Fenoaltea 2001 Lezioni Di Economia Politica

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LEZIONI DI ECONOMIA POLITICA

TESTOStefano Fenoaltea Universit degli Studi di Brescia Facolt di Economia

Copyright c 2001 by Stefano Fenoaltea. E' vietata la riproduzione, anche parziale, non autorizzata.

,1',&( 1. Lanalisi, la storia, la storia dellanalisi 1

2. Lequilibrio parziale: lindividuo e il mercato per un singolo bene

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3. Lequilibrio generale: lindividuo in un sistema di mercati

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4. Lequilibrio generale: il sistema dei mercati (A: puro scambio)

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5. Lequilibrio generale: impresa e industria in un sistema di mercati

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6. Lequilibrio generale: il sistema dei mercati (B: produzione)

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7. La logica e la retorica: dallinterventismo al neoliberismo

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,1',&( $1$/,7,&2 1. Lanalisi, la storia, la storia dellanalisi 1.a. leconomia politica come scienza sociale 1.a.1. introduzione 1.a.2. loggetto delleconomia politica 1.a.3. il metodo delleconomia politica: i modelli 1.a.4. il metodo delleconomia politica: tra modelli e realt 1.a.5. la matrice culturale dell'economia politica 1.a.6. il ciclo ideologico dell'economia politica 1.b. lo stato nell'economia politica 1.b.1. introduzione 1.b.2. lo stato associazione di tutti 1.b.3. lo stato predatore 1.b.4. la politica e il potere 1.c. i precedenti storici 1.c.1. il mondo antico 1.c.2. il medioevo feudale 1.c.3. le citt medievali 1.c.4. il mercantilismo 1.d. la nascita dell'economia politica 1.d.1. i fisiocrati 1.d.2. Adam Smith 1.d.3. David Hume 1.d.4. David Ricardo 1.e. lo sviluppo dell'economia politica 1.e.1. industrializzazione, socialismo e economia borghese 1.e.2. Karl Marx 1.e.3. i marginalisti borghesi e socialisti 1.e.4. A. C. Pigou e Vilfredo Pareto 1.e.5. la microeconomia e l'eredit paretiana 1.e.6. la grande crisi e J. Maynard Keynes 1.e.7. la reazione a Keynes 1.e.8. gli esperimenti socialcomunisti 1.f. l'economia politica borghese nel secondo dopoguerra 1.f.1. l'apogeo dell'interventismo 1.f.2. gli inizi della controffensiva liberista 1.f.3. la crisi della macroeconomia 1.f.4. la teoria dell'informazione 1 1 1 1 1 2 2 3 3 3 4 5 6 7 7 8 8 9 10 10 10 11 11 13 13 13 14 15 16 17 18 19 19 19 20 20 21

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2. Lequilibrio parziale: lindividuo e il mercato per un singolo bene 2.a. lanalisi dellequilibrio 2.a.1. il quadro generale 2.a.2. laspetto formale dellequilibrio del singolo: la logica 2.a.3. laspetto formale dellequilibrio del singolo: la geometria 2.a.4. le unit di misura 2.a.5. il mercato e il prezzo 2.b. l'equilibrio di concorrenza perfetta 2.b.1. definizione 2.b.2. l'equilibrio del compratore concorrenziale 2.b.3. l'equilibrio del venditore concorrenziale 2.b.4. l'equilibrio del mercato in regime di concorrenza perfetta 2.b.5. il mutamento degli equilibri: offerta stabile 2.b.6. il mutamento degli equilibri: domanda stabile 2.b.7. gli equilibri con intervento pubblico: i prezzi politici 2.b.8. gli equilibri con intervento pubblico: tasse e sussidi 2.b.9. la rendita e le tasse 2.c. l'elasticit 2.c.1. definizione 2.c.2. l'elasticit della domanda 2.c.3. l'elasticit dell'offerta 2.c.4. l'elasticit nel tempo 2.c.5. l'elasticit e le tasse 2.d. l'equilibrio di monopolio semplice 2.d.1. definizione 2.d.2. l'equilibrio di monopolio del compratore 2.d.3. il mutamento degli equilibri 2.d.4. gli interventi correttivi 2.d.5. l'equilibrio di monopolio del venditore 2.d.6. il mutamento degli equilibri 2.d.7. gli interventi correttivi 2.e. l'equilibrio di monopolio discriminante 2.e.1. definizione 2.e.2. l'equilibrio di discriminazione imperfetta 2.e.3. l'equilibrio di discriminazione perfetta da parte del compratore 2.e.4. l'equilibrio di discriminazione perfetta da parte del venditore 2.e.5. l'equilibrio di monopolio bilaterale 2.e.6. l'equilibrio di monopolio semplice sequenziale 2.f. considerazioni sulla domanda e sull'offerta 2.f.1. il rapporto tra domanda e offerta in generale 2.f.2. domanda e offerta nel singolo mercato 2.f.3. efficienza e redistribuzioneiii

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3. Lequilibrio generale: lindividuo in un sistema di mercati 3.a. lanalisi dellequilibrio 3.a.1. vincoli e obiettivi 3.a.2. la funzione obiettivo: problemi di metodo 3.a.3. la funzione obiettivo: rappresentazione analitica 3.a.4. il vincolo 3.a.5. lequilibrio 3.b. lequilibrio delloperatore concorrenziale 3.b.1. il vincolo e lequilibrio 3.b.2. loperatore con disponibilit di danaro: l'equilibrio e il reddito 3.b.3. l'operatore con disponibilit di danaro: l'equilibrio e i prezzi 3.b.4. effetti di prezzo, di reddito, e di sostituzione 3.b.5. sostituti e complementi 3.b.6. la curva prezzo-consumo e l'elasticit della domanda 3.b.7. l'operatore con disponibilit di beni 3.b.8. il baratto, l'elasticit della domanda e l'elasticit dell'offerta 3.b.9. gli indici dei prezzi e il reddito reale 3.b.10. le tasse compensate e l'effetto di sostituzione 3.b.11. l'operatore con disponibilit di tempo e l'offerta di lavoro 3.b.12. la cultura, la tecnologia, l'offerta di lavoro 3.b.13. l'operatore e il mercato intertemporale 3.b.14. l'interesse e il valore attuale 3.b.15. l'incertezza e il valore atteso 3.c. l'equilibrio dell'operatore monopolista 3.c.1. il vincolo e l'equilibrio 3.c.2. l'equilibrio di monopolio semplice 3.c.3. l'equilibrio di monopolio perfettamente discriminante 3.c.4. domanda e domanda compensata 3.c.5. domanda, domanda compensata, e rendita del consumatore

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4. Lequilibrio generale: il sistema dei mercati (A: puro scambio) 72 4.a. gli equilibri di mercato 4.a.1. leconomia di puro scambio 4.a.2. lefficienza paretiana 4.a.3. la concorrenza perfetta: lequilibrio date le dotazioni 4.a.4. la concorrenza perfetta: le dotazioni dato lequilibrio 4.a.5. il monopolio 4.a.6. lesistenza degli equilibri 4.b. lottimizzazione sociale 4.b.1. i teoremi fondamentali e leconomia del benessere 4.b.2. la funzione obiettivo sociale 4.b.3. il vincolo e lequilibrio 4.b.4. i teoremi fondamentali delleconomia politica 4.b.5. lefficienza economica e lefficienza paretiana 4.c. considerazioni sullequilibrio 4.c.1. la natura dellequilibrio economico 4.c.2. la natura dello sfruttamento 4.c.3. la natura della redistribuzione 4.c.4. la natura dei gusti e del progresso 72 72 73 74 75 77 78 79 79 80 82 83 84 86 86 87 87 88

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5. Lequilibrio generale: impresa e industria in un sistema di mercati 5.a. leconomia di produzione 5.a.1. i mercati e larbitraggio 5.a.2. la produzione e limpresa 5.a.3. i beni, i servizi e i mercati 5.a.4. lindustria 5.a.5. il modello dellimpresa 5.b. la funzione di produzione 5.b.1. le cernite paretiane 5.b.2. i rendimenti di scala crescenti 5.b.3. i rendimenti di scala decrescenti 5.b.4. i rendimenti marginali dei fattori 5.b.5. la tecnica, la tecnologia e il progresso 5.c. la minimizzazione dei costi 5.c.1. la produzione a costo minimo 5.c.2. la sostituzione tra fattori e le quote della spesa 5.c.3. i costi medi e i costi marginali 5.d. lequilibrio di concorrenza 5.d.1. lequilibrio dellimpresa concorrenziale 5.d.2. limpresa e i fattori di produzione 5.d.3. limpresa e lindustria 5.d.4. il significato della concorrenza 5.d.5. il significato dei rendimenti variabili 5.d.6. il breve periodo e il lungo periodo 5.d.7. dal breve al lungo periodo: il mercato dei beni durevoli 5.e. una parentesi: lanalisi tradizionale del breve periodo 5.e.1. la logica e la prassi 5.e.2. le curve dei costi 5.e.3. lequilibrio dellimpresa e lofferta dellindustria 5.f. gli equilibri non di concorrenza 5.f.1. il monopolio semplice e la concorrenza monopolistica 5.f.2. potere di mercato e strategie dimpresa 5.f.3. loligopolio tra cartello e concorrenza 5.f.4. il modello di Cournot

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6. Lequilibrio generale: il sistema dei mercati (B: produzione) 6.a. dalleconomia di puro scambio alleconomia di produzione 6.a.1. i vincoli delleconomia di produzione 6.a.2. la concorrenza, i mercati e lefficienza paretiana 6.b. la concorrenza nel mercato dei fattori e lefficienza della produzione 6.b.1. la vendita dei fattori: concorrenza e pieno impiego 6.b.2. lacquisto dei fattori: concorrenza e allocazione efficiente 6.b.3. gli equilibri con fattori specializzati 6.b.4. gli equilibri con fattori generici non sostituibili 6.b.5. gli equilibri con fattori generici sostituibili 6.b.6. la frontiera dei prezzi dei fattori 6.c. la concorrenza nel mercato dei beni e lefficienza complessiva 6.c.1. lacquisto dei beni: concorrenza e allocazione efficiente 6.c.2. la vendita dei beni: concorrenza e produzione ottimale 6.c.3. efficienza paretiana, produzione, e distribuzione 6.c.4. aspetti dellequilibrio 6.c.5. i mutamenti degli equilibri 6.d. lallocazione delle risorse 6.d.1. gli elementi dellanalisi 6.d.2. la trasmissione delle valutazioni 6.d.3. lallocazione delle risorse e lequilibrio generale 6.d.4. lallocazione delle risorse e lottimo sociale 6.e. i modelli ricardiani 6.e.1. la crescita 6.e.2. il commercio estero

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7. La logica e la retorica: dallinterventismo al neoliberismo 7.a. linterventismo del dopoguerra 7.a.1. le basi dellinterventismo 7.a.2. il valore normativo della domanda privata: la distribuzione della ricchezza 7.a.3. il valore normativo della domanda privata: i gusti privati 7.a.4. il funzionamento del mercato: il potere di mercato 7.a.5. il funzionamento del mercato: le esternalit in generale 7.a.6. il funzionamento del mercato: esternalit e mercati inesistenti 7.a.7. il funzionamento del mercato: problemi di informazione 7.a.8. il funzionamento del mercato: le attivit puramente redistributive 7.a.9. il funzionamento del mercato: il secondo ottimo 7.b. la reazione liberista 7.b.1. la teoria positiva dell'intervento pubblico 7.b.2 le informazioni e i costi di transazione 7.b.3. le istituzioni private: i contratti 7.b.4. le istituzioni private: le organizzazioni 7.b.5. l'etica 7.c. la teoria dei giochi 7.c.1. il dilemma del prigioniero 7.c.2. considerazioni sul dilemma del prigioniero 7.c.3. una considerazione finale

