Hybrid entities e hybrid financial instruments
Di cui si è già ampiamente argomentato supra al paragrafo 2.2. del presente
Capitolo.
Conduit company
Con questo termine si identifica la costituzione di una società, da interporre nella
catena societaria, al solo fine di ottenere dei benefici fiscali. Il mezzo attraverso cui è
possibile ottenere dei benefici fiscali è, naturalmente, il Modello OCSE. Può avvenire,
infatti, che lo Stato ove si scelga di costituire la società “da interporre nella catena”,
consenta su determinate operazioni, l’eliminazione o la riduzione della tassazione alla
fonte.218
Derivatives
Alcuni strumenti derivati possono essere utilizzati al fine di eliminare o ridurre
la tassazione alla fonte sui flussi di pagamento cross-border. Nel caso specifico delle
multinazionali digitali, poi, vi sono ulteriori elementi da aggiungere per avere un
quadro completo dei punti di attrito tra la normativa attuale e le attività economiche.
Al giorno d’oggi è prassi comune e quotidiana effettuare transazioni tra soggetti
residenti in Paesi diversi, all’istante, attraverso lo strumento di internet. E tutto ciò
siano esse transazioni B2B (business to business), B2C (business to consumer) ovvero
C2C (consumer to consumer). Giova ricordare, richiamando espressamente quanto già
dedotto in tema di peculiarità dell’economia digitale, la particolare situazione
derivante alla dematerializzazione dei beni e dei servizi che da queste compagnie
vengono offerti e la conseguente difficoltà di registrare una presenza fisica all’interno
del territorio in cui operano. Esse, infatti, non necessitano di una stabile
218 Questo meccanismo è uno degli elementi fondamentali, ad esempio, del più complesso Double Irish with Dutch Sandwich, una strategia di pianificazione fiscale ampiamente utilizzata dalle multinazionali, e in particolare dalle multinazionali digitali, oggetto di specifica analisi, supra, Capitolo Secondo, paragrafo 1.2.
117
organizzazione, così come disciplinata dagli artt. 5 e 7 del Modello di convenzione per
poter operare in un determinato territorio. L’OCSE, pertanto, ha elaborato una serie di
ipotesi per poter contrastare questo diffuso fenomeno di mancato gettito fiscale. In
particolare:
- modifica della disciplina di esenzione di cui al paragrafo 4 dell’art. 5, a fine di
evitare la sua applicazione per le imprese di determinati settori,
- creazione della controversa “significant digital presence”219, secondo cui il
collegamento con il territorio, nel caso di multinazionali digitali dovrebbe essere
differente,
- viene coniato anche il termine “virtual permanent establishment”220 termine con
il quale potrebbe farsi riferimento a tre soluzioni alternative
• virtual fixed place of business PE: che sarebbe configurabile quando una
società faccia ospitare il proprio sito internet da altra impresa sita in un
Paese straniero,
• virtual agency PE: consisterebbe nell’estendere la fattispecie dell’agente
ai casi in cui il contratto sia sottoscritto esclusivamente con mezzi
tecnologici,
• on-site business presence: potrebbe rinvenirsi nei casi in cui la società
estera fornisce “on-site services” nel luogo in cui si trova il consumatore.
Un’autorevole dottrina, comunque, ha rilevato che «un punto di rilievo del
progetto OCSE riguarda l’ipotesi di ampliare la nozione di stabile organizzazione,
per cercare di tassare i redditi in funzione del luogo in cui l’impresa ha una quota
significativa di mercato o dispone di attrezzature informatiche».221 Questo perché,
secondo la disciplina attuale, questi due elementi non vengono ricompresi nel novero
delle situazioni che sfociano in una stabile organizzazione, con conseguente mancato
introito tributario da parte dei Paesi in cui tali “non-stabili organizzazioni” hanno sede.
In particolare in tema di stabile organizzazione connessa con il problema delle
multinazionali digitali, si evidenziano problemi in materia di qualificazione, ad
219 op. cit. OECD, Action Plan n. 1 – Discussion draft, pp. 65-66. 220 ibidem. 221 RIZZARDI, R., La prima azione OCSE sul tema BEPS: la tassazione dell’economia digitale, in Corriere Tributario, fasc. 20, 2014, p. 1574.
118
esempio, di un server come stabile organizzazione, prevista in determinati casi dal
commentario OCSE.222 Tuttavia, l’introduzione di questa circostanza non ha convinto
parte della dottrina, la quale reputa che «the current understanding of the PE definition
leads to uncertainty and confusion. In particular, considering the development of
steadily smaller servers, neither the OECD Model nor the Commentary provides
certain guidance, the latter being just one aspect of the challenging taxation of server
operations».223
Acutamente, la medesima dottrina ha operato una riflessione molto più netta
rispetto a quanto ipotizzato dalla stessa OCSE e appena riportato, affermando che «as
long as the requirement of a fixed place of business remains within the definition, it
seems unlikely that amendments of other requirements (e.g. abolish/amend the
exemption for auxiliary services or amend the agent PE definition) may significantly
improve the critical issues related to business income taxation and affect the
jurisdiction of the source state, as described by the BEPS project».224 La soluzione
proposta dagli autorevoli accademici, consisterebbe nel creare «una nuova definizione
di stabile organizzazione basata sulla “presenza digitale” [la quale] può essere presa
in considerazione, essendo il linea con i principi generali del diritto tributario
internazionale».225
Il Final Report
Rispetto alle questioni sollevate dal Discussion Draft sulla stabile
organizzazione personale, invece, l’OCSE ha sviluppato quattro possibili cambiamenti
sul concetto di Agency PE così come disciplinato dal paragrafo 5 dell’art. 5 del
Modello di convenzione.
Proposta 1226
222 parr. 42.2-45.5 del Commentario al Modello di convenzione contro le doppie imposizioni. 223 HONGLER, P. – PISTONE, P., Blueprints for a New PE Nexus to Tax Business Income in the Era of the Digital Economy, in IBDF, working paper, 20 gennaio 2015, p. 12. 224 ibidem, p. 14. 225 ibidem, p. 23. Traduzione libera. 226 «Nonostante le previsioni dei paragrafi 1 e 2 dell’articolo di riferimento, qualora una persona operi in uno degli Stati contraenti in nome di un’impresa non residente e, in ragione di tale attività, si relazioni con persone specifiche in modo tale che i risultati della conclusione dei contratti avvenga - In nome dell’impresa, ovvero - In ordine al trasferimento della proprietà posseduta da tale impresa ovvero che tale impresa abbia il diritto di utilizzare, ovvero - In ordine alla fornitura di servizi da parte di detta impresa
119
La ratio della proposta risiede nell’impedire che l’esclusione della
qualificazione di tale attività come stabile organizzazione avvenga sulla base “del
soggetto vincolato dal contratto”. Le implicazioni di questa proposta sono molteplici.
Anzitutto, dal tenore della norma si evince che il trasferimento di proprietà
determinerebbe la nascita di una SO; in questo caso, la definizione di proprietà assume
un ruolo centrale nella qualifica o meno dell’attività di un soggetto sotto la disciplina
dell’art. 5. Il concetto in sé di proprietà, però, è molto ampio e viene pertanto da
chiedersi quale sia il “raggio d’azione” che l’organizzazione internazionale ha voluto
dare a tale nozione. Supponendo che la definizione che l’OCSE abbia voluto dare al
concetto di proprietà sia la più ampia possibile, la conseguenza di siffatta norma
sarebbe quella di far rientrare nella qualifica di stabile organizzazione «qualsiasi
trasferimento di proprietà attuata da chiunque tranne che dal proprietario legale
dell’impresa».227
La stessa dottrina muove una critica nei confronti della prima proposta
dell’OCSE, sulla base dell’assunto che la normativa proposta sia troppo stringente. Si
supponga che un commissionario offra servizi tecnici in proprio, ma in nome di
un’impresa, si potrebbe argomentare che non vi sia molta differenza con il caso in cui
un commissionario venda in proprio, ma in nome dell’impresa, dei prodotti.
«Tecnicamente, un commissionario di servizi non si distingue da un commissionario
per la vendita di prodotti. Se, tuttavia, questi servizi fossero forniti da una LRD
(Limited Risk Distributor), il trattamento fiscale sarebbe differente». 228
Il secondo punto di critica riguarda uno dei requisiti che la norma de iure
condendo pone, e cioè che tale disciplina sarebbe applicabile qualora l’agente «si
[interfacci] abitualmente con persone determinate in maniera che ciò risulti nella
conclusione del contratto».229 Una norma così formulata farebbe rientrare nella
si considererà che tale impresa abbia una stabile organizzazione in quello Stato a meno che l’attività posta in essere da tale persona rientri nelle esclusioni previste dal paragrafo 4 dello stesso articolo, poiché, qualora tali attività (quelle escluse), siano messe in atto attraverso un fixed place of business, quest’ultimo non sarà considerato come una stabile organizzazione dell’impresa non residente in nome della quale tale attività viene svolta». Traduzione libera. 227 PLEIJSIER, A., The Agency Permanent Establishment in BEPS Action 7: Treaty Abuse or Business Abuse?, in Intertax, 2015, Volume 43, Issue 2, p. 148. Traduzione libera. 228 ibidem. 229 OECD, Action Plan n. 7, Preventing the artificial Avoidance of PE status – Discussione Draft, Paris, 2014, p. 11. Traduzione libera.
120
fattispecie della stabile organizzazione anche il caso in cui il contratto sia concluso
dall’intermediario che abitualmente interagisca con una persona determinata, ad
esempio: se un agente tratta con il business director di un’impresa potenzialmente
cliente, e qualora attraverso tale scambio si arrivi alla conclusione di un contratto,
secondo le previsioni della prima proposta questo fatto determinerebbe l’insorgenza
di una stabile organizzazione.230
Proposta 2231
Tale proposta è similare alla prima, con la differenza che il termine supra
menzionato di “persone specifiche” non viene qui utilizzato. La proposta n. 2 è
maggiormente simile a quella attualmente utilizzata dal Modello, con la precisazione
che non è possibile evitare la qualifica di stabile organizzazione attraverso una
motivazione puramente formale.
Proposta 3232
La terza proposta utilizza la stessa espressione utilizzata nella Proposta 1, e cioè
il termine “specific persons”. A ben vedere il concetto qui utilizzato, “per conto e
rischio dell’impresa”, sostanzialmente, ha lo stesso significato di “in nome
dell’impresa”, come riportato precedentemente.
Proposta 4233
230 op. cit. PLEIJSIER, The Agency Permanent Establishment in BEPS Action 7, p. 149. 231 «Nonostante le previsioni dei paragrafi 1 e 2, ma subordinate alle previsioni del paragrafo 6, nel caso in cui una persona stia svolgendo un’attività in uno Stato contraente in nome di un’impresa e, così facendo, abitualmente concluda contratti, o negozi gli elementi materiali del contratto
- In nome dell’impresa - Per il trasferimento della proprietà, o garantirne il diritto d’uso di quell’impresa - Per la fornitura di servizi dall’impresa
Tale impresa si considera avere una stabile organizzazione in quello Stato in relazione a qualsiasi attività che la persona ponga in essere per l’impresa, a meno che l’attività di tale persona sia limitata a quelle menzionate nel paragrafo 4 ove, se esercitate tramite un fixed place of business, non lo renderebbero una stabile organizzazione sotto le previsioni di quel paragrafo». Traduzione libera. 232 «Nonostante le previsioni dei paragrafi 1 e 2, ma subordinate alle previsioni del paragrafo 6, nel caso in cui una persona stia svolgendo un’attività in uno Stato contraente in nome di un’impresa ove, per la natura del rapporto legale tra la persona e l’impresa essi sono in conto e costituiscono un rischio per l’impresa, allora si ha una stabile organizzazione in quello Stato in relazione a qualsiasi attività che quella persona ponga in essere per l’impresa, a meno che l’attività di tale persona sia limitata a quelle menzionate nel paragrafo 4 ove, se esercitate tramite un fixed place of business, non lo renderebbero una stabile organizzazione sotto le previsioni di quel paragrafo». Traduzione libera. 233 «Nonostante le previsioni dei paragrafi 1 e 2, ma subordinate alle previsioni del paragrafo 6, nel caso in cui una persona stia svolgendo un’attività in uno Stato contraente in nome di un’impresa e, così facendo, abitualmente concluda contratti o negozi gli elementi materiali del contratto, i quali, in virtù del rapporto legale tra la persona e l’impresa, sono in conto e rischio dell’impresa, quell’impresa si considera avere una stabile organizzazione in quello Stato rispetto a qualsiasi attività che quella
121
Anche questa proposta ha un forte legame con la definizione attuale di Agency
PE. Una persona che operi in nome di un’impresa e abitualmente concluda contratti,
già ricade nella qualifica di stabile organizzazione. La novità in questa proposta
riguarda il caso in cui una persona che negozi gli elementi materiali del contratto,
quindi senza materialmente poi firmare l’accordo, rientrano nella definizione di stabile
organizzazione. Va ricordato, comunque, come nel caso in cui un contratto sia
concluso tramite un intermediario che non abbia siglato formalmente un accordo legale
con l’impresa, l’impresa non risulta vincolata dal contratto.
Con riferimento al distorto utilizzo delle esenzioni di cui al paragrafo 4 dell’art.
5 del Modello di convenzione OCSE, che riguardano espressamente il caso delle
attività preparatorie ed ausiliarie, il final report non opera modifiche rispetto a quanto
ipotizzato nel discussion draft. Attraverso una nuova definizione del paragrafo 4
dell’art. 5 del Modello e degli artt. 21-30.4 del Commentario, l’organizzazione
parigina cerca di rendere inequivocabile la definizione di attività preparatoria o
ausiliaria, al fine di evitare l’abuso di questo strumento. I mezzi per raggiungere questo
scopo sono
- partire da una definizione più restrittiva del concetto di attività preparatoria o
ausiliaria (quindi le modifiche apportate al Modello)
- prevedere una serie esaustiva di esempi che possano chiarire in maniera più
completa e definitiva ciò che può o non può essere incluso nella definizione
(quindi le modifiche apportate al Commentario)
Infine, il report propone l’adozione del PPT (principal purposes test) elaborato
nel precedente piano d’azione, per il dialogo con le strategie che includano il c.d.
splitting-up dei contratti tra società dello stesso gruppo, oltre ad una regola
“automatica” tale che il tempo di permanenza nello stesso luogo, immobile o
installazione, sia, tra le società closely related, sommato per la verifica del
raggiungimento della soglia dei 12 mesi prevista dal paragrafo 3 dell’art. 5. In questo
modo, si impedisce che attraverso una fittizia “frammentazione” dell’attività
societaria, si eluda la qualifica di stabile organizzazione sfruttando per l’appunto la
persona ponga in essere per l’impresa, a meno che l’attività di tale persona sia limitata a quelle menzionate nel paragrafo 4 ove, se esercitate tramite un fixed place of business, non lo renderebbero una stabile organizzazione sotto le previsioni di quel paragrafo». Traduzione libera.
122
soglia temporale di permanenza minima di 12 mesi.
1.8. Actions nn. 8-10
Allineare i valori dei pagamenti infra-gruppo al reale valore del bene
scambiato234
Anche questo strumento, il c.d. transfer pricing, è uno dei più utilizzati dalle
multinazionali nella creazione di un piano fiscale che permetta loro di ridurre
l’imposizione fiscale delle società infra-gruppo residente in Paesi a fiscalità ordinaria
attraverso il trasferimento di intangibles che permettere di ridurre la base imponibile
di tali società. Tali procedure rientrano nel novero delle operazioni interne ai gruppi
multinazionali e costituiscono forse l’aspetto più controverso della questione relativa
al fenomeno del Base Erosion and Profit Shifting.
Tale argomento è stato oggetto di analisi dettagliata supra nel paragrafo dedicato
al Transfer Pricing, al quale pertanto qui espressamente si rimanda.
1.9. Action n. 11
Misurare e monitorare il fenomeno BEPS nel suo complesso235
Il presente piano d’azione si discosta dagli altri in quanto non prevede misure
per il contrasto al fenomeno BEPS, ma semplicemente offre un quadro analitico e
statistico del fenomeno. Viene stimata la dimensione e la portata del fenomeno,
elemento da cui partire per migliorare anche la disciplina degli istituti che lo
riguardano. Sicuramente, uno dei dati rilevati di maggiore importanza è la stima della
perdita di gettito fiscale globale dovuta a tali pratiche, che viene individuata nella
forbice del 4-10%, corrispondente a circa 100-240 miliardi di dollari americani.236
Il Discussion Draft
Questo report offre un quadro più generale dello stato e degli effetti dell’utilizzo
di strumenti BEPS nell’economia globale, in particolare, identificando una serie di
234 Traduzione libera del titolo “Aligning Transfer Pricing Outcomes with value creation”. 235 Traduzione libera del titolo “Measuring and monitoring BEPS”. 236 OECD, Action Plan n. 11, Measuring and monitoring BEPS, Paris, 2015, p. 15.
123
elementi che accomunano tutte le imprese che ricorrono, per ottenere un risparmio di
imposta, a tali strategie e verificando gli effetti che queste operazioni hanno,
statisticamente, sulla tassabilità e i profitti delle imprese multinazionali rispetto alle
imprese che operano solo localmente.
Più in particolare è stato verificato che
• La percentuale di profitto delle multinazionali controllate e residenti in
giurisdizioni a fiscalità privilegiata è più alta di quelle controllate residenti in
Paesi a fiscalità ordinaria: addirittura, è stato stimato dall’OCSE che tale
rapporto sia di 1 a 2, e cioè che il rate di profitto rispetto al fatturato delle
controllate residenti in Stati a bassa tassazione sia il doppio rispetto a quella delle
controllate residenti in Stati ad alta tassazione.237
• La percentuale effettiva di tasse pagate dalle grandi multinazionali è stimata
essere minore delle imprese similari che operino solamente nel proprio mercato
interno di un valore che oscilla tra 4 e 8,5 punti percentuali: tale differenza si
ritiene sia dovuta alla possibilità che hanno le multinazionali, per l’appunto, di
effettuare operazioni infra-gruppo per poter erodere la base imponibile delle
proprie controllate in giurisdizioni a fiscalità ordinaria.
• Gli investimenti diretti stranieri, nei Paesi in cui il rapporto tra tale dato e il
Prodotto Interno Lordo (d’ora in avanti anche PIL) è superiore al 200%, è
aumentato esponenzialmente. Inoltre, mentre nel 2005 il valore di tali
investimenti era 38 volte superiore al valore degli investimenti effettuati in Paesi
in cui il rapporto appena analizzato non era così alto, nel 2012 tale valore di
investimenti era 99 volte superiore.
• La separazione dei profitti tassabili dal luogo della creazione del valore è
particolarmente chiaro rispetto agli intangibles. Il fenomeno appare chiaro dal
momento in cui il valore delle royalties ricevute per la spesa in R&D in un
gruppo di Paesi a bassa fiscalità è sei volte più alto rispetto alla media di tutti gli
altri Paesi.
• Il debito è concentrato in misura maggiore nelle controllate delle multinazionali
situate in Paesi a fiscalità ordinaria e inoltre rapporto tra interessi pagati e reddito
237 ibidem, p.17.
124
per le controllate delle multinazionali, nei Paesi a fiscalità ordinaria è almeno 3
volte più alto rispetto a quelli pagati dalle altre controllate dello stesso gruppo.
Tutti i dati raccolti, se analizzati e interpretati correttamente, permettono di
comprendere come il fenomeno BEPS sia in rapida ascesa e come gli effetti che sono
da esso generati siano distorsivi dell’economia in più modi. Infatti, il proliferare di
comportamenti omogeneamente tendenti nella direzione di un risparmio fiscale
quantomeno “non etico”, determina una contaminazione della competizione tra
imprese e degli investimenti, oltre a causare un’ingerenza tra gli introiti fiscali degli
Stati, costretti a dover intraprendere costose ed inefficienti procedure di tax
engineering. A ciò si aggiunge il fatto che la quantità di dati in questo campo
disponibile è ridotta. Pertanto una delle raccomandazioni dell’OCSE è proprio quella
di aumentare la quantità di questi dati da parte delle amministrazioni fiscali dei vari
Paesi, per poter analizzare il fenomeno BEPS con maggiore completezza.
Il Final Report
Come già nel Capitolo Secondo accennato, nonostante la scarsità di informazioni
in possesso delle Amministrazioni finanziare e dell’OCSE, è stato possibile stilare un
quadro, risultato comunque preoccupante, della situazione fiscale delle multinazionali
in tema di base erosion and profit shifting. Pertanto, è comprensibile volontà degli
Stati intraprendere delle misure affinché siano disponibili più dati possibili che
permettano di monitorare e misurare, per l’appunto, il fenomeno BEPS. Non partendo
da basi statistiche certe, infatti, il contrasto a questo tipo di pratiche sarà sempre più
complesso, perché uno degli elementi che rende maggiormente difficile il compito dei
Governi e delle organizzazioni internazionali che si sono occupate del problema è
proprio la scarsità di informazioni in merito. L’action plan n. 11, infatti, ha proprio
come scopo, da una parte quello di mostrare i primi effetti dell’analisi dei dati
disponibili, attraverso il report measuring and monitoring BEPS, dall’altro quello di
sviluppare delle soluzioni che permettano di ottenere maggiori e più completi dati per
le successive analisi.
Rileva l’OCSE sul punto come «la limitazione dei dati attualmente disponibili e
gli attuali metodi di stima indicano che un miglioramento in tema di numero di dati e
strumenti è necessario se la comunità globale intende ottenere un’immagine più
chiara dell’impatto che ha il BEPS e monitorare più accuratamente l’efficacia delle
125
misure implementate nel progetto».238 L’organizzazione internazionale, poi, rileva
come il realtà le Amministrazioni fiscali già abbiano accesso a tutta una serie di dati
che sono però preclusi alla visione degli esperti statistici. Pertanto, in connessione con
i piani d’azione nn. 5, 12 e 13, l’OCSE spera di poter ottenere un più facile accesso a
questi dati per poter “misurare” in modo più accurato il fenomeno BEPS.
1.10. Action n. 12
Obblighi di mandatory disclosure239
Uno dei problemi fondamentali della lotta all’elusione fiscale ottenuta attraverso
il BEPS è la mancanza informazioni tempestive, fattore essenziale per la «risposta in
modo efficace ai rischi di erosione della base imponibile, attraverso interventi
sull’apparato normativo o l’implementazione di programmi di tax compliance».240 Le
giurisdizioni che prevedono la disclosure obbligatoria, permettono di ottenere risultati
migliori in termini di lotta all’evasione.
