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F.Bergamo, "Percezione ibridata e innocenza perduta", in Idee per la rappresentazione 2, Atti del seminario di studi "Ibridazioni", Università IUAV di Venezia, 19.09.2008, pp. 318330, Artegrafica, Roma 2009.

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F.Bergamo,  "Percezione  ibridata  e  innocenza  perduta",  in  Idee  per  la  rappresentazione  2,  Atti  del  seminario  di  studi  "Ibridazioni",  Università  IUAV  di  Venezia,  19.09.2008,  pp.  318-­‐330,  Artegrafica,  Roma  2009.

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Percezione ibridata e innocenza perduta La questione non è cosa guardi, ma cosa vedi. (H.D.Thoreau) La nostra sessualità [...] appartiene ad uno stadio evolutivo diverso rispetto alla nostra condizione mentale. (B.Schulz)

Mark Tansey, The Innocent Eye Test, 1981, olio su tela Se le nostre facoltà intellettive dipendono dalla capacità di elaborare e utilizzare modelli mentali, non siamo mai stati avvantaggiati come oggi dalla sconfinata disponibilità di modelli preconfezionati, ma anche tanto esposti ad una percezione artificiale della realtà. Da un lato possiamo attingere a conoscenze fino a poco fa inaccessibili e visualizzarle dinamicamente sullo schermo di un computer, dall’altro la nostra percezione è esposta continuamente alle manipolazioni messe in atto attraverso il sistema onnipresente dei media: mentre le neuroscienze misurano e individuano il funzionamento del cervello umano, i sistemi di potere agiscono su di esso subliminalmente e subdolamente. Nicholas Negroponte più di dieci anni fa sosteneva che il medium non è più il messaggio nell’era digitale1, indicando la portata rivoluzionaria di un’innovazione tecnologica che costringe persino a ridefinire le considerazioni di Marshall McLuhan, scaturite profeticamente nel momento cruciale dell’era elettronica e mediatica; e, del resto, l’ingerenza sociologica della massificazione dell’informazione era già stata acutamente riferita da Henry Flynt2 quando nel 1979, invitato a Stoccolma, utilizzò il termine ‘meta-technology’ riferendosi all’attivazione, da parte della tecnologia applicata, di trasformazioni relative al consenso delle determinazioni della realtà. Casi estremi di allucinazioni (talora dovute a droghe o a traumi cerebrali) e immersioni in realtà virtuali possono aiutarci a comprendere come la percezione fenomenologica della realtà sia costitutivamente ibridata con sovrastrutture percettive sempre più informate dalla pervasività delle tecnologie digitali, che vengono spesso mercificate con lo scopo di creare assuefazione. Quella che alcuni hanno definito Virtual Art ci fornisce strumenti preziosi per comprendere lo stato attuale della ricerca scientifica, e soprattutto per tentare nuovi approcci fenomenologici, psicologici, ecologici, filosofici, religiosi, sociologici e perfino

1 N.Negroponte, Being Digital, Alfred Knopf, New York 1995, p.71 2 Il contributo di Henry Flynt – tra le altre cose filosofo, sociologo, artista e musicista – meriterebbe di essere studiato con più attenzione, se non altro per essere sempre stato avanguardista (fu il primo a parlare di ‘arte concettuale’, ad esempio) e per la multidisciplinarità congenita nel suo approccio.

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geometrici all’antichissimo problema della percezione, ovvero delle complesse relazioni intercorrenti tra il mondo fenomenico, il nostro corpo, e la nostra mente che ne sintetizza i dati sensoriali.

