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www.studiozanellafisioterapia.com www.studiozanellafisioterapia.com FASCIA MANUAL TREATMENT CONCEPT Un approccio integrato al trattamento delle disfunzioni miofasciali Autore: Dott. Filippo Zanella Quando parliamo di “fascia” spesso tocchiamo un concetto che genera tutt’ora una certa confusione, in quanto tra i vari autori non è ancora presente una definizione univoca per identificare tale struttura. Le tecniche miofasciali, tuttavia, stanno riscuotendo negli ultimi anni un fortissimo successo, grazie ai numerosi e recenti studi che hanno permesso di identificare l’importante ruolo che la fascia riveste sia nella regolazione del gesto motorio, sia nell’insorgenza delle patologie di carattere muscolo-articolare. Esistono in letteratura numerosi approcci di tipo “miofasciale”, tutti di indubbia efficacia ma, in un modo o nell’altro, quasi sempre terapeuticamente incompleti, proprio a causa dell’eterogeneità funzionale del “sistema fascia” e del fatto che sia presente una forte differenziazione nelle conseguenze patologiche delle anomalie fasciali. Questi fattori richiedono spesso un tipo di approccio multimodale, che integri tecniche indirizzate sempre alla fascia, ma dalle caratteristiche esecutive completamente diverse tra loro. È importante avere la consapevolezza del fatto che dietro ciascuna tecnica di trattamento stanno sempre alle spalle anni di pratica clinica e studi scientifici svolti da parte di professionisti, pertanto è fondamentale partire dalla considerazione di base che non c’è un metodo “giusto” e uno “sbagliato”, ma che ciascuno di essi contiene in qualche modo principi efficaci e applicabili ad uno specifico ambito di condizioni cliniche e disfunzioni miofasciali. Il concept di Fascia Manual Treatment si pone come punto di incontro globale delle varie tecniche di trattamento della fascia, ottimizzando la parte terapeuticamente più efficace di vari metodi miofasciali. Vediamo in che modo. La fascia e il suo ruolo nel corpo Prima di affrontare il modo in cui la fascia può essere trattata è necessario capire cos’è esattamente la fascia e qual è il suo ruolo nel corpo. In accordo con l’Osteopatia e gli studi di Bienfait, la fascia può essere definita come una struttura di tessuto connettivo denso, costituito da fibre collagene e fibre elastiche, che si estende senza soluzione di continuità a tutte le strutture muscolo-scheletriche del corpo e le pone in connessione biomeccanica reciproca[5]. La fascia avvolge i muscoli e, diramandosi all’interno di essi con una struttura ad “albero”, separa le varie logge e costituisce la struttura portante delle singole fibre, ponendosi in continuità col sarcolemma cellulare [6,30]. Essa costituisce la vera e propria impalcatura muscolare, rappresenta lo scheletro strutturale che sostiene le fibre muscolari e alla quale queste sono ancorate, affinché la loro contrazione si traduca in movimento [21]. La fascia intramuscolare ha un ruolo fondamentale nella trasmissione e nella regolazione delle forze interne al muscolo [12,32], inoltre le fasce endomisiale, perimisiale ed epimisiale regolano la fisiologia del flusso sanguigno intramuscolare [16]. La fascia inoltre garantisce continuità meccanica ai muscoli che originano dai setti intermuscolari e mette in relazione reciproca le logge dei muscoli agonisti e antagonisti [18,19,140]. Dal punto di vista istologico, la fascia è costituita da fibre collagene e fibre elastiche, permeate di sostanza fondamentale, entro cui sono presenti cellule fibroblastiche, responsabili della produzione, dell’accrescimento e del rimodellamento del retinacolo fasciale [3,39]. Parlare di “fascia” non è però sinonimo di “tessuto connettivo”: la differenza tra la fascia e le altre strutture di connettivo del corpo è determinata dal grado di regolarità del retinacolo fasciale (organizzazione) e dalla percentuale di fibre di connettivo presenti (densità) [34]. In Figura 1 si può notare la classificazione del tessuto connettivo nel corpo in funzione della densità e della regolarità delle fibre del retinacolo.

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FASCIA MANUAL TREATMENT CONCEPT

Un approccio integrato al trattamento delle disfunzioni miofasciali

Autore: Dott. Filippo Zanella

Quando parliamo di “fascia” spesso tocchiamo un concetto che genera tutt’ora una certa confusione, in quanto tra i vari autori non è ancora presente una definizione univoca per identificare tale struttura. Le tecniche miofasciali, tuttavia, stanno riscuotendo negli ultimi anni un fortissimo successo, grazie ai numerosi e recenti studi che hanno permesso di identificare l’importante ruolo che la fascia riveste sia nella regolazione del gesto motorio, sia nell’insorgenza delle patologie di carattere muscolo-articolare.

Esistono in letteratura numerosi approcci di tipo “miofasciale”, tutti di indubbia efficacia ma, in un modo o nell’altro, quasi sempre terapeuticamente incompleti, proprio a causa dell’eterogeneità funzionale del “sistema fascia” e del fatto che sia presente una forte differenziazione nelle conseguenze patologiche delle anomalie fasciali. Questi fattori richiedono spesso un tipo di approccio multimodale, che integri tecniche indirizzate sempre alla fascia, ma dalle caratteristiche esecutive completamente diverse tra loro.