Il Discussion Draft
L’Action Plan n. 12, proprio in considerazione di tali premesse individua una
serie di elementi che gli Stati dovrebbero fare propri, più in particolare:
• l’introduzione di norme sulla disclosure obbligatoria, in grado di rispondere alle
esigenze specifiche di ciascun Paese;
• una attenta analisi degli schemi fiscali internazionali e dei benefici connessi alle
transazioni rilevanti.
Il piano d’azione prevede poi alcune “key design features” che l’OCSE ritiene
imprescindibili «al fine di disciplinare un regime di mandatory disclosure efficace»241.
Tali punti chiave sono: identificare il soggetto che effettua i reports, quali informazioni
tale documento debba contenere, in quale occasione si renda necessaria la stesura del
documento e le conseguenze della mancata stesura nel caso in cui essa fosse prevista;
al fine, inoltre, di poter attuare quanto appena previsto, l’OCSE raccomanda che gli
238 OECD, Action Plan n. 11, Measuring and Monitoring BEPS, Paris, 2015, p. 250. Traduzione libera. 239 Traduzione libera del titolo «Mandatory disclosure rules». 240 VALENTE, P., Pianificazione fiscale aggressiva: gli obblighi di disclosure, in Il quotidiano IPSOA, 8 aprile 2015, p. 2. 241 OECD, Mandatory Disclosure Rules, Paris, 2015, p. 10. Traduzione libera.
126
Stati
- impongano l’obbligo di dichiarazione sia per il promotore che per il
contribuente,
- includano una serie di caratteristiche la cui esistenza inneschi l’obbligo di
dichiarazione,
- stabiliscano un meccanismo che permetta di tracciare le dichiarazioni,
- introducano sanzioni per assicurare che vengano rispettati i precetti delle norme
così come stabilite.
Infine, viene evidenziata la rilevanza della trasparenza, definita uno dei tre pilastri del
progetto BEPS, sostenendo pertanto la cooperazione e lo scambio di informazioni tra
le amministrazioni finanziarie degli Stati.
Tali previsioni non sono state completamente accettate da parte della dottrina,
che ha ritenuto che «il pericolo di schemi di mandatory disclosure è che questi possano
scoraggiare il contribuente dal chiedere un consulto legale a causa delle conseguenze
tributarie (nella consapevolezza che qualsiasi consulto può dover essere divulgato), o
possa dissuadere dal fornire un consulto se il consulto stesso consiste nel suggerire
un percorso che debba [successivamente] essere divulgato».242 Secondo l’autore
queste circostanze potrebbe avere una «potenziale interferenza con il diritto alla
privacy e alla confidenzialità , e con il diritto a prestare e ricevere assistenza legale,
che crei problemi in qualsiasi sistema (giudiziario, NdT) che richieda una
divulgazione obbligatoria dei pareri dati al contribuente, anche nel caso in cui il
parere implichi i dettagli di uno schema di pianificazione fiscale. Per evitare
l’interferenza con questi diritti, tutte le proposte dell’OCSE dovrebbero essere
indirizzate unicamente verso i veri schemi di pianificazione fiscale aggressiva».243
Il Final Report
Nel rapporto finale l’OCSE specifica come gli Stati siano liberi di scegliere se
adottare o meno tale disclosure regime, posto che ciò che è previsto dall’action plan
n. 12 non costituisce uno standard minimo. Vengono poi inseriti i c.d. hallmarks, che
vengono utilizzati come testi per determinare quali tipi di accordi dovrebbero essere
242 BAKER, P., The BEPS Project: Disclosure of Aggressive Tax Planning Schemes, in Intertax, 2015, Volume 43, Issue 1, pp. 85-90. Traduzione libera. 243 ibidem. Traduzione libera.
127
divulgati, con la raccomandazione che sia un mix tra generici e specifici. L’OCSE
suggerisce inoltre l’introduzione di una soglia minima tale che gli hallmark test siano
operativi esclusivamente una volta superata tale soglia.
1.11. Action n. 13
Rendicontazione del transfer pricing e rapporti country-by-country244
Le pratiche di BEPS sono spesso incentrate, come visto, sul commercio infra-
gruppo di beni intangibili, con il relativo problema del prezzo dei trasferimenti che
non sempre può essere facilmente determinato. Inoltre, vi è una carenza di
documentazione relativamente a quanto prodotto dalle imprese multinazionali con
riferimento ad una mappatura completa delle operazioni infra-gruppo. A tal proposito
è stato rilevato come sia difficile per le Amministrazioni finanziarie «reperire le
informazioni sulla value chain globale dei gruppi multinazionali e la descrizione di
funzioni, rischi e assets con riferimento alle singole società del gruppo [e necessario]
adottare un approccio unitario in materia di documentazione sui prezzi di
trasferimento al fine di ridurre i costi di compliance per le imprese multinazionali».245
L’OCSE pertanto raccomanda l’adozione da parte degli Stati di tre misure volte a far
fornire alle amministrazioni fiscali dei vari Paesi, da parte delle stesse MNEs, una
documentazione il più possibile completa in merito agli scambi internamente avvenuti
e controllare così più facilmente il fenomeno del transfer pricing.
La prima di queste misure consisterebbe nell’obbligare le imprese multinazionali
a fornire alle amministrazioni finanziarie un master file contente informazioni di alto
livello in merito alle loro global business operations.
La seconda prevede la redazione di un local file, specifico per ogni nazione in
cui tali imprese operino, che identifichi le transazioni, l’ammontare monetario
coinvolto nell’operazione e le analisi effettuate dalla compagnia per la determinazione
dei prezzi di trasferimento relativi a tali transazioni.
Infine, alle multinazionali potrebbe essere richiesto di adottare un country-by-
country report da elaborare annualmente per ogni giurisdizione in cui abbiano attività
244 Traduzione libera del titolo «Transfer Pricing Documentation and Country-by-Country Reporting». 245 op. cit. VALENTE, P., Elusione fiscale internazionale, p. 618.
128
ed in cui vengano inseriti dati come i ricavi, il profitto prima della tassazione e
l’ammontare delle imposte pagate. Analizzati nel loro complesso, questi tre documenti
permetterebbero alle amministrazioni finanziarie di mostrare completamente la loro
posizione in termini di transfer pricing, la cui rilevanza, come più volte ribadita in
questo testo, è ormai fatto appurato nella lotta al fenomeno BEPS.
Il Discussion Draft
Il presente n. 13 è uno dei final report più importanti per il contrasto effettivo al
fenomeno del base erosion and profit shifting, poiché introduce per le imprese
multinazionali con un fatturato superiore ai 750 milioni di euro l’obbligo di presentare
alle Amministrazioni finanziarie, come appena visto, tre prospetti (files) di grande
importanza e utilità in merito alle operazioni infra-gruppo effettuate dal gruppo. Tali
prospetti vengono ora analizzati dettagliatamente dal punto di vista della
documentazione richiesta alle imprese.
Il primo di questi prospetti è denominato Master file e deve includere le seguenti
informazioni:
• Un primo elemento è denominato “Struttura Organizzativa”, in cui viene
richiesto un quadro raffigurante la struttura legale, le partecipazioni e
l’ubicazione geografica delle imprese componenti la multinazionale.
• Un secondo elemento viene denominato “Descrizione delle attività della
multinazionale”, che si presenta maggiormente complesso, in quanto non
soltanto viene richiesta una generale descrizione dei vari campi di azione
dell’impresa, ma anche una descrizione generale della policy in tema di transfer
pricing del gruppo in relazione agli intangibles e all’elemento R&D; una
descrizione della catena della domanda dei cinque beni o servizi più importanti
del gruppo per fatturato più ogni altro bene o servizio che contribuisca almeno
per il 5% al fatturato globale dell’impresa; la lista (con breve descrizione
annessa) degli accordi di servizio importanti tra i membri del gruppo oltre ai
servizi di ricerca e sviluppo, inclusa la descrizione delle funzionalità delle
principali aree che forniscono servizi di indiscutibile importanza e la policy sui
prezzi di trasferimento per l’allocazione dei costi di servizio e la determinazione
dei prezzi da pagare per i servizi infra-gruppo; una descrizione dei principali
mercati geografici dei beni e servizi offerti dall’impresa di cui al punto
129
precedente; una breve analisi funzionale descrittiva dei principali contributi alla
creazione del valore da parte delle entità individuali all’interno del gruppo; un
descrizione delle più importanti transazioni, acquisizioni e dismissioni occorse
nell’anno fiscale.
• Il terzo elemento riguarda gli intangibles e si presenta come un prospetto
contenente, in primis, una descrizione generale della strategia complessiva per
lo sviluppo, la proprietà e lo sfruttamento degli intangibles; inoltre, deve
contenere una lista degli intangibles o gruppi di intangibles che siano importanti
ai fini della disciplina dei prezzi di trasferimenti e quali entità del gruppo ne
siano legalmente proprietari; una lista degli accordi importanti tar imprese
associate e relazionate con gli intangibles, inclusi gli accordi di contribuzione
per i costi, gli accordi di servizi di ricerca e i contratti di licenza; una descrizione
generale della policy in tema di prezzi di trasferimento relazionato con gli
intangibles e il settore R&D; un descrizione di tutti i più importanti trasferimenti
di interessi tramite intangibles tra imprese associate nell’anno fiscale di
riferimento, includendo il nome delle entità coinvolta, le relative giurisdizioni,
oltre alla quantificazione della compensazione relativa.
• Il quarto elemento riguarda le attività finanziarie all’interno del gruppo, che
include una descrizione generale di come sia finanziato il gruppo, includendo gli
accordi finanziari più importanti con soggetti con il gruppo non correlati;
l’identificazione di tutti i membri del gruppo che svolgono funzioni di
finanziamento primarie per il gruppo, includendo il nome degli Stati sotto le cui
giurisdizioni l’entità sia organizzata e il place of effective management di tali
entità; una descrizione generale della policy in tema di prezzi di trasferimento
correlati con gli accordi di finanziamento tra società appartenenti allo stesso
gruppo.
• L’ultimo elemento del c.d. master file riguarda la posizione finanziaria e fiscale
del gruppo e deve contenere l’annuale rendiconto finanziario consolidato
dell’anno fiscale relativo al prospetto e una lista con breve descrizione degli
APAs (advance pricing agreements) stipulati dalla società e altri accordi fiscali
relativi all’allocazione dei profitti attraverso le giurisdizioni.
Il secondo documento che le multinazionali saranno tenute a fornire alle
130
Amministrazioni finanziarie è denominato, come visto, local file, ed è composto come
segue
• Local entity è il primo degli elementi che caratterizza il documento e deve
includere una descrizione della struttura di management dell’entità locale, una
carta sull’organizzazione locale e una descrizione degli individui a cui il local
management effettua i report e i Paesi in cui questi individui mantengono i
propri uffici principali; una descrizione dettagliata dell’attività e della business
strategy perseguita dall’entità locale, inclusa l’indicazione degli eventuali
trasferimenti di intangibles in cui l’entità è stata coinvolta nel presente o
nell’anno immediatamente precedente nonché una spiegazione degli aspetti di
tali transazioni che abbiano interessato tale entità locale; i key competitors
dell’entità locale
• Il secondo blocco di informazioni riguarda le transazioni controllate in cui
l’entità sia coinvolta e comprende una descrizione della materiale transazione
controllate e il contesto in cui detta transazione ha avuto luogo; l’ammontare dei
pagamenti infra-gruppo e le ricevute di ogni singola categoria di transazioni
controllate che abbiano coinvolto l’entità locale suddivisi secondo la
giurisdizione fiscale del destinatario straniero; l’identificazione delle imprese
associate coinvolte in ogni singola categoria di transazioni controllate e le
relazioni tra di esse; la copia di tutti i materiali relativi agli accordi infra-gruppo
conclusi dall’entità locale; una dettagliata analisi comparativa e funzionale per
il contribuente e le imprese associate con rispetto ad ogni categoria documentata
di transazioni controllate, incluso qualsiasi cambiamento rispetto agli anni
precedenti; l’indicazione del metodo più appropriato di transfer pricing con
riguardo alla categoria della transazione e le ragioni che hanno portato alla scelta
di quel metodo; l’indicazione di quale impresa associata sia stata selezionata
come parte testata e le ragione di questa scelta; un sommario degli assunti più
importanti fatti nell’applicazione del metodo transfer pricing scelto; se rilevante,
la spiegazione delle ragioni per l’esecuzione di un’analisi pluriennale; lista e
descrizione di analoghe transazioni selezionate e incontrollate (interne o esterne)
se presenti e informazioni sugli indicatori finanziari rilevanti per le imprese
indipendenti che hanno fatto affidamento sull’analisi transfer pricing, inclusa
131
una descrizione della metodologia di ricerca comparata e le fonte di tale
informazione; una descrizione di tutte le rettifiche di comparabilità effettuate e
l’indicazione se le rettifiche sono state fatte per i risultati della parte testata, le
analoghe transazioni non controllate, o entrambi; la descrizione delle ragioni per
concludere che le transazioni rilevanti erano state valutate secondo il principio
dell’arm’s length basato sull’applicazione del metodo ti transfer pricing
selezionato; un riepilogo delle informazioni finanziarie usate per l’applicazione
del metodo di transfer pricing; copia degli APAs unilaterali e
bilaterali/multilaterali esistenti e altri ruling fiscali a cui la giurisdizioni fiscale
locale non è parte e che sono correlati alle transazioni controllate descritte
precedentemente.
• L’ultimo blocco di informazioni relative al local file riguarda le informazioni
finanziarie; infatti deve contenere il rendiconto finanziario annuale dell’entità
locale per l’anno fiscale in questione e nel caso siano presenti dichiarazioni
certificate devono essere fornite, così come nel caso in cui le dichiarazioni non
lo fossero; la programmazione di allocazione e informazione che mostra come
siano utilizzati i dati finanziari nell’applicazione del metodo transfer pricing
possono essere legati alla dichiarazione finanziaria annuale; una tabella
riepilogativa dei dati finanziari rilevanti per la comparazione utilizzati
nell’analisi e la fonte dal quale tali dati sono stati ottenuti.
L’action plan n. 13 ha rilevato la grande importanza dell’informazione per la
lotta all’elusione fiscale e alla pianificazione fiscale aggressiva. Senza un quadro
completo delle imprese che mettono in atto queste strategie, le Amministrazioni fiscali
incontrano sempre maggiori difficoltà per il contrasto e la repressione di tali condotte.
Pertanto, nell’ambito della trasparenza fiscale delle imprese multinazionali, l’OCSE
ha sviluppato il c.d. Country-by-Country reporting, finalizzato per l’appunto a
permettere alle Amministrazioni finanziarie di avere un quadro più completo delle
operazioni effettuate dalle imprese multinazionali nelle varie regioni del mondo dove
operano. La proposta, come già accennato, si dovrebbe applicare alle imprese
multinazionali con un fatturato superiore ai 750 milioni di euro annui, giuste previsioni
132
dall’art. 1, co. 3 della proposta inserita nell’action plan.246 Il contenuto del report è
disciplinato dall’art. 4 della proposta e prevede
- informazioni aggregate relazionate con l’ammontare del fatturato, del profitto (o
perdita) al netto delle imposte, le imposte pagate, le imposte sul reddito maturate,
capitale dichiarato, guadagni accumulati, numero di dipendenti e
immobilizzazioni materiali diverse dal denaro liquido o equivalente con riguardo
alle singole giurisdizioni nelle quali il gruppo multinazionale opera,
- l’identificazione di ogni entità costituente il gruppo multinazionale e
identificandone la relativa giurisdizione fiscale ovvero la giurisdizione sotto la
quale l’entità costituente è organizzata, oltre alla natura del business principale
di tale entità costituente247
Il termine per la presentazione del report è fissato dall’art. 5 entro i dodici mesi
successivi all’ultimo giorno per la presentazione della dichiarazione per l’anno fiscale
di riferimento. Infine, per quanto riguarda l’utilizzo e la riservatezza del documento,
l’articolo 6 prevede che il report venga utilizzato ai fini della valutazione dei rischi del
transfer pricing o di altri rischi relazionati con il base erosion and profit shifting; viene
altresì previsto che l’Amministrazione fiscale del Paese di residenza non potrà
utilizzare il report per rettifiche sul transfer pricing. In tema si riservatezza, il comma
2 dell’articolo 6 prevede che sia almeno equivalente a quello del Multilateral
Convention on Mutual Administrative Assistance in Tax Matters.
Per quanto riguarda, infine, l’aspetto burocratico della disciplina dei tre files, si
sottolinea come il neo-introdotto country-by-country report che, come visto, sarà
operativo a partire dal 1° di gennaio del 2016 per le imprese con un fatturato superiore
246 «The term “Excluded MNE Group” means, with respect to any Fiscal Year of the Group, a Group having total consolidated group revenue of less than [750 million Euro]/ [insert an amount in local currency approximately equivalent to 750 million Euro as of January 2015] during the Fiscal Year immediately preceding the Reporting Fiscal Year as reflected in its Consolidated Financial Statements for such preceding Fiscal Year», OECD, Action plan n. 13, p. 39. 247 «(i)Aggregate information relating to the amount of revenue, profit (loss) before income tax, income tax paid, income tax accrued, stated capital, accumulated earnings, number of employees, and tangible assets other than cash or cash equivalents with regard to each jurisdiction in which the MNE Group operates; (ii) An identification of each Constituent Entity of the MNE Group setting out the jurisdiction of tax residence of such Constituent Entity, and where different from such jurisdiction of tax residence, the jurisdiction under the laws of which such Constituent Entity is organised, and the nature of the main business activity or activities of such Constituent Entity», ibidem.
133
a 750 milioni di euro, dovrà essere compilato nella giurisdizione dell’ultima parent
entity e poi condiviso con le altre attraverso lo scambio automatico di informazioni. A
tal proposito, per facilitare tale scambio, verrà implementato alla fine dell’anno 2015
un sistema elettronico di scambio dei rapporti CbC; l’OCSE raccomanda infine che gli
Stati implementino la normativa vigente con l’introduzione dei tre files appena
descritti entro l’anno 2020.
1.12. Action n. 14
Rendere i meccanismi di risoluzione delle dispute più efficaci248
Il Discussion Draft
Un ulteriore argomento su cui l’OCSE si è soffermata, già a partire dal 2007, è
quello della risoluzione delle controversie, attraverso lo strumento denominato MAP
(mutual agreement procedure), disciplinato dall’art. 25 del Modello OCSE contro le
doppie imposizioni e che può essere invocato nel caso in cui «una persona consider[i]
che le azioni di uno o entrambi gli Stati contraenti determin[ino] o [possano]
determinare un’imposizione non conforme alle previsioni della Convenzione».249 Le
disposizioni della norma prevedono che per la risoluzione della controversia vengano
coinvolte le «Competent authorities of the Contracting States» che sono chiamate in
qualità di protagoniste a cercare di risolvere gli eventuali problemi di doppia
imposizione rilevati dal privato. È da rilevare come quando il privato (persona fisica o
giuridica che sia), demanda alla propria Amministrazione finanziaria la risoluzione di
una tale controversia, questa azione non pregiudica né i rimedi previsi dalla
legislazione interna, né quelli della legislazione dell’altro Stato. Le autorità competenti
così interpellate, hanno obbligo di verificare se la richiesta del contribuente sia fondata
e, nel caso, tentare di risolverla utilizzando gli strumenti a loro disposizione messi
dalla normativa nazionale. Nel caso, poi, in cui tale operazione non sia possibile, e non
si giunga pertanto ad una risoluzione del problema attraverso il semplice sfruttamento
della disciplina nazionale, le autorità competenti dovranno interpellare i corrispettivi
dell’altro Stato contraente e cooperare per la risoluzione della stessa; quest’ultima
248 Traduzione libera del titolo «Making dispute resolution mechanisms more effective». 249 Art. 25, OECD Model Tax Convention on income and capital. Traduzione libera.
134
eventualità, però ha la caratteristica di “estromettere” il richiedente dalla procedura, la
cui sfera di influenza in questa fase è nulla. Attualmente la norma non prevede che le
due Amministrazioni finanziarie debbano necessariamente giungere ad un accordo e
ad una risoluzione della controversia, ma nei loro confronti solo vige l’obbligo di
impegnarsi a tal fine.
Taluna dottrina, correttamente, evidenzia due limiti dell’attuale previsione
normativa del MAP. In primo luogo, il fatto che il contribuente possa rivolgersi solo
allo Stato di residenza, che potrebbe quello le cui previsioni portano ad una doppia
tassazione, costituisce un «limite (…) che potrebbe vanificare la procedura»; inoltre,
il mancato obbligo di giungere ad una conclusione una volte che sia stata interpellata
l’Amministrazione finanziaria dell’altro Stato, può potenzialmente portare a lasciare
irrisolte molte situazioni di doppia imposizione giuridica o economica, fatto già di per
sé in conflitto con lo scopo stesso del Modello OCSE.250
Il paragrafo 3, in aggiunta, prevede la possibilità che le Amministrazioni
finanziarie prendano direttamente l’iniziativa per risolvere in via amichevole dubbi
inerenti all’interpretazione o all’applicazione della Convenzione. Tale “procedura
amichevole”, pertanto, rappresenta uno strumento di consultazione diretta tra le
Amministrazioni fiscali degli Stati contraenti, le quali dialogano nelle forme ritenute
più idonee, con il fine di pervenire a un accordo sull'oggetto della procedura. In tal
senso il MAP costituisce lo strumento dell’OCSE per la risoluzione delle controversie
internazionali nelle situazioni appena descritte, sia nel caso in cui l’impulso derivi da
un privato, sia nel caso in cui derivi da un’Amministrazione finanziaria.
Il Draft riconosce che l’adozione universale di un arbitrato vincolante
obbligatorio sia una soluzione difficile, qualora non impossibile e per questo motivo
suggerisce soluzione che siano più pratiche ed efficaci. L’obiettivo dichiarato è quello
di « sviluppare soluzioni in merito agli ostacoli che impediscono agli Stati di risolvere
le dispute relative ai trattati attraverso lo strumento MAP, inclusa l’assenza di
disposizioni in tema di arbitrato nella maggior parte dei trattati stessi e il fatto che
l’accesso al MAP e all’arbitrato viene negato in determinati casi»251
250 Così come sottolineato da UCKMAR, V. (a cura di), Diritto Tributario Internazionale – Manuale, Milano 2012. La citazione è ripresa dalla p. 111. 251 OECD, Make dispute resolution mechanisms more effective, Paris, 2014, p. 4. Traduzione libera.