John Carpenter, fotogramma da They Live, 1988 Secondo Anne Friedberg3, il termine virtual appare per la prima volta in lingua inglese nel Treatise on Optics (1831) di Sir David Brewster, a proposito delle proprietà rifrattive delle lenti e riflessive degli specchi: si riferisce dunque all’immagine (virtuale) che ci viene restituita guardando attraverso un sistema di lenti, o riflessa in uno specchio. Secondo questa accezione, potremmo azzardare che chiunque indossi un paio di occhiali – ma non necessariamente, dato che anche parte della struttura fisiologica atta alla visione umana è una macchina ottica – o si guardi allo specchio riceverà del mondo fenomenico un’immagine virtuale, rimandando all’annoso problema di come ‘funzioni’ effettivamente la percezione, e se essa sia attiva o passiva, statica o dinamica. Il termine deriva del resto dal latino virtute, ed è stato tradizionalmente impiegato per indicare ciò che esiste in potenza ma non è ancora (o non può essere) in atto; pure l’accezione bergsoniana (che suggerirà molte riflessioni proprio a Deleuze, secondo il quale il virtuale è di per sé reale4), afferente alla distinzione ontologica tra possibile e attuale, è carica di implicazioni fenomenologiche. Per meglio sviluppare e comprendere una riflessione sulla realtà virtuale ai tempi dell’era digitale, vale forse la pena di indicare prima, in estrema sintesi, alcune delle tecniche di rappresentazione sviluppate dall’uomo che hanno apportato modifiche sostanziali alla percezione ‘virtuale’ della realtà o delle idee5. Dapprima possiamo citare quella di cui si è occupato in modo fondamentale Wittgenstein: la trasmissione orale ed in seguito scritta di idee e memorie, soggetta a modificazioni, interpretazioni e traduzioni. Il linguaggio verbale serve a creare e comunicare le fattezze di realtà attuali o virtuali attraverso l’uso di codici tendenzialmente condivisi6; probabilmente, è a questo che hanno pensato Christa Sommerer e Laurent Mingonneau quando, nel realizzare Life Writer (2006), hanno ideato una macchina da scrivere vecchio stile dalla quale potesse uscire un foglio di carta su cui a ciascun carattere corrispondesse la sua proiezione luminosa, il tutto essendo letteralmente ravvivato da forme di ‘vita’ virtuali (organismi 3D generati mediante algoritmi genetici7 e proiettati contemporaneamente sullo stesso foglio), con lo scopo di creare vita attraverso l’atto della scrittura. Già nel 1989 Jeffrey Shaw, in Alphabet City, aveva messo in relazione il corpo e la percezione visiva con una città virtuale (generata al computer) composta però di lettere formanti i fronti stradali, che

3 A.Friedberg, The Virtual Window: From Alberti to Microsoft, The MIT Press, Cambridge and London, 2006 4 Sarebbe impossibile tracciare in questa sede una cronologia, per quanto sintetica, delle accezioni e delle posizioni filosofiche sul concetto di virtuale. 5 Come in parte anticipato nella nota precedente, un approccio filosofico o religioso intenso in senso stretto è qui impossibile, ma ciò non toglie che possa essere utile lasciar correre la memoria al mito della caverna platonico, piuttosto che alle esperienze degli sciamani siberiani o alle posizioni teologiche rinascimentali. 6 Il linguaggio è stato certamente preceduto da forme di fonomimismo orale, sviluppatesi poi in modo dialogico. Sono ancora troppo pochi gli studi compiuti in materia, e molto si deve al contributo del gesuita, antroplogo e pedagogo francese Marcel Jousse. 7 La coppia di artisti è notoriamente stata pioniera della cosiddetta ‘arte genetica’, con opere quali Interactive Plant Growing (1992) e A-Volve (1984).