È importante avere la consapevolezza del fatto che dietro ciascuna tecnica di trattamento stanno sempre alle spalle anni di pratica clinica e studi scientifici svolti da parte di professionisti, pertanto è fondamentale partire dalla considerazione di base che non c’è un metodo “giusto” e uno “sbagliato”, ma che ciascuno di essi contiene in qualche modo principi efficaci e applicabili ad uno specifico ambito di condizioni cliniche e disfunzioni miofasciali.

Il concept di Fascia Manual Treatment si pone come punto di incontro globale delle varie tecniche di trattamento della fascia, ottimizzando la parte terapeuticamente più efficace di vari metodi miofasciali.

Vediamo in che modo.

La fascia e il suo ruolo nel corpo

Prima di affrontare il modo in cui la fascia può essere trattata è necessario capire cos’è esattamente la fascia e qual è il suo ruolo nel corpo.

In accordo con l’Osteopatia e gli studi di Bienfait, la fascia può essere definita come una struttura di tessuto connettivo denso, costituito da fibre collagene e fibre elastiche, che si estende senza soluzione di continuità a tutte le strutture muscolo-scheletriche del corpo e le pone in connessione biomeccanica reciproca[5].

La fascia avvolge i muscoli e, diramandosi all’interno di essi con una struttura ad “albero”, separa le varie logge e costituisce la struttura portante delle singole fibre, ponendosi in continuità col sarcolemma cellulare [6,30]. Essa costituisce la vera e propria impalcatura muscolare, rappresenta lo scheletro strutturale che sostiene le fibre muscolari e alla quale queste sono ancorate, affinché la loro contrazione si traduca in movimento [21]. La fascia intramuscolare ha un ruolo fondamentale nella trasmissione e nella regolazione delle forze interne al muscolo [12,32], inoltre le fasce endomisiale, perimisiale ed epimisiale regolano la fisiologia del flusso sanguigno intramuscolare [16]. La fascia inoltre garantisce continuità meccanica ai muscoli che originano dai setti intermuscolari e mette in relazione reciproca le logge dei muscoli agonisti e antagonisti [18,19,140].

Dal punto di vista istologico, la fascia è costituita da fibre collagene e fibre elastiche, permeate di sostanza fondamentale, entro cui sono presenti cellule fibroblastiche, responsabili della produzione, dell’accrescimento e del rimodellamento del retinacolo fasciale [3,39].

Parlare di “fascia” non è però sinonimo di “tessuto connettivo”: la differenza tra la fascia e le altre strutture di connettivo del corpo è determinata dal grado di regolarità del retinacolo fasciale (organizzazione) e dalla percentuale di fibre di connettivo presenti (densità) [34]. In Figura 1 si può notare la classificazione del tessuto connettivo nel corpo in funzione della densità e della regolarità delle fibre del retinacolo.

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Figura 1: Classificazione dei tessuti del corpo in funzione della densità e della regolarità del tessuto connettivo.

Uno degli aspetti più rilevanti è il fatto che la fascia metta in connessione i muscoli tra loro, ovvero che vi sia una sostanziale continuità della fascia profonda lungo le varie catene cinetiche. All’interno del corpo umano vi è infatti una continuità intermuscolare, in quanto statisticamente solo il 63% dei muscoli si inserisce a livello del periostio, mentre il restante 37% si ancora sulla fascia di altri muscoli. Questo significa che oltre un terzo dei muscoli del corpo è in continuità biomeccanica e istologica grazie alla fascia. In questo modo, la contrazione di alcuni muscoli va ad interessare quelli della stessa catena, favorendo la coordinazione motoria [40].

Quella che un tempo si pensava fosse solo una struttura di avvolgimento, si è visto pertanto avere una funzione molto più ampia. La principale e più importante funzione ai fini terapeutici e riabilitativi è quella di “scheletro attivo” del corpo. Nel corpo umano possiamo infatti distinguere uno scheletro “passivo” e uno scheletro “attivo”. Lo scheletro “passivo” è quello osseo, preposto all’assorbimento e alla trasmissione della forza gravitazionale e delle forze di carico sviluppate dai muscoli. Lo scheletro osseo può essere definito

come “passivo” in quanto il suo ruolo è quello di assorbire le forze di carico ed essere mobilizzato passivamente da queste. La fascia può essere interpretata invece come lo scheletro “attivo” del corpo. Analogamente alla componente ossea, anche la fascia è diffusa a tutto il corpo e funge da supporto strutturale per muscoli, sistemi e apparati. Tuttavia, a differenza dello scheletro “passivo”, non si limita ad assorbire e trasmettere le forze, ma è in grado di direzionarle e propagarle all’interno del corpo a seconda delle caratteristiche funzionali del movimento richiesto (Figura 2). Per questa capacità di gestione delle forze e di adattamento plastico, la fascia da alcuni autori viene anche definita come scheletro “fluido” del corpo [6,20].

Figura 2: La fascia trasmette i vettori di forza interni ed

esterni da un punto all’altro del corpo in modo coordinato.

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In conclusione, il controllo delle forze da parte della fascia avviene fondamentalmente in tre modi:

1) gestendo i vettori di forza a livello intramuscolare;

2) gestendo i vettori di forza dinamici inter-muscolarmente, lungo le catene miofasciali;

3) gestendo i vettori di forza statici e quelli provenienti dall’esterno, a livello intra- e inter-muscolare.