135
Il Final Report
In merito al c.d. MAP (mutual agreement procedure) e alle necessarie modifiche
da apportare per rendere lo strumento più efficace, efficiente e tempestivo, l’OCSE
ipotizza 3 soluzioni che dovrebbero coesistere per raggiungere lo scopo.
• i Paesi dovrebbero assicurare che le obbligazioni dei trattati relativi alla
procedura amichevole siano completamente implementate in buona fede e che i
casi di MAP vengano risolti in maniera tempestiva,
• i Paesi dovrebbero assicurare che i processi amministrativi promuovano la
prevenzione e la tempestiva risoluzione delle dispute relative all’applicazione
dei trattati,
• i Paesi dovrebbero assicurare che i contribuenti che rispondano ai requisiti di
cui al paragrafo 1 dell’art. 25 del Modello di convenzione possano accedere
alla procedura amichevole.
Un certo numero di queste misure costituisce uno standard minimo nella
procedura per tutti quegli Stati dell’OCSE e del G-20 che vi hanno aderito. Questo
minimum standard è completato da alcune misure addizionali che però soltanto
alcune degli Stati aderenti allo standard hanno accettato, creando così una discrasia
tra gli Stati che hanno accettato sia il pacchetto di misure supra analizzato, sia le
ulteriori misure addizionali e gli Stati che invece hanno accettato solo la prima parte
delle misure individuate dall’OCSE per una migliore gestione della procedura MAP.
1.13. Action n. 15
Sviluppo di uno strumento multilaterale per la modifica dei trattati bilaterali252
Una volta analizzati gli strumenti critici e gli istituti di diritto che si pongono in
contrasto con le regole dell’economia digitale, non è possibile esimersi dall’analisi dei
risvolti pratici che, un’eventuale modifica degli stessi ha, rectius non ha, all’interno
dei trattati bilaterali (allo stato oltre 3.000) stipulati tra i Paesi di tutto il mondo. Infatti,
uno dei problemi più importanti dello strumento del trattato bilaterale su Modello
OCSE è che c’è un gap incolmabile tra i trattati già stipulati e i Modelli che via via si
252 Traduzione libera del titolo «Developing a multilateral instrument to modify bilateral tax treaties».
136
aggiornano nel tempo. Oltre al fatto che tali aggiornamenti sono più frequenti,
susseguendosi ormai al ritmo di circa due ogni 5 anni. Anche qualora le modifiche al
trattato siano consensuali, è necessario un lasso di tempo non indifferente e un
ammontare di risorse non esiguo per introdurre i cambiamenti nella maggior parte dei
trattati già stipulati. La conseguenza è che i trattati già in vigore e la versione più
recente del Modello non siano quasi mai in sincronia.
Questo fatto porta, naturalmente, il diritto sempre a dover “rincorrere” lo stato
dei fatti, in quanto gli strumenti di tutela contro la doppia imposizione da una parte, e
di contrasto alla doppia non imposizione dall’altra, soffrono di un ritardo cronico nei
confronti dell’evoluzione dell’economia e degli scambi commerciali.
Il Discussion Draft
Pertanto, l’OCSE, nel suo ultimo Action Plan, si dedica alla ricerca di una
soluzione che permetta di applicare più rapidamente ai trattati già in vigore gli
eventuali cambiamenti al Modello su cui si basano. Di rilievo, in tema, il fatto che
durante il G-20 di febbraio 2015, è stato dato mandato all’OCSE, specificatamente per
quest’ultimo piano d’azione, di creare un Gruppo ad hoc a cui hanno partecipato i
rappresentanti di oltre 90 nazioni, tra cui l’Italia.253 Lo scopo ufficiale è quello di
«analizzare i problemi relativi alla disciplina fiscale e di diritto pubblico
internazionale nello sviluppo di uno strumento multilaterale al fine di permettere, alle
giurisdizioni che lo desiderino, di implementare le misure sviluppate nel corso del
lavoro sul BEPS e di correggere i trattati fiscali bilaterali. Sulla base di questa analisi,
le Parti interessate svilupperanno uno strumento multilaterale disegnato per
prevedere un approccio innovativo sul tema dell’imposizione internazionale,
riflettendo la rapida evoluzione dell’economia globale e la necessità di adattarsi
rapidamente a questa evoluzione».254
Il Final Report
L’analisi effettuata nell’ultimo action plan da parte dell’OCSE riguarda,
pertanto, la possibilità di creare uno strumento multilaterale che permetta una
253 L’elenco completo delle Nazioni che hanno partecipato è disponibile al link http://www.oecd.org/tax/treaties/members-ad-hoc-group-multilateral-instrument-development.htm. 254 OECD, Action 15: A Mandate for the Development of a Multilateral Instrument on Tax Treaty Measures to Tackle BEPS, Paris, 2015, p. 2. Traduzione libera.
137
semplificazione della procedura di aggiornamento delle convenzioni tra gli Stati, senza
dover “mettere mano”, ogni volta, alle numerosissime convenzioni bilaterali stipulate
tra i Paesi del Mondo. L’analisi verte principalmente su di due cardini, e cioè
l’opportunità di creare uno strumento di convenzione multilaterale e la fattibilità di
questa operazione. Per quanto riguarda il primo di questi aspetti, la stessa
organizzazione internazionale evidenzia come «uno strumento multilaterale
rappresenti l’una modo per affrontare il problema del BEPS basato sui trattati in
maniera coordinata e veloce. L’attuale rete di trattati bilaterali è particolarmente
complessa poiché ciascuno dei trattati è uno strumento legalmente distinto dagli altri
e la sua relazione con gli altri accordi bilaterali non è definita».255 È la stessa
architettura degli accordi bilaterali che non si integra bene con l’economia di oggi. La
società, soprattutto dal punto di vista economico, di quanto i trattati bilaterali hanno
cominciato a svilupparsi era completamente differente da quella attuale e rispondeva
a regole di mercato che oggi non sono più valide. In quel contesto lo strumento
dell’accordo bilaterale era sembrato il più opportuno, ma oggi sicuramente non è più
possibile considerarlo tale. Infatti, come ammesso dalla stessa organizzazione
internazionale taluni problemi «sono più facilmente risolvibili con uno strumento
multilaterale che non con uno bilaterale»256, come ad esempio gli alti fattori di
mobilità dell’economia attuale e la complessa catena del valore globale; inoltre, anche
a livello procedurale, la globalizzazione ha aumentato il numero di conflitti tra più
Paesi, mentre un tempo le relazioni commerciali erano, quelle sì, solo bilaterali e
quindi anche le relative eventuali dispute si limitavano a due Paesi “alla volta”. Un
altro vantaggio della stipula di un accordo multilaterale rispetto alla stipula di migliaia
di accordi bilaterali è che la stesura di un unico testo per la disciplina della materia
potrebbe essere sostenuto dall’apporto di qualificati negoziatori di trattati e
determinare una maggiore certezza anche a livello di interpretazione della disciplina
rispetto ad una moltitudine di accordi molto simili tra loro, ma mai identici.
Per quanto riguarda la fattibilità dello sviluppo di uno strumento multilaterale, secondo
l’organizzazione internazionale il progetto è «completely feasible from a legal point of
255 OECD, Action Plan n. 15, Developing a Multilateral Instrument to Modify Bilateral Tax Treaties, Paris, 2015, p. 18. Traduzione libera. 256 ibidem, p. 19. Traduzione libera.
138
view». Nell’idea dell’organizzazione internazionale, il trattato multilaterale si
affiancherebbe ai più di tremila trattati bilaterali, in parte modificando alcuni degli
istituti ivi previsti ed in parte integrando con nuovi strumenti giuridici; secondo gli
esperti questa soluzione, rispetto alle altre prospettate, gode di maggiore efficienza ed
maggiormente mirata, rispetto per esempio all’eventualità che il trattato multilaterale
si sostituisse in toto a tutti i trattati bilaterali, vanificando e cancellando così decine e
decine di anni di relazioni diplomatiche tra Paesi.
2. L’ANALISI DELL’UNIONE EUROPEA L’Unione Europea è stata ed è un importante luogo di riflessione normativa in
tema di sviluppo tecnologico e diritto. Per i fini che qui rilevano, l’Unione si presenta
come un interlocutore fondamentale per lo sviluppo nell’ambito della nuova
economia, del diritto tributario internazionale. Si ritiene opportuno, pertanto,
analizzare l’evoluzione del pensiero in merito al commercio elettronico e all’economia
digitale elaborato già dall’inizio del nuovo millennio in seno a questa istituzione.
La questione è stata introdotta in maniera più completa a partire dal primo
consiglio straordinario del nuovo secolo, tenutosi a Lisbona nel marzo del 2000, che
ha portato alla c.d. strategia di Lisbona, un piano d’azione che mirava a «formulare
orientamenti in grado di cogliere le opportunità offerte dalla nuova economia»257 e
che aveva come anno di scadenza il 2010. La Commissione ha rilevato come le ICT
costituiscano uno stimolo importante per la crescita economica e l’occupazione,
affermando ad esempio come, nel solo 2005, il 25% della crescita del PIL e il 40%
della crescita della produttività fossero dovuti alle innovazioni in questo campo.258
Parallelamente all’avvio di questa strategia di “modernizzazione” dell’Europa, il
mondo digitale globale subiva un’impennata senza precedenti, già nel quinquennio
2000-2005: attraverso l’evoluzione tecnologica, infatti, per la prima volta apparivano
disponibili sul web alcuni media tradizionali che per il loro “peso” (in termini di bytes)
non erano potuti diventare merce di scambio fino ad allora. Le intenzioni della
257 Il Consiglio europeo straordinario di Lisbona (marzo 2000): verso un’Europa dell'innovazione e della conoscenza, premessa. 258 op. cit. VALENTE, Economia digitale e commercio elettronico, p. 274.
139
Commissioni sembravano (ed erano) quindi estremamente attuali, avendo come uno
dei principali obiettivi quello di permettere a chiunque cittadino, impresa, istituzione
o amministrazione di disporre di un collegamento internet, senza per questo creare un
processo parallelo di emarginazione nei confronti dei “non-nativi digitali”. Purtroppo,
però, alla scadenza prefissata dal piano d’azione, non erano stato conseguiti tutti gli
interventi prospettati. La Commissione si è accorta che il piano di riforme non poteva
essere unicamente sostenuto dall’Unione Europea e dal diritto comunitario, ma
l’integrazione con il diritto interno degli Stati membri (che nel frattempo erano
aumentati in modo considerevole259) si rilevava una tappa fondamentale del processo;
un altro fattore che ha inciso negativamente è la globale crisi economica scoppiata nel
2008. V’è da notare, comunque che nell’anno 2005 è stato presentato un secondo
piano, denominato i2010 e che ha portato una significativa mole di novità in tema di
modernizzazione dell’Unione e dello sviluppo delle nuove tecnologie. Principalmente,
questa nuova strategia si è incentrata sulla disciplina degli incentivi allo sviluppo,
premesso che, nonostante che l’ammontare degli investimenti (R&D) nel settore
tecnologico in rapporto al numero di abitanti fosse in Europa meno di un quarto di
quello degli Stati Uniti e circa un quinto di quello del Giappone260, l’Europa è la patria
di molti standard tecnologici mondialmente utilizzati.261
Il 4 agosto 2009, la Commissione pubblicata un rapporto di valutazione sul
progetto i2010, con ottimi risultati:
• il numero degli utenti regolari di internet era aumentato del 13% in tre anni,
• l’Europa era leader nel mondo per numero di utenti connessi con la banda larga:
oltre 114 milioni di abbonati,
• il mercato della telefonia aveva superato la soglia del 100% della popolazione,
passando dall’84% (2004) al 119% (2009), percentuale non riscontrata in
259 Nel periodo 2000-2010 i Paesi che hanno aderito all’Unione Europea sono stati: Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Ungheria (2005); Bulgaria, Romania (2007). 260 Secondo OECD, IDATE, Paris, 2002, l’Europa ha speso solo 80 € per persona per investimenti nel settore ICT, per un totale di 31 mld di euro, di cui 23 privati e 8 pubblici; gli Stati Uniti, di contro, hanno speso 350 € pro-capite per un totale di 103 mld di euro, di cui 83 privati e 20 pubblici; infine il Giappone, che ha speso 400 € pro-capite per l’R&D nel settore digitale, per un totale di 51 mld di €, di cui 40 privati e 11 pubblici. 261 Sono di invenzione europea, infatti, lo standard per i telefoni cellulari GSM, lo standard per i contenuti multimediali MPEG e la tecnologia per la banda larga ADSL.
140
nessuna altra zona del Mondo,
• quasi il 70% delle imprese si avvaleva di servizi online messi a disposizione
dalle Amministrazioni pubbliche dei Paesi membri.
Con l’arrivo del 2010, in piena crisi economia mondiale, terminano sia il
progetto i2010 che la strategia di Lisbona. La Commissione, comunque, per mano del
nuovo presidente JOSÉ MANUEL BARROSO, cerca di voltare pagina tentando di
correggere gli errori commessi con le passate iniziative. A tal proposito ha dichiarato
«il 2010 deve segnare un nuovo inizio. Voglio che l’Europa esca rafforzata dalla crisi
economica e finanziaria. (…) è giunto il momento della verità per l’Europa». Questo
programma di “crescita intelligente” è stato denominato Europa 2020, e nei punti
fondamentali di intervento, due sono relativi alla tematica in oggetto: “L’Unione
dell’innovazione”, per il finanziamento di startup innovative e “L’agenda europea del
digitale”, per accelerare la diffusione di internet.
Per quanto riguarda il primo campo di indagine, secondo l’analisi della
Commissione l’Europa ha delle grandi potenzialità che le sono dovute grazie ai valori,
tradizioni, creatività e diversità che la caratterizzano, ma per poter svilupparsi
attraverso i canali dell’innovazione deve colmare tre principali gap:
- investimenti troppo bassi rispetto alle basi della conoscenza,
- condizioni generali inadeguate: scarso accesso ai finanziamenti, costi elevati dei
diritti di proprietà intellettuale262 e lentezza del processo di formazione delle
norme,
- eccessiva frammentazione delle risorse nonostante la presenza di un mercato
unico europeo.
Per colmare tali gap, è necessario che l’innovazione sia la “chiave di volta” di
tutte le politiche dell’Unione, adottando una prospettiva più a lungo termine, da una
parte e che le politiche a livello locale siano più strettamente allineate, rafforzandosi a
vicenda. La Commissione, poi, nel documento L’Unione dell’innovazione, individua
10 punti
262 La Commissione europea, nella propria Proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio relativo all’attuazione di una cooperazione rafforzata nel settore dell’istituzione di una tutela brevettuale unitaria, COM (2011)215, 13 aprile 2011, p. 1 afferma che la tutela di un brevetto arriverebbe a costare «oltre 32 000 EUR se convalidato nell’intera UE».
141
1. incrementare le risorse per l’istruzione, la ricerca, lo sviluppo, l’innovazione e
l’ICT,
2. evitare la frammentazione tra i sistemi di ricerca e innovazione nell’Unione,
3. modernizzare i sistemi educativi a tutti i livelli,
4. creare la “libera circolazione della conoscenza”,
5. semplificare, per le PMI, l’accesso ai benefici dei programmi dell’Unione,
6. rafforzare la cooperazione tra il mondo della scienza e quello delle imprese,
7. eliminare gli ostacoli che impediscono agli imprenditori di “portare le loro idee
al mercato”,
8. avviare partnership per l’innovazione al fine di accelerare le attività di ricerca e
sviluppo, così come la commercializzazione delle innovazioni,
9. sfruttare meglio i punti di forza nel campo del design e della creatività,
10. lavorare meglio con i partner internazionali aprendo l’accesso ai programmi di
ricerca e sviluppo europei.
La Commissione precisa inoltre che è necessario un coordinamento forte tra le
istituzioni per il miglioramento di questi 10 punti, in particolare nel rapporto tra diritto
comunitario e diritto dei singoli Stati membri. Secondo le stime263, con un
investimento del 3% del PIL da parte di tutti gli Stati membri, si creerebbero in Europa
3,7 milioni di posti di lavoro e il prodotto interno lordo aumenterebbe di circa 800
miliardi di euro entro il 2025.
Per quanto riguarda, invece, il secondo campo di indagine, “Un’agenda digitale
europea”, l’obiettivo dichiarato è quello di riportare l’Europa sulla strada di una
crescita intelligente e sostenibile. Le “basi” sono solide e le prospettive per il futuro
anche, in quanto a) l’Europa è un enorme bacino di utilizzatori di internet, con oltre
250 milioni di utenti quotidiani264 e b) secondo le stime, entro il 2020 i contenuti e le
applicazioni digitali saranno quasi esclusivamente fornite online.265 Allo stato attuale,
però si ritiene che le persone beneficino in misura minore della tecnologia digitale
263 Si veda, ex pluris, FOURGEYROLLAS, A. – LE HIRE, B. – LE MOUËL, P. – ZAGAMÉ, P., “Demeter” project: l’effort de R&D dans la crise et au-dela: quelques enseignement tires des simulations du modele “Nemesis”, EC 12 marzo 2010; SOETE, L., The cost of a non-innovative Europe: the challenges ahead, in UNU-MERIT, 21 settembre 2010. 264DE VIVO, M. C. – POLZONETTI, A. – TAPANELLI, P., Open Data, Business Intelligence e Governance nella Pubblica Amministrazione, in Informatica e diritto, fasc. 1-2, 2011, p. 239. 265 COMMISSION EUROPÉENNE, A Digital Agenda for Europe, COM(2010)245, p. 4.
142
rispetto al potenziale che essa potrebbe avere in quanto vi è un sentimento generale di
preoccupazione in merito alla «riservatezza e la sicurezza e [la] mancanza o carenza
di accesso a internet, usabilità e capacità adeguate».266 L’autorevole dottrina citata,
poi, prosegue affermando che «i cittadini europei temono che, poiché internet ha
accelerato la concorrenza a livello mondiale in termini di investimenti, posti di lavoro
e influenza economica l’Europa non si sia dotata degli strumenti necessari per
prosperare in questo settore in crescita dell’economia della conoscenza»267 e per
questo motivo siano necessari ulteriori sviluppi da parte della politica comunitaria. Da
parte sua, la Commissione ha individuato sette elementi di ostacolo al superamento
delle difficoltà prima evidenziate. In particolare,
1. la frammentazione dei mercati digitali,
2. la mancanza di inter-operabilità,
3. l’aumento della criminalità informatica e il possibile calo di fiducia delle reti,
4. la mancanza di investimenti nelle reti,
5. l’impegno insufficiente nella ricerca e nell’innovazione,
6. la mancanza di alfabetizzazione digitale e competenze informatiche,
7. le opportunità mancate nella risposta ai problemi della società.
Vi è pertanto una contraddizione non solo apparente, purtroppo, tra la libertà di
confini inaugurata con internet e la frammentazione di un mercato online a causa delle
barriere poste dagli Stati membri all’interno dell’Unione Europea, che fa del libero
mercato un baluardo imprescindibile della propria comunità.
L’ultimo (in ordine cronologico) grande “salto” a livello di iniziativa politico-
legislativa che l’Unione ha provato e sta provando a fare è derivato dalla nuova
presidenza della Commissione europea, guidata dall’ex primo ministro
lussemburghese JEAN-CLAUDE JUNCKER. Già nel discorso di insediamento, il nuovo
Presidente ha rimarcato espressamente l’importanza dell’economia digitale per lo
sviluppo economico dell’Unione, affermando che «every day, Europe is losing out by
not unlocking the great potential of our huge digital single market».268 Per “sbloccare”
266 op. cit. VALENTE, Economia digitale e commercio elettronico, p. 287. 267 ibidem. 268 Estratto del discorso di insediamento del Presidente eletto Jean-Claude Juncker prima dell’apertura dei lavori del Parlamento Europeo, Strasburgo, 22 ottobre 2014.
143
questo potenziale, la presidenza si è posta l’obiettivo di eliminare gradualmente i
problemi che attanagliano l’Europa, in particolare concentrandosi sull’armonizzazione
con la disciplina dei singoli Stati membri, sulla legislazione sui diritti d’autore e sulla
protezione dei dati e sull’applicazione del diritto di concorrenza. Alcune delle
conseguenze virtuose previste dell’applicazione di queste novità saranno
l’eliminazione del c.d. roaming (ovvero la sovra-tariffazione delle telecomunicazioni
mobili all’estero), l’accesso libero ai servizi di musica, film o eventi sportivi (ad oggi
limitato alla connessione territoriale del Paese di appartenenza) e la creazione di un
sistema di protezione dei dati e dei consumatori a prescindere dal luogo ove le imprese
che li offrono abbiano ubicato i propri server. La Commissione europea, per perseguire
meglio questo scopo, è stata parzialmente modificata nella struttura, prevedendo un
Vice-presidente (il politico estone ANDRUS ANSIP) che ricopra il ruolo di team leader
per la coordinazione degli aspetti legati alla realizzazione del mercato digitale. Il
termine digital single market, utilizzato sia dallo stesso Presidente JUNCKER che dalla
precedente e già analizzata “agenda digitale europea”, è il luogo virtuale deputato alla
fioritura dell’economia digitale all’interno dell’Unione. Allo stato, la disciplina delle
operazioni (dirette o indirette) di e-commerce è differentemente disciplinata dai vari
Stati membri, rendendo così più difficile per le imprese (magari start up) proporsi nel
più ampio mercato comunitario. Molti sono infatti gli ostacoli che esse devono
affrontare, dalla differente tutela dei consumatori alla protezione dei dati, dalla
disciplina contrattuale all’importantissima disciplina fiscale (sia diretta che,
quantomeno in tema di aliquote, indiretta).
2.1. In tema di imposte dirette
Sin da subito la Commissione si è resa conto che un passaggio fondamentale per
lo sviluppo dell’economia digitale in Europa è la disciplina fiscale delle imprese. È
stata creata a tal fine un “Gruppo di esperti di alto livello della Commissione europea
sulla tassazione dell’economia digitale”, che ha ribadito il concetto per cui la
diffusione della tecnologia digitale non solo è una rivoluzione paragonabile a quella
della diffusione della corrente elettrica e «guardando al futuro rappresenterà uno dei
principali elementi trainanti della crescita sostenibile», ma «offrirà anche i mezzi
144
ideali per la lotta all’evasione e all’elusione fiscale».269 Per il perseguimento di questo
obiettivo, il gruppo di esperti individua una serie di misure da adottare per far sì che i
sistemi fiscali degli Stati membri siano il più possibile semplici, stabili e neutrali:
1. non ci dovrebbe essere un regime speciale per l’economia digitale, per evitare di
creare disparità di trattamento con le imprese “tradizionali”,
2. la digitalizzazione aumenta l’esigenza di creare regole fiscali semplici e
prevedibili; la creazione di un sistema fiscale con queste caratteristiche diventa
un elemento imprescindibile per lo sfruttamento del potenziale dell’economia
digitale,
3. gli incentivi fiscali dovrebbero essere attribuiti in modo più ponderato, con
un’attenta valutazione sia ex ante che ex post.