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diventavano ‘leggibili’ e dunque erano allo stesso tempo concetti astratti e luoghi (sebbene virtuali); la bicicletta con cui ci potevamo spostare era stazionaria ma reale, il che complicava ulteriormente l’ambiguità tra virtuale e reale, e tra astrazione e fisicità. Al contrario di ciò che avviene nel linguaggio scritto ed orale, già nelle primissime forme di rappresentazione figurativa, come nei dipinti rupestri, si attiva un riconoscimento immediato, una prima forma di identificazione non mediata dalle funzioni cerebrali adibite al linguaggio, tanto che è ancora aperto il dibattito su quale sia stata l’intenzione principale dei disegnatori di Lascaux. Con l’avanzare dei secoli, il disegno, la pittura e la scultura diventano mestieri e quindi arti, portando avanti una ricerca finalizzata anche al realismo e all’immersività, la cui svolta si riscontra ovviamente nell’invenzione della prospettiva, dove la scienza della visione viene integrata alla rappresentazione, fornendo gli strumenti per creare spazi visivi virtuali su superfici per lo più bidimensionali (trompe l'œil, scatole prospettiche, anamorfosi e accelerazioni prospettiche, come in Santa Maria presso San Satiro a Milano, sono soltanto alcuni degli esempi più eclatanti8): la rappresentazione si conforma alla visione umana per ‘mettere l’uomo al centro’, favorendo la riuscita dell’illusione, e di questo tengono contro anche gli inventori di tutti quei dispositivi che sono antenati dei media9. L’installazione Memory Theater VR (1997) di Agnes Hegedues racchiude in una realtà virtuale immersiva la storia di molti suoi antecedenti, specialmente gabinetti delle curiosità e teatri della memoria, con la differenza che qui l’ambiente si può trasformare ed è immateriale. Nell’Ottocento, la fotografia consente di ottenere immagini realistiche e apparentemente oggettive della realtà, mentre la sorpresa più grande arriva con il cinema: i vari strumenti inventati in precedenza per simulare il movimento delle immagini erano già di per sé stupefacenti, ma l’arrivo di un treno nella stazione di La Ciotat (1896) dei fratelli Lumière è talmente convincente da spaventare gli spettatori, che fuggono o si rifugiano sotto le sedie. La luce sullo schermo genera l’illusione di una realtà virtuale estremamente realistica, lo schermo diventa una finestra aperta su un mondo credibile, gli spettatori sono troppo immersi nel film per riuscire a scinderlo dal contesto in cui esso viene proiettato10. Durante tutto il Novecento si sono susseguiti innumerevoli tentativi di implementare l’immersività dello spettacolo, e tra i più noti ricordiamo soltanto il Cinemascope, il poco diffuso Cinerama, gli occhialini con lenti bicrome, l’odorama, il Sensorama Simulator11, fino ad arrivare ai cinema IMAX e quindi a tecnologie digitali e di Realtà Virtuale (VR)12. Talvolta queste tecnologie si sono servite di elementi protesici – dal più semplice stereoscopio ai caschi (HMD, Head Mounted Display) dotati di sensori di movimento per la realtà virtuale immersiva (VRI) –, argomento che ha fornito spunti alla robotica, alle neuroscienze ma anche ad alcuni artisti (come Stelarc, in tempi relativamente recenti) per esplorare nuove modalità di relazione ecologica tra corpo e contesto13. Se il virtuale è sempre stato indagato dalla scienza, dalle arti e dal pensiero umanistico, perché l’argomento è stato particolarmente dibattuto solo negli ultimi decenni? In che cosa il virtuale dell’era contemporanea è diverso da quelli che l’hanno preceduto? In primo luogo, come era già evidente alla metà del solo scorso, i media hanno iniziato a trasportare informazioni in modo sempre più capillare e a velocità sempre più elevate. La percezione della Luna da parte della maggioranza degli esseri umani è cambiata radicalmente dopo le immagini trasmesse in mondovisione il 20 luglio 1969, e sempre di più conosciamo – soprattutto visivamente – situazioni a noi altrimenti inaccessibili attraverso dati codificati altrove, quindi trasmessi, ed infine decodificati a casa nostra. A proposito del viaggio della sonda Voyager 2 su Nettuno, Van De Bogart ha detto “ora ho un Nettuno digitale nel mio cervello. La questione è se, come risultato, percepirò in modo differente il sistema solare”14. Sebbene quelle immagini siano convertite in una codice binario, confidiamo e crediamo nel fatto che mostrino il reale. Sull’ambiguità della telepresenza riflette da tempo l’artista Paul Sermon, che in Telematic Dreaming (1992), ad esempio, consente a due persone che stanno in luoghi diversi del pianeta di ‘dormire’ l’una accanto all’immagine dell’altra, utilizzando due letti e proiettando su ciascuno dei due un video in real