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1. LANALISI, LA STORIA, LA STORIA DELLANALISI 1.a. leconomia politica come scienza sociale 1.a.1. introduzione Per capire cos' una passeggiata, la cosa migliore di mettersi in cammino; se rimandiamo comunque il primo passo, di poco, e nello spirito di avvertire chi ci seguir di stare attento ai rami bassi. Fuor di metafora, si cercher in questo primo capitolo di fornire una brevissima presentazione della materia che ci accingiamo ad abbordare: per avvertire appunto il lettore sulla natura di ci che incontrer, o perlomeno sul modo di capirla dell'autore. Alcuni dei vocaboli e dei concetti che incontreremo in questo primo giro d'orizzonte saranno sicuramente poco chiari; ma che questo non preoccupi. Si impara a "parlare economia" come qualsiasi altra lingua, e ci vuole un minimo di pratica prima di poter capire tutto. 1.a.2. l'oggetto dell'economia politica L'economia politica studia l'attivit economica sotto alcuni profili specifici, che corrispondono ai problemi fondamentali che affronta. L'astronomia classica cercava di spiegare il moto apparente degli astri; l'economia politica classica ha affrontato il problema del valore, espresso dal SDUDGRVVR GHOODFTXD H GHL GLDPDQWL. La prima, necessaria alla vita, ha un prezzo basso, mentre i secondi, inutili, hanno un prezzo alto; perch mai, ci si chiedeva, vale poco quel che vale molto, e vale molto quel che vale poco? Con la catastrofe economica della Grande Depressione l'economia politica classica si trovata di fronte al mistero della GLVRFFXSD]LRQH GL PDVVD; e per risolverlo venne creata una nuova analisi. Questa chiamata "teoria dell'occupazione", o pi comunemente PDFURHFRQRPLD (perch l'analisi considera variabili aggregate quali i consumi o il prodotto nazionale); l'economia politica tradizionale stata rietichettata "teoria dei prezzi" (o "del valore") o pi comunemente PLFURHFRQRPLD (perch l'analisi considera i singoli consumatori, beni, mercati, e produttori). A differenza per dell'astronomia, puramente contemplativa, l'economia politica nasce affrontando anche e principalmente un fondamentale problema pratico. /HFRQRPLFR di Senofonte (c. 400 a. C.) tratta infatti della buona amministrazione del privato ("oikos" = casa, "nomos" = norma); l'oggetto dell'economia detta SROLWLFD ("polis" = citt, stato) dunque la buona amministrazione della societ intera. Il nome stesso della disciplina la definisce pertanto come guida all'azione pratica dei governanti: con le parole di oggi, ormai ampiamente spogliate del loro contenuto etimologico, possiamo dire che l'oggetto madre dell'economia politica la politica economica. 1.a.3. il metodo dell'economia politica: i modelli L'economia politica, che si vuole scienza sociale, ragiona come le scienze naturali per astrattismi detti "modelli". Il modello altro non che il riassunto delle relazioni essenziali che regolano, per ipotesi, il fenomeno in esame; si tende a esprimerle in forma matematica, per poterne dedurre le implicazioni con sicurezza e relativa facilit. I modelli sono volutamente il pi possibile semplici, compatibilmente con il fenomeno da spiegare. Questa passione per la semplicit fondamentale: il "rasoio di Occam" (monaco inglese del primo Trecento) prescrive appunto che le variabili vanno ridotte al minimo necessario ( HQWLD QRQ VXQW PXOWLSOLFDQGD SUDHWHU QHFHVVLWDWHP ), e i modelli pi1

semplici sono considerati per ci stesso pi "eleganti". L'illustrazione canonica ci viene proprio dall'astronomia. Il modello tolemaico, geocentrico con orbite circolari, spiegava perfettamente il movimento apparente degli astri, ma in modo poco elegante: ai pianeti si doveva infatti attribuire non una semplice orbita circolare intorno alla Terra, ma un'orbita circolare intorno ad un punto che seguiva un'orbita circolare intorno a un punto che seguiva un'orbita circolare (e cos via) .... intorno alla Terra. Il pregio del modello copernicano, eliocentrico con orbite ellittiche, non era quello di accostarsi meglio alla realt osservata (dalla Terra, unico punto di osservazione fino a tempi recentissimi), ma di spiegare la stessa realt in modo assai pi semplice, senza dover ricorrere agli "epicicli" tolemaici. Peraltro la tendenza a preferire le spiegazioni semplici sembra caratteristica non solo della mente scientifica, ma della mente umana in generale. Si immagini una telenovela, con Lui e Lei. Si moltiplicano i ritardi e le assenze di Lei, che ha in ogni occasione una spiegazione: ha forato una gomma, ha perso la borsa ma poi l'ha ritrovata, e via di seguito. Lui prima ci crede, poi si insospettisce, alla fine si convince che Lei lo tradisce: proprio perch il modello "Lei fedele e dice la verit" si concilia con i fatti solo ipotizzando anche tutte le avventure che le sarebbero capitate, mentre "Lei infedele e mente" spiega tutto con un'unica avventura, quella appunto con l'Altro. E' ovvio comunque che le semplificazioni lecite dipendono dal problema in esame: chi studia il sistema solare pu astrarre dal volume della Terra e ridurla a un punto, chi studia i climi e le stagioni deve considerarla sferica. Lo stesso modello pu essere pertanto ottimo per certi usi e pessimo per altri, esattamente come un ottimo martello rimane un pessimo cacciavite. 1.a.4. il metodo dell'economia politica: tra modelli e realt La manipolazione del modello--il passaggio dalle ipotesi alle loro implicazioni-- opera di puro raziocinio; ma sull'intuito che fornisce le ipotesi di lavoro, e prima ancora sulla scelta del problema da affrontare, incidono le passioni e l'inconscio, i gusti e la cultura. Circa un secolo fa, ad esempio, la scoperta di imponenti rovine nell'Africa sud-orientale port gli studiosi a ipotizzare che fossero dovute ad un ignoto popolo bianco: per razzismo, diciamo adesso, ma quel razzismo era allora funzionale al mito della missione civilizzatrice invocato per giustificare l'imperialismo. Lo stesso modello copernicano fu a lungo osteggiato perch toglieva l'uomo dal suo giusto posto al centro del Creato: e Copernico pu essere stato il primo non con il genio di intuire il modello eliocentrico, ma con il coraggio (o la perversit?) di svilupparlo. Cos pure rimane ampiamente arbitraria e oscuramente condizionata la scelta, all'interno delle implicazioni logiche del modello, di quelle cui si d risalto e che si attribuiscono alla realt. Alle conclusioni comode, poi, si contrappone meno scetticismo che non a quelle scomode, e non ci si chiede se verrebbero ribaltate riportando nel modello qualche considerazione esclusa. Si continua cos a lavorare finch non si "dimostrato" ci che si voleva dimostrare, e l ci si ferma, come nei nostri giochi con i piccoli che continuano finch non hanno vinto loro. Tali condizionamenti a monte e a valle dei modelli sono particolarmente pesanti per le scienze sociali, che come la storia non possono non toccarci da vicino. Per tutta la fredda logica dei modelli stessi, dunque, l'economia politica calda, impegnata, viva; ed cresciuta nel tempo dallo scontro tra tradizionalisti e ribelli sui problemi del momento. 1.a.5. la matrice culturale dell'economia politica L'economia politica moderna si sviluppata in Occidente, in questi ultimi due secoli caratterizzati dall'egemonia--militare, politica, economica, e, sempre pi, culturale--del2

mondo anglosassone, inglese prima, e americano poi. Malgrado la nascita nella Francia del Settecento, malgrado i notevoli contributi di studiosi di tanti paesi fra cui sicuramente lItalia, la disciplina rimane profondamente angloamericana, e non se ne possono capire limpostazione e levoluzione fuori da quella specifica matrice culturale. Allinterno di quella matrice, infatti, lanalisi teorica appare in generale come un'astrazione naturale; traslata alla realt italiana appare invece spesso ben strana, con postulati fantascientifici, e curiose cecit che la portano a non vedere, o a scoprire tardi e con sbalordimento, cose che invece sanno anche i bambini. Tutto questo lo toccheremo con mano; ma bene tenerlo sempre in mente. Secondo poi, si nota all'interno della disciplina (o pi precisamente del suo filone centrale, ortodosso) un lungo ciclo nell'atteggiamento verso l'intervento pubblico, alternamente sollecitato e disapprovato, al quale corrisponde un alterno predominio dell'anima pratica e dell'anima contemplativa che in questa disciplina convivono. Questo ciclo il ciclo dell'opinione pubblica e della politica inglese e poi americana, da noi assente o solo mutuato (per non dire scimmiottato). 1.a.6. il ciclo ideologico dell'economia politica Riassumeremo pi tardi in questa stessa introduzione l'evoluzione della dottrina economica; ci limitiamo per ora a ricordare solo le tappe fondamentali del ciclo test segnalato della dottrina ortodossa. L'economia politica moderna nasce nel Settecento contestando l'allora diffuso interventismo. L'intuizione di fondo che anche l'economia, come la natura, ha i suoi equilibri naturali e benefici; gli economisti devono solo dimostrarli, i governanti rispettarli. Questo liberismo, allora rivoluzionario, trionfa nell'Ottocento; e sul finire del secolo viene difeso in chiave sempre pi conservatrice contro i nuovi rivoluzionari socialisti. Nel prima met del Novecento l'economia ortodossa scopre i limiti del liberismo e riprende la via dell'interventismo, sia pure limitato (a differenza di quello auspicato dalla sinistra socialcomunista) a complementare i mercati. Si accerta infatti che questi possono fare molto, ma non tutto: possono allocare in modo efficiente le risorse scarse, ma solo a certe condizioni che non sempre si verificano, per cui compete allo Stato un ruolo allocatore quando i mercati "falliscono"; non possono comunque garantire una distribuzione "buona" della ricchezza, per cui compete comunque allo Stato un ruolo redistributore. Con la Grande Depressione, poi, si riconosce pure, abbandonando la vecchia fede, che l'equilibrio naturale pu essere disastroso; per contenere il ciclo economico e evitare la disoccupazione di massa lo Stato deve assumere un ruolo stabilizzatore. L'interventismo, trionfante nel secondo dopoguerra, scatener a sua volta la reazione politica e culturale: in questi ultimi decenni l'economia politica pure si riavvicinata al liberismo, contestando con nuovi argomenti l'utilit e la necessit dell'intervento pubblico.