Patologia della fascia: Thickening, Gripping e formazione dei Trigger Point

Durante il movimento, i muscoli e le fasce si muovono a diverse velocità e in differenti direzioni, scorrendo reciprocamente gli uni sulle altre. Anche all’interno della stessa loggia muscolare, le varie porzioni del muscolo devono essere in grado di contrarsi a velocità differenti. Nella contrazione del Bicipite, ad esempio, le fibre più superficiali devono contrarsi e scorrere ad una velocità decisamente maggiore rispetto a quelle profonde, se si vuole ottenere un movimento armonioso e fisiologico (Figura 3). A livello intermuscolare, inoltre, il Bicipite Brachiale deve scorrere sulla fascia del Brachiale Anteriore.

Figura 3: Fenomeno dello Sliding: durante la flessione (es.: Bicipite

Brachiale) di solito le fibre più superficiali percorrono una lunghezza

maggiore rispetto a quelle più profonde, scorrendo reciprocamente le une

sulle altre.

Affinché questo fenomeno possa avvenire, le varie logge del muscolo devono “scivolare” liberamente le une rispetto alle altre: questo è consentito dal cosiddetto Sliding System Miofasciale. Lo sliding (scivolamento) miofasciale è garantito dall’esistenza di uno strato di connettivo lasso con alta concentrazione di Acido Ialuronico interposto tra i vari strati di fascia, che funge da piano di scorrimento [23,36]. Lo sliding system deve garantire lo scorrimento di muscoli e fasce nella stessa direzione, in direzioni opposte o in direzioni trasversali tra loro. Definiamo pertanto come sliding miofasciale la capacità di scorrimento fisiologico reciproco di muscoli e fasce a livello intra- e inter-fasciale durante il movimento. Affinché lo sliding miofasciale sia conservato, è necessario che non vi siano zone di addensamento (Thickening) o fibrotizzazione (Fibrotizing) nella fascia.

Come qualunque altro tessuto, anche il connettivo si danneggia se sottoposto a traumi, microtraumatismi e overuse. Fino a che i meccanismi riparativi del corpo sono perfettamente funzionali, le lesioni alla fascia producono un’infiammazione fisiologica che porta prima ad una distruzione del tessuto danneggiato ad opera dei macrofagi, poi ad una ricostruzione del retinacolo fibroso da parte dei fibroblasti, terminando con una restitutio ad integrum [38]. Con l’invecchiamento però, i processi riparativi diventano incompleti e il tessuto connettivo danneggiato tende ad essere riparato in modo meno strutturato. Secondo alcuni autori l’invecchiamento è costituito da un progressivo addensamento amorfo del tessuto connettivo, unito a una progressiva fibrotizzazione degli altri tessuti organici [11].

Se gli eventi traumatici o microtraumatici si ripetono nel tempo a distanza ravvicinata, impediscono il completamento del ciclo riparativo, continuando a reinnescare una situazione infiammatoria [27,45]. Questo porta i fibroblasti a continuare la loro attività di produzione, portando ad un esubero nel pannicolo cicatriziale generato.

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Riassumendo, le conseguenze biochimiche e strutturali di un danno fasciale protratto sono le seguenti[23,38]:

- il retinacolo fibroso viene ricostruito in modo più disordinato e meno strutturato rispetto al retinacolo originale;

- si verifica un esubero del processo riparativo, con formazione di ispessimenti cicatriziali;

- il tessuto di riparazione ha maggiore densità, maggiore rigidità, minore elasticità e un maggiore spessore rispetto al tessuto originale;

- il tessuto di riparazione ha una struttura retinacolare più amorfa e meno organizzata, che non riesce a trasmettere allo stesso modo del tessuto originale le forze interne;

- nelle aree di riparazione si ha un aumento della viscosità e una riduzione della capacità di sliding.

A causa della struttura più amorfa e più densa del connettivo di riparazione, la zona danneggiata tende ad “assorbire” i vettori di forza anziché “smistarli”, diventando ancor più facilmente soggetta ad ulteriori lesioni.

Si parla quindi della formazione di Aree di Thickening Miofasciale (trad. “addensamento”, “densificazione”, “accumulo”), ovvero di zone in cui la fascia ha subito un processo riparativo incompleto che ne ha modificato le proprietà fisiche e chimiche, rendendola disfunzionale.

La presenza di aree di thickening produce rilevanti alterazioni nella fisiologia e nella biomeccanica tissutale:

- riduzione dell’elasticità globale dell’area e della capacità di trasmissione delle tensioni intra- e inter-muscolari;

- riduzione della capacità di scorrimento intra- e inter-fasciale con conseguente riduzione della mobilità della zona interessata;

- riduzione dell’apporto circolatorio, a causa della diminuzione degli spazi interstiziali provocata dagli ispessimenti e dalla riduzione di mobilità;

- interessamento delle terminazioni nervose libere intrappolate dagli ispessimenti intrafasciali;

- disfunzionalità nell’attivazione muscolare, in quanto l’esubero di connettivo endomisiale può alterare lo stiramento dei fusi neuromuscolari.

Il thickening all’interno della fascia genera delle zone di ingombro meccanico e quindi di attrito, in cui lo scorrimento dei vari strati tissutali risulta fortemente limitato e lo sliding system alterato [23]. L’ipomobilità della zona così indotta genera fenomeni di Bridging interno, provocando il cosiddetto Gripping Intrafasciale, con un drastico calo della mobilità. Questo fenomeno sta alla base delle adesioni tissutali e delle retrazioni capsulari che si formano a seguito delle immobilizzazioni post-traumatiche e post-operatorie.