8 Cfr. A.De Rosa e G.D’Acunto, La vertigine dello sguardo. Tre studi sulla rappresentazione anamorfica, Cafoscarina, Venezia 2002. 9 Cfr. S.Zielinski, Deep Time of the Media: Toward an Archaeology of Hearing and Seeing by Technical Means, The MIT Press, Cambridge and London, 2006, e G.Bruno, Atlas of Emotion: Journeys in Art, Architecture and Film, Verso, London and New York 2002 10 Cfr. anche le considerazioni di Giuliana Bruno sull’evoluzione delle sale cinematografiche in Atlas of Emotion, cit. 11 Una macchina brevettata da Morton Heilig nel 1962, installata in pochi parchi dei divertimenti californiani, che stimolava tutti e 5 i sensi nel guidare il fruitore attraverso uno spettacolo ovviamente non ancora interattivo. 12 Cfr. O.Grau, Virtual Art: from illusion to immersion, MIT Press, Cambridge and London, 2003, Cap. 4. 13 Del resto contribuiscono ad ibridare la nostra percezione dello spazio e del tempo anche oggetti d’uso quotidiano come utensili di qualsiasi tipo, automobili, indumenti e così via. 14 Cfr. W.Van De Bogart, Cognition, Perception and the Computer, in Leonardo, Vol. 23, No.2/3, pp.307-313, The MIT Press, Cambridge and London, 1990

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time dell’altro, ripreso dall’alto: sebbene non possiamo avere la prova tangibile dell’esistenza fisica di chi sta dall’altra parte, l’esperienza è così intensa che ci sembra di poterlo letteralmente toccare. Una seconda questione è proprio quella della credibilità: ci possiamo fidare di quello che vediamo? Se già la veridicità della sequenza d’allunaggio trasmessa dalle televisioni è stata più volte messa sotto accusa, le tecnologie digitali offrono oggi possibilità di manipolazione (e, dunque, di falsificazione) sempre più raffinate. Un video o una fotografia non sono più in grado di dimostrare la presenza di un oggetto in un luogo, perché potrebbero essere stati manipolati da mani esperte, o addirittura costruiti virtualmente. Un'altra fondamentale differenza con le forme di rappresentazione precedenti è infatti la disponibilità di strumenti sofisticati per la scansione e la modellazione di ambienti virtualmente tridimensionali, all’interno dei quali ci possiamo dunque muovere e con i quali possiamo perfino interagire. In una sequenza di Blade Runner, una fotografia viene inserita in uno strumento che restituisce un modello tridimensionale virtuale esplorabile della stanza in cui è stata scattata, fornendo quindi anche informazioni impossibili, e consentendo al protagonista di identificare un replicante15. Non possiamo escludere che in futuro siano commercializzate macchine fotografiche tascabili 3D, funzionanti come un sistema integrato di piccoli scanner laser: le informazioni che si otterrebbero, come quelle oggi registrate dai moderni laser scanner e quindi processate partendo da nuvole di punti, sarebbero evidentemente manipolabili quanto lo sono le fotografie digitali. Rispetto a quanto accadeva fino a una ventina d’anni fa, in questi ambienti virtuali ‘credibili’ possiamo oggi virtualmente muoverci, guardarci attorno e trascorrere del tempo. Possiamo modificare il punto di vista, il tipo di proiezione (non necessariamente prospettica), esercitare visioni simultanee, cosa prima tentata soltanto utilizzando immagini multiple o split