1.b. lo stato nell'economia politica 1.b.1. introduzione Allo stato soggetto della politica economica l'economia politica attribuisce dunque tre ruoli potenziali, riferiti rispettivamente alla redistribuzione, all'allocazione, e alla stabilizzazione. Per la verit, questi tre momenti si riducono logicamente a due, in quanto il problema della stabilizzazione--il problema del ciclo economico e della disoccupazione--altro non che un particolare problema di allocazione (tra ozio e lavoro); si distingue dal problema detto dell'allocazione, che riunisce di fatto gli altri problemi di allocazione, per l'importanza3

in verit eccezionale di questo particolare "fallimento del mercato", e per il metodo di studio e gli strumenti di intervento altrettanto particolari (macroeconomici piuttosto che microeconomici). I momenti fondamentali sono pertanto due, di allocazione e di redistribuzione; e corrispondono in sostanza a due ruoli che lo stato (anglosassone) confonde. L'uno quello dello stato come associazione di tutti; l'altro quello dello stato come strumento di coercizione. 1.b.2. lo stato associazione di tutti Nella teoria comune, di matrice appunto anglosassone, liberal-democratica, lo stato compare come associazione, in sostanza volontaria, di tutti. Siccome gli associati sono tali per trarne qualche beneficio, e abbandonano l'associazione se dovesse danneggiarli, chiaro che lo stato-associazione sar dedito per natura a gestire quegli interventi che sono a beneficio di tutti o perlomeno che beneficiando qualcuno non arrecano danno a nessuno. Nella realt, ovviamente, nessun intervento naturalmente di questo tipo: qualsiasi intervento, anche se aumenta l'efficienza dell'economia, modifica i prezzi e dunque danneggia l'una o l'altra delle parti contraenti. Se aumenta l'efficienza, per, genera un prodotto aggiuntivo che crea la possibilit di compensare i danneggiati; gli interventi che aumentano l'efficienza e vengono accompagnati dalle dovute compensazioni sono pertanto accettabili all'unanimit. Nella realt, pure, le compensazioni puntuali non sono facili, e si tende per cos dire a contare sulla compensazione complessiva. Per fare un esempio specifico, ammettiamo che la liberalizzazione dei tass comporti un beneficio netto, che comprende per oltre al beneficio per i consumatori anche una perdita per i tassinari stessi. La liberalizzazione si estende per anche al commercio, ai notai, e via di seguito; alla fine, anche i tassinari dovrebbero star meglio, guadagnando come compratori di carne o di case dalle "altre" liberalizzazioni pi di quanto non perdano come tassinari dalla propria. Lo stato allocatore, che elimina le inefficienze dovute ai fallimenti dei mercati, interviene dunque almeno tendenzialmente e potenzialmente a beneficio di tutti; lo stato redistributore interviene invece inevitabilmente in modo da danneggiare chi perde. Da qui la sostanziale corrispondenza tra stato-associazione e funzione allocatrice: funzione che l'economia politica (di matrice liberal-democratica) ha studiato prima e ben pi volentieri dei problemi connessi alla redistribuzione. Occorre comunque aggiungere tre precisazioni. Primo, lo stato associativo tende ad avere una struttura federale, a pi livelli, in quanto l'associazione giusta pi o meno estesa a seconda del problema pratico da risolvere. Secondo, anche lo stato-associazione pu trasferire reddito e ricchezza, ma solo se ci desiderato da tutti, anche da chi ci rimette in termini monetari. In questo caso, ovviamente, chi vuol dare e far dare ottiene soddisfazione dal miglioramento della situazione dei beneficiari, e ci guadagna in termini di benessere anche se non in termini di reddito o di ricchezza. Terzo, anche lo stato-associazione pu avere poteri coercitivi, concessi dai membri a proprio vantaggio: per esempio, il potere di esigere quote di sottoscrizione per pagare un bene che il mercato non fornirebbe (la difesa, la giustizia, e gli altri beni detti appunto "pubblici"). La coercizione qui concordata, non subita, e rimane strumento di interventi allocatori accettabili all'unanimit; anzi, proprio perch concordata e accettata la coercizione pu essere maggiore di quella imposta e subita nello stato che coercitivo senza essere associativo. Notava gi A. de Tocqueville ('H OD GpPRFUDWLH HQ $PpULTXH, 1836-39) quanto era forte lo stato della giovane Repubblica americana; ricordiamo che nelle ultime grandi4

guerre sono stati proprio i governi dei paesi democratici quelli che hanno potuto maggiormente ricorrere al finanziamento tramite imposte, e evitare dunque il prelievo tramite creazione di moneta e inflazione. Nellottica liberal-democratica, dunque, si accetta tranquillamente la coercizione pubblica. Anzi, essendo vietata la coercizione privata allo stato compete "il monopolio della violenza": principio questo ovviamente condiviso dalle tradizioni non-democratiche, ad esclusione del filone anarchico (che la democrazia giustamente teme: vedi Sacco e Vanzetti...). Questo monopolio di violenza (potere, sovranit) fa s che qualsiasi potere economico privato legittimo solo se derivato dallo stato: da qui ad esempio la necessit storica di una decisione sovrana ad hoc per concedere ogni diritto di monopolio o di incorporazione, da qui pure l'illegalit, negli Stati Uniti, delle strategie aziendali mirate al raggiungimento del monopolio privato. Peraltro il monopolio della violenza va qualificato, proprio nel contesto dello stato associativo, che tipicamente un'associazione tra uomini o comunque tra adulti: i minori, le donne (minori fittizi) sono tipicamente sottoposti all'autorit non solo dello stato, o non affatto dello stato, ma del padre (o dei genitori) o del marito. Si arriva qui al problema di chi cittadino, sottoposto direttamente allo stato e dunque da esso protetto, e chi, come gli schiavi, non lo ; la famiglia era una volta sovrana nel suo interno, e anche ora lo stato spesso resto ad entrarvi. Il caso emblematico quello di Roma antica, sorta sembra come associazione di clan internamente sovrani: l'autorit dei paterfamilias era assoluta, e lo stato non aveva nemmeno il diritto di tassare le terre di loro propriet H[ MXUH TXLULWLXP. 1.b.3. lo stato predatore Lo stato che viene definito dalla propria capacit coercitiva non strumentalizzata al benessere di tutti lo stato predatore. Nella storia si ritrovano degli stati associativi: ne sono esempi tipici, con Roma appena ricordata, le repubbliche urbane greche e latine, le citt medievali (scaturite da associazioni giurate) e probabilmente anche le trib germaniche, sempre per a livello di aristocrazie. Il pi delle volte, per, e specie agli albori della civilt, lo stato appare come predatore. Sorge infatti con la capacit di qualche banda armata di ricattare i produttori di ricchezza, esigendone dei tributi pena la messa a ferro e fuoco. Questi produttori di ricchezza sono ricattabili in quanto non possono fuggire: si tratta dunque in sostanza di agricoltori, di cui si possono distruggere i raccolti e le scorte, e anche di mercanti, che passano per forza dove li obbliga la topografia. Siccome i popoli dediti alla caccia e alla raccolta sono invece difficilmente ricattabili, i primi stati sorgono dove si esaurisce lo spazio per quel tipo di vita: esempio classico le grandi valli aride (l'Egitto, la Mesopotamia, l'India, la Cina) dove il popolo era non solo agricolo ma legato alle vicinanze del fiume. Altri stati sorgono dove vi transito, ad esempio in Africa lungo le vie dell'oro e del sale; si ricorda come equivalente europeo la potenza tradizionale della Borgogna, a cavallo del valico tra il Mediterraneo e l'Atlantico. In questi contesti particolari si crea, per mano di qualche violento, lo stato come strumento di sfruttamento, e che come sfruttatore esige il monopolio locale dello sfruttamento. Accanto ai primi stati come l'Egitto, caratterizzati da una forte componente redistributrice (al punto che c' chi vi ha visto un modello alternativo al mercato...), sono chiaramente di questo tipo anche gli stati dell'assolutismo (in cui il monarca gestisce il cartello dell'aristocrazia). Secondo i marxisti, poi, sono di questo tipo anche gli stati (democratici e non) caratterizzati da un'economia capitalista, ch lo stato rimane "il comitato esecutivo della classe dirigente".5

Comunque sia, lo stato predatore ovviamente e per natura redistributore piuttosto che allocatore; anzi, l'allocazione interessa al limite solo come mezzo per aumentare la possibile redistribuzione, a vantaggio sempre della classe dirigente. Mentre lo statoassociazione coercitivo e redistributore in quanto allocatore, dunque, lo stato predatore allocatore in quanto coercitivo e redistributore; e in quanto allocatore pur sempre interessato all'economia politica. Come redistributore, per, interessato in particolar modo alla scienza delle finanze. Questa studia appunto gli strumenti privilegiati dello sfruttamento, ossia le imposte e i monopoli fiscali (occupandosi per esempio del problema della traslazione dell'imposta, ch se non si sta attenti una tassa che si vuol far pagare ai poveri potrebbe ricadere sui ricchi); ricordiamo che tali strumenti erano peraltro spesso appaltati, ch lo stato tradizionale raramente disponeva di burocrazie efficienti. La redistribuzione ai potenti avviene invece sia attraverso i sussidi diretti, quali le rendite attribuite dal Re di Francia i suoi nobili, sia attraverso la concessione di monopoli (o di poteri amministrativi, che arricchiscono con la corruzione). 1.b.4. la politica e il potere A prima vista, lo stato allocatore sembra naturalmente democratico, quello predatore naturalmente monocratico (o aristocratico); ma la forma politica non strettamente legata alla funzione dello stato. Almeno teoricamente, ad esempio, un monarca assoluto ma benevolo potrebbe gestire il potere per il bene di tutti, limitandosi a funzioni di miglioramento allocativo; come esempi (o pseudo-esempi) storici si pu pensare ai buoni imperatori romani (Augusto, gli Antonini), e magari anche ai signori "stranieri" chiamati dalle citt-stato italiane altrimenti dilaniate dalle lotte intestine. Tutt'altro che teoricamente, purtroppo, bisogna ricordare la configurazione demopredatrice: il caso cio in cui il potere attribuito con metodi democratici, ma gestito poi in ottica redistributrice. Questo sembra essere il caso, comune, dei paesi che hanno mutuato agli anglosassoni le forme della democrazia liberale, ma non l'etica che ne il supporto e la sostanza. L'etica democratico-liberale nasce, come noto, dalle sette protestanti che riconoscono il diritto alla propria visione del bene di tutti e dunque rispettano la libert di pensare, e di esprimersi, secondo coscienza. Le maggioranze decidono, sui singoli punti, ma sempre in funzione del bene comune, nel pieno rispetto della minoranza e del singolo che sempre libero di pensare diversamente senza che ci sia visto come un tradimento. Dove come ahim da noi manca questa etica, il voto "democratico" serve solo a definire la coalizione di maggioranza che poi gestisce il potere a proprio vantaggio, e a danno della minoranza: da qui l'ansia dell'italiano di trovarsi sempre con i vincitori, da qui l'esigenza di votare con i propri amici anche se si pensa diversamente, da qui l'atteggiamento dei potenti che esigono lealt dai propri clienti piuttosto che coscienza dai propri collaboratori. Emblematico, per rendere la cosa concreta, il professore che si scaglia contro il ricercatore della sua area che ha avuto la sfrontatezza di non votare come lui: atteggiamento impensabile in una facolt americana, dove ognuno vota come pensa senza che questo minimamente incida sul rapporti professionali e le possibilit di carriera. Tanto lontana questa etica di mafia da quella anglosassone che la teoria della politica economica maturata appunto in ambiente anglosassone tradizionalmente teorizza lo stato solo come associazione di tutti, volta ad aumentare il benessere collettivo; l'uso del potere a vantaggio di chi lo detiene stato teorizzato solo di recente, da parte della destra americana anti-interventista, e non a caso tale comportamento viene visto come un IDOOLPHQWR6

dello stato.