Naturalmente, anche il Gruppo di esperti guarda con attenzione l’evoluzione del
progetto BEPS in seno all’OCSE, ritenendo opportuno che la voce degli Stati
dell’Unione sia unica, accordando una posizione comune sulle soluzioni proposte in
quella sede. Ritiene inoltre il Gruppo che la strada maestra da seguire sia comunque
quella della disciplina prevista dall’organizzazione internazionale, per una maggiore
armonizzazione della disciplina a livello globale. Vengono rimarcati, sempre
all’interno degli action plans previsti, tre punti fondamentali
- contrasto alle pratiche fiscali dannose,
- rivisitazione della disciplina sui prezzi di trasferimento,
- rivisitazione del concetto di collegamento (nexus) o presupposto impositivo.
L’analisi degli esperti della Commissione termina con una previsione circa una
modifica importante all’interno del diritto comunitario: la “rivoluzione” prospettata in
sede OCSE potrebbe rendere necessaria (o quantomeno opportuna) la rivisitazione di
un aspetto molto controverso all’interno della disciplina dell’Unione, e cioè la
regolazione unitaria delle imposte dirette, attraverso la già più volte analizzata e
proposta CCCTB (Common Consolidated Corporate Tax Base). Questa proposta di
modifica alla disciplina dell’imposizione diretta sulle imprese, elaborata dalla
Commissione nel marzo 2011, ha come obiettivo quello di stabilire «regime per una
base imponibile comune per l’imposta sulle società e [prevedere] le regole relative al
269 op. cit. COMMISSION EUROPÉENNE, Commission expert group on taxation of the digital economy, p. 8. Traduzione libera.
145
calcolo e all'uso di tale base».270 L’oggetto della discussione è, pertanto, la
determinazione comune della base imponibile per il reddito delle società, da
determinarsi secondo un criterio unico al fine di semplificare una procedura che,
altrimenti, comporterebbe un carico di lavoro enorme per le imprese che dovessero
ogni volta applicare un regime impositivo per la determinazione della base imponibile,
differente in tutti e 28 gli Stati dell’Unione. La proposta è indirizzata a qualsiasi
impresa, di qualsiasi dimensione e si presenta come un’opzione e non come un vincolo.
La base imponibile sarà determinata per ciascun esercizio fiscale sottraendo dai ricavi
i ricavi esenti, le spese deducibili e le altre voci deducibili. È opportuno che siano
soggetti a imposizione tutti i ricavi, tranne quelli espressamente esentati.
Sono esenti dall'imposta sul reddito delle società:
- i sussidi direttamente collegati all'acquisizione, alla costruzione o al
miglioramento delle attività immobilizzate;
- i proventi della cessione di panieri di attività, compreso il valore di mercato di
doni non monetari;
- le distribuzioni di profitti ricevute;
- i proventi della cessione di azioni;
- il reddito di una stabile organizzazione in un paese terzo.
È necessario che le attività immobilizzate possano essere ammortizzate a fini
fiscali, fatte salve determinate eccezioni. Le attività di lunga durata dovrebbero essere
ammortizzate singolarmente, mentre le altre dovrebbero confluire in un paniere. Le
attività non soggette ad ammortamento includono:
- attività materiali immobilizzate non soggette a deterioramento fisico e
obsolescenza quali terreni, oggetti d'arte, pezzi d'antiquariato o gioielli;
- attività finanziarie.
Le perdite sostenute in un esercizio fiscale potranno essere dedotte in esercizi
fiscali successivi. Una riduzione della base imponibile a causa delle perdite di esercizi
fiscali precedenti non può produrre un importo negativo.
Sono società figlie qualificate per il consolidamento (appartenenza ad un gruppo per
le società) tutte le società figlie in cui la società madre detiene:
270 COMMISSION EUROPÉENNE, Base imponibile consolidata comune per l'imposta sulle società, COM(2011)121, 16 marzo 2011, p. 1.
146
- il diritto di esercitare più del 50 % dei diritti di voto;
- un diritto di proprietà su oltre il 75 % del capitale della società od oltre il 75 %
dei diritti sui profitti.
La proposta della CCCTB si basa sul principio «all-in all-out», tutti o nessuno. Le
società che soddisfano i requisiti di ammissibilità per la costituzione di un gruppo
dovranno consolidarsi e ciò implica che non potranno semplicemente optare per il
calcolo individuale dei loro risultati fiscali ai sensi delle norme comuni. Il gruppo di
un contribuente residente è costituito da:
• tutte le sue stabili organizzazioni ubicate in altri paesi dell’UE;
• tutte le stabili organizzazioni ubicate in un paese dell’UE appartenenti alle sue
società figlie qualificate residenti in un paese terzo;
• tutte le sue società figlie qualificate residenti in uno o più paesi dell’UE;
• altri contribuenti residenti che siano società figlie qualificate della stessa società
che è residente in un paese terzo e soddisfa le condizioni necessarie.
La base imponibile consolidata sarà ripartita tra i membri di un gruppo in ogni
esercizio fiscale sulla base di una formula per determinare la percentuale assegnata ai
membri del gruppo. Tale formula conferisce pari peso ai fattori del fatturato, del lavoro
e delle attività.
La proposta prevede anche norme anti-abuso. Le operazioni artificiali svolte con
l'esclusiva finalità di eludere l'imposizione sono ignorate ai fini del calcolo della base
imponibile. Tuttavia, ciò non si applica alle attività commerciali autentiche, nelle quali
il contribuente è in grado di scegliere due o più possibili operazioni che hanno lo stesso
risultato commerciale ma producono basi imponibili diverse.
In merito a tale proposta, è stato osservato271 che tale sistema «migliorerebbe in
modo sostanziale la situazione per la business community europea attraverso la
riduzione dei costi di gestione, l’incremento della certezza della legge e la previsione
di un meccanismo di allocazione libero dalle difficoltà del transfer pricing», ma al
tempo stesso è necessario che gli Stati membri si rendano conto che vi debbano essere
due sistemi paralleli ed entrambi vigenti, in quanto «l’imposta sul reddito societario
271 AUJEAN, M., Tax Competition and Tax Planning: What Solution for the EU?, in EC Tax Review, 2014, Volume 23, Issue 2, pp. 62–63. Traduzione libera.
147
non può essere la stessa per le piccole attività locali o le grandi multinazionali».
2.2.In tema di imposte indirette
In tema di tassazione diretta è necessario fare una distinzione tra
1. offerta di servizi elettronici,
2. offerta tramite internet di servizi differenti da quelli elettronici,
3. offerta di beni semplicemente ordinati online.
È inoltre opportuno distinguere tra operazioni B2B e operazioni B2C.
Quest’ultime sono quelle che assumono maggior rilievo nell’analisi oggetto del
presente lavoro. Come già anticipato supra, dal 1° di gennaio del 2015 è stato
introdotto il volontario meccanismo denominato MOSS di semplificazione della
gestione dell’IVA nelle transazioni B2C all’interno dell’Unione. Il criterio individuato
è quello dell’applicazione dell’aliquota IVA del Paese di residenza del destinatario,
anziché, come fino ad allora utilizzato, il criterio opposto dell’aliquota del Paese di
residenza del venditore. Nello specifico, il nuovo Mini One Stop Shop, è così
strutturato: intanto, il regime può essere adottato sia per i servizi di telecomunicazione,
teleradiodiffusione e resi tramite mezzi elettronici da soggetti passivi non stabiliti
all’interno dell’Unione sia per gli stessi servizi resi da soggetti passivi stabiliti
all’interno dell’Unione ma non stabiliti nello Stato membro del consumatore finale
degli stessi. Le imprese che volessero beneficiare del regime dovranno iscriversi nello
Stato membro “di identificazione” che coincide con quello della sede economica o
quello dove l’impresa (la cui sede è al di fuori dei confini comunitari) ha una stabile
organizzazione. Per completare la registrazione l’impresa dovrà fornire una serie di
informazioni che sono differentemente richieste dai singoli Stati membri; l’unico
vincolo in questo ambito è che le informazioni siano rese esclusivamente per via
telematica. La precisazione è importante perché tutti i dati raccolti dai singoli Stati
membri verranno conservati in un database che verrà poi condiviso con tutti gli altri
Paesi dell’Unione. Nel caso, poi, in cui un’impresa abbia più di sedi dislocate in Paesi
differenti dell’Unione, essa è tenuta a fornire allo Stato di identificazione, la partita
IVA, la denominazione e l’indirizzo di ciascuna di esse. Una volta forniti tutti i dati
necessari, il Paese di identificazione procede ad una verifica degli stessi, in seguito
148
alla quale potrebbe non concedere la registrazione. Nel caso in cui, invece, la
documentazione sia interamente corretta, la registrazione decorre dal primo giorno del
trimestre successivo a quello dell’opzione; un’importante eccezione è però prevista:
nel caso, infatti, in cui il soggetto abbia posto in essere la prima fornitura con il nuovo
regime prima del tempo indicato, il regime sarà operativo immediatamente a
condizione che il soggetto passivo abbia informato lo Stato membro di identificazione
dell’intenzione di adottarlo entro il decimo giorno del mese successivo a quello della
prima fornitura.
Una volta effettuate le operazioni di iscrizione al regime, esso opera secondo le
seguenti regole: la dichiarazione viene effettuata dall’impresa trimestralmente e deve
essere presentata entro il ventesimo giorno dalla fine del periodo al quale si riferisce
(ad esempio, per il trimestre 1° gennaio – 30 marzo, il termine è il 20 di aprile). Per
quanto riguarda il contenuto, la dichiarazione deve contenere i dati relativi ai servizi
forniti in ciascuno Stato membro dal soggetto passivo. Ogni Stato membro ha
comunque l’obbligo di condividere i dati relativi ai singoli Paesi alle relative
Amministrazioni finanziarie. Il soggetto passivo, poi, paga l’IVA nel Paese di
registrazione, il quale poi inoltrerà gli importi corrispondenti agli altri Paesi
dell’Unione coinvolti.
La previsione di questa norma è, dal punto di vista del rapporto tra l’imposizione
fiscale e l’economia digitale, emblematica. La decisione di “spostare” l’aliquota IVA
da quella della giurisdizione ove è residente il venditore a quella della giurisdizione
ove è residente l’acquirente, porta ad una serie di vantaggi, anche politici, non
indifferente. Il consumatore non effettuerà più la scelta di acquisto tenendo conto
dell’aliquota IVA del Paese di residenza del venditore, posto che gli verrà applicata
sempre la medesima aliquota corrispondente a quella dello Stato in cui vive. Si limiterà
pertanto, in piccolo, s’intende, la concorrenza fiscale tra Stati in tema di imposte
indirette. Inoltre, dato che una simile previsione è naturalmente mirata a disciplinare
tutto quel commercio, per così dire, facilmente “globalizzabile” e quindi fruibile
attraverso l’uso di internet, è interessante vedere come il sistema di tutela e gestione
fiscale degli ingressi derivanti dal pagamento delle imposte indirette presso i MOSS
appena descritti, sia un buon esempio di cooperazione comunitaria basata per lo più
sullo sfruttamento di un sistema avanzato di scambio di informazioni.
149
CAPITOLO QUARTO
DAL BEPS PROJECT ALLA DIGITAL TAX 1. LA TEORIA CONTRARIA 1.1. La “lotta” alla lotta all’elusione fiscale
Il tema del BEPS e la sua relazione con l’economia digitale, ha suscitato grande
interessa da parte della dottrina italiana e internazionale, che ha assistito allo sviluppo
ultra-rapido della questione e si è subito mostrata attiva attraverso una copiosa
produzione, soprattutto sulla stampa specializzata. Tendenzialmente unanime nel
condannare le pratiche analizzate di pianificazione fiscale aggressiva, lo sforzo
intellettuale si è sempre concentrato principalmente nella definizione e qualificazione
delle soluzioni proposte dall’OCSE e dalla loro prevedibile o meno efficacia.
Una particolare dottrina, invece, si è discostata dal coro unilaterale, affermando
sostanzialmente che in realtà il problema non sussista. Viene affermato infatti che «il
dibattito in materia di tassazione delle multinazionali del digitale appare
caratterizzato da molte petizioni di principio e affermazioni roboanti, ma scarsamente
fondate su una rigorosa osservazione dell’evidenza empirica»272. Le ragioni di siffatto
“equivoco”, deriverebbero da un’analisi dei dati particolarmente poco attenta e da
motivazioni riconducibili più alla sfera politica che non a quella giuridico-economica.
Uno degli esempi posti a sostegno di questa tesi, in verità parzialmente condivisibile,
è che spesso i dati che vengono forniti soprattutto dalla stampa non specializzata, sono
dati «grossolanamente imprecisi». Spesso, infatti, a dimostrazione del fatto che le
imprese multinazionali del settore digitale siano capaci di ottenere, attraverso schemi
di pianificazione fiscale ad hoc creati, aliquote effettive sul reddito d’impresa
particolarmente basse, vengono forniti due dati tra di loro, però, non comparabili: il
valore del fatturato e quello delle imposte versate in un anno fiscale. La proporzione
tra i due valori è effettivamente ictu oculi impressionante, posto che il rapporto si non
supera mai la soglia dell’1 a 100. Correttamente, viene a tal proposito notato come i
due dati non sono elementi comparabili in un’analisi fiscale, poiché l’imposta sul
reddito d’impresa si basa, per l’appunto, sul reddito e non sul fatturato. Con l’assenza
272 TROVATO, M., La tassazione dell’economia digitale: una soluzione in cerca di un problema?, in Istituto Bruni Leoni, IBL special report, 18 ottobre 2014, p. 5.
150
di qualsiasi scomputo relativo non solo a detrazioni, ma anche a tutti i tipi di costi che
“erodono”, questa volta lecitamente, la base imponibile, è evidente che la “forbice”
della proporzione appena descritta si amplia esponenzialmente. Pertanto, analisi come
quelle effettuate dalla pur autorevolissima rivista Financial Times, del gennaio 2014,
secondo la quale l’aliquota media effettiva pagata dalle multinazionali digitali
nell’anno fiscale 2012 nel Regno Unito sarebbe stata addirittura dello 0,0036%273,
sarebbero prive di fondamento, proprio perché il termine di comparazione con le
imposte versate sarebbe il fatturato dell’impresa e non il suo reddito; la bassa
redditività di un’impresa, in determinati casi, tra l’altro, può essere una scelta
imprenditoriale: Amazon, ad esempio, pur di guadagnare una solidissima posizione nel
mercato e riuscire a conquistare la vetta dell’online retailer, di fatto creando un
monopolio, ha scelto di operare con risicatissimi margini di profitto.274
L’assunto di partenza del ragionamento logico è quindi che, in realtà, le
multinazionali e in particolare le multinazionali digitali non siano soggette ad
imposizione minore o nulla per via delle strategie fiscali studiate, bensì subiscano una
tassazione paragonabile a quella delle altre imprese. La non condivisibile esegesi viene
sostenuta con l’aiuto di un grafico elaborato dallo studio KPMG e basato sui dati
pubblicati dallo studio della Commissione europea in tema di economia digitale, più
volte in questo scritto richiamato275 ove vengono analizzati i dati relativi agli anni
fiscali 2011, 2012 e 2013 di sette multinazionali del settore digitale e sette
multinazionali non appartenenti alla categoria. A fronte di un’aliquota legale media
(tra i membri dell’OCSE) del 25%, secondo il grafico riportato dalla dottrina citata
cinque multinazionali digitali su sette riportano un’aliquota effettiva più alta, a fronte
di due sole multinazionali non del settore.276 Addirittura, per l’anno fiscale 2012, le
società Facebook e Amazon avrebbero pagato le imposte sul reddito societario con
un’aliquota rispettivamente del 78,7% e dell’89,3%. Ad avviso dello scrivente, i dati
273 Nel loro articolo, Pressure to end digital “tax bonanza”, HOULDEN, V. e PICKARD, J. affermano che a fronte di un fatturato complessivo di 15 miliardi di sterline, le 7 principali multinazionali digitali ne avessero versate all’erario solo 54 milioni. L’articolo completo è disponibile all’indirizzo http://www.ft.com/cms/s/0/af8fbee4-7144-11e3-8f92-00144feabdc0.html. 274 op. cit. TROVATO, La tassazione dell’economia digitale, p. 6. 275 Il grafico utilizzato come base di partenza dagli esperti del gruppo KPMG è rinvenibile in questo documento al Capitolo Secondo. 276 ibidem, p. 7.
151
forniti dalla Commissione europea, così come analizzati, sono parzialmente fuorvianti.
Se da un lato è vero che l’unico dato con cui è possibile paragonare l’importo dei tributi
versati è il reddito e non certo il fatturato di un’impresa, dall’altra, nell’analisi qui
descritta di critica al problema dell’imposizione delle multinazionali digitali, sconta
una imperdonabile approssimazione. In altre parole, se è vero che nessuna impresa
multinazionale ha mai pagato così poche imposte come viene da certa stampa
affermando, dall’altra non è nemmen vero che il problema relativo all’imposizione di
tali società non sia rilevante e che esse non siano in grado di limitare il prelievo fiscale
tramite alcuni artefatti trasferimenti di danaro. La già richiamata tabella presentata
dalla Commissione, fornisce alla voce Tax over income, tre dati per ogni anno fiscale
analizzato: aliquota media, aliquota pagata negli Stati Uniti (sede di tutte e sette le
imprese scelte per la statistica) e aliquota media pagata fuori dagli Stati Uniti. Se è
vero che l’aliquota media tra tutte le giurisdizioni si attesta tra i 20 e i 40 punti
percentuali, ciò che viene omesso nell’analisi di TROVATO è il dato riferito alle sole
aliquote extra-U.S. La lotta all’elusione e alla pianificazione fiscale aggressiva contro
le multinazionali del settore digitale si concentra sempre e solo sulle operazioni che
avvengono nel mercato c.d. EMEA, quindi lasciando completamente da parte tutto ciò
che è relativo alla gestione dell’impresa negli Stati Uniti. È sui profitti generati
principalmente in Europa che tali imprese riescono a erodere sensibilmente la base
imponibile. Non a caso, analizzando la colonna delle aliquote medie applicate fuori
dagli States si osserva che, a parte rarissimi casi, tale aliquota non supera mai il 10%
del reddito, arrivando al minimo di 1,9% (Apple, dati riferiti al 2012) quando non
direttamente in perdita. A proposito di perdite, peraltro, sia concessa una precisazione:
le aliquote impressionanti e superiori al 75% cui supra si è accennato, nascono da una
mera proporzione aritmetica tra l’aliquota statunitense e la perdita registrata nello
stesso periodo nella zona extra-U.S.277 e pertanto non hanno alcun valore statistico ai
fini dell’analisi che qui ci occupano.
Si richiama inoltre una certa dottrina internazionale278 che ha confrontato tali
277 Meglio osservando, infatti, le aliquote pagate negli Stati Uniti sono state rispettivamente il 46% per Amazon (aliquota media 78,7%) e 40,1% per Facebook (aliquota media 89,3%). 278 DHARMAPALA, D., What do we know about base erosion and profit shifting? A review of the emprical literature, in CESifo, working paper n. 4612, gennaio 2014, pp. 14 e segg.
152
dati con maggiore accuratezza, incorporando anche le caratteristiche specifiche dei
Paesi e delle aziende oggetto dell’analisi. Ivi si dimostra come mentre un tempo la
semi-elasticità dei profitti imputati alla controllata rispetto al differenziale di aliquota
con la controllante era maggiore di 2 (quindi più del doppio), oggi questo valore è
sceso fino ad un valore di 0,4/0,5 secondo alcune ricerche279; mentre la media
ponderata tra 25 studi accademici non connessi280, porterebbe ad un valore di 0,8. Ciò
sta a significare che un aumento di 10 punti percentuali nel differenziale tra l’aliquota
applicabile sul reddito nella giurisdizione della controllante e quella nella giurisdizione
della controllata si tradurrebbe in una crescita dell’8% dei profitti lordi della stessa
controllata. In altre parole, qualora in base alle giurisdizioni in cui hanno sede
controllata e controllante, la differenza tra le aliquote dell’imposta sul reddito
societario sia, ad esempio il 10%, ciò si traduce in un “mero” aumento di 8 punti
percentuali dei profitti della controllata. Lo studio assumer rilievo in quanto, come
evidenziato, molti studi manifestano un rapporto estremamente più ampio
(nell’esempio la controllata anziché aumentare i profitti dell’8%, li aumenterebbe del
20%).
La tesi “contraria” prosegue con un’altra importante questione legata al transfer
pricing e cioè la determinazione del prezzo secondo i criteri del pluri-citato arm’s
length principle. Secondo la dottrina richiamata281, nel caso di imprese, di cui fanno
parte anche tutte le multinazionali digitali, c.d. multi-sided o “ a più versanti”, vi è la
tendenza a fissare dei prezzi di trasferimento che divergono dal costo marginale di
produzione, ma nonostante ciò, aumentano il benessere sociale in quanto espressione
di esternalità positive ed effetti di rete. Pertanto, non solo non è possibile associare
automaticamente tale determinazione del prezzo di trasferimento ad un intento elusivo,
ma potrebbe essere addirittura, per i motivi appena spiegati, impossibile determinare
il valore “normale” dei beni o servizi in questione, con conseguente impossibilità di
determinazione di un prezzo rispettoso od irrispettoso dell’arm’s length principle.
L’analisi viene poi conclusa affermando che «sì, l’economia digitale spariglia
279 LOHSE AND RIEDEL (2013). 280 HECKEMEYER AND OVERESCH (2013) hanno raccolto 238 dati relativi alla semi-elasticità da 25 differenti studi accademici sul profit shifting. 281 SCHINDLER, D. – SCHJELDERUP, G., Profit Shifting in two-sided markets, in International Journal of the Economics of Business, vol. 17, n. 3, novembre 2010, pp. 375-383.