screen, salvo un rifiuto programmatico dell’intenzione immersiva, se non addirittura ‘retinica’, come nella maggior parte delle avanguardie storiche16. La geometria viene in aiuto tanto ai programmatori quanto agli utilizzatori dei software di modellazione digitale: il mondo contiene strutture che siamo in grado di riconoscere e rappresentare principalmente mediante essa. In un progetto attivato nel 2006 alla University of Southern California e chiamato appropriatamente Viewfinder, or “How to Seamlessy ‘Flickerize’ ‘Google Earth’”, Michael Naimark17 sta sviluppando un software che dovrebbe consentire anche ad un bambino di 10 anni di poter ricollocare in pochi secondi una fotografia, scattata pressoché in qualsiasi città, all’interno di una più ampia vista 3D di Google Earth dello stesso scorcio e con l’identico sistema di riferimento prospettico: è un sistema per ricollocare memorie di vita reale all’interno di un conosciutissimo omologo virtuale del nostro pianeta, così che possiamo esplorare agevolmente (ma virtualmente) anche i dintorni del luogo in cui siamo stati. Nell’ambiente virtuale immersivo e interattivo Osmose, Charlotte Davies fa viaggiare il fruitore attraverso paesaggi estremamente colorati, luminosi ed eterei, esplorati tuttavia in conformità alle regole della prospettiva; a sottolineare il fatto che stiamo abbandonando il mondo antropizzato che conosciamo per ritornare ad una forma di spiritualità ‘naturale’, per quanto sintetica, prima di iniziare a fluttuare in questo meraviglioso e sconfinato oceano siamo infatti costretti ad uscire da una griglia ortogonale che è un esplicito riferimento al sistema cartesiano18. Stupisce, ma è in fin dei conti perfettamente coerente, il fatto che in questo ambiente liquido, minerale e vegetale, vediamo talora scorrere delle righe di testo apparentemente incomprensibili, che sono in realtà il codice del programma. Tamás Waliczky è meno interessato all’immersività dei suoi lavori, ma ha inventato una nuova sorta di ‘sistema prospettico’ chiamato Water-Drop perspective system, in cui l’orizzonte è curvato ellitticamente e i punti di vista del protagonista, come la bambina in The Garden (1992), e quelli nello spazio attorno a lei, sono potenzialmente infiniti, così che quel mondo si sviluppa soltanto tra la protagonista e l’osservatore, posizionando quest’ultimo totalmente al di fuori dell’ambiente della prima. La bambina vive dunque in un piccolo ‘ambiente’ sferico in cui ogni oggetto diviene visibile, si deforma ed assume grandezze dipendenti dall’attenzione rivoltagli da lei stessa, e dalla sua distanza: la bambina mantiene ai nostri occhi la stessa dimensione, mentre il suo mondo si deforma per relazionarsi a lei secondo questo sistema a goccia. Una ‘prospettiva impossibile’ è anche quella sulla strada che troviamo nella videoinstallazione interattiva Focus (1998), dove agiamo virtualmente su diaframma e messa a fuoco di 99 layers (ospitanti fotografie di case e persone) per ispezionare e scoprire i contenuti dell’immagine, quasi a voler esplicitare la teoria deleuziana dell’immagine contenente un referente per un’altra immagine, e così all’infinito, e forse soprattutto a darci la possibilità di ispezionare un istante di una realtà (comunque fittizia) frammentandolo nel tempo e nello