1.c. i precedenti storici 1.c.1. il mondo antico Nel mondo antico si ritrovano come si detto due tipologie opposte: quella delle monarchie o teocrazie predatrici, come l'Egitto; e quella delle repubbliche associative (anche se queste poi come Roma si presentano all'esterno come predatrici). Gli stati redistributori sono attivamente coinvolti nel processo di produzione, tassando il prodotto, esigendo corves, e magari salariando i lavoratori delle terre demaniali; e tendono a dedicare parte del surplus estratto dal popolo a lavori "pubblici" di prestigio (piramidi). La Roma classica si presenta invece perlomeno al suo interno come uno stato allocatore, liberista ante litteram: lo stato gestisce il settore pubblico "minimo" (difesa, lavori pubblici; il circo; le imposte sui territori conquistati), e definisce le regole che facilitano gli scambi di mercato lasciati all'iniziativa dei singoli (il diritto privato); gestisce inoltre la redistribuzione (il pane, a favore dei poveri--peraltro solo a Roma, per motivi di ordine pubblico). Questo aspetto di massima va temperato da tre considerazioni. Primo, nella stessa Roma le lotte tra patrizi e plebei hanno sapore redistributivo, per cui almeno alle origini l'associazione-stato era presumibilmente dei soli patrizi. Secondo, il tardo impero cerca di ovviare alle sue difficolt economiche limitando la libert di contrattazione. L'editto di Diocleziano (c. 300 d.C.) limita i prezzi; viene visto come una sospensione del mercato, ma pi probabilmente era destinato a limitare solo i prezzi pagati dall'amministrazione dello stato. Con una serie di leggi sono rese ereditarie e obbligatorie certe professioni (connesse all'approvvigionamento e all'amministrazione), e legati al suolo anche i contadini liberi. Terzo, il modello romano non era universale. Cartagine, in particolare, era una potenza commerciale che cercava di mantenere il monopolio di certi contatti (in particolare oltre le colonne d'Ercole, donde giungevano l'oro dell'Africa e lo stagno della Cornovaglia). Rimane controversa la misura in cui l'economia classica fosse simile alla nostra (controversia sul capitalismo antico). Negli anni Venti il volume sull'economia della Roma antica di M. Rostovzeff (6RFLDO DQG (FRQRPLF +LVWRU\ RI WKH 5RPDQ (PSLUH, 1926) ne sottolineava la modernit e le affinit con le economie capitaliste del nostro tempo: descriveva infatti l'economia classica come un'economia di mercato, che anche se agraria e commerciale invece che industriale non era di fondo dissimile da quelle in cui viviamo. Questa visione era naturalmente difficile da conciliare con lo schema marxista, che vede nella storia uno sviluppo lineare e obbligato: siccome il capitalismo non poteva esistere prima, oltre che dopo, il feudalesimo, l'idea di Rostovzeff che ci sia stato un capitalismo antico sbrigativamente respinta con l'accusa di anacronismo. Per i marxisti il mondo antico era caratterizzato dal sistema schiavistico, statico, e ben diverso dal capitalismo col suo mercato del lavoro, la lotta di classe, e l'accumulazione (P. Anderson, 3DVVDJHV IURP $QWLTXLW\ WR )HXGDOLVP, 1974). La critica marxista a Rostovzeff sembra per molto debole, in quanto il mercato dei lavoratori (gli schiavi) si inserisce benissimo in un'economia capitalista a fianco del mercato del lavoro (vedi gli Stati Uniti fino al 1865). Nell'economia antica, anzi, e a differenza del Nuovo Mondo, gli schiavi erano utilizzati massimamente in lavori che esigevano non uno sforzo fisico ottenibile con la brutalit ma una collaborazione fattiva ottenibile solo con un trattamento, e degli incentivi, simili a quelli che si usano con i lavoratori liberi. Per questo motivo la barriera tra schiavi e liberi era porosa (vedi gli artigiani di Ostia ricordati da una lapide che lasci spazio per il nome che lo schiavo avrebbe acquisito7

con la libert). Diversa la critica accanita a Rostovzeff mossa dalla scuola di K. Polanyi, che avvers il capitalismo e i mercati negando che fossero naturali all'uomo e storicamente comuni (7KH *UHDW 7UDQVIRUPDWLRQ, 1944, e 3ULPLWLYH $UFKDLF DQG 0RGHUQ (FRQRPLHV, 1968). M. Finley, titolare della cattedra di storia antica a Cambridge, si oppose in modo particolare a Rostovzeff negando appunto agli antichi interessi e istituzioni simili ai nostri (7KH $QFLHQW (FRQRP\, 1973). Malgrado l'antipatia naturale per le tesi di Polanyi degli economisti (che proprio in quanto tali non amano ipotizzare differenze culturali), e malgrado pure l'apparente superficialit degli argomenti di Finley (che nota ad esempio che Plinio compr una villa lodandone l'amenit piuttosto che il reddito: argomento che prova ben poco, visto che anche Rockefeller avrebbe potuto fare altrettanto), la sua interpretazione stata largamente accettata: forse per l'autorevolezza della fonte, forse anche per la mancanza di simpatia per gli antichi fra questa generazione di storici, economici e non, che non si formata sugli studi classici. Sembra per aver visto giusto Rostovzeff. Un problema analogo si presentato per le economie dell'Egitto o della Mesopotamia, che i seguaci di Polanyi definirono economie di reciprocit e di redistribuzione (e non di mercato). Di fatto sembra ora abbastanza accertato che la redistribuzione coinvolgesse i trasferimenti verso le classi dirigenti, mentre il resto dell'economia funzionava con i soliti mercati... 1.c.2. il medioevo feudale E' controversa l'origine del feudalesimo. La fine dell'era antica, tradizionalmente attribuita alla calata dei barbari, venne invece attribuita da H. Pirenne all'espansione dell'Islam, che spezz l'unit del Mediterraneo (0DKRPHW HW &KDUOHPDJQH, 1937). Questo discorso sicuramente valido in termini politici e culturali, in quanto l'espansione dell'Islam che crea l'Europa come unit culturale e religiosa; molto discutibile invece in termini economici, in parte per gli elementi Polanyieschi dell'analisi di Pirenne. Secondo questi infatti senza il commercio esterno non vi quello interno, senza commercio interno non vi circolazione di moneta, senza circolazione di moneta non vi sono imposte e dunque non vi pu funzionare lo stato... La scomparsa dello stato indubbia; se non attribuibile alla chiusura del Mediterraneo, lo forse alla pressione militare sulle frontiere dell'Europa (da parte di Arabi, Vichinghi, Magiari...), e forse pi probabilmente agli incentivi alle razzie di schiavi e dunque all'anarchia creati dalla continuazione del commercio del Mediterraneo (ma questo un discorso lungo...). Comunque sia, lo stato scompare, e il potere sovrano di tassare e rendere giustizia passa ai signori locali; lo stesso re di Francia, ad esempio, dispone da sovrano solo delle sue proprie terre, come un barone qualsiasi. Con questa confusione tra pubblico e privato, scompaiono praticamente lo stato, la politica economica, e dunque lo spazio per l'economia politica. Notiamo peraltro che l'economia dell'Europa feudale non pi considerata statica: si riconosce adesso ad esempio il progresso tecnico e organizzativo dell'agricoltura nordeuropea, e i marxisti come Anderson hanno teorizzato all'interno del feudalesimo una lotta di classe e dunque una dinamica affini a quelle del capitalismo. Non si capisce pertanto perch marxisti e non marxisti debbano continuare a considerare diverso, e statico, il mondo antico (J. Mokyr, 7KH /HYHU RI 5LFKHV, 1990). 1.c.3. le citt medievali Sempre secondo Pirenne, la citt medievale (ri)crea il capitalismo in cui tuttora viviamo, che distrugge da nemico il mondo feudale (0HGLHYDO &LWLHV 7KHLU 2ULJLQ DQG WKH8

5HYLYDO RI 7UDGH, 1925). Altri studiosi hanno giustamente notato che le citt medievali vivevano producendo o commerciando beni destinati alle lites feudali; piuttosto che di antagonismo tra capitalismo (urbano) e feudalesimo (rurale) si dovrebbe forse parlare di simbiosi feudale. Comunque sia, nelle citt medievali, come nel mondo romano e nel nostro, la comunit organizzata a stato gestisce il settore pubblico (difesa, lavori pubblici, educazione). In quanto mercantili e capitaliste, poi, e dunque interessate a facilitare gli scambi, le citt medievali recuperano il diritto romano (a controprova ovviamente della validit delle conclusioni del Rostovzeff sul mondo antico). Si nota inoltre che il capitalismo delle citt medievali , come il nostro, non individualistico e concorrenziale ma corporativo, monopolistico, e altamente regolamentato. Il potere di mercato e il controllo della qualit (che sono peraltro connessi) vengono gestiti dai maestri artigiani organizzati in gilde; si detto che tali organismi hanno contribuito alla formazione di un'etica produttivistica (mancante nei paesi come la Russia, che ne hanno risentito in periodi successivi). Nel campo specifico del commercio estero, le citt medievali sono eredi di Cartagine piuttosto che di Roma: sono infatti tutt'altro che libero-scambiste, e buona parte della politica economica guarda appunto al controllo del commercio estero. Il potere militare viene posto spregiudicatamente al servizio del potere commerciale, debellando i concorrenti; le esportazioni (di beni di lusso, perch gli alti costi di trasporto limitano il commercio delle merci povere) vengono garantite anche dal controllo della qualit. 1.c.4. il mercantilismo Con la chiusura del medio evo la politica interventista delle citt venne traslata al livello dello stato nazionale: dopo il secolo aureo delle potenze iberiche saranno l'Olanda e poi l'Inghilterra regina dei mari, la Francia erede dell'Italia nelle manifatture di lusso. Queste politiche vedono la concorrenza interstatale come gioco a somma zero, e mirano al surplus nei pagamenti (influsso di oro). Gli economisti moderni hanno tradizionalmente tacciato i mercantilisti di ignoranza e/o stupidit, attribuendo la ricerca dell'oro al non aver capito che la ricchezza vera la disponibilit di beni e servizi, e l'idea della somma zero al non aver capito che il commercio crea vantaggi netti per tutti. Di fatto, gli stati nazionali lottavano per il potere e la sopravvivenza, e nelle lotte di potere conta la graduatoria e non il livello; l'oro, ottenuto dal saldo dei pagamenti (inevitabilmente a somma zero), serviva direttamente a pagare le truppe mercenarie. L'interventismo mercantilista sembra pertanto assolutamente difendibile. Anche il principio che il commercio crea vantaggi per tutti va temperato in un mondo in cui l'alto costo dei trasporti limitava in pratica il commercio interlocale ai beni di lusso: nella misura in cui questi sono beni utilizzati nella concorrenza sociale (caso tipico: i gioielli), il gioco di nuovo a somma zero. Se infatti noi ci contendiamo il rango sociale acquistando beni pregiati che dimostrano il nostro potere e la nostra ricchezza, i beni consumati sono dal punto di vista del benessere l'equivalente preciso delle armi, o della moneta (le mie valgono di pi se non le possiedi pure tu). La riluttanza della Cina, che tendenzialmente esportava manufatti e importava metallo, ad aprirsi al commercio estero derivava forse in parte dall'aver capito proprio questo... Nella visione mercantilista, peraltro, si tiene conto della mobilit delle risorse: si lotta, anche con i sussidi, per attrarre e sviluppare le competenze necessarie per l'industria esportatrice. Anche da questo punto di vista il mercantilismo sembra pi valido delle critiche che gli sono state mosse (e comunque tutt'altro che morto: si pensi all'Airbus). Occorre comunque distinguere tra vari tipi di interventi, variamente ispirati al9