La formazione di un significativo gripping e la conseguente limitazione nella mobilità e nello scorrimento degli strati di fascia può innescare il circolo vizioso della fibrotizzazione tissutale (Fibrotizing Vicious Circle) e generare un Thicken Point, chiamato da altri autori anche “trigger point miofasciale” [35]. In tali aree, l’ipomobilità tissutale e la riduzione dell’apporto circolatorio comporta una progressiva sostituzione del tessuto attivo con tessuto fibrotico inerte, a cui si associa uno spasmo delle fibre muscolari. In Figura 4 è schematizzato il processo di Fibrotizing e la formazione dei Thicken Point.

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Figura 4: Fibrotizing tissutale e formazione di un Thicken Point (trigger point miofasciale): (a) Traumi e microtraumatismi generano

un danneggiamento della fascia (b) l’esubero ripartivo produce un ingombro meccanico con una fascia disfunzionale e ipomobile (c)

l’ipomobilità genera fenomeni di gripping e bridging intrafasciale e riduzione nell’apporto circolatorio (d) ne consegue una

fibrotizzazione dell’area con spasmo delle fibre muscolari e formazione di un TP.

L’ipoutilizzo della zona, unito alla diminuzione dell’apporto circolatorio e all’accumulo via via sempre maggiore di microtraumatismi, mantiene il circolo vizioso auto-alimentato che tende a strutturare la situazione di disfunzionalità.

Conseguenze cliniche

I meccanismi patologici che si innescano nel tessuto connettivo quando viene lesionato producono numerose conseguenze cliniche, che interessano non solo la fascia, ma anche i muscoli, le articolazioni, il sistema nervoso e l’apparato circolatorio.

Alcune delle più importanti conseguenze sono:

- Dolore locale, dolore riferito e alterazioni della sensibilità, a causa dell’intrappolamento delle terminazioni nervose libere a livello delle aree addensate [28].

- Dolore riferito periarticolare, anche in assenza di anomalie articolari, a causa della trasmissione non fisiologica delle tensioni miofasciali alle articolazioni [8].

- Difficoltà di movimento, a causa delle anomalie nell’attivazione dei fusi neuromuscolari e della difficoltà nella propagazione delle forze interne [29].

- Limitazioni nell’escursione articolare, aderenze e retrazioni, a causa dei fenomeni di gripping e bridging intrafasciali [4].

- Incoordinazione e alterazione della propriocettività, a causa dell’alterata fisiologia nella trasmissione dei vettori di forza interni [40,45].

- Riduzione della forza muscolare, a causa dei fenomeni di bridging miofasciale, che perturbano lo sliding system e di conseguenza ostacolano il reclutamento delle fibre muscolari più rapide [14].

- Fenomeni di calcificazione, a causa della protratta limitazione del flusso circolatorio che porta a processi fisico-chimici di deposizione [6].

- Degenerazione cartilaginea, a causa dell’alterazione meccanica indotta dallo squilibrio tensionale delle forze miofasciali rivolte alle articolazioni [2].

- Tendinopatie ed entesopatie, a causa della maggiore rigidità fasciale data dalla presenza di aree di thickening, che determina una sollecitazione anomala e traumatica di tendini ed entesi [43].

I metodi di trattamento della fascia e il Release Miofasciale

I vari metodi di trattamento della fascia differiscono molto tra loro per tipo di manualità, ambito di applicazione clinica e grado di coinvolgimento del paziente. Tuttavia, le diverse forme di terapia miofasciale sono accomunate dal raggiungimento di uno scopo terapeutico, ovvero ottenere il cosiddetto Release Miofasciale (Myofascial Release).

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Si intende per “Myofascial Release” il momento in cui la fascia, in seguito a stimolazione meccanica, chimica o termica, sia essa di tipo autogeno oppure indotta dal terapista, cambia localmente di consistenza o stato fisico, subendo una parziale deformazione strutturale di tipo plastico, a seguito della quale avviene una successiva distruzione e ricostruzione del retinacolo connettivale ad opera dei fibroblasti, secondo i principi meccanotrasduttivi [17].

Le numerose tecniche che permettono di ottenere un Release Miofasciale possono essere raggruppate in quattro macrocategorie. Tali categorie non costituiscono compartimenti stagni, ma possono integrarsi vicendevolmente, come a volte avviene nella didattica di alcune scuole, che insegnano tecniche con caratteristiche intermedie.

Gruppo 1 - Tecniche di REBUILD FASCIALE, come il Pompage, le tecniche di Myofascial Induction o le tecniche low-force osteopatiche, che prevedono un rimodellamento plastico passivo indotto dal terapista. All’interno di tale gruppo possiamo distinguere tra le tecniche di Myofascial Rebuild (come il Pompage Muscolare) mirate al trattamento della fascia profonda e intramuscolare, e le tecniche di Structural Rebuild (come il Pompage Articolare) mirate al riequilibrio della meccanica intra-articolare e al trattamento della fascia periarticolare.

Questo gruppo di tecniche, attraverso l’applicazione di tensioni passive lievi e continue prodotte dal terapista, mira a un rimodellamento “morbido” delle aree di thickening e un miglioramento dello sliding fasciale, senza innescare processi infiammatori post-trattamento [9].