15 È ovviamente possibile ricostruire più o meno accuratamente ambienti virtuali utilizzando una serie di fotografie dei loro omologhi reali, o più semplicemente fornire la sensazione di muoversi in essi opportunamente montando le fotografie in semplici softwares come Microsoft Photosynth. 16 Si pensi, ad esempio, al futurismo e al cubismo. 17 già autore di seminali installazioni interattive di realtà virtuale immersiva, finalizzate molto spesso all’esplorazione di ricostruzioni stereoscopiche filmate di luoghi difficilmente accessibili sulla superficie terrestre, come avviene in Be Now Here (1995). 18 Per una descrizione di Osmose, cfr. ad es. O.Grau, Virtual Art: from illusion to immersion, The MIT Press, cit., pp.193-211

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spazio, come mai potremmo fare con il nostro sistema visivo, per poterne scoprire il complesso sistema di relazioni sotteso, sebbene con gli strumenti di un videogame. Del resto già in The Forest (con Shaw ed Enger, 1993) la semplice sovrapposizione ed il phasing, lungo i tre assi cartesiani, di multipli della medesima immagine di un albero, venivano percepiti come una perdita di qualsiasi riferimento prospettico. Anne Friedberg sottolinea che non abbiamo generalmente a che fare con simulacri, poiché il simulacro non ha un referente nella realtà, mentre il termine ‘virtuale’ è strettamente connesso al registro semantico della rappresentazione19. Ciò non toglie, tuttavia, che la stessa rappresentazione possa essere tanto mimetica quanto simulacrale, come del resto è sempre stata. Se per Baudrillard il ‘simulacro’ è legato al ruolo dell’immagine nel sistema capitalistico contemporaneo, è stata soprattutto la letteratura fantascientifica ad indagare scenari di estrema ambiguità percettiva per l’essere umano20. La realtà virtuale può essere conformata come una realtà alternativa, una meta-realtà, cui ci si può persino assuefare, vivendo in essa una vita alternativa (una second life, ad esempio), costringendo a confrontarsi con un’ecologia del tutto inedita ed artificiale ma che può essere venduta come rassicurante, stimolante e gradevole. Si è attratti da realtà virtuali fabbricate da qualche azienda poiché basta investire un po’ di tempo nell’esplorarle per iniziare anche a controllare la propria interazione con esse, la propria ‘vita virtuale’ in esse: se ci è impossibile esercitare un controllo soddisfacente sulla nostra vita reale, continuamente esposta ad un’infinità di fattori imprevedibili e di potenziali delusioni del desiderio, lo possiamo fare in una vita virtuale oramai talmente immersiva da poter anestetizzare, o re-estetizzare artificialmente, la nostra percezione. L’esperienza immersiva in una realtà virtuale si può collocare da qualche parte tra percezione genuina, intesa come fattuale dipendenza dall’esperienza fenomenica, e allucinazione (le allucinazioni possono sembrare nei casi estremi altrettanto reali). Come si è già visto con Legible City, nelle installazioni di Jeffrey Shaw il fruitore è chiamato a partecipare attivamente al processo immersivo (e critico allo stesso tempo) utilizzando il proprio corpo, i cui movimenti generano delle risposte, ma l’ibridazione può essere ancora più traumatica in quanto esplicita, come in The Golden Calf (1994), in cui abbiamo di fronte a noi un piedestallo sul quale è appoggiato uno schermo LCD: possiamo prendere in mano lo schermo, e, muovendoci e muovendolo, guardare generata in esso quella ‘finestra’ sulla stanza che sarebbe altrimenti oscurata, con l’aggiunta di una mucca dorata scintillante e riflettente sulla cima dello stesso piedistallo. La con-fusione tra reale e virtuale è completa, la finestra raddoppia il piedistallo ed aggiunge un simulacro che ci confonde e ci mette in guardia allo stesso tempo. Allucinazioni e stati mentali alterati dall’utilizzo di sostanze stupefacenti o da disfunzioni cerebrali possono allo stesso modo essere interpretate come percezioni ibride tra reale e virtuale, sebbene situate al di fuori di forme di controllo digitale. Anch’esse, come alcuni esperimenti di realtà virtuale, portano comunque al disembodiment21, ovvero alla separazione-liberazione dal corpo, una sorta di dis-incarnazione, o di esperienza extra-corporea. Nella letteratura cyberpunk è frequente trovare descrizioni di cyber-luoghi, o condizioni, facilmente interpretabili come ‘Nirvana artificiali’. E come l’esperienza mistica (indotta o meno con l’ausilio di stupefacenti o pratiche rituali), anche la fruizione di una realtà virtuale può portare alla separazione della mente dalla fattuale percezione del corpo; ma mentre la prima avviene consapevolmente ed è auto-indotta, o per lo meno auto-guidata, la seconda si risolve in un viaggio all’interno di un paesaggio che, anche se può essere interattivo, è comunque programmato: è proprio da qui che nasce l’incubo di Matrix, il dubbio che ciò che crediamo costituire la realtà possa invece essere un ambiente sintetico complesso che stimola i nostri sensi, e attraverso essi i nostri pensieri, in una sorta di Truman show immateriale in quanto digitale. Consapevole di questo problema, la maggior parte degli artisti che lavorano con le nuove tecnologie punta proprio ad innescare una reazione nel fruitore, attivando una corrispondenza affettiva autentica – ovvero, trascendendo l’idea del corpo come macchina e lavorando su contenuti – oppure esplicitando la sua mancanza: il confine tra la virtualizzazione del corpo e l’attualizzazione del percetto sintetico può non essere però così chiaro.

19 Cfr. Anne Friedberg, The Virtual Window: From Alberti to Microsoft, cit., p.8. 20 Cfr. le opere di H.G. Wells, Stanislaw Lem, Philip K. Dick, J.G. Ballard, William Gibson e molti altri. 21 Per la trattazione di questo argomento cfr., ad es., A.Nöe, Action in perception, MIT Press, Cambridge and London, 2004

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