mercantilismo (regolamentazione che si vuole efficace, per ottenere il surplus dei pagamenti), al fiscalismo (regolamentazione che si vuole inefficace, per lucrare le multe), e alla corruzione (regolamentazione che si vuole inefficace, per lucrare bustarelle--bustarelle che per possono sostituire lo stipendio, per cui possono far parte del disegno del sovrano). In questo periodo, vari studiosi si occupano di questioni economiche, ma tipicamente su questioni particolari (paradosso del valore reale e di mercato dell'acqua e dei diamanti; problemi di inflazione), senza che si sviluppi quello che noi chiameremmo una disciplina economica. Compaiono ciononostante dei contributi validissimi: va segnalata in particolare la teoria quantitativa della moneta, sviluppata gi nel Cinquecento da J. Bodin (francese) per spiegare l'inflazione in Europa con l'enorme afflusso di oro e di argento dalle americhe (5HVSRQVH j 0 GH 0DOHVWURLFW VXU OH SDUDGR[H GX IDLFW GHV PRQQDLHV, 1569). 1.d. la nascita dell'economia politica 1.d.1. i fisiocrati L'economia politica intesa come disciplina ("economics"), figlia dell'illuminismo, nasce nella Francia prerevoluzionaria (c. 1750) dalla fede neo-stoica nell'ordine naturale (e pertanto ottimale) contro il quale l'intervento dannoso o perlomeno inutile, nella sfera della produzione e distribuzione umana come nelle altre. Questi primi economisti si chiamano pertanto ILVLRFUDWL ("deve governare la natura"); il loro primo e fondamentale principio il non-intervento: ODLVVH] IDLUH ODLVVH] SDVVHU. Secondariamente, e nel contesto francese di appoggio all'industria (dei beni di lusso), insistono che l'agricoltura l'unica fonte netta di ricchezza; secondo loro industria e servizi trasformano senza creare benefici netti. 1.d.2. Adam Smith A. Smith (scozzese; 7KH :HDOWK RI 1DWLRQV, 1776) porta nella cultura anglosassone (egemonica nei secoli successivi) il messaggio fisiocratico anti-interventista; il suo testo un grande libello antimercantilista (malgrado il titolo, mutuato al nemico da abbattere). Per Smith, la ricchezza delle nazioni il benessere dei consumatori, e non l'accumulo di metalli preziosi; vince il dibattito con il mercantilismo non solo contestandone i metodi, ma sostituendo altri obiettivi (il che a rigore di logica vanifica la critica...). Il benessere dei consumatori dipende poi dal funzionamento corretto del mercato, ossia dalla FRQFRUUHQ]D, che come una benefica PDQR LQYLVLELOH porta i singoli che fanno l'interesse proprio a fare di fatto l'interesse comune; si profila dunque la funzione statale di controllo dei mercati in chiave antitrust, opposta a quella tradizionale, mercantilista, di creare e garantire i monopoli industriali. Con la concorrenza, sostiene Smith, si allarga il mercato, permettendo dunque i notevoli aumenti di produttivit che accompagnano OD VSHFLDOL]]D]LRQH: rimasto famoso il suo esempio della divisione del lavoro in una fabbrica di spilli. Dove poi per i fisiocrati solo l'agricoltura produceva ricchezza, per Smith sono produttive sia l'agricoltura che l'industria; i servizi, non produttori di beni, vengono invece considerati sterili. La parificazione dei servizi alla produzione dei beni avr luogo solo con la rivoluzione "marginalista", austriaca e inglese, alla fine del secolo successivo. Sfuggir pertanto al filone marxista, allora gi separato da quello liberista, con gravi conseguenze per la politica economica del mondo comunista: i sovietici avranno infatti una tendenza cronica a sottoinvestire nei trasporti, e a gestire malissimo il terziario in generale (anche perch quello che meno si presta alla pianificazione in termini quantitativi).10

Smith propugna il libero scambio allesterno come il libero commercio allinterno, ma arriva a dimostrarne i benefici solo ipotizzando differenze assolute di produttivit nei diversi paesi (per cui il prodotto complessivo ovviamente aumenta se ognuno si specializza in ci che produce a costo minore); l'argomento lascia pertanto spazio al protezionismo se il concorrente pi produttivo in tutti i settori. Sulla teoria del valore, infine, Smith si ferma ad associare i prezzi relativi al contenuto relativo di lavoro (se ci vogliono in media due ore per catturare un daino e una per catturare un castoro, un daino vale due castori): una prima approssimazione non inutile ma nemmeno soddisfacente (si pensi ai beni rari, alle diverse remunerazioni orarie di professioni diverse...). 1.d.3. David Hume Completa l'opera antimercantilista di Smith il suo connazionale e contemporaneo D. Hume, che usa la teoria quantitativa della moneta per "dimostrare" la futilit delle politiche tese ad ottenere un surplus nella bilancia dei pagamenti. La teoria dei flussi aurei di Hume nota infatti che un surplus dei pagamenti crea un'afflusso di oro che a sua volta fa lievitare i prezzi, riducendo la competitivit delle esportazioni e riportando in equilibrio la bilancia dei pagamenti. Nell'allocazione internazionale dell'oro, come nel resto dell'economia, esiste dunque un equilibrio naturale che non si pu e non si deve disturbare. Hume convince tutti, anche se la sua teoria errata. Primo, l'oro acquisito e WHVDXUL]]DWR dalla corona non entra in circolazione e dunque non fa lievitare i prezzi. Secondo, il protezionismo aumenta il livello dei prezzi, e dunque l'oro circolante in equilibrio. Terzo, ogni paese ha un livello dei prezzi determinato dalla struttura del commercio, in quanto i prezzi interni sono legati ai prezzi all'esportazione; i prezzi all'esportazione sono i prezzi del mercato mondiale, detratti i costi di trasporto; e i costi di trasporto incidono maggiormente sulle merci povere (perch il trasporto una costante per tonnellata, costante che relativamente maggiore tanto minore il valore unitario del bene trasportato). Il paese che esportava manufatti di lusso piuttosto che grano aveva pertanto prezzi medi pi alti, e dunque uno stock di circolante maggiore... Il trionfo dell'allora nuova economia classica sembra pertanto dovuto pi ad una predisposizione favorevole da parte dell'opinione pubblica che ad un merito intrinseco; e ci si chiede quanta influenza possono avere di fatto le idee in quanto tali... 1.d.3. David Ricardo Il trattato di D. Ricardo (inglese; 3ULQFLSOHV RI 3ROLWLFDO (FRQRP\ DQG 7D[DWLRQ, 1817) visto come il primo trattato di economia analitica. Di fatto, non un opera astratta, bens, in tale veste, un potente attacco al protezionismo agrario dell'Inghilterra governata appunto dai grandi proprietari terrieri. Ricardo adduce due argomenti. Contro il protezionismo in generale, completa l'argomentazione di Smith dimostrando che il commercio vantaggioso per tutti, anche se un paese poco produttivi in tutti i settori; basta infatti che ognuno si specializzi dove possiede un YDQWDJJLR FRPSDUDWR, ossia un maggior vantaggio o un minor svantaggio. Contro il protezionismo agrario in particolare, Ricardo idea un modello di crescita in cui l'economia cresce grazie all'DFFXPXOD]LRQH (ossia all'aumento delle risorse, e non solo alla maggior specializzazione delle risorse date). L'economia tende per ad uno VWDWR VWD]LRQDULR. La produzione usa terra, capitale, e lavoro; la terra limitata, per cui gli altri fattori sono soggetti a UHQGLPHQWL GHFUHVFHQWL (ossia: raddoppiando capitale e lavoro con terra costante il prodotto aumenta ma non raddoppia). L'economia cresce finch i rendimenti del capitale e del lavoro superano i minimi necessari per mantenerli; la crescita termina quando la pressione demografica sulle limitate risorse agrarie convoglia l'intero surplus oltre il mantenimento dei11

lavoratori e del capitale agli agrari, visti come puri consumatori, e non, come i capitalisti, risparmiatori e investitori. Il protezionismo agrario, che impedisce di usare le terre altrui come se fossero proprie, tende pertanto a limitare la crescita. Non si pu non riconoscere l'assoluta genialit dell'analisi ricardiana. Con il modello dei vantaggi comparati, infatti, Ricardo non solo scopre un principio importantissimo, che vale nello scambio interno come in quello internazionale, ma prefigura anche altri concetti che come vedremo sono assolutamente fondamentali. Specializzandosi infatti ogni paese nella produzione in cui gode di un vantaggio comparato, si viene a minimizzare il costo di ogni bene non in termini di risorse, ma in termini dei beni cui si deve rinunciare: se ne minimizza insomma quello che si chiamer poi il FRVWR RSSRUWXQLWj. Bastando inoltre perch il commercio sia vantaggioso che vi siano differenze nei costi opportunit, il modello non solo presenta di fatto un problema di PDVVLPL]]D]LRQH YLQFRODWD (nel caso, la massimizzazione della produzione complessiva dato il vincolo delle risorse e delle produttivit), ma ne prospetta la soluzione corretta che comporta OXJXDJOLDQ]D GHL WDVVL GL VRVWLWX]LRQH (nel caso, tra i beni nei diversi paesi). All'interno del modello della crescita, pure, Ricardo nota la differenza fondamentale tra i salari e il profitto, pagamenti necessari per mantenere i lavoratori e il capitale, e la rendita della terra, senza la quale la terra esisterebbe comunque. Da allora si capito che non solo la terra che pu guadagnare pi del minimo che basterebbe per ottenerne i servizi; ma in omaggio all'origine del concetto gli economisti chiamano UHQGLWD qualsiasi remunerazione in eccesso di tale minimo. Si pu anche notare, per, che l'analisi ricardiana non poco tendenziosa. Il modello della crescita, ad esempio, come quello successivo di Marx un modello a classi sociali antagoniste, solo con capitalisti e lavoratori ("produttivi") da una parte e agrari ("parassiti") dall'altra. Questa schematizzazione rappresenta di fatto un notevole falso storico, in quanto erano stati proprio gli agrari a finanziare i grandi investimenti in opere di pubblica utilit (strade, canali) che avevano portato l'Inghilterra del Settecento alla rivoluzione commerciale e poi industriale. I ricchi proprietari terrieri erano di fatto risparmiatori e investitori non meno dei capitalisti. Nel modello del commercio, pure, i vantaggi generali del libero scambio notati da Ricardo (e dai testi moderni) sono tali solo se non si guarda all'interno dei paesi. Rispetto all'autarchia, infatti, il libero scambio porta alla specializzazione, che modifica ovviamente le produzioni relative; ma essendo diverse le proporzioni in cui le diverse produzioni usano i fattori di produzione, modificare le produzioni relative significa cambiare pure la scarsit relativa dei fattori, e dunque le loro remunerazioni relative. Questo lo vedremo meglio poi; ma intuitivo che in un paese tendenzialmente manifatturiero come l'Inghilterra di allora la libera importazione di prodotti agricoli avrebbe giovato non tanto "al paese" quanto ai capitalisti e ai lavoratori, con danno grave invece per gli agrari. L'antagonismo di classe si trova dunque implicitamente anche nel modello del commercio, e non solo in quello di crescita; lo stato allocatore anche redistributore. Forte comunque di questa dottrina economica liberista, l'agitazione del nuovo mondo industriale (i tessili di Manchester) porter l'Inghilterra al libero scambio (Reform Bill, 1832; abolizione del dazio sul grano, 1846); e con esso l'Inghilterra imbocca senza remore la via della specializzazione industriale che ne far "l'opificio del mondo".