153
le carte; si è oggi possibile prestare servizi in tutto il mondo da un qualsiasi angolo
del globo; no, non c’è nulla di deprecabile in questo; no, non c’è alcuna ragione per
cui il reddito di un’impresa vada spartito tra le giurisdizioni in cui risiedono i suoi
clienti».282
1.2. Le critiche alle proposte
Non convincenti sembrano essere quindi anche le soluzioni proposte per la
tassazione delle multinazionali digitali, proprio dal concetto di “significativa presenza
virtuale” da determinarsi in base al bacino d’utenza delle imprese. Viene ricordata a
tal proposito una recente e corretta sentenza della Nostra Suprema Corte, chiamata a
decidere su una presunta omessa dichiarazione e pregiudizialmente quindi
sull’effettiva residenza di una società con sede legale a Malta, ma che gestiva un sito
internet di scommesse attivo principalmente nel mercato italiano. I Giudici hanno
esclusivo che la “localizzazione della clientela” o la concessione per il gioco d’azzardo
potessero assurgere a criterio per la determinazione della residenza nel territorio dello
Stato.283. Non viene risparmiata nemmeno la proposta francese (fortemente sostenuta
da COLIN-COLLIN) sulla tassazione in relazione alla raccolta dei dati personali degli
utenti. La critica muove dal fatto che «la sola raccolta e gestione dei dati personali
non [genera] alcun introito»284, ma lo genera solo grazie alla canalizzazione in un
sistema tecnologico particolarmente complesso e costoso da mantenere. Pertanto non
può essere confuso il luogo della creazione del valore, con quello della produzione del
reddito.
Infine, sostanzialmente, viene sconsigliata l’applicazione di un’imposta che
vada a colpire il mercato digitale in quanto tale. Questa dottrina, in generale si dimostra
particolarmente avversa all’imposizione fiscale sul reddito delle imprese tout court.
Non a caso, viene citato uno studio portato avanti da KOTLIKOFF ET AL., in cui viene
ipotizzata come soluzione, l’eliminazione dell’imposta sul reddito delle società: gli
282 op. cit. TROVATO, La tassazione dell’economia digitale, p. 19. 283 Cassazione Penale, Sez. III, sentenza 17 gennaio 2014, n. 1811. 284 op. cit. TROVATO, La tassazione dell’economia digitale, p. 12.
154
studiosi hanno evidenziato285 come l’eliminazione dell’imposizione sul reddito
societario negli Stati Uniti portasse ad una riduzione del gettito contenuta e in parte
bilanciata dalla maggiore crescita. Partendo dall’assunto, poi, che, come dimostrato in
un importante studio dottrinale286, l’aumento dell’imposta di 1 euro generi una
diminuzione dei salari di 49 centesimi, non vi sono ragioni per mantenere un’imposta
“obsoleta” e «la cui sola utilità è quella di preservare l’illusione finanziaria».287
2. LE ISTITUZIONI POLITICHE E LE SOLUZIONI 2.1. L’approvazione degli Stati Uniti
Sull’ampia portata delle soluzioni proposte dall’OCSE, per quanto sicuramente
di efficacia maggiore nella lotta all’elusione fiscale rispetto alla situazione attuale,
alcuni Stati hanno sollevato dubbi di natura politica in merito alla loro applicabilità.
Gli Stati Uniti, per esempio, hanno espresso alcune riserve in particolare sull’action
plan n. 13, che introduce il country-by-country report, una delle novità più importanti
della lotta all’elusione tramite transfer pricing. In una lettera aperta al Tesoro
statunitense, due autorevoli membri del congresso, PAUL RYAN, Chairman del Ways
and Means Committee e ORRIN HATCH, Chairman del Senate Finance Committee si
dichiarano preoccupati dall’introduzione del report in quanto le imprese
multinazionali soggette alla sua redazione, per essere adempienti, dovrebbero fornire
informazioni sensibili sulle loro operazioni alle Amministrazioni fiscali non solo
americane. In merito, quindi, all’opportunità di una tale previsione, affermano che «la
richiesta, l’archiviazione e la condivisione di queste informazioni da parte
dell’Amministrazione finanziaria con i Governi stranieri è fatto opinabile».288 Sempre
in merito alla condivisione di dati finanziari sensibili e al loro reperimento, certa
dottrina statunitense ha fatto notare come, qualora l’implementazione della disciplina
285 FEHRA, H. – JOKISCHB, S. – KAMBHAMPATIC, A. – KOTLIKOFF, L. J., Simulating the elimination of the U.S. corporate income tax, in NBER Working Paper, n. 19757, dicembre 2013. 286 ARULAMPALAM, W. – DEVEREUX, M. P. – MAFFINI, G., The direct incidence of corporate income tax on wages, in European Economic Review, vol. 56, n. 6, agosto 2012, pp. 1038-1054. 287 op. cit. TROVATO, La tassazione dell’economia digitale, p. 21. 288 HATCH, O. – RYAN, P., Call on Treasury to Engage Congress on OECD International Tax Project, 9 giugno 2015, http://www.finance.senate.gov/newsroom/chairman/release/?id=ff0b1d06-c227-44be-8d5a-5f998771188b. Traduzione libera.
155
country-by-country «non fosse disponibile per qualsiasi ordine di ragione -lo Stato
decide di non adottarlo ovvero non può farlo- le linee guida suggeriscono allora che
gli altri Stati siano legittimati a reperire tali informazioni direttamente dalle imprese
multinazionali, dalle sussidiarie o dalle operazioni effettuate nelle relative
giurisdizioni».289 Nel caso invece degli accordi basati sul modello OCSE per lo
scambio di informazioni, il c.d. TIEA (Tax Information Exchange Agreement), sono
presenti degli strumenti di protezione che garantiscono la riservatezza dei dati
acquisiti; tali strumenti di protezione non sussisterebbero nel caso di una richiesta
diretta da parte di un’Amministrazione finanziaria straniera (rispetto alla sede
dell’impresa). La determinazione del Governo statunitense nel contrasto all’elusione
fiscale internazionale manifestata, come già argomentato nel Capitolo Primo, in sede
di riunione del Gruppo dei 20, sembra essere smorzata dagli effetti potenziali dei
rimedi individuati dalla stessa OCSE cui il Gruppo aveva “commissionato” la
soluzione. Anche non considerando l’aspetto relativo al country-by-country report,
l’umore tra gli esperti americani in tema BEPS project non è tra i più ottimisti, in
quanto si ritiene che, per così dire, il danno sia maggiore del beneficio. Recenti studi
tendono a ridimensionare la portata della gravità del fenomeno elusivo delle
multinazionali, dimostrando come in realtà un’impresa, ad esempio, residente in uno
Stato A, ove l’aliquota per le imposte societarie è il 25%, avendo l’opportunità di
riallocare artificialmente parte della propria base imponibile in uno Stato B ove
l’aliquota si attesta al 15%, sarebbe in grado di farlo per non più del 4% del proprio
reddito. Sarebbe pertanto minimo il mancato gettito derivante dalla creazione di un
simile artefatto economico.290 Inoltre, non sembra esserci discrepanza tra l’attività
economica sostanziale delle imprese multinazionali e l’attività economica on paper,
nel senso che esse, nei Paesi a bassa fiscalità, tendono ad effettuare investimenti reali,
tali da rendere effettiva la presenza in quei Paesi di tali società, ove pertanto esse non
si limitano a sfruttare solo “artificialmente” le previsioni della disciplina fiscale.
L’enfasi su determinate tipologie di attività economiche come elemento primario per
289 CORWIN, M., U.S. Reaction to the OECD's BEPS Country-by- Country Reporting Standards, 30 giugno 2015. l’intervista è disponibile all’indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=sF9QjgDK9dc. Traduzione libera. 290 HINES JR., J. R., How Serious Is the Problem of Base Erosion and Profit Shiftng?, in Canadian Tax Journal, 2014, fasc. 62.2, pp. 443-453.
156
la determinazione del luogo ove tali attività dovrebbero essere tassate è simile al
sistema di ripartizione utilizzato dal Governo degli Stati Uniti per la quantificazione
delle imposte societarie.291 Le previsioni OCSE sarebbero particolarmente incisive
sull’economia degli Stati Uniti: l’imposta sul reddito societario è nel Paese la più alta
tra i membri dell’organizzazione internazionale parigina e pertanto l’adeguamento alle
proposte del BEPS project influenzerebbe in modo rilevante la politica di investimento
delle imprese multinazionali in tema di investimento di capitale e riallocazione della
forza lavoro.292 I principi espressi dagli action plans incentiverebbero quindi le
multinazionali a spostare la forza lavoro creativa e altamente remunerata al di fuori
degli Stati Uniti dal momento che questo sarebbe il modo più semplice per approfittare
della bassa tassazione presente altrove. Qualora venissero attuate le proposte ivi
contenute, infatti, le imprese statunitensi, «usufruirebbero di una tassazione più
agevole trasferendo la sede delle loro proprietà intellettuali per ragioni fiscali e legali
verso Paesi a fiscalità privilegiata al fine di spostare artificialmente il reddito verso
quegli Stati».293 La conseguenza immediata di una simile situazione sarebbe la famosa
ed evitabile race to the bottom, e cioè la “corsa” all’offerta di incentivi fiscali per
attrarre investimenti, generalmente intentata attraverso una “gara” al ribasso delle
aliquote sulle imposte societarie. Uno studio, non recentissimo, ma comunque
attuale294, indica come i Paesi offrono maggiori incentivi fiscali alle compagnie le cui
scelte di allocazione sono maggiormente influenzate dalle imposte. Un’allocazione
activity-based del reddito incentiva in maniera intensiva la competizione fiscale tra gli
Stati. Secondo le simulazioni effettuate dallo studio, una volta che le reazioni
comportamentali delle imprese vengono prese in considerazione, il gettito generato
dalle imposte sul reddito societario sotto tale forma di ripartizione (che effettivamente
è similare a quella del BEPS, NdR) non è generalmente maggiore di quello generato
sotto l’attuale sistema. Inoltre, il nuovo sistema è associato a maggiori distorsioni delle
291 SINGH, K. – MATHUR, A., BEPS and the Law of Unintended Consequences, in Tax Analysts, On the margin, 16 settembre 2013, pp. 1331-1338. 292 MATHUR, A., The U.S. Is Right To Worry About The OECD's BEPS Project, 22 giugno 2015, http://onforb.es/1dbsph0. 293 MANDEL, M., Obama’s Corporate Tax Blunder, in New York Times, 9 giugno 2015. Traduzione libera. 294 Si tratta del lavoro effettuato da ALTSHULER e GRUBERT nel 2004, cui in seguito si accennerà in maniera più esaustiva.
157
attività economiche, oltre ad un peggioramento generale del welfare.295
2.2. Alcune riflessioni dottrinali
Rispetto all’efficacia politica del BEPS project e agli sviluppi dell’argomento in
tema di approvazione delle norme ivi proposte, la dottrina si è espressa fornendo le più
varie interpretazioni. Parzialmente in linea con quanto supra riportato in merito alle
opinioni di TROVATO, anche taluni accademici d’oltreoceano hanno espresso riserve
in merito sia al dimensionamento del fenomeno elusivo legato alle pratiche di base
erosion and profit shifting, sia in merito all’opportunità delle soluzioni ipotizzate dal
G-20/OCSE. In particolare, viene acutamente notato come la questione della
pianificazione fiscale delle multinazionali, specialmente digitali, sia un problema da
affrontare secondo uno schema binario: da un lato, è necessario analizzare dal punto
di vista giuridico e politico il «lungo dibattito in merito all’adeguatezza della
normativa fiscale internazionale e degli standards accolti per la protezione della base
imponibile [di talune] giurisdizioni», dall’altra è necessario prestare attenzione,
nell’elaborazione di un pensiero critico, anche al meno tecnico dibattito in tema di
«moralità fiscale e (…) fair share of taxes».296 In merito al primo argomento, il
dibattito è stato ampio e ha toccato tutti gli interlocutori possibili (dai Governi alla
dottrina) e tutti gli argomenti principali, tra cui i meriti di un sistema di tassazione su
base territoriale o worldwide, l’appropriatezza di un’imposta sul reddito piuttosto di
un’imposta sui consumi, la competitività delle imprese multinazionali, la
competizione fiscale e il race to the bottom, oltre naturalmente al base erosion and
profit shifting in generale. Tale proficuo dibattito è però stato indebitamente
influenzato dalle proteste pubbliche e dall’indignazione generale (e non basata su
argomentazioni tecniche) che è scoppiata con riferimento alle pratiche fiscali studiate
dalle multinazionali. In questo contesto, la politica è stata alimentata da questa
295 ALTSHULER, R. – GRUBERT, H., Taxpayer Responses to Competitive Tax Policies and Tax Policy Responses to Competitive Taxpayers: Recent Evidence, International Tax Policy Forum/American Enterprise Institute Conference on “Competition vs. Cooperation in Global Tax Policy”, Washington, D.C., 9 dicembre 2003. 296 Ambo le citazioni si riferiscono a CORWIN, M. S., Sense and Sensibility: the policy and politics of BEPS, in Tax Notes, 6 ottobre 2014, p. 133. Traduzione libera.
158
pressante urgenza di cambiamento che ha portato ad ipotizzare soluzioni rapide,
provvisorie e mal congeniate in un contesto internazionale. Indignazione, peraltro, a
sua volta alimentata dalla crisi finanziaria globale e dalle misure di austerity poste da
molti Governi, soprattutto degli Stati membri dell’Unione Europea. L’esposizione
mediatica del problema, in correlazione con le pubbliche udienza, già citate nel
presente scritto, in cui sono stati ascoltati di rappresentati delle multinazionali
chiamate in causa, hanno generato ulteriori proteste e boicottaggi da parte
principalmente della popolazione europea. La eco mediatica è stata tale per cui anche
molte riviste non specializzate di diritto, e non solo periodici di informazione, hanno
iniziato ad argomentare con toni particolarmente critici le pratiche fiscali di dette
imprese.297 Al di là di un’oggettiva difficoltà di rendere più chiaro al pubblico un
argomento così complesso come la disciplina fiscale internazionale, è indubbio che sia
la politica che le imprese coinvolte risentano in modo forte di una tale attenzione
mediatica. Infatti «la fortemente potenziata retorica che è caratteristica della
tradizionale rappresentazione del problema, che (nel caso di specie, NdT) concentra
l’attenzione del pubblico sul comportamento delle multinazionali e non sulle norme
tributarie internazionali e confonde il problema stesso, quantomeno in maniera
equivoca e in ultima analisi, pericolosamente. Per l’effetto distorce il comportamento
sia dei Governi sia delle stesse multinazionali in maniera costosa per entrambi e che
non è direzionata ad un miglioramento dei [veri] problemi politici sottostanti».298 Dal
punto di vista dei primi, una tale situazione può determinare un cambio nelle priorità
delle scelte legislative e determinare modifiche alla disciplina che non siano né
necessarie né efficaci rispetto ai problemi che sono chiamate a risolvere. Dal punto di
vista delle imprese coinvolte nello “scandalo”, invece, l’inevitabile calo d’immagine
obbligherebbe le compagnie a cercare di mitigare l’effetto negativo attraverso scelte
imprenditoriali dettate unicamente da ragioni “di facciata” e non economiche. Secondo
la dottrina citata, comunque, da tale complessa situazione potrebbe essere ricavabile
297 Oltre alla celebra rivista Newsweek, che nella pubblicazione del 12 settembre 2014 intitolava “Corporate Deadbeats: if you were Apple, Google or Amazon taxes wouldn’t bite, they would make you richer”, è emblematico l’articolo del 27 agosto dello stesso anno apparso sulla rivista musicale Rolling Stone che riportava “The Biggest Tax Scam Ever: some of America’s top corporations are parking profits overseas and ducking hundreds of billions in taxes. And how’s Congress responding? It’s rewarding them for ripping us off”. 298 op. cit. CORWIN, Sense and Sensibility, p. 135. Traduzione libera.
159
un potenziale stimolo alla modifica ponderata degli istituti bisognosi di revisione. In
un contesto così fervente e in attesa di risultati, le scelte dei Governi, se non dettate
unicamente dall’intenzione di placare gli animi, potrebbero essere accompagnate da
una spinta maggiore ad esporti più di quanto sarebbero disposti a fare in circostanze
meno pressanti. Pertanto, tenendo conto delle rispettive posizioni (quella della
pubblica opinione, quella delle imprese e quella degli stessi Governi), sarebbe
possibile ottenere i tanto attesi cambiamenti nella disciplina internazionale tributaria.
Per fare ciò, però, viene sottolineata l’importanza fondamentale della cooperazione
internazionale, attraverso gli organismi dell’OCSE e del Gruppo dei 20. Per questo
motivo, CORWIN saluta con favore il lavoro che 44 Stati (rappresentanti il 90%
dell’economia mondiale) stanno effettuando congiuntamente nel BEPS project.
Altra autorevole dottrina299 pone in risalto il rapporto non tanto tra pianificazione
fiscale delle multinazionali e opinione pubblica quanto il rapporto tra le prime e gli
stessi Governi. Effettivamente, parafrasando il pensiero citato, “l’altra faccia della
medaglia” è rappresentata dalla concorrenza fiscale che gli stessi Stati membri mettono
in atto per attrarre sul proprio territorio la maggiore quantità possibile di capitale di
investimento.
Infine, alcuni professionisti300 hanno utilizzato una colorita metafora per
interpretare i problemi relativi alla disciplina del fenomeno BEPS project dell’OCSE.
vengono identificati tre elementi a cui vengono associati tre animali:
- l’elefante, rappresenta il problema di lunga data sulla differenza di tassazione in
base alla fonte ovvero in base alla residenza;
- il gorilla, rappresenta la nozione di tassazione “equa” che sta prendendo piede
nel dibattito internazionale;
- la tigre, rappresenta l’accesso alla disciplina contro la doppia imposizione da
parte dei contribuenti.
Rispetto al primo elemento, rappresentato dall’elefante, viene evidenziato come
la questione della territorialità è stata particolarmente messa in discussione dall’ormai
299 AULT, H.J. – SCHON, W. – SHAY E.S., Base Erosion and Profit Shifting: A Roadmap for Reform, in Bulletin For International Taxation, 2014, Volume 68, numero 6/7, pp. 275 e segg. 300 VAN HERKSEN, The OECD BEPS report: the Story of the Elephant, the 800-pound Gorilla and the Tiger, Ernst&Young the Netherlands, 2013.
160
consolidata prassi del ricorso agli strumenti di transfer pricing e più in generale
dell’utilizzo massiccio di intangibles da parte delle multinazionali e dal repentino
svilupparsi dell’economia digitale, per cui «le multinazionali si sono organizzate per
raggiungere un largo numero di utenti in mercati territorialmente molto distanti»301
generando per l’appunto, complice soprattutto la globale crisi economica, l’attenzione
mediatica e politica sulla questione. Pertanto, a seguito di questi eventi, “entra” in
maniera dirompente nella stanza anche il gorilla: lo scoppio dello scandalo relativo
alla gestione infra-gruppo dei profitti delle multinazionali ha generato una discussione,
ai più vari livelli (come visto, sia nell’ambito professionale che quello pubblico), in
merito all’opportunità del sistema fiscale, sia relativamente a quello sul reddito
societario in sé, sia in relazione alla tassazione dei privati cittadini. Come evidenziato
anche dalla precedente dottrina «c’è un grande senso di ingiustizia a livello del grande
pubblico, poiché nella presente crisi economica è visto come il risultato principale
dell’avidità di qualcuno a spese di molti altri. Il popolo, i politici e la stampa stanno
tutti cercando qualcuno da condannare».302 In questo senso la scelta del gorilla è
determinata dal fatto che egli è un animale sociale, leale con il proprio branco, ma non
con gli elementi esterni. Il gorilla ha bisogno inoltre di essere il centro dell’attenzione.
Infine, l’ultimo animale ad entrare nella stanza, è la tigre, che rappresenta il diritto a
non essere tassati due volte in due giurisdizioni sulla base del medesimo presupposto
d’imposta. È un predatore territoriale e solitario, che non agisce in gruppo. La doppia
tassazione è un costo insostenibile per le imprese e per i governi, in quanto la natura
delle multinazionali è quella di assorbire e “passare” il costo delle imposte verso il
consumatore finale attraverso la fornitura di beni o servizi.
L’elefante e la tigre, per quanto animali grandi e coraggiosi, devono comunque
fare i conti il gorilla, il quale, proprio in virtù della sua natura, potrebbe non vedere
alcuna ragione per permettere alle multinazionali di evitare la doppia imposizione, in
quanto il suo unico scopo è quello di assicurarsi che qualsiasi azione venga intrapresa
all’interno della stanza e riguardante l’elefante sia strutturata per favorire i privati
cittadini. Con uno sguardo al futuro, VAN HERKSEN, attraverso questa interessante
metafora della situazione del diritto tributario internazionale, afferma come la fiscalità
301 ibidem, p. 6. Traduzione libera. 302 ibidem, p. 8. Traduzione libera.
161
sia molto più trasparente oggi di quando non sia mai stata in passato, grazie sia
all’avvento di internet, sia della maggiore collaborazione tra le Amministrazioni
fiscali; questo fatto rende il Mondo apparentemente più piccolo e il tal fatto determina
che la percezione dei problemi, in questo caso relativi al tema della fiscalità
internazionale, vengano ingranditi, quantomeno a livello di percezione; per questo
motivo, «to allow these three large animals to live in harmony and co-exist going
forward, it is crucial that all of them get the proper amount of attention but also the
proper amount of space to live and function adjacent to each other».303
2.3. I pregressi tentativi
La questione del BEPS, per quanto di recente sviluppo, è riuscita a far attivare il
Legislatore di alcuni dei Paesi dell’Unione Europea ancora prima che l’OCSE
terminasse il suo processo di revisione del Modello di convenzione. In particolare,
Spagna, Italia, Ungheria, Francia e Regno Unito hanno avanzato delle ipotesi
legislative, con esiti più o meno fortunati, al fine di poter rendere fiscalmente
imponibili i redditi prodotti dalle imprese multinazionali digitali per l’attività svolta
all’interno del loro territorio. Nel nostro Paese, tale tentativo si è concretizzato nella
proposta di Legge presentata dall’On. Boccia (PD), che ha rapidamente preso il nome
di web tax, ma che altrettanto rapidamente ha prematuramente abbandonato la strada
che porta all’approvazione, essendo stata ufficialmente accantonata nel 2014304. La
Spagna, dal canto suo, ha approvato nel 2014305 una singolare norma, che incide più
che sul sistema digitale e sul mondo di internet nel suo complesso, sul ramo più
specifico del diritto d’autore online. Ha infatti imposto il pagamento di una tassa per
la c.d. “ricondivisione” di contenuti terzi su un portale, in diretto ed espresso contrasto
con uno dei servizi principali di Google, e cioè il servizio Google News, che a seguito
dell’introduzione nell’ordinamento di tale norma, è stato chiuso. Tentativo più
interessante di regolazione del fenomeno digitale è stato effettuato dall’Ungheria con
303 ibidem, p. 16. 304 La comunicazione “ufficiale” è avvenuta attraverso l’account di Twitter del Presidente del Consiglio dei Ministri, Matteo Renzi, il 28 febbraio 2014, https://twitter.com/matteorenzi?ref_src=twsrc%5Etfw. 305 http://www.wired.it/internet/regole/2014/10/31/spagna-google-tax.