Nelle tecniche di Rebuild Fasciale come il Pompage, il release avviene sotto forma di micro-releases nel corso del trattamento, apprezzabili solo da un praticante esperto.

Le tecniche di Fascial Rebuild sono estremamente potenti in fase acuta, permettono di lavorare sul respiro articolare, possono associarsi a qualunque altro trattamento e non sono dolorose. Lo svantaggio è che in condizioni di thickening miofasciale strutturato (es. Thicken Point) potrebbero non essere sufficientemente efficaci.

Gruppo 2 - Tecniche di ACTIVE REMODELLING, che prevedono un rimodellamento plastico attivo indotto in modo autogeno dal paziente stesso, come nelle tecniche di Myofascial Remodelling, quelle di Fascial Fitness di Myers [26], nella Facilitazione Neuromuscolare Propriocettiva e in alcune tecniche McKenzie di trattamento dei tessuti molli [24,25];

Le tecniche di Active Remodelling puntano a ottenere il Release Miofasciale attraverso l’esecuzione di movimenti ripetuti da parte del paziente, con lo scopo di generare un modellamento delle articolazioni, delle fasce e delle aree di thickening, un miglioramento dello sliding e una ricostruzione fisiologica delle fibre della fascia che sia funzionale al movimento. Tra i quattro gruppi di tecniche, quelle di Active Remodelling sono le uniche che richiedono una partecipazione attiva del paziente.

Il Remodelling Miofasciale sfrutta l’effetto meccanocettivo che i movimenti e le forze di carico producono su tutti i tessuti. Le strutture del corpo rispondono agli stimoli meccanici orientando la costruzione delle parti strutturali secondo le linee di forza, e questo vale tanto per le fasce quanto per i dischi intervertebrali, le articolazioni, le ossa, i muscoli.

Come nelle tecniche di Rebuild, anche nelle tecniche di Remodelling il release avviene sotto forma di micro-releases nel corso dell’esecuzione degli esercizi. Il release dato dal Remodelling è più intenso di quello del Rebuild, anche se tali tecniche non possono essere applicate in fase infiammatoria.

Le tecniche di Remodelling sono fondamentali per garantire una continuità terapeutica inter-seduta e per limitare le recidive, ma non possono essere utilizzate in fase acuta e richiedono una buona compliance da parte del paziente.

Gruppo 3 - Tecniche di RESTRAIN MIOFASCIALE, che prevedono l’induzione di un processo infiammatorio fisiologico con parziale distruzione del retinacolo fasciale attraverso lo stress termico e cinetico indotto da manualità frizionanti. Fanno parte di questo gruppo le tecniche di Fascial Restrain insegnate nel

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Fascia Manual Treatment concept, quelle di Rolfing, le tecniche di Fascial Manipulation proposte da Stecco e alcune tecniche Cyriax [10,15,31,33,37];

Le tecniche di Restrain Miofasciale originano tutte dalle manualità di frizione tissutale profonda previste nel massaggio terapeutico. Vengono applicate solitamente a livello delle aree di Thickening Miofasciale degenerate in macroaree (Thicken Point) e rappresentano un’evoluzione del trattamento di semplice pressione ischemica utilizzato nelle tecniche di digitopressione come lo Shiatsu o nelle vecchie forme di terapia dei trigger point.

Il Restrain Miofasciale, attraverso lo stress termo-cinetico indotto dalla frizione, causa uno smantellamento del retinacolo fibroso addensato e una rottura del bridging intrafasciale, ripristinando il corretto sliding system. La fase infiammatoria che segue il trattamento, che dura solitamente circa 48 ore e corrisponde ai tempi di rigenerazione dell’Acido Ialuronico [1], mira a produrre una distruzione e ricostruzione fisiologica delle fibre della fascia ad opera dei macrofagi e dei fibroblasti [38].

Nelle tecniche di Fascial Restrain, a differenza di quelle di Rebuild e Remodelling, si ottiene un macro-realease chiaramente percepibile. Le tecniche di Restrain sono le più efficaci sulle problematiche miofasciali strutturate, ma non hanno effetto diretto a livello articolare, non sono tollerate da tutti i pazienti in quanto spesso dolorose e tendono più facilmente a perdere di efficacia tra una seduta e l'altra.

Gruppo 4 - Tecniche di STRUCTURAL RESTRAIN, mirate prevalentemente alla fascia periarticolare, che prevedono un rimodellamento plastico delle fasce e delle strutture articolari attraverso tecniche di manipolazione strutturale passiva indotte dal terapista, come le tecniche high-force osteopatiche, le tecniche di Spinal Manipulation della chiropratica o alcune tecniche proprie della Terapia Manuale Ortopedica (Kaltenborn, Maitland, Maigne, ecc.) [41].

Queste tecniche vengono utilizzate solitamente in modo complementare alle altre, in quanto la parte strutturale subisce l’effetto della componente miofasciale contrattile, pertanto è richiesto prima il riequilibrio di quest’ultima se si vuole ottenere una terapia efficace.

Anche le tecniche di Structural Restrain, come le tecniche di Fascial Restrain, producono un macro-release della fascia solitamente percepibile, al quale può eventualmente seguire una fase infiammatoria.

Pur essendo tecniche efficaci e recentemente molto “di moda”, sono rivolte prettamente alle problematiche articolari centrali e hanno minore efficacia a livello periferico. La loro esecuzione può essere a volte rischiosa, pertanto richiedono un’elevata esperienza da parte del terapista [13,46]. Dei quattro gruppi di tecniche, sono quelle che maggiormente perdono inter-seduta il risultato ottenuto nel post-trattamento.