1.e. lo sviluppo dell'economia politica12

1.e.1. industrializzazione, socialismo e economia borghese Nel corso dellOttocento lo sviluppo industriale si diffonde in Europa e in America. Crescono come mai prima di allora la produzione, la ricchezza, anche infine il tenore di vita dei lavoratori; ma la crescita turbata da periodiche crisi, legate non pi come quelle tradizionali al maltempo e ai fallimenti dei raccolti, ma a disfunzioni interne al mondo degli affari. La nuova ricchezza industriale pure molto concentrata (anche se meno forse della ricchezza fondiaria, ma quella era antica), nelle mani della nuova borghesia. Il liberismo un tempo rivoluzionario si trova scavalcato a sinistra dal socialismo, che convoglia appunto due istanze: quella dell'uguaglianza, e quella della stabilit, e dunque dell'efficienza, economica. Oggi, notiamo, si tende a identificare l'equit con il socialismo ma l'efficienza con il capitalismo; allora il socialismo nascente prospettava rispetto al capitalismo un guadagno insieme di efficienza e di equit. Allo stato liberale, nullafacente (o poliziotto), i socialisti contrappongono dunque uno stato fortemente interventista, redistributore e stabilizzatore. E non solo: pensando che l'instabilit del capitalismo sia dovuta al mercato, anarchico e disordinato, pensano che per superare quella vada superato questo; prospettano dunque uno stato pianificatore e direttamente allocatore. L'economia politica liberale, di regime, che i socialisti chiameranno "borghese" rimane inevitabilmente condizionata da questa sfida da sinistra. Non privilegia, forse perch intuisce tutta la sua debolezza in materia, lo studio dell'evoluzione temporale dell'economia, la crescita, il ciclo. Si concentra piuttosto sui problemi statici che rimarranno da allora quelli centrali della (micro)economia ortodossa: sviluppa cio in chiave pi o meno consciamente antisocialista l'intuizione fisiocratica e smithiana dell'armonia naturale del mercato concorrenziale, che svolge automaticamente in modo ottimale la funzione allocatrice che i socialisti vorrebbero demandare allo stato, e approfondisce ovviamente il problema del valore. Il grande erede "borghese" di Ricardo sar J. S. Mill (3ULQFLSOHV RI 3ROLWLFDO (FRQRP\, 1848, con numerose edizioni nei decenni successivi). Mill mutua da Ricardo e arricchisce l'analisi del commercio estero, sviluppa il costo opportunit, generalizza la "rendita", spiega i prezzi con la domanda e l'offerta; ma del Ricardo della dinamica e dello scontro tra le classi non vi traccia. Mill ritorna insomma alla statica e all'armonia, e il suo popolarissimo testo sar di fatto una ripresentazione perfezionata dell'opera di Smith. 1.e.2. Karl Marx L'altro grande erede di Ricardo, politicamente ed analiticamente speculare a Mill, ovviamente K. Marx ('DV .DSLWDO .ULWLN GHV 3ROLWLVFKHQ 2HNRQRPLH, 1867). Marx vede intorno a se quello che Smith non poteva ancora vedere, e che i propri contemporanei "borghesi" non vogliono vedere: che la dinamica l'essenza stessa del capitalismo. L'equilibrio statico di concorrenza contemplato dall'economia borghese una chimera, ch le grandi imprese sono pi efficienti delle piccole, per cui la stessa concorrenza porta al monopolio. Il capitalismo poi aumenta la produzione e la produttivit: non solo con la specializzazione (Smith) o l'accumulazione di risorse (Ricardo), ma stimolando invenzioni e innovazioni, insomma il progresso tecnico, dal potenziale illimitato. Il capitalismo un sistema per gestire la scarsit, ma secondo Marx la sua vitalit produttiva eliminer la stessa scarsit; dunque scomparir. Marx pone alla base della dinamica capitalista la lotta di classe, ma non quella di Ricardo: Marx considera capitalisti anche i proprietari terrieri, e ad essi contrappone i proletari, ossia i lavoratori obbligati a vendere il proprio lavoro ai capitalisti, e dunque a farsi13

sfruttare, perch sono stati privati dei mezzi di produzione. Il capitalismo definito da questa specifica contrapposizione di classi, con la conseguenza per noi paradossale che Marx non considera capitalisti gli Stati Uniti di allora, dove chi voleva coltivare la terra poteva ottenerla gratis. L'economia capitalista soggetta a crisi periodiche, che sono funzionali in quanto creano disoccupazione, riducono i salari, e dunque rigenerano lo sfruttamento e l'accumulazione; nella crisi finale il proletariato prender il potere e "gli espropriatori saranno espropriati". Marx si presenta dunque come un figlio spurio della tradizione socialista, di cui erede morale (ossia ne accetta i valori di fondo), ma non intellettuale e politico (ossia ne rifiuta l'analisi e il programma). Infatti secondo lui il sistema ottimale (comunista) si potr instaurare solo quando lo sviluppo capitalistico avr risolto il problema economico della scarsit; il programma che ne consegue rivoluzionario ma solo "quando i tempi saranno maturi," per cui nell'immediato non ha contenuti pratici. Da questo punto di vista, si badi bene, il "socialismo scientifico" dei marxisti molto pi utopistico dei "socialismi utopistici" (cos bollati dallo stesso Marx) di cui gli schemi, per quanto spesso fantastici, miravano perlomeno a risolvere il problema attuale e fondamentale dell'organizzazione ottimale in un mondo di risorse limitate. Sempre da questo punto di vista, il 0DQLIHVWR FRPXQLVWD (1848) marxista solo dove inneggia ai trionfi della borghesia (che ha salvato l'umanit dall'imbecillit rurale: ricordiamo Pirenne); le proposte di nazionalizzazioni e via di seguito che ricalcano gli altri socialismi sono invece assolutamente ingiustificate dall'analisi marxista (anche se politicamente necessarie: non si pu fondare un partito con un programma di inazione...). Sul problema del valore, infine, Marx identifica il valore "vero" con il contenuto in lavoro (pi che altro per motivi ideologico-retorici, per dare al lavoro quel monopolio di creazione del valore che i fisiocrati avevano invece dato alla terra). A differenza di Smith non pretende che il valore-lavoro corrisponda al prezzo; anzi, distingue valore e prezzo, e s'infogna nel problema fantastico della "trasformazione" dei valori in prezzi. 1.e.3. i marginalisti borghesi e socialisti Il problema del valore viene invece brillantemente risolto, verso la fine dell'Ottocento, dall'economia borghese con i "marginalisti" (austriaci e inglesi). Si capisce infatti, per riprendere il vecchio paradosso, che il valore di mercato va riferito non all'acqua in generale, ma all'unit in pi o in meno--la cosiddetta XQLWj PDUJLQDOH-nella situazione del momento. L'acqua essenziale alla vita, ma siccome abbonda non affatto essenziale l'unit marginale: darmene ancora, o togliermene un litro, cambia ben poco il mio benessere, e dunque l'acqua vale poco. Se fossimo persi nel deserto con un'unica borraccia, quel litro marginale significherebbe la sopravvivenza, e varrebbe pi di qualsiasi diamante; ma normalmente le posizioni dei margini di consumo sono tali che il diamante marginale vale effettivamente molto, e l'acqua marginale poco o niente. Da allora--e lo vedremo!--le disquisizioni (micro)economiche sono tutte in termini "marginali"; e nel gergo degli economisti le cose marginali sono proprio quelle importanti. Nel mondo anglosassone il marginalismo verr diffuso da A. Marshall (3ULQFLSOHV RI (FRQRPLFV, 1890, con numerose edizioni successive), con per un'enfasi sull'analisi dei singoli mercati ("l'equilibrio parziale") piuttosto che del sistema dei mercati ("l'equilibrio generale") che impoverisce l'analisi (e rimarr a tutt'oggi caratteristica della tradizione angloamericana). L'analisi pi profonda, del sistema dei mercati, viene invece portata avanti dalla scuola austriaca, in aperta polemica con i socialisti. A tutt'oggi non esiste una presentazione migliore della logica del valore, dell'interconnessione degli equilibri dei diversi mercati, e dei14

costi come riflessi della domanda per i prodotti alternativi dei fattori di produzione, di quella contenuta nel volume di E. von Bhm-Bawerk (3RVLWLYH 7KHRULH GHV .DSLWDOHV, 1889). Sempre in chiave antisocialista l'americano J. B. Clark studia le implicazioni dell'analisi marginalista per la distribuzione del reddito. L'equilibrio efficiente del sistema economico esige che la remunerazione dei fattori di produzione sia quella di mercato (che corrisponde appunto al loro "valore marginale"); pertanto, conclude Clark, il capitalista deve ricevere i profitti o interessi di mercato. L'errore palese di Clark sta nel confondere fattori e persone: il capitale che ha diritto ai profitti, e rimane da dimostrare che il capitalista abbia diritto al capitale. La confusione di Clark sembra peraltro perdurare, e di essere alla base delle "controversie dei Cambridge" (fra Cambridge inglese, di sinistra, Cambridge americano, dove si trovano Harvard e M.I.T., di destra) sulla teoria del capitale negli ultimi anni Sessanta. Gli inglesi sembrano infatti essere stati spinti a negare "il capitale" per negare i capitalisti; ma questa negazione non ha bisogno di quella. Di fatto la logica del marginalismo non necessariamente antisocialista, e compare ben presto una piccola lite di marginalisti di sinistra, ben pi lucidi di Clark. Poco dopo il 1900, infatti, E. Barone nota che lo stato socialista allocatore ("il ministro della produzione in uno stato collettivista") deve "semplicemente" riprodurre le condizioni di equilibrio prodotte da un mercato concorrenziale. Cos facendo, scinde capitale (che pu essere pubblico) e capitalisti. Controbatte F. Hayek (austriaco) che ci tutt'altro che semplice: la chiave dell'efficienza del mercato concorrenziale l'efficienza nell'uso delle informazioni. In tale sistema infatti ogni operatore economico deve conoscere solo i propri gusti, se consumatore, o le proprie capacit tecniche, se produttore, e i prezzi di mercato, proprio perch i prezzi generati da un sistema concorrenziale riassumono tutte le informazioni utili relative ai gusti e alle capacit tecniche degli altri operatori. Per riprodurre i risultati del mercato l'allocatore pubblico baroniano dovrebbe conoscere di scienza propria i gusti e le capacit tecniche di tutti gli operatori presenti nell'economia. Il punto che si far lentamente strada che il mercato stesso si pu usare, come sistema di allocazione, in societ ugualitarie o meno, rispondendo cos anche alla critica di Hayek. Questo il contenuto del "socialismo di mercato" (O. Lange, polacco, c. 1930), implicito peraltro anche nella moderna economia del benessere (Bator, dopoguerra). A livello di pubblico, per, il socialismo di mercato rimasto poco capito, e i pi continuano a considerare il mercato come strumento prettamente capitalista. 1.e.4. A. C. Pigou e Vilfredo Pareto A. C. Pigou stato il successore di Marshall a Cambridge. Pigou ricordato pi che altro come reazionario per le sue critiche a Keynes; ma prima ancora di Keynes, Pigou (7KH (FRQRPLFV RI :HOIDUH, 1920) ha riportato l'interventismo nell'economia politica borghese. Pigou infatti teorizza quei "fallimenti dei mercati" (dovuti per esempio all'inquinamento dell'ambiente) che richiedono un intervento pubblico negli stessi mercati, con tasse o sussidi, per modificare gli equilibri altrimenti non ottimali. Ma questo intervento allocatore sarebbe il meno. Pigou modella direttamente l'ottimizzazione sociale, ponendo come obiettivo la massimizzazione del benessere collettivo che identifica, seguendo la tradizione britannica che risale a J. Bentham (contemporaneo di Smith e Hume), con la somma del benessere dei singoli. Presume che il benessere di ogni individuo cresca con il suo reddito, ma con aumenti decrescenti (visto che si soddisfano per primi i bisogni pi urgenti); e considerando semplicemente uguale per tutti la capacit di ottenere benessere dal reddito dimostra che l'ottimizzazione sociale richiede XQD SHUIHWWD SHUHTXD]LRQH GHL UHGGLWL. Lo stato deve dunque essere redistributore; e in base al modello pi15