162
la temporanea approvazione della, già conosciuta in dottrina, bit tax. Infine, un
importante lavoro in tema di tassazione delle multinazionali digitali è stato pubblicato
in Francia e ripetutamente qui citato: si tratta del rapporto Colin-Collin che, tra le altre,
individua un alternativo sistema per la tassazione del c.d. “lavoro gratuito” degli utenti
che si iscrivono ai servizi offerti dalle multinazionali.
2.3.1. La proposta italiana
La norma era stata introdotta nella Legge di Stabilità per il 2014 in data 27
dicembre 2013. L’obiettivo dichiarato era di sottomettere ad imposizione i ricavi
derivanti dalla vendita di pubblicità effettuata dalle principali multinazionali del
settore digitale. Per quanto riguarda le imposte dirette, la norma prevedeva che per la
determinazione del reddito di impresa relativo alle operazioni infra-gruppo,
disciplinate all’art. 110, co. 7 del TUIR, le società residenti sarebbero state tenute
«all’utilizzo di indicatori di profitto diversi da quelli applicabili ai costi sostenuti per
lo svolgimento della propria attività».306 Inoltre la norma prevedeva, con
l’introduzione nel D.P.R. n. 633-1972 dell’art. 17-bis e denominato “acquisto di
pubblicità on-line”, che i soggetti passivi che intendessero acquistare i servizi di
pubblicità online fossero obbligati a farlo esclusivamente da soggetti titolari di una
partita IVA italiana e che anche essi stessi fossero dotati di partita IVA italiana. La
proposta, così come formulata, appariva inadeguata. Per la Commissione europea
suscitava «seri dubbi»307 in quanto la previsione dell’obbligo di dotarsi di partita IVA
italiana per l’offerta di servizi, svolti su qualsivoglia piattaforma, era correttamente
ritenuta in contrasto con uno dei principi fondamentali posti a base dell’Unione, e cioè
la creazione e il mantenimento del mercato unico dei prodotti e servizi e sulla loro
libera circolazione. L’approvazione di una simile norma avrebbe comportato una
limitazione intollerabile della libera circolazione dei servizi, perché nessuna impresa
comunitaria che non fosse registrata anche in Italia avrebbe potuto proporsi nel
mercato del nostro Paese, così come nessun cittadino italiano avrebbe potuto usufruire
306 Art. 1, co.177, Legge 27 dicembre 2013, n. 147. 307http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-12-19/commissione-ue-la-web-tax-potrebbe-violare-regole-comunitarie-160540.shtml.
163
dei servizi offerti da qualsiasi impresa comunitaria non registrata con una partita IVA
anche italiana. La proposta, poi, ha ricevuto critiche308 anche dal punto di vista
politico, in quanto, non soltanto non sarebbe proficuo far intraprendere a tutti e
ventotto i Paesi dell’Unione strade personali, generando una moltitudine di discipline
differenti, su un tema che è in realtà comune e comunitario, nel senso che inficia i
valori primari dell’esistenza della stessa Unione Europea e che pertanto in quella sede
andrebbero concordati, ma anche perché la comunità internazionale (ad esempio la
stessa OCSE con il suo BEPS project, all’epoca già avviato) si era mossa per trovare
una soluzione comune a livello internazionale al problema della bassa tassazione delle
imprese multinazionali del settore digitale. La disposizione che conteneva la proposta
normativa è stata definitivamente abrogata dall’articolo 2, comma 1, lettera a), del
decreto legge 6 marzo 2014, n. 16 (c.d. “Decreto Salva Roma Ter”), convertito con
modificazioni dalla legge 2 maggio 2014, n. 68, nell’attesa di uno sviluppo in materia
a livello internazionale. Rimane in vigore, comunque, la norma che dispone che il
pagamento dei servizi pubblicitari online avvenga esclusivamente tramite bonifico
bancario o postale, con obbligo di inserimento dei dati identificativi del destinatario
del pagamento, o comunque con qualsiasi mezzo di pagamento che sia idoneo a
garantire la piena tracciabilità dell’operazione. L’Amministrazione finanziaria
italiana, quindi, anche in assenza di una norma che disciplina l’imposizione delle
multinazionali digitali, ha a disposizione uno strumento normativo che le permette la
creazione di un database di monitoraggio del numero e dell’entità delle transazioni
commerciali, realizzate sul suolo nazionale, riguardanti le attività di pubblicità online
che costituiscono la principale fonte di reddito delle multinazionali digitali.
2.3.2. La proposta spagnola
La Spagna ha introdotto nel proprio ordinamento, con efficacia a far data dal 1°
di gennaio del 2015, una norma mirata a colpire il servizio denominato Google News
attraverso una “compensazione equitativa” da applicare ai siti web c.d. “aggregatori di
notizie”. Google News è un servizio gratuito che funge sostanzialmente da database
308 così SCORZA, G., in http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/11/06/una-internet-tax-contro-leuropa-e-contro-il-futuro/767919/.
164
delle notizie pubblicate su varie testate giornalistiche online; funziona essenzialmente
come il servizio di ricerca base: l’utente, inserendo le parole chiave relative
all’argomento di proprio interesse, accede a tutti i contenuti, per l’appunto “postati”
dalle varie testate giornalistiche sui propri portali. La funzione del servizio, pertanto,
è quella di aggregare tutti i link relativi agli articoli pubblicati online dalle testate
giornalistiche e relativi alle parole chiave ricercate. La riforma della Legge integra, tra
le altre cose, l’articolo 32 della Ley de Propiedad Intelectual, del 1996: stabilisce che
gli editori hanno il diritto di ottenere un compenso per i “frammenti non significativi
dei loro articoli”, utilizzati da prestatori di servizi elettronici di aggregazione.309
La ratio di questa norma è quella di valorizzare il lavoro degli addetti del settore
ed evitare che il mondo dell’editoria tradizionale venga in qualche modo danneggiato
dal servizio gratuitamente reso. Non a caso la norma, oltre che con il nome
giornalistico di Google Tax è conosciuta nel Paese iberico come canon AEDE, dove
l’acrnomino sta per Asociación de Editores de Diarios Españoles, e cioè
l’associazione degli editori di quotidiani della Spagna; la norma, infatti, è stata
approvata in seguito alla pressione lobbystica degli editori della carta stampata i quali,
a torto, hanno ritenuto di essere danneggiati dall’enorme bacino di utenza di Google
News che accumulava le notizie prese proprio dai siti web delle stesse testate
periodiche dagli editori dell’associazione pubblicate. L’errore di fondo sta nel fatto
che, se è vero che il diritto d’autore specialmente in internet sia un bene prezioso e
non sempre facilmente proteggibile, è altrettanto vero che
- da una parte, Google non riportava come proprie le notizie aggregate, ma sempre
riportava (e nei Paesi in cui opera, continua a riportare), il nome della testata e
l’autore dell’articolo,
- dall’altra, l’enorme visibilità del servizio offerto permetteva un traffico
altrimenti impensabile verso i siti delle testate giornalistiche, con conseguenti
maggiori introiti per l’editore sotto forma di inserzioni pubblicitarie in quanto
l’articolo non è mai interamente visibile da Google News.
309 «la messa a disposizione del pubblico da parte di prestatoti di servizi elettronici di aggregazione di contenuti, di frammenti non significativi di contenuti divulgati in riviste o in siti web (…) non necessiterà di autorizzazione, senza pregiudizio per l’editore (…) di percepire una compensazione equitativa. Questo diritto sarà irrinunciabile (…)». Art. 1, co. 6, Ley N° 21/2014, del 4 novembre. Traduzione Libera.
165
Non si comprendono pertanto le ragioni dell’introduzione di un simile “canone”,
in quanto esso unicamente comporta la limitazione della circolazione delle notizie, non
apporta un maggior introito nelle casse né degli editori delle testate periodiche “citate”
da Google, né tantomeno nelle “tasche” degli autori degli articoli. In seguito
all’approvazione della norma Google ha chiuso il servizio News sul portale spagnolo.
2.3.3. La proposta ungherese
Con una proposta di legge avanzata nel 2014, il Governo ungherese aveva
ipotizzato l’ampiamento della tassa sulle comunicazioni telefoniche introdotta nel
2012, gravante sui servizi di telefonia fissa e mobile e rapportata ai minuti di telefonate
e al numero dei messaggi di testo. Secondo la proposta, detta imposta sulle
telecomunicazioni avrebbe dovuto colpire anche i servizi di telefonia e messaggistica
forniti attraverso internet (cd. Voice over Internet Protocol, più semplicemente
conosciuto come VoIP) sostanzialmente equiparando ai fini fiscali le comunicazioni
effettuate tramite sistema analogico (quindi telefonia) e sistema digitale (VoIP).
In realtà, però, lo scopo ufficiale della norma non era rispettato dalla struttura del
tributo. Il presupposto di imposta, così come ipotizzato, non permetteva di “separare”
il traffico di dati relativo alle eventuali comunicazioni effettuate con il sistema VoIP
dal traffico generico di dati in rete. Ciò che veniva solo all’apparenza celata, era,
quindi, una bit tax a tutti gli effetti.310 Infatti l’imposizione sarebbe dovuta avvenire
calcolando genericamente il complesso dei dati scaricati e misurati in gigabytes;
inizialmente, peraltro, non era stato previsto un tetto massimo al prelievo e tal fatto
aveva generato una prima grande ondata di disapprovazione, poiché il tributo
ammontava a circa 50 centesimi di euro per gigabyte, quindi con un prelievo che
poteva incidere in modo considerevole sul bilancio di una famiglia. Successivamente
è stato inserito un tetto massimo di 700 fiorini ungheresi per i privati (circa 2,50 euro)
e 5.000 fiorini ungheresi per le imprese (circa 15,00 euro). I soggetti passivi di imposta
sarebbero dovuti essere i providers che forniscono la connessione internet (i già
analizzati ISP), che avrebbero potuto traslare l’imposta sul consumatore finale, che
310 MELIS, G., Economia digitale e imposizione indiretta, in InnovazioneDiritto, fasc. 1, 2015, p. 87.
166
sarebbe così diventato il contribuente di fatto. La norma ha creato un forte dibattito nel
Paese, ricevendo critiche multilaterali, sia dagli ISP che lamentavano gravi
conseguenze per i loro bilanci e il necessario innalzamento dei prezzi, sia gli utenti che
hanno lamentato non soltanto l’aumento del prezzo del servizio, ma una ben più grave
violazione di Diritti e Libertà fondamentali come la libera comunicazione, oltre al
possibile aumento di divario tra le classi sociali, divise tra chi si sarebbe potuto
permettere una connessione ad internet anche in presenza di questa imposta e chi
invece avrebbe, per la stessa ragione, dovuto rinunciarvi.311
L’idea della bit tax ha una lunga storia. È stata inizialmente ipotizzata
dall’economista canadese ARTHUR CORDELL, nel suo The New Wealth of Nations. La
tesi avanguardista ricalcava la storia delle due precedenti rivoluzioni paragonabili a
quella di internet, quella industriale e quella del terziario affermando che tali
rivoluzioni economiche hanno portato al trasferimento in massa di lavoratori, prima
dai campi alle fabbriche e poi dalle fabbriche al terziario. La “società
dell’informazione” ha portato ad un’ulteriore trasformazione, anche se all’epoca (si
noti che la teoria è stata sviluppata nel 1994) lo stesso autore ammetteva di non poterne
cogliere lo sviluppo. Veniva analizzato, però, come lo sviluppo tecnologico portasse
ad un risparmio netto in tutti i fattori produttivi: energia, capitale e lavoro; l’altro dato
rilevato era, oltre appunto ad una maggiore efficienza nella produzione, anche
l’annullamento completo del problema delle distanze. Il punto, riguardo alle tematiche
oggetto della presente analisi, di particolare rilevanza, nell’analisi di CORDELL è che
la diminuzione del lavoro, conseguente allo sviluppo tecnologico, non deve essere
interpretata in maniera negativa, poiché questo è un elemento tipico delle
trasformazioni economiche. La ricerca di un lavoro nella società “pre-tecnologica” era
finalizzato all’assicurazione di un reddito, così come per lo Stato l’occupazione e
quindi la tassazione sul lavoro, è anche una misura per la redistribuzione dello stesso.
Quindi, secondo l’autore, è su questo punto che si deve porre l’accento, sulla
redistribuzione del reddito, che avviene in particolare attraverso il sistema fiscale di
una nazione: attraverso le sue risorse, ad esempio, possono essere ammortizzati gli
effetti negativi, in termini occupazionali, che le trasformazioni tecnologiche
311 BBC NEWS, Hungary internet tax cancelled after mass protests, 31 ottobre 2014.
167
comportano e, sempre attraverso di esso, finanziando i sistemi di istruzione, si può
permettere alle generazioni future di affrontare questi cambiamenti senza paure e con
l’adeguata preparazione.312
La bit tax, quindi, viene concepita come più adeguato strumento di adattamento
delle nazioni al cambiamento tecnologico, paragonato alle grandi rivoluzioni
industriali dei secoli passati, in quanto nella complessa natura intangibile che
caratterizza l’era digitale, l’unico elemento proto-materiale che può essere quantificato
e che si pone come fondamento della struttura stessa di internet è proprio il bit. Quindi,
sostanzialmente, il bit si presenta come un presupposto di imposta perfetto per la
tassazione del mercato puramente digitale, anche se la soluzione è stata spesso
vagliata, anche a livelli superiori, ma poi scartata per perseguire altre strade. Infatti,
contro l’introduzione di un simile tributo si pongono dei problemi, più che giuridici,
politici o comunque latu sensu sociali. Non a caso la proposta di Legge avanzata in
Ungheria ha trovato una enorme resistenza da parte della società civile. Internet viene
concepito come un “luogo” libero, privo di interferenze di qualsivoglia natura
giuridica, poiché la sua natura self-controlling è l’elemento che ne ha permesso il
rapidissimo sviluppo e che ha portato ad un’evoluzione che non sarebbe stata
concepibile se non, appunto, in assenza di qualsiasi di norma regolatrice. Inoltre, ad
avviso di chi scrive, i problemi principali, nel caso della bit tax, sono due.
La percezione sociale è che l’utilizzo di internet sia un diritto di ogni cittadino313 e che
il suo utilizzo da parte di essi, quantomeno quando effettuato senza scopo di lucro, non
debba essere tassato. Anche volendo trascendere dall’aspetto sociale e concentrandosi
esclusivamente sull’aspetto giuridico, il problema sussiste dal momento che il flusso
di dati è in continua evoluzione. La mole di dati scambiabili, connessa alla velocità di
312 CORDELL, A. J. – RAN IDE, T., The New Wealth of Nations, Club of Rome Meeting, Buenos Aires, 30 novembre 1994. 313 A tal proposito, occorre sottolineare come già da alcuni anni alcuni Paesi abbiano ufficialmente sancito il diritto dei cittadini ad avere accesso alla rete internet. Ad esempio, con la sentenza n. 580/2009 il Conseil constitutionnel francese ha ritenuto l’accesso ad Internet alla stregua del principio di libertà di espressione, sancito all’art. 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e all’art. 11 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789; l’Estonia, nel 2004, ha elevato il diritto all’accesso ad internet come diritto costituzionale; la Grecia ha previsto una norma di pari rango già nel 2001; l’Ecuador, invece è stato il terzo Stato del Pianeta a costituzionalizzare l’accesso ad internet, avvenuto con l’approvazione della relativa norma costituzionale il 28 settembre 2008; infine anche la Finlandia ha approvato un provvedimento che sancisce il diritto legale alla banda larga nel 2009.
168
connessione e alla capacità di archiviazione dei dispositivi, aumenta esponenzialmente
ogni anno. Basti pensare che a metà degli anni ’90 l’unico modo di connettersi alla
rete internet era attraverso la c.d. connessione analogica (che sfruttava la connessione
telefonica interamente) e che raggiungeva la velocità massima di 56 Kbps, ovvero
56.000 bit per secondo. Oggi, la connessione media, che avviene tramite la più evoluta
tecnologia, già accennata, denominata ADSL, si attesta su di una velocità media di 10
Mbps, ovvero quasi 200 volte più rapida di quella analogica, con picchi fino a 100
Mpbs, quindi 2000 volte più veloce di appena vent’anni fa. Pertanto, una norma che
andasse a “colpire” il flusso di dati scambiati da privati ed imprese sarebbe una norma
in continua transizione ed aggiornamento. Se vent’anni fa, per lo scaricamento di 1 Gb
(gigabit) di dati erano necessari circa 5 ore di connessione continua314, oggi, con una
connessione a velocità media, sono necessari appena 100 secondi.315 Questo significa
che la mole di dati scambiati è oggi infinitamente maggiore e questo obbligherebbe ad
una revisione costante del valore della tassa, con tutti i conseguenti problemi relativi,
ad esempio, ad eventuali ritardi nell’adeguamento delle tariffe. In seguito al progetto
BEPS e alla pubblicazione dei Final Report, la comunità internazionale e alcuni Stati
in proprio, hanno definitivamente accantonato l’idea di una bit tax. Ferma restando
l’esigenza di tassare le imprese che operano esclusivamente nel settore digitale, è stata
ipotizzata una più ponderata digital tax per il contrasto all’elusione e alla
pianificazione fiscale aggressiva.
2.3.4. Il rapporto Colin-Collin
Il lavoro svolto dai due studiosi francesi si caratterizza per una grande
completezza e qualità generale. L’elaborazione del documento è precedente allo
sviluppo del BEPS project, pertanto risente della mancanza degli sviluppi successivi
ed in particolare degli effetti dei final report recentissimamente pubblicati. Ciò
nonostante, il documento è tutt’ora di grande attualità ed interesse, non solo per
314 1 Gb equivale ad 1 miliardo di bit, e considerando la velocità della connessione analogica, il tempo esatto di scaricamento sarebbe di 17.857 secondi. 315 I calcoli sono effettuati ipotizzando la disponibilità totale di banda, fatto che raramente avviene; pertanto sia il tempo di scaricamento in analogico sia quello tramite connessione ADSL sono più alti.
169
l’accurata analisi, già richiamata nel Capitolo Primo, relativa alle caratteristiche
dell’economia digitale, ma anche per le conclusioni ivi prospettate.
Nel rapporto, vengono evidenziate in modo specifico le caratteristiche principali
dell’economia digitale e gli effetti che queste peculiarità dispiegano nell’economia
fiscale francese. Lo sforzo effettuato è caratterizzato anche da un interessante punto di
vista in merito alle soluzioni prospettabili in tema di tassazione delle imprese
multinazionali digitali, che qui di seguito si analizzano. In primis, le proposte
formulate si articolano in due grandi gruppi:
1. da una parte, la negoziazione internazionale sulla ripartizione tra gli Stati del
potere impositivo nei confronti delle multinazionali dell’economia digitale, in
connessione con l’elevazione a presupposto di imposta del “lavoro gratuito”
effettuato dagli utenti dei servizi offerti dalle multinazionali digitali,
2. dall’altra, le misure che possono essere prese su scala nazionale nell’attesa che
si pervenga a dei risultati concreti in sede internazionale (si ricorda a tal
proposito che il rapporto è datato 17 gennaio 2013).
L’imposizione sui profitti delle grandi imprese è regolata principalmente dal
diritto internazionale. Con riguardo all’economia digitale, la disciplina attuale, ad
avviso degli studiosi, incontra due principali problematiche: la definizione di stabile
organizzazione e la determinazione dei prezzi di trasferimento, «che hanno un impatto
decisivo sulla localizzazione geografica dei profitti».316
La stabile organizzazione
I due autori correttamente rilevano come la nozione di stabile organizzazione
proposta dall’OCSE nel proprio Modello abbia carattere
1. “fisso”, il che implica che la SO sia stabilita in un luogo preciso e per un periodo
minimo di tempo,
2. “materiale”, che ha portato all’integrazione del Commentario al Modello per
l’inclusione di alcune specificità del commercio elettronico.
La disciplina nazionale (come visto nel Capitolo Primo, non solo in Francia)
sostanzialmente ricalca la definizione contenuta nell’art. 5 del Modello di
Convenzione e allo stesso tempo la presenza di una norma internazionale a copertura
316 op. cit. COLIN-COLLIN, Mission d’expertise sur la fiscalitè de l’economie numerique, p. 121. Traduzione libera.