Nella pratica clinica si è visto che, per quanto possa basarsi su tecniche efficaci, qualunque metodo o concept terapeutico che insegni solo una delle tipologie dei trattamenti miofasciali visti sopra risulti comunque incompleto, in quanto l’ambito di applicabilità resta sempre inevitabilmente limitato ad una tipologia precisa di pazienti e condizioni cliniche. Si è altresì visto che una maggiore efficacia nei trattamenti viene ottenuta quando le tecniche si utilizzano in modo integrato [44], in particolare quando si associano le tecniche di Miofascial Restrain a quelle di Rebuild e Remodelling.

Proprio sulla base di questi presupposti è stato sviluppato il concept clinico noto come Fascia Manual Treatment.

Il concept terapeutico di Fascia Manual Treatment

Nell’approcciarsi al paziente, ciascun terapista utilizza uno o più metodi di valutazione e trattamento, appresi durante il proprio percorso formativo e successivamente strutturati nel corso della pratica clinica.

Partendo dal presupposto che non esiste una metodica “migliore” in assoluto, ma ciascuna deve essere contestualizzata all’ambito clinico e al settore in cui si opera, si possono però individuare una serie di caratteristiche e target terapeutici che possono rendere un approccio vincente, o comunque preferibile, rispetto agli altri.

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Nell’ambito del trattamento delle disfunzioni miofasciali, si possono individuare alcune caratteristiche principali richieste da un approccio terapeutico:

-Deve garantire un trattamento il più completo possibile, che tenga conto della multifattorialità di ogni problematica e delle differenze individuali dei pazienti. Le disfunzioni miofasciali sono generalmente multifattoriali, con fattori patogenici che interagiscono in sinergia reciproca e generano una molteplicità di diverse sindromi. Le differenze individuali dei pazienti rendono inoltre necessario l’utilizzo di metodiche che prevedano tecniche differenti. Un approccio mono-tecnica chiaramente non soddisfa questo requisito, che invece viene soddisfatto da un approccio integrato.

-Deve prevenire il più possibile le recidive e la perdita di efficacia inter-seduta. Si è visto nella pratica clinica, che le tecniche passive, specialmente quelle di Structural Restrain, tendono a perdere il risultato terapeutico. Un approccio efficace deve pertanto garantire una continuità terapeutica, specialmente quando ci sono delle abitudini posturali e di vita errate, che tendono a rigenerare il problema. Un concept vincente integra quindi le tecniche passive con quelle attive, coinvolgendo e responsabilizzando il paziente.

-Deve essere efficace in tempi rapidi. Una metodica efficace solo dopo 10 sedute, come alcune obsolete tecniche posturali purtroppo ancora in uso, è un tipo di approccio destinato a fallire, in primo luogo perché non è chiaro se i benefici derivino realmente dal trattamento o semplicemente dal tempo trascorso, in secondo luogo perché l’impegno economico richiesto al paziente rischia di diventare eccessivo. Un concept terapeutico efficace pertanto deve ottenere risultati tangibili già in prima seduta.

-Deve essere applicabile ad un ampio spettro di condizioni cliniche. La metodica adatta a tutti e tutto, come già detto, non esiste. Sul fronte opposto però, alcune metodiche, come ad esempio le tecniche Neurodinamiche [7], risultano molto efficaci perché restringono il loro ambito di applicabilità ad uno spettro limitato di tipologie cliniche e sindromi. Un concept terapeutico vincente dovrebbe invece possedere quella versatilità applicativa che lo rende ampiamente adattabile nella pratica clinica quotidiana. Questa caratteristica va di pari passo con la capacità di una metodica di essere integrabile con le altre.

-Non deve entrare in conflitto con le altre metodiche, ma anzi integrarsi con esse. Questo è forse uno degli aspetti più importanti e più trascurati dai vari concept di trattamento: ciò che davvero costituisce il salto di qualità di un metodo è la sua potenzialità di potersi integrare alle tecniche terapeutiche già note al terapista. Molti docenti anche di fama internazionale temono che “integrare” significhi minare la “purezza” del concept da loro sviluppato. Questo timore purtroppo nasce da una profonda insicurezza e sfiducia in quello che insegnano, tanto che quanto più un metodo viene promulgato come “migliore” tanto più grosse sono solitamente le lacune che stanno alla base. Esistono tecniche miofasciali e posturali molto famose che, nonostante la loro buona potenzialità, perdono di credibilità proprio per questo fatto. La qualità di una metodica non si misura in base a quanto sia “meglio” delle altre, ma in base proprio alla sua capacità di armonizzarsi con queste.

Sulla base di queste necessità, il concept clinico di Fascia Manual Treatment si sviluppa come approccio completo alle problematiche miofasciali, integrando nella didattica sia tecniche di Restrain, sia di Rebuild che di Remodelling Miofasciale, così da superare le limitazioni presenti in altre metodiche. Partendo da una valutazione funzionale e una diagnosi differenziale semplici ma ad alta capacità discriminativa, il concept poi indirizza verso una manualità di trattamento piuttosto che un'altra, fornendo anche gli strumenti idonei per associare le diverse forme di terapia miofasciale ed eventualmente integrarle alle altre tecniche manuali, posturali o strumentali già note all’operatore. Si è visto che in questo modo si riesce a trattare efficacemente e con un numero limitato di sedute la più ampia casistica clinica delle disfunzioni che presentano tra le cause una componente miofasciale.