banale deve seguire i dettami del socialismo pi accanito! V. Pareto non apparteneva alla generazione di Pigou (era contemporaneo piuttosto di Marshall), ma utile considerarli insieme. Dal punto di vista del positivismo allora trionfante, che legava la scienza alla verifica empirica, l'economia politica borghese aveva un punto dolente. I prezzi dei beni venivano infatti spiegati con gli aumenti di benessere legati alle loro unit marginali; ma queste XWLOLWj PDUJLQDOL non erano di fatto osservabili e misurabili. Pareto ebbe il merito scientifico di VHPSOLILFDUH il modello che spiegava l'equilibrio dei mercati: cap infatti che per generare le implicazioni dell'analisi marginalista basta attribuire ai consumatori un RUGLQH GL SUHIHUHQ]H definito sui consumi possibili. Basta insomma sapere se il consumatore, potendo scegliere tra il pachetto A (due mele e una pera) o il pacchetto B (una mela e due pere), sceglie A o sceglie B--cosa direttamente osservabile--o se invece LQGLIIHUHQWH tra A e B (cosa pure osservabile, magari chiedendo o osservando scelte ripetute); non affatto necessario misurare l'utilit. Come vedremo, questo scaturisce di fatto dalle condizioni gi notate dei massimi vincolati, ossia l'equivalenza tra i WDVVL GL VRVWLWX]LRQH. Per l'equilibrio del consumatore questi tassi riguardano la sostituzione di un bene contro l'altro, mantenendo costante da un lato la spesa--per cui il tasso dato dal rapporto dei prezzi, PHOD SHUD, che si semplifica in SHUHPHOD--e dall'altro il benessere, ossia paragonando consumi LQGLIIHUHQWL. Questo secondo tasso di sostituzione il rapporto delle utilit marginali, 8PHOD8SHUD, che si semplifica pure in SHUHPHOD: non c' bisogno di misurare l'utilit perch le unit "utilit" si elidono. A ben vedere l'analisi paretiana dice che per capire l'equilibrio economico "non bisogna misurare l'utilit", nel duplice senso di questa frase ambigua: "non c' bisogno di misurare l'utilit", e dunque, ricordando il rasoio di Occam, "bisogna evitare di misurare l'utilit": il modello con meri ordini di preferenze sufficiente, non bisogna complicarlo inutilmente. Per l'economia politica borghese, per, "bisogna evitare di misurare l'utilit" diventato un principio autonomo: applicato non solo quando effettivamente tale misura non necessaria, ma anche per delegittimare le analisi che postulano tale misura quando di fatto necessaria. Tra queste rientrano appunto le analisi della YDOXWD]LRQH degli equilibri dal punto di vista dell'ottimizzazione sociale, e della desiderabilit della redistribuzione, ovviamente impossibili senza una misura del benessere di ciascuno (a prescindere dal modo con il quale vengono poi combinate per calcolare l'ottimo sociale: la sommatoria di Pigou solo uno dei sistemi possibili). Sull'ottimizzazione sociale esiste una letteratura, che incontreremo; ma periferica, lontana dal nocciolo della disciplina che pur nasceva come "l'oiko-nomia" della "polis". 1.e.5. la microeconomia e l'eredit paretiana L'economia politica borghese si tenuta stretta, come vedremo, il Pigou dell'intervento pubblico allocatore; ma pur di allontanarsi dal Pigou pericoloso redistributore ha sposato Pareto. I concetti fondamentali della attuale microeconomia sono infatti l'efficienza paretiana, gli equilibri paretiani, gli ottimi paretiani, le mosse paretiane, la superiorit paretiana, e cos via. In inglese, poi, si usa il sostantivo in apposizione dove l'italiano usa l'aggettivo, per cui si parla di "Pareto efficiency", "Pareto equilibrium", e cos via: il nome stesso di Pareto fa dunque parte del lessico degli economisti, forse pi di qualsiasi altro (e sicuramente di qualsiasi altro nome italiano: per fortuna, ch in seconda posizione troviamo Ponzi, finanziere truffaldino). Questi concetti "paretiani" sono tutti improntati al rifiuto di misurare con un metro16

comune, e dunque di valutare al netto, guadagni e perdite. Una situazione pertanto 3DUHWR VXSHULRUH (si direbbe in inglese) a un altra se sono diverse, e WXWWH le diversit sono a favore della prima (per esempio, nel caso in cui di due alberghi quello che costa di meno mi piace di pi). Una PRVVD SDUHWLDQD uno spostamento da una situazione ad un altra ad essa "Paretosuperiore" (come quando essendoci scambiati gli impermeabili uscendo da teatro ognuno si riprende il suo). Un RWWLPR SDUHWLDQR qualsiasi situazione di HIILFLHQ]D SDUHWLDQD, ossia non "Pareto-inferiore" a (o "Pareto-dominata" da) qualsiasi altra, ossia dalla quale non esistono mosse paretiane (anche se per mutuare un esempio famoso il pollo lo mangio tutto io, e tu crepi di fame). La rilevanza di questi concetti per l'economia politica ovvia: lo scambio di mercato (senza coazione e senza inganno) ovviamente una mossa paretiana. Se lo scambio continua fintanto che sono possibili mosse paretiane, lo scambio porta necessariamente a equilibri che sono "Pareto-efficienti" e dunque ottimi paretiani; qualsiasi HTXLOLEULR SDUHWLDQR corrispondentemente un equilibrio di mercato (per cui se la situazione iniziale gi un equilibrio paretiano non ci sono scambi possibili). Siccome poi il monopolio riducendo lo scambio lascia spazi a miglioramenti paretiani (anche se non necessariamente per vie volontarie, ma questo lo chiariremo poi), questa analisi riporta naturalmente all'enfasi Smithiana sui benefici della FRQFRUUHQ]D (che lo stato allocatore deve dunque salvaguardare). L'economia borghese accetta pure, come abbiamo gi notato, l'intervento allocatore con tasse o sussidi pigoviani in presenza dei "fallimenti dei mercati" (anche concorrenziali) che sono tali proprio perch portano a equilibri non "Paretoefficienti": peraltro con notevoli strappi alla pura logica dell'analisi proprio perch (come abbiamo visto) ogni intervento reale danneggia qualcuno e dunque non pu essere difeso come mossa paretiana. In tutto ci quello che colpisce l'escamotage retorico che porta l'economia borghese a identificare il bene con l'efficienza paretiana, che come abbiamo visto a proposito di Pigou e di polis (e di polli) una cosa ben diversa dall'efficienza e basta. L'economista borghese si presenta dunque alla societ come si presenterebbe a un'azienda un ingegnere monomaniacale, che incaricato di migliorarne l'efficienza identifica questa con (poniamo) l'efficienza termica: spende un patrimonio per acquistare macchine che minimizzano l'uso del carburante, tralasciando ogni altra considerazione, e l'azienda va in rovina. Il motivo presumibile di tutto ci, lo ripetiamo, che all'interno della matrice culturale anglosassone i problemi di allocazione sono problemi comodi, mentre quelli di redistribuzione sono problemi scomodi. Poco importa peraltro se il lettore non condivide questa ipotesi: l'essenziale che si sia comunque convinto che le scienze sociali vanno avvicinate con forte scetticismo e senso critico. 1.e.6. la grande crisi e J. Maynard Keynes La grande crisi che si apre nel 1929 e porta la disoccupazione nei paesi industrializzati fino al 25% della forza lavoro scuote finalmente la fede degli economisti borghesi nella capacit di autoregolamentazione del sistema capitalistico liberista. J. M. Keynes (7KH *HQHUDO 7KHRU\ RI (PSOR\PHQW ,QWHUHVW DQG 0RQH\, 1936), erede della tradizione liberista della Cambridge inglese, teorizza la possibilit di un equilibrio di sottoccupazione, che va rotto dall'azione statale. Il contributo di Keynes si pu riassumere molto schematicamente in tre punti. Primo, il reddito aggregato variabile, in quanto proporziona il risparmio agli investimenti; lo stato dunque utilmente stabilizzatore. Secondo, il desiderio di aumentare le disponibilit di potere d'acquisto liquido, che alla base dell'eccesso di risparmio, si pu soddisfare meno penosamente aumentando lo stock di moneta a prezzi costanti che non abbassando i prezzi a17

stock di moneta costante (perch i prezzi calano solo lentamente, e con una disoccupazione abbastanza forte da far calare i salari e dunque i costi); lo stato usa dunque utilmente la politica monetaria (ossia controlla lo stock di moneta) a fini anticiclici. Terzo, la domanda di liquidit pu diventare infinita (a tassi di interesse minimi), in qual caso per raggiungere il pieno impiego lo stato deve intervenire direttamente sulla domanda di beni e servizi; lo stato usa dunque utilmente la politica fiscale (ossia controlla le entrate e le spese pubbliche) a fini anticiclici. Nasce cos la macroeconomia, che considera all'interno dell'economia borghese l'intervento dello stato stabilizzatore. La politica economica anticiclica rischia peraltro di assorbire l'intera politica economica; porta con se pi o meno casualmente un interesse alla redistribuzione, essendo i keynesiani generalmente interventisti e di sinistra moderata (perlomeno negli Stati Uniti), ma toglie attenzione dalla politica di allocazione microeconomica forse pi importante per la crescita di lungo periodo. Lo stato stabilizzatore poi contemporaneamente redistributore, nella misura in cui nulla indebolisce la posizione contrattuale dei lavoratori pi della disoccupazione diffusa. M. Kalecki, polacco contemporaneo di Keynes, ripropone infatti la tesi marxista che le crisi periodiche sono necessarie al capitalismo, in quanto rimettono i lavoratori al posto loro, e ne deduce che lo stato capitalista non pu essere stabilizzatore. A rigor di logica, per, questa conclusione sembra troppo ampia, e sarebbe forse pi corretto sostenere solo che lo stato capitalista non pu tenere sempre bassa la disoccupazione. In tempi pi recenti, infatti, il nesso tra stabilizzazione e redistribuzione si manifestato su un fronte leggermente spostato: premesso che sono tutti d'accordo nell'eliminare il ciclo e stabilizzare il tasso di disoccupazione, destra e sinistra hanno litigato sul tasso di disoccupazione da mantenere (anche a colpi di retorica: la destra riuscita a far chiamare "naturale" una disoccupazione vicina al 10%, che un tempo sarebbe stata vista come un'abominazione). Negli ultimi anni, negli Stati Uniti, la crescita economica ha riportato la disoccupazione a livelli bassissimi, e la controversia si sopita; rimane il problema di capire per quali motivi l'Europa non riesce a crescere, e a generare l'occupazione, quanto gli Stati Uniti... 1.e.7. la reazione a Keynes Col secondo punto di cui sopra Keynes riconosce la tendenza autoequilibratrice del sistema economico, anche se solo in un lungo periodo nel quale "siamo tutti morti". Col terzo punto, invece, Keynes disconosce tale tendenza, colpendo al cuore la costruzione Smithiana alla base della scienza economica borghese. I difensori della visione Smithiana, capeggiati dal Pigou, attaccano dunque il terzo punto: col calare dei prezzi e l'aumentare del potere d'acquisto della massa di moneta, nota Pigou, aumenta la ricchezza e dunque la spesa per consumi, riportando l'economia al pieno impiego anche se non aumentano gli investimenti. Questo argomento ha valore filosofico ma non pratico, in quanto non tocca il secondo punto, che giustifica l'intervento monetario come sostituto preferibile alla lenta correzione automatica del sistema. Poco nota ma meritevole di attenzione invece la reazione di H. C. Simons (Chicago), che presenta "A positive program for laisser faire." Per Simons, l'aggiustamento automatico attraverso riduzioni dei prezzi difficile in presenza di potere di mercato, e doloroso in presenza di debiti (il cui peso reale aumenta, facendo fallire anche imprese sane, quando calano i prezzi in modo inatteso). Per permettere il mantenimento indolore del pieno impiego senza un intervento (discrezionale) dello stato, Simons propone pertanto un'organizzazione economica in cui lo stato mantiene rigorosamente la concorrenza (gestendo18