170
della fattispecie indicata, impedisce alla normativa nazionale di poter dispiegare i suoi
effetti nei casi di conflittualità con la disciplina OCSE. Ad esempio, la giurisprudenza
del Conseil d’État ha stabilito che un’impresa che realizzi in Francia «un ciclo
completo di attività» debba essere considerata ai fini fiscali come un’impresa francese,
a prescindere dalla sua presenza effettiva sul territorio317, ma queste previsioni non
possono essere applicate nei confronti di società residenti in Paesi con i quali la Francia
ha stipulato un accordo bilaterale sulla base del Modello OCSE. Modello che, allo
stato, non prevede l’applicabilità della nozione di stabile organizzazione sul
presupposto del lavoro gratuito degli utenti dei servizi proposti dalle imprese operanti
nel settore digitale. Per questo motivo, la proposta dei due esperti francesi è quella di
modificare la nozione convenzionale della stabile organizzazione, in particolare
rendendola più in grado di conformarsi al fenomeno del “lavoro gratuito”.318 Una tale
base per la qualificazione della stabile organizzazione non risulta forzata, ma può ben
prestarsi alla presa di coscienza che la nozione di stabile organizzazione fissa e
materiale, come fino ad ora nel Modello OCSE disciplinata, non si adatta all’economia
digitale, ove non è rilevante il luogo a partire dal quale l’attività economia sostanziale
è esercitata. Sul punto si rimarca la necessità di intraprendere negoziati con il preciso
intento di aggiungere al Modello esistente una definizione autonoma di stabile
organizzazione virtuale. La seconda parte della proposta, partendo dall’assunto che la
modifica della nozione di stabile organizzazione permetterebbe agli Stati di sottoporre
a tassazione anche le imprese multinazionali digitali, consiste nella disciplina della
spartizione della materia imponibile. Viene ipotizzata quindi una ritenuta alla fonte sui
pagamenti per la cessione di beni o fornitura dei servizi ai destinatari residenti sul
suolo nazionale, ma nel caso della Francia, per una normativa fiscale, ciò non sarebbe
automaticamente possibile319, pertanto si rende necessario una regolazione anche di
317 Il caso più frequente, per la nazione transalpina, riguarda le società costituite nel Principato di Monaco che svolgono la loro attività esclusivamente ricercando clientela francese. Si cita, ex pluris, Conseil d’État, sentenza 13 luglio 1968, n. 66503. Traduzione libera. 318 La previsione è l’aspetto più caratteristico delle proposte effettuate nel documento, anche perché, come gli stessi COLIN – COLLIN affermano, a fronte di una moltitudine di tentativi di disciplina della c.d. “stabile organizzazione virtuale”, mai è stata proposta una definizione tanto precisa né che tenesse in conto dell’acquisizione di dati. 319 L’art. 182 B del Code général des impôts,non permette una simile operazione nel caso in cui il beneficiario effettivo del pagamento sia residente in un Paese firmatario di un accordo bilaterale con la Francia, pertanto non solo il numero di soggetti sottoponibili alla ritenuta sarebbero un numero esiguo, ma la normativa sarebbe facilmente aggirabile attraverso un’interposizione societaria in uno degli Stati
171
questo aspetto in campo internazionale. La qualificazione dell’attività degli utenti, ad
avviso della dottrina francese, è netta: «non si tratta di considerare gli utenti delle
applicazioni come dei collaboratori volontari dell’impresa»320, bensì di ottenere una
disciplina precisa rappresentata dal profitto generato attraverso la contribuzione degli
utenti, quindi dei c.d. “fattori locali” e dei fattori “stranieri” e tracciarne la relativa
proporzione. Per quanto riguarda poi la quantificazione del valore delle contribuzioni
degli utenti, stante la difficoltà di un meccanismo di valutazione certo, è necessario
partire dalle informazioni dettagliate e presenti in abbondanza nel mercato, relative ai
flussi sulla rete internet. Con riguardo al traffico web vengono accumulati moltissimi
dati, come ad esempio l’audience, il coinvolgimento degli utenti, le interazioni, la
navigazione, le transazioni o la localizzazione geografica. Le fonti principali di questi
“serbatoi” di informazioni sono essenzialmente due: da una parte, infatti, le stesse
imprese multinazionali mettono a disposizione, gratuitamente, degli strumenti in grado
di rilevare il traffico generato su internet e attraverso i loro sistemi, dall’altro, parti
terze particolarmente qualificate321 mettono a disposizione i propri sistemi di analisi
per chiunque sia disposto a sfruttare i loro servizi. Nonostante che la quantità e la
tipologia di dati disponibili in rete sia abbondante ma non esaustiva, viene rilevato
come l’economia digitale lungi dall’essere un fenomeno difficilmente determinabile:
si sviluppa in maniera molto aperta, se comparata con lo sviluppo di qualsiasi altro
tipo di economia, è sempre oggetto di attenzione da parte della stampa specializzata e
dai blogger322 e una mole crescente di informazioni sarà sempre più nella disponibilità
delle Amministrazioni finanziarie, attraverso il processo di digitalizzazione
dell’Amministrazione pubblica che si sta sviluppando in molti Paesi avanzati.
La strategia per il recupero della potestà impositiva da parte degli Stati si
baserebbe su più fasi:
1. a breve termine, individuare, nei casi applicabili, le stabili organizzazioni e fisse
firmatari. 320 op. cit. COLIN – COLLIN, Mission d’expertise sur la fiscalitè de l’economie numerique, p. 125. Traduzione libera. 321 Si tratta di imprese che hanno come attività proprio quella di fornire statistiche molto accurate sul traffico generato non solo sull’eventuale sito web di proprietà del richiedente, ma anche relative a quelle di terzi. Ex pluris, si citano comScore, NetRating e Alexa. 322 Sono i creatori e gestori di un blog, ovvero un sito internet personale in cui vengono elaborati dei documenti paragonabili ad articoli di giornale.
172
e rivalutare la deducibilità dei pagamenti per royalties effettuati a entità straniere
in relazione al diritto di sfruttamento di un bene immateriale,
2. a medio termine, instaurare una negoziazione in seno all’Unione Europea in vista
dell’eliminazione dell’atteggiamento non collaborativo degli Stati membri,
3. a lungo termine, condurre una negoziazione internazionale sia in sede UE che in
sede OCSE sulla ripartizione del potere impositivo sui profitti generati in uno
Stato membro a partire dai dati ottenuti dal lavoro gratuito degli utenti di quello
Stato membro.
I dati sono la materia prima d cui l’economia digitale si nutre, pertanto rivestono
un ruolo fondamentale anche se, secondo gli autori, la loro portata ancora non è del
tutto compresa né dalla scienza economica, né dalle statistiche pubbliche.323 La
proposta principale presentata dai due studiosi si basa quasi esclusivamente
sull’utilizzo del dato digitale, cui, come visto, viene data particolare rilevanza. Nel
dettaglio, la proposta si articola in quattro punti principali:
1. Campo di applicazione territoriale – definito come l’insieme di imprese, quale
che sia lo Stato di residenza, che sfruttano i dati raccolti a partire da un numero
rilevante di utenti localizzati in un determinato Stato (nell’esempio, ovviamente,
la Francia);
2. Soglia di utenti – affinché la collezione di dati diventi un elemento tassabile sarà
necessario superare una soglia di utenti minima, da determinare;
3. Tariffazione – il tributo sarà strutturato costituendo una tariffa unitaria per ogni
utente che fornisce i propri dati;
4. Base imponibile – la base imponibile sarà doppia: da una parte, l’impresa auto-
determinerà la quantità di dati raccolti sotto il controllo dell’Amministrazione
fiscale, dall’altra avrà la responsabilità di stabilire, la qualificazione dei
comportamenti e le pratiche con riguardo ai criteri fissati nella norma, e pertanto
determinare il tributo conseguentemente applicabile.
La norma dovrebbe tenere in conto soltanto quei dati la cui aggregazione avviene
in seguito ad un monitoraggio “regolare e sistematico” dell’attività degli utenti, ai sensi
del progetto di regolamento europeo relativo alla protezione dei dati personali; la
323 Si vedano, a tal riguardo, le osservazioni effettuate supra, nel Capitolo Primo.
173
norma, inoltre, dovrebbe anche inserire la nozione di hosting ai sensi dell’art. 14 della
Direttiva 2000/31/CE, che esclude la responsabilità civile e penale per i dati messi
online dagli utenti.324
Per quanto riguarda i vantaggi giuridici della proposta, si evidenzia come
l’iniziativa legislativa ipotizzata comporterebbe un avanzamento industriale dei Paesi
che la applicano in forza della moderna disciplina del trattamento, in questo caso non
solo fiscale ma anche di riservatezza, dei dati sensibili e non degli utenti; sarebbe un
sistema virtuoso per la tassazione di tutte quelle imprese che traggono i loro ingenti
profitti dallo sfruttamento di dati raccolti gratuitamente ed infine sarebbe una norma
immediatamente applicabile, bypassando pertanto le sovrastrutture internazionali.
2.3.5. La proposta britannica
Nel Regno Unito, come accennato nel paragrafo 3 del Capitolo 2, il problema
del BEPS ha avuto una particolare eco mediatica, con casi eclatanti di manifestazioni
contro imprese come Starbucks325 e Vodafone326. Pertanto le misure di contrasto a tali
discipline non hanno tardato ad arrivare. Tutto il fervore politico e la rabbia “sociale”
espressa per il comportamento “non eticamente corretto” portato avanti da grandi
colossi multinazionali è visibile nell’interrogazione della Commissione tributaria del
Parlamento inglese, già citato in questa sede, con l’audizione dei rappresentanti di
Google, Amazon e Starbucks. A tale indignazione politica, è quindi seguita la c.d.
Diverted Profits Tax, che è entrata in vigore il 1° di aprile del 2015. La norma risalta
per la particolarità del presupposto di imposta, in quanto viene imposta un tributo sulla
quantità di capitale che si “presume” trasferito illecitamente attraverso il profit shifting
324 «Gli Stati membri provvedono affinché, nella prestazione di un servizio della società dell'informazione consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore non sia responsabile delle informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio, a condizione che detto prestatore: a) non sia effettivamente al corrente del fatto che l'attività o l'informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l'illegalità dell'attività o dell'informazione; b) non appena al corrente di tali fatti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l'accesso». 325 http://www.dailymail.co.uk/news/article-2606274/Starbucks-pay-tax-Britain-relocates-European-headquarters-London-following-customer-boycott.html 326 http://www.bbc.com/news/business-11658950
174
e con finalità di base erosion. Al ricorrere di determinare circostante, quindi, viene
invertito l’onere probatorio e la presunta la colpevolezza di una gestione economica
del gruppo che deve essere dimostrato non essere funzionale ad alimentare il fenomeno
BEPS.
La norma non trova applicazione nel caso in cui sussista
- una sufficiente sostanza negli offshore assets posseduti dall’impresa,
- all’interno della catena internazionale del valore, prezzi di trasferimento
rispettosi del principio dell’arm’s length,
- una stabile organizzazione all’interno del Regno Unito.
Da notare come il tributo non si applichi alle transazioni riguardanti le operazioni
finanziarie di prestito, poiché esse già sono “coperte” dalle norme anti-hybrid così
come previste dall’action plan n. 4 dell’OCSE.327
Nello specifico, la norma è applicabile se occorre uno dei due seguenti casi
• Nel primo caso, qualora un’impresa non residente nel Regno Unito operi
attraverso una stabile organizzazione “elusa”. Ciò avviene quando, per esempio,
un’impresa estera si avvalga dell’opera di un’altra persona, che gestisce
un’attività nel Regno Unito in relazione alla vendita di beni o servizi offerti
dall’impresa non residente verso clienti britannici. La norma trova applicazione
nel caso in cui sia «ragionevole presumere»328 che il rapporto tra l’entità
operante nel Regno Unito e l’impresa non residente sia impostato con il fine di
evitare la corporation tax ovvero generare un altro tipo di mismatch. Se ciò
avviene, e cioè se tali condizioni sono ragionevolmente presumibili, il profitto
tassato sarà l’ammontare che è «reasonable to assume would have been the
chargeable profits of the foreign company for that period», in accordo con le
previsioni dell’OCSE sulla stabile organizzazione.
• La seconda norma si applica con riguardo a determinati accordi, tra un’impresa
residente nel Regno Unito e un’altra persona (residente o meno nel Paese), di
disposizione materiale di intangibles tramite una transazione o una serie di
transazioni e se vengono verificate le seguenti condizioni: 1. deve sussistere un
327 ERNST&YOUNG, Diverted Profits Tax: Details released, Finance Bill 2015. 328 art. 2, co. 1, lettera c), Consultation Draft – Diverted Profits Tax, Finance Bill 2015, HM TREASURY AND HM REVENUE AND CUSTOMS, 10 dicembre 2014.
175
effettivo tax mismatch outcome e 2. l’operazione deve soffrire di insufficient
economic substance. In questo caso, il primo step è quello di imporre un prezzo
che sia arm’s length all’operazione effettuata, a meno che non sia ragionevole
presumere che l’operazione, in assenza dei vantaggi fiscali perseguiti, non
sarebbe mai stata effettuata e su quell’importo verrà applicato il tributo.
La disciplina non si applica alle piccole e medie imprese, quindi alle società che
registrano un fatturato annuo inferiore ai 10 milioni di sterline.
La disciplina introdotta nel Regno Unito si distingue dalle altre proposte
effettuate nelle diverse giurisdizioni per essere caratterizzata da criteri di scelta
assolutamente non specifici e caratterizzati da particolare ampiezza di interpretazione.
Il leitmotiv della norma è che l’applicabilità del “prelievo” del 25% sui profitti societari
è legato al criterio della presunzione “ragionevole”, con la specifica che l’impresa che
si ritiene debba essere sottoposta a tale prelievo dispone di soli 30 giorni per contestare
le proprie eccezioni all’applicazione della norma. Viene quindi esaltato, ed in questo
il pragmatismo è più tipico delle soluzioni anglo-sassoni che non di quelle adottate nel
vecchio Continente, l’approccio effettivo di una situazione che, spesso, è molto
complessa da determinare con l’utilizzo di meri strumenti giuridici. La mancanza di
certezza della norma, in questo senso, è sicuramente l’elemento più deprecabile della
norma, ma parallelamente costituisce il fattore di maggior efficacia nel contrasto
all’utilizzo di tali strategie fiscali.
Dal punto di vista procedurale, è onere dell’impresa di notificare all’HMRC (Her
Majesty Revenue & Customs, l’Amministrazione finanziaria britannica) entro tre mesi
dalla fine del periodo fiscale di riferimento nel quale è ragionevole assumere che tali
diverted profits possano essere stati generati. Il pagamento dell’aliquota del 25% deve
essere pagata entro 30 giorni a prescindere dal fatto che vi sia una contestazione in
merito al quantum da pagare.329
Quanto alle prime impressioni che la appena introdotta norma suscita, è
opportuno notare come la disciplina di discosti da quanto previsto in sede OCSE agli
action plans 7, 8, 9 e 10 e che la sua introduzione verosimilmente determinerà
l’insorgenza di un numero consistente di stabili organizzazioni, che è poi lo scopo della
329 art. 17, co. 4, Finance Bill 2015.
176
norma, in quanto tassate in misura minore rispetto a quanto previsto dalla Diverterd
Profits Tax. A tal proposito, inoltre, la Commissione Europea ha annunciato che
provvederà ad esaminare la normativa per la verifica della rispondenza ai principi
regolatori del mercato unico comunitario.
2.4. La Digital Tax italiana
Anche il nostro Paese, dopo il fallimento dell’appena descritta web tax, si è
mosso sulla scia dello sviluppo dell’analisi internazionale per l’approvazione di una
digital tax. La proposta normativa è stata presentata in data 27 aprile 2015 e porta
come prima firma quella dell’On. Quintarelli; essa appare più ponderata e tecnica della
precedente e ricalca in gran parte quelle che sono le previsioni dell’OCSE per la
tassazione delle multinazionali digitali sviluppate con il BEPS project. La previsione
principale è la modifica dell’art. 162 del TUIR contenente la definizione di stabile
organizzazione, letteralmente ispirata all’art. 5 del Modello OCSE. Il testo modificato
rende l’interpretazione dei requisiti che la definiscono ampliabile a fattispecie che
precedentemente non era possibile assoggettare a questa entità giuridica. La
definizione precedente muoveva da un’interpretazione del concetto di stabile
organizzazione anacronistica in quanto vincolata materialmente al territorio (si
richiama espressamente l’analisi effettuata nel Capitolo Primo). La nuova definizione
è più “snella” e prevede, infatti, che «[sia] considerata stabile organizzazione
qualsiasi organizzazione caratterizzata da un grado sufficiente di permanenza e da
una struttura idonea all’attività economica, in termini di mezzi umani o tecnici».330 Il
requisito della fissità materiale, quindi, sparisce, lasciando spazio ad una definizione
che si presta ad un’ampia interpretazione, dal momento che la definizione di “struttura
idonea all’attività economica” è determinata non secondo un criterio fisico, bensì
attraverso l’utilizzo della più ampia espressione di “mezzo”, che può essere umano (il
caso, quindi, della stabile organizzazione personale) ovvero tecnico. Ed è proprio
quest’ultimo elemento che segna un punto di rottura con la precedente definizione.
Infatti, la “classica” definizione di stabile organizzazione era incentrata, come
330 art. 1, co. 1, Proposta di Legge n. 3076 del 27 aprile 2015, firmatari Onn. QUINTARELLI, SOTTANELLI, BRUNO BOSSIO, MELILLA e RABINO
177
ampiamente già argomentato, sul requisito della fissità materiale di un’installazione
fisica all’interno del territorio dello stato diverso da quello della sede della casa madre.
Lo stesso art. 5 del Modello di convenzione OCSE stila un elenco delle circostanze
che sono sicuramente ascrivibili alla qualifica di stabile organizzazione e
comprendono situazioni in cui la presenza all’interno dello Stato “estero” sia
particolarmente significativa: negli esempi, infatti, si ritrovano uffici, fabbriche e
addirittura «miniere (…) o qualsiasi altro di estrazione di risorse naturali».331 La
qualifica proposta dalla nuova disciplina è, invece, particolarmente ampia, in quando
viene tolta rilevanza al requisito della fissità dell’installazione, prediligendo al suo
posto il requisito tecnico, quindi, sostanzialmente, la funzione svolta dall’installazione
e la sua idoneità a generare direttamente reddito.
Per la prima volta, poi, viene espressamente introdotta la c.d. “stabile organizzazione
virtuale”, con le seguenti quattro specificazioni:
1. La localizzazione nel territorio dello Stato di un servizio online non determina
di per sé l’insorgenza di una stabile organizzazione sul territorio dello Stato;
2. La localizzazione di un fornitore di servizi (provider) che ospita e-o gestisce un
servizio online per conto di terzi non rileva ai fini della qualificazione della SO,
a meno che i servizi non vengano prestati da un agente dipendente dall’impresa
principale che operi in nome e per conto di essa;
3. La presenza fisica di server nel territorio dello Stato non è un elemento di per sé
sufficiente a qualificare una stabile organizzazione, ma il provider che fornisca
un accesso ad internet attraverso un server nella disponibilità dell’impresa può
configurare una stabile organizzazione qualora possa essere qualificato come
agente dipendente dell’impresa stessa;
4. Se l’attività svolta tramite un server allocato nel territorio dello Stato è
«significativa ed essenziale per l’impresa»332, allora tale server costituisce una
stabile organizzazione dell’impresa non residente.
Il comma 4 dell’art. 1 della proposta si presenta come norma di chiusura per la
qualificazione della stabile organizzazione, stabilendo che sussisterà una stabile
331 art. 7, co. 2, lettera f), OCSE, Model convention with respect to taxes on income and on capital, 2014. 332 ivi, art. 1, co. 3, lettera d)
178
organizzazione ogni qualvolta venga realizzata un’attività online «riconducibile
all’impresa non residente, per un periodo non inferiore a sei mesi» che generi un
flusso di pagamenti (nel medesimo arco temporale) a suo favore, qualsiasi sia la
ragione del pagamento, in misura non inferiore a 5 milioni di euro. La previsione del
citato comma, genericamente riferendosi a qualsiasi attività online, permette di
assoggettare ad imposizione una pletora molto più ampia di fattispecie riconducibili
all’esercizio di un’impresa digitale rispetto a quanto non fosse possibile fare sulla
scorta della precedente definizione; la determinazione di una soglia di applicabilità
della norma, fissata nell’esiguo importo di 5 milioni di euro semestrali, è rilevante non
solo perché permette di intercettare i flussi di molte più imprese, se paragonato ad
esempio con le previsioni già analizzate dell’action plan n. 13 che prevedono una
soglia di applicazione del country-by-country report di 750 milioni di euro di fatturato,
ma soprattutto perché l’applicazione della norma scatta indipendentemente dalla
ragione del pagamento, non permettendo così che una solo formale qualificazione
specifica riesca ad aggirare l’imposizione. Imposizione che viene disciplinata, per le
persone fisiche, dall’art. 2 della proposta, e per quelle giuridiche, dal seguente articolo
3. Relativamente al primo caso, all’art. 23, co. 1, del TUIR viene inserita la lettera g-
bis) che stabilisce che si considerano prodotti nel territorio dello Stato «i redditi
derivanti da transazioni on line relativi a pagamenti effettuati da soggetti residenti,
all’atto dell’acquisto di prodotti o di servizi digitali presso un e-commerce provider
estero»; relativamente al seguente art. 2, co. 3, viene sostituita la lettera c), con
analoghe previsioni «per i compensi pagati da operatori nazionali a fronte
dell’acquisto di licenze software successivamente distribuite sul mercato italiano». Al
fine di assoggettare entrambi i presupposti ad imposizione, viene modificato l’art. 25
del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 che nella nuova forma stabilisce una ritenuta del
30% a titolo di imposta sulla parte imponibile dell’ammontare del compenso pagato.333
333 «I compensi di cui all’articolo 23, comma 1, lettera g-bis) e comma 2, lettera c) del testo unico delle imposte sui redditi, (…) corrisposti a non residenti sono soggetti a una ritenuta del 30 per cento a titolo di imposta sulla parte imponibile del loro ammontare. I redditi derivanti dalle attività on line di cui al citato all’articolo (…) sono assoggettati a ritenuta da parte degli intermediari finanziari residenti, nei casi in cui intervengano nella riscossione dei relativi flussi finanziari e dei redditi. Il prelievo alla fonte è effettuato nel momento in cui gli intermediari intervengono nella riscossione dei predetti redditi e flussi finanziari e deve essere versato entro il giorno 16 del mese successivo a quello di effettuazione del prelievo, secondo la normativa vigente».
179
Relativamente al caso, invece, delle persone giuridiche, le previsioni di cui all’art. 3,
co. 1 della proposta, modificano la disciplina prevista dall’art. 25-bis del citato D.P.R.
29 settembre 1973, n. 600, prevedendo in questo caso una «ritenuta a titolo d’imposta
del 25 per cento sull’importo da corrispondere». Il comma 4 dello stesso articolo 3
prevede un’esenzione per i soggetti non residenti che hanno una stabile organizzazione
nel territorio dello Stato.
La norma ricalca quasi pedissequamente una delle già analizzate ipotesi
risolutive proposte dall’OCSE nel proprio action plan n. 1 dedicato per l’appunto,
come visto, al contrasto delle strategie fiscali messe in atto dalle multinazionali
digitali. Anche in questo caso l’approccio al presupposto d’imposta è caratterizzato da
un’impostazione più “pragmatica” e meno giuridica e tale scelta, se da una parte
permette in qualche modo di arginare un fenomeno in rapidissima espansione e di
difficile controllo, pecca per la mancanza di universalità e completezza a cui tutte le
norme di diritto dovrebbero aspirare.