Sintetizzando, le caratteristiche principali del Fascia Manual Treatment concept sono le seguenti:

a) costituisce un metodo di trattamento completo e multidisciplinare;

b) presenta un’ampia applicabilità alle diverse situazioni cliniche e ai diversi pazienti;

c) pur essendo un concept esaustivo, è integrabile alle altre tecniche;

d) include un sistema di valutazione funzionale e diagnosi differenziale completo, ma integrabile ad ogni altro tipo di valutazione;

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e) riduce la probabilità di recidive e la perdita di efficacia terapeutica inter-seduta, coinvolgendo attivamente il paziente con la parte di Active Remodelling;

f) risulta risolutivo in un numero limitato di sedute;

g) si basa su principi terapeutici rigorosamente evidence based.

È importante altresì notare come il Fascia Manual Treatment concept non debba assolutamente essere considerato come un approccio terapeutico “superiore” agli altri, ma bensì, se utilizzato in associazione ad altre metodiche, ne massimizza l’efficacia terapeutica.

Esempio di trattamento: torcicollo acuto

Di seguito viene presentato un trattamento esemplificativo con tecniche di Fascia Manual Treatment di un caso di Torcicollo Miogeno Acuto, estratto da un case report reale risolto in una singola seduta.

Il torcicollo miogeno è una sindrome dolorosa che colpisce il rachide cervicale e presenta una simultaneità di fattori patologici abbastanza tipica: una forte algia e una significativa limitazione nel movimento del distretto [22,42]. Il dolore al collo, solitamente lateralizzato, può essere presente a riposo oppure assente, ma tende quasi sempre a comparire o ad acuirsi in modo significativo nel momento in cui il paziente effettua il movimento. Il piano motorio più limitato è generalmente quello orizzontale, con una forte limitazione in uno dei sensi di rotazione.

Nei casi di torcicollo acuto, o blocco cervicale acuto, il paziente può essere anche impossibilitato ad oltrepassare la linea mediana con il capo, rendendo questa situazione di fatto molto simile a un blocco acuto del rachide lombare. A differenza del blocco lombare però, il torcicollo miogeno non insorge a seguito di trauma o sforzo di carico eccessivo, ma compare più frequentemente alla mattina al risveglio. Forti escursioni termiche - il classico "colpo d'aria" - o eccessivi carichi tensionali, specie in individui sottoposti a stili di vita stressanti, possono essere un fattore predisponente.

Un modo efficace per trattare il torcicollo miogeno acuto è dato da una combinazione di tecniche di Rebuild Fasciale (Pompage), di Restrain sulle aree di Thickening che si sono formate a livello della fascia del collo e di esercizi di Fascial Remodelling specifici. La presenza di aree di Thickening sul collo, pur non causando in modo deterministico la sindrome, genera comunque uno squilibrio tensivo dell'area, predisponendo di fatto a una maggiore probabilità di incidenza della sindrome.

L'approccio iniziale consigliato a questo tipo di problematica è solitamente quella di procedere con una mobilizzazione fasciale cauta dell'area con tecniche di Rebuild Fasciale, utilizzando in questo caso un Pompage Globale del Rachide. Il terapista afferra il capo del paziente a livello occipitale e, con una pressione di circa 2-3 Kg, mette in tensione la zona, "avvicinando" a sè il capo del paziente. Il terapista mette in tensione per circa 10-15 secondi, prestando attenzione a percepire un movimento di "allungamento" del rachide cervicale, mantiene la tensione altri 10-15 secondi nel momento in cui si percepisce di essere appena sotto al limite fisiologico di allungamento fasciale e poi effettua una ritorno lento alla posizione di partenza di altri 10-15 secondi. Si effettuano 15 cicli di questa manovra (Figura 5).

Figura 5: Tecniche iniziali di Fascial Rebuild consigliate per il torcicollo

miogeno: il terapista effettua una mobilizzazione delicata della fascia

cervicale con un Pompage Globale del Rachide.

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Se la condizione clinica lo permette, il terapista può trattare attraverso manovre di Restrain Miofasciale le aree di Thickening attive, solitamente corrispondenti ai gruppi muscolari rotatori. Effettuando una pressione di circa 1-2 Kg con la nocca o col dito, il terapista friziona le zone con un movimento di 2-3 cm di ampiezza, a una frequenza di 3-4 cicli al secondo. Le aree su cui si lavora sono quelle in cui si percepisce una "fibrosità" sottocutanea a livello della fascia profonda e il paziente avverte un dolore acuto (VAS >7), frequentemente irradiato. Solitamente il trattamento viene fatto in modo bilaterale opposto, si tratta cioè una Thicken Area posteriore assieme alla sua corrispondente anteriore controlaterale.

Le aree trattate in questo caso sono:

a) Quella prossimale all’inserzione claveare dello SCOM, compresa tra il margine laterale del Capo Sternale dello SCOM, la clavicola e il margine anteriore degli Scaleni, sulla fascia del Capo Claveare dello SCOM e degli Scaleni (Figura 6).