in proprio qualsiasi monopolio naturale), e proibisce il debito privato, permettendo alle imprese di finanziarsi solo con lemissione di azioni... 1.e.8. gli esperimenti socialcomunisti Sulla scia delle grandi guerre vanno al potere i marxisti in Russia (Lenin) dal 1917, in Jugoslavia dal 1945 (Tito), nel resto dellEuropa orientale fra il 1945 e il 1948, in Cina (Mao Tse Tung) dal 1949. In Russia, come in Francia dopo il 1789, le potenze estere intervengono per ristabilire "l'ancien rgime", ma senza successo: non un caso che le rivoluzioni avvengono solo nelle grandi potenze (e poi con la protezione di queste: vedi Vietnam e Cuba). Si segnalano diversi modelli. In Russia, dopo vari tentennamenti, si instaura un regime di capitalismo di stato. Lo stato proprietario dei mezzi di produzione; la produzione (sulla scia dell'analisi di Marx, che vede il capitalismo come tendente al monopolio delle imprese giganti) viene affidata a imprese enormi, anche in agricoltura, e pianificata attraverso indicatori quantitativi (a discapito della qualit). Il sistema rivela una capacit di innovazione molto scarsa; si pu capire come un'economia di guerra (vedi l'esperienza degli Stati Uniti nel 1941-45, molto simile). L'interfaccia tra produzione e famiglie rimane affidata al mercato. Le persone scelgono gli studi e le carriere in base alla remunerazione attesa; i beni vengono venduti in negozi (molto mal forniti, con beni scadenti e code a non finire: ci rivela sia una scarsa capacit di recepire le esigenze dei consumatori, sia una forte inflazione soppressa). In sostanza, dunque, i sovietici sopprimono solo i mercati all'interno del settore produttivo, che sono peraltro proprio quelli che (per via della specializzazione delle imprese) funzionano meglio degli altri. Come in Italia, peraltro, le classi dirigenti si mettono al riparo dai disagi del pubblico attraverso canali privilegiati. In Jugoslavia, si attua un modello cooperativo: ogni impresa con pi di cinque dipendenti deve essere di propriet dei lavoratori, che si dividono pertanto il valore aggiunto (reddito da lavoro pi reddito da capitale), al netto degli interessi sul finanziamento bancario. A livello teorico, rimangono vivi i risultati di efficienza del mercato, identici a quelli del modello del capitalismo concorrenziale (anche se con una distribuzione della propriet e del reddito ovviamente diversi). In Cina e poi in Cuba si sperimenta invece un modello pi avanzato, in cui si rifiutano gli incentivi materiali, e si cerca di far lavorare tutti per amore del prossimo. Ne consegue una fortissima pressione ideologica, e una notevole coercizione pratica da parte dell'apparato locale.

1.f. l'economia politica borghese nel secondo dopoguerra 1.f.1. l'apogeo dell'interventismo Nei primi decenni del secondo dopoguerra l'economia politica borghese diventa fortemente interventista: accompagna di fatto l'opinione pubblica che in America sostiene, da Roosevelt a Johnson, uno stato attivamente impegnato nel risolvere i problemi sociali, insomma, in quel contesto, "di sinistra". Sul fronte analitico la teoria dell'equilibrio generale e la cosiddetta "economia del benessere" scaturita dall'analisi pigoviana dell'ottimizzazione sociale stabiliscono i limiti della mano invisibile di Smith. Da un lato, si nota che vi un numero infinito di possibili allocazioni efficienti delle risorse, correlate con diverse possibili allocazioni della ricchezza, cosicch il mercato pu al massimo ottimizzare l'allocazione delle risorse per una data distribuzione della ricchezza (riconoscendo cos almeno implicitamente che l'efficienza non19

ha bisogno di disuguaglianza); dall'altro, si nota che il decentramento al mercato sufficiente solo in condizioni abbastanza restrittive, fuori delle quali rimane spazio per un intervento correttivo. La microeconomia appoggia cos gli interventi allocativi e redistributivi. La macroeconomia appoggia a sua volta gli interventi di stabilizzazione. Negli anni '50 e '60 lo schema Keynesiano diventa la nuova ortodossia, e negli Stati Uniti le controversie fra gli economisti sono solo sull'identit della politica stabilizzatrice pi efficace (la destra monetarista, la sinistra fiscalista). La manovra fiscale di Kennedy, di matrice keynesiana e tesa a ridar vigore all'economia, riesce pienamente; gli economisti parlano allora di aggiustamenti di perfezionamento ("fine tuning"). Nel contempo, si teorizza la convergenza dei sistemi (di mercato, pianificati) verso un unico modello, ottimale, di economia di mercato guidata da uno stato fortemente interventista. In Francia, in particolare, si sviluppa la "pianificazione indicativa": non obbligatoria come quella sovietica, ma solo di previsione autorealizzante. Notiamo peraltro che questo tipo di pianificazione pu funzionare solo in un regime non concorrenziale, in cui gli obiettivi aggregati si traducono in obiettivi privati tramite la costanza delle quote di mercato... Si diffonde infine la WHRULD GHL JLRFKL, che con l'esempio clamoroso del GLOHPPD GHO SULJLRQLHUR dimostra che le scelte individuali possono portare a equilibri socialmente dannosi, e nega pertanto quell'armonia naturale intuita dai fisiocrati e da Smith e da allora al cuore dell'economia anti-interventista. 1.f.2. gli inizi della controffensiva liberista Allo stesso tempo, e se si vuole allora controcorrente, si sviluppano le basi della GHUHJRODPHQWD]LRQH, applicata per prima ai tassi di cambio e ai trasporti. Con riferimento ai trasporti ferroviari, in particolare, si sviluppa la teoria della regolamentazione frustrata dalla tendenza alla simbiosi fra burocrati e industria. Si sviluppano in parte su queste basi da un lato la WHRULD GHOODJHQ]LD, che nota come l'interesse del mandatario non coincida con quello del mandante, e dall'altro la WHRULD GHOOD]LRQH FROOHWWLYD, in cui si nota che lo stesso stato tender a servire interessi particolari piuttosto che interesi generali. A complemento di queste la destra americana sviluppa la teoria della ricerca delle rendite ("rent-seeking"): dove lo stato interviene (e anche lo stato allocatore inevitabilmente redistributore, ch ogni modifica dei prezzi comporta benefici per una parte e danni per l'altra) i privati investiranno risorse per ottenere favori dallo stato, con un dispendio netto che comporta un danno complessivo. Ne consegue un nuovo scetticismo nei confronti dell'azione pubblica, e la consapevolezza che le imperfezioni del mercato non bastano da sole a giustificare l'intervento dello stato anch'esso non scevro da costi e carenze; questo tipo di analisi noto adesso come la teoria "positiva" dell'intervento pubblico (ossia la teoria di come funziona veramente). Si riduce cos lo spazio per l'intervento dello stato allocatore, almeno in senso statico. In senso dinamico, anche la pianificazione passa di moda, in quanto lo stato alla fine non dotato di strumenti di previsione migliori di quelle dei singoli: le scommesse tecnologiche si rivelano spesso perdenti (almeno in Occidente...). 1.f.3. la crisi della macroeconomia La fiducia nelle capacit di previsione e di controllo, quasi intera al seguito dell'intervento trionfale dell'amministrazione Kennedy-Johnson, dura ben poco: gi nei primi anni '70 la manovra antinflazionistica di Nixon non riesce affatto, e, subito dopo, la crisi energetica porta ad un aumento contemporaneo dell'inflazione e della disoccupazione che contraddice i modelli canonici. I sistemi di controllo macroeconomico sviluppati nel corso20

degli anni vengono poi scossi dalla deregolamentazione dei tassi di cambio e soprattutto dei flussi di capitale. In parte per motivi tecnici che rendono vane certe politiche di controllo ove i capitali siano altamente mobili, in parte per un riflusso filosofico che rid forza alla fede preKeynesiana nell'ottimalit automatica del mercato, si diffonde un senso della scarsa efficacia del controllo macroeconomico. Oggigiorno, si ha poca fede nella governabilit delle economie (e non solo di mercato!); i temi pi sentiti riguardano forse l'assetto istituzionale che favorisce la crescita. 1.f.4. la teoria dell'informazione Vari sviluppi specifici nella teoria economica (fra cui la teoria dell'agenzia e la teoria dell'azione collettiva) sono stati riuniti e sistematizzati nella nuova teoria dei problemi di informazione. A livello macroeconomico si richiede che l'equilibrio sia anche un'equilibrio informativo, ossia in cui non vi siano errori sistematici e dunque prevedibili (teoria delle aspettative razionali). A livello microeconomico si abbandona invece l'ipotesi (dell'analisi neoclassica marginalista) che gli operatori economici abbiano informazioni perfette per studiare le conseguenza delle informazioni non solo limitate ma "asimmetriche" (ossia una parte contraente sa cose che l'altra non sa). Da questa premessa scaturisce l'analisi dei FRVWL GL WUDQVD]LRQH, ossia i costi che si incorrono nel negoziare i contratti e nel verificarne l'esecuzione; questi costi variano ovviamente a seconda del bene da trasferire (omogeneo/eterogeneo, semplice/complesso), e degli incentivi creati dalla struttura stesso del contratto. Si nota che le transazioni possono spesso avvenire con strutture contrattuali diverse, e che verranno usate le forme meno costose. Ad esempio, si pu lavorare la terra con salariati, o affittarla a chi la coltiva; i costi di negoziato sono minori per la prima forma (non c' bisogno di un inventario), quelli di verifica minori per la seconda (non c' bisogno di controllare l'esecuzione del lavoro, in quanto l'affittuario, a differenza del salariato, incentivato a lavorare dallo stesso contratto di affitto, che lascia a lui tutto il prodotto ottenuto con uno sforzo aggiuntivo); essendo poi i costi di negoziato costi iniziali, e i costi di verifica costi correnti, chiaro che si affitter il lavoro per periodi brevi e la terra per periodi lunghi. Questa analisi stata portata avanti (come quella simile della teoria positiva dell'azione pubblica) da economisti prevalentemente di destra, che ne hanno ricavato il messaggio che lo stato deve lasciar correre non solo in materia di prezzi, ma anche in materia di istituzioni. L'idea che vi concorrenza tra le istituzioni (forme contrattuali, mercati) come tra le imprese, e che tale concorrenza por