180
CONCLUSIONI Trarre delle conclusioni in merito ad un tema così complesso e ancora così poco
definito non è compito semplice. I dibattiti giuridici sono spesso caratterizzati dalla
presenza di solide basi normative, solidissimi principi fondamentali regolatori della
materia da cui partire per l’analisi, l’esegesi o la critica di un qualsivoglia
cambiamento. Quando però anche questi pilastri vengono minati nel loro profondo, la
situazione si complica ulteriormente. Dall’analisi delle opinioni dottrinali degli
studiosi del diritto delle più diverse estradizioni giuridiche e dalle analisi ufficiali dei
più importanti organismi internazionali, come l’OCSE e l’Unione Europea, è possibile
trarre un filo conduttore che possa potenzialmente fungere da via di fuga da una
situazione che, apparentemente, si presenta senza uscita. Da una parte, si è appurato a
tutti i livelli che non sarebbe consigliabile una disciplina specifica che colpisca le
multinazionali digitali, preferendo la modifica del sistema giuridico-fiscale
internazionale nel suo complesso, tale che sia possibile assoggettare ad imposizione
anche quella fetta di attività economica che allo stato trova solo parziale regolazione;
dall’altra, però, la maggior parte delle soluzioni proposte appaiono come claudicanti
tentativi di colpire, senza un criterio “universale”, l’enorme mole di profitti che
spensieratamente passa da una giurisdizione all’altra. Tutto ciò, senza dimenticare che,
come visto, non vi è accordo nemmeno sulla rilevanza della portata della questione
inerente la tassazione delle multinazionali del settore digitale. I punti cardine da cui
trarre delle conclusioni, seppur approssimative, come questo lavoro non può che fare,
sono tre
- rilevanza della questione dell’imposizione del reddito delle multinazionali
digitali,
- capacità della disciplina attuale di assoggettare tale reddito ad imposizione
fiscale,
- coordinamento a livello internazionale delle decisioni prese.
Lo sviluppo della questione è talmente acerbo che, allo stato, non è possibile trovare
una via di risoluzione univoca per nessuno dei tre punti appena elencati. Sia, però,
concesso un personale commento in merito ad ognuno di essi.
Rilevanza della questione dell’imposizione del reddito delle multinazionali
digitali
181
È opportuno partire dall’interrogativo se la questione che qui ci occupa sia o
meno una questione effettiva, poiché il tal fatto aggiunge o toglie del tutto valore al
dibattito intrapreso da tutta la comunità internazionale. Per completezza di
informazione, è stato inserito il parere contrario di certa dottrina334, secondo cui la
questione dell’imposizione delle multinazionali digitali sarebbe un problema
inesistente in quanto
1. non sarebbe vero l’assunto secondo cui tali imprese sono soggette ad
un’imposizione fiscale minore delle altre per via della loro abilità nella pianificazione
fiscale e
2. le soluzioni che la disciplina internazionale dovrebbe proporre sarebbero
indirizzate all’abolizione dell’imposta sul reddito societario in quanto non più in linea
con le regole della business economy odierna.
A tal proposito, è parere di chi scrive che la questione dell’imposizione delle
multinazionali digitali sia una delle più importanti sfide con cui il diritto tributario
internazionale si sia mai trovato ad affrontare, se non la più importante dalla sua
nascita. La “giovinezza” della materia è tale per cui essa non si è mai dovuta scontrare
con enormi rivoluzioni nel proprio campo; rivoluzione, che invece sta oggi avvenendo,
in quanto la portata del cambiamento già in corso non ha precedenti nella storia della
disciplina dell’imposizione internazionale. Inoltre, come dimostrato nella relativa
sezione del presente lavoro, non è vero che le imprese del settore digitale sono soggette
alla stessa imposizione delle altre, essendo ampiamente dimostrato che riescono a
spostare parte dei loro profitti verso giurisdizioni a fiscalità bassa o nulla. D’altra parte,
la dottrina citata solleva una serie di questioni interessanti. Sicuramente è vero che il
problema del base erosion and profit shifting è stato “esagerato” dai media e forse
anche dallo stesso Gruppo dei 20, in quanto l’ammontare della presunta elusione
fiscale non raggiunge le cifre che spesso vengono pubblicate negli articoli anche della
stampa specializzata335 e che le misure di contrasto proposte sono apparse come
“goffi” tentativi di regolazione di una materia che non può essere normata partendo
dai principi fondamentali che hanno regolato la disciplina internazionale fino a questo
334 Paragrafo 1, Capitolo Quarto. 335 A tal proposito, si richiama alla differenza già citata tra rapporto tra imposte pagate e fatturato e rapporto tra imposte pagate e reddito.
182
momento. In merito all’opportunità dell’abrogazione dell’imposta sul reddito delle
società, la proposta stessa di una tale, radicale, modifica è sintomo proprio di
un’esigenza di cambiamento che, se non fosse in corso una “rivoluzione”, non sarebbe
sentita. Quindi sì, il problema sussiste, no, non è limitato alle multinazionali del settore
digitale per quanto esse siano il fattore scatenante e no, non sono state trovate al
momento soluzioni completamente condivisibili.
Capacità della disciplina attuale di assoggettare tale reddito ad imposizione
fiscale
La disciplina tributaria internazionale si basa su alcuni principi cardine da tempo
immemore stabiliti. La territorialità è uno di questi. Sia il worldwide principle, secondo
cui è tassabile nello Stato di residenza il reddito (in questo caso di un’impresa)
ovunque prodotto nel Mondo e il contrario criterio della fonte, secondo cui è
legittimato a tassare i profitti di un’entità non residente lo Stato ove tale reddito
“straniero” è stato prodotto, sono criteri che hanno un forte legame con il territorio e
con la sovranità statale. Dalla commistione di questi due principi, che nel caso delle
imprese multinazionali portano ad altrimenti incontrastabili fenomeni di doppia
imposizione, nasce la disciplina del diritto tributario internazionale, incentrata sul
sistema degli accordi bilaterali tra Stati per la determinazione della quota impositiva,
a seconda del tipo di profitto generato, che spetta a taluno e talaltro Paese (quello di
residenza e quello della fonte del reddito). Un sistema così congeniato, che quindi
poggia le proprie basi sui criteri di territorialità-sovranità e sul metodo degli accordi
bilaterali, ha egregiamente regolato gli scambi commerciali attraverso giurisdizioni
distinte per oltre un secolo.336 L’esponenziale aumento degli scambi internazionali,
dovuto principalmente alla dematerializzazione dei beni e servizi prestati e
all’annullamento degli stessi a vincoli territoriali, ha determinato, da una parte, il
rapido sviluppo di un’economia letteralmente globalizzata e dall’altra, ha reso gli
istituti cardine della disciplina internazionale inadeguati a tale mutata situazione. Gli
elementi di attrito tra la new economy e la disciplina fiscale internazionale sono
principalmente tre: il ruolo della sovranità statale nella produzione normativa, il
336 I primi accordi in tal senso sono stati rinvenuti nella Prussia di fine ‘800, con la definizione della “stabile organizzazione”, come visto uno degli istituti più importanti nella disciplina delle imprese multinazionali.
183
criterio della territorialità relativo all’applicazione di determinati istituti, come la
stabile organizzazione dell’impresa non residente e lo strumento giuridico di disciplina
della materia fiscale tra giurisdizioni individuato nell’accordo bilaterale contro le
doppie imposizioni.
Il criterio della sovranità territoriale in tema fiscale, che insieme alla materia
penale da sempre costituisce il baluardo della “presenza” giuridica dello Stato in un
determinato territorio, è stato fortemente messo in discussione dall’avvento dei beni
immateriali: prima con lo sviluppo degli strumenti finanziari denominati per l’appunto
intangibles337, poi con l’allargamento anche ai rapporti B2C dello scambio di beni e
servizi digitalizzati, tramite lo sviluppo tecnologico dell’economia dell’internet. In un
contesto così rinnovato, non è più possibile utilizzare come pilastro della disciplina
fiscale il criterio della sovranità-territorialità, poiché non vi sono elementi che
permettano di “cogliere” il flusso di scambio di beni intangibili, che costituiscono il
nucleo forte delle transazioni della new economy attraverso nessuno di questi due
criteri. Anche con specifico riguardo ad uno degli istituti maggiormente apprezzati nel
contrasto alla doppia imposizione (che, come visto, si è rapidamente evoluto in
contrasto alla doppia non-imposizione), e cioè avendo riguardo all’istituto della
“stabile organizzazione”, i criteri stabiliti dall’art. 5 del Modello di convenzione OCSE
(il Modello di accordo bilaterale ampiamente più utilizzato dagli Stati) non permettono
di assoggettare alla disciplina ivi contenuta molte delle imprese operanti nel settore
digitale, anche semplicemente per il fatto che la creazione stessa dell’istituto risale ad
un contesto economico in cui non erano nemmeno concepibili i modelli di business
odierni, così come inaugurati dallo sviluppo della tecnologia digitale. Spesso si è
paragonato l’avvento di internet all’avvento di altri strumenti tecnologici latu sensu
intesi, confrontandone la portata rivoluzionaria. Essendo un suo radicale sviluppo,
spesso si accosta lo sviluppo di internet (o comunque il mondo digitale) agli enormi
risvolti che l’applicazione su larga scala e la conseguente capillare diffusione
dell’energia elettrica hanno apportato nella società del XIX secolo. Ebbene, il
paragone è particolarmente utile all’analisi in quanto l’istituto della stabile
organizzazione, come precedentemente accennato, risale proprio al medesimo periodo
337 Si richiama in tema il già citato GALGANO, F. – CASSESE, S. – TREMONTI, G. – TREU, T., Nazioni senza ricchezza, ricchezze senza nazione, Bologna, 1993.
184
storico della diffusione su larga scala dell’energia elettrica. È ictu oculi evidente come
il contesto socio-giuridico-economico, il rapporto tra sovranità e Stato e lo sviluppo
del commercio internazionale di allora non abbia alcun tipo di affinità con ciò che
accade oggi nel Mondo. Per questo motivo, risulta poco credibile che un istituto
pensato per disciplinare quella realtà, possa ancora oggi trovare applicazione, in un
ambiente così radicalmente modificato.
Coordinamento a livello internazionale delle decisioni prese.
L’ultimo elemento dell’analisi riguarda le modalità di disciplina della normativa
fiscale internazionale, da sempre affidata al saldo strumento del trattato bilaterale.
Anche qui, alla luce delle ragioni appena spiegate, è intuitivo individuare le
motivazioni che hanno spinto la comunità globale a sviluppare un tale modello. In
primis, all’epoca della stipula dei primi accordi, la quantità di beni internazionalmente
scambiati era sostanzialmente trascurabile. Pochi erano i soggetti economici che
effettuavano transazioni che potessero toccare la giurisdizione fiscale di più Stati e
pertanto, in virtù del marginale rilievo che la questione poteva avere, anche a livello
di eventuale gettito non intercettato, era sembrato opportuno optare per una soluzione
che premiasse la scelta decisionale autonoma dei singoli Stati, che venivano pertanto
lasciati liberi di concordare come meglio credessero l’imposizione attraverso lo
strumento del trattato bilaterale. Fattore non secondario, inoltre, e coerente con quanto
finora evidenziato, era il grande ruolo, già accennato, che ricopriva la sovranità statale
in tema di imposizione tributaria e giustizia penale. Non sembrava concepibile (anche
perché come appena ricordato, il contesto economico non lo rendeva un problema di
rilievo) che uno Stato si sottomettesse, con una volontaria rinuncia alla sovranità, ad
un organismo terzo ed internazionale che disciplinasse al suo posto la materia fiscale.
Territorio, sovranità e Governo erano un unico elemento imprescindibile
dell’espressione dello Stato come soggetto quae non habet superiorem. Non vi erano
pertanto né le ragioni politiche, né giuridiche, né tantomeno economiche per
l’istituzione di un organismo internazionale ovvero la stipula di un accordo
multilaterale sul tema della fiscalità. Con l’evoluzione dell’economia e della
tecnologia, le esigenze e l’impostazione economica (soprattutto a partire dagli anni ’90
con il crollo del blocco sovietico), degli Stati si è uniformata, sull’onda della
galoppante globalizzazione. Pertanto, come mai prima d’ora, l’economia, il diritto e la
185
politica degli Stati, almeno di quelli c.d. sviluppati e in via di sviluppo, è estremamente
omogenea. Quest’unitarietà di esigenze e di intenti permette oggi di rivedere
l’opportunità di un sistema basato esclusivamente sugli accordi bilaterali. Questo
perché un sistema basato sui trattati bilaterali è particolarmente sconveniente sotto un
punto di vista di assoluto rilievo e principalmente legato ad un fattore che il diritto ha
dovuto “acquisire” dal mondo dell’economia e soprattutto dal mondo dell’economia
digitale: la rapidità. Come l’economia digitale si sviluppa in maniera rapidissima, per
cui qualsiasi innovazione rimane tale per un lasso di tempo ormai quasi insignificante,
anche il diritto ha dovuto adeguarsi a questa maggiore mobilità nella regolazione
normativa della società; prova ne sia, ad esempio, il fatto che il Modello di
convenzione dell’OCSE è oggi aggiornato molto più frequentemente di quanto non
accadesse qualche decina di anni fa. Questo elemento rende particolarmente scomoda
la forma del trattato bilaterale nell’adeguamento tempestivo della disciplina fiscale in
un mondo che si evolve con una rapidità già di per sé inarrivabile per il diritto. Dal
momento che le convenzioni bilaterali attualmente siglate nel Mondo sono oltre 3.000,
e che naturalmente esse sono state siglate in periodi di tempo anche molto distanti tra
loro, è evidente che la disciplina della materia non possa mai raggiungere una forma
unitaria e attuale allo stesso tempo. Per questo motivo, l’OCSE, nel suo action plan n.
15, manifesta la propria intenzione di creare uno strumento multilaterale che, da un
lato, permetta di ottenere più facilmente l’unitarietà della regolazione della materia
fiscale internazionale e dall’altro, attraverso uno strumento di aggiornamento più
semplice, permetta di evitare le lungaggini diplomatiche dovute alla nuova ratifica
delle modifiche agli accordi bilaterali. Un primo tentativo era stato effettuato tramite
l’inserimento delle novità normative non direttamente nel Modello di convenzione,
bensì attraverso il Commentario al Modello: un documento molto ampio,
particolarmente chiarificatore degli istituti che sono nel Modello disciplinati. Il
Commentario gode di una posizione all’interno delle fonti del diritto singolare: in
primis, in quanto esso non costituisce effettivamente una fonte del diritto e non viene
mai incluso nell’accordo bilaterale; secondariamente, però, stante la sua apprezzata
completezza, esso viene comunemente utilizzato come punto di riferimento per
l’interpretazione (che risulta essere così, “autentica”) delle norme inserite nel Modello.
Il tenore delle modifiche apportate dall’OCSE attraverso l’ampiamente analizzato
186
BEPS project, però, non permette di inserire tali novità nel Commentario, in quanto
sono gli stessi istituti disciplinati nel Modello che vengono radicalmente modificati.
Date queste premesse, e pertanto data la sentita esigenza di apportare delle
modifiche rilevanti alla disciplina fiscale internazionale per l’intercettazione di tutti
quei flussi di capitale che al momento “sfuggono” alle Amministrazioni fiscali,
dottrina, organismi internazionali e Governi si sono rapidamente attivati per trovare
delle soluzioni ad un problema che, come evidenziato, stava assumendo un certo
rilievo sia dal punto di vista quantitativo, sia e soprattutto dal punto di vista mediatico.
Pertanto, sono state proposte ed in alcuni casi sono state approvate, tutta una serie di
misure volte a colpire l’attività economica delle multinazionali digitali, con esiti però
che sono lontani dall’essere completi ed esaustivi.
Partendo dal più nobile tentativo di assoggettare all’imposizione “comune” sul
reddito societario, anche quello relativo alle multinazionali digitali che fino a questo
momento storico erano state in grado di evitare fosse intercettato, si è cercato, con il
grave errore di mantenere intatti gli istituti giuridici propri dell’economia più classica
e modificarli per renderli attribuibili al caso delle multinazionali digitali, di modificare
la normativa positiva al fine di assoggettare tali fattispecie ad imposizione. Tale
esperimento riguarda ad esempio la citata nozione di stabile organizzazione. La stabile
organizzazione è un istituto basato sulla reale ed effettiva esistenza di una struttura o
di un personale, in grado di concorrere direttamente alla formazione del reddito della
società non residente. Stante l’immaterialità dei beni e dei servizi scambiati dalle
multinazionali, però, per accedere ad un determinato mercato territoriale, non è più
necessaria la sussistenza fisica o la permanenza di un agente che operi per conto
dell’impresa non residente. Pertanto, una delle soluzioni prospettate riguarda
l’introduzione di una nuova nozione di stabile organizzazione “virtuale” ovvero nella
determinazione della fattispecie della “presenza digitale significativa”, che però
soffrono dell’intrinseca dipendenza dalla nozione classica dell’istituto giuridico.
A causa della maggiore difficoltà di attuazione di una modifica della disciplina
in tal senso, per le ragioni già evidenziate, alcuni Parlamenti hanno approvato delle
norme direttamente volte a colpire l’attività economica delle multinazionali digitali.
Spesso vengono identificate con epiteti coniati dalla stampa come Google Tax o
Digital Tax o ancora Internet Tax. In questo caso, quindi, non si mira ad assimilare le
187
multinazionali digitali alle imprese “classiche”, ma nella complessità
dell’assoggettamento delle prime nella disciplina fiscale delle seconde, si predilige,
come rimedio “provvisorio”, un sistema impositivo basato, più che sull’imposta sul
reddito, sull’applicazione di una vera e propria tassa. Nel caso della bit tax, veniva
ipotizzata un’imposizione sul flusso di dati scambiati dai vari soggetti agenti
all’interno della rete internet (colpendo così anche i privati cittadini che agiscono in
rete senza scopi di lucro), nel caso delle varie Google tax si tentava in vario modo di
colpire principalmente l’attività del colosso multinazionale americano: talvolta
attraverso l’obbligo di usufruire dei servizi equivalenti a quelli da tale società offerti
esclusivamente da soggetti dotati di partita IVA di un determinato Stato (è il caso del
primo tentativo di regolazione della materia ipotizzato nel nostro Paese), altre volte
attraverso l’applicazione di una tassa sulla quantità di dati personali accumulati da tali
imprese, che come visto, sfruttano questo enorme bacino di informazioni per vendere
dei servizi pubblicitari particolarmente accurati e precisi.
La complessità della situazione è accentuata anche dalle tutt’ora esistenti
differenze nella concezione dell’imposizione fiscale da parte dei vari Stati che hanno
aderito al BEPS project. Non si rinviene ancora la scoperta di un’unanime direzione
da intraprendere per una più corretta imposizione delle società multinazionali digitali,
nemmeno a tenore delle soluzioni trovare nei final reports dell’organizzazione
parigina. La sensazione, al contrario, è che si sia mancato di cogliere la grande
opportunità che una situazione come quella attuale potrebbe permettere di sfruttare,
sarebbe a dire la possibilità di operare una grande ristrutturazione dell’imposizione
fiscale internazionale, partendo dalla (purtroppo ancora non condivisa) necessità di
uniformare la disciplina della materia e, perché no, mettere in discussione anche le
fondamenta della struttura fino ad oggi vigente, ovvero l’esistenza stessa
dell’imposizione sul reddito societario, per indirizzarsi verso nuove e più “moderne”
forme di tassazione. Il futuro, comunque, a parere dello scrivente, non è grigio.
Cambiamenti così radicali nel rapporto tra economia e diritto hanno storicamente
avuto bisogno di un momento di rottura, un momento di “riflessione” ed un più lungo
momento di ponderazione delle soluzioni da intraprendere per la creazione di un nuovo
e più equo cammino. Sicuramente la fase della rivoluzione può dirsi iniziata, quanto
non già finita. La sensazione è che al momento della stesura del presente documento,
188
il diritto tributario internazionale si trovi nella fase intermedia tra la presa di coscienza
del problema e quella della maturità di tale presa di coscienza tale che sia possibile
pensare ad una più ponderata risoluzione del problema. In altre parole, la situazione è
ancora troppo “acerba” perché si possa pervenire ad un ragionamento privo di spinte
emozionali, fattore assolutamente necessario per la disciplina di una materia così
importante, o comunque, fatto imprescindibile nella mente di qualsiasi Legislatore.
189
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202
RINGRAZIAMENTI La stesura di un primo, personale elaborato è un momento fondamentale della
carriera di qualsiasi professionista e durante la “prima volta”, assoluta è l’importanza
del supporto ricevuto dalle persone che ci circondano, sia il loro apporto “qualificato”
o puramente affettivo. Pertanto, non mi è possibile concludere il presente scritto senza
provvedere al ringraziamento di tutti quei soggetti che mi hanno accompagnato
nell’elaborazione della prima documentazione del mio pensiero giuridico.
In primo luogo, vorrei ringraziare il Professor Roberto Cordeiro Guerra per la
fiducia accordatami, per avermi permesso di sviluppare un tema a me particolarmente
caro e soprattutto per aver avuto la capacità di rendere affascinante questa materia,
attraverso la sua travolgente passione. Secondariamente, un sentito ringraziamento va
al suo staff, composto per ciò che riguarda la mia esperienza, sia dall’Avvocato Pietro
Mastellone, che mi ha personalmente seguito durante tutta la stesura del presente
elaborato, sia dalla Dottoressa Chiara Celesti, che ha reso il processo di elaborazione
meno incerto grazie ai suoi preziosi consigli.
Immensa gratitudine vorrei poi esprimere nei confronti della mia famiglia ed in
particolare dei miei genitori, per avermi trasmesso i Valori più importanti che un uomo
possa trasportare nel proprio bagaglio durante il viaggio che abbiamo il privilegio di
poter intraprendere in questo universo, per avermi insegnato a riconoscere la Bellezza,
nel suo significato universale e a ricercarla in ogni aspetto della vita e per avermi
sempre sostenuto, nel corso degli anni, in modo incondizionato, durante i momenti
motivazionalmente più bui e durante quelli di maggiore stimolo, nei quali mi hanno
permesso di esplorare nuove strade per approfondire sia la mia conoscenza del diritto,
che quella della mia stessa persona.
Enorme affetto, stima e gratitudine, nelle loro forme più spontanee, sono i
sentimenti che provo e che voglio esprimere verso la persona che, nonostante le nostre
strade si siano parzialmente separate, mi ha dato la mano durante parte del mio
percorso di formazione personale, permettendomi di crescerle accanto.
Un pensiero particolarmente cariñoso vorrei inoltre dedicarlo alla città di
Madrid e alla sua Universidad Complutense, dove ho avuto la fortuna di poter
trascorrere un intero anno accademico, per avermi accolto con un calore unico ed
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avermi sempre, costantemente e nonostante la distanza, fatto sentire “a casa”.
Un ultimo, giocoso, ma non per questo meno sincero, ringraziamento va a Pëtr
Il'ič Čajkovskij per aver composto il suo unico Concerto per violino e orchestra e a
Julia Fischer per averlo magistralmente interpretato e per essere stati, chi
metaforicamente e chi inconsapevolmente, il continuo, ispiratore ed intellettualmente
stimolante sottofondo nelle lunghe ore di stesura del presente scritto.