Figura 6: Area di thickening anteriore frequentemente generata dagli scompensi

tensionali di rotazione, codificata in Fascia Manual Treatment come IA‐CER.

b) Quella immediatamente a lato dei paravertebrali cervicali, tra il margine posteriore dei fasci claveari dello SCOM e il margine anteriore di Erector Spinae del collo e di Trapezio Superiore, all'altezza di C2-C4, sulla fascia dello Splenio del Capo a livello della sua inserzione sulla mastoide (Figura 7).

Figura 7: Area di thickening posteriore frequentemente generata dagli

scompensi tensionali di rotazione, codificata in Fascia Manual Treatment come

IP‐CER.

Per il primo punto di trattamento, il paziente si mette in posizione supina, ruotando un poco il capo controlateralmente al lato da trattare (Figura 8); per il secondo punto, il paziente si mette seduto, con il rachide in flessione e la fronte poggiata sul lettino o sul dorso delle mani (Figura 9).

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Figura 8: Posizione di trattamento con Restrain consigliata per il Thicken Point di IA‐CER.

Figura 9: Posizione di trattamento con Restrain consigliata per il Thicken Point di IP‐CER.

Al termine del trattamento di Restrain, si procede a un recupero della mobilità del collo. Si effettua pertanto nuovamente un Rebuild Fasciale attraverso un Pompage Cervicale in Rotazione, mobilizzando il capo nella direzione opposta a quella di blocco. Il movimento viene fatto in modo cauto, senza forzare e senza scatenare dolore (l'aumento di VAS consentito è solo di 1 punto). La manovra deve essere effettuata sempre tenendo il rachide in parziale trazione (Figura 10).

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Figura 10: Recupero funzionale con tecniche di Fascial Rebuild: si accompagna delicatamente il collo in senso opposto alla direzione

di blocco con un Pompage Cervicale in Rotazione.

Al termine della seduta con tecniche di Rebuild e Restrain, si possono insegnare al paziente gli esercizi di Fascial Remodelling utili non solo al mantenimento del risultato terapeutico acquisito, ma anche come terapia addizionale inter-seduta. Gli esercizi mirano in questo caso a ottenere un modellamento fisiologico della fascia nel post-trattamento e una correzione attiva degli squilibri tensionali (Figura 11).

Figura 11: Esercizi consigliati di Fascial Remodelling per il torcicollo: (a) il paziente porta il capo il retrazione, aggiungendo al tempo

stesso una lieve flessione, (b) successivamente torna alla posizione iniziale.

Il paziente sta in posizione seduta, preferibilmente con la schiena poggiata a uno schienale. In base a quanto consentito dalla sindrome, mette il capo in linea ed effettua un lieve movimento di retrazione del capo spingendo indietro il mento, prestando attenzione a tenerlo basso e a non estendere il collo.

La retrazione non deve essere forzata e non deve scatenare dolore. Il massimo livello consentito di aumento della VAS durante l’esecuzione dell’esercizio è di 2 punti. Nel punto di massima retrazione, il paziente sposta lo sguardo verso il basso, effettuando così un lieve movimento di flessione del capo.

Il paziente torna poi con lo sguardo orizzontale e riporta il capo in posizione di riposo. Si ripete questo ciclo per 15-20 ripetizioni, almeno 3-4 volte al giorno.

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Conclusioni

La fascia ha un ruolo di fondamentale importanza nella regolazione biomeccanica del movimento ed ha una valenza ancora maggiore nell’origine delle patologie miofasciali e articolari. Si è visto come una disfunzione della fascia può generare numerose e a volte gravi conseguenze patologiche. Alcune delle disfunzioni più frequenti, che stanno alla base della quasi totalità delle sindromi muscolo-articolari, sono il thickening miofasciale, il fibrotizing e la formazione dei trigger point.

Esistono numerosi metodi per trattare la fascia, raggruppabili in 4 grandi categorie: Le tecniche di Rebuild, quelle di Remodelling, quelle di Myofascial Restrain e quelle di Structural Restrain. Un approccio “vincente” nel trattamento delle disfunzioni della fascia deve tenere in considerazioni tutti i differenti modi di trattarla.

Il concept di Fascia Manual Treatment prende in considerazione tutte le diverse forme di trattamento miofasciale in modo completo, così da massimizzare la risposta terapeutica, ottenendo un risultato clinico soddisfacente, in tempi rapidi e con minor incidenza di recidive. La forza del FMT concept sta anche nella sua capacità di essere applicabile in integrazione agli altri metodi di trattamento già noti.

Un efficace esempio di Fascia Manual Treatment si è potuto constatare nell’approccio al trattamento del Torcicollo Miogeno Acuto: integrando i diversi trattamenti fasciali di Restrain, Rebuild e Remodelling è possibile ottenere un risultato completo già in una sola seduta.

Lungi dal pensare di aver trovato la metodica di trattamento “superiore” e soprattutto con la consapevolezza che vi sia ancora tanto da scoprire e apprendere, in un settore, come quello dei trattamenti miofasciali, ancora ricco di stimoli e sfide terapeutiche, il concept clinico di Fascia Manual Treatment cerca di inserirsi come proposta in grado di portare un piccolo contributo di chiarezza. Pur sapendo che nel FMT concept c’è ancora molto da perfezionare, forse nel mondo in continua evoluzione della ricerca fisioterapica la ricchezza di un metodo sta proprio nella sua potenzialità di sviluppo, più che nella convinzione statica di essere “arrivati” o di aver trovato la “soluzione definitiva”. In conclusione, più che pensare di essere giunti al traguardo, è più importante aver tracciato una giusta direzione di marcia.

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